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Storia della moda XVIII-XXI secolo Enrica Morini, Sintesi del corso di Costume E Moda

Sintesi completa del libro per esame Forme e Processi della Moda - IULM

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 30/05/2017

roberto_garavaglia
roberto_garavaglia 🇮🇹

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Scarica Storia della moda XVIII-XXI secolo Enrica Morini e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! Il lusso, la moda, la borghesia Il lusso Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda. Dai tempi dei romani fino al XIV secolo l’abbigliamento europeo si sviluppa e si modifica relativamente poco: tra l’abbigliamento dell’uomo ricco e quello del povero l’unica differenza stava nella qualità delle stoffe e nell’uso di ornamenti da parte dei ricchi. A partire dal Medioevo l’abito ha cominciato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale della persona. Si far risalire appunto per questo la nascita della moda al tardo Medioevo primo Rinascimento (XIII-XIV secolo), dove l’Europa attraversava una fase di grande crescita economica. Da qui la forma degli abiti iniziò a cambiare a ritmo sostenuto (“principio del cambiamento”). Signori e re, magistrati e prelati furono considerati tanto più magnifici quanto più era il fasto di cui si circondavano. Il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua ricchezza e potenza economica. Per secoli, tali modifiche saranno accessibili soltanto alla classe borghese e dei ricchi. Tuttavia nel XVI secolo la Riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura relativa al lusso, alla ricchezza e al loro significato etico: la ricchezza, segno del favore divino, non poteva essere sperperata per la vanità personale, ma doveva essere gestita, in nome della comunità, quindi modestia e moderazione diventarono le vere doti da comunicare attraverso l’abito. Abiti borghesi La nascita della moda è di regola associata alla Francia, che dal XVII secolo detta legge nelle nuove fogge. Tuttavia nel 1763, l’età degli sfarzi barocchi del Re Sole volgeva al tramonto: la borghesia competeva con l’aristocrazia per il potere, e all’interno di questa nuova cultura, la borghesia invernò la propria moda, non più quella derivata dal mondo aristocratico, ma una moda che corrispondeva a un ideale di vita, a princìpi e a gusti che corrispondevano ad un nuovo a un modello etico, nasce così un modello di consumo, un modo per far girare merci e produrre ricchezza, lusso e moda diventavano segno di valori positivi. II primo segno riguardava l’abbigliamento maschile, rispetto al quale l’aristocrazia inglese e l’intellettualità europea proposero un modello semplificato: il completo composto da marsina, sottomarsina, camicia, calzoni, ma invece dei preziosi tessuti a colorata e broccati cominciarono ad essere usati tessuti di lana in tinta unita o neri, anche in questo caso l’immagine corrispondeva al ruolo: nobiltà operosa e borghesia legarono strettamente il proprio status di potere o la propria ascesa sociale al lavoro, a una vita attiva finalizzata all’incremento della ricchezza, individuale e collettiva, e all’impegno politico, intellettuale e sociale. L’ostentazione dell’abito fu orientata a comunicare quelle qualità che erano necessarie a questo scopo. Successivamente fu inventato un analogo modello per un ideale femminile estremamente lontano da quello delle cortigiane settecentesche. Gli scopi di una vita virtuosa borghese erano il matrimonio e la cura dei figli: l’abito diventò Io specchio di questa virtù e si privò di tutti gli elementi più teatrali che identificavano la moda rococò, Non più solo il nero, ma colori chiari, nastri, passamanerie, merletti, non più le forme rigide e sostenute, ma indumenti leggeri e comodi, inizialmente adottati dalle nobildonne di campagna inglesi e poi un tipo innovativo che liberava il corpo femminile da tutte le costrizioni, in accordo con le teorie illuministe. Questa prima forma di moda borghese si sviluppò in due modi antitetici: quella maschile si istituzionalizzò, mentre quella femminile mutò nel tempo, sottostando a propri riti di trasformazione. La moda maschile, accettati i dettami fondamentali stabiliti da Lord Brummel e ripresi da Balzac, si concentrò sui particolari: i tessuti, le cravatte, i gilet, ma anche la perfezione nel taglio degli indumenti. L’abbigliamento femminile ebbe una storia del tutto diversa. Nel mondo borghese ottocentesco le donne, private di un qualsiasi compito pubblico, dipendevano dallo status sociale del marito e dovevano ostentare il successo maschile, pertanto diventarono oggetto di spese lussuose, per questo motivo la moda si occupò sempre più delia donna. Le professioni della moda Nei secoli dell’Ancien Régime (=la monarchia assoluta che aveva preceduto la Rivoluzione francese del 1789), nella moda si era praticata una netta distinzione tra momento ideativo e fase di realizzazione: il primo era appannaggio del cortigiano, la seconda di artigiani che mettevano in opera l’oggetto d’abbigliamento, unica fase autonoma era quella della fabbricazione dei tessuti, che richiedeva specifiche competenze professionali e capitali da investire: il tessuto era così costoso da costituire spesso il segno più lussuoso di un abito. Nel corso del XVIII secolo inizia la suddivisione fra chi vendeva tessuti, chi tagliava e cuciva, chi forniva complementi di moda, chi commerciava indumenti confezionati. In questa fase nacque una possibilità per la creatività e la professionalità femminili. La trasformazione delie professioni della moda avvenne su due fronti: quello culturale e quello economico sottolineando l’importanza del sistema del tessile e dell’abbigliamento nello sviluppo di una società moderna. L’Encyclopédie, un Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri apre la via ad una rivalutazione, culturale e morale, dell’artigianato. Essa stila una mappa delle professioni legate alla moda e alla toilette, elencando quelle antiche di secoli e già potenti nel sistema dei mestieri e delle corporazioni, ma anche quelle nate di recente o addirittura non ancora codificate, come il bottonaio, il fabbricante di passamaneria, la ricamatrice, il cappellaio, la sarta, il commerciante di tessuti, la merlettaia, la fabbricante di ventagli, di biancheria, di piumaggio, il parrucchiere, il barbiere, la guantaia, e poi l’arte di fabbricare i tessuti, la produzione della seta. La moda parigina a cui tutte le corti europee guardavano era un’industria che occupava migliaia di persone e che già cominciava a servire un pubblico più allargato rispetto a quello della nobiltà di corte, un mercato che richiedeva forme di approvvigionamento nuove. Le corporazioni Il sistema delle Arti e dei Mestieri e i Corps mercantili francesi avevano cominciato a subire trasformazioni già alla fine del Seicento. I sarti (tailleurs) corporazione delle couturières, cui era stato riconosciuto il diritto di vestire donne, già prima e era nata la corporazione delle lingeres che avevano il diritto di fabbricare e vendere ogni tipo di tela di lino e di canapa, ma i veri padroni della moda parigina erano stati fino a quel momento i merciers, nei loro magazzini si commerciavano gli oggetti e i manufatti di lusso legati alle più diverse lode (mobili, cineserie, tabacchiere, gioielli e monili, accessori ecc.) e quindi anche a quelle vestimentarie soprattutto, però, la loro intermediazione aveva un ruolo fondamentale all’interno del sistema della moda nei confronti dei fabbricanti, cui trasmettevano i gusti del pubblico affinché fosse possibile indirizzare la produzione. Da questa potentissima corporazione prese forma, alla fine del Seicento, una specializzazione, quella delle marchandes de modes. Le Marchandes de modes Dal 1776 diventa una vera corporazione, Rose Bertin, modista di Maria Antonietta specialista in cappelli e decorazioni del capo, ne fu il primo sindaco. La loro attività comprendeva la vendita di tutto ciò che riguarda le acconciature e gli ornamenti degli uomini e delle donne e che si chiamano gale e guarnizioni Spesso si occupano anche di disporle sugli abiti e “inventano” anche il modo di farlo: in questa parola stava tutto futuro della moda borghese: l’invenzione delle novità cominciava a passare dalla corte a un professionista. La moda e i modelli vestimentari settecenteschi Alla metà del secolo, il modello più diffuso in Francia era la cosiddetta robe à la francaise: era composta da una sopravveste, una sottana e una pettorina. L’apertura del davanti mostrava la sottana, spesso realizzata nello stesso tessuto, e la pettorina. esplicitamente caratterizzati in senso rivoluzionario elaborati dal popolo di Parigi. I segni dovevano essere chiari e diretti, le parole d ordine erano nazionalismo, uguaglianza e libertà, poi repubblica. La borghesia e il popolo di Parigi scoprirono così il potere comunicativo dell’abito, La nuova Francia si rappresentò con il tricolore bianco, rosso e blu che diventò coccarda da applicare sul vestito e tessuto, a righe o a pieghe, con cui realizzare gonne, calzoni, gilet,.. e divenne la divisa dei soldati della Guardia nazionale creata da Lafayette. Uguaglianza Fu contrapposta al lusso, rapidamente vennero sostituiti alcuni segni: alle fibbie preziose per le scarpe si preferirono i lacci, i tessuti di cotone o lana presero il posto di quelli di seta, le acconciature seguirono io stesso processo di semplificazione: comparve la moda del taglio corto e in generale la moda cambiò punto di riferimento: non più la corte, ma l’abito borghese e quello operaio fornirono il modello dei nuovo apparire. Negli anni della Rivoluzione la foggia vestimentaria di base non subì modifiche sostanziali, l’egualitarismo diede un livellamento al basso. La trasformazione fu più evidente nell’abbigliamento maschile con la moda borghese di gusto inglese e le divise dei lavoratori. Dalla prima furono recepiti i tessuti di lana in colori sobri, in tinta unita o a piccoli disegni, i cappelli rotondi e l’eliminazione di decorazioni lussuose. Dalle seconde prese forma la divisa del sanculotto che comprendeva i pantaloni lunghi e informi, la “carmagnola” (=un gilet con file di bottoni di metallo, con panciotto di tre colori e con una fascia rossa) degli operai, gli zoccoli dei contadini. Nell’abbigliamento femminile il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere. Vi erano mise di derivazione popolare composta da gonna, caraco (=giacchetta corta e attillata) e fichu (=scialle triangolare), cui venivano accoppiate fantasiose acconciature. II denominatore comune era la semplicità. L’abbigliamento femminile non era più un vestito di corte né da casa, ma da città, fatto per camminare, per stare in mezzo alla folla, per una quotidianità operosa. Per la prima volta i capelli vennero tagliati corti a la Titus, come quelli degli uomini. Nei mesi del Terrore la società avrebbe dovuto caratterizzarsi con l’adozione di un abbigliamento indifferenziato, venne dato l’incarico dato a Jacques-Louis David, quale maggior artista della Rivoluzione, per la creazione di divise adatte a una società di uguali. Libertà Nel 1793 fu decretata la libertà totale di abbigliamento, la Convenzione sancì il diritto per ciascuno di vestirsi secondo il proprio giudizio anche se si comunicava attraverso simboli, il primo e il più semplice dei quali fu il berretto frigio di panno rosso. Libertà cominciò a voler dire anche mancanza di regole imposte. Le riviste moda registravano novità di ogni genere. Robespierre pur definendosi leader dei sanculotti, non adottò mai il loro costume, le sue preferenze andavano all‘abbigliamento tradizionale e alle parrucche incipriate, alle marsine di seta, la biancheria e alle cravatte, il suo abbigliamento esprimeva una continuità ideale con I élite borghese da cui proveniva. Al contrario Marat si presentava in ogni occasione travestito da popolano, la camicia sporca, aperta sul petto, una sciarpa di madras rosso sulla testa, Danton ricercava l’eleganza, affascinato dai bei vestiti, ha un aspetto da nuovo ricco con suoi abiti colorati, i suoi tessuti preziosi, i suoi merletti, i suoi polsini. Unico obbligo della Rivoluzione l’esibizione della coccarda. La moda Tutti i simboli della Rivoluzione ebbero anche la forma di mode. Le merchandes de modes si occuparono della nuova iconografia che trasformarono in acconciature, abiti, accessori che venivano regolarmente pubblicati daJ “Magasin des modes nouvelles. Solo nel 1791 iniziò a pubblicare modelli dedicati a coloro che non condividevano gli ideali rivoluzionari; la società che stava vivendo la Rivoluzione era molto più quotidiana e frivola rispetto all’immagine che ne dà la storia, una società fatta anche di signore borghesi che stavano adottando un nuovo modello di vita. Nel 1792 fu pubblicato un modello à l’égalité composto di cuffia, fichu, corpetto pierrot e gonna di cotone stampato. Non era la divisa di una società di uguali, ma una delle mille possibilità che ì moda proponeva alla sua clientela. La moda neoclassica La moda del Direttorio Con la caduta di Robespierre finì la fase eroica e ideologica della Rivoluzione. Il Direttorio cominciò con feste e balli per commemorare le vittime, questi rituali trasformarono in mode femminili che avevano il sapore di una nuova ideologia, contraria a quella passata. Capelli tagliati à la victime, scialli rossi, un nastro dello stesso colore incrociato intorno al busto, detto croisures a la victime. In campo maschile i giovani borghesi (jeunesse dorée) cominciarono a indossare indumenti ispirati alla moda inglese, esagerandone gli effetti sartoriali, a portare capelli lunghi e incipriati; l’abbigliamento maschile della borghesia che aveva raggiunto il potere aveva due alternative: quella della divisa militare e quella dell’abito da lavoro, professionale o intellettuale. La tunica femminile Dopo la caduta di Robespierre, le donne cominciarono a indossare abiti diritti di mussolina bianca che ricordavano, da un Iato, la chemise a la Reine e, dall’altro le tuniche classiche di cui erano rivestite le fanciulle e le figure allegoriche. Ma questo candido indumento di cotone leggero era ispirato anche alla pittura di tema storico, romano e greco, di cui David era stato il stato il massimo rappresentante, e il neoclassicismo, nato intorno alla scoperta di Ercolano e Pompei ma anche il teatro. In questo scenario decorativo la figura femminile diventava perfetta accarezzata da un abito bianco che ricordava la tunica antica e avvolta in uno scialle ispirato al mantello delle matrone romane. Quando Elisabeth Vigée-Lebrun aveva dipinto il famoso e discusso ritratto della regina vestita con un abito bianco, la chemise a La Reine si trattava ancora di una moda di élite e non dell’esplosione che avvenne durante il Direttorio. L’abito femminile, eliminate le sottostrutture, si ridusse a una camicia di cotone leggero con la vita alta, segnata da una cintura passata all’interno ad arricciare il tessuto. Ai piedi le signore calzavano dei sandali, in seguito sostituiti da scarpine con i lacci alle caviglie. La nuova moda era caratterizzata dall’assoluta semplicità del modello e dalla sua trasparenza, due cose che mettevano in pieno risalto il corpo femminile, Vi erano tuttavia distinzioni a partire dal tessuto, di lino o di impalpabile mussolina indiana, due materiali dal costo decisamente diverso. Può essere indossato nella sua totale trasparenza e con gli accessori usciti dalle botteghe delle marchandes de modes, oppure essere mitigato e castigato. Poteva