Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

STORIA DELLA MODA XVIII - XXI SECOLO di Enrica Morini (RIASSUNTO LIBRO), Sintesi del corso di Costume E Moda

Riassunto libro Storia della Moda XVIII - XXI secolo di Enrica Morini

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 03/06/2019

2325_
2325_ 🇮🇹

4.8

(12)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica STORIA DELLA MODA XVIII - XXI SECOLO di Enrica Morini (RIASSUNTO LIBRO) e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! 1. IL LUSSO, LA MODA E LA BORGHESIA Il lusso Il lusso è una delle chiavi interpretative più importanti per comprendere la moda occidentale. La sua centralità non esclude che il modo di vestire sia stato utilizzato anche per comunicare altri significati che son cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali, ma l’ idea di magnificenza, ricchezza ed esclusività hanno sempre costituito una costante nelle trasformazioni della moda. Quando si parla di moda s’ intende qualcosa di diverso rispetto all’ abbigliamento, che in occidente è una conseguenza del rifiuto della nudità; se quindi l’ abbigliamento riguarda tutta la società, la moda è stata, a partire dal Medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abbigliamento per manifestare la preminenza del proprio ruolo sociale all’ interno di una comunità. Questo collegamento è proprio di tutte le civiltà, ma nel mondo antico, e in generale in quello extra europeo, questo legame è fissato da regole appartenenti alla tradizione e soggette al principio di stabilità nel tempo. Questo modello è stato messo in crisi nell’Europa occidentale fra il XIII e il XIV secolo, quando alla fissità è stata sostituita la regola della trasformazione e della modernità: da questo momento l’ abito ha rappresentato la posizione o il ruolo sociale della persona secondo regole non rigide, ma soggette all’ inventiva, al gusto ecce cc; anche in questa nuova condizione il possesso e la gestione delle ricchezze hanno continuato ad essere il vero fondamento del potere reale, ma le due cose hanno iniziato ad avere caratteristiche, modalità di formazione e delimitazioni diverse e a poter cambiare nel tempo producendo trasformazioni sociali e culturali. “Far vedere ed essere visti”. Per tutti i secoli dell’Ancien Régime questa regola rimase indiscussa anche perché la struttura gerarchica della società europea si conservò per secoli, mantenendo fissa non solo la rigorosa attribuzione dei compiti istituzionali, ma anche la suddivisione sociale delle responsabilità economiche stabilita nel Medioevo: alcuni dovevano produrre e altri consumare. Il lusso a corte era anche immagine dello Stato e della sua concezione eco precapitalistica: in una situazione in cui, da un lato, il lavoro era considerato o una condanna o un mezzo per raggiungere la salvezza e, dall’altro, l’accumulo di denaro era stigmatizzato come forma di avarizia, soltanto lo sperpero e la prodigalità potevano essere considerati virtù. Solo con Luigi XIV lo sperpero esplicitò la propria funzione sociale ed eco, ma al prezzo del superamento del modello precedente. Al di là di tutte le prese di posizione di moralisti e predicatori religiosi, le corti non potevano recedere dalla pratica del consumo vistoso; d’ altra parte, le crociate contro lo spreco e la vanità non furono mai rivolte contro i ceti di potere ma contro quei ceti che potevano permettersi di acquistare beni di lusso pur non appartenendo alla classe cui la società aveva attribuito questo privilegio. La riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura del lusso. Calvinisti e puritani posero il problema al centro delle riflessioni sulla natura dell’uomo e sulla sua salvezza: la ricchezza, segno di favore divino, non andava sprecata per il piacere o per la vanità personale, ma doveva essere gestita in nome della comunità; l’aspetto esteriore non è dunque in relazione con l’importanza sociale della persona e modestia e moderazione divennero le vere doti da comunicare attraverso l’abito. Anche nel mondo cattolico iniziarono a farsi strada richiami a valori originali o naturali che si opposero ai modelli di vita di corte. Ancora una volta l’ abito diventò segno di comunicazione, ma in questo caso parlava di una rarità morale e ideologica. Abiti borghesi All’interno di questa nuova cultura la borghesia riprese la questione del lusso che era anche un modello di consumo, un modo per far girare merci e produrre ricchezze. Su questo concetto si fondò The fable of the Bees, pubblicato da Mandeville nel 1714, che dette inizio a un dibattito che impegnò i filosofi illuministi fino ad arrivare alla specificazione dei concetti di lusso e fasto nelle voci dell’Encyclopédie: se il secondo era collegato al principio economico dello spreco, il primo era considerato un effetto della legittimata pulsione all’ emulazione sociale e poteva essere positivamente utilizzato in un’ organizzazione economica. Restava comunque la necessità di definire i confini all’ interno dei quali il lusso poteva essere accettabile e la moda diventare segno di valori positivi. Durante il Settecento crebbe il modello di consumo borghese che prese forma in un lungo lasso di tempo, anche se alcuni segni di una nuova etica dell’apparire comparvero molto presto. Il primo segno riguardava l’abbigliamento maschile, rispetto al quale l’aristocrazia inglese e l’intellettualità europea proposero un modello semplificato: il completo composto da marsina, sottomarina, camicia e calzoni restò invariato, ma anziché utilizzare tessuti preziosi, cominciarono ad essere utilizzati tessuti di lana a tinta unita o neri; anche i ricami furono sostituiti nei completi più elaborati, da galloni applicati, mentre negli altri scomparvero del tutto. Si trattava di una sobrietà programmatica, scelta da chi voleva distinguersi dallo sperpero degli aristocratici e dei cortigiani. Anche in questo caso l’ immagine corrispondeva al ruolo: nobiltà operosa e borghesia legarono il proprio status al lavoro ecc. Se questo modello vale per il maschile, ne doveva essere inventato uno analogo per il femminile. Gli scopi della vita di una borghese erano il matrimonio e la cura dei figli: una funzione privata e famigliare che eliminava la possibilità di un qualsiasi luogo pubblico. Il suo abito diventò specchio di questa virtù e si privò degli elementi teatrali della moda rococò e di tutto il rigore del costume calvinista e puritano del secolo precedente. Non più il nero, ma colori chiari, nastri e merletti; non più forme rigide, ma indumenti leggeri e comodi, che prima assunsero la foggia dell’abito delle nobili della campagna inglese e poi quella di un abito che liberava il corpo da tutte le costrizioni, in accordo con l’ illuminismo. La grande novità della medicina e della filo settecentesca, infatti, stava nell’attenzione dedicata al corpo e alla sua salute: aria, luce, pulizia e movimento furono messi per la prima volta in collegamento con la possibilità di vivere bene; questi principi produssero un abito colto che aveva tutte le caratteristiche della negazione: non era tutto quello che un abito era stato fino ad allora, forse era addirittura un’ essenza. Questa prima forma di moda borghese si sviluppò nei secoli seguenti in due modi antitetici: quella maschile di istituzionalizzò, quella femminile mutò nel tempo. L’ accostamento al potere e la sua assunzione da parte dell’uomo borghese portarono una codificazione del suo modo di vestire che corrispose alla codificazione del suo ruolo. Le caratteristiche morali e intellettuali che egli si trovò a rappresentare si trasformarono in norma immutabile, quindi anche l’abito divenne una divisa e le sole cose che potevano essere modificate erano segni marginali, delegati a comunicare sotto significati del modello principale. L’ abbigliamento femminile ebbe una storia tutta diversa. Nel mondo borghese ottocentesco le donne si qualificarono per il loro stato, non esisteva nessuno statuto cui ancorare l’ aspetto esteriore delle donne; d’ altra parte la loro vita le faceva dipendere dallo status sociale ed eco dell’ uomo al quale “appartenevano”. Non è casuale quindi che donne e case subissero nel mondo borghese lo stesso destino, diventarono cioè oggetto di spese lussuose e ostentatorie. Le professioni della moda Le mode dovevano essere considerate tali dal gruppo di riferimento cui il soggetto apparteneva. Per tutto l’ Ancien régime, la loro adozione e la loro invenzione erano state un appannaggio delle corti e delle gerarchie aristocratiche. La competenza creativa era un privilegio dei consumatori del lusso che proponevano nuove fogge, adottavano o respingevano idee, si allineavano alle mode delle altre corti, in un gioco che si articolava più nell’aggiunta di particolari nella vera e propria invenzione. La messa in crisi settecentesca e la negazione del ruolo della corte in campo culturale e l’ affermazione della centralità della borghesia rendevano inattuale la possibilità di lasciare alla sapienza aristocratica il compito di continuare a proporre una moda cortigiana separata da quella borghese. Questo, richiedeva la costituzione di luoghi nuovi che assumessero il compito della creazione, luoghi che vennero identificati seguendo un metodo culturale ed eco tipicamente borghese. Nei secoli dell’ Ancien Régime era nata una distinzione tra momento ideativo e fase di realizzazione: il primo era appannaggio del cortigiano, la seconda di artigiani che mettevano in opera l’ oggetto d’ abbigliamento. L’unica fase autonoma era quella della fabbricazione dei tessuti; d’ altra parte il tessuto era talmente costoso da costituire spesso il segno più lussuoso di un abito. Tutti gli altri artigiani che, a diverso titolo, intervenivano nella realizzazione dell’indumento erano semplicemente degli esecutori. Nel corso del XVIII secolo le corporazioni della moda allentarono le loro restrizioni di fronte a una serie di mutamenti che richiedevano un’ organizzazione diversa dalla precedente. La suddivisione tra i diversi lavori, ruoli, nell’ambito della moda ha come conseguenza quella di offrire al compratore la possibilità di non essere l’ unico responsabile dell’assemblaggio dei vari momenti per la realizzazione di un’ idea di moda, ma di essere aiutato da un professionista. Per quanto riguarda la Bertin, era irrilevante che la corte la pagasse in ritardo, poiché il suo ruolo a corte, le offriva la possibilità di far valere sul mercato della moda, una fama che nessun altra cliente sarebbe stata in grado di garantirle: dopo avere fatto la loro prima comparsa negli appartamenti della regina, le sue creazioni passavano nei saloni del Grand Mogol a disposizione di una clientela più vasta. Le leggi suntuarie avevano esaurito la loro funzione ed il mercato della moda, ne traeva beneficio, cominciando ad avere i suoi quartieri, le sue botteghe, le sue vetrine, ma anche un modo per essere creata, fruita e diffusa. La stampa di moda La diffusione delle nuove mode, avveniva utilizzando strumenti diversi, dalla poupée de mode, un manichino, alla più moderna stampa. Le incisioni, erano meno costose, venivano moltiplicate ed erano quindi in grado di raggiungere un più ampio pubblico, ma soprattutto erano un mezzo di comunicazione consono ai tempi. La prima avvisaglia di un nuovo spirito, venne da una gazzetta, “Le mercure galante”, che inserì la moda fra i suoi interessi: dal 1678cominciò a pubblicare articoli accompagnati da illustrazioni che fornivano anche gli indirizzi di alcuni fornitori: si tratta della prima forma di pubblicità moderna. Con il crescere della richiesta di moda, nel corso del secolo, aumentò anche lo spazio per l’informazione. A questa domanda, Jean Esnaut e Michel Rapilly, risposero pubblicando la”Galerie des modes”, una serie di fascicoli che uscivano regolarmente fra il 1778 ed il 1787. Gli editori, offrirono una serie di informazioni sullo sviluppo del settore: innanzitutto si parlava dei famosi artisti che si erano specializzati in questo genere ed, in seguito, venne sottolineato che si trattava di vere mode. Le immagini erano concepite in modo da informare sia sugli indumenti che sulle buone maniere; inoltre non si limitava agli indumenti della corte e della nobiltà, ma mostrava anche i borghesi e perfino alcuni mestieri in situazioni concrete. Nello stesso periodo, venne concepito anche il Monument du Costume, un vero e proprio monumento alla cultura dell’Ancien Régime, al momento della sua scomparsa. Contemporaneamente cominciò a prendere forma la prima stampa femminile, che univa alle informazioni di moda, un intento di educazione illuminista. La prima rivista femminile di moda, fu Cabinet des modes che coninuò ad uscire ogni dieci giorni dal 1785 al 1793, ad un prezzo abbastanza elevato, poiché si rivolgeva ad un pubblico composto in prevalenza da ricchi borghesi, aristocratici; la rivista si presentava con un formato maneggevole, una buona qualità di tipografia, immagini molto curate e periodicità garantita. Nel 1786, Cabinet de Modes, diventò le Magasin des modes nouvelles francaises et anglaises che chiuse La pubblicazione per poi riprendere nel 1790 con il titolo “Journal de la mode et du gout” con la direzione di Lebrun- Tosta; nel 1792, Buisson abbandonò l’impresa e la direzione continuò da sola fino al febbraio dell’anno successivo. 2. L’ APPARIRE RIVOLUZIONARIO I codici dell’abbigliamento L’ultima vera rappresentazione dell’Ancien Régime, è stato il Corteo degli Stati Generali che ebbe luogo a Versailles il 5 Maggio 1789. Il gran Maestro delle Cerimonie Brésé, aveva imposto le regole vestimentarie: il clero doveva indossare gli abiti ecclesiastici appropriati al proprio stato all’interno della chiesa, il Secondo Stato, indossava abiti che comprendevano: marsine sotto marsine di seta nera o di panno, decorati con galloni d’oro, un mantello coordinato, una cravatta di pizzo, spada e cappello con piume; il Terzo Stato, doveva indossare abiti di panno nero, calze nere, mantello coordinato di seta nera e dovevano portare una cravatta di mussola in tinta unita ed un cappello tricorno nero e non avevano diritto alla spada. La discriminazione vestimentaria, venne messa in discussione ed il Conte Mirabeau chiese di potere indossare i propri abiti; il principio contenuto in questa richiesta, era quello secondo il quale i deputati dovevano intervenire nelle decisioni relative al futuro del paese come individui, ognuno con il proprio portato intellettuale e politico e non deliberare separati per Stati. Il regolamento del Marchese Brésé venne abolito nell’Ottobre dello stesso anno. Il movimento di piazza che portò alla presa della Bastiglia, mise al centro della storia principi, protagonisti e spazi fino ad allora imprevisti e la borghesia ed il popolo parigino, scoprirono così il potere comunicativo dell’abito. La nuova Francia si presentò con i colori bianco rosso e blu che diventò, oltre che una bandiera, anche coccarda da applicare sui vestiti e sui tessuti. Uguaglianza Più complessa fu la rappresentazione del principio dell’uguaglianza, che poteva essere interpretato in modi diversi. Innanzitutto, fu contrapposto al lusso e rapidamente vennero sostituiti alcuni segni: alle fibie preziose per le scarpe, si preferirono i lacci, i tessuti di cotone o lana, presero il posto della seta ed anche le acconciature si semplificarono. La trasformazione fu più evidente nell’abbigliamento maschile: la moda borghese di gusto inglese e poi le divise dei lavoratori offrirono gli strumenti per le nuove uniformi civili. Dalle prime furono recepiti i tessuti di lana, i cappelli rotondi e l’eliminazione di decorazioni lussuose; dalle seconde, prese forma la divisa del Sanculotto che prevedeva pantaloni lunghi ed uniformi, la carmagnola degli operai, gli zoccoli dei contadini e la pipa. Nell’abbigliamento femminile, il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere, ma il denominatore comune era la semplicità: non si trattava più di un vestito da corte o da casa, ma da città, fatto per ostentare una quotidianità operosa ed impegnata; in questo senso può essere interpretata l’assunzione di alcuni segni maschili, come i capelli che vengono tagliati corti. Nei mesi del Terrore, furono indagate in profondità le implicazioni vestimentarie del principio di uguaglianza ed il dibattito giunse al risultato di mostrarne l’ineffettuabilità. Libertà Il vero principio borghese che avrebbe regolato tutta la logica vestimentaria futura, fu sancito dalla Convenzione del 29 Ottobre 1793 con la quale fu decretata la libertà di abbigliamento. In questo periodo, però, la libertà poteva voler dire molte cose: era un’idea astratta nella sua forma pura enunciata dai filosofi, era un principio assoluto dell’ideologia rivoluzionaria; in entrambi i casi, si comunicava attraverso simboli come il berretto frigio di panno rosso che, nella mitologia giacobina, era considerato il segno di tutte le occasioni in cui la tirannia era stata abbattuta. La libertà cominciò anche a voler dire mancanza di regole imposte, la stessa élite rivoluzionaria, aveva comportamenti contrastanti. Le preferenze di Robespierre, andavano verso un abbigliamento che voleva esprimere una continuità reale con la borghesia da cui egli proveniva e che rappresentava con le sue scelte politiche; ma Marat si presentava travestito da popolano e la scelta di questa immagine, servì per affermare il diritto libero da ogni condizionamento; Danton rappresentava un terzo modello di rapporto fra abbigliamento e nuova cultura: aveva un aspetto da uomo ricco, con il quale costruì la sua figura di tribuno. La moda Le merchandes si occuparono anche della nuova iconografia e la trasformarono in acconciature, abiti ed accessori che venivano regolarmente pubblicati dalle riviste per essere scelti dai lettori o dalle lettrici. Solo nel 1791, quando le convinzioni politiche di Lebrun-Tossa, cominciarono a vacillare, le Journal, iniziò a pubblicare modelli dedicati a coloro che non condividevano gli ideali rivoluzionari, ma che avevano scelto di utilizzare l’abbigliamento per comunicare le proprie idee e la propria fedeltà. 