essere cucito in casa o realizzato da una sarta. La schiena era sagomata in modo da essere molto stretta, la gonna era arricchita da fitte pieghe sciolte che davano ampiezza al dietro, all’interno era affrancato a una specie di corpetto che sosteneva il seno e impediva che l’abito si spostasse dalla sua posizione. Era inoltre completato da una stola, anche questo accessorio rientrava nella logica del lusso: era solitamente realizzato in tessuti preziosi. Nel 1798 i soldati di Bonaparte di ritorno campagna d Egitto portarono in Francia gli scialli cachemire, infine anche i gioielli tornarono a fare la loro comparsa su tutte le parti nude del corpo femminile. Moda e società Tanta ostentazione corrispondeva in tutto alla cultura del gruppo sociale appena salito al potere, Era impossibile, quindi, pensare che quell’élite potesse accontentarsi di una moda casta e modesta. Le nuove signore dei i parigini che avevano compito di inventare e imporre le novità, seguivano un modello lussuoso, eccentrico, a volte eccessivo, perfettamente coerente con il gusto dell’epoca. Nel 1797, inoltre, avevano ricominciato a uscire le riviste di moda, il ‘Journal des dames” durò fino al 1839. Alla fine del secolo Parigi era tornata a essere il fulcro della moda. La società del Direttorio era fragile, per questo, quando Napoleone, vittorioso in Italia e in Egitto prese il potere fondando il Consolato fu salutato come un salvatore, egli agì per dare una nuova solidità, alla Francia. La moda imperiale La moda come strumento politico Quando Napoleone prese il potere con un colpo di Stato nel 1795 fu visto come colui che avrebbe potuto prendere in mano la confusa società post rivoluzionaria e trasformarla in un vero Staro moderno. Ebbe l’appoggio del popolo, ma soprattutto quello della nuova borghesia arricchita, che sperava di dare un fondamento solido alla posizione di potere raggiunta, e di gran parte della vecchia nobiltà. Si trattava di società diverse, I’una legata alle buone maniere Ancien Regime, ma spesso priva delle ricchezze di un tempo, l’altra composta di banchieri, speculatori, ricca di denaro ma non di cultura. Napoleone cercò in ogni modo di amalgamarle. Moda e mondanità furono utilizzate come strumenti di Stato per raggiungere questo fine, il compito di gestire questo processo culturale fu affidato a Josephine Beauharnais, la sua raffinata moglie. II modo di vestire fu rivisto: il modello a vita alta rimase, ma si vennero abbandonate trasparenze, nudità, aed eccessi deli delle cortigiane del Direttorio. La veste lunga si cominciò a portare semicoperta da una tunica più corta che era completata, per il giorno, dallo spencer, una giacca corta con le maniche lunghe, in tutte le occasioni c’era l’intramontabile scialle cachemire. Gli uomini indossarono di nuovo l’habit a la francaise con le culotte corte. La vita mondana della capitale riprese e il ritorno alla normalità favoriva anche la produzione di moda, che sì arricchì di nuove invenzioni. L’imperatore, riprendendo il modello di Luigi XJV, ripristinò la logica del fasto promuovendo feste e occasioni mondane di ogni genere e imponendo un consumo sfrenato. Lo stile ’Impero’, che si manifestò in tutte le realizzazioni napoleoniche, stabilì anche le regole della moda imperiale, che rimase sostanzialmente uguale a sé stessa fino ai 1815. Il revival neoclassico continuava col modello di base: l’abito femminile a vita alta rimase invariato per vent’anni, sopra di esso potevano essere sovrapposti altri indumenti come spencer, canezou, redingote, douillette, negli accessori e nelle acconciature il percorso fu lo stesso: ai capelli corti all’antica si aggiunsero mille fogge di cappelli e di stivaletti. Nuove mode nascevano spesso intorno alle campagne militari dell’imperatore. Il ‘grand habit’ di corte La reintroduzione dei cerimoniali di corte richiese un modello vestimentario e di apparato adatto agli eventi ufficiali. Per gli uomini si tornò all’habit a la francaise che rappresentava la separazione fra spazio quotidiano spazio cerimoniale, per le donne NapoIeone optò per un’immagine moderna e per la vita alta Assunto il titolo di imperatore nel 1804, venne dedicata tanta cura all’allestimento della cerimonia dell’incoronazione, la scenografia fu affidata a David, i costumi furono disegnati da Isabey: Napoleone indossò una tunica di raso bianco, ricamata in oro e bordata di una frangia, e un pesante mantello di corte in velluto porpora foderato di ermellino, ai piedi portava un paio di scarpe ricamate in oro, con un diadema a foglie di alloro, lo scettro, la mano della giustizia. La stessa cura fu dedicata all’abito di Josephine, con cui si intendeva ripristinare la tradizione dei grand habit dell’Ancien Regime, il vestito a vita alta dell’imperatrice era di raso bianco broccato d’argento, ricamato in oro e completato con una frangia. L’elemento che lo trasformava in grand habit di corte era però il manto di velluto porpora, foderato di ermellino e ricamato in oro, che si allacciava alle spalle con due bretelle. Diffusione e professioni della moda Tutta la moda imperiale fu un affare di corte e come tale venne inventata e diffusa soprattutto dalla famiglia imperiale Quando poi le giovani donne della famiglia Bonaparte diventarono regine di varie corti europee si trasformarono in ambasciatrici della moda francese in tutto l’impero. Le loro corti si modellarono su quella di Parigi, di cui l’immagine della nuova aristocrazia imperiale divenne presto un modello di riferimento internazionale. La diffusione capillare delle mode si basò ancora su riviste e produzioni a stampa dei figurini. II vero comunicazione dello stile Impero in Francia all’estero fu “Le Journal des dames et des modes”. Josephine era affiancata dal gusto delle più raffinate nobildonne, ma anche dall’abilità di sarti, parrucchieri un prezzo certo e non più contrattabile, liberamente visibile anche da chi non era immediatamente intenzionato a comprarla, ma il dato fondamentale era quello dei prezzi: non più un mercato di lusso con prezzi esagerati dalla rarità dei beni, ma, grazie alla produzione industriale di serie per soddisfare quantitativi di merce adeguati ad una richiesta allargata e di livello medio, con costi decisamente più bassi rispetto ai prodotti artigianali. La confezione La vera grande novità di questa fase della società borghese fu la confezione. Gli abiti degli uomini e delle donne delle classi sociali più alte continuarono a essere confezionati da tailleur e couturier i cui modelli venivano pubblicati sulle riviste. Ma la media e piccola borghesia era impossibilitata, per motivi economici, a servirsi degli stessi fornitori e rifiutava di ricorrere ai mercato dell’usato in voga tra gli operai. Nel 1824 Pierre Parissot creò un’impresa, la Belle Jardiniere per vendere indumenti maschili, confezionati in serie e nuovi, destinati all’inizio unicamente al lavoro. La serializzazione riguardava soltanto il taglio delle pezze mentre la cucitura doveva essere ancora realizzata a mano, fu dagli anni quaranta che la realizzazione di abiti pronti ebbe un vero sviluppo. I mestieri legati alla confezione rimangono artigianali ma si organizzano con sarti, confezionisti e tagliatori radunati in un atelier per il taglio del tessuto e in seguito affidati per la finitura (guarnizioni, bottoni etc), a operai che lavorano a domicilio. La confezione femminile, invece, riguardò solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo. I magasins de nouveautés proponevano accessori costosi e all’ultima moda (come scialli di cachemire o di altre stoffe, mantelli, giacche corte a bolero) a un mercato di signore ricche ed eleganti. La produzione di indumenti pronti non riguardò l’abito intero che le signore preferivano far realizzare su misura da una sartoria di fiducia. Dagli anni quaranta l’industria tessile cominciò a realizzare e commercializzare pezze stampate già pensate in funzione del modello finale -> i produttori alsaziani di stampati inventarono la robe de Paris, un taglio di quindici o diciotto metri da mettere in vendita in una scatola accompagnato da una litografia e uno schizzo che indicava la maniera di tagliarla. I grandi magazzini Dal 1850 vi fu un vero e proprio boom economico di dimensioni mondiali. Esposizioni universali i avevano il compito di mostrare al mondo intero la forza produttiva del capitalismo, l’industria metallurgica aveva trovato nella costruzione della ferrovia una perfetta forma di consumo della propria produzione. Anche la distribuzione richiedeva reti diverse di cui si fecero carico i Grandi Magazzini: dal prototipo parigino del Bon Marché (1852) la loro diffusione fu inarrestabile; le imprese cominciarono da subito a ingrandirsi approfittando della grande trasformazione urbanistica fino ad arrivare a occupare interi quartieri. Essi riducevano il margine di profitto dei singoli articoli per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e dei capitale. Fino agli anni settanta l’oggetto principale della vendita di tali imprese commerciali fu la moda, nelle sue diverse accezioni di tessili, indumenti, biancheria e accessori, in seguito comparvero mobili, vasellame, giocattoli, ecc. Funzionavano attraverso le regole dell’ingresso libero, nessun obbligo di acquisto e restituzione della merce. Si rivolgeva soprattutto alla buona signora borghese, educata al risparmio e alla morigeratezza, attirando la clientela con l’imponente struttura e le spettacolari esposizioni interne. Pubblicità e riviste di moda La pubblicità veniva fatta utilizzando i mezzi più diversi: dalle vetture per la consegna a agli striscioni appesi alle facciate fino a mezzi moderni come i cataloghi e le riviste, che raggiungevano i clienti lontani e favorivano le vendite per corrispondenza. I cataloghi pubblicati dai grandi magazzini avevano uscite stagionali ed erano in alcuni casi, allegati a importanti riviste di moda. Lo sviluppo della stampa di moda era stato reso possibile dalla diminuzione costi degli abbonamenti, ma anche da un crescente interesse nei confronti della moda, le riviste di moda erano destinate o alle donne o ai professionisti dei diversi settori come sarti da uomo, acconciatori ecc. Oltre ad un approccio tecnico, si occupavano anche di problemi quotidiani, di educazione, di buone maniere. Vi lavorarono anche letterati di fama, come Balzac e Mallarmé. Immagini e iconografia della moda L’elemento che differenziava questa stampa erano però i figurini che richiedevano professionisti specifici come illustratori ma vi lavorarono anche molte donne, il caso più noto è rappresentato dalle sorelle Colin, che seppero tradurre in immagini anche gli ideali di bellezza e di lusso della metà del secolo. L’iconografia più comune prevedeva una figura umana, la modella era utilizzata per trasmettere gli ideali di bellezza in voga e per mostrare l’abito che indossava: lo scopo era la visibilità del vestito, il figurino serviva come guida per la scelta dei materiali e dei colori, per il taglio, per l’effetto finale. Negli anni quaranta alcune riviste cominciarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato per fornire alle lettrici indicazioni non solo sull’abito, ma anche sul modo e l’occasione per indossarlo. Questa nuova iconografia di ‘realismo idealizzato’ un realismo lieve, che presentava un mondo di signore perbene, che vivevano lontane dalle contraddizioni e rispettoso dei riti della società ordinata. La capacità di scegliere I magazzini cominciarono a selezionare le proprie offerte in ragione di tipo di clientela: i Grands Magasins du Louvre si specializzarono in una moda lussuosa e conformista destinata alle signore della buona borghesia, mentre il Bon Marché mantenne un carattere più provinciale, il printemps scelse un carattere più giovane e alla moda, tuttavia continuavano a prosperare le sartorie e il lusso e le maison di moda più esclusive, che fornivano tessuti, accessori e confezioni la clientela, più importante e raffinata: la nobiltà e l’alta borghesia sia francese sia internazionale. Tutti potevano accedere, senza alcun vincolo di carattere sociale, alle merci esposte nel le vetrine acquistare qualsiasi cosa senza altre costrizioni oltre al proprio gusto e alla propria capacità di spesa. La cultura borghese, però, mostrava una contraddizione: il desiderio di mostrare il livello raggiunto e la contemporanea paura di eccedere nell’ostentazione. Ai livelli più alti della società ci si serviva dalle grandi sartorie, facendo uso di una competenza che i ceti aristocratici ancora conservavano, ma il denaro era sempre più in mano alle nuove élite borghesi che non disponevano di questa capacità di gusto. Da qui si fece strada la figura del commesso che, dall’interno del grande magazzino, assunse il compito di guidare e interpretare le esigenze della cliente, si cominciò a passare a un rapporto fiduciario nei confronti di qualcuno che, per professione, s intendeva di abbigliamento e proprio per questo poteva dare consigli. In quel momento Charles Frederick Worth fece il suo ingresso i mondo della moda parigina. Charles Frederick Worth (1825-1895) La parabola dell’inglese Charles Frederick Worth da commesso di un grande magazzino di tessuti e guarnizioni a riconosciuto creatore dell’haute couture parigina è esemplare: nel 1838 inizia a lavorare nei negozi londinesi in Regent Street. Nel 1845 a soli vent'anni è già pronto per l’avventura parigina dove viene assunto come assistente alle vendite da uno dei più importanti magasins de modes della città dove cominciò a introdurre la prima innovazione: quella di presentare i capi utilizzando come modella una commessa del reparto la bella Marie Vernet, che sarà sua futura moglie, musa e modella. Realizzò per lei semplicissimi abiti con la crinolina che vennero richiesti anche le signore dell’alta società attratte dall’idea di acquistare indumenti già fatti, purché fossero alla moda e lussuosi come quelli che ordinavano dalle loro sarte. Presto nei reparti del magazzino fecero quindi la loro comparsa le prime nouveautés confectionnées. La Maison Gagelin ottenne riconoscimenti sia all’esposizione universale di Londra del 1851 che in quella di Parigi del 1855. Entrato dapprima in società con Gagelin, nel 1858 il sodalizio si sciolse e Worth creò una nuova società: la nuova Maison offriva servizi diversi: innanzitutto vendeva stoffe, ma soprattutto proponeva abiti esclusivi progettate da Worth anche con varianti di colori e tessuti che venivano confezionati su misura secondo le modalità imposte dalla creatività del couturier. Fu questa la nascita dell’haute couture. La società del Secondo Impero II mondo che cominciò a rivolgersi a Worth era quello del Secondo Impero, il regime bonapartista di Napoleone III instaurato in Francia dal 1852 al 1870 dopo il colpo dì Stato del 1851 e che esercitò un potere fortemente autoritario e antiparlamentare in cui la classe dirigente governava una società di borghesi famelici e senza scrupoli che avevano costruito enormi ricchezze in tempi rapidissimi. Esso ruotava intorno alla nuova corte e ai gusti dell’imperatrice Eugenia. Anche la moda si adeguò a questo gusto e per tutti gli anni cinquanta si impegnò a segnalare il lusso e la ricchezza attraverso i metraggi di tessuto necessari alia realizzazione dell’abito femminile. La crinolina assunse proporzioni sempre più esagerate per adeguarsi al desiderio di revival (e di ostentazione) che percorreva la società parigina. La moda di Worth Worth proponeva vestiti più semplici rispetto a quelli che uscivano dalle mani delle couturieres di lusso. Abiti in cui tessuto e forma erano sempre strettamente correlati e in cui il taglio si incaricava di costruire una struttura perfetta, su cui poteva essere applicata ogni sorta di decorazione senza intaccare la vestibilità del capo. Realizzò un modello da sera dall’aspetto lieve e romantico: il tessuto pesante con cui era realizzata la gonna era coperto di tulle di seta, che risultava ancora più lussuoso per il raddoppiamento dei tessuto. Egli completò il suo successo nel 1860 quando grazie alla moglie Marie Worth riesce a conquistare la moglie dell’ambasciatore prussiano a Parigi, principessa Pauline de Metternich e da lei nientemeno che l’imperatrice Eugenia di Montijo. La sposa di Napoleone III di Francia era una delle maggiori icone di stile del Secondo Impero e divenirne il sarto di corte ufficiale nel giro di due anni è un fatto tangibile di talento. L’interesse suscitato nell’imperatrice aprì al couturier la porta dell’alta società, che cominciò a frequentare la Maison e segnò il suo definitivo successo. A questo punto gli era sufficiente che le dame di corte e l’imperatrice adottassero un modello perché questo diventasse di moda. Worth divenne fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice, a questo punto poteva permettersi di uscire con proposte davvero innovative: la prima venne creata appositamente per Eugenia che nelle sue passeggiate era messa in difficoltà dalla lunghezza e dall’ingombro delle gonne: Worth creò per lei un abito il cui orlo si fermava alla caviglia, con una sottoveste corta e una sopravveste drappeggiata. Una seconda innovazione ebbe un grande peso nello sviluppo della moda; Worth, infatti, intervenne sulla forma della crinolina, che ormai era talmente diffusa da richiedere costanti aumenti di dimensione per qualificare lo status delle classi alte. Anziché continuare ad aggiungere Worth la ridusse drasticamente sul davanti, spostando l’ampiezza sul dietro che assunse la forma di un breve strascico, La diminuzione di tessuto nella gonna fu compensata con l’adozione di un elemento decorativo: una sopragonna lunga fino ai ginocchio, che fu chiamata tunica. In seguito la crinolina si ridusse ulteriormente trasformandosi in un sellino di crine rigido, la tournure Il cui successo decretò il definitivo tramonto della crinolina e che ebbe il risultato di modificare la silhouette femminile: il davanti cominciava ad aderire al corpo e il dietro si avviava ad assumere e sostenere forme decorative sempre più complesse. Dal Secondo Impero alla Terza Repubblica Negli anni settanta il panorama politico francese mutò, la vecchia classe dirigente venne spazzata via dalia guerra prussiana e Parigi fu sottoposta a un duro assedio tuttavia la capitale francese continuava a essere il centro della moda. La borghesia era cambiata: chiedeva di trovare nuove forme di lusso per esibire il denaro conquistato e il potere raggiunto con le immagini grandiose dell’antica aristocrazia. Il passato diventò sempre più di moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore di drappeggi e decorazioni rappresentò il passaggio fra il Secondo Impero e la Terza Repubblica. Il couturier ridusse il busto con un effetto di vita alta, definito “Josephine” a favore della gonna e delle sue decorazioni. Nello stesso periodo, Worth propose anche un tipo di abito totalmente nuovo la Princesse, concepito per le dame della corte di Eugenia, abito dalle lunghe maniche cucito in un unico pezzo, con il punto vita che non è segnato da cuciture ma da pinces verticali che fanno aderire l’abito alla cintura e mettendo in risalto il busto e i fianchi. Dalla struttura della princess all’abito delle origini si diffuse in ambiti culturali molto lontani e diversi fra loro: dalle tuniche che avvolgevano le danze libere di Isadora Duncan fino all’artista catalano eclettico Mariano Fortuny che rielaborò il modello del chitone (=tunica greca senza maniche); e lo tradusse in una tunica, il “Deiphos” di straordinaria bellezza. La sua ricerca intorno al tema classico si estese ai sistemi di taglio degli indumenti orientali o etnici e alla creazione di tessuti adatti a una loro traduzione in termini estetici, egli aveva creato qualcosa una vera alternativa all’abito con il busto e le sottogonne. I futuristi Il primo decennio del nuovo secolo vide nascere un'altra forma di ricerca artistica che affermò sé stessa attraverso l’opposizione dura al modello culturale borghese: quella delle avanguardie che scelsero per esprimersi l’intervento violento e provocatorio. Il gruppo futurista comunicò la propria idea della modernità e dell’arte attraverso un manifesto pubblicato su un quotidiano francese a cui che altri che riguardarono tutti i campi d’azione della nuova ideologia. I miti futuristi erano la metropoli, la macchina e la tecnologia e significavano una rottura totale con le estetiche del revival che aveva caratterizzato il secolo precedente. Venne toccato anche il modo di vestire, in particolare quello maschile. Gli artisti futuristi adottarono il colore e l’asimmetria, prima sotto forma di calzini colorati spaiati, poi di cravatte variopinte e di indumenti dall’aspetto inusuale. Il pittore Balla dettava i nuovi precetti dell’abito futurista, non una moda ma una vera e propria forma estetica adeguata ai mondo del futuro. Ciascuno era libero di cambiare l’aspetto esteriore di un indumento attraverso i modificanti, elementi geometrici di tessuti e colori diversi forniti insieme al capo, da applicare a piacere. La ricerca di questo movimento d’avanguardia si dedicò soprattutto all’abito maschile in modo più teorico che concreto infatti le realizzazioni ebbero scarsissima diffusione. Costruttivismo e rivoluzione russa La Russia postrivoluzionana aveva il sogno di costruire un mondo e una società completamente nuovi. L’obiettivo del dopo 1917, però, non era più scandalizzare i borghesi, ma piuttosto creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più i segni della distinzione sociale. Ciò richiedeva anche un ripensamento di tipo produttivo: non più piccoli numeri destinati a un élite, ma una produzione industriale di massa. La Russia non aveva una tradizione nel campo della confezione: si cominciò con la creazione di laboratori e scuole, dove elaborale i progetti del nuovo modo di vestire e formare i professionisti che avrebbero potuto metterne in atto la produzione. Si volevano creare, con stoffe a buon mercato, abiti estremamente semplici, ma di buon taglio, adatti alle nuove esigenze lavorative. L’obiettivo era il ricongiungimento dell’arte al lavoro materiale e produttivo, come aveva affermato Lenin, “l’arte appartiene ai popolo”. Sarte e artiste come Lamanova considerata una delle migliori designer nella storia della Russia, che fondò la scuola russa di moda ed influenzò Poiret, elaborarono, ciascuna secondo la propria sensibilità questi obiettivi. Tessuto e stampa furono i mezzi attraverso cui sviluppa la loro ricerca in campo artistico. La ricerca si rivolse all’abito produttivista da lavoro. Le divise della nuova società si differenziavano in base alla funzione, ma anche ali appartenenza. Tuttavia l’arretratezza del sistema produttivo sovietico non consentiva una vera produzione e i progetti rimasero in gran parte irrealizzati. Nonostante ciò, molte delle idee elaborate nella prima fase rivoluzionaria trovarono la strada della moda attraverso la produzione delle maison parigine. Gli artisti e la moda parigina degli anni venti La prima guerra mondiale portò una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fece sempre più diritta, il taglio si semplificò in modo deciso. La sartoria degli anni venti coinvolse spesso gli artisti. In particolare le nuove forme d’arre e il gusto dèco, che si diffuse con grande rapidità, la nuova concezione della decorazione dell’abito, sia come disegno e sia come applicazione a ricamo. Thayaht, la tuta e Madeleine Vionnet Thayaht nel 1920 propose la tuta, una risposta al costo proibitivo dei tessuti che aveva provocato “l’assoluta impossibilità di cambiare i vecchi vestiti con qualcosa di nuovo e di fresco”. Un indumento intero composto da camicia, e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura progettato secondo uno schema geometrico semplice ma molto rigoroso, che privilegiava la bidimensionalità del tessuto piuttosto che le forme del corpo da rivestire. Insieme alia versione maschile, Thayaht propose una tuta da donna: una sorta di camicia da uomo allungata, con una parziale abbottonatura sul davanti e le maniche corte, da indossare con la cintura stretta in vita. A Parigi Madeleine Vionnet aveva organizzato la propria Maison “come un’industria” in cui Madame Madeleine aveva il di progettazione sartoriale dei modelli, mentre una serie di collaboratori si occupavano di proporre spunti e idee, di inventare motivi decorativi per tessuti e ricami, di progettare accessori e complementi, di preparare i disegni. La sua maison nel 1919 si arricchì della collaborazione di Thayaht, conosciuto nel lungo soggiorno in Italia durante la guerra, che seppe magistralmente interpretare la “filosofia Vionnet” e darle un’immagine coerente: i due cominciarono a lavorare sulla forma della tuta femminile, le donne chiedevano abiti comodi. Pensato dapprima come robe d’aviation, e poi come abito da tennis, il modello della tuta fu presentato nella sfilata del marzo 1922 in forma di abiti interi, di completi di giacca e di tailleur confezionati non con l’economica stoffa di cotone ma con raffinati e costosi tessuti essa diventava un abito un po’ snob. Sonia Delaunay Sonia Delaunay, un artista russa che aveva sposato in seconde nozze Robert Delaunay e con lui si era dedicata al cubismo, l’arte astratta e soprattutto alla ricerca sui colori simultanei. Durante un lungo soggiorno in Spagna nei primi anni venti la Delaunay aprì Casa Sonia, dove disegnava, fabbricava e vendeva vestiti e tele simultanee, ricami, tappezzerie, accessori di moda, come borsellini, cappelli, parasole e ombrelli, oggetti per interni. Tornata a Parigi nel 1922, cominciò a realizzare abiti simultanei per un ristretto gruppo di intellettuali e collezionisti. Dominio incontrastato di Sonia rimase però l'arte dell'arazzo e del tessuto, che essa rinnovò profondamente sostituendo alle decorazioni tradizionali dei motivi geometrici di sorprendente intensità cromatica, tipici della sua pittura. La sua novità riguardò solo parzialmente l’abbigliamento: la forma diritta e semplificata dell’abito degli anni venti era perfetta per questo tipo di lavoro: non tagliava i disegni e consentiva ai colon di creare sempre nuovi effetti dinamici sul corpo in movimento. Paul Poiret (1879-1944) Gli esordi Poiret nacque nel 1879 da un mercante di stoffe in una zona povera di Parigi, per assicurarsi un futuro imparò l'arte della costruzione degli ombrelli. Durante l'adolescenza, Poiret portò i propri bozzetti a Madeleine Cheruit, un'importante stilista, che ne comprò alcuni. Poiret continuò a vendere i propri disegni ad alcune fra le più grandi case di moda parigine, fino a che non fu assunto da Jacques Doucet nel 1896. Presto fu incaricato di dirigere la sezione di taglio, dopo alcuni esperimenti, come quello di una mantella abbottonata sulla schiena di cui si realizzarono quattrocento esemplari, Doucet gli affidò la realizzazione di costumi di scena per alcune attrici clienti della Maison fino all’incarico di realizzare i costumi maschili che Sarah Bernhardt doveva indossare in Laiglon. I rapporti con la diva del teatro francese furono difficili e Doucet decise di licenziarlo. Jean-Philippe Worth gli affidò allora il delicato compito di rinnovare l’immagine della Maison con creazioni più giovani e adatte alle signore del nuovo secolo. I suoi tentativi non ebbero successo perché la clientela di Worth era ancora affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami e quindi il rapporto si concluse presto. Maison Poiret Nel 1903 Paul Poiret aprì la sua prima Maison, per attirare l’attenzione delle possibili clienti utilizzò la vetrina per creare esposizioni spettacolari, che presto furono talmente note da diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. La sua moda nacque sotto il segno della semplificazione e dell’innovazione delle linee che seguivano le fogge di moda, ma prive di decorazioni e fronzoli. Fondamentale per il suo percorso professionale fu la pubblicazione sulle riviste di moda di "Révérend", un mantello-kimono bordeaux, foderato di chiaro e decorato a motivi cinesi che segnò l’inizio dell’influenza orientale. Sposò Denise Boulet figlia di un commerciante di tessuti che in breve diventò la sua musa ispiratrice e una delie donne più eleganti di Parigi. Dopo aver espanso il suo atelier, l'anno seguente mise a punto la sua prima vera sfida alla moda dominante: eliminò il busto, che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea ad S, e lo sostituì con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna e la conseguente eliminazione di quasi tutta la biancheria che fino ad allora si colloca sotto le gonne. I nuovi abiti, morbidi e leggeri lasciavano spazio alla sola camicia. L’ispirazione neoclassica L'ispirazione nasceva dalla moda neoclassica, ma il suo percorso creativo fu estremamente più complesso di un semplice revival degli anni del Direttorio. Il risultato fu un modello dritto, a vita alta, in cui la tradizione settecentesca fu abbinata a suggestioni orientali ed etniche sia nei materiali innovativi sia soprattutto nei colori e stoffe. La gamma dei toni pastello rappresentò un nuovo inizio con rosa cipria, lilla, malva, I azzurro pallido delle ortensie, i verdini, i giallini. II modello chiave della collezione prese il nome di “Joséphine”, quello che più esplicitamente dichiarava l’ispirazione Impero, ma Poiret realizza una serie di capi dalla chiara ispirazione esotica come la tunica “Cairo”, il modello “Eugénie”. Realizzata la grande trasformazione negli abiti, Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo adatto per comunicarla, e così diede vita, nell'ottobre del 1908, a Les Robes de Paul Poiret racontèes par Paul Iribes, un album contenente 10 tavole a colori disegnate da Paul Iribe e caratterizzato da un linguaggio grafico molto simile a quello presente nella stampe giapponesi. La novità non era però solo di ordine stilistico ma anche le figure femminili rappresentate erano diverse: alte, sottili, senza forme evidenti o artefatte, con i capelli corti avvolti da un nastro, colorato in armonia con l’abito. L’immagine Poiret La sua moda divenne anche il fondamento dell’immagine grafica ed inoltre nel 1909 trasferì la sede della Maison in un hotel particulier che venne ristrutturato e arredato in maniera da diventare l’adeguata cornice dei modelli che il couturier presentava alle sue clienti. L’orientalismo Tra il 1909 e il 1910 Diaghilev organizza a Parigi la prima stagione dei suoi dei Ballets Russes, dove partecipa anche il pittore, scenografo e illustratore russo Bakst: sarà un successo senza precedenti ma ciò che colpì maggiormente gli spettatori occidentali fu la rivoluzione effettuata nella presentazione dei balletti in cui i danzatori erano vestiti con costumi mirabolanti al posto dei classici tutu e calzamaglia: molti notarono una straordinaria somiglianza fra i costumi dei nuovi balletti e i modelli di Poiret. In questi anni diede vita alla jupe entravèe, una gonna lunga e diritta che veniva serrata con una specie di cintura alle ginocchia che ne ostacolava il passo e alla prima jupe culotte, pantaloni da harem da portare sotto una tunica lunga al polpaccio. La donna a