3. LA MODA NEOCLASSICA La moda del Direttorio Con la caduta di Robespierre finisce la fase della Rivoluzione. Il Direttorio iniziò con feste e balli, alcuni dei quali colpirono l’immaginario collettivo per il loro significato, si trattava dei Bals de Victimes a quali potevano partecipare solo coloro che avevano avuto congiunti ghigliottinati durante gli anni del Terrore. Questi rituali produssero segni vestimentari specifici che si trasformarono in mode femminili: capelli tagliati alla victime, scialli rossi, nastri rossi al collo, al busto ecce cc; la versione maschile si servì di segni meno precisi ma più vistosi: la jeunesse dorée, composta da giovani borghesi, cominciò ad indossare indumenti ispirati alla moda inglese, a portare capelli lunghi e sforbiciati e a maneggiare nodosi bastoni che aveva un’ ovvia funzione negli scontri, ricercatissimi e frequenti con la controparte. Ma sia la jeunesse che la compagnia giacobina erano marginali e marginalizzate nella società che si stava creando e il loro uso dei segni vestimentari era ormai legato al passato. L’ abbigliamento maschile borghese aveva solo due strade: quella della divisa militare e quella dell’abito da lavoro. La tunica femminile Dopo la caduta di Robespierre, le donne cominciarono ad indossare abiti dritti di mussolina bianca che ricordavano, da un lato, la chemise à la Reine, e dall’altro le tuniche classiche delle feste rivoluzionarie; c’ era anche una terza fonte d’ ispirazione per queste vesti: la pittura di tema storico, greco romana, di cui David era stato il massimo esponente, e il neoclassicismo, nato intorno alla scoperta di Ercolano e Pompei. Gli scavi dei due siti archeologici avevano prodotto grande interesse nei confronti di una cultura di immagini e oggetti antichi. A tutto questo si aggiunse la risposta della cultura classica da parte del pensiero settecentesco: i testi greci vennero tradotti e quelli latini ebbero nuova circolazione, ma ciò che più direttamente influenzò l’ immaginario collettivo della fine del ‘700 fu probabilmente il teatro; dal momento che iniziò a farsi strada il principio di vero-somiglianza dei personaggi e delle scene, sparirono i travestimenti che vennero sostituiti da abiti più adatti ai famosi eroi che agivano sulla scena. In questo scenario la figura femminile perfetta era quella accarezzata da un abito bianco che ricordava una tunica e avvolta in uno scialle ispirato al mantello della matrone romane. La mancanza di riviste di moda, la cui pubblicazione era stata interrotta durante gli anni del Terrore, non permette di seguire gli sviluppi del fenomeno; probabilmente si trattò di una sorta di moda da strada, che prese forma dalle proposte delle merchandes e dalla pittura all’ avanguardia. Le sue ragioni posso essere ricercate in molti altri fatti: l’illuminismo aveva lasciato in eredità una nuova concezione del corpo e dell’igiene, la tradizione borghese prevedeva una nuova vita attiva, la Rivoluzione aveva interrotto tutti i legami con le etichette di palazzo e i rituali sostituendoli con il gusto per la città e gli spazi pubblici. L’ abito femminile si adeguò a tutto questo, si ridusse a una camicia di cotone leggero con la vita alta; ai piedi calzavano dei sandali in seguito sostituiti da scarpine, coturni, con i lacci alle caviglie e adottarono una minuscola sacca chiamata réticule o ridicule per via delle sue dimensioni. Non era più prevista nessuna distinzione tra abito formale e informale e la nuova moda era caratterizzata dall’assoluta semplicità del modello e dalla sua trasparenza, due cose che mettevano in risalto il corpo della donna. Tanta uniformità però, non corrispondeva ad un principio di uguaglianza: l’ abito, per quanto semplice, poteva essere fatto di lino o mussolina indiana, poteva essere indossato nella sua totale trasparenza e con gli ultimi accessori delle botteghe, oppure essere mitigato e castigato. Ma la moda richiedeva di seguire la soluzione più lussuosa ed estrema. La mise era normalmente completata da una stola, spesso realizzata in tessuti preziosi, ricamati con bordure a motivi classicheggianti. Nel 1798 i soldati di Bonaparte portarono in Francia dall’Egitto gli scialli di cachemire, ricamate con il caratteristico motivo a palmette, che divennero oggetto di una moda incontenibile che non si fermò nemmeno quando Napoleone cercò di limitarne l’ introduzione in territori francesi; contemporaneamente, anche i gioielli iniziarono a fare la loro comparsa su tutte le parti nude del corpo femminile. Moda e società Tanta ostentazione corrispondeva alla cultura del gruppo sociale salito al potere. Come scrive Perrot, si trattava di una borghesia d’ affari molto decisa a recuperare il tempo perduto e a godere del presente vendicandosi delle privazioni passate. Questo nuovo mondo cancello il principio rivoluzionario dell’uguaglianza e proclamò, nell’ottobre del 1795, una nuova costituzione che prevedeva una repubblica basata sulla proprietà e sul censo. Le nuove signore dei salotti parigini facevano riferimento a un modello lussuoso, eccentrico ed eccessivo perfettamente coerente con il gusto dell’epoca. Per le strade, le stesse cose erano indossate dalle Merveilleuses, giovani votate alla moda come fosse un’ ideologia. Il mito dell’eleganza Una logica analoga accompagnava la teoria dell’ eleganza della quale Balzac ne parlò in termini di “ superiorità morale“. Si trattava di una teoria adatta all’ uomo che non fa nulla e che dedicava la propria intelligenza alla realizzazione estetica della vita elegante, ma anche un insieme di principi che riguardava l’ intera borghesia ottocentesca. Il problema di fondo rimaneva però la modalità per acquisire questa superiorità. Abitudine, apprendimento, educazione, ma anche istinto, gusto innato e intelligenza: erano queste le qualità che facevano la differenza fra un individuo e l’ altro, che però non erano facilmente raggiungibili alla borghesia; il rischio era che la nuova elite imitasse i nobili dell’ Ancien Régime, circondandosi di oggetti che corrispondevano a un modello di vita che non le apparteneva. L’obiettivo da raggiungere era “ un vero lusso da veri ricchi “, anche perché la nuova società non amava gli eccessi e gli sprechi ma la semplicità e la sobrietà che mostravano innanzitutto a partire dall’abbigliamento. L’abito della borghesia In questo campo la borghesia della prima metà dell’ ottocento mostrò di avere idee precise: uomo e donna si vestivano per comunicare il proprio ruolo/status. L’ uomo adottò la divisa di Lord Brummel che, in base al principio egualitario, non doveva ostentare nessuna differenza gerarchica o lusso; l’unica distinzione stava nei particolari: il nodo alla cravatta, la lucentezza delle scarpe ecc. Anche l’abito femminile assumeva una caratteristica simbolica precisa: comunicare la virtù della donna che lo indossava. La donna assunse una forma a campana con l’aiuto di sottovesti inamidate, il punto vita rimase alto fino agli anni venti per poi riacquistare una posizione normale, ma la forma e la postura rimasero le stesse grazie all’ aiuto di un busto steccato e la scollatura fu limitata agli abiti da sera; la vera novità furono le maniche che cominciarono ad arricchirsi e a gonfiarsi. Stava avvenendo un processo di occultamento del corpo femminile che giunse al culmine negli anni trenta, quando la toilette fece assumere al corpo la forma di tre triangoli (testa, torace e gonna capovolto rispetto agli altri due). La moda del revival Nella prima metà del secolo, il movimento romantico diffuse nella cultura borghese europea una moda storicista che si manifestò attraverso la letteratura, l’opera lirica, il teatro le arti figurative, l’architettura, la miniatura etc. Dal Medioevo al tardo Rinascimento, tutto era diventato un enorme bacino di storie e fonti di ispirazione per la creatività moderna e, ovviamente, anche l’abito femminile percorse lo stesso cammino. A volte, la ripresa fu diretta, a volte indiretta ed ispirata a vicende letterarie. Anche la serie di riferimenti, più o meno fedeli alla storia medioevale, rientravano in un generale gusto neogotico o trobubadour. Le ragioni di questa moda erano molteplici: era il desiderio di possedere il lusso di cui si era stati per tanto tempo privati, era la fierezza del vincitore che si decorava delle spoglie del nemico battuto, era una maniera per smitizzare il valore simbolico dei preziosi originali , era un modo per costruirsi un passato. Il revival ed il kitsch, che caratterizzavano la maggior parte dei manufatti di questo periodo, costituivano una vera e propria negazione dell’eleganza teorizzata da Lord Brummel e Balzac, ma diventarono una parte importante della cultura medio borghese. Il cattivo gusto, infatti, non era altro che uno dei tanti effetti della democrazia: la società borghese non era composta da una piccola élite che si autoriproduceva, al contrario, era un gruppo sociale allargato e composito, che ebbe il suo simbolo nella folla . L’arricchimento rapido e tumultuoso , prodotto dal sistema di produzione capitalistico, stava creando una situazione di benessere improvvisa, che non aveva dato il tempo alla media borghesia di educarsi al buon gusto di cui era depositaria l’aristocrazia. In realtà, la moda rimase a lungo esente dalle esagerazioni più vistose e limitò lo spazio della copia fedele alle numerose feste in costume, private o pubbliche che avevano tanto successo nella buona società borghese. Le sarte parigine, continuavano ad essere l’unico riferimento per la moda internazionale. Questo controllo estetico, riguardava però le prime fasi della produzione delle novità; in realtà la diffusioni agli altri strati sociali, al mercato indifferenziato rappresentato dalla folla, richiedeva strumenti e mezzi moderni ed adeguati, che furono messi a punto da nuovi professionisti. “Magasins de nouveautés” Il commercio degli articoli di moda, si era fortemente sviluppato nel periodo napoleonico: alle marchandes de modes, si erano sostituiti i più impersonali magasins de nouveautés, un termine che comprendeva tutti i settori e gli articoli riferiti all’abbigliamento ed ai suoi accessori. Questo magasins, adottarono l’abitudine di esporre la merce in modo che fosse visibile anche dall’esterno, per attrarre la clientela. Spesso collocati nei passages, si aprivano sulla strada con una porta centrale e due vetrine laterali in cui venivano disposti ad arte tessuti, cappelli ed indumenti su sostegni e manichini. Volantini e piccoli manifesti furono il primo veicolo pubblicitario diretto, senza che questo sostituisse la funzione delle riviste di moda. Dagli anni “40” la loro organizzazione divenne più razionale e moderna. Nello stesso periodo, subì una trasformazione fondamentale anche il rapporto con la clientela. Era l’inizio di un nuovo rapporto fra l’acquirente e la merce, che cominciava ad essere totalemente esposta, con un prezzo certo e non più contrattabile, visibile anche da chi non era immediatamente intenzionato all’acquisto, e perfino sostituibile. Ciascuno era libero di aggirarsi fra i banchi di vendita per vedere quanto era esposto e decidere l’acquisto anche in base a quello che gli si offriva. Ma il dato fondamentale, era quello dei prezzi, non era più un mercato di lusso con prezzi esagerati dalla varietà dei beni, ma l’esatto contrario. La produzione industriale, aveva costi nettamente più bassi di quelli artigianali. Lo sviluppo dei Magasins de nouveautés prima e dei grandi magazzini poi, ebbe nell’industria tessile la grande alleata: perché il commercio potesse espandersi, c’era bisogno di quantitativi di merce adeguati ad una richiesta allargata e di medio livello. La confezione La vera grande novità di questa fase della società borghese, fu la confezione. La borghesia era estremamente stratificata ed i ceti medi e piccoli avevano altri problemi: da un lato erano impossibilitati, per motivi economici, a servirsi degli stessi fornitori dei ceti alti, dall’altro, rifiutavano di ricorrere al mercato dell’usato che forniva gli indumenti agli strati popolari.Il problema riguardava innanzitutto gli uomini . Per rispondere alla nuova domanda, nel 1824, Pierre Parissot creò un’impresa, all’insegna della Belle Jardinière, in cui vendere indumenti maschili , confezionati in serie e nuovi, che all’inizio, erano destinati unicamente al lavoro. Il successo fu tale che in breve tempo Perissot cominciò a confezionare anche abiti borghesi di tipo corrente ed organizza un sweating system: raduna sarti o sarte, confezionisti e tagliatori in un atelier in cui vengono eseguiti il taglio e l’assemblaggio sommario dei prezzi che verranno poi affidati per la finitura, ad operai ed operaie che lavorano a domicilio. Dalla metà degli anni “40”, la confezione femminile riguardò solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo. Scialli di cachemire o di altre stoffe, mantelli da sera o di corte, etcc. furono per molto tempo il genere di abbigliamento che le dame potevano scegliere sui banchi dei magazzini più esclusivi. Il successo della nuova iniziativa commerciale, creò le condizioni affinchè cominciassero a diffondersi due nuovi tipi di professione: le confezioniste e le sarte confezioniste. Le prime, fabbricavano, su cartamodello, mantelline, mantelle, pellicce destinate ai magasins e nouveautés, mentre le seconde realizzavano, oltre ai normali indumenti su misura, anche vestaglie, camicie ed abiti per bambini preconfezionati da vendere direttamente. In questa prima fase, la produzione di indumenti pronti non riguardò l’abito intero, ma anche in questo campo ci fu una novità. Dagli anni “40” l’industria tessile cominciò a realizzare e commercializzare pezze operate o stampate à disposition, già pensate in funzione del modello finale. I produttori alsaziano di stampati, andarono oltre, inventando la robe de Paris, un taglio di quindici o diciotto metri posto in vendita in una scatola “accompagnato da una litografia che rappresentava una figura femminile vestita secondo una proposta di ripartizione della stoffa ed uno schizzo che indicava la maniera di tagliarla. La robe de Paris ebbe un successo strepitoso e diventò l’articolo di punta dei magasins de nouveautés. I grandi magazzini Nel 1848, si verificò una grande crisi economica che favorì lo scoppio di una serie di rivolte che riguardarono quasi tutta l’Europa. Immediatamente dopo questa fase tumultuosa, iniziò una ripresa che dal 1850 prese la forma di un vero e proprio boom economico di dimensioni mondiali. La marcia trionfale del capitalismo, ebbe nelle Esposizioni Universali, i suoi giganteschi riti di auto-esaltazione. I grandi magazzini furono in qualche modo, la forma stabile delle grandi esposizioni. Dagli anni “50”, cominciarono a sorgere i nuovi grandi magazzini; ma soprattutto, queste imprese cominciarono da subito ad ingrandirsi, inglobando le case intorno , fino ad arrivare ad occupare, sotto la Terza Repubblica, interi quartieri. Il successo delle imprese, però, attirò presto l’attenzione di finanziatori che investirono grandi somme in questa nuova forma di attività commerciale. La regola del grande magazzino era di ridurre il margine di profitto sui singoli articoli, per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e del capitale. Questo richiedeva una produzione in serie efficace e capace di offrire costanti novità. Per questo, fino agli anni “70”, l’oggetto principale della vendita di tali imprese commerciali , furono la moda e gli oggetti di artigianato. Ogni reparto era gestito in modo individuale, con un responsabile da cui dipendeva anche il rinnovo delle merci ed uno stuolo di commessi e commesse, il cui compito era quello di essere a disposizione della cliente, senza forzarne la volontà. Il vero obiettivo della messa in scena del grande magazzino era quello di attirare la buona signora borghese, di indurla a perdersi nella fantasmagoria delle meraviglie esposte, fino a dimenticare i propri principi etici e lasciarsi andare agli acquisti. Per raggiungere lo scopo, venne utilizzata una serie di ben calcolate tecniche scenografiche: innanzitutto la facciata, tecnologica nella struttura, per la quale venivano usati i nuovi materiali, ferro e vetro, ma fortemente allegorica nel decoro. Il vero strumento di adescamento, erano le vetrine; per questo all’ingresso, venivano disposte le occasioni, merci a prezzo basso o ribassato. Era ormai chiaro che la donna compra anche senza bisogno quando crede di concludere un affare per sé vantaggioso. Pubblicità e riviste di moda A tutto questo, si aggiungeva la pubblicità che veniva fatta utilizzando i mezzi più diversi: dalle vetture per le consegne a domicilio che recavano sulle fiancate il nome del magazzino, agli striscioni appesi alle immense facciate che annunciavano occasioni particolari, dai manifesti grandi e piccoli , fino ai mezzi più raffinati e moderni, come i cataloghi e le riviste. I cataloghi all’inizio erano privi di illustrazioni, ma con gli anni “70”, cominciarono a presentare le merci attraverso un disegno litografato. Limitata, fino alla fine degli anni “20”, a due o tre titoli, la stampa di moda passò ad una decina di testate negli anni trenta ed a più di venti, negli anni quaranta. Lo sviluppo era stato possibile dalla diminuzione dei costi degli abbonamenti , che aveva allargato il pubblico delle riviste alla media borghesia, ma anche da un interesse accresciuto nei confronti della moda. Le riviste di moda erano destinate o alle donne, od ai professionisti dei diversi settori. Se nel secondo caso conservavano un approccio tecnico, nel primo si occupavano, oltre che di moda, di problemi quotidiani, di educazione, di buone maniere. I racconti, le novelle e le sciarade che vi si trovavano regolarmente, divennero presto un appuntamento di divertimento e “buone letture”: d’altra parte non bisogna dimenticare che fra i redattori di queste riviste, lavoravano letterati di fama come Balzac e Mallarmé. L’elemento che differenziava questa stampa da tutte le altre, erano però i figurini di moda; in generale gli illustratori provenivano dal mondo della formazione artistica tradizionale. In questo settore, però, lavoravano anche molte donne, spesso provenienti da famiglie che già operavano nel campo della pittura, dotate della preparazione necessaria. L’iconografia più comunemente seguita prevedeva una figura umana, caratterizzata secondo l’ideale di bellezza in voga. Questo tipo di immagini, aveva soprattutto uno scopo: la visibilità del vestito. La confezione del vestito poteva essere sartoriale oppure casalinga, ma in entrambi i casi il figurino serviva come guida per la scelta dei materiali e dei colori, per il taglio, per l’effetto finale. Dagli anni “40”, le riviste più attente cominciarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato, così da fornire alle lettrici indicazioni non solo sull’abito, ma anche sul modo e l’occasione per indossarlo. Questo produsse un’iconografia dotata di un realismo un po’ fiabesco, dai colori tenui, dai contorni artefatti che nulla aveva in comune con il movimento estetico ed ideologico che stava innovando la pittura. Dalla struttura della Princess, derivò una nuova moda che si impose intorno al 1874: quella della corazza, un busto- corpetto, steccato e modellato, che arrivava ai fianchi e si allungava sia davanti che dietro; la sua comparsa, modificò la sopragonna, che venne aperta al centro, in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico. Dalla forma rigonfia ed opulenta, si passava ad una struttura longilinea dall’aspetto corazzato. La figura femminile, perdeva il tratto fragile e bamboleggiante e la forma del corpo veniva ostentata nella semplicità delle sue forme naturali, anche se questo non significava un’allusione alla nudità, ma, al contrario, la donna veniva corazzata turbando l’immaginario maschile che, in questo periodo, si mostrava sensibile al problema del rapporto fra i sessi: Worth si inseriva in un dibattito culturale che coinvolgeva scrittori, artisti ed intellettuali e vedeva emergere la figura della “femme fatale”. Anche in questo caso, Worth si mostrò perfetto nell’interpretare gli stimoli che si muovevano nella cultura borghese e nel tradurli in abiti che ogni signora avrebbe voluto, potuto, indossare; i suoi abiti, infatti, rispondevano alla necessità di ostentazione ed erano: ricchi, vistosi, unici (in una società in cui tutto poteva essere riprodotto, questo era un elemento di qualificazione e distinzione), erano segreti (le riproduzioni degli abiti di Worth, fino alla fine degli anni “70” sulle riviste, erano inesistenti), ed infine, erano sempre più ispirati a modelli storici. Il trionfo del revival Negli anni Ottanta, Worth concentrò la propria creatività sul gusto “storicista”, che veniva adeguato allo stile di vita contemporaneo; mentre infatti le fogge rimanevano di norma all’interno delle mode consolidate, i tessuti, i particolari e le decorazioni, si arricchivano di richiami al passato: dal 500 e dal 600, furono ripresi i colletti a lattuga e le ampie maniche; mentre il 700 rappresentò una fonte di ispirazione inesauribile con i nastri da collo, le marsine, trasformate in giacche femminili, etc. Gli anni Novanta Gli inizi degli anni Novanta segnarono una serie di cambiamenti nella Maison Worth: Jean Philippe, figlio maggiore del couturier, assunse la maggior parte dei compiti creativi e contemporaneamente, si assistette a nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni; comparvero infatti, le prime concessioni al giapponesismo, che stava influenzando da tempo, tutta la cultura artistica d’avanguardia. La figura femminile, assunse l’andamento verticale dei modelli domestici: la gonna fu alleggerita da tutti gli elementi di decoro che la tagliavano orizzontalmente e prese una forma a campana; si trattava di una soluzione moderna e più funzionale della precedente, ma il pubblico femminile non era ancora preparato a tanto rigore, per cui, la stampa si affrettò ad attribuire all’innovazione, un significato storico. Pur conservando il busto steccato ed i riferimenti storici, l’abito si alleggerì e si semplificò. La gonna a campana con lo strascico, venne accompagnata da corpetti aderenti, e sempre più spesso, comparvero gli abiti Princess; l’introduzione di una semplificazione strutturale, non impedì la proposta di nuovi revival, come la giacca Louis Quatorze, che venne utilizzata nei tailleurs da passeggio. Il ruolo del “couturier” Dal 1870 al 1871, Worth diresse da solo la sua maison. Già nella seconda metà degli anni Sessanta, aveva coinvolto i figli nell’azienda: Jean Philippe ricoprì i compiti creativi e Gaston Lucien quelli amministrativi; C.F. continuò ad esercitare un controllo diretto sulla produzione fino ai primi anni 90 ed assicurò una presenza rassicurante anche nel periodo successivo. Per arrivare a questo risultato, Worth aveva operato con impegno, consapevolezza e sapienza, non solo realizzando abiti perfetti, ma anche costruendo il personaggio del couturier che scelse di comunicare utilizzando i segni che caratterizzavano altri professionisti dell’estetica e del gusto: gli artisti. Seguendo questo modello di riferimento, trasformò il proprio aspetto professionale: Isabella Stewart Gardner, raccontò di essere stata ricevuta da Worth avvolto In una vestaglia indossata sopra ad un camicione ed un paio di pantaloni sformati; il “travestimento” era finalizzato a rafforzare l’idea dell’originalità del prodotto e di proprietà intellettuale del creatore. Con l’affermarsi di questa figura professionale, esclusivo era solo l’abito cucito all’interno della maison e corredato con l’etichetta corrispondente, e l’autenticità era la parte più importante del valore dell’oggetto.Worth scelse di non esporre le proprie creazioni sulle riviste di moda per introdurre la novità di un diverso statuto professionale del sarto: i couturiers rivendicava un ruolo da lavoratore intellettuale ed artistico, che aggiungeva alla sapienza del mestiere, la propria creatività. Le clienti della Maison Worth Il successo della maison, non dipese tanto dal fatto di essere fornitrice ufficiale di alcune case regnanti, ma dal vestire quelle nobildonne molto in vista, cui nei diversi paesi era riconosciuto il ruolo di leader nella moda e nell’eleganza. In ugual misura fu curato il mondo dello spettacolo e della mondanità: attrici, cantanti e cortigiane di successo, furono il tramite indispensabile con il grande pubblico, attraverso il loro apparire in occasioni di visibilità, o nelle cronache di giornali e riviste. Fu probabilmente per raggiungere quell’immaginario, che Worth cominciò a presentare i propri modelli sulle pagine di “L’art de la mode”, la prima testata che sceglieva di rivolgersi ad un élite pubblicando, oltre alle notizie di moda, i resoconti di eventi mondani più rilevanti. Seguendo la stessa logica, furono amministrate anche le apparizioni su “L’illustration” e sul periodico inglese “the woman’s world” diretto da Oscar Wild; l’obiettivo non era quello di propagandare i propri modelli, ma di accrescere la sua fama. Questa forma di garanzia, gli era indispensabile anche per conservare ed accrescere la clientela, soprattutto quella americana proveniente da New York e Boston. A partire da questo nucleo eletto, la moda di Worth arrivò ad un pubblico più vasto attraverso i sistemi di comunicazione e diffusione messi a punto per l’occasione. Dal 1863, il nome di Worth, cominciò ad essere citato da Harper’s Weekly, ma fu alla fine degli anni 80 che Harper’s Bazar e the Queen assunsero il ruolo che, nel decennio precedente, era stato affidato a “L’art de la mode”: vennero usati dalla maison per pubblicizzare i propri modelli. 7. ANTIMODE E ABITI D’ ARTISTA I movimenti Reform Lo stile di vita della borghesia ottocentesca trovò al proprio interno non poche voci critiche e oppositori tra i quali, artisti e intellettuali che tentarono di porre un freno a questa estetica dell’ effimero proponendo modelli culturali alternativi; anche la moda femminile era soggetta alla stessa considerazione negativa: troppo artefatta e artificiale, scomoda ed eccessivamente decorata. Alla fine degli anni quaranta Amelia Bloomer aveva fondato la rivista The Lily che dichiarava di dedicarsi agli interessi delle donne e diffondeva le idee di un movimento che s’ ispirava al principio di temperanza. Nel ’51, in linea con le proprie idee, la donna decise di adottare un abbigliamento più pratico e indossò corti gonnellini con pantaloni alla turca. La provocazione ebbe un effetto clamoroso: i giornali crearono un vero e proprio caso evitando di spiegare che gli obiettivi della Bloomer non erano quelli della semplice apparenza, ma il diritto di voto alle donne e un abbigliamento che consentisse loro di di muoversi senza problemi. Il vero problema di questa mise erano i pantaloni: l’ occidente non poteva infatti accettare che una donna indossasse un indumento maschile; in fondo, nemmeno le donne erano pronte ad affrontare questo tabù e, per porre fine allo scandalo, Amelia Bloomer dovette tornare all’ abbigliamento tradizionale. L’ idea fu ripresa anche nel 1881 dalla contessa Haberton che fondò il Rational Dress Society ma presto, Ada Baillie della National Health Society, si rese conto che, nonostante fossero passati trent’anni, l’ ora per questa rivoluzione non era ancora giunta. L’aspetto più rilevanti dei due movimenti era legare la riforma dell’ abbigliamento femminile al processo di emancipazione della donna; questo permise di far diffondere le idee dei gruppi femministi inglesi anche all’ estero, specialmente in Germania. Il dibattito coinvolgeva però anche anche i principi basilari della cultura borghese più tradizionale. Una nuova concezione dell’ igiene e le recenti indicazioni sanitarie combattevano il busto per il timore che questo pregiudicasse la gravidanza, vista dalla borghesia come l’ unico status possibile dell’ esistenza femminile: la paura che il busto potesse spezzare il legame tra donna e famiglia e dare sfogo alle pulsioni erotiche dell’ inconscio femminile, permise ai medici di essere ascoltati anche dalla cultura borghese. per raggiungere la liberazione del corpo si seguirono diversi modelli ideologici che di volta in volta tenevano conto più degli aspetti salutisti che di quelli naturali e estetici. I preraffaelliti Il filone più fecondo fu quello di matrice estetica, che interessò alla moda la produzione degli artisti. Già alla fine degli anni quaranta i preraffaelliti avevano creato abiti femminili adatti al loro tipo di pittura. Il movimento Arts and Craft, fondato da Morris aveva lo scopo di ridiscutere alla base il gusto delle artio decorative e il modello di produzione capitalistica e industriale degli oggetti. Negli anni seguenti la ricerca di un nuovo canone cui ispirarsi l’ abbigliamento femminile s’ intrecciò con la scoperta della cultura giapponese e con la moda che ne seguì che affascinò anche pittori come Whistler, che vestì le sue modelle con kimoni. L’ abito estetico uscì dalla cerchia artistica che lo aveva prodotto e divenne un segno di riconoscimento delle signore della società intellettuale che ruotava intorno agli artisti di avanguardia e cercavi modelli di vita alternativi. Il “Künstlerkleid” Il progetto di una riforma del modello culturale borghese ottocentesco nel giro di pochi decenni si diffuse in Europa e in vari paesi si formarono gruppi di artisti che perseguivano questa utopia di cui il vestito estetico, divenne un simbolo. Il progetto era finalizzato a una sorta di missione educativa di cui gli artisti s’ incaricarono: modificare la forma degli oggetti in chiave estetica significava indurre l’ abitudine a un gusto più colto e raffinato e quindi costringere la società borghese a operare un salto culturale; questa educazione avrebbe portato a una trasformazione nella forma e nella funzione di oggetti d’ uso a una messa in discussione del modo di produrli. L’ idea di Morris si diffuse nei paesi di area tedesca provocò la nascita di diversi movimenti secessionisti, per i quali l’ abito entrava nel progetto con la stessa dignità dei mobili, delle tappezzerie ecce cc. Per questo Deneken organizzò nel 1900 una mostra dedicata all’ abbigliamento d’ artista: era la prima volta che degli indumenti venivano esposti in un museo e questo sanciva il loro diritto di essere considerate opere d’ arte. Più rivoluzionari furono i risultati raggiunti a Vienna da Gustav Klimt che disegnò per sé e per la sua compagna modelli ispirati alla tradizione orientale. L’abito alla greca La ricerca di un abbigliamento estetico adeguato ad una società che voleva vivere in modo naturale ebbe una svolta anche in relazione alla moda greca. Negli anni settanta Schliemann aveva riportato alla luce Troia, Micene e Tirinto ed era inevitabile che tutto questo avesse un’ influenza sulla moda; persino Wilde sostenne che l’ unione fra l’arte greca e la medicina moderna avrebbe prodotto un insieme perfetto. La teoria fu ripresa nel 1890, quando si formò la Healthy and artistic dress union, che intendeva promuovere un modo di vestire che non fosse contrario alla saluta ma che avesse un alto valore artistico. Il vero interprete moderno dell’ abbigliamento greco fu un artista catalano chiamato Mariano Fortuny: egli, da un lato reinventò il chitone e lo tramutò in una tunica chiamata Delphos, dall’altro tributò con la sciarpa Cnoss un omaggio alla scoperta della civiltà minoica e agli scavi di Creta. I futuristi Il gruppo futurista comunicò la propria idea di arte e modernità attraverso un manifesto pubblicato su un quotidiano francese: l’ artista intellettuale sceglieva così di estendere la propria area di intervento ai luoghi di dibattito e formazione delle opinioni; i diversi manifesti che seguirono il primo riguardarono tutti i campi d’ azione della nuova ideologia che riconosceva i suoi miti nella metropoli, nella macchina e nella tecnologia che di fatto significavano una rottura con le estetiche dei revival. L’ entusiasmo per la vita metropolitana toccò anche il modo di vestire degli uomini e delle donne, in particolare quello maschile che fu messo in discussione fin dall’origine. Nel 1914 fu pubblicato “Le vêtement masculin futuriste. Manifeste”, in cui Balla prendeva le distanze dall’aspetto del costume del momento e dettava i nuovi precetti dell’ abito futurista che consisteva in una vera e propria forma estetica adeguata al mondo del futuro che coinvolgeva l’ apparire sociale e individuale della società. La collaborazione tra futurismo italiano e la produzione di moda fu pressoché assente, anche perché la ricerca di questo movimento si dedicò soprattutto all’ abito maschile in modo più teorico che concreto. L’ispirazione neoclassica Da quel momento, Poiret cominciò a lavorare intorno alla nuova linea ed ad un’idea di donna innovativa. L’ispirazione era rivolta alla moda neo-classica degli anni del Direttorio, ma il percorso creativo fu più complesso rispetto a quello di un semplice revival: il Couturier si concentrò sulla struttura di quel modello vestimentario, cercando di coglierne gli elementi fondamentali a cui agganciare la progettazione di un abito nuovo; il risultato finale fu un modello dritto a vita alta, che venne realizzato con materiali innovativi e colori e stoffe che derivavano dalle culture vestimentarie extra europee, unita ad un’attenta osservazione della cultura d’avanguardia. Il modello chiave della collezione, prese il nome di Josephine ed insieme ad esso, Poirot propose una serie di capi dalla chiara ispirazione esotica, c’erano la tunica “Cairo”, che riprendeva nei ricami, idee prese dal folclore mediterraneo, il modello “éugenie”, che accostava la linea impero ad una sfolgorante garza di cotone rossa, broccata a pois dorati ed il mantello “Ispahan”, di velluto di seta, che riprendeva il taglio degli indumenti dell’Asia centrale, etcc. etcc. Realizzata la trasformazione, Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo adatto per comunicarla. Non poteva ricorrere alla normale stampa di moda, decise quindi di agire trovando un artista adatto alle sue necessità e pubblicando le immagini delle sue creazioni, come voleva che fossero colte da pubblico. Decise di rivolgersi a Paul Iribe e, nell’ottobre del 1908, uscì “Les robe de Paul Iribe” racontées par Paul Iribe, un album con dieci tavole a colori che rappresentavano figure femminili collocate in ambienti sommariamente definiti in cui si trovavano mobili, oggetti etcc che richiamavano il periodo impero; le figure femminili rappresentate, erano alte, sottili, senza forme evidenti e con i capelli corti. L’album fu inviato a tutte le clienti di Poiret e, soprattutto a quelle dame che avrebbero potuto diventarlo, ma fu anche messo in vendita. L’immagine “Poiret” La coerenza formale, divenne il fondamento dell’immagine grafica della Maison. Il secondo elemento fondamentale della nuova immagine che Poiret stava costruendo, fu la sede in cui si trasferì nel 1909: un hotel particulier del diciottesimo secolo con un grande parco; l’interno venne ristrutturato accostando elementi in stile direttorio ed orientali in una cornice colorata. Ma se la prassi di utilizzare l’interno dell’atelier come palcoscenico era ormai consolidata, Poiret si servì anche del parco, che divenne una specie di secondo marchio della Maison. L’orientalismo Fra il 1909 ed il 1910, iniziò a Parigi la stagione dei Ballets Russes che colpirono gli spettatori occidentali, soprattutto per la rivoluzione effettuata nella presentazione dei balletti: fino a quel momento la danza classica era vestita in tutu e calzamaglia e le scene erano semplici; Benois e Bakst vestirono i danzatori con costumi mirabolanti e li fecero muovere in scene elaborate e colorate. Tutti notarono una straordinaria somiglianza fra i costumi dei nuovi balletti ed i modelli di Poiret che, da questo momento, tolse i richiami al Direttorio, sottolineando sempre di più quelli alle culture etniche orientali ed arabe. Il punto di passaggio, fu rappresentato dalla “Jupe éntravée”, una gonna lunga e dritta, che veniva serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia; sembrava la negazione di tutto quello che il sarto aveva realizzato prima del 1910, ma probabilmente, si trattava solo di un esperimento alla ricerca di una nuova linea. La donna che Poiret aveva in mente, non era più madre e moglie, ma femme fatale, circondata da un alone di mistero che la trasformava in oggetto di desiderio e di lusso. Fu all’inizio dell’anno successivo che questa immagine venne esplicitata, quando il sarto presentò la prima “jupe-culotte”. La realizzazione di pantaloni per le donne, non passò inosservata; ma la proposta di Poiret non voleva essere rivoluzionaria, al contrario, si trattava di un paio di pantaloni da Harem da portare come abito da casa. Il nuovo album, fu affidato a Lepape e fu pubblicato il 15 gennaio 1911, con il titolo “Les chose de P. Poiret “ vues par G. Lepape che, interpretò in modo perfetto lo stile di una vita che Poiret voleva proporre. La Festa della Milleduesima Notte La sperimentazione di mezzi pubblicitari, non si fermò qui. Poiret utilizzò tutti i modi possibili per far parlare i giornali, ma l’idea che più colpì la fantasia dei tempi, fu la serata in costume dal titolo “La Festa della Milleduesima Notte” che si svolse il 24 giugno 1911 nel giardino della Maison. Quella tendenza alla teatralità, che Doucet gli aveva riconosciuto fin dall’origine, era sfociata nella più folle e coerente messa in scena pubblicitaria