cui si rivolgeva era una signora del "bel mondo" che non doveva avere alcun rapporto concreto con la vita reale. Egli l'aveva liberata nel corpo, ma non nel ruolo. Un'immagine di donna colta, raffinata, erotica e nata per il piacere maschile. Odalische e non femministe le donne destinate ad indossare i suoi capi. L’impressione venne confermata dai secondo album pubblicitario che raccoglieva le immagini degli ultimi modelli, l’immagine di lusso che ne derivava era legata ad uno stile scioccarono. Attraverso la rete di amicizie di Balsan, Chanel formò la sua prima clientela. Sostenitore dell’iniziativa era stato un nuovo amico di Etienne, Arthur Capel (detto Boy), un uomo d’affari inglese che lei considerò l’uomo fondamentale della sua vita. Gli anni 1910 e 1911 segnarono il primo successo; le riviste cominciarono a pubblicare i suoi cappelli indossati da attrici famose ma la pubblicità maggiore venne dai cappelli indossati da Gabrielle Dorziat sulle scene del teatro, l’attrice era considerata una specie di arbitro della moda parigina. Nel 1913 si recò in vacanza a Deauville, in Normandia dove parigini e londinesi si recavano per la villeggiatura. Come ai tempi dell’imperatrice Eugenia, cavalli, casinò, barche a vela e negozi di moda erano gli appuntamenti e Gabrielle e Boy intuirono che quello poteva essere il luogo in cui iniziare una vera attività di moda. Boy le finanziò l’apertura della sua prima vera boutique situata nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi ma le loro esigenze erano un po’diverse: gli sport stavano entrando a far parte dello stile di vita vacanziero, inoltre a Deauville fu ispirata dai marinai al lavoro, Chanel reinterpretò il loro abbigliamento, realizzando dei maglioni diritti e comodi col medesimo scollo, che lei stessa indossava. Poi cominciò a produrre capi da vendere nella boutique: marinare in maglia, pullover, blazer di flanella copiati da quelli di Boy. La guerra Nell'estate del 1914 scoppiò la guerra e molte famiglie facoltose parigine si rifugiarono a Deauville dove Chanel era l'unico negozio di abbigliamento rimasto aperto, su consiglio di Boy. Le mogli dei soldati dovettero rifarsi il guardaroba non solo vacanziero, inoltre molte di loro si impegnarono in opere di volontariato per assistere feriti e Chanel seppe offrire capi di vestiario che in quella situazione si presentavano pratici e adatti alle esigenze. Passata la paura dell’invasione tedesca fece ritorno a Parigi dove molte signore borghesi scoprirono a una serie di libertà mai sperimentate prima, cominciarono a frequentare i bar degli alberghi rimasti aperti. Lì Chanel seppe trarre vantaggio anche da questo: il suo negozio, vicino al Ritz, divenne un momento di appuntamento quotidiano. Sull'onda del successo di Deauville nel 1915 Chanel e Boy decisero di ripetere l’esperimento aprendo anche sulla costa atlantica della Francia, lontano dalle linee del fronte, a Biarritz, al confine con la Spagna neutrale. Ma questa volta con maggiori pretese: aprirono una vera e propria maison de couture che fu collocata in una villa, posta di Fronte al casinò. L’impresa Chanel nel 1916 contava trecento lavoranti: paradossalmente la Francia non ridusse la produzione dell‘haute couture parigina durante la guerra, al contrario il governo comprese che la moda e la sua strutturi produttiva potevano sostenere il bilancio del paese con l‘esportazione e con consumo diretto. Il problema era rappresentato dai materiali che scarseggiavano ma Coco Chanel acquistò dall'industriale tessile Jean Rodier una partita di jersey lavorato a macchina, col quale iniziò a realizzare i suoi capi fornendo una qualità diversa, eliminando le lavorazioni inutili, le decorazioni non indispensabili e i virtuosismi sartoriali in favore di un assoluta semplicità: l’eleganza veniva dalia funzionalità e dall’adeguatezza alla situazione. Anche la stampa si accorse di lei e pubblicò vari articoli con i suoi abiti tra cui uno con gonna a pieghe, che ormai si era accorciata al polpaccio, accoppiata a un blazer con quattro tasche applicate chiuse con ribatta bottone, che denunciava chiaramente di essere ispirato a una divisa militare, anche se era realizzato in jersey. Anche il ricco mercato americano venne raggiunto. La moda del dopoguerra Al termine della prima guerra mondiale, durante la quale Chanel aveva imposto la sua presenza sul mercato, nasce il prototipo della garçonne, che Chanel stessa interpretò appieno, caratterizzato da una figura androgina e snella, che nasconde le curve femminili, con un taglio di capelli molto corto. Ai modelli In jersey cominciarono ad aggiungersi abiti da sera più fantasiosi realizzati in tessuti usuali e femminili come il raso, il velluto, lo chiffon e, nel 1920, anche il pizzo Chantilly. Nel frattempo Capel aveva sposato una giovane nobile per rafforzare la sua posizione sociale, tuttavia Capel e Chanel continuarono la loro relazione fino al 1919 quando l’amante morì in un incidente stradale. Gli artisti e le avanguardie Fu in quegli anni che Chanel fece la conoscenza di Misia Sert, la donna che la introdusse nel mondo degli artisti e degli intellettuali, pianista di origine polacca, aveva fatto il suo ingresso nel mondo dell'arte in seguito al suo matrimonio con il fondatore della rivista d'avanguardia, Revue Blanche. Grazie a questa amicizia, Chanel poté fare la conoscenza degli artisti internazionali che animavano Parigi come Paul Morand, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Max Jacob e Igor Stravinsky e cominciò a capire le loro idee e quello che stavano facendo per rinnovare la cultura occidentale. A Venezia fu presentata a Diaghilev, il fondatore dei Ballets Russes. Da lì ebbe inizio il suo coinvolgimento nella vita teatrale: nel 1922 Jean Cocteau le affidò la realizzazione dei costumi per la sua Antigone. I suoi modelli erano ambientati in una scenografia progettata da Picasso. Nel 1924 Diaghilev commissionò allo scrittore il soggetto per un operetta danzata con Train bleu: i costumi di Chanel erano veri indumenti ispirati a casi reali: la tennista vestita con un completo bianco, il golfista indossava camicia bianca, cravatta, calzoni alla zuava, pullover e calzettoni a righe stile principe di Galles; i nuotatori avevano costumi da bagno di maglia composti da calzoncini corti e canotta sbracciata. Parigi si stava svecchiando e americanizzando, si aveva l’impressione che l’Ottocento fosse finito e il mondo moderno stesse prendendo forma. Il profumo e l’influenza russa Negli anni venti, Coco intraprese un relazione col Granduca Dmitrij nipote dello zar Nicola II, esule a Parigi. Nonostante l’abissale differenza sociale che separava le loro origini, Chanel entrò in un ambiente ignoto, con regole e modelli culturali affascinanti, da cui, ancora una volta, trasse ispirazione per il suo lavoro. Innanzitutto scoprì il profumo: nel 1921 uscì sul mercato il suo Chanel N°5 messo a punto con l'aiuto del profumiere Ernest Beaux, figlio del profumiere dello Zar, emigrato in Francia a causa della Rivoluzione russa. La fragranza era del tutto innovativa gradevole e realizzato artificialmente, la confezione era una semplice bottiglia di farmacia trasparente su cui venne applicata un etichetta bianca con la scritta nera. Nasceva così un nuovo ideale di profumo che prese il nome di N°5 in quanto corrispondeva alla quinta essenza scelta da Chanel. Nel 1924 Chanel entra in società con i fratelli Paul e Pierre Wertheimer, proprietari della casa di profumi e cosmesi Les Parfumeries Bourjois, che acquistarono i diritti sulla produzione di profumi e prodotti di bellezza col marchio Chanel. Negli stessi anni, Coco trasse una vera e propria ispirazione dal suo nuovo compagno, il Granduca Dimitrij, fu colpita dai ricami geometrici e fantasiosi, dall’aria un po’ “barbarica” e dalla roubachka, il tipico camiciotto con la cintura che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale dei contadini russi e dei soldati che lei interpreta trasponendo dall’ambito maschile a quello femminile gli elementi vestimentari più lineari e disadorni, in questo Coco diede anche un significativo contributo al movimento femminista. Chanel aveva inventato “la povertà di lusso”. Nelle collezioni successive l’influenza russa si fece sentire nella produzione di pellicceria. Fra il 1924 ed il 1925 i modelli di Chanel assunsero una linea “a tubo” con la vita bassa, una cintura annodata sui fianchi e una gonna. Nel 1926 presentò un abitino nero, apice del lavoro di semplificazione a cui Chanel sottopose l’abito femminile e che, in sfregio alla regola tradizionale di indossare capi diversi in situazioni sociali diverse, poteva essere indossato in ogni occasione. Stile inglese, gioielli, bijoux La sua ricerca negli anni successivi si concentrò sul tailleur e sull’abbigliamento informale. Lo spunto venne dal guardaroba di un suo amante: il duca di Westminster, di lui Chanel aveva sperimentato Io stile di vita dell’aristocrazia inglese, così, dal 1927 al 1930, le sue collezioni partorirono completi composti da giacca dritta di modello maschile, gonna e blusa coordinata. Chanel crea la nuova donna del XX secolo, una donna che afferma la propria femminilità attraverso la rivisitazione di abiti maschili: stile impeccabile, comodità, tessuti morbidi e piacevoli da indossare. Tuttavia le creazioni di Chanel erano sempre rigorosamente femminili, quando il suo modello ebbe raggiunto il più assoluto rigore Chanel si lasciò andare a concessioni alla civetteria accompagnando i maglioni con gioielli che servivano a decorare e rendere femminile l’abito, non era importante il valore del gioiello che deve restare un ornamento, un divertimento. Nel 1924 Chanel aprì un laboratorio per produrre gioielli falsi, bijoux fantastici copiati da quelli veri, ma esagerandone le proporzioni e i colori. Lo stile degli anni venti Alla fine degli anni venti Io stile Chanel era staro raggiunto: abiti diritti e semplici, giacche e blazer sportivi, colori neutri, materiali morbidi e gioielli finti. Tale stile si era andato costruendo nel tempo e attraverso esperienze diverse sperimentando in prima persona tutte le soluzioni. L’obiettivo era rompere con il passato in un momento in cui la società non aveva ancora modificato il proprio modo di pensare. Le clienti che frequentavano Deauville o Rue Cambon erano signore dell’alta società, quelle che, all’interno di questo gruppo sociale, cominciavano a sentire i segni del cambiamento e ad avere voglia di dare una svolta alia propria esistenza. Questa era stata la prima fase, quella della rottura che prendeva la forma della distruzione del vecchio. Superato questo periodo di rottura si cercò di elaborare un linguaggio positivo, uno stile maturo. La stessa cosa avveniva nella produzione industriale che, terminata la fase pionieristica, si avviava verso un nuovo modello produttivo, come nel caso dell’automobile. Chanel applicò tutti questi modelli alla ricerca nel campo dell’abbigliamento femminile tenendosi costantemente fedele al principio della funzionalità: per questo la interessarono sia i capi sportivi che quelli maschili. Nella moda femminile tutto era assoggettato ai sistema del lusso e dello sfarzo, in cui l’unico elemento di differenziazione era l’occasione cui l’abito era destinato: la variazione riguardava solo i materiali e le decorazioni. Quando Chanel ristrutturò gli immobili di Rue Cambon per ingrandire I’atelier, realizzò uno spazio neutro fatto solo di specchi, una scena adatta ad abbellire o incorniciare i suoi abiti in un gioco di riflessi che li mostrava nei particolari. II suo abito non è dì per sé un segno di distinzione, ma la distinzione stava nel saperlo portare, nell’essere abbastanza giovani e moderne da essere chic. Lo stile Chanel era Io stile di vita individuale della stessa stilista, quella che riempiva i rotocalchi con le sue straordinarie storie d’amore che frequentava il ‘bel mondo’ che riceveva nella sua casa gli artisti più famosi e particolari. Il cinema e l’America Il 29 ottobre 1929 l'America assistette al crollo di Wall Street e le ripercussioni si ebbero anche in Europa, l’America era diventata non solo povera, ma anche austera: questo significava che I’haute couture parigina rischiava di perdere la sua vera clientela, quella americana. Chanel si accorse di questo e capì che lo stile di vita del nuovo decennio non sarebbe nato né a Parigi né in Europa, ma negli Stati Uniti, in particolare capì che per affrontare il futuro bisognava studiare lo strumento di comunicazione dello spettacolo che stava cambiando il modo di pensare del mondo: il cinema, che raggiungeva in brevissimo tempo una grande quantità di spettatori. All’apice del successo, quindi, Chanel nel 1931 accettò l’offerta di Samuel Goldwyn di vestire le sue dive nei film e nella vita privata, con il compenso di un milione di dollari l’anno. L’obbiettivo era ambizioso: Chanel doveva preparare abiti che, due anni dopo, all’uscita del film in Europa, non risultassero fuori moda. Si trovò ad affrontare un nuovo tipo di figura femminile già emancipata, il successo fu incredibile. Quest’esperienza le fece capire che il sistema della moda era ormai un fatto complesso e i compiti dell’haute couture erano la previsione e l’invenzione creativa, il mercato della moda era basato ancora su una clientela che poteva pagare questo lusso, però per questo pubblico nuovo era necessario inventare cose nuove senza l’aspetto austero ricercato negli anni venti. Chanel cominciò da qui, sviluppando un progetto di Aveva ormai acquisito una solida esperienza e decise così di impiantare nel 1912 una sua Maison, sostenuta anche finanziariamente da due clienti: Madeleine fu protagonista di una storia di donne, condotta al servizio delle donne, per valorizzarne la cultura, la capacità creativa e la bellezza. Nei primi anni furono fatti pochi modelli basati su un tipo di indumento diritto e scivolato sul corpo che non richiedeva busto. Allo scoppio della guerra Vionnet chiuse I’atelier e per la seconda volta partì, soggiornò a lungo a Roma da dove tornò nel 1918. Lo sbieco e la geometria Tornò con nuove idee che le derivavano probabilmente dallo studio delle statue greco-romane, si cominciò a parlare di robe a la grecque: desiderava abbandonare crinoline, revival, modelli maschili, pantaloni ecc. che avevano furoreggiato nel lusso prebellico. Cercava soprattutto un equilibrio ben calibrato tra il corpo e l’abito, affermando il principio della semplicità: dopo averli provati meticolosamente su un manichino, mise assieme modelli composti di pezze di tessuto, triangolari, quadrate o circolari, tagliate in diagonale e sospesi alle spalle in modo da ricadere lungo il corpo: in tal modo reinventò lo “sbieco”, ossia il tessuto posto a 45° rispetto alla trama e all’ordito. L’abito così ottenuto risultava composto da pannelli drappeggiati, piegati, pieghettati, annodati, che creavano effetti di lucentezza ed aderivano al corpo per l’elasticità e il peso della stoffa, solitamente raso, crêpe de chine, georgette. Ma se l’aspetto esteriore dei suoi capi poteva far pensare alla classicità greca, la loro struttura nascosta derivava da matrici del tutto diverse: la chiave segreta dei suoi modelli era la geometria. Madeleine Vionnet sperimentava e costruiva i suoi abiti su di un manichino di 80 cm, circa metà delle dimensioni effettive, per poi riprodurre il risultato nelle misure reali di una mannequin. Talune creazioni però richiedevano tessuti realizzati appositamente per lei in altezze oggi improducibili proprio per l'utilizzo del tessuto in sbieco. Le