che si potesse immaginare. Poiret avrebbe voluto essere o meglio, pensava di essere il sultano del sogno e non poteva riconoscere l’aspetto commerciale di un tale evento, non voleva presentarsi alla società come un sarto ed imprenditore, ma come un artista, un uomo di mondo; per questo ricercò l’amicizia di pittori come Derain e mescolò il proprio lavoro a quelli di artisti cui riconobbe il merito e la paternità del lavoro che gli fornivano. Tuttavia, Poiret rimase un abile amministratore dei propri risultati professionali, che sapeva inventare iniziative promozionali, come il viaggio del 1910 attraverso l’Europa per mostrare le sue collezioni a Francoforte, Berlino, Mosca, S.Pietroburgo, Vienna etc. La secessione viennese e l’Atelier Martine L’esperienza russa, ebbe un taglio professionale, anche perché Poiret ebbe come guida Lamanova, una couturière moscovita. L’Europa dell’est offrì al sarto nuove idee e soprattutto, una serie di elementi decorativi popolari che si aggiunsero a quelli esotici e trovarono collocazione nei modelli degli anni seguenti. L’incontro che lo segnò maggiormente fu, però, quello di Vienna, dove incontrò G.Klimt e, attraverso Hoffmann, la realtà e la produzione della Wiener Werkstätte. Affascinato dalla secessione viennese, si recò a Bruxelles per vedere la costruzione del Palazzo Stoclet: la suggestione fu enorme e scatenò una serie di riflessioni sul ruolo della moda; l’ipotesi che la creazione di abiti facesse parte di un più geneale movimento di gusto, era già sorta precedentemente e la nuova cultura doveva sorgere nel confronto con questa cornice in cui si cancellava la vecchia divisione gerarchica di arti maggiori e minori. Poiret sposò la nuova teoria ed agì di conseguenza: nell’aprile del 1911, aprì l’Atelier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazze, dava libero sfogo alla propria creatività. L’atelier partecipò a varie esposizioni; realizzò diversi arredamenti di case e fu sostenuto dalla Maison che lo utilizzò per diverse iniziative. Un successo maggiore ebbe la produzione dei profumi: con la collaborazione del Dr. Midy, nel 1911, fu messo a punto il primo profumo e venne fondata la ditta Rosine che ne curò la fabbricazione; allo stesso modo si aprì il laboratorio Colin che produceva le scatole e gli oggetti pubblicitari, mentre le bottiglie venivano curate da Poiret ed affidate all’atelier Martine. Alla produzione di profumi, venne associata un’intera gamma di prodotti di bellezza. Gli anni di guerra Nel 1914, scoppiò la guerra. Poiret fu mobilitato in un reggimento di fanteria, dove prestò servizio come sarto ma, nel 1915, venne destinato agli archivi del Ministero della Guerra. Nella sua qualità di Presidente del Sindacato della Difesa della moda francese, collaborò all’organizzazione della “Fete Parisienne”, promossa da Vogue, che si svolse nel 1915 al Ritz Carlton di New York e che aveva, sia lo scopo di mantenere uno stretto rapporto con il mercato americano, ma era stata progettata con l’obiettivo di sollecitare sostegni per la Francia in guerra e creare un clima di solidarietà. Poiret sfilò con abiti che si allineavano alla tendenza che stava caratterizzando quegli anni, con gonne accorciate ed ampie, sostenute da crinoline e con elementi di gusto maschile, diversi dal gusto orientale. Il dopoguerra Poiret usciva dalla guerra duramente provato, sia dal punto di vista economico che da quello umano, la febbre spagnola gli aveva infatti ucciso due figli e la tragedia aveva minato il suo matrimonio. Decise di darsi tempo e partì per un viaggio in Marocco, dove ritrovò lo stimolo creativo; tornò alla moda con il Marocco negli occhi, con il desiderio di riprendere il discorso sull’Oriente e la voglia di festeggiare la fine della guerra. Installò nel giardino una grande tenda araba in cui, tutte le sere, organizzava feste danzanti a tema e, dal 1921, coinvolse nell’impresa, tutte le vecchie glorie della Bella Epoque per creare un ponte fra passato e presente. Negli stessi anni, gli vennero richiesti sempre più spesso costumi di scena e per feste mascherate e, contemporaneamente, diminuì il suo successo presso la clientela dell’haute couture. Nel 1922, fece un viaggio negli Stati Uniti dove, gli parve esserci spazio per l’esportazione dei suoi modelli, ma nello stesso anno, era esplosa la moda alla “garçonne”. La fine del suo successo, era ormai iniziata e nel ’24 dovette affidare la Maison ad una Società di banchieri e, per partecipare all’Exposition Internationale des Arts dècoratifs et industriels modernes del 1925, fu costretto a vendere Rosine e l’atelier Martine per affrontare da solo le spese necessarie. Quello che non voleva accettare, era che l’America era arrivata a Parigi ed aveva invaso l’Europa; le donne, in particolare, non si riconoscevano più nei suoi modelli, ma volevano essere giovanili, libere ed indipendenti. Nel ’27 si consumò la rottura con l’amministrazione della Maison, che continuò la sua attività fino al 1923 con il nome, ma senza di lui. Nel ’32 il couturier riprovò a ad aprire una casa di moda, ma il tentativo fallì l’anno successivo. Fu chiamato dai grandi magazzini Primtemps per realizzare una collezione di abiti annuale, ma dopo sei mesi anche questo rapporto, terminò. 9. COCO CHANEL Gli inizi La vita privata di Gabrielle Chanel ebbe un’importanza fondamentale nel suo percorso creativo, a partire dalla sua infanzia che fu all’origine di una personalità difficile, terrorizzata dalla solitudine e perennemente impegnata in una battaglia contro il mondo. Coco nasce il 19 Agosto del 1883 da Albert, un venditore ambulante bevitore e donnaiolo, che trascinò moglie e figli in una vita miserabile e Jeanne, una donna delicata e malata d’asma che morì prematuramente a 33 anni. A questo punto si verificò l’evento che dette origine al processo di rimozione: Albert abbandonò i figli e sparì ed i nonni misero i due maschi a lavorare, ed affidarono le tre femmine ad un orfanotrofio dal quale, ormai diciottenne, Coco si trasferì a Moulins. Qui iniziò la sua vita pubblica quando venne messa a lavorare alla Maison Grampayre, un negozio di biancheria e di maglieria dove lei e la sorella, rimasero un anno per poi aprire una piccola attività in proprio; la conquista dell’autonomia, consentì loro di cominciare a frequentare la vita sociale della società e, in particolare, i giovani ufficiali che la popolavano: Coco conobbe così Etienne Balsan che, al momento del congedo, chiese a Gabrielle di trasferirsi con lui a Royallieu, dove ebbe modo di sperimentare due cose: lo sport ed il mondo delle irregolari. Con questo termine venivano definite le compagnie socialmente inadeguate di giovani ricchi aristocratici, alle quali erano riservati momenti e spazi che non dovevano incrociarsi con le famiglie di provenienza della buona società. Fu in questi anni che cominciò a lavorare ad un suo modo di concepire l’abbigliamento, in cui ebbero un peso fondamentale le uniformi: quelle dell’orfanotrofio, quelle degli ufficiali e perfino quelle delle irregolari che si servivano dei segni del lusso, dell’eccentricità e dello stile eccessivo. Chanel non si cimentò subito con gli abiti, ma partì modificando i suoi cappelli: eliminava gli elementi decorativi pesanti, riduceva le forme e li rendeva più adatti alla vita da campagna; presto suscitò interesse fra le donne di Royallieu e chiese così a Balsan di aprirle una modisteria che ottenne a Parigi, nel 1909. L’attività ebbe successo, ma Gabrielle non era una modista, così chiamò Lucienne Rabaté. Poi, con l’aiuto economico di Capel, nel 1910, affittò la prima sede in Rue Cambon e, nello stesso anno, le riviste pubblicarono i suoi cappelli indossati da attrici famose. Nel 1913, Capel e Coco, andarono a Deauville in Normandia ed intuirono che quello poteva essere un luogo in cui potere iniziare una vera attività di moda. Le signore erano le stesse di Parigi, ma le loro esigenze erano diverse: lo sport stava entrando a far parte dello stile di vita vacanziero ed anche il mare e la spiaggia esercitavano una attrazione nuova. Coco alleggerì lo stile balneare dell’epoca e riuscì a conquistare anche qui il bel mondo: ancora una volta si rivolse all’abbigliamento maschile poi, osservando la vera gente di Deauville, provò a realizzare capi in maglia coi quali si fece fotografare in giro per la cittadina. Era la sua prima esperienza da sarta ed ebbe un successo grandioso, anche grazie allo scoppio della guerra. La guerra Con l’avvento della guerra, Deauville si svuotò ma, Chanel rimase li e, quando i tedeschi iniziarono l’invasione della Francia, la cittadina divenne la meta di una fuga dalla capitale. Una volta tornata a Parigi, Chanel si rese conto che la situazione non era facile e la vita si riorganizzò intorno alle donne, che scoprirono il lavoro ed il volontariato insieme ad una serie di libertà mai sperimentate prima: iniziarono a frequentare da sole i bar degli alberghi rimasti aperti, il Ritz ad esempio, divenne il luogo di ritrovo preferito dell’alta società parigina. C’era anche un altro luogo che la società del lusso aveva scoperto, si trattava di Biarritz. Capel e Coco decisero di ripetere l’esperimento di Deauville ed aprirono una Maison di fronte al Casinò, la cui clientela comprendeva i nuovi ricchi fuggiti a Biarritz e, soprattutto, l’ élite spagnola che decretò il successo dei suoi modelli. La crisi economica, dovuta al conflitto, attribuì alla moda un forte ruolo sociale, il governo comprese, infatti, che la moda era una delle poche attività che potevano sostenere il bilancio del paese con l’esportazione ed il consumo diretto. La Seconda Guerra Mondiale e la chiusura della Maison Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Chanel chiuse la Maison, lasciando aperta solo la boutique dei profumi e lo faceva a dispetto del fatturato perché, probabilmente pur non avendolo mai dichiarato, si era resa conto che non aveva più nulla da dire nella moda. Negli anni della guerra, Chanel visse al Ritz dove, intraprese la sua ultima storia d’amore con un ufficiale nazista che la coinvolse in un’operazione di spionaggio e così, nel ‘44, dopo la liberazione di Parigi, partì per la Svizzera dove rimase in esilio per nove anni. Chanel era scomparsa, le uniche cose che resistevano, erano i tessuti ed il suo profumo che, però, nel ’53, ebbe un crollo di vendite. Il ritorno alla moda Pierre Wertheimer decide di ammodernare gli uffici di New York della Parfums Chanel e incaricò Gabrielle di occuparsi dell’ arredo. Tornata a Parigi decise di riaprire l’ atelier e Wertheimer decise di impegnarsi nell’ iniziativa e sostenne metà dei costi della collezione di riapertura, che fu di alta moda. La sfilata avvenne il 5 febbraio del ’54 e ricevette durissime critiche da parte della stampa; Chanel decise di continuare, consapevole del fatto che la fonte di guadagno primaria non era l’ alta moda ma gli accessori così nel mese di maggio la Parfums Chanel acquistò tutto, dalla couture agli immobili in Rue Cambon. La prima reazione positiva venne dagli Usa: i modelli della prima collezione piacquero molto alle donne e anche alla stampa: prima Life dedicò quattro pagine alla stilista e, infine, Vogue francese mise in copertina una foto di Marie-Hélène Arnaud con un tailleur di jersey blu, la camicia bianca e il cravattino. Il tailleur Chanel Chanel intendeva costruire una “divisa” studiata per rispondere a diverse esigenze: il movimento, l’eleganza, la duttilità. Le collezione comprendevano modelli da giorno e da sera, ma l’oggetto intorno al quale concentrò la sua ricerca fu il tailleur che perfezionò utilizzando diversi materiali, dal jersey al velluto, anche se quello che passerà alla storia storia sarà quello in tweed. Il completo era composto da tre pezzi: una giacca, una gonna o un vestito senza maniche e una blusa. Insensibile a tutte le mode che le stavano nascendo intorno, continuò per tutti gli anni sessanta a raffinare il suo stile, a cercare un’ armonia fra i pezzi che componevano la sua opera d’ arte e ogni volta ricominciava da capo, fino ad ottenere il risultato cercato. Il lavoro di Chanel era un perfezionamento continuo che non dipendeva da un progetto fatto a priori, ma dal perfetto adattamento dell’ abito alla figura cui doveva appartenere. L’abito per Chanel era un perfetto oggetto di design e come tale era espressione di uno stile di vita e di una cultura, per questo era necessario inserirlo in un contesto adatto, circondato da altri oggetti che esprimessero lo stesso significato e ne completassero la funzionalità. Nel caso di un abito, questi oggetti sono gli accessori e per questo la stilista riprese la produzione dei bijoux limitandoli però a perle e catene e riducendo i fiori alle sole camelie bianche; riprese i suoi cappelli e inventò anche nuovi capi come, nel ’55, la borsetta 2.55 e, più tardi, i sandali con la punta di colore contrastante. Questa differenziazione produttiva era anche una necessità economica: Chanel sapeva che la ricerca nel campo dell’ alta moda non avrebbe potuto continuare se non fosse stata sostenuta economicamente dalla vendita di accessori e profumi. Il rilancio del marchio era riuscito a creare un mercato internazionali che li ricercava come oggetti di moda. Lo stile di Chanel era diventato in poco tempo una valida alternativa al New Look, ed era quindi il momento di usare l’ immagine dell’ haute couture per imporre sul mercato quei prodotti che avrebbero ripagato l’ investimento iniziale e avrebbero sostenuto il costo della ricerca: il profumo, Chanel n° 5 ritornò subito di moda tanto che nel ’55 Marilyn Monroe dichiarò di indossare solo cinque gocce di Chanel per dormire. 10. MADELEINE VIONNET Il lavoro di “première” Madeleine Vionnet era stata destinata a fare la sarta in un paese della provincia francese. Era nata nel 1876 i genitori si erano separati quando avevo tre anni. A 11 anni abbandonò gli studi per andare a imparare il mestiere di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella maison Vincent a Parigi, dove diventa première due anni dopo. Dopo la morte della figlia e il divorzio abbandonò il lavoro e la capitale francese. Ricominciò da capo la sua vita a Londra, prima come guardarobiera e poi nell’atelier specializzata in capi da giorno dal rigoroso taglio all’inglese, ma soprattutto nella confezione di modelli acquistati a Parigi. Agli inizi del nuovo secolo torno a Parigi dov’era stata assunta dalla Maison Callot Sœurs come premiére di Madame Marie. Nel 1907 lasciò le sorelle Callot per diventare modellista alla Maison Doucet; il couturier le aveva chiesto di ringiovanire la sua produzione e Vionnet realizzò una collezione di abiti molto innovativi ispirati alle performance che la Duncan aveva presentato a Parigi l’anno precedente. Vionnet fu repressa nelle sue proposte sia delle clienti, sia soprattutto dalle vendeuses di Doucet. L’unico campo in cui le fu lasciato un vero spazio su quello dei deshabillé. L’atelier Nel 1912, Madeleine Vionnet aprì il suo primo atelier, sostenuta nella decisione da Lantelme. La bell’attrice aveva appena sposato l’editore Edwards, un uomo ricchissimo e disponibile ad assecondare i capricci della giovane moglie, ma Lantelme morì improvvisamente ed il suo posto nell’impresa Vionnet, venne preso da un’altra cliente: Germaine Lillaz. Fin dall’inizio, si unì al gruppo Marcelle Chaumont. Già da questo esordio, era possibile cogliere quello che fu uno dei segni fondamentali dalla novità rappresentata da Vionnet: Madeleine fu protagonista di una storia di donne, condotta al servizio delle donne, per valorizzarne la cultura, la capacità creativa e la bellezza; una storia di emancipazione concreta. Non ci sono molte testimonianze della produzione di questi primi anni, ma i due soli modelli certi, mostrano l’insistenza su un tipo di indumento diritto e scivolato sul corpo, che non richiedeva busto. L’ispirazione doveva essere stata tratta dal kimono. Vionnet era interessata alla semplicità della sua struttura sartoriale ed in particolare all’adattamento della sua manica agli indumenti occidentali; nel 1914, allo scoppio della guerra, Vionnet chiuse l’atelier e, per la seconda volta, partì viaggiando per l’Europa scegliendo luoghi non coinvolti direttamente nel conflitto e soggiornò a lungo a Roma. Lo sbieco e la geometria Nel 1918, alla fine della guerra, riprese l’attività fondando una nuova società Madeleine Vionnet & Cie, con una produzione assolutamente rivoluzionaria : si ripresentò a Parigi con abiti in sbieco ; era come se, negli anni precedenti, avesse fatto un suo percorso individuale, del tutto ignaro delle tendenze che si erano viste nella moda di quegli anni. Questo, però, non significava che fosse fuori dai tempi, al contrario, li stava affrontando da un altro punto di vista. Quando i suoi vestiti apparvero, si cominciò a parlare di “robe à la grecque”, e si collocò nel mondo classico l’origine della sua ispirazione. Probabilmente anche lei, come Chanel, aveva cominciato a ricercare un modello vestimentario su cui elaborare l’abbigliamento della donna moderna; Chanel aveva scelto il modello maschile, Vionnet voleva qualcosa che non avesse un segno di genere così preciso ed era tornata alle origini. Madeleine V. ricominciò da capo, tornando all’antico capo mediterraneo e lavorando con il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera tale che potesse seguire autonomamente le fattezze corporee. Il taglio in sbieco, prevede l’uso della stoffa in obliquo; la possibilità di usare il tessuto in diagonale, era già stata sperimentata nell’Ottocento, per confezionare colletti, cuffie e parti di maniche. Non era però mai stata provata per realizzare un vestito intero. Ma se l’aspetto esteriore dei suoi capi poteva far pensare alla classicità greca, la loro struttura derivava da matrici del tutto diverse: la chiave segreta dei suoi modelli, era la geometria. Nelle sue realizzazioni, non esisteva un rapporto tradizionale fra la vestibilità del capo ed il modo di tagliare il tessuto: se la prima era perfettamente coerente con la tridimensionalità del corpo, il secondo era costituito solo da figure geometriche piane. I suoi abiti, però, non venivano progettati “in piatto”, attraverso il disegno, ma lavorando il tessuto su un “corpo particolare”. Vionnet usava per questo un manichino di legno alto ottanta centimetri, su cui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Solo alla fine, schizzo e figurino, erano realizzati dalla disegnatrice della Maison. Era un modo di procedere apparentemente contraddittorio. In qualche modo si trattava di lavorare su un abito concepito come piatto, che solo sul corpo sarebbe diventato tridimensionale. Era un procedimento architettonico , tipico di chi ragiona in termini di volumetrie, sapendo però che ogni volume si sviluppa attraverso superfici e che il tessuto è una superficie. Le chiavi del nuovo abito, diventavano quindi due: la materia tessile ed il corpo, entrambi valorizzati nelle loro potenzialità espressive. La ricerca dell’armonia Proporzione, armonia, perfezione erano gli obiettivi finali di un lavoro che usava il tessuto come materia scultorea. Ma da dove veniva questa concezione progettuale? Veniva dall’osservazione diretta del comportamento dei tesuti usati in sbieco; ma il metodo che Vionnet elaborò, aveva fortissime connessioni con la cultura artistica degli anni dieci. Nel 1912, fu organizzata a Parigi, una mostra di pittura cubista intitolata “La Section d’Or”. Dopo la guerra, M. Vionnet, scelse collaboratori che venivano dal mondo dell’arte, come Thayaht e come Marie Louise Favot. Questo fa pensare che la couturière fosse molto interessata alle innovazioni che il decennio, appena finito, aveva apportato al linguaggio figurativo e, in particolare, alle ricerche sulla geometria e le proporzioni. Thayaht e le sue ricerche, dovettero essere importantissimi, se è vero che il suo entusiasmo per le teorie sulla simmetria dinamica di Hambidge fu all’origine degli abiti di Vionnet dei primi anni venti. Hambidge era un artista americano, convinto che le forme geometriche esistenti in natura, fossero applicabili alla creazione artistica. Le aveva catalogate utilizzando due diversi principi: la simmetria statica, rappresentata dalle figure regolari e la simmetria dinamica, ossia i rapporti proporzionali espressi da numeri irrazionali. Nel 1921, la Maison Vionnet sperimentò la struttura proporzionale della pittura greca attraverso il ricamo e provando ad usare la superficie del vestito come fosse stata quella di un vaso da dipingere. M.L. Favot (Yo), progettò un fregio con un disegno di cavalli, combinando le decorazioni di alcuni vasi greci conservati al Louvre e calcolando in modo preciso il modulo di ogni figura che si ripeteva secondo uno schema circolare. Si lavorò utilizzando perline e canutiglia scura per colorare lo sfondo ed un materiale dorato per sottolineare i contorni del disegno. Il tema divenne quasi un simbolo della Maison, tanto che Lesage vestì con lo stesso modello, una bambola di pezza con i tratti di Madeleine da offrirle in regalo. Un’altra suggestione che la ricerca artistica fornì a M.Vionnet, fu quella relativa ad una nuova rappresentazione della struttura proporzionale del corpo umano. La ricerca di una configurazione proporzionale che consentisse di rappresentare l’Uomo Universale. Anche le avanguardie degli inizi del Novecento, si sono cimentate con questo problema. Dall’esigenza di trovare un rapporto armonico fra la misura dell’uomo e quella delle cose, derivò una molteplicità di ricerche . il simbolo compiuto di questo modello di pensiero fu il Modulor, di Le Corbusier che rappresentava una gamma di dimensioni armoniche “a misura d’uomo” utilizzabili per normalizzare tutta la progettazione architettonica. Il nome Modulor deriva da module e section d’or ed indicava in modo esplicito la matrice matematica del suo sistema. Tutto convergeva in una ricerca artistica che studiava l’essenza delle forme per originare un nuovo modello di armonia e di bellezza e Vionnet doveva condividerla. Scelse, infatti, di progettare le sue opere non utilizzando strumenti da sarta, ma un manichino da artista: una forma umana le cui misure non corrispondevano a taglie reali, ma a uno schema proporzionale perfetto. Su di esso costruiva abiti che non “imitavano” le linee esteriori del corpo, ma che lo utilizzavano come sostegno di piani geometrici che, costruivano solidi perfetti e complessi. I suoi modelli cominciarono a rispettare alcune idee guida: il costante uso della diagonale, la sperimentazione di figure geometriche . L’oggetto abito era il risultato della composizione o scomposizione di queste figure, senza che comparisse più nessuno degli accorgimenti sartoriali tradizionali. La simmetria bilaterale dei modelli, richiedeva accorgimenti particolari e anche la lunghezza dei capi era soggetta alle naturali dilatazioni della stoffa lungo la diagonale di caduta. Questa deformazione, poteva essere accelerata e pilotata con strumenti meccanici. Perciò gli abiti realizzati con quadrati e rettangoli, venivano appesi al manichino fino a che non avessero raggiunto la loro massima lunghezza, su cui regolare l’orlo delle gonne. La ricerca dello sbieco e la geometria, si svolse in modo graduale. Nelle collezioni fra il 1921 e il 1922, Vionnet ricercò soprattutto gli effetti di caduta. A tutto ciò, si aggiunse lo studio di un modo che permettesse di ricamare con il filo sullo sbieco, senza creare tensioni ed effetti fisici indesiderati. Per questo, Albert Lesage iniziò a lavorare subito sull’abito finito ed inventò la tecnica vermicelle au droit fil in cui ogni punto veniva fissato nel dritto filo del tessuto e le perline erano collocate con l’aiuto di un uncinetto. fu lei stessa ad indossare la maglia in pubblico, attirando così l’attenzione sulla novità, tanto che un buyer di Lord & Taylor fifth Avenue, ne ordinò quaranta. Vogue francese, le pubblicò nel numero di agosto del ’27 ed il 15 dicembre, Vogue America, li presentò come opere d’arte. A questo punto, la fantasia di Elsa, si scatenò e sui golf, comparvero cravatte da uomo, nodi, scialli, etc. Negli anni seguenti, Elsa riempì la maglia di tatuaggi con cuori trafitti e scritte come fosse il petto di un marinaio. Dallo sport all’haute couture L’1 gennaio 1928, Elsa trasferì abitazione ed attività in un vecchio, fatiscente appartamento al 4 di Rue de la Paix dove espose l’insegna “Schiaparelli pour le sport” e cominciò a presentare collezioni di abiti sportivi, ben costruiti e progettati per i movimenti richiesti, ma colorati e decorati con immagini e scritte; soprattutto dal punto di vista della struttura, i suoi modelli presentavano delle novità: la diffusione del nuoto e delle vacanze al mare avevano trasformato il costume da bagno, che veniva realizzato con lavorazioni a maglia più elastiche ed aderenti e si era ridotto eliminando la copertura di braccia e gambe ed aprendosi sulla schiena. Anche per lo sci, cercò soluzioni più eleganti, proponendo completi colorati ed estendendo a questi sport, i pantaloni Jodhpur normalmente utilizzati nel costume da cavallerizzo. Nei primi anni “30”, la collezione si trasformò da una produzione specializzata, in una vera e propria Maison de Couture. Il problema era la relazione fra la Couturière ed il bel mondo da cui provenivano le sue clienti. Fra le frequentatrici della Maison, cominciavano ad esserci attrici di rilievo, ma questo non era sufficiente, era necessario che la proposta vivesse e venisse notata nei luoghi deputati ai riti dell’alta società e fu per questo che Elsa scelse di indossarli personalmente a party ed occasioni mondane. Per poterlo fare, però, doveva essere accettata dalla società del lusso, una condizione resa possibile dal fatto che lei proveniva dal mondo dell’aristocrazia e degli artisti internazionali, dei quali sentiva di far parte: fare un abito era in realtà un modo per intervenire nella cultura estetica di un’epoca e delle donne che lo indossavano e lo vedevano indossato; il vestito era il primo strumento di comunicazione interpersonale e doveva nascere dallo studio di chi doveva metterlo e del contesto in cui si inseriva, ma anche dalle idee che, attraverso il suo aspetto, potevano essere veicolate. La moda secondo Schiaparelli All’inizio degli anni '30, la Schiaparelli aveva messo a punto una silhouette femminile che corrispondeva allo stile ed all’idea di donna che si stava facendo strada. La sua ipotesi nasceva da un’idea femminista: non si trattava di lavorare sulla trasformazione artificiale del corpo, ma di comunicare la donna del nuovo decennio che doveva essere protetta dai contrattacchi dell’uomo, di cui stava sfidando superiorità e dominazione. Nell’elaborazione di questo modello, doveva avere avuto grande peso la storia di Elsa: la nuova donna non doveva avere l’ingenua fiducia negli uomini, che era stata all’origine di molti dei suoi problemi. Nacque così la silhouette a grattacielo, dove i vestiti venivano muniti di imbottiture che si collocavano sulle spalle, spesso ricche di decorazioni: se da un lato la loro natura sembrava sottolineare la femminilità dell’indumento, dall’altro la loro collocazione enfatizzava l’effetto di armatura, al quale contribuivano anche i rigonfiamenti delle maniche e dello scalfo. Il saccheggio dal guardaroba maschile, aveva riguardato anche Chanel con l’intento di cancellare l’immagine della donna ottocentesca; la Schiapparelli andò oltre: conquistato il confort, si trattava di connotare in modo femminista l’abito, permettendo alla donna di trasmettere la ricchezza del proprio mondo interiore. Dal 1931, si ingrandì la sede della Maison e con essa, anche lo staff che ci lavorava e che oramai, prevedeva un responsabile per ogni settore creativo ed una serie di collaborazioni. Negli anni seguenti, Schiaparelli continuò a lavorare sulla stessa silhouette, variandone l’immagine e la logica decorativa. Nel 1933, propose la linea “scatola” con cappe che scendevano diritte dalle spalle, formando angoli retti. L’anno dopo, comparve la linea “cono” e poi, la linea “uccello”; alla fine dell’anno, presentò la silhouette temporale che sviluppò nella linea “tifone”, una versione aerodinamico del vestito degli anni precedenti. Nello stesso periodo, sperimentò una grande quantità di materiali, con l’obiettivo di ottenere effetti particolari, mischiando elementi diversi od usandoli in modo mimetico. Le collezioni a tema Nel 1935, la Maison fu trasferita in Place Vendome e, raccogliendo l’eredità di Poiret, Elsa Schiaparelli iniziò a non limitarsi più alla sartoria, ma spaziò dai profumi agli accessori con l’idea di vestire da capo a piedi le clienti, ma anche di dare loro la possibilità di scegliere un solo particolare. La nuova sede rappresentò una svolta anche per la sua attività creativa. Per l’inaugurazione, fu creato un tessuto stampato a pagine di giornale, che parlavano di Schiapparelli con cui furono realizzati abiti, bluse, fodere etcc. etcc.; la vera novità, però, riguardò le collezioni che iniziarono ad essere concepite ognuna intorno ad un tema di ispirazione che faceva da filo conduttore: la collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’oriente più esotico, mentre la collezione autunnale del “35”, affrontò l’attualità (il conflitto italo-etiopico ad esempio era rappresentato da un modello da sera composto da un abito nero, ispirato alla tunica dei guerrieri etiopi ed un paio di pantaloni porpora, in omaggio all’imperatore Selassié. La novità della stagione, furono le cerniere, realizzate in colori contrastanti rispetto al vestito. In ottobre, presentò la collezione “eschimo”, basata sull’uso di inserti in pelliccia a scopo decorativo. Nel dicembre 1935, Schiaparelli andò a Mosca per rappresentare la Couture francese alla prima Fiera Internazionale Sovietica: fu un viaggio culturalmente rilevante fra le novità della Russia sovietica e le meraviglie delle collezioni imperiali che produssero due conseguenze: una caricatura di Covarrubias pubblicata su Vogue e la collezione dell’estate successiva, ispirata al motivo del “volo” e del “paracadute”, che si materializzarono nella silhouette stratosferica ed “aeroplano” ed anche nella linea “parachute”. La collezione dell’inverno “36-37”, si adeguò alla moda delle altre case parigine: abiti bianchi, scivolati sul corpo, ispirati all’abbigliamento delle statue greche. La linea neoclassique, fu creata per accontentare una certa clientela, ma la Schiaparelli interpretò a suo modo l’idea e realizzò sia abiti morbidi di raso, che modelli più vicini al suo stile; nella stessa posizione, presentò un cappello che aveva il significato di una presa di posizione a favore del fronte popolare: si trattava di una versione haute couture del berretto frigio. Il rapporto con il surrealismo Dal 1936 Elsa sentì il bisogno di chiarire a se stessa i contenuti culturali del lavoro che stava facendo sul linguaggio dell’ abito, cercando di approfondire la riflessione sul corpo e sul rapporto fra soggetto e indumento. Già negli anni precedenti aveva usato segni maschili per l’ abbigliamento della donna e aveva favorito il gusto femminile per il travestimento creando collezioni ispirate a oggetti particolari, l’ unica cosa che non aveva mai fatto era stata seguire i metodi e i contenuti tradizionali dell’ alta moda perché non le interessava creare abiti graziosi ed eleganti, ma voleva che le donne fossero se stesse, che comunicassero agli altri la propria identità e la propria forza. Le collezioni, a partire dall’autunno del ’36, si articolarono tutte su doppi filoni: da un lato Schiaparelli si concentrò sull’elaborazione di alcuni temi decorativi attorno ai quali sviluppare l’ intera collezione, dall’altro Cocteau e Dalì crearono singoli capi attraverso i quali doveva emergere un nuovo rapporto tra abito, corpo e pulsione. Dall’inverno ’36-37 Dalì rielaborò il tema del richiamo sessuale nascosto nella fascinazione vestimentaria. Innanzitutto tradusse in tessuto la dissacrazione della classica bellezza femminile della Venere di Milo. Nell’ estate del ’37 la figura dell’ aragosta fu dipinta sulla gonna di un abito circondata da prezzemolo: il modello fu subito acquistato dal personaggio dell’ anno, Wallis Simpson; l’ esperimento era però riuscito solo in parte, infatti, guardando l’ indumento, si ha l’impressione di una decorazione singolare ma non del mostro erotico. Verso la fine del ’37 la ricerca dell’ artista catalano sembrò fissarsi sul feticcio sessuale: nella collezione invernale venne presentato un tailleur di crepe nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso. Il tema della scarpa come feticcio è uno dei più noti della cultura psicanalitica e sado in cui soggetto e scarpa devono essere di sesso diverso. Mettendo insieme una serie di ambiguità diverse, si arrivò a costruire una perfetta iconografia fallica completata dal simbolo femminile delle bocche; la conclusione a cui arriva Dalì, era che il corpo femminile è un insieme di simboli di significato erotico che possono essere smontati ed isolati per trasformarsi in feticci. La struttura anatomica della donna, non era altro che un busto da sarta da vestire per comunicare ed adattare all’ideale di bellezza: la persona stava quindi solo nei vestiti. Sempre nel ’37, la Schiaparelli comunicò in due diverse occasioni, questa “scoperta”: prima all’Exposition des Arts et des techniques, inaugurata il 24 maggio a Parigi, per la quale realizzò un allestimento in cui il manichino che le era stato assegnato, fu adagiato nudo su di un prato ed i suoi abiti, furono appesi ad un filo; in secondo luogo, il nuovo profumo che chiamò “Shocking”, venne commercializzato in una boccetta che aveva la forma del busto di Mae West ed il tappo, coperto di fiori, il marchio era scritto su di un metro da sarta che passava attorno al collo del flacone. La moda, l’inconscio, l’immaginazione poetica Per la Schiaparelli, la donna era un insieme complesso, composta da una forma anatomica e da uno stato sociale, ma anche da un mondo interiore. Se la prima era un dato materiale e naturale, il nuovo ruolo delle donne degli anni “30”, doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionale e stabile; mentre il mondo interiore, andava ricercato secondo le regole della libera associazione. A questo punto, gli abiti realizzati da Dalì, dovettero sembrarle troppo finalizzati a comunicare un significato erotico sessuale. D’altra parte, era innegabile che il linguaggio tradizionale della moda femminile fosse stato elaborato per esprimere un contenuto erotico seduttivo ed uno sociale, si trattava quindi di ricorrere ad altri universi linguistici, adottare altri modelli iconografici per esprimere altri significati ed altre pulsioni della psiche. L’obiettivo era di liberare l’immaginazione poetica: solo attraverso questa rottura dei vincoli tradizionali, sarebbe stato possibile ritrovare la forza interiore del soggetto. Questo metodo riuscì a creare un linguaggio vestimentario, capace di comunicare la dimensione interiore della donna ma, anziché seguire l’automatismo psichico, scelse il metodo della liberazione dell’immaginazione su temi che affondavano nella sua infanzia; quello che la stimolava realmente, era considerare il corpo e la forma dell’indumento, come una pagina bianca su cui scrivere. Il problema poteva sorgere nel momento in cui le immagini da scrivere sul foglio bianco dovevano essere accostate alla realtà degli abiti e qui, le venne in aiuto il ready-made. La prima collezione che seguì questo criterio, fu quella della primavera del “38”, dedicata al circo. L’intera Maison, fu coinvolta: sulla facciata di Place Vendome, vennero appoggiate scale che vennero usate da acrobati per entrare ed uscire dalle finestre e dalle vetrine, all’interno, attori e pagliacci sbucavano all’improvviso. La sfilata venne organizzata come una parata. I vestiti erano sempre i soliti, ma la novità stava nella decorazione: si trattava di ricami che rappresentavano il circo così come i tessuti; i bottoni erano accoppiati alle decorazioni ed erano piccoli gioielli a forma di ginnasti, cavalli, etcc. Al tema del circo, si adeguarono anche i cappelli ed i gioielli. Anche in questa collezione, Dalì disegnò due modelli da sera: uno bianco con il velo, che mostrava vistosi strappi da cui traspariva un fondo rosso ed il secondo, nero, percorso dal disegno dello scheletro umano. Nell’aprile del ’38, Schiaparelli rappresentò la collezione per l’estate intitolata Pain, in cui esplorò il mito della natura. In agosto, presentò la collezione “cosmique” per l’inverno ’38/’39, in cui, al contrario della precedente, riemergeva la natura alta, quella celeste. La prima sfilata del ’39, ebbe come tema la maschera, l’oggetto della commedia dell’arte. Anche in questo caso, Elsa creò un grande spettacolo popolare, ma lo complicò con piccole maschere in merletto sui visi delle modelle. Non è da escludere che questo tema fosse stato scelto come metafora della sensazione psicologica che la gente comune aveva di fronte alla situazione