chiavi del nuovo abito diventavano quindi due: la materia tessile e il corpo, entrambi ‘liberati e cioè valorizzati nelle loro potenzialità espressive. Orli, cuciture, tasselli dovevano essere studiati in modo da non contrapporsi al naturale andamento della stoffa e non provocare effetti disarmonici. La ricerca dell’armonia Proporzione, armonia, perfezione erano gli obiettivi finali di un lavoro che usava il tessuto come materia scultorea. Quegli ingegnosi tagli “triangolati” stimolavano il suo animo futurista, tutti i movimenti d’avanguardia che si ponevano come obiettivo quello di rappresentare la costruzione nascosta e razionale del reale, come il futurismo, il cubismo e l’astrattismo, era presente lo studio di una struttura geometrica armonica che restituisse all’arte il suo compito di ricerca della perfezione. Nel 1925, all’Expo parigina, i futuristi si resero conto quanto delle loro idee era stato ripreso e sfruttato dalle sartorie francesi. La sua maison si arricchì della collaborazione di Thayaht, un giovane fiorentino conosciuto nel lungo soggiorno in Italia durante la guerra, che seppe magistralmente interpretare la “filosofia Vionnet” e darle un’immagine, iniziando dal celebre logo: un peplo greco inserito in una spartitura geometrica, sintesi di classicità e modernità. Ed ancora Marie-Louise Favot (detta Yo) che si specializzò nell’invenzione di disegni per il ricamo. A Thayaht venne affidata anche l’esecuzione delle tavole pubblicitarie per “La Gazette du Bon Ton”, ma anche un contributo alla fase progettuale delle collezioni. Così nel 1922 nacque la versione haute couture della tuta femminile che Thayaht aveva inventato due anni prima. Nel 1921 la Maison Vìonnet sperimentò la struttura proporzionale della pittura greca attraverso il ricamo, provando a usare la superficie del vestito come fosse stata quella di un vaso da dipingere. Un’altra suggestione che la ricerca artistica fornì a Madeileine Vionnet era una nuova rappresentazione della struttura basato sul rapporto delle proporzioni. Tutto convergeva in una ricerca artistica che studiava I essenza delle forme per originare un nuovo modello di armonia e di bellezza. Scelse di progettare le sue opere utilizzando un manichino di forma umana le cui misure non corrispondevano a taglie reali, ma rispettavano le proporzioni. Lavorando in sinergia con le aziende tessili, Madeleine Vionnet si fece realizzare stoffe con altezze maggiori che meglio si adattavano allo sbieco o che riprendevano tecniche antiche come quella del broccato “a tonneaux”. Il ricamo, tanto di moda a quell’epoca, venne usato come un elemento connesso all’abito e non come una decorazione. Determinati elementi, come la rosa in tessuto attorcigliato su se stesso o il nodo furono utilizzati per sottolineare una curva o una scollatura. Le frange, di gran moda negli anni Venti e Trenta, erano cucite in modo da lasciare fluidità al tessuto, formando volute, spine di pesce, zampilli. Nella sua apparente semplicità l’abito era in realtà estremamente complesso ed elaborato: la geometria dei vestiti di Vionnet costituì quindi un’innovazione assoluta, rivoluzionò la tecnica sartoriale. La ricerca sullo sbieco e la geometria si svolse in modo graduale. Nelle collezioni fra il 1921 e il 1922 Vionnet ricercò soprattutto gli effetti di caduta: dallo studio dei pannelli appoggiati sulle spalle o appesi in altri punti dell’abito, liberi o annodati, alle balze più o meno lunghe, dai petali alle frange, dai nodi fino alle sue famose rose. 50, Avenue Montaigne La proposta di moda di Vionnet venne accolta positivamente sia sul mercato francese che in quello americano. Presto I’atelier di Rue de Rivoli divenne insufficiente e nel 1922 fu acquistato di un hotel particular in Avenue Montaigne; nel realizzare la nuova sede si diede grande importanza, oltre all’aspetto estetico, alla sua funzionalità come luogo di lavoro: innovatrice anche per quanto riguarda i suoi dipendenti, introdusse migliori rapporti contrattuali, migliori condizioni di lavoro, mense, nursery, piccoli ambulatori medici attrezzati, una cassa di soccorso per malattie garantiva gli operai che avevano le ferie pagate, mentre per le donne erano previsti congedi di maternità. Nel 1927 istituì anche un corso di formazione per apprendisti a cui veniva insegnato l’uso dello sbieco. Il copyright Per difendere giuridicamente la sua produzione dalla dilagante contraffazione, inoltre, depositò il copyright dei suoi lavori in 72 album e fece pubblicare su “Vògue” e l’Illustration un comunicato in cui spiegava il modo per riconoscere gli originali attraverso l’etichetta che portava la firma e l’impronta digitale della couturier. Prèt à porter Il successo di Vionnet fu immediato tanto che nei 1925 fa aperta una succursale a Biarritz, specializzata in abiti per le vacanze e per lo sport, e soprattutto si aprì al mercato americano formando una nuova società finalizzata alla vendita di abiti a taglia unica, un’assoluta novità nel settore dell’alta moda nata dall’esigenza della clientela statunitense di acquistare capi confezionati, ma questi esperimenti non ebbero seguito, i tempi non erano ancora maturi perché l’alta moda potesse fare il proprio ingresso nel mercato del redy-to-wear. Vionnet non perseguì la logica di altri couturiers per commercializzare prodotti diversi, il suo obiettivo fondamentale fu sempre l’abito. Stile anni venti Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono; la linea si fece più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Scomparvero le sovrapposizioni, i petali e tutto quello che aumentava il volume dell’abito. II nuovo ideale di bellezza femminile veniva dagli Stati Uniti ma Vionnet non seguì la tendenza ma la interpretò ammorbidendo il parallelogramma con Io sbieco, montando le frange a lisca di pesce, giocando con i ricami e con i disegni geometrici fatti con intarsi che modificavano la caduta del tessuto. Vionnet non faceva nulla per essere un personaggio alla moda: non frequentava il gran mondo, non conduceva una vita pubblica, non compariva mai. Gli anni trenta Dagli anni ’30 la geometria dei vestiti di Vionnet costituì un’innovazione assoluta, rivoluzionò la tecnica sartoriale e conquistò sia il mercato francese sia quello americano: è indubbio che le molli e sensuali vesti a “coda di sirena” che stampavano seno e fianchi influenzarono il costume delle dive americane. Negli anni successivi, sull’onda del successo, i suoi abiti diventarono più sensibili al gusto hollywoodiano: dalla vita spesso alta partivano larghe gonne in tessuti lucidi; il velluto era rasato in alcuni punti per creare particolari elementi di luce e per scolpire le vesti attorno alla persona. Mentre le arti visive abbandonarono Io stile di rottura delle avanguardie e si dedicarono a nuove ricerche che furono spesso indicate con il termine neoclassico, anche la moda adottò linguaggio classico: il fisico modellato e sportivo degli anni venti venne preso a simbolo di una bellezza statuaria, tempo, il sistema di taglio di Vionnet si stava evolvendo: ad una costruzione basata sulle forme geometriche semplici seguì un gioco d intrecci più complesso basato su uno studio approfondito di tutto quello che permetteva un taglio aderente. La gonna ampia Dal 1934 fu una svolta nella produzione che inaugurò uno stile più romantico, utilizzò il merletto per arricchire i modelli delle cappe, delle giacchine e delle maniche. Vogue pubblicò la moda della nuova stagione e rappresentò lo stile Vionnet attraverso un vestito dalla gonna larga coperta da file di volant. Infaticabile sperimentatrice Vionnet adottò inoltre la pieghettatura a raggiera su taglio circolare. Madeleine collaborava con le più grandi aziende tessili, tra cui Bianchini-Ferier che gli fornì il crepe Rosalba, una particolare seta mischiata a una fibra sintetica. Altri tessuti, come il broccato “a tonneaux”, realizzato con una tecnica antichissima fu fornito da Ducharne. Vionnet inventò nuove tecniche di decorazione, furono reinventati procedimenti di tintura usando bagni di differente intensità di colore per le diverse parti dell’abito. La collezione della primavera del 1939 fu l’ultima della Maison Vionnet prima di essere messa in liquidazione e chiudere definitivamente allo scoppio della seconda Guerra mondiale Madeleine morì nel 1975 a 99 anni. Elsa Schiaparelli (1890-1973) Una giovinezza inquieta Le donne che crearono la moda fra le due guerre avevano origini completamente diverse: Chanel proveniva dal sottoproletariato dei venditori ambulanti e degli orfani, Vionnet dalla piccola borghesia più modesta e provinciale, Elsa Schiaparelli aveva alle spalle una situazione familiare estremamente privilegiata. Nasce a Roma nel 1890 da una famiglia di intellettuali di origine piemontese, sua madre proveniva dall’aristocrazia napoletana discendente dai Medici. Inizia a viaggiare sin da giovanissima. Lungimirante, eccentrica e d’indole irrequieta, colta e affascinante, con velleità da scrittrice, che la famiglia stronca dopo la pubblicazione di una discussa raccolta di poesie erotico-amorose, inizia il suo percorso creativo nell’alta sartoria un po’ per caso un po’ per necessità, divenendo una delle figure più importanti della moda anni Trenta e di tutti i tempi. Infatti da New York, con una figlia e in seguito al fallimento del suo matrimonio, si reca a Parigi nel 1924. L’atmosfera anticonformista e mondana della capitale francese la colpì profondamente. Elsa ricominciò lì la sua vita in ristrettezze economiche, tuttavia un’amica la portò all’atelier di Paul Poiret, noto non solo per creare abiti che non costringevano più il corpo ma anche per essere uno scopritore di nuovi talenti e grazie all’incoraggiamento dello stilista inizia la sua folgorante carriera. Cominciò così a “inventare abiti” e scelse invece il settore sportivo che negli anni venti stava aprendosi alla partecipazione femminile. Lo sport e la maglia Negli anni venti che la cultura del corpo e l’attività sportiva divennero una moda diffusa, l’esplosione dell’eleganza sportiva trovò il suo modello in Suzanne Lenglen, la famosa tennista che aveva aggiunto un tratto atletico alla silhouette sottile. La sua attività ebbe inizio nel 1925, grazie a un finanziamento che le permise di comprare una piccola sartoria dove far realizzare le proprie creazioni, ma la prima vera collezione, fu lanciata due anni dopo nel suo appartamento, essa era composta di maglieria dai colori vivaci ispirata al futurismo, abbinata a cardigan e a gonne in crepe de Chine, calze e sciarpe. un tailleur nero con le tasche rifinite da bocche rosse, completate da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso. Questo abito descriveva chiaramente la fissazione sessuale di Dalì, che nel cappello rivedeva il simbolo fallico, che veniva completato dal simbolo sessuale femminile rappresentato dalle bocche decorate sul tailleur. Accanto alla produzione d’abbigliamento sportivo e accessori, continuò la vendita dei suoi profumi: Salut, Souci e Schiap del 1934, Shocking del 1937, il cui flacone fu disegnato da Léonor Fini sulle forme del busto di Mae West. Il nome ricorda il colore simbolo della sua maison il rosa shocking, che impiegava per le sue confezioni, per i rossetti e per alcuni dettagli e accessori delle sue collezioni. La moda, l’inconscio, l’immaginazione poetica Considerava il corpo della donna e la forma dell’indumento come pagine bianche su cui scrivere il flusso delle fantasie che sorgevano spontaneamente nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema; immagini isolate e precise, che nella loro libera sequenza ricostruivano il suo immaginario, come si era costruito nel tempo, attraverso esperienze diverse. Per accostare queste immagini alla realtà degli abiti e qui le venne in aiuto il ricordo di Marchel Duchamp e i suoi ready-made. Schiapparelli scelse lo stesso sistema: le figure si aggregarono sui suoi modelli senza alcun senso preciso che non fosse quello della sua fantasia e della sua immaginazione, creando favole che raccontava alle donne. Nel ’38 nacque la prima collezione che seguì questo criterio, dedicata al circo. Per la prima volta una sfilata ebbe le caratteristiche di uno spettacolo, nella boutique di place Vendome gruppi di acrobati facevano i loro numeri entrando e uscendo da finestre e vetrine. La novità era nella decorazione che diventava una sorta di gioiello sul capo. I cappelli si adeguarono alla linea generale e furono piccoli feltri conici ispirati ai pagliacci, cappellini con la piuma, finte galline da accompagnare a bottoni a forma di uova. Successivamente creò le collezioni su altri temi: in “paienne” (pagana) esplorò il mito della natura, ispirandosi alla primavera di Botticelli, in “cosmique” ispirata ai temi dello Zodiaco fece emergere tutto lo splendore della natura celeste. La sfilata del ’39 si articolò attorno al tema della maschera ispirandosi alla commedia dell’arte con i suoi personaggi come Colombina, Arlecchino o Pierrot. Non è da escludere che il tema della commedia dell’arte fosse stato scelto come metafora della sensazione psicologica che la gente comune aveva di fronte alla situazione politica generale. La guerra La collezione dedicata allo commedia dell’arte fu l’ultima in cui si espresse il desiderio di Elsa di studiare il profondo significato dell’abito femminile, fece ancora due sfilate: una collezione “revival”, che modificava la linea dell’abito attraverso il rigonfiamento artificiale della parte posteriore e un’ultima collezione-sfilata sul tema della musica, per alleggerire un’atmosfera ormai pesantissima. Cercò anche di allestire la boutique di Place Vendome, simboleggiando la pace attraverso un grande globo terrestre cosparso di colombe. La guerra scoppiò e negli anni seguenti non ci fu più né il tempo né la voglia di dedicarsi al linguaggio e alla ricerca. Per scelta politica decisa di non chiudere l’atelier. Dopo l’inizio della guerra mise in atto una collezione pratica, ricca di grandi tasche, utile per scappare in fretta. Inoltre c’era l’abito che da corto diventava lungo, tirando semplicemente un nastro, quindi portabile anche di sera. Era una moda utile che non rinunciava alla femminilità. In quel periodo circolavano i nuovi ricchi e ciò cambiò la qualità della clientela e ebbe influenza sul suo stile: spalle larghe, vite sottili, gonne e giacche corte, pettinature complicate. Subito dopo l’invasione, Elsa partì verso gli Stati Uniti per raccogliere medicinali e fondi per i bambini della zona non occupata. Contro il parere di tutti tornò per portare a termine la sua missione e riprese a lavorare, ma presto dovette fuggire per evitare di essere catturata dai nazisti. Riuscì a tornare di nuovo in America dove, per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della situazione francese, tenne conferenze, organizzò concerti e mostre collaborando anche con Marcel Duchamp. Nel ’46 Schiap tenta di ricominciare da dove aveva interrotto il lavoro, ricercando i collaboratori del passato ma I tempi erano cambiati e la società che emergeva dalle tragedie della guerra, era totalmente diversa: la moda d’avanguardia degli anni ’30 non era più adatta. La risposta all’emergente ricca borghesia internazionale la diede Dior nel 1947 con il nuovo “New Look” mentre l’interesse nei confronti dell’alta moda di Schiap sembrò diminuire, infatti nel 1954 ritenne che la sua avventura fosse terminata e chiuse l’atelier. Nel 1973 Elsa morì nel sonno all’età di 83 anni. Christian Dior (1905-1957) La passione per l’arte Era nato il 21 gennaio 1905 a Granville sulla Manica, elegante