politica di quel periodo: quella di muoversi secondo un canovaccio già scritto in cui si potevano fare poche divagazioni e senza possibilità di sottrarsi al finale prestabilito, cioè la guerra. La guerra La collezione dedicata alla Commedia dell’Arte, fu l’ultima in cui si espresse il desiderio di Schiapparelli di studiare il profondo significato dell’animo femminile. L’Austria era stata annessa alla Germania, la Cecoslovacchia era stata abbandonata in mano ai nazisti, le trattative fra Hitler e Stalin, mettevano in serio pericolo la Polonia. Le potenze europee stentavano ad assumere una posizione chiara e definitiva. Per le celebrazioni del cinquantesimo anniversario della costruzione della Tour Eiffel, fu incaricata di creare gli abiti per una quadriglia. Fu lo stimolo per proporre una collezione “revival”, recuperando con molta ironia, “la tournure”, attraverso il rigonfiamento artificiale della parte posteriore dell’abito. Infine, in quella per l’autunno, riprese un tema che aveva già affrontato: quello della musica. Era evidente che il mondo si trovava alla vigilia del conflitto e Schiaparelli decise di allestire la vetrina della boutique, in Il thèatre rimase una grande operazione di promozione e non fu attraverso le sue bambole che si diffusero le novità; nonostante questo fu importante come segno che i tempi stavano cambiando, che la guerra era ormai al termine e che sarebbero finiti i suoi effetti sulla vita quotidiana. Dior e Boussac Dior e Balmain si misero in società per fondare un atelier ma l’ iniziativa abortì sul nascere per l’ indisponibilità della sede che avevano scelto. Balmain non si lasciò scoraggiare e iniziò da solo aprendo una maison, Dior rimase da Lelong in attesa di un’ occasione migliore. L’ occasione si presentò presto, quando un’ amica seppe che Vigoroux stava cercando di rilanciare la maison Gaston et Philippe finanziata da Boussac, il più importante cotoniero di Francia, ma mancava di un modellista. L’ assunzione di Dior fu gestita da Henri Fayol, il Direttore Generale delle imprese di Boussac, che si rese conto che le capacità di Dior potevano essere usate per tentare qualcosa più in sintonia con un immaginario collettivo che continuava ad attribuire l’invenzione delle nuove mode alle mani del couturier. Su questa base fu organizzato l’incontro fra Boussac e Dior, che espose il proprio progetto: creare una Maison innovativa nel gusto e nell’aspetto, una Maison piccola ed élitaria, ma in cui lavorare secondo le tradizioni dell’artigianato di qualità. Il contratto che venne stilato, portò alla creazione di una nuova griffe: Boussac impegnò sei milioni i franchi ed un credito illimitato, Dior ebbe uno stipendio di un terzo dei guadagni e l’incarico di Direttore della Sarl C.Dior. Il coturier cominciò a dare forma al proprio progetto ed innanzitutto costituendo la squadra con cui lavorare e poi ricercando la sede adatta per la Maison. La prima collaboratrice fu Suzanne Luling cui fu affidata la Direzione dei Saloni e delle vendite; accanto a lei, Harrison Elliot, come responsabile dell’ufficio stampa. Lo staff operativo venne formato da Zehna Cker Direttore dello Studio, Marguerite Carrè, Direttirce tecnica e Bricard, una specie di musa creatrice. L’équipere fu completata da un Direttore Amministrativo, Rouet, incaricato di seguire tutte le questioni finanziarie. Per quanto riguarda la sede, si iniziò a cercare una collocazione all’interno del perimetro del commercio del lusso, ma anche vicina ad un albergo adatto alla clientela a cui si stava pensando: la sede adatta, fu identificata in un hotel particulier in Avenue Montaigne. La Maison Dior La ristrutturazione fu affidata a Grandpierre ed iniziò nel dicembre del 1946. Contemporaneamente, Dior lavorava alla sua collezione e procedeva nell’attività di promozione in cui vennero coinvolte amiche e conoscenti: tutta la Parigi che contava, parlava del nuovo astro nascente e gli amici che lo stilista aveva accumulato negli anni, facevano da cassa di risonanza; anche le giornaliste delle grandi testate come Vogue, contribuirono a creare il clima di attesa; la la straordinarietà dell’impresa, aveva colpito soprattutto la fantasia degli imprenditori che offrirono il loro contributo. Il primo, fu Heftler-Louiche, che propose di costruire insieme una società per i profumi; una volta ottenuto l’assenso di Boussac, si cominciò a lavorare intorno al profumo che venne chiamato “MISS DIOR” e l’anno successivo, venne formalizzata la Sarl dei Parfums Christian Dior. Fu poi la volta di un industriale americano, che propose a Dior di utilizzare nelle collezioni le sue calze in cambio di cinquemila dollari e di pubblicità. Si presentò anche un produttore di seta cinese che vendeva Chantung: un arrivo prezioso in una situazione in cui l’industria tessile era ancora sotto gli effetti della guerra. La restaurazione del lusso: il New Look Infine, arrivò il 12 Febbraio 1947 l’ultimo giorno delle sfilate della primavera, il bel mondo c’era tutto, così come le giornaliste che contavano, mancavano però molti compratori americani che non avevano aspettato l’ultimo giorno delle sfilate. La prima uscita fu il modello “Acacia”, con il busto aderente e la gonna stretta fino a metà polpaccio, poi comparvero i modelli con le gonne larghe: la silhouette “corolle”, rappresentava la vera novità della collezione . la proposta aveva delle caratteristiche revival e si ispirava al modello ottocentesco reso più aggraziato attraverso il richiamo di gusto al “700”; dalla rielaborazione di questi due temi, veniva l’idea di rimodellare il corpo con l’aiuto del corsetto. Al busto piccolo, faceva riscontro una gonna ampia, lunga fino al polpaccio. Le spettatrici della sfilata, furono colpite dalla novità e, dato che i giornali francesi erano in sciopero, furono quelli stranieri e soprattutto quelli americani, a diffondere la notizia. Di fronte a questo successo, i buyer americani tornarono a Parigi ad acquistare i modelli Dior per i magazzini statunitensi. Il simbolo della collezione e del nuovo stile chiamato New Look, fu però il tailleur Bar, composto da una piccola giacca di chantung crema e l’ampia gonna di lana nera a pieghe. La seconda collezione per l’autunno-inverno, confermò la linea New Look, accentuandone, però, le caratteristiche, aumentando quindi la lunghezza e l’ampiezza delle gonne. Si trattava di un lusso scandaloso in un momento in cui molte cose continuavano ad essere razionate. L’obiettivo di Dior non era tanto la clientela europea, quanto quella americana e gli USA stavano attraversando un periodo di grande sicurezza economica e modernizzazione spinta. E mentre l’Europa si americanizzava, l’America guardava all’Europa ed in particolare a Parigi, che tornava ad essere il punto di riferimento per intellettuali ed artisti. L’America voleva una moda che comunicasse i suoi valori piccolo-borghesi, la sua ricchezza e il senso della famiglia e della comunità; Dior le offrì l’immagine di una donna Fiore e rappresentò il tutto in maniera semplice e diretta, scegliendo il lusso fatto di quantità e lavorazioni preziose, e i segni più convenzionali dell’abito da principessa. Nelle stagioni successive, il riferimento storico divenne ancora più esplicito: le linee delle collezioni presentate fra il 1948-1949, erano definite con termini grafici o dinamici che evidenziavano da un lato, l’ispirazione che Dior aveva seguito e, dall’altro, l’effetto che il vestito sviluppava attraverso il movimento. La collezione “ Milieu de siècle” per l’autunno-Inverno 1949-1950, rappresentò l’apoteosi del modello Dior: non più una sola linea, ma un’infinita variazione su tutti i temi. La donna Dior Gli abiti di Dior potevano servire solo al bel mondo, che aveva ripreso a pieno ritmo i riti anteguerra. Dior vestì questo mondo e perfino l’Inghilterra venne a patti con lui, attraverso la principessa Margarethe che gli commissionò un abito per la festa dei suoi ventuno anni; d’altra parte, le stesse caratteristiche costruttive dei suoi capi, erano pensate per comunicare l’idea di uno stile di vita lussuoso ed èlitario. L’America Ma questo mondo era solo un’isola felice, non rappresentava il vero mercato della moda e Dior lo scoprì nel 1947, quando si recò negli USA a ritirare il Neiman Marcus Award. Negli Stati Uniti, però, si era formato un club contrario al New Look e l’arrivo dello stilista, fu l’occasione per organizzare manifestazioni con cartelli e picchetti. Chi aveva organizzato il viaggio, però, aveva le idee molto chiare e perseguiva uno scopo preciso, che nasceva dall’imminente abolizione della Legge L85, che durante la guerra aveva regolato la produzione vestimentaria degli USA; era quindi indispensabile che il progetto commerciale fosse sostenuto dal sistema della comunicazione, in modo che Dior diventasse un caso ancor prima che i suoi vestiti comparissero nelle vetrine. Il mercato della moda L’America rappresentava per la moda un mercato straordinario, ma quello che Dior affrontò nel 1947, era molto differente da quello degli anni “30” con cui aveva avuto stretti rapporti: dagli anni “40”, gli USA si erano dedicati ad organizzare il sistema produttivo interno ed alla creazione di una moda americana ben organizzata. Nel 1945, però, i fili interrotti con la moda francese, cominciarono a riannodarsi. Apparentemente il pubblico statunitense era meno esigente di quello europeo: l’abitudine di indossare il ready-wear, aveva sollecitato il desiderio di cambiare, piuttosto che avere un vestito perfetto o un prodotto di lusso. Il boom economico di cui godette l’America, avvicinò all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiori: rimanevano l’élite dell’haute couture e la grande massa in cerca di un prezzo basso, ma in mezzo ai due poli si stava configurando uno strato sociale che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma chiedeva qualcosa di raffinato. La risposta di Dior fu un pret à porter di lusso. Tornato in Francia dal viaggio, si iniziò a lavorare intorno all’ipotesi di aprire a New York una casa di confezionamento che fu finanziata da Boussac. La prima collezione, interamente realizzata negli Stati Uniti dallo staff Dior, sfilò l’ novembre 1948. Nel frattempo, era iniziato un lavoro sulle licenze: se all’inizio sembrò utile poter pubblicizzare il nome della Maison negli USA, anche in forma di marchio di calze, a questo punto la cosa sembrava inopportuna, sia per l’immagine, che per l’aspetto commerciale; la ridiscussione del contratto, portò ad una rottura e alla prima licenza, dal 1949, Kayser cominciò a produrre le calze Dior sotto il controllo della Maison. La seconda licenza, riguardò le cravatte, la cui fabbricazione era gestita dalla società Stern-Merrit & Co. Pret à porter di lusso e licenze, dovevano soddisfare il mercato, ma esiste ancora una possibilità di miglioramento interno nel sistema. Nel 1952 si giunse alla conclusione di concentrare a Parigi la creazione delle collezioni, in modo da evitare trasferimenti stagionali a New York o a Londra. L’immagine dell’haute couture Per sostenere tutto ciò, era necessario che l’haute couture continuasse il suo spettacolo e attirasse sempre più l’attenzione. Gli elementi dello spettacolo, per decenni, erano stati la lunghezza delle gonne e la linea; con lo stesso gusto per lo spettacolo, Dior scelse di sviluppare in ogni collezione, solo due temi, cui venivano attribuiti nomi che assumevano le caratteristiche fondamentali della silhouette. Anche i singoli modelli, avevano un nome, ma, in questo caso, l’evocazione faceva riferimento all’aspirazione del couturier, o all’immaginario del pubblico. La rappresentazione della sfilata era preparata con metodo e seguendo un rituale sempre uguale, che vedeva Dior al centro dell’intero progetto. La prima fase, consisteva nel buttare giù idee di ogni tipo e doveva servire a Dior per identificare il tema che lo interessava. A questo punto, da solo, lasciava che le idee si sviluppassero e, terminata la fase progettuale, iniziava la selezione dei disegni insieme al suo staff: solo i modelli scelti, venivano sviluppati in tela per poi passare alla fase della realizzazione negli atelier. Il nome veniva dato al modello al momento della prima prova generale, quando si decideva quali abiti sarebbero entrati nella collezione. L’evento veniva organizzato nei più piccoli particolari, d’altra parte, la sua riuscita era essenziale, perché su questo spettacolo si giocava ogni volta il nome della griffe. Lo stile Dior Il New Look durò sette anni. Chiusa la crisi del dopoguerra, l’immagine di donna fiore stava per essere accantonata e l’industria della confezione stava prendendo forma anche in Francia; era poi accaduto un fatto imprevisto: Chanel era tornata dall’esilio ed aveva presentato una collezione rivolta alla donna moderna. Anche il modello femminile, stava infatti cambiando: il fenomeno mondano del momento in Francia, era F. Sagan e gli Stati Uniti stavano lanciando Audrey Hepburn. Dior non abdicò mai il suo gusto per assumere quello di altri e continuò a vestire una figura femminile che ostentava le curve ed amava le gonne ed i ricami. La correzione era necessaria, ma l’innovazione era stata creata senza cancellare l’immagine tradizionale di Dior: la liea “A” del 1955, ebbe un successo strepitoso negli Stati Uniti. Due anni più tardi, la fama di Dior era al culmine, così come il successo della sua azienda, ma, lo sitlista morì improvvisamente il 27 ottobre. Meno di un mese più tardi, Rouet convocò una conferenza stampa per comunicare che la Maison Dior continuava con la stessa équipe costituita da Dior; si trattava di una gestione collegiale, ma l’immagine Dior da questo momento, sarebbe stata legata al nome di Yves Saint Laurent, diventato assistente nel 1955. Il giovane couturier, avrebbe disegnato per Dior fino al 1960, quando partì per il servizio militare ed il suo ruolo fu affidato a Marc Bohan. 13. LA MODA ITALIANA La moda italiana, è nata nel secondo dopoguerra. Dopo un passato glorioso, durante l’ancien régime, l’Italia era diventata un paese marginale: le novità venivano da Parigi e la produzione locale si concentrò in sartorie che eseguivano abiti su modello, od ispirati alle creazioni d’oltralpe. In due diversi momenti si tentò di stabilire le basi per una moda italiana, ma solo nel secondo dopoguerra, si incominciarono a creare le condizioni per avviare un discorso innovativo internazionale. La forma di comunicazione più spettacolare, fu, però, offerta dal grande schermo. Cinecittà fu rimessa in funzione nell’immediato dopoguerra e diventò un polo di estrema importanza: da un lato fu utilizzata dalle Major americane, dall’altro, ebbe una parte fondamentale nella produzione italiana di quel periodo; nel giro di poco tempo, Roma divenne una delle capitali dell’industria cinematografica mondiale, con la conseguente concentrazione di attività e di attori famosi. Negli anni ’50, i divi del cinema furono modelli di riferimento nel modo di vestire e nei loro stili di vita, è quindi naturale che le case di moda romane, li usassero per farsi pubblicità. Le sorelle Fontana, furono fra le più abili nel servirsi di questo potenziale: decine di nomi celebri comparvero sulle riviste indossando i loro abiti e, molti dei film di quegli anni, videro le sorelle compiacenti ad aprire le porte del loro atelier e prestarsi anche a recitare la parte di sé stesse, come in “le ragazze di Piazza di Spagna” di Emmer. Emilio Federico Schubert vestì le nuove dive italiane come Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Fernanda Gattinoni, dal canto suo, si occupò di costumi cinematografici per Audrey Hepburn o Ingrid Bergman. Il sodalizio con il cinema, consentì alla moda italiana di uscire dalle pagine delle riviste specializzate, raggiungendo un pubblico molto più vasto ed una popolarità di cui non aveva mai goduto. 