stazione balneare. La sua famiglia proveniva dalla buona borghesia dell’epoca: uno zio ministro, il padre ricco commerciante nel campo dei fertilizzanti e la madre elegante figlia di avvocato. Era il secondogenito di cinque figli allevati secondo i princìpi di una perfetta educazione, ma dimostrava inclinazioni singolari, soprattutto un precoce talento per il disegno, tuttavia quando annunciò di voler entrare all’Accademia di Belle Arti, si scontrò con il netto rifiuto dei genitori. Trasferitosi con la famiglia a Parigi nel 1911 Christian Dior si sentiva attratto dalle vibranti novità. Era l’epoca del bar Boeuf sur le Toit, dei Ballets Russes, delle gallerie d’arte astratta, luoghi di incontro di un pubblico elegante con un mondo artistico di cui Jean Cocteau era la guida incontrastata. Dior entrò a far parte di una piccola banda di giovani geniali: pittori come Christian Bérard, musicisti come Henry Sauguet e il Gruppo dei Sei, letterati come Maurice Sachs. Anche lui studiava musica, si interessava di pittura, frequentava le avanguardie. Nel 1928 lasciò i suoi studi e convinse suo padre di finanziare l’apertura di una piccola galleria che con discreto successo vendeva pitture avanguardiste di Picasso, Cocteau, Braque. Disegnatore di moda Nel 1931 dopo diverse disgrazie familiari: la morte di uno dei suoi fratelli e di sua madre, la tubercolosi che lo colpì e la grande depressione che aveva messo in una cattiva situazione finanziaria la sua famiglia, egli dovette chiudere la galleria; l’unico settore che resisteva era la moda e per sopravvivere, Dior si dedicò a vendere i suoi schizzi alle case di alta moda, ma presto trovò lavoro come assistente del couturier Robert Piquet dove lavorò per alcuni anni, provò a proporre idee originali e a inventare un suo stile, che incontrò un certo successo. Collaborò anche alla pagina di moda di “Le Figaro”. Dior, la guerra, l’haute couture Nel settembre 1939 scoppiò la guerra, Dior partì e vi restò fino al 1940 quando decise di ritirarsi in campagna, molte maison avevano trasferito la loro attività sulla Costa Azzurra, mentre a Parigi la situazione era ancora dura per i divieti di esportazioni e gli approvvigionamenti limitati, tuttavia un certo numero di case di moda, riuscirono a produrre anche se con delle restrizioni. La composizione sociale delle signore che frequentavano gli atelier era variata. Accanto al bel mondo parigino, formato da ricche dame dell’alta società o da attrici di teatro o di cinema, vi erano poche straniere e un gruppo di nuovi ricchi che avevano fatto fortuna speculando sulla guerra ed erano disposte a sperperare fortune per ostentare la propria ricchezza. Al suo ritorno, lavorò insieme a Pierre Balmain nella maison di Lucien Lelong, che nonostante la guerra, riuscì a rimanere aperta. La capacità inventiva di creatori e modellisti risentì della difficoltà del periodo e della povertà dei materiali con cui si doveva lavorare e le proposte dagli atelier non si differenziarono molto da quelle della moda di strada: gonne corte e spalle larghe a cui si contrapponeva un unico elemento di fantasia: il cappello. Rimaneva uno spazio di sperimentazione nel cinema nella creazione dei vestiti di scena dei film in costume. Dior ebbe la possibilità di ricercare una silhouette femminile opposta quella dell’atelier Lelong. Il busto che stringeva la vita ed esaltava il seno, le gonne gonfiate con la crinolina, gli strati di tessuto per dare sostegno alle ampiezze, i drappeggi. Il “Theatre de la Mode” Qualche anno più tardi dopo la fine della guerra, Parigi tornò ad essere la capitale mondiale del fashion. Il grande ritorno avvenne nel 1945 con il Théâtre de la Mode, una “sfilata” itinerante a scopo benefico con più di 150 bambole di filo di ferro vestite con abiti haute couture realizzati dalle case di moda francesi. Dior e Boussac Mentre lavorava come modellista da Lucien Lelong, Christian Dior nel 1946 ebbe un incontro casuale con il magnate del tessile Marcel Boussac che sta cercando di rilanciare la Maison Gaston et Philippe. Il giovane Dior diventa però per Boussac una risorsa non tanto per rilanciare una vecchia maison, ma per creare una casa di moda innovativa, capace di produrre raffinati capi di Haute Couture destinata a vestire una clientela privilegiata e ristretta. L’8 ottobre 1946 Christian Dior costituisce la Maison che porta il suo nome in cui il ricco industriale apporta il suo capitale all'azienda ma è lo stilista l'unico al comando. È l'inizio di una nuova era: quella dello stilista creatore. Avendo carta bianca, Christian Dior sceglie i suoi collaboratori più stretti tra cui Raymonde Zehnacker e direttrice dell'atelier e la sua amica d'infanzia Suzanne Luling che dirige i saloni di haute-couture. La Maison Dior Organizza il suo atelier all'insegna di un lusso sorprendente e finalmente il 16 dicembre 1946, lo stilista inaugura con il suo team l’hôtel particulier al numero 30 di Avenue Montaigne. La decorazione è in uno stile neo-Luigi XVI nei toni del grigio pallido e del bianco. Mentre si lavorava alla collezione procedeva febbrilmente l’attività di promozione, la Parigi che contava parlava del nuovo astro nascente ed anche le granai testate come “Vogue” e “Harper’s Bazaar”, la cui caporedattrice Carmel Snow aveva assunto l’impegno di rilanciare la moda francese. Venne anche costituita una società per i profumi con il nome della nuova griffe: Dior decise di chiamare il nuovo profumo Miss Dior. La restaurazione del lusso: il New Look Nel febbraio 1947 durante le sfilate della primavera, rivela al mondo il suo stile dedicato a un nuovo modello di donna che rinasce, dopo i tempi di austerità della guerra, a nuova vita e a nuova eleganza: il primo modello a sfilare si chiama "Acacia", e presenta un busto aderente, vita stretta e gonna lunga fino a metà polpaccio. Seguono i modelli con le gonne ampie della silhouette "Corolle". Le linee degli abiti Dior sono femminili, le creazioni sono ideate per valorizzare chi le indossa e si ispirano al secondo Ottocento, con qualche richiamo al Settecento e per enfatizzare le curve ricorre all’aiuto di un accessorio da tempo dimenticato: il corsetto. Dior offriva una nuova immagine femminile fatta di lusso e costruita attraverso la quantità dei materiali utilizzati ma anche di scomodità, di difficoltà di movimento, un abito fatto per apparire più che per agire, ritorna all’utilizzo di sete tinte in filo come taffetas, faille, satin duchesse. È Carmel Snow, redattrice capo di Harper's Bazaar e madrina della sfilata, a battezzare questa nuova moda lanciata da Dior, chiamandola "New Look", un nome che verrà poi adottato dal mondo intero. II completo Bar è il più applaudito e la sua silhouette architettonica si impone come l'emblema del New Look. La costruzione della giacca in shantung di seta avorio, con collo stretto e falde arrotondate, è affidata a Pierre Cardin, allora responsabile dell'atelier tailleur. La sfilata ebbe un grande successo e la giornalista Bettina Ballard, direttrice di Vogue, annunciò: "Abbiamo assistito ad una rappresentazione teatrale come nessuna maison de Couture aveva mai fatto." La seconda collezione confermò la linea New Look accentuandone le caratteristiche. Tra questi fece scandalo l’abito Diorama con una lunghezza e ampiezza delle gonne ottenuta con incredibili metraggi di tessuto, la circonferenza all’orlo era di quaranta metri. Obiettivo dì Dior e di Boussac era la clientela americana in cui il benessere riconquistato dopo la grande depressione si era esteso alla media e piccola borghesia, creando un nuovo tipo di consumatore: la società Le sartorie delie grandi città avevano riaperto i battenti, alcuni dei nomi famosi nel periodo prebellico erano stari sostituiti da imprese giovani ma tutte in sintonia con lo spirito di rinnovamento e rilancio del paese; è sintomatico il caso della sartoria Ventura, la più famosa ed esclusiva degli anni venti la cui sede romana fu acquistata da Gabriellasport e quella milanese da Germana Marucelli. In questa prima fase molte delle sartorie fecero ricorso a fonti creative eterogenee ed occasionali ma nel corso del decennio iniziarono contratti di esclusiva che legarono alcuni designer a una singola casa di moda, tuttavia per buon parte degli anni cinquanta l’alta moda italiana fu fortemente ispiratala alla cultura sartoriale francese. Gli Stati Uniti costituivano il principale cliente e alla produzione italiana veniva riconosciuto il merito di fornire sia alta moda e abiti da sere finemente confezionati a prezzo ridotto che sportswear di gusto europeo. Moda, boutique e accessori Nel caso degli articoli di boutique e gli accessori veniva riconosciuta alle case italiane a una competenza artigianale di primissimo piano che andava adattata al gusto americano. Accanto ad aziende, come Ferragamo e Gucci che già producevano per esportare nacquero nuove imprese che devono il loro successo alla collaborazione tra antica nobiltà e alta borghesia con artigiani, tra questi negli anni trenta la marchesa Olga de Gresy (Mirsa) per la maglieria e nel dopoguerra Giuliana Coen Camerino (Roberta di Camerino) per le borse. Il caso più noto resta quello di Emilio Pucci che in dissesto finanziario aveva cominciato a disegnare e produrre sandali e abitucci in alleanza con gli artigiani di Capri; nel giro di poco tempo riuscì a elaborale uno stile originale per lo sportswear fatto di capi semplici e facilmente riproducibili, caratterizzato da una grande fantasia di modelli e colori. La proposta del gruppo di raffinati creatori di moda, tra cui Pucci che aveva studiato negli Stati Uniti e conosceva il modo di vestire degli americani, era un tipo di abbigliamento che aveva le caratteristiche funzionali dello sportwear, con capi semplici e molto portabili, rivestiti di un contenuto artigianale e di gusto. Tessuti italiani La stoffa era l’unica merce del settore moda che veniva prodotta in modo industriale, in distretti specializzati: la seta prevalentemente in Lombardia (Como), il cotone, la lana e poi gli artificiali e i sintetici in Lombardia, Piemonte (Biella) e Veneto. Gli aiuti alleati si concentrarono dapprima sulla fornitura di materie prime, poi, furono messi a disposizione i mezzi necessari per rinnovare macchinari e programma. Un ruolo fondamentale nello sviluppo del settore fu svolto dalia SNIA Viscosa che promosse l’organizzazione di sfilate di moda a Venezia, allo scopo di promuovere nuovi tessuti artificiali. Nel 1953 fu concluso un accordo che prevedeva la creazione di un rapporto privilegiato fra ogni casa di moda e un’industria tessile: ciò favorì il dialogo sia sulla pane creativa dei due settori sia su quella tecnica; infatti i sarti potevano lavorare con materiali esclusivi di primissima qualità, mentre al contrario i tessutai e gli stampatori potevano partecipare direttamente all’invenzione della moda. La promozione della moda italiana L’inventore del sistema che mise in relazione in modo organizzato e professionale la creatività italiana e il mercato americano fu Giovanni Battista Giorgini. A lui viene attribuito il ruolo di inventore delle sfilate in Italia. Profondo conoscitore del mercato e dei gusti americani, è il primo ad intuire la potenzialità economica dell’artigianato italiano sui mercati internazionali. Il 12 febbraio del 1951 organizza nella sua casa a Firenze un evento per promuovere la moda italiana, il “First Italian high fashion show”. Giorgini si rende conto che nell’ambito della moda, molti sarti vogliono affrancarsi dal gusto parigino, essendo in grado di offrire prodotti competitivi per creatività e qualità così decide di proporre un insieme di collezioni italiane ai “buyers” dei grandi magazzini, giunti in Europa per le sfilate parigine. Anche la stampa presente è rigorosamente selezionata. L’evento ebbe un grande successo infatti venne replicato negli anni successivi dapprima al Grand Hotel di Firenze e successivamente in una cornice più consona per prestigio e dignità: la Sala Bianca di Palazzo Pitti. La comunicazione Il confronto e la concorrenza fra le case di moda, enfatizzati dalla passerella unica nonché le precise richieste dei consumatori americani portarono gradualmente sarti e artigiani a caratterizzare le collezioni attraverso temi o line guida che poi riviste e giornali riportavano nelle loro cronache. Firenze divenne una meta abituale non solo per I buyer, ma anche per I giornalisti di moda italiani e stranieri, nel panorama italiano vi erano diverse riviste specializzate di qualità, come “La donna” e “Bellezza”, mentre le riviste femminili, come “Grazia” o “Annabella” riservarono alla moda uno spazio sempre più importante. I servizi di moda e la pubblicità delie singole case richiedevano ormai un uso sempre più intensivo e specializzato di fotografi, disegnatori ed allo stesso modo si affermò la prima generazione di modelle professioniste. La forma di comunicazione più spettacolare di cui godette la moda italiana fu comunque offerta dal cinema; nel giro di poco tempo Roma divenne una delle capitali dell’industria cinematografica mondiale e le case di moda romane utilizzarono le celebrità e il loro carisma per farsi pubblicità. Le Sorelle Fontana furono probabilmente tra i più abili nel servirsi di questo potenziale. Le Sorelle Fontana salirono alla ribalta internazionale creando l’abito nuziale di Lynda Christian, sposa del “bellissimo” Tyron Power: inoltre l’illusione della “dolce vita” rese indissolubile il binomio cinema e moda. Prét à porter Alla fine della guerra si reimportò un sistema di produzione che era stato inventato in Europa più di un secolo prima che aveva avuto il suo vero sviluppo negli Stati Uniti: la confezione industriale o ready-to-wear Le origini del prèt a porter Il ready-to-wear era un vero e proprio sistema moda progettato da designer che nulla avevano da invidiare ai couturier parigini e articolato in una gamma di offerte estremamente ricca e di alta qualità. Il nuovo modello di consumo cancellava definitivamente quella struttura sociale gerarchica grazie all’adozione di un abbigliamento informale e alla portata di tutti. In Francia l’industria si pose l’obiettivo di creare un prodotto di moda che fosse alternativo all’haute couture e alla confezione di basso prezzo. Per intervenire sulla percezione sull’abbigliamento confezionato si cambiò il nome in Prét à porter. La stampa specializzata cominciò a proporre le collezioni stagionali cercando di guidare le donne verso un gusto diverso da quello elitario dell’haute couture. L’alta moda aveva cominciato a sentire i primi segni di crisi poiché il calo delle vendite non compensava gli enormi impegni di capitale necessari per realizzare i modelli delle sfilate. Dior aveva colto il mutamento di costumi e aveva risposto con una linea di prét a porter di lusso destinata al pubblico statunitense. Nell’Italia anni sessanta le sartorie diedero vita a vere e proprie linee di prét a porter che sfilavano con l’etichetta di alta moda pronta. L’industria della confezione in Italia In Italia non vi era tradizione di produzione di abiti in serie a parte alcuni capi di abbigliamento maschile (camiceria e impermeabili). Il settore mosse i primi passi negli anni cinquanta avendo come riferimento la grande industria americana: anche se gli inizi furono semiartigianali, le aziende si svilupparono presto in quei senso con ampi stabilimenti e grandi quantità di manodopera. Nel 1945 era nata l’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento (AIIA), alla metà degli anni cinquanta l’industria italiana della moda pronta cominciava a essere una realtà concreta. Nel 1955 fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone di Torino la prima edizione del Salone mercato internazionale dell’abbigliamento (SAMIA) che offriva ai produttori la possibilità di confrontarsi con la concorrenza e di venire in contatto con le esigenze di nuovi e diversi mercati. Lo sviluppo di un’industria della moda contribuisce in modo significativo alla modernizzazione del consumo in Italia. A partire dagli anni Cinquanta e nel corso dei decenni successivi, non appena l’industrializzazione comincia a dare i suoi frutti, creando un benessere via via sempre più diffuso con la progressiva espansione delle classi medie, la moda svolge una ulteriore funzione di rinnovamento suggerendo estetiche e modi di fare nuovi, capi d’abbigliamento per occasioni che ora vengono a crearsi nei contesti urbani di lavoro e tempo libero. Era giunto il momento di organizzare in modo più strategico la pubblicità sui giornali e riviste. Nei primi anni sessanta solo alcune grandi aziende cercarono la collaborazione di un designer. La stagione della, grande industria della confezione stava volgendo ai termine: cresciuta nei primi anni settanta attraversò un periodo di crisi negli anni settanta, infatti erano cambiate tutte le condizioni che ne avevano favorito lo sviluppo: la crisi petrolifera provocò un rialzo vertiginoso del prezzo delle materie prime, mentre nuovi stili di vita avevano orientato la domanda di giovani verso un abbigliamento informale fatto di capi semplici, poco costosi e molto diversificati. L’haute couture stava progressivamente perdendo il proprio ruolo di guida del gusto e di laboratorio di tendenze a favore del prèt à porter più giovane e di avanguardia, inoltre la crisi economica degli inizi del decennio provocò una contrazione dei consumi italiani. La moda giovane degli anni sessanta I primi Beatnik (=appartenenti alla beat generation) compaiono negli Stati Uniti intorno al 1950e con loro si verifica la prima manifestazione di una rivoluzione vestimentaria: l’adozione dei blue jeans come abbigliamento da città, fino a quel momento erano stati abiti da lavoro. Intorno al 1958-1959 appaiono i primi stilisti di pret à porter; nell’estate 1965, Courrèges, presenta la grande collezione di moda strutturata e corta che Io rende celebre che darà vita alla Mini a Londra con Mary Quant. Nel 1966 nasce il movimento hippy che porta con sé abbigliamenti folclorici e vestiti di cuoio, gilet e abiti, essi danno origine anche alla moda maxi ma nello stesso periodo appaiono i mini shorts e tutte le mode cominciano a mescolarsi. Il 1971 è l’anno dalla tenuta militare. Dalla moda pop uscirono le grandi novità vestimentarie del decennio: la minigonna femminile e il colore maschile, i capelli cominciarono ad allungarsi. Tutto ciò fu definito la “rivoluzione dei pavoni”. Londra era diventata il centro internazionale della cultura giovanile, e una nuova generazione di stilisti stava creando una moda che veniva venduta in negozi esclusivi concepiti per un pubblico di adolescenti. Mary Quant aveva aperto il primo Bazaar nel 1955 in Kings Road: fu lei a lanciare la moda più famosa degli anni sessanta: un modello decisamente infantile ispirato alle divise scolastiche e alle linee degli anni venti da indossare con calze collant colorate anche in maniera dissonante rispetto al vestito, essa nacque come divisa di una generazione che rifiutava di crescere e che voleva differenziarsi dai modello adulto delle madri. A Parigi si assistette allo stesso fenomeno le boutique si moltiplicarono modificando le loro vetrine e l’aspetto di interi quartieri: le mode traevano ispirazione dagli stili di vita dei teenagers, dai loro miti musicali o cinematografici. “Stile contro couture”: su quest’idea cominciarono a lavorare i giovani disegnatori francesi creando modelli legati fra di loro da un idea moda forte e riconoscibile. Verso la metà del decennio anche I’haute couture cambiò radicalmente e propose uno stile ispirato all’era spaziale, il cui mito stava invadendo l’Occidente. Il futuro divenne fonte d’ispirazione per abiti-architettura’. Cardin, Courreges, Ungaro, Rabanne presentarono collezioni di modelli diritti, privi di riferimenti attraverso cuciture sottolineate, saldature e l’uso di materiali tecnologici assolutamente inusuali. La geometria imperava e rivestiva un corpo femminile asciutto: la raffinata signora degli anni cinquanta era stata abbandonata in favore di una ragazza spigliata, proiettata nel futuro. Pierre Cardin fu il primo ad andare verso una linea pronta, accompagnata da boutique monomarca o punti vendita controllati e sempre più diffusi. Nel 1965 Courrèges presentò nella stessa sfilata haute couture, prét à poter e maglieria, in modo che fosse evidente che si trattava di una unica proposta di moda. Nel 1966 nacque Yves Saint Laurent Rive Gauche, nel 1967 Miss Dior, nel 1968 Givenchy Nouvelle Boutique: il risultato fu una rotale rivoluzione nella figura Parallelamente alla ricerca dello stile procedeva la costituzione di un nuovo modello produttivo. Si trattava di stringere un’alleanza fra l’industria e gli stilisti, La svolta fu rappresentata ancora una volta da Armani, che riuscì a imporre le proprie richieste a GFT (Gruppo Finanziario Tessile) la quale assumeva il ruolo di semplice produttore delle collezioni firmate dallo stilista che si occupava anche della loro comunicazione e della loro distribuzione. Con la stessa filosofia ebbero la possibilità di affermarsi le firme che nel decennio successivo diventarono le chiavi di volta del cosiddetto made in Italy (Ferrè, Versace). Restaurazione anni ottanta Dal punto di vista sociale e culturale la fine degli anni settanta rappresentò un momento di svolta, segnato dal distacco con il decennio appena trascorso. Contemporaneamente si cominciavano a cogliere nuovi comportamenti e nuovi rituali messi in scena da nuovi protagonisti. I giovani abbandonavano le piazze e si concentravano nelle discoteche frequentate da un “beautiful people” composto di celebrità dello spettacolo, della moda e dell’arte; la ricerca di sé si trasferì poi sul corpo con le diete, il jogging, l’aerobica, la danza e la perenne abbronzatura che conferivano un aspetto atletico e sano. Ci fu un ritorno dello stile di vita borghese e il gusto della mondanità: carriera, successo, denaro e potere diventarono le nuove parole d’ordine; la rinnovata esibizione di lusso coinvolse persino il popolo dei giovani. Le seconde linee Nel 1982 Armani si guadagnò la copertina del “Time” e nell’anno successivo il Council of Fashion Designers of America lo premiò come stilista dell’anno. Gli stilisti di punta avevano proposto collezioni spettacolari ispirate all’Oriente. Si trattava di una moda difficile ed estremamente lussuosa, realizzata con tessuti ricercati e con lavorazioni innovative, che sconfinava nell’haute couture. Anche i costi erano adeguati: il prét à porter italiano si avviava a diventare l’abbigliamento dei ricchi. Sempre nel 1982 Armani aveva deciso di non sfilare e di non mostrare alla stampa la sua nuova collezione, motivando la decisione con una riflessione più complessiva sul ruolo del Made in Italy e sul suo futuro, ma contribuì anche l’insuccesso della collezione invernale. Nel 1982 Armani e Galeotti riprogettarono la configurazione dell’azienda che si basava su tre tipi di mercati: quello che già si era configurato negli anni settanta e quello di lusso ed inoltre il mercato dei giovani. Al gruppo torinese GFT venne affidata la produzione di Mani, nata nel 1980, commercializzata come seconda linea, la prima linea, Giorgio Armani, via Borgonuovo 21, assunse un carattere più artigianale ed esclusivo e la sua realizzazione fu affidata a piccole aziende specializzate, per i giovani nel 1981 avevano lanciato la linea Emporio Armani, da vendere in negozi monomarca appositamente creati in cui si potevano trovare dai jeans griffati con il marchio dell’aquilotto fino a collezioni complete. Alla prima linea destinata a un pubblico d’èlite venne attribuito un compito di immagine e di sperimentazione: la sua presentazione si trasformò in un’occasione per comunicare le novità e le lince di tendenza, per dare spazio alle ricerche creative dello stilista sia nei campo progettuale sia in quello dei materiali, per mantenere viva l’attenzione del pubblico sul nome della griffe. Alla seconda linea, al contrario, venne assegnato l’obiettivo della vendita di massa, quindi fu caratterizzata con tessuti meno innovativi e con una produzione decisamente industriale. La linea giovane, pur essendo realizzata industrialmente, ebbe connotazioni più forti e trasgressive e un’immagine che ricercava alti contenuti di comunicazione. Il look e gli stili Era iniziata una nuova corsa alla scalata sociale: i ricchi degli anni ottanta provenivano dal commercio o dal mondo del terziario innovativo e non avevano alcuna tradizione alle spalle. Come era accaduto nell’Ottocento, durante il Secondo Impero, il loro obiettivo era esibire. Si cominciò a parlale di look, ossia di una struttura comunicativa fatta di abiti e oggetti di consumo, capace di costruire l’immagine dell’ostentazione e de! consumo mettendosi ”i soldi indosso”. Dalla collezione per la primavera-estate 1983 tutti si concentrarono nella ricerca di un linguaggio personale. Ferré si impose con una moda sobria, pulita e destinata a una donna colta e raffinata. Krizia propose forme geometriche, Versace si focalizzò sulla traduzione al femminile di capi di abbigliamento maschili e presentò il primo abito in maglia metallica, materiale che sarebbe diventato il simbolo della sua griffe. L’immagine collettiva del made in Italy si articolò in tante proposte di gusto diverse ognuna delle quali corrispondeva a una firma. La battaglia che le donne dovevano combattere per imporsi in un mondo del lavoro sempre più duro e competitivo richiedeva, come aveva intuito Schiaparelli negli anni trenta, che anche l’abito fosse trasformato in un’arma, di conseguenza la parte superiore del corpo fu enfatizzata in maniera esasperata a scapito di quella inferiore. L’abito tornava ad assumere il significato di rappresentazione di un ruolo. La giacca diventò la nuova divisa femminile, come parte di un tailleur, ma anche come indumento basic con una vita propria, da accompagnare indifferentemente con minigonne, pantaloni, bermuda e scarpe con tacchi altissimi. Ogni stilista la interpretò e la variò, stagione dopo stagione, a seconda del proprio gusto e della donna cui riferiva: più o meno emancipata, più o meno aggressiva, più o meno dotata di sex appeal. Il successo del made in Italy Furono gli anni del grande successo: Armani, Biagiotti, Coveri, Fendi, Ferré, Krizia, Moschino, Soprani, Valentino cui si aggiungeranno Gigli e Dolce & Gabbana diventarono i guru del gusto: la loro firma decretava ciò che era di moda e ciò che non Io era, ciò che faceva status symbol e ciò che non Io faceva. L’alta moda fu avvicendata da un casual firmato, fatto anche di magliette, accessori, scarpe ecc. adatto alle diverse fasi della giornata e che rispondeva alla logica del look totale. Si metteva a disposizione di un ceto medio molto allargato la fascia più alta della produzione. Lo stilista aveva sostituito il couturier nel ruolo d interprete i cambiamenti sociali e culturali, la boutique monogriffe sostituì I’atelier del couturier. Come ai tempi di Napoleone III, essere alla moda e farlo sapere, anche in modi vistosi, dava la sicurezza di uno stato sociale raggiunto, il cosiddetto ‘Italian look’ interpretò appieno il desiderio di essere e mostrarsi alia moda articolandosi attraverso un’offerta di modelli e di stili di abbigliamento abbastanza diversificati fra di loro e facilmente riconoscibili: Armani divenne sinonimo di un abbigliamento funzionale e discreto, Ferré lavorò a un’immagine di donna vicina alla tradizione dell’alta moda con spiccata predilezione per le sperimentazioni sui materiali, Versace si specializzò in un abbigliamento aggressivo e provocatorio. Le sfilate assunsero sempre più l’aspetto di show fatti per stupire il pubblico, l’immagine doveva essere sostenuta con tutti gli strumenti di comunicazione disponibili, dalla pubblicità alle pubbliche relazioni. Mode di strada, ricerca di avanguardia, produzione industriale Degli anni ottanta si aggiunsero altre proposte estetiche e culturali: la più spettacolare fu quella dalle mode di strada che portava le rivoluzioni vestimentarie dei gruppi giovanili sulle passerelle di Jean Paul Gaultier a Parigi di Vivienne Westwood a Londra che contribuì a creare lo stile punk, con creazioni stravaganti e provocatorie. Sul fronte opposto, dalla tradizione del più puro sportswear arrivò una tendenza (poi chiamata minimalismo) derivante dal mondo dell’arte secondo cui tutto ciò che viene percepito come superfluo e addizionale all’essenziale viene eliminato, e che nella moda si declina con collezioni che uniscono la semplicità delle stoffe all’avanguardia delle tecnologie di lavorazione dei capi, tagli dalla precisione geometrica maniacale, linee rigidamente strutturate, nero e bianco come colori predominanti, interpretata da Jil Sander, la quale si fa promotrice del motto “Less is More”, e da altri colleghi celebri come Calvin Klein e Donna Karan fino a Prada. I giapponesi introdussero nella moda occidentale princìpi nuovi come l’imperfezione studiata e la ricerca sui materiali poveri, già dai primi anni 70 con Kenzo. Nei primi anni novanta dal Belgio viene l’avanguardia di Martin Margiela che sperimenta un processo di decostruzione e riassemblaggio al fine di sottolineare l'individualità e la personalità di chi indosserà il capo. In contrapposizione a tutto ciò, la moda italiana scelse uno stile massimalista: abiti opulenti, ricercaci, ricchi di effetti revival barocchi e rococò. Vi era un ritorno verso l’haute couture, l’alta moda fatta per pochi, che non bada ai costi e che permette le ricerche più innovative perché il suo ruolo è soprattutto di immagine. Tra il 1989 e il 1990 il luogo del confronto si spostò a Parigi, dove Valentino scelse di sfilare per fuggire dall’asfittica atmosfera dell’alta moda romana, Ferrè fu chiamato da Dior e Versace approdò con la linea Atelier. Solo Armani e Moschino si attennero in modo rigoroso al proprio compito di stilisti legati all’industria. Con la morte di Moschino nel 1994 e l’assassinio di Versace nel 1997, la rottura del sodalizio fra Anna Domenici e Mariuccia Mandelli con l’appannarsi della creatività di Krizia, il difficile rientro di Ferré dopo l’esperienza Dior accelerò la flessione della moda italiana. Tra i grandi degli anni ottanta solo Armani e Dolce & Gabbana riuscirono a mantenere intatta la propria posizione internazionale adeguando le proprie scelte ai cambiamenti culturali e di mercato, anche se, nel gennaio 2005, Giorgio Armani cominciò a sfilare a Parigi con una collezione di haute couture, Armani Prive, per collocarsi a pieno titolo nell’industria del lusso. Vecchi marchi e industria del lusso Nel 2000 il gruppo LVMH acquistò la maggioranza della Emilio Pucci e decise di riproporsi sul mercato utilizzando sistemi basati sulla comunicazione, il marketing e la creatività, ma troppi cambiamenti pregiudicarono la continuità che si voleva dare al marchio. Diverso il caso di Gucci che negli anni ’90 iniziò l’acquisizione da parte di Investcorp, una società d’investimento e dopo alcune difficoltà iniziali il marchio tornò ad imporsi a livello mondiale grazie all’arrivo nel 1994 di Tom Ford come direttore creativo che impose subito una nuova immagine. Il designer texano impose subito una nuova immagine anche grazie ad alcune campagne pubblicitarie che fecero epoca scegliendo come modello lo Studio 54, il locale di New York che aveva segnato l’inizio della disco music; tacchi a spillo, abiti in jersey di seta, inserti a vista su profonde scollature o nudità caratterizzarono il look ricco e aggressivo della donna Gucci a cui si accompagnò un’omologa immagine maschile vanitosa e lussuosa con completi aderenti, pantaloni a vita bassa, molto colore e molto velluto. Negli accessori scarpe femminili di vernice colorata con tacco alto, scarpe maschili dello stesso materiale, tutti con morsetto a staffa argentato, borse iridescenti contrassegnate dal caratteristico manico di bambù e cinture di vernice e fibbie con le diverse versioni grafiche del marchio. Nuove forme di consumo Alla fine del XX secolo l’intero sistema del consumo e della fabbricazione di abbigliamento stava però cambiando ancora una volta in modo radicale. Il nuovo modello di grande distribuzione, sostenuto da una produzione decentrata in paesi a basso costo di manodopera, cominciò a offrire un pronto moda di buon gusto, qualità accettabile e prezzi bassi. Il successo di catene come Gap, Zara, H&M nasceva dai fatto che i consumatori erano sempre meno attratti dall’abito status symbol o di grande qualità, l’acquisto diventa ora legato al piacere di modificare il proprio aspetto con cose sempre nuove e tendenze brevi ed effimere. Il ruolo creativo passa quindi in subordine. Haute couture e industria del lusso: Chanel La diffusione del consumo avevano favorito Io sviluppo di un prét à porter sempre più qualificato e creativo, firmato dagli stessi couturier. Rimaneva la ridotta clientela privata che frequentava atelier di Parigi, ma il vero volume d’affari delle poche maison rimaste era ormai rappresentato dalla profumeria, dalle licenze e dal prét à porter. Nonostante ciò, due volte l’anno Parigi continuava a mettere in scena il grande spettacolo delle sfilate di haute couture con collezioni che comprendevano capi da sera o da gran sogno. L’interesse attorno alle passerelle poteva significare che il potenziale dell’haute couture non era completamente esaurito. Se ne resero conto i proprietari di alcune delie più famose maison parigine che negli anni ottanta tornarono a considerare il tema dei lusso. Karl Lagerfeld e la Maison Chanel Nel 1982 la Maison Chanel annunciò di avere affidato a Karl Lagerfeld il ruolo di consulente artistico per l’haute couture. Egli, che pur aveva iniziato la sua camera nell’haute couture da Balmain, aveva lavorato per La nuova proprietà: da Boussac ad Arnault A partire dal 1970 la casa madre di Dior, il gruppo Boussac, comincia a subire un declino nelle sue attività tessili, registrando perdite sempre maggiori a causa di fattori, quali: maturità raggiunta da quel settore, concorrenza delle importazioni e iniziale diffusione dei materiali sintetici. Grazie alle entrate provenienti dalla sua partecipazione in Dior e alla vendita di Dior Parfums a Moet et Chandon, riesce ad andare avanti ancora per qualche anno, fino a quando, nel 1978 dichiara il fallimento e decide di vendere le sue attività al gruppo Willot; questo, a sua volta, va in bancarotta nel 1981 e nel 1984 l’uomo d’affari Bernard Arnault compra il gruppo Boussac, dismette le attività tessili quindi mantiene Christian Dior Couture e il grande magazzino Au Bon Marchè. Finanza e industria del lusso Per Bernard Arnault, l’affare Boussac-Willot significava il suo coinvolgimento in attività e seriori produttivi completamente diversi da quelli abituali, La successiva acquisizione di Celine e il finanziamento della Maison di haute couture Christian Lacroix furono una conferma del suo interesse nei confronti della produzione del lusso che si completò con l’acquisizione delle partecipazioni in LVMH, un gruppo nato a Giugno del 1987 dalla fusione delle società Louis Vuitton e Moët-Hennessy. Da qui comincia a perseguire una politica di acquisto dei più famosi marchi di lusso in diversi settori, quali: vini e alcolici, orologi e gioielli, pelletteria e prodotti di moda, distribuzione, profumi (tra cui Christian Dior Parfums, riunendola in tal modo alla Christian Dior Couture), questa strategia fa guadagnare ad Arnault il soprannome di ‘re dei beni di lusso ’ da parte del Time. Louis Vuitton si stava trasformando in un marchio che rappresentasse l’idea stessa di lusso, fu progettato un piano di comunicazioni fatto di pubblicità e di pubbliche relazioni, ma anche di idee innovative come quella di sponsorizzare l‘America’s Cup di vela, infine ci fu la scoperta del mercato dell’Estremo Oriente e in particolare di quello giapponese. A questo punto, per rendere più solida la società furono acquisiti altri tipi di prodotti: Veuve Cliquot portò in dote Parfums Givenchy. Il settore diede inizio a un processo di fusioni, acquisizioni e vendite che rivoluzionò l’assetto internazionale di proprietà e dimensioni delle aziende che producevano beni di alta qualità. La Maison Christian Dior Nel 1986 La Maison di Avenue Montaigne, però, non era più quella degli anni cinquanta. L’haute couture era ormai un costo, la clientela si era ridotta, era stato sostituito il troppo fragile e creativo Yves Saint Laurent, ed inoltre il marchio era gravato da un numero eccessivo di licenze, ma soprattutto nel 1984 non vi era più una linea di profumi; il nuovo corso di Dior fu comunicato attraverso due iniziative che intervenivano sull’immagine della griffe: 1) per celebrare il quarantennale della fondazione e della sfilata che aveva lanciato il New Look, nei 1986 fu organizzata la mostra “Hommage à Christian Dior 1947-1957” a cui presenziò il presidente francese, 2) venne rimessa a nuovo la sede storica esprimendo quell’idea di lusso che sarebbe stata la nuova identità della Maison. Gianfranco Ferré Nel 1989 fu annunciato lo stilista che da quel momento avrebbe progettato le collezioni haute couture, prèt à porter e alta pellicceria: Gianfranco Ferré, rompendo la tradizione della maison di avere solo francesi alla guida della casa e questo avrà riflesso anche nello stile delle nuove creazioni. Dopo una laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1969, Ferré fece il suo ingresso nel settore della moda negli anni settanta, ottenendo riscontri come creatore di bigiotteria e accessori, Nel 1978 fondò la sua maison, la Gianfranco Ferré Spa, nel 1986 tentò l’avventura nell’alta moda, sfilando per sei stagioni a Roma. Chiamato dalla Maison Dior per dare quell’immagine di sogno meraviglioso e irraggiungibile che aveva avuto in passato, nel 1989 propose al pubblico la prima collezione haute couture: un omaggio a Christian Dior e New Look, che fu un successo, il risultato più importante fu costituito dal ritorno dei compratori americani. Proponeva un ritorno alle origini con la rielaborazione della giacca del tailleur “Bar” ma soprattutto una sua personale interpretazione del lusso femminile. Si rivolgeva ad una donna raffinatissima per la quale inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante in cui portò alla perfezione i codici del proprio linguaggio: la costruzione architettonica, le asimmetrie, le soluzioni geometriche impreviste, i tagli e dettagli impeccabili; un lusso vistoso, barocco, dispendioso caratterizzò invece la progettazione degli abiti da sera. Il mercato americano apprezzò gli svelti tailleur da giorno, ma rifiutò un abbigliamento da sera adatto solo a eccezionali occasioni mondane. La fine del rapporto con Dior avvenne nel 1996. John Galliano e l’haute couture Azzardando una scommessa da molti ritenuta impossibile da vincere nel 1997 Arnault, per dare un segnale forte circa la volontà di un deciso cambiamento di rotta e di rinnovamento, chiama l'inglese John Galliano, già sperimentato per due stagioni da Givenchy, al timone di Dior. La decisione si rivela molto, molto giusta: il talento fuori dalle regole, citazionista e irriverente allo stesso tempo, riporta Dior a diventare uno dei marchi più stimati e famosi del mondo. John Galliano è nato a Gibilterra, da bambino si trasferisce a Londra e frequenta la Wilson's School a Wellington. Nel 1984 si diploma in design della moda al Central Saint Martins College of Art and Design con una collezione ispirata alla Rivoluzione Francese chiamata Les Incroyables, che riceve critiche positive e viene interamente comprata e venduta nella boutique londinese Browns. In seguito, lancia il proprio marchio, sotto il proprio nome e comincia la sua carriera vera e propria come stilista. Viene premiato come Stilista Britannico dell'Anno nel 1987. Il suo gusto per il travestimento e per Io spettacolo era frutto delle sue esperienze nei backstage teatrali della Londra thatcheriana. Il passaggio di Galliano alla Maison Dior venne ufficializzato all’inaugurazione di una mostra dedicata a Dior a cui presenziò la principessa di Galles, icona della moda di quel periodo, con il primo abito della casa parigina disegnato da lui. Era un modello semplicissimo che già mostrava in modo evidente la rottura con il gusto opulento e barocco di Ferré. La prima sfilata haute couture si svolse nel gennaio 1997, la collezione era principalmente un omaggio a Dior, perché coincideva con il cinquantenario della prima sfilata. Il patrimonio culturale della Maison era riproposto soluzioni diverse: il tailleur “Bar” e alcuni abiti da ballo con l’ampia gonna, che riportavano in scena gli anni d oro del New look, la silhouette Belle Epoque che riproponeva l’immagine dell’elegantissima madre di Christian Dior. Soprattutto, però, c’erano un disegno animalier e un riferimento diretto all’Africa colorata e altera dei guerrieri masai, tutti oggetti dal forte impatto visivo. Nella collezione successiva, dedicata a Mata-Hari, all’Art Nouveau e alle donne simbolo del primo Novecento, si trovano i bijoux ad anelli dorati ispirati alle donne africane. Il suo è un linguaggio multietnico fatto di commistioni fra oggetti provenienti da culture e costumi differenti. Anche flacone di J’adore, il primo profumo dell’era Galliano, fu progettato ispirandosi alle collane africane. L’identità Dior Il problema dell’identità Dior e della sua individuazione immediata da parte del pubblico era più complesso di quanto non fosse stato nel caso di Chanel in quanto la presenza di Dior sul mercato era più recente; si trattava quindi di cambiare prospettiva: quella che doveva essere comunicata al pubblico non era una continuità di se, ma di atteggiamento culturale verso la moda e la società. La nuova identità Dior doveva quindi essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po’trasgressivo, pensato per donne che volevano Io status symbol della griffe, ma anche la sensazione di osare novità un po’eccentriche. Marketing e creatività Le campagne pubblicitarie subirono un deciso cambiamento d’immagine per raggiungere un pubblico diverso da quello compassato della “vecchia Dior”. Le boutique più importanti nelle città della moda furono affidate a decoratori di grido e architetti. Il cuore dell’intero progetto restava comunque la passerella ed il centro della comunicazione diventava la sfilata il cui scopo era trasformare la moda in grande spettacolo capace di calamitare l’attenzione di pubblico e media sul marchio. Era irrilevante il fatto che le mises di sfilata potessero essere ritenute importabili: La Maison inventò un sistema di “couture a due velocità” che contemplava uno show eclatante in cui i modelli della sfilata erano messi a disposizione delle cosiddette celebrities, e la creazione dell’altra collezione destinata ai clienti. La Maison Dior aveva messo in discussione anche la sfilata del prét à porter a cui venne attribuito più il valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale, la maggior parte delle vendite sarebbe stata fatta con le precollezioni create appositamente per i compratori. Lo stesso Galliano entrava a far parte dello spettacolo-sfilata come attore principale trasformando l’uscita finale con i più bizzarri travestimenti, creando un’attesa quasi superiore a quella della collezione stessa, moltiplicando l’effetto mediatico attraverso le sue doti da grande comunicatore; fuochista in canottiera, capo indiano, Napoleone, ballerino coperto di sudore, astronauta, torero, spadaccino, pirata, ogni volta un personaggio diverso. La sfilata spettacolo Le sfilate haute couture assunsero sempre più la forma di grandiosi spettacoli teatrali come la collezione primavera-estate 1998 nel grande scalone e foyer dell’Opera di Parigi, trasformata in festa dai ballo per rendere omaggio alla eccentrica marchesa Luisa Casati con i modelli che ne raccontavano la vita da Poiret a Bakst, da Duty al Settecento delle porcellane di Sèvres, ed un finale emozionante con il volo di farfalle di carta. La collezione successiva, quella per l’autunno-inverno dello stesso anno, fu un dedicata alla “Principessa Pocahontas; la scena, una banchina della Gare d’Austeri trasformata in un magico suk, con pavimento cosparso di sabbia dei deserto e trionfi di datteri e agrumi. Ed ancora l’arrivo dì un antico e gigantesco treno a vapore da cui cominciarono a scendere modelle provenienti da diverse epoche storiche. La ‘Nuova Generazione Dior’ La ’Nuova Generazione Dior’ entrò sul palcoscenico della reggia di Versailles che faceva da sfondo ad una serie di sfilate all’insegna della provocazione e dell’avanguardia, sulla passerella si susseguirono futuristiche guerrigliere ispirate al film Matrix vestire di cuoio, metallo, tessuti plastificati mescolati a mussoline e pizzo; nobildonne inglesi in partenza per una caccia alla volpe, intriganti fanciulle orientali vestite di tulle trasparente con giganteschi orecchini. Fu però la collezione di inizio millennio a portare all’estremo questo nuovo metodo di costruzione, la sfilata era accompagnata da una citazione dalia prefazione a Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, i modelli sembravano fatti di stracci recuperati in modi diversi e uniti o sovrapposti per formare un vestito, oppure sembravano ritagli di giornale adattati ai corpo, in realtà i materiali erano dei più preziosi, accuratamente ricamati o dipinti a mano, i giornali erano di tessuti stampati uno per uno, il tema della sfilata non fu capito dai giornali che gridarono allo scandalo. Il business crebbe non solo sul fronte dell'abbigliamento e degli accessori ma anche su quello più proficuo di profumi e prodotti di bellezza. Galliano sfornava collezioni, idee, campagne pubblicitarie tutti iperbolici: la sua cifra stilistica era eccesso e ironia, passato e futuro. Il suo scopo era infatti investire l’haute couture con un ondata di giovinezza, ispirandosi alle mode di strada che, dal punk ai grunge, avevano rivoluzionato i canoni e i modi dell’abbigliamento, ma anche all’avanguardia inglese, rappresentata in modo emblematico da Vivienne Westwood. Tutto ciò fu sentito come un oltraggio alla tradizione dell’haute couture e alle sue buone maniere. Galliano si giustificò sostenendo che quella che andò in scena ai Palais Royal non era una parodia delle condizioni di vita dei clochard, al contrario era un ragionamento sulla moda e sulla sua avanguardia. Era la fine del minimalismo. La clientela della marca parigina era ormai cambiata: non solo aveva un età media di venticinque anni, ma soprattutto era composta da una generazione di giovani donne arroganti sfrontate, affascinate dai segni esteriori e del successo e attratte dai miti più i costruiti dai media.
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