14. PRÊT À PORTER La fine della guerra aprì un nuovo capitolo nel modo di vestire dell’intera Europa occidentale. L’influenza americana sulla sua cultura, sul suo stile di vita e sul suo modo di produrre, ebbe in quegli anni un peso incommensurabile. Tradizioni vecchie di decenni o secoli, furono spazzate via, per essere rapidamente sostituite con un modo di vivere che aspirava ad una più “democratica” società dei consumi. Anche la moda risentì di questo clima, importando un sistema di produzione che era stato inventato in Europa, ma che aveva avuto il suo vero sviluppo negli Stati Uniti: la confezione industriale o ready-to-wear. Le origini del prêt à porter La parziale riapertura delle frontiere commerciali degli Stati Uniti, fornì l’occasione per organizzare degli scambi culturali che portarono gli imprenditori europei a visitare le aziende americane. Il settore moda scoprì il ready-to-wear; era un vero e proprio sistema moda, progettato da designer che nulla avevano da invidiare ai couturier parigini ed articolato in una gamma di offerte ricca e di alta qualità. A partire dalla fine degli anni “40”, la società europea cominciò ad adottare il modello di consumo che arrivava d’oltreoceano. Il modo di vestire e concepire il proprio aspetto esteriore, ebbe un grande peso in questa trasformazione, in quanto l’adozione di un abbigliamento informale, esprimeva la messa in crisi a livello individuale sia dei tradizionali modelli di comportamento e di bon ton, sia dei rituali di diffusione delle nuove mode. La strada più rigorosamente industriale, fu adottata dalla Francia, che aveva un’antica tradizione nella confezione popolare e di lusso ed una buona rete di distribuzione. L’obiettivo, fu creare un prodotto di moda che fosse alternativo all’haute couture, ma soprattutto alla confezione di basso prezzo che si era diffusa negli anni “30”. L’industria della confezione in Italia In Italia, la conformazione sociale del paese, non aveva mai favorito la nascita di una vera industria di confezione, contrastata dalla presenza di una fitta rete di sarti artigiani. Gli unici esempi erano la Merveilleuse di Torino e la Fias- Lo Presti Turba di Milano, ma la loro attività aveva una forte impronta sartoriale e serviva un mercato di lusso. Più consistente, era la produzione di abbigliamento maschile e di impermeabili . Il settore mosse i primi passi negli anni “50” e nacque principalmente all’interno di alcune aziende tessili, come la Marzotto ed il Gruppo Finanziario Tessile; la maggior parte della produzione, riguardò l’abbigliamento maschile. Il modello di riferimento era la grande industria americana: anche se gli inizi furono semiartigianali, le aziende si svilupparono presto in quel senso con ampi stabilimenti e grandi quantità di manodopera. Nel 1945, era nata l’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento (AIIA), che nel 1947 aveva partecipato alla fondazione a Lione, dell’Associazione europea delle industrie di abbigliamento (AEIH). Se agli inizi il settore della confezione di cui essa si occupava era composto da una moltitudine di specializzazioni attinenti al passato, già alla metà degli anni cinquanta l’industria italiana della moda pronta cominciava ad essere una realtà concreta . L’alta moda e l’artigianato di lusso, avevano trovato nelle sfilate fiorentine inventate da Giovanni Battista Giorgini, il mezzo per raggiungere il mercato americano ; qualcosa di analogo fu messo a punto per la confezione industriale e la produzione tessile. Il 24 novembre 1955, fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone mercato internazionale dell’abbigliamento (SAMIA), per promuovere le vendite della moda pronta sia sul mercato interno che su quello estero. L’appuntamento si ripeteva due volte all’anno, in novembre per la stagione primavera-estate ed in aprile, per quella autunno-inverno ed offriva ai produttori, la possibilità di confrontarsi con la concorrenza e di venire in contatto con le esigenze di mercati diversi da quelli fino ad allora praticati in modo artigianale. Nel 1957, si svolse a Milano la prima edizione del Mercato internazionale dei tessili per l’abbigliamento e l’arredamento (MITAM) che doveva svolgere un analogo compito nel settore delle stoffe. In quei primi anni, l’industria di confezione non si era posta il problema di creare tendenze o di competere con la grande moda; il problema si pose presto e nel 1959, fu affrontato anche dall’AIIA, che diede vita al Comitato moda “con lo scopo di promuovere un’azione di coordinamento tra creazione, produzione e distribuzione, ma soprattutto di offrire un contributo, attraverso lo studio di tendenze , la pubblicazione di una rivista, la circolazione delle novità. La stagione della grande industria della confezione stava volgendo al termine, nei primi anni “70”, attraversò un periodo di profonda crisi strutturale. Nel giro di poco tempo, infatti, erano cambiate tutte le condizioni che ne avevano favorito lo sviluppo: i rapporti di forza tra i lavoratori e gli imprenditori, erano mutati e la crisi petrolifera provocò un rialzo vertiginoso del prezzo delle materie prime. Anche dal punto di vista dei consumi, il panorama stava cambiando: da un lato, infatti, il trasferimento della clientela dalla sartoria su misura al prodotto industriale era quasi ultimato e, quindi, non lasciava prevedere un incremento di mercato; dall’altro, i nuovi stili di vita avevano orientato la domanda giovanile verso l’abbigliamento informale. Tutto questo creò grossi problemi alle aziende specializzate nel vestiario tradizionale; anche la sudditanza creativa dall’alta moda, mostrò limiti imprevisti. La haute couture stava perdendo il proprio ruolo di guida del gusto e di laboratorio di tendenze a favore del pret à porter più giovane e di avanguardia. Con il suo approccio più democratico, esso rispondeva meglio al diffuso desiderio di una moda priva di quelle note elitarie e lussuose che avevano fatto la fortuna dell’alta sartoria. La crisi economica degli inizi del decennio, provocò inoltre una contrazione dei consumi italiani. Tutto ciò ebbe una serie di contraccolpi sul comparto moda, a partire dal fallimento di grandi industrie come Unimac, (Ruggeri) fino al radicale ripensamento del proprio modello produttivo da parte di altre, come il Gruppo Finanziario Tessile. Nel 1975, le associazioni di categoria che riunivano gli imprenditori dell’intero comparto, fondarono la Federazione Nazionale delle Industrie Tessile e dell’abbigliamento (Federtessile), per affrontare unitamente la grave crisi del settore attraverso una politica di programma. Gli industriali cominciarono ad investire su un nuovo modello produttivo decentrato e su un sistema stellare di piccole imprese, che consentì, da un lato, di risolvere molti aspetti delle rivendicazioni sindacali e, dall’altro, di affrontare con la necessaria agilità, le richieste del mercato della moda. Soprattutto, però, fu individuato un ruolo centrale per la progettazione creativa. La moda giovane degli anni Sessanta Furono gli anni “60”a creare le condizioni per una svolta decisiva nei costumi e nel modo di vestire. Attore principale di tutto questo, fu il popolo degli adolescenti; i ragazzi del dopoguerra rappresentavano una larga fetta della popolazione, stavano seguendo un ciclo di studi più lungo e cominciavano a riconoscersi in un quadro internazionale fatto di gruppi, ideali culturali e politici, musica, colori, abiti. Se l’industria di confezione non seppe capire il nuovo mercato, l’alta moda fu semplicemente ignorata dai giovani che, rapidamente, adottarono stili e cioè comportamenti vestimentari autonomi . Teddy boys, mods, rockers in Europa, beatnik e hippies negli Stati Uniti. Al di là delle aggregazioni, esisteva però un intero popolo di giovani che adottò quella che genericamente venne definita “moda pop” , da cui uscirono le grandi novità del decennio: la minigonna femminile ed il colore maschile. Le ragazze sceglievano indumenti difficili per la corporatura o gli ideali estetici delle loro madri, ma anche i ragazzi facevano scelte impossibili per i loro padri. Se l’aspetto femminile fu ricalcato su quello delle bambine, la tenuta maschile non fu meno innovatrice: i capelli cominciarono ad allungarsi e gli indumenti si colorarono, diventarono più fantasiosi, si arricchirono di decori psichedelici, si strinsero a mostrare le forme del corpo. Inghilterra e Francia accolsero la sfida della cultura d’avanguardia ed adeguarono le proprie offerte alla nuova domanda attraverso un sistema distributivo fatto di “boutique”. Londra era diventata il centro internazionale della cultura giovanile ed una nuova generazione di stilisti, stava creando una moda che veniva venduta in negozi esclusivi concepiti per un pubblico di adolescenti. Mary Quant aveva aperto il primo Bazar nel 1955 in King Road. Nel 1961, ne aprì un secondo e nel 1963 fondò the Ginger Group. Fu lei a lanciare la moda più famosa degli anni “60”, un abito con la gonna a metà coscia, di modello decisamente infantile ispirato alle divise scolastiche ed alle linee degli anni “20”, da indossare con calze collant, colorate anche in maniera dissonante rispetto al vestito. La minigonna non aveva implicazioni erotiche, comunicava semmai la voglia di non avvilire un corpo adolescente in indumenti non pensati per esso e di esprimere attraverso i colori la propria voglia di vivere. La tendenza più nostalgica della fine del decennio fu rappresentata da Barbara Hulanicki, che aprì Biba in Kensington High Street. Il suo stile aveva un aspetto più decisamente revival ed anche il negozio si presentava con un insieme di arredi che andavano dal Vittoriano al Liberty, all’Art Déco. Anche a Parigi, le boutiques si moltiplicarono, modificando con le loro vetrine l’aspetto di alcuni quartieri e contribuendo ad un particolare sviluppo del pret à porter. Il progetto era chiaro: partire dalla presenza di una nuova clientela di adolescenti e lanciare mode selezionando le proposte più innovative e più consone al gusto di un tale pubblico. Ripetendo un percorso che negli Stati Uniti si era verificato negli anni “30”, anche l’Europa stava arrivando ad una nuova concezione della moda, non più creata su misura per una ristretta clientela, ma confezionata in serie, per un pubblico democraticamente allargato. Si trattava della traduzione europea del modello di consumo americano; il nuovo sistema di creazione e di distribuzione della moda, riguardò anche gli Stati Uniti. Alla metà del decennio, anche l’haute couture cambiò radicalmente e propose uno stile ispirato all’era spaziale e fondamentale in questo processo di rinnovamento, fu il pret à porter. L’alta moda, infatti, non rappresentava più lo strumento principale per diffondere le nuove idee; il primo a percorrere una strada di Linea pronta, fu Pierre Cardin nel 1959. Nel 1966, nacque Yves Saint Laurent Rive Gauche, nel 1967, Miss Dior, nel 1968, Givenchy Nouvelle Boutique. Il risultato fu una totale rivoluzione nella figura professionale del couturier, che trovò, nel nuovo sistema produttivo, un’alternativa per esprimere la propria creatività. La distribuzione avvenne attraverso boutique monomarca, prima a Parigi, poi nelle più importanti città del mondo, rifornite attraverso modi di produzione diversi. Solo Balenciaga non accettò il cambiamento; le sue creazioni , continuarono a rappresentare un punto di riferimento nella moda francese ed a suscitare l’ammirazione che di solito circonda le grandi opere d’arte, ma la stagione aristocratica della grande couture era finita e Balenciaga fu costretto a chiudere il suo atelier nel 1968. Nei primi anni “70”, il pret à porter aveva completamente conquistato il pubblico. Era giunto quindi il momento di ratificare il cambiamento consolidando sia la professione di creatore di moda, sia il risvolto produttivo. Nel 1971 venne creata la società Créateurs & Industriels con il compito di stabilire corretti rapporti fra le parti: gli stilisti avrebbero progettato e firmato le proprie collezioni, gli industriali le avrebbero prodotte e ne avrebbero finanziato la comunicazione. Dallo stesso anno si cominciò ad organizzare un calendario di sfilate. Le somiglianze fra il lavoro degli stilisti e quello dei couturier, si facevano sempre più evidenti, tanto da indurre un avvicinamento formale fra le due professioni attraverso la creazione della Chambre syndacale du pret à porter des couturiers et des crèateurs de mode. Nel primo caso, si sottolineava la valenza industriale del lavoro degli stilisti, nel secondo si sottolineava la continuità fra la loro attività creativa e quella dei couturier. Il 1980 arrivò e pose definitivamente fine all’utopia degli anni “70”: Reagan diventò presidente degli USA con un programma conservatore e liberista; a Torino si tenne una manifestazione contro il sindacato, a cui parteciparono 40.000 colletti bianchi e l’anno prima, M. Tatcher era diventata Primo Ministro in Gran Bretagna. La deregulation era iniziata e fece di carriera, successo, denaro e potere, le parole d’ordine; anche il popolo dei giovani si fece coinvolgere da questa frenesia e si riconobbe in uno dei trend di strada più conformisti del dopoguerra, quello dei paninari. Le seconde linee Nel 1982, Armani ridiscusse il contratto con il GFT riprogettando la configurazione dell’azienda: al gruppo torinese, venne affidata Mani, seconda linea, mentre la prima, G. Armani, assunse un carattere più artigianale ed esclusivo e fu affidata ad aziende specializzate; esisteva però anche il mercato dei giovani, che cercava moda a prezzi contenuti. Fu così che Armani lanciò la linea Emporio Armani, da vendere in negozi monomarca appositamente creati. Alla prima linea, venne attribuito un compito di immagine e sperimentazione e per questo la sua realizzazione, doveva avere caratteristiche più artigianali. Alla seconda linea, venne assegnato l’obiettivo della vendita di massa, e la linea giovane ebbe connotazioni più forti e trasgressive. Il look e gli stili I ricchi degli anni “80”, provenivano dal commercio o dal mondo terziario ed il loro obiettivo era esibire. Si cominciò a parlare di look, di una struttura comunicativa capace di costruire l’immagine di ciò che non è. La destrutturazione dei modelli tradizionali, aveva però lasciato un vuoto, non c’erano più rituali cui adeguarsi per mostrare la propria ricchezza e nemmeno valori e strumenti culturali per crearne altri; era necessario un mediatore che garantisse la corrispondenza fra stile di vita adottato ed abito adeguato a comunicarlo, la collezione primavera-estate 1983, segnò la svolta: tutti si concentrarono nella ricerca del nuovo e di un linguaggio personale. Quasi a sottolineare la necessità di personalizzazione, molti stilisti abbandonarono il centro sfilate della fiera per organizzare le presentazioni in altri spazi. Tutti, però, fecero una concessione alle donne in carriera; la battaglia che le donne dovevano combattere per entrare nel mondo del lavoro, richiedeva infatti che anche l’abito fosse trasformato in un’arma: le proporzioni del torace furono esasperate, le spalle si imbottirono e la parte superiore del corpo, fu enfatizzata notevolmente a discapito di quella inferiore. La giacca diventò la nuova divisa femminile. Ogni stilista la interpretò e la variò a seconda del proprio modello di gusto e della donna a cui si riferiva. Il successo del Made in Italy Furono gli anni del grande successo. Armani, Biagiotti, Coveri, Fendi, Ferré, Krizia, Moschino, Soprani, Valentino, Versace, cui si aggiungeranno Gigli e Dolce Gabbana diventarono i guru del gusto: la loro firma sanciva ciò che era di moda e ciò che non lo era, ciò che doveva essere acquistato e ciò che era semplice oggetto d'uso, ciò che faceva status symbol e ciò che non lo faceva. Nacque una moda che metteva disposizione di un ceto medio molto allargato la fascia più alta della produzione, era finito il modello secondo cui le nuove tendenze venivano create per una stretta élite. Lo stilista aveva sostituito il couturier nel ruolo d’interpretare i cambiamenti sociali e culturali e trasporli in tessuti, modelli e prodotti diversi per una clientela allargata e internazionali. Il cosiddetto “Italian Look” interpretò appieno il desiderio di essere mostrarsi alla moda e risposi ogni tipo di domanda articolandosi attraverso l'offerta di modelli ma soprattutto gli stili di abbigliamento, abbastanza diversificati fra di loro e facilmente riconoscibili. Mode di strada, ricerca di avanguardia, produzione industriale Il pret à porter era diventato “la moda” dopo aver eliminato l’idea che ci potesse essere un unico centro di creazione ed una ristretta élite di riferimento. Questo significava che potevano cominciare a coesistere stili diversi e che i centri di creazione potevano moltiplicarsi: alla tendenza che rappresentava la nuova società, si aggiunsero altre proposte estetiche e culturali fra cui, la più spettacolare, fu quella che nasceva dalle mode di strada e che portava i principi e le rivoluzioni vestimentarie dei giovani sulle passerelle. Vivienne Westwood, rappresentò in qeusto senso, il momento di rinascita della creatività inglese, affrontando e reinterpretando in modo irriverente e sarcastico i simboli della società britannica ed il suo tradizionale abbigliamento. Sul fronte opposto, dalla tradizione dello sportswear americano, arrivò una tendenza che declinava il prodotto industriale con purezza di tagli, assenza di colori e tessuti ricercati: questa moda si rivolgeva ad un’aristocrazia del gusto che comunicava la propria distanza dalla società dei nuovi ricchi.La ricerca di un’eleganza intellettuale decretò il successo dello stilismo nipponico che divenne dirompente nel 1981, quando sfilarono a Parigi Kawakubo e Yamamoto con modelli che facevano intuire un modo diverso di intendere il corpo femminile e l’erotismo. Dai primi anni “90”, la proposta giapponese influenzò la nascita di un’avanguardia europea, di cui un gruppo di stilisti di Anversa ne rappresentò la forma più avanzata: la moda del Belgio era caratterizzata dalla ricerca di una nuova estetica che veniva dalla decostruzione dei capi e dalla sperimentazione più radicale. In contrapposizione alla moda italiana, scelse uno stile massimalista che, però, poteva creare seri problemi ad un sistema costruito sul pret à porter: la fuga verso l’haute couture, rappresentò una sfida, anche perché fra l’”89” ed il “90”, il luogo del confronto si spostò a Parigi; pochi furono i grandi nomi del made in Italy che si attennero al compito di stilisti industriali e, fra di essi, Armani e Moschino. La morte, prima di Moschino e poi di Versace, il difficile rientro di Ferré dopo l’esperienza Dior e molti altri problemi, accelerarono la flessione della moda italiana anche se, la sua fama sopravvisse a tutto ciò, soprattutto grazie alla qualità dei suoi prodotti. Vecchi marchi e industria del lusso Un capito della storia degli ultimi dieci anni, fu affidato al rilancio di vecchi marchi come Pucci e Gucci. Nel 2000, il gruppo LVMH, acquistò la maggioranza dell’Emilio Pucci e la direzione creativa fu affidata prima a Laudomia Pucci, nel 2002 a Christian Lacroix ed infine, nel 2005 a Matthew Williamson. Molto più significativo, fu il caso di Gucci. Nel 1980 l’azienda fu affidata a Dawn Mello, ma nel “94”, Domenico de Sole la sostituì con Tom Ford con l’obiettivo di recuperare l’immagine di marchio di lusso con cui era nata l’azienda. Per ricostruire il significato sociale e commerciale, si dovevano isolare i segni che avevano rappresentato Gucci e riproporli come elementi di un guardaroba attuale; l’obiettivo rendeva necessario conoscere il passato dell’azienda: si cominciò a costruire un archivio acquistando sul mercato vintage ed antiquario, e raccogliendo immagini, pubblicità, e fotografie. Per sostenere l’immagine degli accessori, Ford scelse l’abbigliamento, presentando per la collezione autunno-inverno del 1995-1996, una rivisitazione degli anni “70” e la stessa logica fu seguita per gli accessori. Ford utilizzò Carine Roitfeld come stilist, affidò a Kevin Krier la regia della sfilata e per la campagna pubblicitaria, scelse Mario Testino. La nuova immagine con cui il marchio affrontò il mercato, era uno stile di vita prima ancora che di abbigliamento. il successo dell'operazione ’fu travolgente, ma durò poco: nel “99”, Arnault acquisì un pacchetto azionario Gucci e nel 2003 l’intero gruppo, a cui conseguì l’uscita di scena di Ford e De Sole. Nuove forme di consumo La fine del ventesimo secolo, portò con sé un nuovo modello di grande distribuzione che cominciò ad offrire un pronto moda di buon gusto e qualità a prezzi accettabili, portando al successo catene come Gap, Zara ed H&M. Era nata una nuova era per la moda: quello per la confezione in serie per il mercato di massa globale, dove l’acquisto era sempre più legato al piacere di modificare il proprio aspetto, rincorrendo tendenze brevi ed effimere. La moda élite dei grandi creativi, però, non era scomparsa e cominciò ad affrontare il mercato parlando di lusso. 15. HAUTE COUTURE E INDUSTRIA DEL LUSSO: CHANEL La rivoluzione dei costumi degli anni ’60 e ’70, l’affermazione delle culture giovanili, il processo di democratizzazione occidentale e la diffusione del consumo di massa, avevano favorito lo sviluppo di un pret à porter sempre più qualificato e creativo. L’industria del confezionamento, aveva ormai i propri stilisti, quindi non aveva più bisogno di andare a Parigi ad acquistare modelli da copiare; le sartorie erano sparite, rimaneva la clientela privata che frequentava gli atéliers di Parigi, ma si era ridotta di numero e nelle richieste. Perfino la sua composizione sociale e geografica, era mutata: non erano più le francesi o gli americani, ma un esiguo numero di clienti, cercava il prestigio della tradizione e del lusso. Il vero volume d’affari delle maison, era rappresentato dalla profumeria, dalle licenze e dal pret à porter. Nonostante ciò, due volte all’anno, Parigi continuava a fare sfilate di haute couture, ma le collezioni comprendevano solo capi da sera o da gran sera; attorno alle passerelle, continuava ad affollarsi un pubblico composto da pochi clienti e da molti giornalisti, il cui interesse significava che il potenziale dell’haute couture non era completamente esaurito, e se ne resero conto anche alcuni proprietari di famose maison parigine che negli anni “80”iniziarono a riconsiderare il tema del lusso. Questo nuovo corso, iniziò ancora una volta con Chanel. Karl Lagerfeld e la Maison Chanel Il 15 settembre dell’anno 1982, la Maison Chanel annunciò di avere affidato a Karl Lagerfeld il ruolo di consulente artistico per l’haute couture. Era strano che la più antica fra le case di alta moda parigina, si affidasse ad uno straniero per lo più specializzato nel pret à porter. La prima obiezione fu presto accantonata: Karl Lagerfeld era nato ad Amburgo, ma viveva a Parigi dall’età di 20 anni. La seconda perplessità, aveva un altro spessore; nonostante avesse iniziato nell’haute couture, dagli anni '60, la sua creatività era al servizio del pret à porter, tanto che era considerato l’artefice del successo di marchi come Fendi e Chloé. La Maison Chanel Dopo la morte di Coco, nel 1971, il compito di creativo fu affidato a Gaston Berthelot , che però mancava di quello slancio creativo che distingueva un creatore di moda da un grande sarto. Era una carenza grave in un periodo in cui la funzione dell’alta moda era stata posta in discussione dalle mode giovanili e dalla crescita del ready to wear. La scelta di rimanere legati alla tradizione, alla lunga mostrò i propri limiti e già a metà degli anni “70”, Chanel non era più una griffe di punta. Alla morte di Pierre Wertheimer, il suo posto fu preso dal figlio Jacques che , però, dimostrò di non avere le stesse capacità imprenditoriali del padre e, nel “1974”, fu sostituito dal figlio Alain che affrontò il problema Chanel correggendo gli errori e cercando di intraprendere quello che di nuovo si stava muovendo nella moda; si decise di sperimentare il metodo delle licenze per proporre quella che fu chiamata “Boutique Chanel”: borse, scarpe e foulard e pret à porter e la storica boutique in Rue Cambon fu il punto di partenza di una rete distributiva che cominciò ad espandersi nel mondo. L’intera vicenda costrinse a ripensare tutta la strategia “Chanel”. Da un lato, infatti, aveva messo in primo piano il potenziale del settore Boutique, dall’altro, evidenziava la necessità di far recuperare alla Maison il ruolo che le competeva nel sistema della moda; questo fu il momento in cui Alain prese i contatti con Karl Lagerfeld e decise di affidargli il compito di far nascere a nuova vita il nome Chanel. L’haute couture di Karl Lagerfeld La collezione presentata da Karl Lagerfeld nel Gennaio del 1983, non ebbe molto successo. In effetti, lo stilista non aveva avuto molto tempo ed aveva quindi proposto temi di sicura presa sulla clientela: i tailleurs di tweed con blusa coordinata, il blu unito al bianco e per la sera, i fourreaux, il tutto accessoriato con bottoni gioiello, scarpe bicolori, perle e catene. In mezzo a tutto ciò, c’erano due modelli che facevano presagire ad un nuovo corso. La trasformazione di L.Vuitton era più recente, ed anch’essa opera di un manager che proveniva dal settore siderurgico: H. Recamier, che si prefisse l’obiettivo di trasformare L.Vuitton in un marchio che rappresentasse l’idea stessa di lusso e di viaggio e di proporla sul mercato internazionale. I mezzi utilizzati, furono diversi; innanzitutto fu progettato un piano di comunicazione fatto di pubblicità e pubbliche relazioni. Contemporaneamente si scelse di controllare direttamente la rete distributiva, utilizzando solo negozi di proprietà e di fabbricare i prodotti unicamente in Francia, modernizzando, per quanto possibile, una lavorazione che doveva continuare ad avere forti contenuti di artigianato. Infine, ci fu la scoperta del mercato dell’Estremo Oriente ed in particolare di quello giapponese l’occasione che favorì il progetto di B. Arnault, fu il calo del valore delle azioni LVMH in seguito al crollo della borsa di Wall Street il 19 ottobre 1987. Si aprì, a questo punto, una vicenda fra le più complesse e travagliate della storia finanziaria di Francia, che vide schierati l’uno contro l’altro, principalmente Arnault e Henry Recamier. Nel 1988, Arnault assunse il controllo del gruppo LVMH, ma gli strascichi di quella che fu chiamata la guerra del lusso, si protrassero ancora per qualche tempo. La Parfums Dior era stata recuperata, ma l’obiettivo del progetto, era anche quello di restituire a Parigi il suo ruolo di centro della moda e delle produzioni di alta qualità. La Maison Christian Dior Nel 1986, la Maison di Avenue Montaigne, però, non era più quella degli anni cinquanta; nell’immaginario collettivo, era rimasta traccia del suo antico carisma, ma la realtà presente era ben diversa.L’haute couture era ormai più un costo che un ricavo. Dior aveva anche altri problemi: Marc Bohan, scelto da Boussac per sostituire Yves Saint Laurent, era un bravissimo professionista, ma non era mai stato in grado di sviluppare una linea di pret à porter di successo. Inoltre, il marchio era gravato da un eccessivo numero di licenze che avevano reso la situazione incontrollabile e rischiavano di dare, del marchio Dior, un’immagine confusa e contradditoria. Iniziò, quindi, un lungo lavoro che sarebbe durato molti anni per il recupero delle licenze alla scadenza dei diversi contratti. Solo gli occhiali continuarono ad essere oggetto di una licenza con Safilo. Il nuovo corso di Dior, fu comunicato attraverso due iniziative: approfittando del quarantennale della fondazione della Maison e della sfilata che aveva lanciato il New Look, nel 1986 fu organizzata la mostra “HOMMAGE A CHRISTIAN DIOR1947-1957” al Musée des Arts de la mode in Rue de Rivoli. All’inaugurazione, presenziò il Presidente della Repubblica François Mitterand. Contemporaneamente, venne rimessa a nuovo la sede storica e, tutto il resto, apparentemente rimase intatto. Gianfranco Ferré I cambiamenti, però, erano alle porte ed il primo fu annunciato l’11 Maggio 1989: con una conferenza stampa all’Hotel Crillon, Béatrice Bongibault, direttrice della Maison, presentò alla stampa lo stilista che da quel momento avrebbe progettato le collezioni haute couture, pret à porter ed alta pellicceria: Gianfranco Ferré. Il congedo di Marc Bohan, fu giudicato troppo repentino e brusco e fu messa in discussione la scelta di uno straniero. Con ogni probabilità, però, l’oggetto vero dell’attacco, non era lo stilista italiano, ma Bernard Arnault, responsabile della scelta che, in quel periodo, era oggetto di una campagna di stampa negativa e violenta per il modo in cui stava conducendo l’affare LVMH. La sostituzione della mente creativa, segnava comunque un passaggio importante che andava bene al di là di un cambiamento di persona: essa rappresentata la fine di un mondo e l’inizio dell’era Arnault. Lo stilista italiano aveva cominciato a lavorare nella moda dopo la laurea in architettura, prima collaborando con diverse aziende, sia in modo anonimo che firmando collezioni, poi dal 1978, con un marchio proprio. Ferré fu uno degli stilisti che crearono la fama del pret à porter made in Italy nel mondo. Fra il 1988 ed il 1989, G.Ferrè era al culmine del suo successo in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti. La consegna che gli fu affidata al momento del primo contratto quadriennale come créateur della Maison parigina, era “Faire du Dior”. La strategia di Arnault era chiara: restituire alla moda quel valore di status symbol che l’aveva caratterizzata in certi momenti della sua storia e che sembrava oramai superato e che sembrava essere una delle più evidenti caratteristiche della moda italiana. Ferré colse che quanto gli stava chiedendo, era ridare alla Maison Dior quell’immagine di sogno meraviglioso ed irraggiungibile avuto in passato. Il 23 luglio 1989, fu proposta al pubblico la prima collezione haute couture dello stilista italiano: omaggio a Christian Dior ed al New Look; gli applausi finali ne sancirono il successo, culminato con l’assegnazione del Dé d’Or. Ma il risultato più importante, fu costituito dall’arrivo dei compratori americani e dalla ricomparsa dei modelli Dior nelle vetrine dei più importanti stores statunitensi. Il ritorno alle origini, non fu però il tratto principale della progettazione Di Ferré, ma il designer italiano propose soprattutto un proprio stile, una personale interpretazione del lusso e un ideale femminile che egli stesso identificò con le clienti di Dior, le poche centinaia di “grandes dames”. Per questa lady raffinatissima, egli inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante. Un lusso vistoso, barocco, dispendioso, caratterizzò invece la progettazione degli abiti da sera. Ferré si innamorò della haute couture e sperimentò abiti e decorazioni sempre più complessi ed elaborati. L’alta moda, però, era in una situazione sempre più difficile. Lagerfeld da un lato e Versace dall’altro, avevano cercato di rinnovarla, immettendovi contenuti nuovi e più giovani. Ferré e la Maison Dior, continuarono invece a rimanere legati alla tradizione elegante ed esclusiva del passato. Ancora una volta, fu il mercato americano a decidere, apprezzando i tailleur da giorno, ma rifiutando un abbigliamento da sera adatto solo ad eccezionali occasioni mondane. La fine del rapporto, si consumò nel 1996. John Galliano e l’haute couture Stava per aprirsi una nuova pagina. Per decenni, tutti avevano lavorato per consolidare l’immagine di una Maison tradizionale, votata all’eleganza, ma dimenticando o mettendo in secondo piano, il fatto che il successo di Christian Dior era nato da un atto di rottura che nel 1947 aveva totalmente mutato il modo di vestire delle donne. A metà anni “90”, le ricerche di mercato, segnalavano la presenza di un potenziale pubblico giovane e soprattutto di nuovi ricchi. Per tutti loro, la filosofia di Dior era poco attraente; il richiamo di Arnault allo spirito innovatore del fondatore della Maison, segnalava la volontà di un deciso cambiamento di rotta e la nomina di John Galliano, come crèateur di C.Dior Couture, ne fu la conferma. Galliano aveva seguito un regolare corso di studi e si era diplomato presso il Central Saint Martins College of Arts and Design di Londra che aveva sfornato un folto gruppo di talenti creativi fra i più geniali ed innovativi. Il risultato era merito di un metodo di insegnamento che stimolava la scoperta e la libera espressione delle doti creative degli allievi.Tutto ciò, rendeva Galliano più duttile di altri ad affrontare il compito che lo attendeva: confrontarsi con le esigenze del mercato e i metodi di un’azienda moderna. Il passaggio di Galliano alla Maison Dior, fu annunciato durante la settimana delle collezioni dell’ottobre 1996 e ufficializzato il 9 dicembre all’inaugurazione della mostra dedicata a Dior dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. La principessa di Galles, presenziò all’esclusiva festa di gala con il primo abito della casa parigina disegnato da lui. Era un modello semplicissimo, a marcava in modo evidente la rottura con il gusto opulento e barocco di Ferré. La prima sfilata haute couture, si svolse il 20 gennaio 1997: la collezione era principalmente un omaggio a Dior: il patrimonio culturale della Maison, era riproposto in tante soluzioni diverse, c’erano il tailleur “bar” e alcuni abiti da ballo con il bustino e l’ampia gonna. C’erano il pied-de- poule e il principe di Galles. C’erano il lilla diafano e il motivo “panthère” tanto cari a Mitzah Bricard, la collaboratrice musa del grande couturier. Lo spunto esotico, introdotto dal disegno animalier, dipinto sull’organza ed il crepe, tornava nelle pettinature da sera; c’era un riferimento diretto all’Africa colorata e altera dei guerrieri masai. I loro vistosi ornamenti di perline multicolore, trasformarono lo stile parigino dei modelli su cui furono indossati. Erano oggetti dal forte impatto visivo e raggiunsero lo scopo desiderato: la stampa ne rimase colpita e la loro immagine fu pubblicata ovunque. Nella collezione successiva, lo stesso ruolo fu giocato dai bijoux ad anelli dorati; il tratto multietnico della moda di Galliano, era qualcosa di molto diverso dall’antico e sempreverde esotismo che ha periodicamente vivacizzato il modo di vestire dell’Occidente. Quella con cui il giovane stilista si presentò al pubblico di Dior, era una nuova lingua: quasi una traduzione di ciò che stava accadendo nella realtà metropolitana, dove la convivenza di comunità etniche lontanissime tra loro, era un fatto sempre più comune. La scelta di sperimentare questa strada, non doveva essere stata dettata solo da motivi di carattere culturale, ma piuttosto essere nata all’interno di un progetto di comunicazione spettacolare e di forte impatto sul pubblico. Tali novità, colpirono molto l’attenzione e provocarono la sensibilità estetica delle giornaliste di moda che avrebbero messo tali abiti al centro dei loro servizi, trasformandoli in oggetti simbolo, cosa che avvenne puntualmente. L’identità di Dior Il problema dell’identità Dior e della sua individuazione immediata da parte del pubblico, era complesso; Christian Dior aveva lavorato solo per dieci anni: troppo poco per avere il tempo di fossilizzare la propria idea di eleganza in icone immutabili e per costruire un vero sistema di codici. Anche la sua moda aveva avuto dei temi ricorrenti, ma nel complesso era stata ricca di innovazioni e di idee. Era necessario cambiare prospettiva, ed Arnault ribadiva: “ quello che si realizza con Galiano è, penso, ciò che oggi avrebbe fatto lo stesso Mr. Dior” In altri termini, quella che doveva essere comunicata al pubblico, non era una continuità di segni, ma di atteggiamenti verso la moda e la società. C’era però un altro retaggio del patrimonio storico che doveva essere assolutamente salvaguardato: il lusso e le sue declinazioni. Lo staff di Arnault, creò una nuova mitologia del lusso che coinvolse l’intero sistema: da un lato, le performance dell’haute couture, un pret à porter di assoluta avanguardia, l’alta gioielleria, dall’altro, abiti pensati per donne giovani e moderne, ma anche profumi, prodotti cosmetici ed accessori vendibili ad un pubblico di massa. La nuova identità Dior doveva, quindi, essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po’ trasgressivo, pensato per donne che volevano lo status symbol della griffe, ma anche la sensazione di osare novità un po’ eccentriche. Marketing e creatività Tutto questo fu sostenuto e guidato da un sistema di marketing che utilizzò i canali della pubblicità e della boutique monomarca. Le campagne pubblicitarie, subirono un deciso cambiamento di immagine per raggiungere un pubblico ben diverso da quello compassato della vecchia “istituzione” Dior. Lo stesso fu fatto per le boutique più importanti, che furono affidate a decoratori di grido ed architetti per diventare vettori d’immagine, “concept store”. Il cuore dell’intero progetto era comunque la moda. In questo quadro, l’haute couture, ritrovava uno spazio adeguato ai ritmi ed ai modelli di consumo più moderni: il suo scopo era trasformare la moda in un grande spettacolo capace di calamitare l’attenzione del pubblico e media sul marchio; era irrilevante il fatto che le mises di sfilata potessero essere ritenute importabili. La Maison inventò un sistema di couture a due velocità: uno show eclatante che implica la creazione dell’altra collezione destinata ai clienti, prodotta dagli atelier e progettata da J.Galliano. I modelli della sfilata, erano invece a disposizione delle cosiddette celebrities disposte ad indossarli in occasioni mondane di particolare impatto mediatico. Questo ruolo liberava l’haute couture da tutti i retaggi e le tradizioni del passato e consentiva di salvarla come strumento di comunicazione di grande forza e come laboratorio di ricerca. La Maison Dior aveva però messo in discussione anche la sfilata del pret à porter. Il nuovo progetto le attribuiva più il valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale. Lo stesso Galliano entrava a far parte della sfilata come attore principale; l’uscita finale, quella in cui lo stilista, illuminato da un unico spot si presenta al pubblico, fu trasformata in un colpo di scena in più. Galliano cominciò ad offrirsi alla platea con i più bizzarri travestimenti, creando un clima di attesa quasi superiore a quella che precedeva la collezione stessa. Utilizzare il breve attimo in cui tutti gli obiettivi sono puntati per immortalare l’immagine del creatore della collezione per moltiplicarne l’effetto mediatico, fu un’idea da grande comunicatore. Era, infatti, prevedibile che i media non avrebbero perso l’occasione di trasformare l’ultimo travestimento di Galliano in una notizia. La sfilata spettacolo Le sfilate haute couture di Galliano, assunsero sempre più la forma di grandiosi spettacoli teatrali. Per la collezione primavera-estate 1998, Arnault, mise a disposizione il grande salone ed il foyer dell’Opéra di Parigi, trasformati in sala da ballo, per rendere omaggio alla marchesa Luisa Casati. Annunciati da una pioggia di petali di rosa,i trentotto modelli che sfilarono, raccontavano la vita della marchesa. In realtà, a ben guardare, gli abiti proposti dallo stilista non erano tutti così eccentrici ed importabili. Ciò che rendeva il tutto fuori norma, era la regia, il trucco, le pettinature, gli straordinari cappelli e la recitazione delle modelle. La collezione successiva, fu un vero delirio creativo che travolse e lasciò esterrefatto il pubblico.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved