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Storia della psicologia (online)- trascrizione di tutti i video, Appunti di Storia Della Psicologia

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Scarica Storia della psicologia (online)- trascrizione di tutti i video e più Appunti in PDF di Storia Della Psicologia solo su Docsity! Storia della psicologia online 1-Rivoluzione cognitiva e neuroscienze Le origini e la psicologia cognitiva Il termine Psicologia viene introdotto nel XVI secolo, in età umanistica. I campi del sapere più strettamente imparentati, e dai quali la psicologia si è progressivamente affrancata prima di diventare disciplina autonoma, sono stati principalmente la filosofia e la fisiologia. Come vedremo, bisognerà però aspettare almeno il XIX secolo perché la psicologia raggiunga quello stato di maturazione epistemologica e concettuale che le permette di rientrare pienamente nell’alveo delle discipline scientifiche. Nella sua traiettoria di sviluppo bisogna peraltro considerare che lo studio scientifico della mente e del corpo viene visto con sospetto almeno fino al XVII secolo, per ragioni prevalentemente di ordine religioso. Un passaggio chiave in ambito filosofico è stato sicuramente il dualismo mente/corpo introdotto dal filosofo e matematico francese Cartesio, nella prima metà del Seicento. Come noto, il dualismo cartesiano distingue nettamente lo studio dell’uomo nella sua componente immateriale o pensante (la res cogitans), dallo studio della sua componente materiale e fisica (la res extensa). Questa distinzione ha avuto un duplice effetto: se da un lato il corpo fa parte del mondo fisico e naturale, allora non è possibile precluderne lo studio scientifico; d’altro canto però, se il pensante è immateriale, lo studio è possibile solo con i mezzi propri della teologia. Se l’introduzione della prospettiva dualista ha di fatto frenato l’indagine scientifica sui processi mentali ha però reso lecito lo studio del corpo e favorito l’indagine scientifica dei processi fisiologici che oggi consideriamo importanti anche per la comprensione dei processi mentali. Prima di tale indagine scientifica il corpo umano era in genere considerato come costituito da elementi indifferenziati, aventi tutti più o meno le medesime funzioni, la cui esistenza era dovuta a un’energia vitalistica potenzialmente infinita. Non era contemplata la possibilità di misurare e differenziare funzionalmente le diverse componenti fisiologiche del nostro organismo. Ma le prime conquiste della fisiologia compiute a partire dalla seconda metà del Settecento iniziarono a modificare radicalmente lo studio scientifico dell’uomo in quanto organismo vivente. Tra queste prime conquiste meritano di essere citate quella di Robert Whytt, che dimostra che i movimenti riflessi coinvolgono il sistema nervoso centrale attraverso i rami afferenti ed efferenti del midollo spinale, quella di Charles Bell e Francois Megendie che, indipendentemente l’uno dall’altro, dimostrano che a livello del midollo spinale le vie sensoriali posteriori sono indipendenti dalle vie motorie anteriori (come rappresentato nella figura in alto a sinistra), quella di Hermann von Helmotz che dimostra che un nervo trasmette impulsi che non dipendono dal tipo di stimolazione ricevuta ma dalla specifica natura del nervo, e infine quella del torinese Angelo Mosso che per primo dimostra che un compito cognitivo causa un aumento locale di flusso sanguigno a livello cerebrale e che questo aumento locale può essere misurato con un’apposita bilancia (rappresentata nella figura in basso a sinistra). Una scoperta quest’ultima sulla quale ancora oggi si fondano le moderne tecniche di neuroimmagine. Ne riparleremo in un altro modulo. A metà del XIX secolo un altro fisiologo ha introdotto un metodo di indagine che ha molto influenzato e continua a influenzare lo studio scientifico dei processi mentali. Si tratta del metodo sottrattivo proposto da Franciscus Donders, che così rifletteva: “Se nel lasso di tempo tra stimolo e risposta la mente sta lavorando, più complesso sarà il lavoro necessario alla risposta, più operazioni mentali implicherà, più sarà lungo il tempo di reazione”. Partendo da questa riflessione, Donders di fatto inaugura un metodo che come vedremo è ancora oggi ampiamente utilizzato in psicologia sperimentale, in neuropsicologia cognitiva e nelle neuroscienze cognitive. Di fatto, il metodo sottrattivo si basa sul principio generale, esposto in questa immagine, secondo il quale se misuro i tempi di reazione necessari a svolgere due compiti cognitivi, uno semplice e l’altro complesso per l’aggiunta di una singola variabile a quello semplice, allora la sottrazione tra i tempi di reazione ai due compiti permetterà di misurare sperimentalmente i tempi necessari per elaborare la variabile cognitiva aggiuntiva. Con questo metodo, per la prima volta a un processo mentale veniva fatta corrispondere una misurazione oggettiva basata su un parametro fisico misurabile. Altro snodo storico fondamentale nell’emergere di una psicologia scientifica è stata la collocazione dell’Uomo, una tra le tante forme di vita, all’interno di una complessa costellazione di organismi viventi che si sono evoluti all’interno di una storia naturale caratterizzata dall’azione di regole comuni. Il lavoro di Charles Darwin, naturalista e biologo inglese, che a metà dell’Ottocento sistematizzò tali regole e introdusse il concetto di selezione naturale ha avuto grande influenza per tutte le scienze della vita, psicologia compresa. Dedicheremo a questo straordinario contributo l’attenzione che merita in successivi moduli del nostro percorso. 1 Le prime acquisizioni scientifiche in ambito fisiologico sui processi sottostanti i fenomeni mentali e il lavoro di Darwin contribuirono congiuntamente, nella seconda metà del XIX secolo, alla nascita delle prime indagini empiriche specificamente rivolte allo studio della mente. Nasce la psicologia scientifica… e l’atto fondativo viene convenzionalmente fatto coincidere con la costituzione nel 1879 del primo Laboratorio di Psicologia sperimentale a Lipsia, in Germania, per opera del fisiologo e psicologo tedesco Wilhelm Wundt. Non un laboratorio di fisiologia, non un rimando alla filosofia: la psicologia per la prima volta si affranca e si rende autonoma e indipendente, con impianti metodologici propri. Le prime indagini scientifiche, qui due immagini che rimandano a quei tempi pioneristici, vengono condotte prevalentemente negli ambiti della sensazione e della percezione, ambiti sperimentalmente più facili da controllare in quanto le grandezze fisiche degli stimoli possono essere più facilmente manipolate da parte dei ricercatori. Può essere, in sostanza, più facilmente adottato il metodo sperimentale, che consente di determinare come muta una variabile dipendente (l’esperienza mentale) al mutare di una variabile indipendente (lo stimolo al quale si è sottoposti). Wundt e i suoi allievi, tra i quali è giusto ricordare Edward Titchener, utilizzarono ampiamente il metodo sottrattivo proposto da Donders, ma Wundt introdusse anche un metodo nuovo e diverso, l’introspezione sperimentale. Durante un compito, prevalentemente di natura percettiva, a soggetti appositamente addestrati veniva chiesto di descrivere verbalmente la propria attività mentale associata alla percezione dello stimolo. Ciò veniva fatto però utilizzando una precisa terminologia e una precisa procedura, che evitasse ricostruzioni retrospettive basate sulla memoria o su ciò che si sa di quell’oggetto e che si focalizzasse invece solo sugli elementi basilari dell’esperienza immediata, nel ‘qui ed ora’. L’esperienza percettiva è così accompagnata da un’attività di analisi introspettiva disciplinatissima e iperanalitica che ha come obiettivo la ricostruzione della struttura elementare dei processi mentali. Da qui il termine “Strutturalismo” assegnato a questo approccio. Ma nello stesso periodo in cui in Europa si forma la prima generazione di psicologi sperimentali secondo l’impostazione proposta dallo strutturalismo di Wundt, dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, un altro paradigma domina il panorama in ambito psicologico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Si tratta del Funzionalismo, che vede in William James il suo più illustre esponente. È impossibile sottovalutare l’importanza di questo padre nobile della psicologia, il cui contributo, come quello di Wundt, verrà ripreso in altre parti di questo insegnamento in relazione alla nascita della psicologia clinica. Alla base del Funzionalismo vi è l’idea che la mente sia un’entità dinamica che interagisce con l’ambiente e vi si adatta. Il riferimento alla teoria evoluzionistica di Darwin è esplicito. Così come esplicito è il rifiuto dell’impostazione strutturalista e il tentativo di scomporre la mente nei suoi elementi atomici. Ciò che conta è la funzione svolta dalla mente nel favorire l’adattamento dell’individuo all’ambiente circostante. Il funzionamento della mente è indagato secondo un approccio ispirato alla filosofia pragmatistica di John Dewey che identifica il vero con l’utile. Una scienza psicologica è pertanto giustificata solo in ragione del valore sociale dei suoi risultati. La psicologia deve rispondere a problemi pratici e proporsi, quindi, quale scienza non puramente descrittiva, ma capace di indagare problemi con risvolti di natura applicativa. Non a caso, si deve a questa prospettiva l’impulso che ha poi portato alla nascita dei test per la misurazione della personalità e di altri costrutti psicologici. Sebbene la parabola del funzionalismo sia andata progressivamente declinando a partire dagli anni ’20 del Novecento, a causa del progressivo affermarsi del comportamentismo, paradigma del quale ora discuteremo, è giusto ricordare che il contributo di William James è stato riscoperto e valorizzato un secolo dopo per opera di ricercatori quali Leda Cosmides e John Tooby, tra i principali esponenti della Psicologia evoluzionistica, disciplina alla quale dedicheremo adeguata attenzione in moduli successivi del nostro percorso. Al di là delle loro molteplici e profonde differenze, lo strutturalismo di Wundt e il funzionalismo di James hanno condiviso un approccio soggettivistico allo studio della mente. I fenomeni mentali, benché indagati secondo prospettive differenti, sono comunque l’oggetto di studio per entrambi i paradigmi. Ma nel 1913, con la pubblicazione da parte di John Watson del manifesto comportamentista, assistiamo ad un radicale capovolgimento di prospettiva nella storia della psicologia, soprattutto nordamericana. La mente, nella sua intrinseca natura, cessa di essere l’oggetto di studio della psicologia e viene soppiantata dal comportamento, unica dimensione considerata indagabile scientificamente perché oggettiva, osservabile e misurabile. 2 Questo caso, come moltissimi altri presenti in letteratura, ci mostra l’importanza dello studio del rapporto tra funzione (in questo caso la memoria) e l’organo (il cervello) per comprendere l’esatta architettura della mente. La maggior parte dei neuropsicologi cognitivi condivide una serie di assunti teorici che costituiscono il nucleo concettuale di base di questa disciplina. Un primo assunto centrale della neuropsicologia cognitiva è quello della modularità cognitiva. Secondo questo assunto, inizialmente proposto dal filosofo della mente Jerry Fodor, l’architettura dei processi mentali è largamente costituita da componenti specializzate, definite moduli cognitivi. In figura questa idea è rappresentata in modo schematico. La si guardi dall’alto verso il basso. L’idea è che quando gli input sensoriali colpiscono i nostri organi di senso periferici (ad esempio, vista, udito, tatto) questi organi trasducono l’input sensoriale in un impulso nervoso che viene trasmesso a livello centrale. Secondo l’ipotesi che stiamo discutendo, prima di giungere a livello centrale, in cui le informazioni sono integrate, l’informazione viene elaborata da moduli specializzati. Facciamo un esempio. Quando la luce riflessa da un oggetto colpisce i fotorecettori della retina, questo impulso sensoriale viene convertito in una serie di impulsi nervosi che sono trasmessi al cervello. Ma prima che avvenga il riconoscimento consapevole integrato (“quello che sto vedendo è un cane”) l’informazione trasmessa al cervello è elaborata da molti moduli specializzati nell’elaborazione di aspetti specifici dello stimolo: alcuni sono specializzati nell’elaborazione della forma, altri nell’elaborazione del colore, altri ancora nell’elaborazione della dimensione o del movimento. Da un punto di vista formale per modulo cognitivo si intende un sistema caratterizzato dal fatto di essere innato, di essere incapsulato informazionalmente, ovvero di essere indipendente nel suo funzionamento dal funzionamento degli altri moduli, di essere specifico per dominio, ovvero di essere specializzato nell’elaborazione di un numero molto limitato e specifico di stimoli, e infine di essere automatico e soggetto ad attivazione obbligatoria, il che significa che in presenza di uno stimolo appropriato per la sua attivazione il funzionamento di un modulo non può essere controllato volontariamente o influenzato dalla coscienza. Alcune di queste proprietà formali possono essere illustrate ricorrendo ad un altro esempio. Nella nota illusione ottica di Müller-Lyer il segmento (a) e il segmento (b) hanno le stessa lunghezza, ma il segmento (a) ci appare come più lungo del segmento (b). Ebbene, anche se siamo consapevoli che la lunghezza dei due segmenti è la stessa non possiamo fare a meno di essere soggetti all’illusione che ci porta a percepire l’uno come più lungo dell’altro. In altri termini, la nostra consapevole conoscenza di alto livello non può influenzare il funzionamento automatico dei moduli percettivi, sensibili solo al dato sensoriale proveniente dallo stimolo e obbligati ad elaborarlo. Un secondo assunto della neuropsicologia cognitiva è che ogni modulo cognitivo sia implementato in aree cerebrali anatomicamente identificabili. In questa slide è illustrato il modello anatomo-funzionale di Wernicke-Geschwind per il linguaggio. Sebbene diversi aspetti di questo modello siano oggi superati, possiamo usare questo modello a titolo di esempio per illustrare l’idea generale della neuropsicologia cognitiva secondo la quale ogni funzione mentale ha un suo specifico correlato neurale. Ad esempio, secondo questo modello ci sono specifiche aree cerebrali che sottendono i processi legati alla produzione e alla comprensione linguistica. Come illustrato in questa slide, oggi l’idea della modularità anatomica è intesa dalla moderna neuropsicologia cognitiva prevalentemente nel senso di circuiti complessi piuttosto che di isolate aree cerebrali. Rimane ferma l’idea centrale secondo la quale esiste una relazione significativa tra struttura neurale e organizzazione funzionale. Peraltro questa assunzione può essere sintetizzata nel concetto di isomorfismo, che discende dagli assunti della modularità cognitiva e di quella neurale, e sottolinea l’esistenza di una precisa corrispondenza tra l’organizzazione fisica del cervello e l’organizzazione funzionale della mente. Un terzo assunto della neuropsicologia cognitiva è più intuitivo ma altrettanto importante ed è legato all’idea che non vi siano differenze significative tra l’architettura anatomo-funzionale delle persone, ovvero che siano assenti significative differenze individuali nella disposizione e organizzazione dei moduli cognitivi e anatomici. La figura rappresenta le aree cerebrali danneggiate in persone diverse (una per ogni riga) che mostrano lo stesso deficit cognitivo. Benché ci siano alcune differenze nel tipo di lesione cerebrale, il coinvolgimento delle medesime aree neurali (in questo caso la corteccia prefrontale dorsale di sinistra) ha portato tutte queste persone a mostrare i medesimi deficit cognitivi. Quello che distinguerà una persona dall’altra sarà la gravità del deficit ma non la sua natura. È evidente che questo assunto è strettamente connesso con l’idea dell’isomorfismo tra organizzazione fisica del cervello e organizzazione funzionale della mente discusso nella slide precedente. Un quarto assunto della neuropsicologia cognitiva è quello della costanza, e afferma che il funzionamento mentale di una persona con danno cerebrale è dato dal funzionamento dell’insieme dei suoi normali sistemi cognitivi, meno il funzionamento dei sistemi lesi in seguito al danno cerebrale. Questo assunto rimane valido anche qualora un paziente con danno cerebrale mostri di utilizzare strategie cognitive prima inespresse, a patto che queste strategie 5 siano potenzialmente utilizzabili anche da una persona priva di danno. Per la neuropsicologia cognitiva assumere che in seguito ad un danno cerebrale l’architettura cognitiva, quantomeno quella di un adulto, non vada incontro ad una generale riorganizzazione funzionale è indispensabile, poiché se questa condizione non si realizzasse verrebbe meno la possibilità di comprendere il funzionamento dei normali processi cognitivi a partire dallo studio dei profili di funzionamento delle persone con lesioni 2-Evoluzione e cervello sociale L’approccio evoluzionistico allo studio della mente Discuteremo ora del contributo che può dare la prospettiva evoluzionistica allo studio del sistema mente/cervello. L’ipotesi centrale della Psicologia evoluzionistica è che sia possibile migliorare le conoscenze sul sistema mente/cervello comprendendo i processi che nel corso della filogenesi ne hanno modellato l’architettura. Nell’albero filogenetico rappresentato in questa figura si può osservare come l’Homo sapiens anatomicamente moderno (ovvero la specie alla quale apparteniamo) sia comparso intorno ai 200.000 anni fa (benché ricerche recenti ipotizzino 300.000 anni) e possiamo anche osservare come prima della sua comparsa vi sia stata una lunga storia evolutiva di oltre 2 milioni di anni che ha caratterizzato la linea filetica del genere Homo. Un’idea di base della Psicologia evoluzionistica è che questa lunga storia evolutiva sia importante per aiutarci a comprendere come è organizzato il sistema mente/cerve. Secondo la prospettiva evoluzionistica, per comprendere il sistema mente/cervello è importante porsi domande sulla natura delle pressioni selettive che hanno ricorrentemente agito nel corso della storia evolutiva del genere Homo e formulare ipotesi sull’architettura della mente umana considerandola come risultato di queste pressioni. Le pressioni selettive che hanno accompagnato la nostra evoluzione possono essere viste come problemi adattativi in grado di selezionare favorevolmente quegli individui che hanno evoluto per selezione naturale sistemi neuro- cognitivi capaci di dar loro una risposta. Obiettivo principale dello psicologo evoluzionista è quello di individuare questi sistemi, chiamati anche adattamenti psicologici. La figura rappresenta un cervello in cui le zone colorate corrispondono ad aree cerebrali capaci di svolgere specifiche funzioni mentali (come percepire i colori, ricordare un volto o comunicare per mezzo del linguaggio). L’idea è che queste funzioni si siano evolute per rispondere a specifici problemi adattativi. In questa e nelle successive 4 slide facciamo alcuni esempi di problemi adattativi che nel corso dell’evoluzione abbiamo dovuto risolvere. Il primo esempio è saper chiedere aiuto e protezione in situazioni di percepita vulnerabilità. In una specie come la nostra, nella quale alla nascita e per un lungo periodo di vita abbiamo un limitato livello di autonomia è stato importante sviluppare nel corso dell’evoluzione un adattamento che aumenta la probabilità di trovare una figura di riferimento che ci dia aiuto quando, ad esempio, sentiamo di essere a disagio o in pericolo. Questo adattamento viene chiamato attaccamento ed è un sistema neuro-cognitivo presente in molti mammiferi e che nella nostra specie si manifesta, in modi differenti, lungo tutto l’arco di vita. Un altro esempio di problema adattativo è la difesa della prole, ovvero la protezione dei propri figli dai pericoli al fine di aumentare la loro probabilità di sopravvivere. L’adattamento che si è evoluto in risposta a questo problema adattativo viene chiamato accudimento, ed è l’adattamento complementare a quello visto nella slide precedente e che abbiamo chiamato attaccamento. Altro esempio di problema adattativo è la scelta del proprio partner, ovvero la scelta della persona con la quale passare un lungo periodo di tempo della propria vita. Nella nostra specie la capacità di costruire legami affettivi è fondamentale sia per il benessere mentale sia per quello fisico. Non meno importante è la capacità di comprendere gli stati mentali delle persone che ci circondano. In una specie altamente sociale come la nostra questa capacità è fondamentale per poter coordinare le proprie azioni con quelle altrui. Questo adattamento, che viene chiamato Teoria della Mente o mentalizzazione, si basa in larga parte su indizi fenotipici come ad esempio il comportamento altrui o l’osservazione di aree particolarmente salienti come il 6 volto e gli occhi. A partire da questi indizi fenotipici siamo in grado di inferire, in modo implicito o esplicito, ciò che un’altra persona sta, ad esempio, pensando o le emozioni che sta provando. Per motivi sempre connessi con la natura altamente sociale della nostra specie, nel corso dell’evoluzione è stato necessario dare risposta ad un altro problema adattativo: come fare a comunicare con gli altri membri del gruppo sociale. Visto in questa prospettiva, è possibile pensare al linguaggio come a un adattamento che permette di dare una risposta a questo problema adattativo. E’ importante sottolineare come gli adattamenti psicologici, benché fondati su predisposizioni biologiche ereditate dalla nostra storia evolutiva, non si manifestano necessariamente fin dalla nascita. Alcuni sì, come ad esempio la preferenza per i volti rispetto a qualunque altro stimolo visivo presente nell’ambiente. Altri no, come il linguaggio, che richiede tempo perché possa maturare ed essere utilizzato in modo appropriato. Il punto centrale è che tutti gli adattamenti psicologici, che si manifestino fin da subito o meno, hanno le proprie radici nel patrimonio genetico della nostra specie e sono il prodotto della nostra storia evolutiva. Attenzione! Ciò non significa che tra una persona e un’altra non ci siano differenze nel funzionamento mentale, anzi. Ma per capire cosa differenzia una persona da un’altra bisogna prima capire cosa tutti abbiamo in comune. Ad esempio, indipendentemente dal fatto che parliamo italiano, inglese, giapponese o francese è importante riconoscere che tutte le lingue umane rispettano i principi di una grammatica universale, biologicamente fondata, che soggiace a ciascuna di esse e le rende realizzabili. Ipotizzare l’esistenza di una natura umana universale da ricercarsi nell’insieme degli adattamenti che costituiscono la nostra architettura neuro-cognitiva non significa sottovalutare l’infinita variabilità di manifestazioni comportamentali e culturali di cui è capace l'uomo; significa piuttosto sottolineare come alla base di queste infinite manifestazioni sia possibile riconoscere l’opera di un numero finito di adattamenti psicologici basati su predisposizioni biologiche universali che sono patrimonio comune di tutti gli individui della nostra specie, indipendentemente dalla specifica etnia di appartenenza di ciascuno di noi. La relazione tra natura-cultura nella prospettiva della psicologia evoluzionistica Ci occuperemo adesso della relazione tra natura e cultura secondo la prospettiva della psicologia evoluzionistica, disciplina che abbiamo precedentemente introdotto. Per iniziare, una domanda. Guarda questo rettangolo e rispondi: come si calcola la sua area? Benissimo, base per altezza. Ora rispondi a quest’altra domanda: per calcolare l’area del rettangolo diresti mai che la base è più importante dell’altezza? No! E hai ragione perché se è legittimo chiedersi come si calcola l’area di un rettangolo non lo è chiedersi se la base sia più importante dell’altezza. Quest’ultima è una domanda mal posta, priva di senso! Eppure, nella storia della psicologia si sono succedute teorie che hanno di volta in volta assegnato alla natura o alla cultura un peso prevalente nella spiegazione dei fenomeni mentali. Ma chiedersi se sia più importante la natura o la cultura nello studio della mente è come chiedersi se sia più importante la base o l’altezza per calcolare l’area di un rettangolo. Nel porre l’accento sui meccanismi psicologici che mediano la dimensione biologica con quella del comportamento manifesto, la Psicologia evoluzionistica rifiuta l’annosa e spesso sterile dicotomia tra natura e cultura, il vano tentativo di cercare di stabilire quale tra la componente innata e quella ambientale sia prioritaria. Secondo la prospettiva evoluzionistica, è invece importante individuare gli elementi costitutivi dell'architettura cognitiva umana (quelli che abbiamo chiamato adattamenti psicologici) e fornire di questi elementi costitutivi una spiegazione funzionale. Questo è possibile cercando di comprendere a quale problema adattativo incontrato dai nostri antenati ancestrali ogni singolo adattamento psicologico è una risposta. In altre parole, cercando di comprenderne la funzione, il perché della sua esistenza. Detto in altri termini, la Psicologia evoluzionistica tenta di dimostrare che la mente umana è un sistema complesso composto da un numero ampio ma finito di sistemi neuro-cognitivi, ognuno dei quali modellato dalla selezione naturale per favorire l’adattamento attraverso l'espletamento di una qualche specifica funzione. Che il numero degli adattamenti psicologici che formano quella che abbiamo chiamato mente umana universale sia finito non è un impedimento al realizzarsi delle innumerevoli forme comportamentali che gli esseri umani sono in grado di manifestare. Gli adattamenti psicologici non impongono schemi rigidi di sviluppo ontogenetico, ma a seconda del contesto ambientale permettono allo sviluppo individuale di percorrere certe strade piuttosto che altre. Per capire questo concetto facciamo un esempio semplice, relativo ad uno degli adattamenti che abbiamo visto in precedenza: l’attaccamento. Questo adattamento si basa su una predisposizione biologica universale. Siamo predisposti a chiedere aiuto e protezione ad una figura di riferimento in caso di percepita vulnerabilità. Nei bambini questa figura è spesso la madre. Ma le mamme non sono tutte uguali e il tipo di risposta che una mamma darà alle 7 Quali sono queste caratteristiche? Eccole: sono caratteristiche di natura sociale. Ora come allora siamo infatti immersi in una dimensione sociale interpersonale che comprendere individui del nostro e dell’altro sesso, facce che esprimono emozioni, potenziali partner da corteggiare, fratelli e sorelle, madri alle quali chiedere protezione in caso di pericolo e figli da accudire, coetanei con i quali giocare, individui con i quali cooperare o competere, gesti altrui da prevedere e comprendere, azioni da coordinare con quelle delle altre persone. Se l’ambiente contemporaneo fosse stato troppo diverso dall’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico la nostra specie si sarebbe estinta, poiché gli adattamenti di cui è dotata non sarebbero stati più in grado di garantire la sopravvivenza individuale. In realtà, viviamo in un ambiente sociale per moltissimi aspetti simile a quello dell’Ambiente di Adattamento Evoluzionistico. E molti dei nostri adattamenti psicologici si sono evoluti proprio per rispondere ai problemi adattativi posti da questo ambiente sociale. Nel prossimo modulo vedremo le importanti implicazioni che discendono da quanto ora discusso. 3-Psicologia clinica: le origini 3.1 prima della psicologia clinica Gli antichi IPPOCRATE di KOS Ippocrate di Kos (460-377 a.C.), viene considerato il padre della medicina. Egli tenterà di ricondurre a leggi naturali (e quindi alla loro conoscenza e comprensione, vedi teoria umorale) ogni fenomeno di malattia, ivi compresa la malattia psichica, in aperta rottura epistemologica con la tradizione precedente di orientamento sacerdotale che vedeva nella malattia l’intervento punitivo del divino per atti commessi o omessi. Si può delineare un ipotetico filo di continuità che, attraverso i secoli, caratterizzerà la dominanza della visione ippocratica di malattia dall’antica Grecia al secolo XIX. La visione del sintomo psicopatologico in qualità di prodotto di un’alterazione somatica appare dominare lo sviluppo della disciplina, con rare eccezioni, sostanzialmente dall’antichità ai giorni nostri. Di seguito un'intervista impossibile fatta ad Ippocrate. javascript:apri('http://www.teche.rai.it/2015/03/intervista-impossibile-a- ippocrate/'); In età romana, benché su assunti fondati su di una migliore e più approfondita conoscenza dell’organismo umano, il nesso di causalità fra disordine somatico e sintomatologia psicopatologica manterrà la centralità della riflessione su eziopatogenesi e cura. Conosciuto per il giuramento di ippocrate. Considerato il padre della medicina, si differenzia dagli altri perché, da un lato, cerca di dare un’impronta naturalistica spostandosi dall’attribuzione delle cause di sofferenza dalle divinità alla natura, dall’altro perché lascia degli scritti in merito alle sue esperienze in relazione ai suoi pazienti. Scopre che gli esseri umani stanno male anche dal punto di vista psicologico e in ciò formula delle ipotesi sulle cause. La più nota è la teoria umorale, cioè che la salute degli individui sia rappresentata da quattro fluidi del corpo che sono il sangue, il flemma, la bile gialla e la bile nera. Di conseguenza la malattia è il risultato di un disequilibrio tra questi liquidi. Predominanza del sangue = sanguigno (agisce prima di pensare) Predominanza del flemma = flemmatico (riflette prima di agire) Predominanza della bile nera = melanconico (prototipo della depressione) 10 Descrisse per primo la sintomatologia relativa all’isteria (utero a spasso) l’utero si spostava dalla propria sede e determinava modificazioni nel comportamento dell’essere umano. Il medioevo L’influenza della dottrina di Galeno sulle epoche successive fu talmente importante da indurre i suoi seguaci a mettere in pratica i suoi insegnamenti piuttosto che sottoporli ad evidenza sperimentale o a continuarne la tradizione di ricerca. Il successivo Medio Evo appare interessante per due aspetti: da un lato, il mutamento di punto di vista rispetto all’età classica, in direzione di un ritorno al ricorso dell’intervento divino o demoniaco, dall’altro, la profonda commistione di culture, lingue, tradizioni, religioni che tale epoca storica ha rappresentato per l’Europa. E’ al medio evo che si fanno infatti risalire il tramonto della supremazia della cultura e dei modelli di organizzazione sociale di impronta greco-romana a vantaggio del patrimonio veicolato in Europa dalle cosiddette invasioni barbariche, portatrici di tradizioni e culture profondamente dissonanti e talvolta antagoniste rispetto alla memoria classica. La lenta caduta dell’Impero Romano (476-1492) sembrò precorrere la fine stessa della civiltà determinando un ricorso alla religione cristiana quale unica e certa risposta alle domande fondamentali. Questa età della fede durò oltre 1000 anni. Galeno e Vesalio Galeno di Pergamo ha avuto influenza nelle conoscenze e sull’approccio medico. Era medico dell’imperatore e dei gladiatori. Ha lasciato oltre 100 scritti. Pur avendo approcciato il metodo di Ippocrate di natura umorale aveva molta più esperienza anatomica grazie alla sua esperienza come medico e ha dunque unito questi aspetti. Un altro motivo della sua importanza è che aveva accettato il concetto di pneuma in riferimento ad un unico dio creatore. Questo concetto non era ben accolto per via della religione politeista dell’epoca in ambito greco-romano. Egli attribuisce dunque le caratteristiche dello spirito vitale e dello spirito naturale animale ad un unico dio. Per tutto il medioevo la possibilità di acquisire nuove conoscenze scientifiche è stata messa in discussione. L’unico aspetto medico che veniva accettato è rappresentato da Andrea Vesalio grazie ad un trattato anatomico in cui metteva in discussione la fisiologia di Galeno (pubblicato nel 1543, stesso anno della pubblicazione dell’opera di Copernico che mette al ceno il sistema solare). Cominciano a muoversi delle conoscenze scientifiche anche se la chiesa non ne permetteva ancora la diffusione dal momento che andavano contro il pensiero religioso. Si cominciano però a mettere in discussione i capisaldi culturali dell’epoca. La malattia è dovuta, non soltanto alla possibilità che il demonio entri ed interferisca con il funzionamento delle persone, ma che queste ne abbiano la colpa perché si sono allontanate dalla divinità. Età dei lumi: Philippe Pinel La figura di Pinel rappresenta una vera e propria controversia nello studio e nell’interpretazione dei fatti storici e psichiatrici. Se, da un lato, è (anche) grazie al suo contributo che la plurimillenaria linea di continuità culturale di natura organicista viene messa in discussione, a vantaggio di una approccio “altro” alla malattia mentale, d’altro canto è innegabile come la figura di questo medico e psichiatra parigino rappresenti la nuova concezione professionale della psichiatria, sia in termini di cura che di custodia del malato di mente Nel medioevo, se si era diversi, si rischiava di essere tracciati. Verso la fine del medioevo, grazie alla rivoluzione copernicana e agli studi di Vesalio applicati anche ai fenomeni patologici umani, si lascia spazio al fatto che si possano cercare le ragion dei fenomeni attraverso metodi scientifici. Questo mutamento dà inizio all’Età della Ragione o Illuminismo. Un autore che ne fa parte è Michael Focault che collega l’Illuminismo con la psicopatologia, mettendo al centro delle sue riflessioni la clinica, ovvero le regole che l’uomo si è dato per far fronte al malessere degli altri individui. Un uomo fondamentale è Philipp Pinel che opera da il 1745 ed il 1826. Rappresenta una vera e propria controversia nello studio nell’interpretazione di fatti storici e psichiatrici. Se, da un lato, è (anche) grazie al suo contributo che la linea di continuità culturale di natura organica viene messa in discussione, a vantaggio di un approccio “altro” alla malattia mentale, dall’altro è innegabile come la figura di questo medico e psichiatra parigino rappresenti la nuova concezione professionale della psichiatria, sia in termini di cura che di custodia del malato di mente. Er un medico che lavorava nell’ospedale generale di Parigi, un aggregato di sofferenze. Egli comincia ad occuparsi dei pazienti con metodo scientifico, è uno dei primi che crea una tassonomia dei disturbi mentali, una complessa classificazione dei disordini psicopatologici. Distingue innanzitutto coloro che soffrono di un disturbo mentale da coloro che hanno altri problemi, interessandosi ai primi. Inoltre, distingue tra coloro che soffrono per un disturbo psichico di natura organica, da coloro che soffrono per un disturbo psichico non organico (cioè nevrosi) ma per motivi altri quali traumi, incapacità di controllare le passioni, motivi immorali. Nell’immaginare che le persone potessero star male indipendentemente dai dolori fisici si inaugura qualcosa che non era mai stato pensato, cioè che le malattie mentali potessero essere curate, non 11 attraverso pratiche di natura fisiche come salassi o erbe ma attraverso la relazione con il medico. In questo modo il ruolo del medico assume una connotazione di natura relazionale, cioè entra in relazione con il paziente con il quale instaura un dialogo. Nessuno mai aveva approcciato la malattia mentale attraverso le parole, Pinel lo chiama trattamento morale. Aveva fato così un grossissimo salto in avanti. Nella misura in cui Pinel si accorge della tipologia di persone presenti nell’ospedale generalesi rende conto dell’inadeguatezza del luogo per coloro i quali soffrono di malattia mentali. Con Pinel nasce così il manicomio, luogo in cui si rifugiano le persone con disturbi psicopatologici. Focault ci racconta però la storia della chiusura dei manicomi, istituzioni che non hanno svolto il proprio ruolo adeguatamente: il paziente veniva lasciato a se stesso, le disponibilità dei medici erano insufficienti rispetto ai bisogni dei malati, luoghi di aggregati di persone affette di grave sofferenza. Tutti questi motivi hanno portato a movimento anti-manicomio che, a loro volta, portarono alla fine alla chiusura di questi istituti. Nonostante ciò l’innovazione e la scoperta di Pinel diede un grande contributo alla psicologia. E.Kraepelin Il manicomio di Rieti Pinel gestiva un spedale generale, si accorge dell’esistenza dei malti di mente e propone di occuparsene inaugurando una nuova relazione medico-paziente. Contemporaneamente a lui Josefa Gallo si inserisce dal punto di vista culturale sostenendo che si possono applicare le regole della ragione alle regole della scienza. Arriva a conclusioni diverse rispetto a Pinel, inventa la frenologia, una pseudo scienza che ipotizza che la forma e le dimensioni del cranio rappresentano la forma del contenuto, cioè il cervello. Sulla scorta di un attento esame si possono inferire caratteristiche caratteriali psicopatologiche. Tendeva a dimostrare la supremazia della razza inglese sulle colonie imperiali, e successivamente dei vari programmi di eugenetica. Un suo seguace fu Cesare Lombroso che fondo l’antropologia criminale. Gall è stato il primo localiziazzionista cioè i che ipotizza che il cervello sia un’unità complessa dove le singole parti adempiono ad una specifica funzione psichica. Contemporaneamente a lui, Flourens ipotizza una visione globalista, il cervello funziona come un tutt’uno, le diverse componenti interagiscono tra loro per produrre un comportamento . Gall: cervello è una somma di organi distinti Fluorens: cervello è una somma di funzioni che appartengono ad un solo organo. Emil Kraepeelin, contemporaneo di Freud, affronta la malattia mentale in maniera opposta. Si basa sullo spirito del tempo, sulla scoperta dell’afasia, l’incapacità di produrre o comprendere il linguaggio a causa di lesioni cerebrali. Contemporaneamente si scopre che la neurosifilide provoca una serie di effetti tra cui la degenerazione del sistema nervoso centrale di cui si scopre la causa di un batterio. In questo contesto si inserisce Kraepelin il quale, sulla base delle scoperte appena descritte, sostiene che è possibile scoprire tutte le cause che sottostanno alla malattia mentale, poiché questa deriva da un danno al cervello. Egli, consapevole dell’insufficienza delle conoscenze e delle strumentazioni diagnostica presenti all’epoca, confida che un’accurata tassonomia, che sappia distinguere la psicopatologie fra di loro, costituisca la base per la comprensione della malattia mentale, in attesa che la scienza sappia fornire le risposte mancanti. Definì per primo la dementia praecox. È stato un autore estremamente importante, ha influenzato non solo le conoscenze, ma anche il modo in cui bisogna cercare le case della malattia mentale, essendo il fondatore della moderna psichiatria biologistica, scoprendo le alterazioni biologiche c’è sottostanno ai diversi disturbi psicopatologici. 3.2 la nascita della psicologia scientifica Introduzione- La nascita della psicologia clinica Si verificano delle condizioni favorevoli che hanno posto le basi alla nascita della psicologia. La psicologia come scienza fruisce di alcuni movimenti politici e culturali della fine del ‘700 tra cui: -la crisi della religione come spiegazione unica dei fenomeni (Copernico, Galileo) -consolidamento del punto di vista empirista che si era occupato della legittimità della conoscenza del mondo attraverso l’esperienza sensoriale. -consolidamento del clima illuministico, fondamentale la letteratura europea che tratta temi fondamentali dell’epoca e rappresentava le condizioni umane reali. -maggiore attenzione ai temi della diseguaglianza. Al tempo stesso si stava consolidando la necessità morale di farsi carico di queste profonde diseguaglianze sociali, della morte prematura o infantile, di sofferenze varie ecc. Tutte queste condizioni hanno posto le basi affinché si potesse sviluppare la psicologa. La nascita della psicologia scientifica si può far risalire alla Germania, stato europeo più potente 12 -la spiegazione di come ciò è successo. Con solo due forze in campo Darwin lo spiega : la continua presenza di nuove varianti, che oggi chiamiamo mutanti, e l’azione che l’ambiente esercita su una popolazione necessariamente eterogenea premiando qualcuno e punendo altri nella maniera di concedere una parola più larga a certi e più stretta o nulla ad altri. Con queste sole ipotesi Darwin ha pensato di spiegare tutto il processo evolutivo. Da quel momento in poi sono cambiate tante cose ma il nocciolo è rimasto sempre lo stesso. Se usciamo dal campo scientifico non c’è dubbio che la teoria presenta degli aspetti difficilmente digeribili. Innanzitutto anche se parliamo di animali resta il fatto che il grande regista è il caso. Questo a noi essere umani non piace perché istintivamente pensiamo che quello che accade è conseguenza non di qualcosa ma di qualcuno, ciò di un progetto. Ci viene naturale ma ciò è il punto di partenza non quello di arrivo. Quello che ci riesce più difficile da accettare è l’evoluzione dell’essere umano, non quella animale. Basta pensare che tutti gli uomini hanno definito se stessi umani non tutti gli altri uomini. C’è ancora la tendenza di considerare uomini quelli che stanno parlando e non tutto il resto. Quindi l’idea che l’uomo si trova essere messo sullo tesso piano come origine di tutti gli altri animali. Una forza dentro di noi non ha proprio potuto accettare questo fatto. Se vogliamo considerare la mente come prodotto dell’evoluzione dobbiamo prima pensare che la mente ha una base biologica. Sostenere che la mente è qualcosa di aggiunto al cervello è assurdo. Nel linguaggio quotidiano va bene usare un linguaggio non biologico ma bisognerebbe sapere che dietro non c’è solo questo. Si dovrebbe superare questa resistenza e pensare che la mente sia l’insieme delle attività cerebrali superiori e che ha sede nel cervello e non potrebbe esistere senza tale. Non è affatto scontato rispondere alla domanda di come si è sviluppato il cervello. Dove sta la nostra specificità? Secondo Bonicelli tutto sta nell’estrema complessità della nostra corteccia cerebrale. Janet e Freud- riflessioni conclusive Mentre Binet e Galton si stanno occupando della valutazione psicometrica delle caratteristiche individuali contemporaneamente in Francia, ma non solo, altre perone si occupano del problema delle malattie mentali. Uno di questi è Pierre Janet che si occupa prevalentemente all’approfondimento de ruolo degli eventi traumatici nei fenomeni psicopatologici e delle caratteristiche inconsce dei incordi ad essi relativi cioè di come i ricordi di un event traumatico possano causare delle sofferenze psichiche. Successivamente Freud viene influenzato dal pensiero di Janet. La psicologia nasce come approccio scientifico ai problemi relativi all’anima e alla natura dell’uomo che da tempo interessavano il pensiero filosofico e che avevano trovato nell’empirismo un metodo discontinuo alle tradizioni teologiche precedenti. In questo periodo grazie ad alcune teorie ci si può occupare della psiche in termini scientifici attraverso due metodologie: - approccio nomotetico: metodo scientifico che si fonda su di un’epistemologia nomotetica che ricerca leggi generali esplicative dei singoli fenomeni studiati sistematicamente nel loro ripetersi - approccio ideografico: metodo clinico che si fonda su di un’epistemologia ideografica che tende a costruire leggi generali sull’indagine di fenomeni la cui caratteristica è di essere singolari e particolari. Le persone in questo campo hanno adottato o l’uno o l’altro approccio considerandoli come contrapposti mentre la psicologa clinica non può che prendere in considerazione entrambe le metodologie perché da un lato i clinici si occupano di individui per cui è impossibile prescindere da caratteristiche specifiche di ogni individuo (la sofferenza, la preferenza ecc). D’altro canto nessun clinico può prescindere dalla definizione e descrizione delle leggi generai che governano i processi psicopatologici. I due approcci sono dunque imprescindibili e integrati. I due approcci e la non completa divisione dell’oggetto di interesse tra psicologia e psicologia 15 clinica, condurranno a professioni e luoghi diversi di impiego degli autori in esse implicati, in qualche modo biforcando lo sviluppo unitario delle discipline psicologiche. I due approcci davano risultati diversi, da una parte la ricerca scientifica all’interno dei laboratori di psicologia soprattutto presente nelle università, dall’altro il focus sui bisogni reali delle persone che manifestavano la sofferenza e che dovevano essere curati. All’inizio del secolo dunque coloro che si occuperanno dell’essere umano lo faranno attraverso delle metodologie che inizialmente erano ben distinte. La psicologia moderna è l’esito dell’integrazione tra i due approcci, dei diversi oggetti di indagine e delle diverse finalità conoscitive. Tiriamo le fila Si attribuisce la nascita della psicologia ad un determinato clima di sviluppo, l’illuminismo della fine del ‘700 che ha consentito per la prima volta l’applicazione del metodo scientifico allo studio della mente. È lo studio della mete che riflesse su se stesa, l’osservatore e l’osservato coesistono. Abbiamo analizzato la nascita della disciplina attraverso i padri fondatori della disciplina come Wundt e James e tutti gli altri. 3- Psicologia Clinica: la nascita Introduzione La psicologia clinica si fonda su quattro pilastri fondamentali (chiamati tradizioni o prospettive): - la tradizione psicometria, ovvero la misurazione delle caratteristiche psicologiche e cognitive. - la tradizione psicoterapeutica ovvero il trattamento della malattia mentale e della sofferenza psichica ovvero la cura dei fenomeni psicopatologici. - Il ruolo degli psicologi nelle cliniche psicologiche, nei riformatori, nei manicomi. - lo sviluppo della professione psicologica in quanto comunità professionale. Il contesto storico di inizio ‘900 Da Reisman (1999 p. 23): 16 «La tendenza predominante del secolo XIX fu quella del miglioramento delle condizioni sociali sulla base dei diritti e della dignità dell’individuo. Tale tendenza era radicata a tutti i livelli. Dalla letteratura venne l’idea che le persone di tutte le classi sono sensibili, appassionate, tormentate e degne di rispetto, simpatia e assistenza se oppresse. Dalla scienza vennero scoperte empiriche e teorie che sfidavano le credenze religiose e tradizionali, confutando l’esistenza di distinzioni e differenze innate. Dai governi vennero riforme in larga misura ispirate all’accettazione di un più ampio concetto di responsabilità sociale. Questi sviluppi fornirono il sostrato di valori su cui la psicologia clinica, come scienza e come professione terapeutica, potè nascere e crescere». Sosterremo quindi che la storia delle psicologia clinica, coincide con quella degli psicologi clinici in qualità psicologi interessati all’ambito applicativo specifico che ne costituisce l’oggetto. La tradizione psicometrica Ci occuperemo degli psicologi in qualità di costruttori, somministratori di test psicologici e misuratori delle caratteristiche psicologiche degli individuo. Alcuni dei padri fondatori sono Galton, Binet e altri che hanno inaugurato questa stagione come Cattel, Spearmn, Terman ecc. Siamo negli Stati Uniti nell’inizio del ‘ 900 in cui immigrava una grande quantità di persone. Gli Stati Uniti si stavano espandendo, grande era il boom economico. L’emigrazione verso gli Stati Uniti è importate per quanto riguarda lo sviluppo della professione degli psicologi anche in riferimento ad Ellis Island, un’isoletta presso New York e posto in cui tutti gli immigrati erano sottoposti a delle visite e a delle prove per selezionare delle caratteristiche. Oltre ai medici erano presenti anche i psicologi. Il condizionamento classico o pavloviano Nel 1903 Ivan Pavlov porto a termine un esperimento per provare l’esistenza del riflesso condizionato negli animali. Parti dal dal presupposto che nel cane è. Presente un riflesso incondizionato della salivazione ogni volta che che gli viene sottoposto del cibo. Gli associò poi per diverse volte alla presentazione de cibo lo stimolo di una campanella. In questo modo pavlov riuscì a produrre una riposta condizionata da parte dell’animale. Infatti ogni volta che la campanella suonava, in cane metteva in atto la salivazione. Possiamo vedere dimostrazione di condizionamento classico nella vita di tutti i giorni. Se andiamo dal dottore ed egli dice “non ti preoccupare, non ti farà male” e invece la puntura ci provoca un dolore fortissimo, a partire da quel momento assoceremmo a quella frase una sensazione di dolore anche quando sappiamo che non farà male. Un secondo caso di condizionamento classico si. Può mettere in atto con una cannuccia. Il condizionamento classico funziona con tutti gli animali. Es. gatto e campanella. La Skinner box Nella gabbia di Skinner, il topo può vedere due leve: una leva trasmette una scossa elettrica, mentre l'altra dava una piccola quantità di cibo. Inizialmente il topo esplorò la gabbia e per caso premette la leva che dava la scossa poi quella che gli dava il cibo. Dopo vari tentativi capì quale leva andava a suo favore (quella che dava il cibo) e capì che non doveva più premere quella che dava la scossa. Si parla di "condizionamento operante". Con i piccioni, Skinner dimostrò che era possibile "modellare" (shape) il loro comportamento con la tecnica del rinforzo: se il piccione accennava a un movimento di rotazione, questo veniva "premiato" con distribuzioni di crocchette, fino a ottenere una rotazione completa[4]. 17 creando e consolidando dei regimi di tipo assolutistico. Stiamo parlando del nazifascismo in Germania, del fascismo in Italia e del franchismo in Spagna. Come sapete, i fenomeni fascisti si caratterizzarono prevalentemente per un diffuso – il nazismo sicuramente, il fascismo un po’ meno anche se ebbe le sue responsabilità e il franchismo ancora meno – sentimento di antisemitismo. Poiché la psicoanalisi era stata creata da Freud, che era un semita (cioè era di religione e stirpe ebraica), poiché molti dei primi psicoanalisti e psichiatri erano ebrei, quello che si venne a creare fu un fenomeno di emigrazione (un po’ per povertà un po’ per persecuzione) che portarò molti psichiatri e molti psicoanalisti ad operare negli USA. Il che contribuì certamente al consolidarsi della psicologia come scienza, e come scienza applicativa, più negli USA che in Europa. È in questo periodo che la distanza fra lo sviluppo della psicologia negli USA e il suo sviluppo in Europa verrà a determinarsi. L’Europa sconterà per tutto il secolo scorso un forte ritardo dal punto di vista delle discipline psicologiche prevalentemente per il fatto che Germania e Italia consideravano la psicologia una disciplina pericolosa, perché metteva le persone a confronto con la natura umana, perché cercava di promuovere i diritti umani e migliori condizioni educative, e così via. In più era una disciplina che era ritenuta pericolosamente affine alla religione e la stirpe ebraica, e le due cose assieme certamente non contribuirono alla popolarità della psicologia nell’Europa prima della II Guerra Mondiale. Negli USA le cose avevano un’altra piega, e fu in quella sede che si andarono creando, nei primi anni ’40, degli strumenti psicologici che ebbero un certo ruolo, una certa risonanza. Sto parlando della prima scala Wechsler, il primo test di intelligenza sviluppato per misurare l’intelligenza negli adulti. Finora i test proposti servivano a misurarla nei bambini. Fu in questo periodo che vide alla luce la revisione Terman-Merrill del famoso strumento di Binet di cui abbiamo già parlato, attraverso norme americane, attraverso una ridefinizione degli indici, e stiamo parlando della versione Standford, il cosiddetto Standford-Binet. E fu in questo periodo che vide la luce un altro test per la misurazione delle abilità sociali, cognitive e di comunicazione degli strumenti, è la Weiner Social Maturity Scale: uno strumento finalizzato a misurare alcune caratteristiche psicologiche del soggetto con una particolarità, che era decisamente innovativa. Vi ricordo che gli anni precedenti avevano cominciato a manifestare un certo dubbio in merito all’attendibilità e la validità degli strumenti psicologici che passavano attraverso tecniche della domanda, generando la necessità di studiare e sviluppare nuovi strumenti (es. le prove proiettive di cui abbiamo parlato). La Weiner Social Maturity Scale è uno strumento che va esattamente in questa direzione, nel senso che non fa fare una performance ad un soggetto, non produce delle domande a cui il soggetto deve rispondere, con gli effetti distorsivi che erano Stati ipotizzati dalla Bronner, ma chiede a qualcuno che conosce bene il soggetto di descriverlo relativamente ad alcuni ambiti (item) che descrivono il funzionamento sia sociale, che nel contesto di vita quotidiana e così via. Questa nuova modalità, questa informance che passa attraverso qualcuno che conosce la persona che bisogna valutare, avrà un discreto futuro ed ancora oggi abbiamo dei discreti strumenti che sono gli informal report. Bene, proprio in questo periodo, oltre al test di Rorschach vede la luce un altro test che verrà poi utilizzato molto sia in psicologia clinica che in neuropsicologia clinica – cioè nell’approccio alle persone che avevano subito un trauma al sistema nervoso centrale – che è il Bender Gestalt Visual Test. Ma soprattutto è in questo momento che viene scoperta l’elettroencefalografa (ovvero l’elettroencefalogramma): che il cervello produce delle onde elettriche e che queste sono di alcuni tipi (beta, alfa, teta e delta), che durante il sonno si produce un determinato tipo di onda, con una determinata frequenza, che si chiama onda REM. Insomma, si scopre l’attività elettrica celebrale e questa scoperta dà luogo ad un certo ottimismo relativamente al fatto che pensieri ed emozioni diverse, stati d’animo diversi, potessero generare onde cerebrali diversi e che quindi potessero essere misurati. Si ritorna alla possibilità di misurare delle variabili quantitative di natura elettrofisiologica, però complessivamente psicofisiologica (ricordatevi la psicobiochimica di Witner) per concorrere alla valutazione delle caratteristiche psicologiche. 20 ANNI '40 Andiamo quindi alla seconda guerra mondiale. La stessa cosa che era successa per la prima accade nei dintorni – cioè prima, durante e dopo – la seconda guerra mondiale. Ovvero, si generano delle ulteriori esigenze di strumenti psicologici ai fini della selezione dei militari, di selezionare caratteristiche di coraggio, temperamento, disponibilità, sacrificio, intelligenza, cultura, personalità atte ai fini bellici. In questo periodo, e cioè sostanzialmente appena finita la guerra, si sviluppano alcuni test molto molto famosi, ve ne semplifico tre nella slide: - Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (cioè il cosiddetto MMPI) che viene costruito nell’università del Minnesota da Hataway e McKinley. È uno strumento che utilizziamo ancora adesso – ovviamente è stato revisionato, rivisto e ricostruito – però l’MMPI è uno degli strumenti più famosi e più utilizzati al mondo. - Lo stesso vale per la Wechsler Intelligence Scale for Children (cioè la WISC), che è uno strumento di intelligenza basato su come pensava funzionasse e fosse costituita l’intelligenza il Dott. Wechsler, che aveva già inventato la Wechsler-Bellevue per misurare l’intelligenza negli adulti. In questo caso stiamo parlando della prima scala di intelligenza secondo il modello Wechsler, ancora adesso noi utilizziamo quella scala di intelligenza – ovviamente non quella WISC lì, stiamo parlando della WISC IV – però è uno strumento ancora adesso in uso. - Un altro strumento molto molto importante per misurare l’intelligenza sono le matrici di Raven (le cosiddette PM38, poi ci saranno anche le PM47, poi ci saranno anche le PM-colored ancora adesso in utilizzo) che servono per misurare l’intelligenza dando però una terza concezione dell’intelligenza, diversa dalle due che abbiamo già visto. Quali sono? Abbiamo visto che Vineland aveva immaginato che l’intelligenza si potesse misurare attraverso delle abilità che vengono messe in campo dai soggetti in contesti reali, cioè ecologici, e pensava di misurare questa cosa attraverso delle interviste attraverso delle persone che conoscevano bene i soggetti che dovevano essere valutati. Wechsler immaginava l’intelligenza come composta da una serie di funzioni, aveva costruito dei test per misurare l’intelligenza negli adulti con la Wechsler-Bellevue e con la WISC nei bambini, immaginando di fare alcune prove di tipo verbale e di tipo pratico. Pensava che tutte insieme dessero giustizia del costrutto complesso di intelligenza. C’è un altro modo per pensare all’intelligenza che fa riferimento sostanzialmente al fattore insight, cioè alla capacità di trovare delle soluzioni nuove a problemi che non si conoscono o che non si sono mai visti, la cosiddetta intuizione, se vogliamo rappresentarla un po’ con il linguaggio comune. Ecco, questo costrutto di “intelligenza come insight” è quello che sta alla base di questo ulteriore terzo tipo di strumento per misurare l’intelligenza, che sono le matrici progressive di Raven. Intanto la tradizione psicometrica relativamente ai test proiettivi va avanti e negli USA si consolidano alcune scuole per l’utilizzo del test di Rorschach. Vi ho detto che Oberholzer ha formato Levy, Levy ha formato Beck e poi Beck aveva formato Hertz e Bruno Klopfer (che erano fra l’altro immigrati scappati dall’Europa e perseguitati dal nazifascismo). Bruno Klopfer è una persona dalla quale il test di Rorschach non può prescindere, poiché egli sviluppa un proprio metodo e dedica molto tempo ad approfondirlo. Anche Beck Hertz e altri, Rapaport e Shafer, fecero lo stesso però Bruno Klopfer ebbe un merito ulteriore: oltre ad aver sistematizzato l’opera di Hermann Rorschach, e contribuito a consolidare l’utilizzo clinico del test di Rorschach, fondò il Rorschach Research Excange, che era la prima rivista dedicata alle tecniche proiettive (che poi cambiò nome e divenne il Journal Projective Tecnique), che ancora adesso esiste con una terza denominazion (Journal of Personality Assessment), senza ombra di dubbio la rivista più importante per coloro che si occupano di psicodiagnosi, costruiscono e validano test psicologici al fine di consolidare la tradizione psicometrica di cui stiamo parlando. ANNI '50 21 Subito dopo la II Guerra Mondiale avvengono delle altre cose, che sono importanti per lo sviluppo della clinica. Dovete immaginare che stiamo parlando del fatto che un grosso ruolo che veniva esercitato dagli psicologi era misurare i costrutti psicologici, nel fare questo si poteva misurare l’intelligenza, la personalità ma anche la sintomatologia che rappresentava alcuni disturbi. In quel periodo non c’era un accordo generale mondiale, nemmeno dei nomi condivisi da attribuire alle malattie mentali. Diversi clinici/psicologi che si approcciavano a pazienti, a persone in una condizione di sofferenza psichica – ricordate il metodo idiografico – descrivevano la condizione clinica di ogni singolo paziente e speravano che questa descrizione potesse essere generalizzata, cioè rappresentativa di un certo modo di stare male di altre persone in giro per il mondo. Dopo la II guerra mondiale, anche in relazione alla sofferenza psichica legata ai traumi di guerra (pensate alle persone che erano state per 5 anni sotto i bombardamenti, che erano sbarcati in Normandia, che avevano visto esplodere il proprio compagno nel corso di un assalto durante la II guerra mondiale). Sostanzialmente le persone erano tornate dalla II guerra mondiale vittoriose ma con qualche trauma. In Europa era tutto da ricostruire, e tempo e soldi per occuparsi di questioni psicologiche ce n’era decisamente di meno; mentre negli Stati Uniti la necessità di arrivare ad una definizione comune, e di cercare di capire se esistono delle caratteristiche che descrivono compiutamente le diverse sindromi psicopatologiche, era diventata un’esigenza (così come lo era la necessità di costruire un nomenclatore della sofferenza psichica). È del 1949 la pubblicazione della ICD-6 (International Classification of Dieases, che significa Classificazione Internazionale dei Disturbi). Esso è sostanzialmente il nomenclatore che viene utilizzato in tutto il mondo e che dà il nome a tutte le malattie. Per noi è importante la sesta edizione perché è la prima che include anche i disturbi psicopatologici, cioè le malattie nervose e mentali. Fino ad allora esisteva l’ICD, cioè tutto il mondo aveva cercato di darsi delle regole comuni per denominare diverse malattie che riguardavano il corpo (cioè le malattie mediche, sostanzialmente) mentre nel 1949 la versione 6 dell’ICD inserisce il libro V che si occupa delle malattie mentali, proponendo una denominazione comune in quel momento. Contemporaneamente anche un’altra amministrazione, cioè l’amministrazione dei reduci di guerra americani (la Veterans Administration USA) aveva adottato un proprio sistema che era la Standard Classified Nomenclature of Disease con la stessa finalità. Questa cosa ha ovviamente un impatto sul lavoro degli psicologi che dovevano misurare delle caratteristiche anche psicopatologiche, e potevano avere un riferimento su che cosa connotava queste diverse sindromi. Il dopoguerra, siamo negli anni 50, 60, 70 e così via, ha rappresentato il boom della psicologia soprattutto per quel che riguarda gli USA ma non è da trascurare anche l’Europa. Ovviamente con un certo ritardo, perché in Europa c’era stata la II Guerra mondiale mentre negli USA pochissimo (solo Pearl Harbor, sostanzialmente) e quindi c’era tutto da ricostruire. Si stima che durante la II Guerra Mondiale negli USA fossero state sottoposte a test psicologici circa 60 milioni di persone, che è un numero impressionante se ci pensate. Negli anni ’50, l’ottica per quello che riguarda la psicometria – poi affronteremo anche gli sviluppi professionali attraverso la psicoterapia ma adesso siamo nel primo dei 4 filoni, quello della psicologia clinica attraverso la tradizione psicometrica – l’enfasi sulla validità degli strumenti assumerà una particolare rilevanza. Per esempio nell’MMPI cominciarono a introdursi delle scale per misurare la validità, cioè la tendenza del soggetto a mentire durante il test e misurare, come dire, gli effetti distorsivi. Sostanzialmente potremmo dire che negli anni ’50 per quel che riguarda il testing psicologico non ci furono delle nuove proposte, si determinò un grosso sforzo da parte degli psicologi per migliorare i test esistenti. ANNI '60 Arriviamo così agli anni ’60, in questi anni succedono alcune cose importanti. Sono gli anni in cui gli schemi sociali consolidati come la religione, la famiglia, le abitudini sessuali vengono picconate dalla generazione degli anni ’60 – soprattutto dagli studenti universitari – prima negli 22 normalmente. Questa è stata la grossa intuizione di John Exner, che contribuì alla rinascita del test di Rorschach che stava un pochettino assopendosi. Il CS è stato fino al 2006 in assoluto il metodo più utilizzato nel mondo, progressivamente per la somministrazione del test di Rorschach e la diagnosi attraverso il Test di Rorschach. Successivamente alla morte di John Exner, nel 2006, il suo posto è stato preso dalla ulteriore evoluzione – ma avrete modo di parlarne se affronterete il corso di psicologia – dal Rorschach Performance Assessment System (R-pas), che è la versione attuale – stiamo parlando del 2015 – dell’utilizzo del test di Rorschach. ANNI '80 Dagli anni ’80 si comincia a delineare ciò che ancora oggi domina nel pensiero psicologico nella tradizione scientifica psicologica internazionale: la fiducia nei progressi tecnologici, lo sviluppo della genetica, la disponibilità di nuova tecnologia (pensate alla risonanza magnetica, alla risonanza magnetica funzionale, alla PET, alla TAC). Sostanzialmente, i progressi della scienza – che consentono di meglio definire, approfondire e rendere decisamente più sensibile la misurazione delle caratteristiche fisiologiche dell’essere umano – portano la psicologia a mischiarsi e a confrontarsi sempre di più con questa tecnologia, spostando l’attenzione molto sul sistema nervoso centrale, sul funzionamento del corpo, quindi sul cervello, sulle onde cerebrali, sulla struttura del cervello, sulla composizione del cervello, sui rapporti fra le diverse aree funzionali del cervello e quindi contribuendo ad un consolidamento della versione psicobiologica degli studi in psicologia sperimentale. Sarà proprio in questo periodo di scoperte scientifiche che esse contribuiranno a migliorare notevolmente la nostra comprensione del rapporto fra natura e cultura, fra geni e ambiente, fra l’ereditarietà genetica e il ruolo che l’ambiente esercita nel rendere possibile l’adattamento dell’individuo ai contesti in cui nasce. Queste due cose – lo sviluppo dell’approccio psicobiologico e lo sviluppo delle nuove tecnologie, insieme allo sviluppo e la costruzione dei computer – influenzano anche la tradizione psicometrica che a questo punto comincerà a confrontarsi con i nuovi approcci allo studio della psiche. Immaginate, appunto, la risonanza magnetica ma anche la costruzione di strumenti coerenti che consentissero di misurare le variabili psicologiche che in questo nuovo modo di intendere l’individuo si sviluppano proprio in questo periodo. Vi faccio due esempi, nel momento in cui si scopre che alla base di molti fenomeni psicopatologici ci sta una disregolazione delle capacità di controllo emotivo da parte delle persone, quella che viene definita disregolazione emotiva, va da sé che un obiettivo diventa quello del costruire degli strumenti che siano funzionali alla misurazione della disregolazione emotiva. Cioè, in qualche modo, la tradizione psicometrica, oltre che continuare ad occuparsi dei bisogni dei singoli e della promozione della salute mentale all’interno del più ampio contesto della psicologia clinica, sta anche al passo con lo sviluppo delle tecniche e dei costrutti psicologici che si viene a determinare nel corso del secolo, attraverso la creazione, lo sviluppo e il miglioramento di strumenti che siano esplicitamente finalizzati a questo tipo di obiettivo. La tradizione psicoterapeutica e la ricerca in psicoterapia La comunicazione come cura dell’anima- Sigmund Freud e la nascita della psicoanalisi Nel 1885 Freud ed ancora uno sconosciuto, lavorava come medico presso l’ospedale generale di Vienna in cui si occupava di disturbi mentali perché pochi medici se ne occupavano perché si guadagnava bene. Le malattie mentali o venivano curati con metodi inadeguati e crudeli. Ai empi i mdici credevano che l’isteria fosse una malattia dovuto al sistema nervoso o da lesioni al cervello. Freud s recò a Parigi per approfondire le sue conoscenze e lavorò con Charcot che stava sperimentando una nuova cura all’isteria attraversi l’ipnosi che colpirono Freud e decide cosi di dedicarsi alla psiche umana. Charcot credeva che esistesse una parte nascosta nella mente, Freud elaborò i concetto e lo definì inconscio. Freud apri uno studio privato a Vienna in cui i primi risultati furono deludenti e si scontrò con l’opinione dei colleghi sul tema dell’ipnosi. Le sue teorie fecero un passo avanti quando un suo collega gli raccontò la cura di una sua 25 paziente, la rievocazione di ricordi traumatici, Anna O, che sotto ipnosi parlava e riviveva esperienze traumatiche. Lo sviluppo La psicoterapia non è l’unico aspetto di cui gli psicologi fanno parte. La psicoanalisi all’inizio del secondo esiste solo a Vienna e poco più , a mano a mano la cerchia si allarga e comincia a diffondersi in Europa. Stanley Hall era un esperto sostenitore della psicologia e traghettò le opere di Freud negli Stati Uniti contribuendo in maniera determinate alla diffusione dei principi psicoanalitici verso il popolo degli psicologi e verso l’applicazione della tecnica psicoanalitica su vasta scala. La psicoanalisi metteva a disposizione per la cura dei fenomeni psicopatologici, una tecnica sperimentale che incontrava il favore di una società in evoluzione che aveva il bisogno di trattare le persone, curare e migliorare le condizioni di vita di una popolazione che era progressivamente in aumento. Era dunque funzionale al sogno americano. Per tutti i primi anni del 900 la psicoanalisi si andò consolidando, anche attraverso il contributo delle tecniche proiettive che andavano progressivamente ad erodere spazio agli strumenti di testing psicologico che erano stati fino a quel momento sviluppati. Freud aveva quasi terminato la propria opera monumentale . Si cominciarono a creare le prime fratture all’interno del movimento e gli studiosi si dividevano, allontanandosi o avvicinandosi alle teorie di Freud. Così come la personalità di Jung era stato rilevante all’ingresso della psicoanalisi, altrettanto lo è stato per l’espulsione. In modo analogo avvenne tra Anna Freud, la figlia, e Melania Klein che si contendevano una posizione dominante all’interno della psicologi infantile Sostanzialmente la psicoanalisi comunità a creparsi e a costruire una molteplicità di pensieri che daranno luogo alle diverse suole psicoanalitiche che si sono andate consolidano nel corso del secolo scorso. Le scuole psicoanalitiche sostanzialmente tre in Europa : - la psicanalisi classica che fa capo Freud - Il modello delle relazioni oggettuali che fa capo Melania Klein - La psicologia dell’io con il pensiero di Anna Freud Queste suole hanno in comune la centralità dell’incontro ed il determinismo psichico cioè la concezione secondo la quale i comportamenti e le intenzioni delle perone sono motivate da una motivazione che è spinta pulsioni le e deriva dall’equilibrio fra due azioni: la pulsione lipidica o pulsione sessuale e la pulsione di autodistruzione o pulsione di morte. Un altro punto in comune è la centralità del paziente e della relazione con il terapeuta. Quest’ultimo aspetto e non la malattia o la specifica tecnica venivano considerati sempre pii fondamentali per l’esito terapeutico. I regimi assolutisti creati in Europa avevano tutti in comune la persecuzione degli ebrei ed il bando della psicoanalisi. I regimi assolutisti si basano sulla costruzione di un consenso popolare, auspicano e costruiscono il contrario dell’individuazione. Bisogna essere massa e tutti bisogna riconoscersi nel proprio leader e la dialettica de ve essere soppressa. Al contrario nella psicanalisi c’è l’uomo, l’individualismo, la possibilità che ha di maturazione soggettiva. Lo studio della psiche umana strappa la psicanalisi dalla concezione religiosa. La psicoanalisi raggiungeva la nobiltà e la ricca borghesia che poi rischiava di essere scettica nei confronti del regime. Questo fu uno dei motivi per cui la psicologia fu messa a bando. Gli psicologi e psicanalisti (molti dei quali anche e ebrei) furono così costretti ad emigrare negli statu uniti dove furono accolti e incorporati nei sistemi di ricerca formativi e clinici che si andava sviluppando. L’Europa si impoverì e gli usa ne beneficiarono. Gli psicanalisti una volta arrivati però trovarono un. Contesto estremamente diverso da quello europeo caratterizzato da: 26 - Focus sui bisogni di una società che stava crescendo e uscendo dalla grande depressione. - Psicanalisti impiegati dove servivano competenze psicologiche (ospedali manicomi, scuole) - Il pensiero psicoanalitico messo a confronto con patologie con le quali la teoria psicanalitica non si era mai confrontata. Nelle nuove rotture gli psicanalisti si sono trovati a lavorare con dei pazienti molto più gravi rispetto a quelli europei i quali venivano autonomamente da loro e che potevano anche pagarlo. Il. Confronto con popolazione, malattia e cure diverse ha contributivo non poco allo sviluppo del pensiero psicanalitico sensibilmente distante da quelle che erano le teorie di Freud. Quel contesto ha dato vita a maggiori contributi. Il pensiero psicanalitico non era pero l’unico, all’interno delle università si andava delineando il comportamentismo. Nel periodo intorno alla I guerra mondiale si sviluppa una nuova teoria, al momento priva di ambizioni terapeutiche: il comportamentismo che dobbiamo a John Watson. Egli sostiene che la cosa di cui vale la pena soffermarsi è il comportamento dell’individue, senza porsi il problema d quali siano le ragioni sottostanti, il pensiero o la mente. In questo periodo il movimento rimane confinato nei laboratori ma nel coso del tempo comincia ad assumere un ruolo nell’applicazione della psicologia. Ancora una volta è il contesto il fattore rilevante; gli americani erano interessati ad impiegare gli psicologi affinché migliorassero l condizioni della popolazione per poter perseguire con più efficacia i propri obbiettivi e quelli della società americana. A loro interessava che l+e scuole riuscissero a recuperare i ritardi degli allievi e che potessero essere messi nelle condizioni degli latri. Un ruolo in questa direzione lo ebbe Franz, benché non comportamentista, la sua enfasi sulle possibilità rivestite dall’educazione e dall’addestramento in senso riabilitativo. Con la II guerra mondiale l’interesse per la psicoterapia andò temporaneamente assopendosi per risvegliasi successivamente in ragione delle necessita di trattamento dei traumi conseguenti all’evento bellico. Per far fronte a un’estinzione problemi si comincia ad utilizzare dei nuovi approcci psicoterapici come: - Psicoterapia di gruppo (possibilità di poter trattare contemporaneamente le persone che condividevano il medesimo problema) - Psicoterapia breve e focale (forme di intervento che non miravano a ristrutturare completamente la personalità dell’individuo ma avevano come obiettivo dell’intervento lo specifico trauma, ricordo, esperienza o sintomo) Successivamente il pensiero comportamentista esce dei laboratori e si insinua nel panorama psicoterapico e diventa la terapia più diffusa negli Stati Uniti. Siamo negli anni ‘60, anni in cui si inseriscono alti elementi come la psicologia di comunità , la psichiatria sociale, psicologia umanistica, psicofarmacologia. Tra i modelli psicoterapeutici sviluppati in quegli anni possiamo ricordare la terapia della famiglia, l’analisi transazionale, la terapia della Gestalt. Dunque abbiamo una molteplicità di approcci e la centralità del ruolo del psicoterapeuta. Diversi elementi favoriscono e promuovono la ricerca della psicoterapia perché sostanzialmente molto costosa e poche persone vi avevano accesso. In sostanza intorno alla fine degli anni ’80 gli approcci psicoterapeutici vennero stimati in alcune centinai che si possono raggruppare in 4 modelli principali o fattori comuni: - Trattamenti cognitivi - Trattamenti comportamentali - Approcci psicodinamici - Terapie umanistiche ed esistenziali La ricerca in psicoterapia La ricerca si sviluppa a patire dagli anni ’50 . Potremmo affermare che essa suole essere distinta in due principali modi: - Studi sugli esiti, o “outcome” - Studi di processo o “process” 27 Gli psicologi nei manicomi Convenzionalmente il primo psicologo clinico della storia fu Lightner Witmer che, nel 1896, presso l’università della Pennsylvania, fondò la prima clinica psicologica della storia. Va però precisato che la sua influenza sullo sviluppo della psicologia clinica fu pressoché nullo e comunque confinato alla città di Filadelphia. Furono invece altri “clinici” a diffondere e consolidare progressivamente l’applicazione della psicologia ai bisogni di salute, tra questi -Ivory Franz che per primo introdusse la pratica dell’assissment psicologico per ogni nuovo paziente in un istituto psicologico -Henry Goddard che, oltre a tradurre la scala Binet sviluppò il Vineland laboratory, probabilmente il centro più avanzato sullo studio della valutazione dei deficit intellettivi e del loro trattamento. Ci si potrebbe chiedere perché si stiano trattando quasi esclusivamente autori nord americani . La ragione è di natura storico-politica. Mentre gli usa nei primi anni 40 del secolo scorso si stavano emancipando da un passato coloniale, da una subalternità culturale nei confronti dell’Europa e soprattutto si stavano consolidando economicamente e nelle proprie istituzioni democratiche, l’Europa, in almeno 4 importanti paesi, Germania, Italia, Spagna, Russia, si stava avviando verso stati di dittatura e conflitti che sarebbero scaturiti nei due conflitti mondiali. La supremazia nelle discipline psicologiche da parte del Nord America si instaura fin dal principio. Tale supremazia è tuttora evidente e particolarmente in Italia assumerà caratteristiche ancora più marcate. Rare sono le eccezioni in questo senso, tra queste la psicologia della Gestalt in Germania e la prospettiva storico culturale in unione sovietica. Mentre la prima ebbe poca attinenza con la prospettiva clinica, la seconda avrebbe avuto un ruolo portante per la psicologia applicata ma solo successivamente agli anni ’80, in ragione ella censura sovietica che colpì l’opera del fondatore. Un’altra eccezione europea è rappresentata da Claude che in Francia introduce i primi psicanalisi in un servizio di psichiatria, intraprendendo un’evoluzione del pensiero psicoanalitico. Il suo lavoro portò da un lato ad un forte condizionamento del modello psichiatrico francese in senso psicoanalitico, dall’altro contribuì allo sviluppo di un pensiero psicoanalitico istituzionale che prese le mosse proprio da quel paese. Mentre negli usa gli psicologi intraprendono il percorso professionale che abbiamo già descritto, per giungere a quello che sarà la scontro finale con la psichiatria in merito all’autonomia nell’esercizio della pratica psicoterapica, nel resto del mondo occidentale, negli anni ’60, proliferano i movimenti per la salute mentale, per l’umanizzazione delle carceri e degli ospedali psichiatrici, per l’università di massa. In Italia questo si tradurrà nella legge Basaglia. Benché gli albori della psicologia fossero più centrali sullo sviluppo scientifico piuttosto che applicativo è innegabile che il versante applicativo, soprattutto il merito dei test psicologici, si stesse consolidando e, almeno in usa e in Francia, aveva ormai assunto una dimensione professionale e autonoma. Ciò si consolidò ulteriormente in seguito alla riconosciuta necessita di una adeguata formazione per la somministrazione dei test nonché delle spinte mondiali e istituzionali verso l’applicazione delle scoperte e delle conoscenze psicologiche (ospedali psichiatrici, scuole, settore penitenziario, esercito ecc). Negli usa tale necessità fu talmente preminente da indurre alla creazione di una società scientifica autonoma. Un ulteriore elemento di spinta verso la dimensione clinica in psicologia fu, soprattutto a partire dagli anni ’30, la psicoterapia. Da un lato i molti psicanalisti ebrei in fuga dall’Europa pre bellica che, con lo spirito pratico americano, venivano accolti ma impiegati nelle istituzioni sanitarie locali, dall’altro la crescita economica statunitense che vedeva aumentare la disponibilità della cura della mente oltre che del corpo, dall’altro ancora una maggiore sensibilità verso i problemi psicologici unitamente allo sviluppo del pensiero psicoanalitico e del comportamento consolidarono una dimensione clinico professionale fino a quel momento sconosciuta: la terapia psicologica. A partire dagli anni ’70 per gli psicologi si instaura un nuovo obiettivo 30 professionale di massa: la psicoterapia con le conseguenti battaglie di riconoscimento professionale. Per l’Italia dovremo aspettare il 1989 per un formale riconoscimento della professione di psicologo. La conseguente formalizzazione dei requisiti per la pratica psicoterapeutica. E l’Italia? Prima del dopoguerra l’Italia non ha avuto la psicologia. Le persone che hanno contribuito alla nascita della psicologia e della professione sono ancora vive. Questo per dire che la disciplina è molto giovane. L’Italia era parità molto bene. Prima del 1875, data convenzione di nascita della psicologia scientifica, al pari del resto dell’Europa, numerosi medici e filosofi avevano contribuito allo sviluppo del sapere psicologico da proprio. Specifico punto di vista. Nella storia più remota, le istituzioni universitarie italiane avevano generato quasi tutti studiosi già citati (Galileo, Vesalio, Golgi) ma anche eminenti filosofi quali Vico, Bonatelli, Cattaneo, Ardigò, Chiarungi, Lombroso. Anche in prossimità della fondazione del laboratorio di Wundt autori italiani si distinguono e operano in maniera da non evidenziare ritardi rispetto al resto dell’Europa. Meritano menzione -Giuseppe Sergi che fonda il primo laboratorio di psicologia italiano e sarà maestro e ispiratore di Maria Montessori -Angelo mosso che crea a Torino uno tra i più importanti laboratori di fisiologia al mondo e che inaugura lo studio scientifico. -Francesco De Sarlo fonda a Firenze un laboratorio di psicologia sperimentale È del 1905 il primo decreto che istituisce cattedre di psicologia sperimentale anche n Italia m già prima esistevano insegnamenti “liberi” della materia. Le cattedre vengono istituite a Torino, Roma e Napoli laddove già esisteva la tradizione in tal senso. Qualche riflessione in merito all’Italia Benché partita bene, come dimostrato dal sostanziale allineamento (se non da vere e proprie connotazioni pioneristiche) l’Italia non mantiene il passo con il resto del mondo (principalmente USA) a causa del fuoco incrociato delle vicende storico politiche ma anche della sua specificità geografico culturale. Se da un lato l’avvento del fascismo ha indubbiamente contrastato quel fervido zeitgeist favorevole alla psicologia di cui abbiamo parlato in precedenza, dall’altro l’egemonia culturale cattolica e la vicinanza con lo Stato Pontificio hanno fatto il resto. La prelazione sulle questioni dell’anima, nel nostro paese, era quasi esclusivo appannaggio della religione o, nel migliore dei casi, di studiosi a questa devoti (vedi Agostino Gemelli). Chi si distaccava da questa visione incondizionatamente si riconosceva in una delle correnti dell’idealismo che è una visione del mondo che riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto. Il dramma economico conseguente al I evento bellico mondiale, il ventennio fascista e il conseguente isolazionismo culturale autocratico, il periodo bellico successivo, la ricostruzione e lo zeitgeist cattolico hanno contribuito in maniera determinante ad un ritardo culturale del nostro paese, in ambito psicologico, da cui si è faticosamente ripreso solamente a partire dal dopoguerra con un ritardo almeno cinquantennale. Tale ritardo complessivo ha investito anche la psicologia clinica, sia in ragione dei fenomeni sopradescritti (la psicoanalisi veniva considerata scienza ebraica sia dal regime fascista che dalla Chiesa e, in quanto tale, osteggiata) e sia in ragione dell’isolamento culturale autocratico che ha consentito il riavvio (da una posizione sottomessa) di un confronto con lo sviluppo disciplinare solamente dopo la ricostruzione post bellica. 31 La rinascita della psicologia (e con essa della psicologia clinica), nel nostro paese, dovrà attendere il secondo dopoguerra. L’egemonismo americano in tutti i capi economici e del sapere si estende anche al contagio del resto del mondo rispetto alla cultura psicologica, in quel paese da tempo radicata. Si può quindi sostenere che, contrariamente all’inizio del secolo, quando anche il pensiero italiano ed europeo contribuirono allo sviluppo disciplinare psicologico, nel dopoguerra importammo (quasi esclusivamente) ciò che in USA (e marginalmente anche in altri paesi, v. Gestalt) era stato pensato, scritto, creato e applicato (magari anche proprio da quegli intellettuali italiani ed europei emigrati per questioni razziali….) Se, da un punto di vista superficiale, ciò potrebbe non sembrare un gran danno: in fondo prendevamo per già fatto ciò che ci sarebbe servito…in realtà la faccenda non è così semplice e neppure scontata: -da un lato lo zeitgeist che in USA si era progressivamente delineato , a differenza del nostro paese, includeva la psicologia come dimensione culturale in senso ampio, mentre da noi questo era un percorso ancora da fare. Basti pensare all’ostilità della Chiesa (e con essa del partito politico per un cinquantennio dominante), alle tracce ancora vive dell’idealismo, al difficile rapporto con la medicina e la psichiatria (in USA già affrontato e chiarito e da noi ancora tutto da giocarsi) in particolare con la versione organicistica di questa, alla difficoltà a definire un profilo professionale specifico per lo psicologo, sia dal punto di vista formativo che giuridico; -dall’altro alla dimensione scientifica che, azzerata per un cinquantennio, doveva ripartire con le forze che aveva…e non erano molte! La psicologia italiana, dunque, si trova nel secondo dopoguerra, a dover affrontare, se non una vera e propria domanda di psicologia, quantomeno la diffusione di una cultura psicologica a vasto raggio. A questo si affianca la necessità di formare gli psicologi e di sviluppare quella dimensione clinico-applicativa da noi praticamente sconosciuta da tempo. Se ricordiamo lo sviluppo della psicologia nell’Università italiana del primo trentennio del secolo, appare evidente che nel nostro paese non ci sono forze adeguate per rispondere compiutamente a tali bisogni e tendenze. Potremmo sostenere che, dagli anni ‘40 in avanti, si ri-producono in Italia il medesimo dibattito/confronto ma anche scontro, relativamente all’autonomia, all’applicazione e all’impostazione scientifica della psicologia (e con questa della psicologia clinica) che in USA era stato affrontato 50 anni prima. Alcuni aspetti di tutto ciò sono tuttora in corso: vedi ad esempio la rivalità con la psichiatria, il mancato riconoscimento dell’autonomia organizzativa degli psicologi nel SSN, la dimensione formativa della psicologia clinica, la privatizzazione della formazione alla psicoterapia, l’ambiguità rispetto alla collocazione tra scienze umane-mediche e della natura… La strada per la psicologia clinica italiana, in definitiva, è ancora lunga, soprattutto dal punto di vista culturale poichè, sotto il profilo scientifico, globalizzazione, mainstream e egemonia nordamericana hanno sostanzialmente appianato le differenze con oltreoceano, portando lo sviluppo scientifico nazionale (ovviamente in rapporto al PIL investito in ricerca, decisamente in sufficiente) proporzionalmente pari al resto del mondo. Absit iniuria verbis, non sono certo che ciò sia un bene e soprattutto che non sarebbe potuta andare in modo diverso... 32 Altro esempio, tratto dagli studi condotti da Minard nel Belgio della metà del XX secolo. Minard si occupava di studiare le interazioni fra i minatori che lavoravano nelle viscere della terra. Come sappiamo, quello del minatore è un lavoro durissimo, che la gente, se solo può, cerca di non fare. E infatti nelle miniere belghe c’era un numero enorme di immigrati (fra cui molti italiani… era l’epoca in cui gli immigrati eravamo noi), e i belgi che ci lavoravano erano i più svantaggiati socialmente. Ebbene, Minard osservò che quando i minatori erano nella pancia delle montagne, centinaia di metri sotto il livello del suolo, a fare un lavoro terribile e pericolosissimo, si consideravano tutti pari gli uni rispetto agli altri. Interagivano fra loro trattandosi tutti come minatori, senza distinzione di nazionalità e di colore della pelle. Ma quando salivano sul trenino che li riportava in superficie, si segregavano reciprocamente. I bianchi stavano con i bianchi, i neri stavano con i neri. Gli italiani stavano con gli italiani, i belgi con i belgi e così via. Era il contesto che diceva alle persone quali erano i comportamenti appropriati alla situazione in cui si trovavano e, in senso lato, addirittura chi esse erano. Ma se la società impatta su di noi, anche noi possiamo impattare sulla società. Lo facciamo nei nostri comportamenti quotidiani, sia nella vita familiare e relazionale più strettamente intesa, sia impegnandoci in azioni dalla rilevante valenza sociale. Pensate a come è cambiata la cultura occidentale negli ultimi 50 anni grazie al comportamento coordinato di piccole minoranze. Pensate a come il ’68, il femminismo, i movimenti GLBT hanno modificato definitivamente i valori sociali, i costumi e perfino le leggi. Pensate che fino a pochi decenni fa in Italia la pillola era consentita solo per regolarizzare il ciclo mestruale e ora viviamo una grandissima libertà sessuale. Pensate che fino a pochissimi decenni fa era ancora in vigore la cosiddetta legge sul delitto d’onore, che dava così tante attenuanti al marito che aveva ucciso la moglie infedele da neutralizzare quasi completamente ogni condanna e ogni legittimo desiderio di giustizia. Ne parla in maniera tragicamente divertente il bellissimo film di Pietro Germi Divorzio all’italiana. Fino a pochi anni fa, insomma, c’era il delitto d’onore, il divorzio non era consentito, l’aborto anche, e oggi viviamo in una situazione in cui la discrepanza di status e di potere fra uomini e donne si è grandemente (anche se non totalmente) ridotta, e le donne non sono mai state padrone della propria vita e del proprio corpo come adesso. Tutto questo, appunto, grazie alle azioni di pochi individui. La metafora che spesso si usa per descrivere questa reciproca influenza fra individuo e società è quella del fiume. Il letto del fiume (che nella metafora rappresenta la società) indirizza e in parte determina lo scorrere dell’acqua (che nella metafora rappresenta gli individui). Ma anche l’acqua, scorrendo, certo faticosamente e certo solo nel lungo periodo, cambia il letto del fiume, adattandolo a sé. Siamo insomma contemporaneamente essere individuali ed esseri sociali, e l’ottica psicosociale assume questa interdipendenza fra individuo e società come suo tratto fondamentale: si afferma proprio come disciplina cerniera fra lo psichico e il sociale. Nel suo interessantissimo libro di psicologia culturale Menti tribali, Jonathan Haidt sostiene una tesi che va esattamente in questa direzione. Secondo Haidt, “Uno dei principi della psicologia culturale” (per noi: della psicologia sociale) “è che ‘cultura e psiche si completano a vicenda’. In altri termini, non si può studiare la mente ignorando la cultura,” (noi diremmo il contesto) “come fanno di solito gli psicologi, perché le menti funzionano solo dopo esser state riempite di una determinata cultura. E non si può studiare la cultura senza tener conto della psicologia, come sono soliti fare gli antropologi, perché concetti e desideri profondamente radicati nella mente umana contribuiscono a modellare pratiche e istituzioni sociali (per esempio i riti di iniziazione, la stregoneria o la religione), che per questo assumono forme simili anche da un continente all’altro”. E quindi che cosa fa la psicologia sociale? Innanzitutto va ricordato che la psicologia sociale è, prima di tutto, una psicologia. Ne consegue che le cose che vuole studiare si collocano soprattutto (anche se, per il suo statuto, non solo) a livello individuale. Studiamo soprattutto opinioni (cioè prese di posizione su argomenti socialmente rilevanti: è un’opinione che cosa 35 pensiamo della pena di morte, della guerra umanitaria, ma anche dell’opportunità di fare un corso on line di storia della psicologia: la rilevanza sociale può essere collettiva, generale, ma anche delimitata a uno specifico ritaglio del mondo sociale). Studiamo anche atteggiamenti. Come vedremo più avanti, quello di atteggiamento è un costrutto centrale per tutta la psicologia sociale. Gli dedicheremo un po’ di approfondimento quando parleremo di stereotipi e pregiudizi. Per adesso, accontentiamoci di imparare che un atteggiamento non è, come nel linguaggio quotidiano, un modo di porsi, ma è la valutazione complessiva di un oggetto. Ho un atteggiamento positivo verso la barriera corallina, verso i cantautori italiani, verso Menti tribali di Haidt se questi oggetti mi piacciono. Ho un atteggiamento negativo verso la chimica inorganica, verso i presidenti americani con i capelli arancioni e verso la trippa se questi oggetti non mi piacciono. Il terzo oggetto tipicamente studiato dagli psicologi sociali sono i comportamenti. In questo caso l’accezione comune e quella scientifica del concetto sono le stesse, per cui non vale la pena approfondirlo. Studiamo stati e variabili principalmente individuali, dicevo. Questo perché una parte della psicologia sociale non studia singoli individui, ma piccoli gruppi. Si possono infatti studiare le dinamiche di gruppo; le interazioni che tipicamente hanno luogo in questi aggregati relazionali. E i gruppi possono essere messi a tema come oggetto di studio anche nelle loro relazioni reciproche, concentrandosi tipicamente sui comportamenti di conflitto e, più raramente, di cooperazione. Esiste proprio una disciplina, che si chiama Psicologia dei gruppi, che nasce nella prima metà del XX secolo proprio grazie ai lavori di alcuni importantissimi psicologi sociali, e che studia sia le dinamiche intragruppi, sia le relazioni intergruppi. Lo vedremo più avanti. La psicologia sociale, insomma, studia come l’esperienza, l’attività mentale e pratica e i comportamenti individuale e di gruppo si articolano con il contesto sociale, analizzando i processi con cui percepiamo in mondo personale e sociale, ma anche la sua valutazione, derivante dall’esperienza diretta o dal pregiudizio, l’influenza sociale, rapporti intergruppi e così via. È insomma una disciplina della relazione, in senso lato (fra individui, fra individuo e gruppo, fra individuo e società, fra gruppi e così via). L’unità di analisi più classica della psicologia sociale è definita individuo-in-situazione: proprio perché un individuo a sé stante, avulso dal contesto, per noi ha poco senso. Ma situazione in che senso? Situazione in senso lato. Abbiamo visto prima parlando di autostima come le variabili sociali e culturali contano nell’influenzare gli stati individuali, anche quelli più privati che fanno riferimento a che cosa sappiamo e pensiamo di noi stessi. E abbiamo visto, parlando di minatori che entrano ed escono dalle viscere della terra, che anche le relazioni quotidiane possono influenzare quel che riteniamo adatto e desiderabile nelle nostre interazioni con gli altri. Ma anche trovarsi per caso in una specifica situazione può impattare pesantemente sui nostri comportamenti. L’esempio emblematico è quello che concerne la mancata messa in atto dei comportamenti di aiuto. I media sono pieni di esempi in cui ci sono persone che hanno bisogno di essere soccorse (perché sono state aggredite, perché sono svenute per terra, perché sono state investite e così via) e nessuno di quelli che assistono alla scena le aiuta. Latané e Darley hanno mostrato che questo non avviene tanto perché chi non aiuta è egoista, autocentrato, disinteressato agli altri e così via. Non avviene insomma per stabili ragioni individuali. Avviene, al contrario, per mutevoli ragioni contestuali. Un complesso insieme di esperimenti ha infatti mostrato che, nell’influenzare la probabilità di mettere in atto un comportamento di aiuto, la variabile cruciale è il numero di astanti. Quante più sono, tanto più è difficile che le persone aiutino. Questo essenzialmente per due ragioni. Da un lato, la cosiddetta ignoranza pluralistica. Quelle che richiedono la messa in atto di comportamenti di aiuto sono, per fortuna, situazioni inconsuete. Potrebbe non capitarci mai di trovarci in una situazione del genere. Se e quando ci capita, non abbiamo una solida esperienza pregressa che ci dica che cosa bisogna fare. Se ci 36 sono altre persone, tendiamo a osservare il loro comportamento per stabilire che cosa è giusto fare. Ma questo lo fanno tutti, e quindi tutti finiscono per studiarsi a vicenda, nessuno si muove, e tutti concludono che l’inazione è la cosa giusta. La seconda ragione è la cosiddetta diffusione di responsabilità. Se siamo da soli e vediamo una persona riversa al suolo, sappiamo che tocca a noi intervenire per aiutarla. O noi o nessuno. Noi, quindi. Ma se ci sono altre persone, ognuna finirà per chiedersi di chi è la responsabilità dell’intervento. Ne conseguirà, con grande facilità, che nessuno intervenga. Individuo-in-situazione, dunque. Dovrebbero bastare questi pochi esempi per mostrarci che estrarre l’individuo dalla situazione sottrae alle nostre spiegazioni delle variabili indispensabile a spiegarne atteggiamenti e comportamenti. Senza considerare la situazione, dovremmo concludere che la competitività e l’autostima non sono in relazione fra di loro (quando in realtà lo sono, e la relazione cambia in funzione dei principali valori sociali culturalmente condivisi). Che i minatori di Minard mettevano in atto comportamenti insensati e contraddittori (quando in realtà erano perfettamente sensati e coerenti con il contesto relazionale in cui essi si trovavano). Che i passanti apatici che non aiutano sono egoisti, asociali e disinteressati agli altri (quando in realtà sono così sociali che basano la loro scelta di non intervenire sulla presenza di altre persone, che neppure conoscono) E a che cosa serve la psicologia sociale? Secondo Gergen, la psicologia sociale serve a fare tre cose. La prima è la comprensione. Puntiamo a fare progredire la conoscenza, spiegando perché si verificano i fenomeni psicosociali. Perché nelle situazioni collettive la gente non aiuta chi ne ha bisogno, come abbiamo detto. O, per pensare ad altre cose di cui ci occuperemo nelle nostre lezioni, perché tendiamo a essere conformisti o anticonformisti rispetto ai gruppi in cui ci troviamo a essere inseriti. O perché tendiamo a pre-giudicare le altre persone per il loro colore della pelle. Lo vedremo più avanti, appunto. La seconda è la sensibilizzazione sociale: segnalare alla società alcuni suoi meccanismi di malfunzionamento. Ad esempio, come contribuiamo, spesso inconsapevolmente, a promuovere le disuguaglianze di genere. O come possiamo, in maniera totalmente inattesa, indipendentemente dai nostri valori individuali, costituire un pericolo per la democrazia. La terza è la emancipazione sociale: descrivere possibilità di vita alternative, impegnarsi per inverarle. È l’ambito della psicologia sociale applicata, quella che utilizza le proprie scoperte e le proprie chiavi di lettura per impegnarsi, anche politicamente, per modificare il mondo puntando a renderlo più simile a quello che, secondo gli psicologi sociali, dovrebbe essere. È una psicologia sociale che spesso sconfina nella psicologia di comunità. Una psicologia che, come la ha definita Amerio, uno dei suoi fondatori, si colloca nell’intersezione fra clinica e politica. Ma non ne parleremo, perché ci porterebbe fuori strada rispetto ai nostri obiettivi. La incontrerete, comunque, se vi iscriverete ai corsi di studio del nostro dipartimento. Il clima culturale Si considera tradizionalmente che la psicologia sociale sia stata fondata nel 1908, con la pubblicazione dei primi due manuali che sistematizzano la natura, i metodi e le scoperte della disciplina. Si tratta ovviamente di una scelta convenzionale. Infatti, i due manuali passano sostanzialmente sotto silenzio, per essere riscoperti, o meglio forse addirittura scoperti qualche decennio dopo. Ed è una scelta convenzionale anche perché in precedenza sono stati pubblicati alcuni lavori che sono degli importanti precursori dell’ottica della psicologia sociale, compreso un volume che riporta le parole psicologia sociale nel titolo. Alcuni non hanno quasi lasciato traccia, altri sono stati dimenticati ma hanno portato a scoperte genuinamente psicosociali, altri hanno fatto delle scoperte che sono ancora considerate di base per la nostra 37 poco, se non nessuno spazio per uno sguardo attento a considerare il singolo nel suo contesto. Per questi primi studiosi, e per molti studiosi contemporanei, a dire il vero, la dimensione sociale si aggiunge a quella individui. Questo è per certi versi un po’ paradossale. Infatti, Wundt è unanimemente considerato uno dei principali fondatori della psicologia generale. Ma era lui stesso a non considerarla autoconclusa. Convinto che lo studio della mente individuale isolata non possa esaurire il tema della psicologia, scrive un’opera monumentale che intitola “Psicologia dei popoli”. Si tratta nientemeno che di 10 volumi pubblicati nei 20 anni compresi fra il 1900 e il 1920. Nell’opera Wundt indaga i processi mentali umani nei loro aspetti sociali, proponendosi di farlo usando informazioni oggettive quanto quelle che proviene dagli esperimenti. Nella Psicologia dei popoli Wund studia le manifestazioni spontanee della mente nelle sue manifestazioni oggettive (principalmente il linguaggio, il mito e i costumi). Addirittura, Wundt arriva a sostenere che questa è la parte più importante della psicologia, destinata a eclissare la psicologia sperimentale. Così non sarà. La Psicologia dei popoli è un’opera ormai quasi dimenticata, e Wundt viene sistematicamente ricordato per i suoi studi di laboratorio, condotti in ottica strettamente individualistica E quindi, a fine ‘800, assistiamo all’interessantissimo sviluppo di due nuove discipline, la sociologia e la psicologia scientifica. Dal punto di vista epistemologico, entrambe si fondano sui principi del positivismo. Dal punto di vista metodologico, entrambe hanno un taglio fortemente empirico, basato sull’analisi scientifica di dati e sulla ricerca delle leggi di funzionamento dei fenomeni di cui si occupano Ma sono entrambe rigidamente focalizzate sull’analisi di oggetti di studio fra di loro difficilmente integrabili. La sociologia sulle leggi di funzionamento delle società, che sono viste, appunto, dominare quelle di funzionamento degli individui. La psicologia sulle leggi di funzionamento dei singoli, che sono considerati i pilastri su cui le società si fondano. Manca qualcosa. E questo qualcosa varrà sviluppandosi nello stesso periodo. Nelle prossime slide vedremo come. Parliamo qui della nascita della psicologia scientifica, perché come vi ha mostrato il professor Adenzato nella prima parte di questo corso di storia della psicologia, in senso lato, si è sempre fatta psicologia, da quando l’essere umano ha acquisito la capacità di pensare in modo riflessivo. Se non fossimo interessati a ragionare su di noi, sulle nostre difficoltà, sulle nostre questioni problematiche, non saremmo qua. Diceva addirittura Erich Fromm, che incontreremo nella seconda parte di questa porzione di corso, “credevamo di essere studenti, ma in verità eravamo pazienti”. Se non fossimo sensibili alle difficoltà esistenziali, alle aree di fatica e di sofferenza della nostra vita mentale, faremmo altro. Ma, in nuce, c’era psicologia anche nelle religioni, nella letteratura, nei miti, e così via. L’oggetto era quello, insomma, e per molti versi rimane quello. Quel che cambia, come avete visto, è il metodo. È solo dandosi un metodo scientifico che la psicologia diventa una scienza. E, convenzionalmente, si fa risalire l’origine della psicologia scientifica alla fondazione del laboratorio di psicologia dell’università di Lipsia, ad opera di Wilhelm Wundt alla fine del XIX secolo. È una scelta convenzionale, appunto, perché si faceva ricerca psicologica in altri posti e anche in altre epoche. Del resto, e questo vale anche per la sociologia di cui ci siamo appena occupati, che la nascita di una disciplina non è come la nascita di un bambino, che entra in sala parto nella pancia della mamma e ne esce in braccio al papà. Al contrario, è un evento complesso, che dura nel tempo e che non ha una soglia precisa che permette di individuare un prima e un dopo in maniera netta e inequivocabile. I percursori Trattiamo ora i principali precursori della disciplina. Il primo precursore della psicologia sociale è probabilmente Linderer, che pubblica una delle prime opere che hanno nel titolo, nello stesso tempo, la parola psicologia e la parola società. Linderer affronta il complesso rapporto fra individuo e società, ma lo fa semplificandolo in 40 maniera assai rilevante. Per lui, coerentemente con la logica della psicologia scientifica individuale, la società in quanto tale non esiste. Essa altro non è che l’insieme delle persone che la costituiscono. Siamo insomma di fronte a un precursore più negli auspici che nella effettiva realtà. Una decina di anni dopo, è stato il patriota, filosofo e politologo ante litteram Carlo Cattaneo, uno dei padri del pensiero federalista in Italia, a pubblicare un’opera di una certa importanza per il discorso che stiamo facendo. In Psicologia delle menti associate, Cattaneo fonda un tentativo di usare le categorie hegeliane per studiare le relazioni interpersonali. È un’opera molto diversa da quelle che siamo abituati a leggere nei quasi 150 anni successivi, sia come stile, che come approccio, che come metodo. Se vi interessa, la potete scaricare gratis da internet. Ma rimane, in nuce, l’idea che le menti individuali cambiano, almeno un po’, in funzione della presenza di altri. Ma il principale precursore della psicologia sociale è un altro studioso. Si tratta di Gustav Le Bon, che nel 1895, nell’epoca in cui Freud cominciava a cambiare per sempre non solo la psicologia, ma il pensiero occidentale stesso, pubblica La psicologia delle folle, un volume che ha avuto un clamoroso successo non solo in ambito scientifico, ma anche in ambito politico. È per questo che gli dedicheremo un certo approfondimento. Gustav Le Bon è stato una figura stravagante e interessantissima. Forse medico, ma non ne siamo sicuri, ha pubblicato lavori discipline più svariate: dall’anatomia alla fisiologia, dall’igiene all’antropologia, dall’archeologia alla fisica atomica e, quel che qui più ci interessa, anche in psicologia. Se in patria l’accademia diffidava di lui, tanto da non attribuirgli mai una cattedra universitaria, all’estero in certi periodi è stato addirittura considerato, come peso scientifico, pari a Lamark e addirittura a Darwin. Il punto di partenza di Le Bon è l’osservazione di un nuovo attore sociale, la folla, che sembra rischiare di scompaginare definitivamente l’ordine sociale vigente. Siamo a fine ‘800. Si diffondono su larga scala le idee socialiste e comuniste, si diffonde il movimento operaio, i sindacati acquisiscono potere e l’ordine sociale (che, come abbiamo visto, per i sociologi era nientemeno che una manifestazione dell’ordine naturale delle cose) pare vacillare. Le folle, per Le Bon, sono il grande protagonista della infausta epoca che si stava vivendo. Che cos’è una folla per Le Bon? È un insieme numericamente grande di persone, che si riuniscono in uno specifico momento in uno specifico luogo, per uno specifico avvenimento. Ma il suo stesso formarsi diventa a sua volta un avvenimento. Il punto più importante è l’ultimo: le persone nella folla cambiano, inevitabilmente e in maniera potenzialmente drammatica. Le folle che spaventano Le Bon sono evidentemente quelle che manifestano per fare valere i propri diritti, che assumono coscienza politica per tentare di migliorare le proprie condizioni di vita e per ridurre l’ingiustizia stridente delle loro esistenze. A questo proposito, scrive testualmente Le Bon: “Le folle formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano, creano le camere del lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, rendono a regolare le condizioni dell’impiego e del salario. Inviano nelle assemblee governative i loro rappresentanti sprovvisti di ogni iniziativa, di ogni indipendenza, e ridotti nella maggioranza dei casi a essere soltanto i portavoce dei comitati che li hanno eletti”. Si riconosce qui con grandissima evidenza l’ideologia anti-egualitaria, antiliberale e reazionaria di Le Bon. E non solo qui, come vedremo. Ma non sono solo le folle politicizzate, che lottano per i loro diritti, a spaventare Le Bon. Lo spaventano anche le folle pacifiche, festose, gioiose, che si formano in occasione di feste di paese, manifestazioni sportive, spettacoli circensi e così via. E questo perché, come abbiamo detto, le persone nelle folle, quale che sia la natura delle folle stesse, cambiano, diventando totalmente irriconoscibili. Perché nella folla, in ogni folla, le naturali differenze fra le persone si appianano, e tutti si trovano appaiati al livello più basso dell’evoluzione umana. Con sdegno e 41 preoccupazione, Le Bon scrive a tale proposito una frase che a distanza di oltre un secolo farebbe sorridere, se non avessimo in mente gli orrori che hanno costellato il Novecento: nella folla “il professore diventa uguale al suo calzolaio”. In sostanza, per Le Bon disuguaglianza fra gli uomini (le donne non sono evidentemente pervenute, almeno per ora… ma vedremo che ce ne sarà anche per loro) è lo stato naturale, nulla può essere fatto per ridurla. E anzi, farlo porta a un appiattimento sul livello più basso e inquietante, dato che i motivi alla base delle nostre azioni sono principalmente inconsci, derivanti da un fondo di incontrollabili passioni che si scatenano quando ci troviamo a essere nella folla. Ma che cosa succede alle persone nelle folle? Succede che si trasformano drammaticamente. Coerentemente con l’ottica freudiana che stava diffondendosi nella cultura dell’epoca, secondo Le Bon in tutte le persone è dormiente un grumo di passioni irrazionali, un fondo di istinti che quando sono da sole solitamente non si attiva, ma che invece si scatena quando sono nelle situazioni collettive. In tutti noi c’è insomma un fondo atavico di passioni che devono essere tenute sotto controllo, per difendere l’ordine sociale. Ed è nella folla che le passioni prendono il sopravvento sulla nostra razionalità, rendendoci pericolosi. Il sociale è insomma il luogo che corrompe i processi psichici: per il solo fatto di appartenere a una folla, l’essere umano scende di parecchi gradini la scala della civiltà, diventando un istintivo, un primitivo, un barbaro. Come sosteneva, nella stessa epoca, Nietsche: “La follia è molto rara nei singoli individui. Nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche essa è la regola” Nella folla l’individualità si annulla, le idee e i sentimenti si radicalizzano e vanno tutti nella stessa direzione: come se la folla acquisisse e sviluppasse una sorta di anima collettiva, in cui tutti i presenti sono guidati da un comune inconscio ancestrale, a noi stessi sconosciuti fino a quando non siamo addentro a una folla. La folla, secondo Le Bon, non è razionale, è suggestionabile, è incapace di avere una propria opinione al di fuori di quella suggerita, quando non imposta da altri, è sensibile alle immagini, alle impressioni, accumula non l’intelligenza ma la mediocrità. Conclude Le Bon il quadro arrivando a sostenere che per queste ragioni, e per il fatto che la folla è mutevole, imprevedibile, emotiva, irritabile, soggetta al contagio mentale e alla suggestionabilità, è evidente che la folla è femmina. E come accade con le donne, saperla impressionare significa possederla, farla propria, avere la possibilità di guidarla, anche perché, come un gregge, la folla non può fare a meno di un padrone. Le persone nella folla perdono il controllo dei loro impulsi, non si sentono più responsabili delle proprie azioni, si sentono onnipotenti, trasformano immediatamente in azione le idee suggerite, o meglio, astutamente imposte da un capo. Riuniti, in sostanza, gli individui attivano processi psicologici primitivi altrimenti silenti, regredendo verso un inquietante inconscio collettivo, perdendo la propria coscienza individuale, regredendo dalla vita cerebrale alla vita midollare. Sulle folle dominano i capi, uomini di azione, esagitati, dotati di una volontà ferrea, maestri nella capacità di impadronirsi della folla con una comunicazione basata su affermazioni nette, concise, manichee, sulla loro ripetizione, fatta fino a quando le affermazioni di cui sopra assurgono alla stregua di verità, sul contagio mentale che si verifica nella folla, un aggregato in cui le idee si diffondono quasi telepaticamente, quasi come un gas nell’aria. Si sente qui l’influenza di Mesmer, un antico medico, precursore della psicologia clinica, che nel ‘700 si era convinto che un fluido magnetico scorresse in ogni individuo e potesse essere usato per curarne le malattie, attraverso l’ipnosi. Se il tema vi interessa, vi invito a leggere il fondamentale La scoperta dell’inconscio di Ellenberger, un interessantissimo volume di storia della psicologia clinica che racconta lo sviluppo del pensiero occidentale, dai suoi primordi fino alla metà del XX secolo, per quel che concerne l’attenzione alle dinamiche inconsce della nostra psiche. 42 totalmente sconosciuto: i bambini che andavano a pesca e dovevano riavvolgere il rocchetto della lenza lo facevano più velocemente se erano assieme ad altri e più lentamente se erano da soli. Lo stesso per i ciclisti, che pedalavano più velocemente in presenza di altri ciclisti che da soli. Non parliamo di ciclisti in squadra, e nemmeno necessariamente di competizioni, parliamo proprio di ciclisti che si incontrano per strada. Portato in laboratorio, questo fenomeno, che Triplett definisce di facilitazione sociale, viene confermato dai suoi esperimenti. È probabilmente il primo studio scientificamente convincente sull’influenza sociale, ossia sul processo con cui noi veniamo cambiati dalla presenza di altri, anche indipendentemente dalla volontà di chi ci circonda. Addirittura, Gordon Allport considera lo studio di Triplett il primo vero studio condotto in psicologia sociale. Il secondo lavoro importante, per quel che ci riguarda, è stato condotto da un agronomo francese, Max Ringelmann. Condotto nel 1880, viene pubblicato qualche anno dopo lo studio di Triplett, e arriva apparentemente a risultati opposti e contraddittori rispetto all’altro. Ringelmann scopre infatti che, dovendosi impegnare nel tirare una corda o nello spingere un carretto, gli individui si impegnano di più quando sono da soli e di meno quando sono con altri. È un fenomeno, che Ringelmann definisce inerzia sociale, che ricorda da vicino la diffusione della responsabilità cui abbiamo accennato un po’ di tempo fa: più siamo, meno ci sentiamo responsabili dell’esito della prestazione. Ora sappiamo che i due fenomeni non sono contraddittori, ma sono due facce della stessa medaglia. Le ragioni sono sostanzialmente due. La prima fa riferimento alla possibilità che abbiamo di individuare il contributo che dà ognuno dei presenti. Quando i contributi dei singoli sono facilmente individuabili, si verifica la facilitazione sociale, mentre quando l’individuo si sente immerso in una massa ampia che ne nasconde il contributo si verifica l’inerzia sociale. La seconda spiegazione, proposta da Zajonc nel 1965, fa riferimento al grado di attivazione fisiologica della persona. La presenza di altri ci attiva dal punto di vista fisiologico, e questa attivazione rende più facili i comportamenti semplici, bene appresi e molto praticati. Sono quelle che vengono spesso chiamate le risposte dominanti. Al contrario, ostacola la messa in atto delle cosiddette risposte non dominanti, ossia i comportamenti complessi o nuovi. Al di là di questi importanti fenomeni, che ci mostrano chiaramente che sia l’individuo che il suo contesto devono essere conosciuti per fare una vera psicologia sociale, la nascente disciplina si occupa, da subito, di tematiche socialmente rilevanti. È la storia stessa del mondo che la spinge in questa direzione. L’immigrazione cambia completamente gli Stati Uniti, il loro tessuto sociale, culturale, valoriale, urbanistico, linguistico. Dopo la cieca fiducia nelle leopardiane magnifiche sorti e progressive dei ruggenti anni ’20, la crisi del ’29 cambia completamente il mondo. Non solo economicamente, riducendo sul lastrico milioni di persone. Ma anche psicologicamente, perché l’incrollabile fiducia nel futuro frana rovinosamente, e nulla sarà più come prima, nella vita quotidiana di milioni di persone e anche nella loro prospettiva psicologica presente e futura. Leggete lo strepitoso libro Furore di John Steinback per avere un quadro della faccenda. Ma non è solo l’America a cambiare radicalmente. In Europa si affacciano sulla scena il fascismo e il nazismo, con le tragiche conseguenze che ne deriveranno. Ebbene, la psicologia sociale reagisce a tutto questo enfatizzando la sua attenzione per gli argomenti socialmente rilevanti. Il motto degli studiosi dell’epoca potrebbe essere espresso in questo modo: usciamo dai laboratori, non facciamoci tante domande sull’adeguatezza dei metodi. Sporchiamoci le mani e diamo tutti noi stessi per capire, dal punto di vista psicosociale, che cosa sta succedendo. Questo anche perché la Storia, con la S maiuscola, si intrecciava con la storia, con la s minuscola, individuale, di molti psicologi sociali, che fuggivano dalla Germania nazista, portandosi con sé la propria competenza psicosociale, e un grado di coinvolgimento enorme negli eventi drammatici che stavano funestando l’Europa dell’epoca. 45 Non stupisce che fra gli argomenti della disciplina, che ormai si sta affermando, si affaccino oggetti come l’esclusione sociale, l’antidemocrazia psicologica, la persuasione, la qualità della vita, il pregiudizio… Segue poi la fase di espansione. È la fase che dal dopoguerra si estende fino agli inizi degli anni ’70. Una fase costellata, negli Stati Uniti, dalla guerra fredda, dalla desegregazione razziale, dalla speranza di cambiamento che viene stroncata dalle pallottole che uccidono John Kennedy, Bobby Kennedy e Martin Luther King e dall’inizio e dal radicalizzarsi della guerra in Vietnam. Ed è costellata dai primi movimenti di contestazione su larga scala, alla guerra in Vietnam, per la liberazione dei neri, per l’emancipazione femminile, per i diritti delle minoranze sessuali, per la libertà nelle università e nella società. Nulla sarà più come prima, nel mondo occidentale. E ai soliti temi della psicologia sociale, se ne affiancano di nuovi: l’egoismo e l’altruismo, l’aggressività, il conformismo, l’innovazione sociale… Poi, forse travolta dal suo stesso successo, la psicologia sociale va in crisi. Dopo anni in cui dominava l’effervescenza metodologica (al motto di “le cose di cui ci occupiamo sono così importanti che non è il caso di esagerare con la precisione: buttiamoci sul campo”), si entra in una fase di difficoltà e di ripensamento. La psicologia sociale punta a darsi un nuovo statuto scientifico e, coerentemente con la rivoluzione cognitivista che ha cambiato per sempre la storia della psicologia, diventa in buona parte una psicologia sociale interessata a capire i processi mentali con cui noi conosciamo e valutiamo gli oggetti sociali (principalmente le persone e i gruppi). Gli oggetti e i metodi si asciugano, e si va verso un verso un nuovo individualismo teorico e metodologico in cui poco spazio viene lasciato sia all’attenzione per il contesto, sia agli studi sul campo. La psicologia sociale diventa una psicologia molto più individuale che nei decenni passati: in cui il sociale interviene poco, essenzialmente solo in quanto gli oggetti studiati sono sociali: persone e gruppi. Si studia un individuo “puro”, tendenzialmente in laboratorio per eliminare ogni fonte di disturbo. Tipicamente il soggetto standard delle ricerche diventa lo studente universitario americano, bianco, avvantaggiato socialmente ed eterosessuale, preso come prototipo dell’umanità considerata nel suo complesso. Curioso paradosso, per una disciplina progressista, usare ciecamente il giovane istruito facoltoso come modello di riferimento e unico rappresentante della “natura umana”! Ma continua a permanere l’interesse per le tematiche socialmente rilevanti: pregiudizio e discriminazione fra tutte E poi le nuove frontiere. Secondo me i principali ambiti di frontiera della psicologia sociale attuale sono tre. Innanzitutto, lo studio dei costrutti automatici, impliciti, che si attivano in pochi millesimi di secondo al di fuori della consapevolezza delle persone. Vediamo un nero e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona aggressiva. Vediamo una donna e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona sensibile. Vediamo un uomo e decidiamo, senza nemmeno accorgercene, che è una persona razionale. Questo, spesso, anche se non pensiamo davvero che sia così, ma perché la società ci ha insegnato che i neri sono aggressivi, che le donne sono sensibili e che gli uomini sono razionali. Perché succede tutto questo? A quali funzioni psicologiche e sociali assolve? E quali sono le conseguenze a livello di comportamenti individuali e di organizzazione sociale? Lo vedremo nella seconda parte di questo corso. La seconda nuova frontiera è il ricorso alle tecniche delle neuroscienze per studiare quali aree del cervello si attivano quando la nostra mente è impegnata a conoscere gli oggetti sociali. Vi faccio solo un esempio fra le decine che potrei farvi. Studi psicosociali che hanno integrato nei propri metodi i paradigmi neuropsicologici molto interessanti e convincenti hanno mostrato che quando abbiamo a che fare con persone come tossicodipendenti, senza tetto, alcolisti e così via, dal punto di vista psicologico tendiamo a sperimentare l’emozione del disgusto. Dal punto di vista neurospsicologico, si è notato che le aree del cervello che utilizziamo sono quelle deputate a conoscere gli oggetti. Non usiamo le aree cerebrali che servono a conoscere le persone, ma quelle che servono a conoscere le cose: con tutto quello che ne consegue in termini di 46 comportamenti che mettiamo in atto nei loro confronti e in termini di difficoltà a combattere e a prevenire il pregiudizio e la discriminazione. L’ultima nuova frontiera di cui vi intendo parlare non è teorica, ma metodologica. Dall’inizio del XXI secolo, è infatti finalmente a nostra disposizione la prima tecnica statistica davvero psicosociale, in grado di dare davvero conto dei modi con cui l’individuo e il contesto interagiscono nell’influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti individuali. Si tratta dei modelli multilivello. I modelli multilivello sono metodi statistici tecnicamente molto complessi, che naturalmente non vi racconterò dal punto di vista formale, perché non è questa la sede per farlo. Mi basta raccontarvi che questi modelli, sviluppati negli ultimi 20 anni, stanno a ragione cominciando a essere abbastanza diffusi anche in psicologia sociale. Ed è giusto che sia così, perché sono i primi modelli che consentono di spiegare atteggiamenti e comportamenti individuali prevedendoli, nello stesso tempo, in funzione di variabili individuali, di variabili sociali e della loro relazione. Consentono, ad esempio, di prevedere quanto le persone sono spaventate dal rischio di cadere vittima di un crimine in funzione delle loro esperienze e delle caratteristiche del contesto in cui vivono. Fra le esperienze, essere stati vittima di un crimine. Fra le caratteristiche del contesto, il tasso di degrado della zona di residenza. Grazie ai modelli multilivello, abbiamo potuto mostrare che cadere vittima di un crimine non è necessario per spaventare le persone. Oltre a questa esperienza indubbiamente negativa, serve anche che le persone vivano in un contesto che, a ragione o a torto, considerano pericoloso. Questo è molto psicosociale: per prevedere in maniera precisa e accurata la paura per la criminalità delle persone non basta conoscere le variabili individuali. Non basta conoscere le variabili contestuali. Serve analizzare il modo con cui loro interagiscono. Nulla di più psicosociale si potrebbe dire in questo ambito, come del resto in tutti gli altri ambiti in cui le analisi multilivello sono state utilizzate. Ci torneremo, con qualche dettaglio in più, anche sulla ricerca che vi ho accennato, nel video conclusivo del corso. A mio parere, i precursori della psicologia ci lasciano soprattutto quattro cose. La prima è l’idea che i problemi sociali siano la base fondamentale degli studi della disciplina. Continuiamo a individuare i problemi di conoscenza non semplicemente studiando in biblioteca, ma alzando le persiane e guardando fuori dalla finestra del nostro laboratorio, osservando il mondo, chiedendoci che cosa non funziona come vorremmo e perché. Questo fa sì che la ricerca psicosociale sia spesso stata, e sia, “calda”. Calda come tematiche affrontate, perché sono socialmente rilevanti. E calda in quanto mossa dai valori dei ricercatori, che sono evidentemente una delle principali spinte a occuparsi degli argomenti di cui ci occupiamo. La psicologia sociale è nata da preoccupazioni concrete per ciò che si verificava nel mondo sociale e nella vita delle persone. Erano le folle che mettevano in discussione il principio di autorità per Le Bon, e per i suoi successori sono state la lotta di classe, l’immigrazione, l’emarginazione, la devianza, la convivenza fra gruppi etnici diversi, il pregiudizio, la discriminazione, la pace, la povertà, l’antisemitismo, il totalitarismo, il conformismo e così via. Ed è ancora così. E non vedo come questo potrebbe cambiare. La seconda importante eredità è l’attenzione alla scientificità dei metodi usati per fare ricerca. I primi studiosi avevano chiarissimo in mente che la psicologia (e la psicologia sociale) sarebbe diventata una scienza solo usando con precisione e proprietà un metodo scientifico. Dobbiamo onestamente notare che spesso lo avevano in mente solo in astratto. Quando poi si trattava di uscire dai loro laboratori e di scendere in campo, lo facevano sovente con scarsa attenzione al metodo: i problemi di conoscenza cui dedicarsi, per loro, erano così pressanti che finivano per lanciarsi a studiarli senza grande finezza metodologica. Scriveva a tale proposito Robert Park, un brillante studioso della scuola di Chicago, un sociologo, ma il suo discorso va benissimo anche per noi, che insieme allo studio nelle biblioteche, “di una cosa c’è inoltre bisogno: l’osservazione di prima mano. Andate a sedervi negli atri degli hotel di lusso e sui gradini all’ingresso delle flophouse; sui muretti della Gold Coast e di Star e Garter Burlesk. Insomma, signori, andate a sporcarvi i pantaloni nella ricerca vera”. La qualità dei modi con cui lo si faceva 47 influenzare le maggioranze, e su come dunque le società, oltre a rimanere immutate, possono cambiare grazie all’azione di singole persone, o di piccoli gruppi di individui che si impegnano nell’arduo e affascinante compito di modificare la realtà per avvicinarla, socialmente e culturalmente, a come essi ritengono che dovrebbe essere. Il terzo studio è tanto famoso da essere assai conosciuto anche al di fuori dell’ambito strettamente scientifico. È stato intitolato dagli autori Dinamiche interpersonali in una prigione simulata. Un titolo molto paludato e freddo per uno degli studi più emozionanti e terrificanti della storia della psicologia. Uno studio che ha costituito una svolta decisiva, nella storia della psicologia sociale, mostrando come l’ottica situazionale può avere grandissimo valore euristico nello spiegare gli stati psicologici e i comportamenti individuali. Molto brevemente (perché lo approfondiremo fra poco), è consistito nel mettere una ventina di studenti universitari, sani e normali, a recitare la parte di secondini o carcerati in un carcere simulato. Lo scopo dello studio era analizzare le loro reazioni e i loro comportamenti. Nessuno si aspettava molto da questo esperimento: tutti (partecipanti e sperimentatori) prevedevano 15 lunghi giorni di noia davanti a sé. E invece, come vedremo, il carcere simulato, nella testa delle persone, è diventato in pochi giorni un carcere vero, al punto che alcuni prigionieri hanno manifestato sintomi di sofferenza psicologica al confine con quelli che caratterizzano gli stati psicotici, alcune delle guardie hanno cominciato a mettere in atto comportamenti violenti e sopraffattorii ai limiti del sadismo, e il leader dell’equipe degli sperimentatori ha perso completamente il controllo sulla situazione. Sono insomma imprevedibilmente successe cose tanto terribili da spingere Phil Zimbardo, lo sperimentatore che ha condotto lo studio, a interrompere l’esperimento dopo soli cinque giorni, quando in realtà, come vi ho detto, l’esperimento avrebbe dovuto durare due settimane. L’esperimento di Zimbardo che ha avuto una larghissima eco anche al di fuori dei laboratori di psicologia sociale, come vi dicevo, tanto che gli sono addirittura stati dedicati un paio di film che, fino a un certo punto ed entro certi limiti, descrivono in maniera abbastanza precisa che cosa è successo nei laboratori di Stanford, dove lo studio è stato condotto. Per ragioni di tempo, dovrò raccontarvi solo succintamente che cosa successo nell’esperimento, rimandandovi, se siete interessati a entrare meglio nelle questioni e delle dinamiche in gioco al volume L’effetto lucifero, un libro meraviglioso e terrificante che vi consiglio davvero di leggere. Sono circa 800 pagine, ma si leggono come un romanzo… un romanzo dell’orrore. Ed è terrificante al punto tale che Zimbardo ci ha messo quasi 40 anni a scriverlo, per quanto il suo esperimento lo aveva turbato, per quello che gli aveva fatto scoprire delle condotte umane e addirittura di sé. Dopo che vi avrò raccontato il suo studio, daremo la parola allo stesso Zimbardo che, in un affascinante ed emozionante filmato, discuterà la rilevanza sociale del suo esperimento e come esso possa essere utilizzabile per capire meglio una serie di avvenimenti terribili e controversi, come le torture ai prigionieri perpetrate nel carcere di Abu Grahib da militari americani una quindicina di anni fa. Ma anche senza andare in contesti di guerra e terrorismo, le categorie interpretative di Zimbardo aiutano a capire che cosa succede in tutte le situazioni in cui le persone vengono de-individualizzate, finendo per mettere in atto comportamenti impensabili e agghiaccianti ai loro stessi occhi. E vedrete l’emozione di Zimbardo nel raccontarci le cose che ha scoperto e le sue indicazioni su come farci avanzare nella comprensione delle condotte umane, anche delle più estreme e disturbanti. Il filmato in cui ascolterete Zimbardo è il primo di tre Ted talk che vi farò vedere in questo corso. Per chi non lo sapesse, TED è un’istituzione no profit e non partigiana che ha nientemeno che la missione di diffondere idee che meritano di essere diffuse, sotto forma di comunicazioni brevi e potenti tenute da esperti dei temi che si trattano. I Ted talk trattano i temi più svariati, fra cui anche la psicologia. Vi consiglio di esplorare il loro sito, al di là dei tre filmati che vedrete in questo corso, perché alcune delle comunicazioni che ci si trovano meritano veramente di essere ascoltate. 50 Torniamo a noi. Gli studi di cui parleremo fanno riferimento a stati psicologici e a condotte di singoli individui. Che cosa succede quando si allarga il tiro, e si volge lo sguardo alla società considerata nel suo complesso, e a come la sua organizzazione sociale ed economica impatta sugli stati psicologici delle persone, primo fra tutti il benessere? Ce lo spiegherà Richard Wilkinson, uno dei massimi esperti di disuguaglianza, in un altro Ted talk, che punta in questo caso a mostrarci quali sono gli effetti delle disuguaglianze sugli stati psicologici delle persone, primo fra tutti il benessere, e delle collettività, in termini di integrazione e di benessere collettivo. Un interessante uso dei modelli epidemiologici per spiegare le variabili psicologico-sociali L’influenza sociale Come promesso, ci occupiamo ora di introdurre l’ottica situazionale in psicologia sociale. Come ci siamo detti, è un’ottica la cui fondazione risale a oltre un secolo fa, e che si focalizza, nella spiegazione degli stati mentali e dei comportamenti individuali, sulle variabili contestuali invece prima che su quelle individuali. Variabili contestuali in tre diverse accezioni, come vedremo: relative agli sconosciuti con cui ci può capitare di trovarci a condividere una specifica situazione sociale. E anche relative alle effettive interazioni in gruppi che hanno un rilevante significato per noi stessi e per gli altri. Ma anche, infine, relative all’organizzazione complessiva della società, in termini economici, culturali, valoriali e quant’altro. Per farlo, ci affideremo, come è inevitabile in tutti i casi in cui ci si muove in ambito scientifico, a dati empirici. Vi racconterò tre esperimenti che hanno fatto la storia non solo della psicologia sociale attenta alle variabili situazionali, ma proprio della psicologia sociale tout court. Sono rispettivamente dedicati al conformismo e ai modi con cui le maggioranze possono influenzare le minoranze, promuovendo la stabilità sociale, il primo. Il secondo è dedicato all’altra faccia della medaglia, ossia ai modi con cui le minoranze possono influenzare le maggioranze, producendo innovazione e cambiamento sociale. Il terzo è probabilmente uno dei due esperimenti più famosi di tutta la psicologia sociale, ed è famoso al punto che sono certo che buona parte di voi ne abbia già sentito parlare. Condotto da Phil Zimbardo all’inizio degli anni ’70, è consistito nel prendere una ventina di normali studenti universitari facendo loro recitare il ruolo di carcerati o secondini in un carcere simulato. Per quel che concerne l’ultimo esperimento, avremo anche la possibilità di goderci un Ted talk dello stesso Zimbardo, che ci racconterà il suo punto di vista sullo studio e sulle sue possibili ricadute extra scientifiche. Ma coglieremo l’occasione per guardare anche un altro Ted talk, di Richard Wilkinson, che ci mostrerà l’impatto delle variabili economiche sul benessere individuale e collettivo Sono studi interessanti di per sé. E ovviamente non chiudono il capitolo degli studi sull’influenza delle variabili situazionali sui nostri stati mentali e sui nostri comportamenti: sono insomma, al di là della rilevanza di quel che ci hanno consentito di scoprire, importanti perché costituiscono degli esempi di quello che si può fare e scoprire in psicologia sociale a patto di uscire dalle rigide gabbie degli approcci individualisti Asch era interessato a studiare le ragioni psicosociali del conformismo, e focalizzò la sua attenzione su come il gruppo influenza le percezioni e le condotte delle persone, uniformandole a quanto richiesto e prescritto (implicitamente) dal gruppo. 51 Il suo esperimento si fondava su una serie di banali compiti percettivi, non ambigui, autoevidenti nella loro semplicità. I compiti erano come quello che vedete riportato nella slide. C’erano 18 diversi cartellini con una riga di riferimento e tre righe di confronto. I cartellini venivano presentati uno dopo l’altro e, per ognuno, I partecipanti avevano il compito di indicare quale linea di confronto era uguale alla linea di riferimento. Sono pronto a scommettere 100 euro che tutti voi, davanti a un cartellino come quello che vedete nella slide, rispondereste la cosa giusta, ossia che la linea di riferimento è lunga come la linea c. Ed era quello che succedeva sistematicamente quando si chiedeva alle persone di fare il compito da sole. Nessuno sbagliava. Ma quando le persone si trovavano in gruppo, le cose potevano cambiare in maniera assai interessante. I partecipanti si trovavano in laboratorio con 7 sconosciuti, e gli 8 convenuti sedevano a semicerchio e devono esprimere in ordine stabilito ad alta voce le loro valutazioni. C’era però il trucco: Asch aveva costruito l’esperimento in modo che delle 8 persone sedute attorno al tavolo, solo una fosse un vero soggetto sperimentale. Era il partecipante che parlava per penultimo. Tutti gli altri erano complici dello sperimentatore, e avevano dei compiti precisi. Nelle prime due prove, per non insospettire i soggetti sperimentali, i complici davano tutti la risposta giusta. Con tono annoiato, monotono e sicuro di sé, di fronte al cartellino di cui sopra dicevano tutti C. Lo stesso nelle ultime 4 prove. Nelle 12 prove critiche il compito noioso, monotono e ripetitivo si ravviva: tutti i suoi predecessori danno una risposta evidentemente sbagliata, con tono formale e distaccato. La risposta sbagliata è sempre la stessa. Ad esempio, nel cartellino che vedete dicono tutti B, quando è ovvio che la risposta giusta è la C. I partecipanti si trovano, forse per la prima volta nella vita, a vivere una situazione in cui un gruppo unanime contraddice l’evidenza dei loro sensi. E non si possono nascondere: deve dare pubblicamente una risposta. Risultato: il 37% delle valutazioni date dai soggetti sono conformi con quelle della maggioranza. Ma grandi differenze individuali. Fra quelli che non cambiano idea alcuni rimangono fiduciosi sulla correttezza delle loro risposte, altri si sentono disorientati. Il vissuto psicologico: conflitto fra le informazioni date dal gruppo e le proprie evidenze percettive. Se andate su youtube e cercate i filmati originari dell’esperimento di Asch vedrete le facce incredule dei partecipanti. Io non posso farveli vedere per problemi di diritto d’autore. Ma cercateli, che ne vale la pena: i partecipanti ingenui non ci possono credere. E infatti non ci credono! Ma in un terzo abbondante dei casi danno la risposta conforme a quella della maggioranza Deutsch & Gerrard spiegano questi risultati distinguendo due forme di influenza sociale, sostenendo che l’influenza sociale può avvenire attraverso due tipi di pressione. La prima è quella informativa: usiamo le opinioni e i comportamenti degli altri come importanti fonti di informazioni sulla realtà: soprattutto di fronte a stimoli ambigui ci basiamo sull’osservazione degli. Ma qui il compito non era ambiguo. Quindi in gioco c’era soprattutto la seconda forma di influenza, quella normativa, che si fonda sulla nostra tendenza a conformarci alle aspettative altrui, per non apparire devianti e minoritari. Coerentemente con questa intuizione, versioni successive dell’esperimento hanno evidenziato che più ampia è la maggioranza, più forte è la spinta a conformarsi. E che non appena la maggioranza viene a mancare, si torna alle idee iniziali. Nel solito cartellino, se dei primi sei complici dello sperimentatore che parlano solo 5 rispondono B e uno risponde A, l’unanimità si infrange e il tasso di chi si conforma crolla quasi a 0. Questo perché il complice deviante ha sdoganato e legittimato la rottura dell’unanimità e, senza la spinta a perseguirla, non c’è più ragione di adattarsi alla definizione della realtà data dalla maggioranza. E coerentemente con tutto questo, nel debriefing, ossia nelle interviste post sperimentali, quando si chiede ai partecipanti ingenui che cosa è successo nell’esperimento e perché si sono comportati come si sono comportati, emerge sistematicamente che chi è rimasto saldo sulle proprie posizioni lo ha fatto a fatica, perché sentiva potente la pressione al conformismo 52 comportamenti dipendono più da variabili situazionali che da stabili variabili individuali. Emergeva, in sostanza, come spesso, in specifiche circostanze, le situazioni si possano impadronire dei modi di essere, di pensare e di agire delle persone comuni, portandole a perdere con una certa facilità, in modo piuttosto inquietante, la loro umanità e i loro freni inibitori. Zimbardo con il suo esperimento si propone di perseguire due obiettivi, uno più specifico e l’altro più generale. Quello specifico è smentire il senso comune, che, in questo caso, dice che gli eventi orribili che spesso accadono nelle carceri (violenze, sopraffazioni, stupri, pestaggi) siano dovuti alle caratteristiche di personalità dei carcerati. L’idea comune è: “Certo, sono criminali: mettiamo un certo numero di delinquenti assieme e non stupiamoci se si comporteranno da criminali”. Zimbardo non la pensa così: vuole infatti dimostrare che è il sistema sociale carcere a suscitare queste azioni. In senso più generale, Zimbardo intende mostrare quanto rilevanti e vincolanti siano le spinte situazionali nell’indirizzare i nostri comportamenti. In queste slide vi racconterò a che cosa è servito l’esperimento di Zimbardo, che cosa ci ha consentito di scoprire e anche le sue possibili valenze al di fuori dei laboratori in cui si fa psicologia sociale. Cominciamo a ribadire che questo è uno dei più famosi studi di tutta la storia della psicologia sociale: se non è il più famoso si colloca certamente sul podio. Basta questa immagine a testimoniare il fatto che questo esperimento è una vera e propria pietra miliare della nostra disciplina, al punto che una targa collocata all’università di Stanford segnala il luogo in cui è stato condotto. Zimbardo ha condotto il suo studio reclutando un elevato numero di candidati, mediante la pubblicazione di un annuncio sul quotidiano locale di Palo Alto, la cittadina dove ha sede l’Università di Stanford. Ha poi sottoposto i candidati a uno screening basato sui più affidabili test di personalità, e ha scartato tutti quelli più disturbati, arrivando a selezionarne una ventina, tutti di sesso maschile, tutti di classe media, tutti mentalmente sani ed equilibrati. I 24 prescelti sono stati ufficialmente ingaggiati ed è stato offerto loro un pagamento di 15 dollari al giorno per 15 giorni, in cui avrebbero recitato la parte di secondini o di carcerati in un carcere simulato costruito nei sotterranei dell’Università di Stanford. Prima che l’esperimento cominci, si sceglie chi avrebbe fatto la guardia e chi il detenuto. Per evitare che le persone molto propense a uno specifico ruolo si trovino in una situazione fin troppo congeniale per loro, la scelta viene attribuita al caso. Il focus è sulle variabili situazionali, non dimentichiamolo: di conseguenza, la spinta individuale a preferire di fare la guardia o il carcerato viene prevenuta. Peraltro, dopo il sorteggio, emerge che quelli cui viene affidato il ruolo di guardia rimangono delusi: perché tutti, nel clima libertario dell’epoca, immaginavano che, nella loro vita, avrebbero potuto finire per essere prigionieri (perché avrebbero bruciato la cartolina precetto, perché sarebbero stati scoperti con della droga, perché sarebbero stati scoperti a fare sesso in pubblico), non certo guardie. La finta prigione deve essere il più simile possibile alle prigioni vere. Viene quindi costruita con la consulenza di un ex-detenuto, che in base alla sua esperienza di carcerato spiega come deve essere fatto il carcere. Come nelle vere prigioni, ci saranno le celle, una sala mensa, gli spogliatoi e una sala di riposo per le guardie. Ci sarà anche una cella di punizione, piccolissima e buia, una sorta di armadio a muro, il famigerato the hole, in cui mettere in isolamento punitivo i prigionieri che si comportano male. Questo è un esperimento scientifico: a differenza che nelle prigioni vere, ci saranno telecamere nascoste e microfoni nascoste nelle celle e nelle stanze delle guardie. I prigionieri non potranno avere né orologi né calendari, e le guardie faranno i loro turni lavorativi di otto ore, continuando nel resto della giornata la loro normale esistenza. Per massimizzare la somiglianza con le vere prigioni, seguendo le indicazioni del consulente di Zimbardo, i carcerati vengono fatti vestire con divise da carcerati, con uniformi numerate che 55 simulano quello che la gente immagina sia l’abbigliamento dei prigionieri. Indossano inoltre copricapi che simulano la rasatura a zero della testa. Le guardie indossano uniformi da carcerieri, occhiali a specchio, e detengono i simboli del potere: manette, fischietti e manganelli. Zimbardo ritaglia per se stesso il ruolo di direttore del carcere. Nel briefing iniziale, in cui incontra le guardie, spiega loro le regole di ingaggio. Dovranno fare funzionare al meglio il carcere, dovranno mantenere l’ordine e potranno scegliere liberamente come farlo, purché non ricorrano alla violenza. Nei giorni che precedono l’inizio dell’esperimento le guardie si riuniscono e decidono le norme con cui dovrà funzionare il carcere. Nelle slide vedete riportate le norme principali che loro stabiliscono. I detenuti dovranno rivolgersi alle guardie chiamandole non per nome, ma appellandole “signor agente di custodia”. Anche i nomi dei detenuti saranno aboliti: i prigionieri saranno infatti appellati con un numero, quello riportato sulla loro divisa. La disciplina e l’ordine saranno bene organizzate. Il cibo verrà assunto tre volte al giorno. Sempre per tre volte si potrà andare in bagno, sorvegliati. Ci saranno due ore al giorno per leggere e scrivere. Si potranno ricevere due visite a settimane e si potranno vedere film e fare esercizio fisico. Nei momenti di riposo, il silenzio dovrà essere rispettato, così come fuori dalle celle e durante i pasti. Da dove prendono queste norme le guardie? Dalle loro aspettative su come devono funzionare le carceri, aspettative che hanno un’origine culturale, principalmente i film e i libri carcerari. Da queste norme è evidente che l’esperimento comincia spogliando i partecipanti della loro identità soggettiva, personale, conquistata nella loro storia di vita individuale. Tutti perdono il nome, lo stile di abbigliamento, la libertà di comportarsi come credono, e così via. Vediamo dunque che cosa succede nell’esperimento. Dopo qualche giorno dal sorteggio, lo studio comincia. Zimbardo si accorda con la polizia di Palo Alto, che manda delle pattuglie a sirene spiegate ad arrestare i prigionieri a casa loro, davanti ai vicini sbigottiti. Comincia qui una serie di azioni dei ricercatori che ora non sarebbero più possibili, basandosi sulle norme deontologiche attualmente vigenti. I prigionieri vengono condotti in carcere, spogliati, disinfestati e viene fatta loro indossare l’uniforme da prigionieri che vi ho descritto poco fa. Poi comincia l’esperimento vero e proprio. Il primo giorno, nulla di rilevante da segnalare. L’impressione di tutti, purtroppo sbagliata, come vedremo, è che saranno 15 lunghi, noiosissimi giorni. Il secondo giorno il carcere, “ridicolo” come lo ha definito uno dei prigionieri, comincia a diventare un carcere vero nella testa di tutti i partecipanti. E, coerentemente con quello che ci si aspetta in un carcere vero, si verifica il primo tentativo di rivolta da parte dei prigionieri, che si tolgono i copricapi, strappano i numeri di identificazione dalle loro divise, si barricano nelle celle. Le guardie chiamano i rinforzi, e lavorano anche dopo, anche se sanno che gli straordinari non saranno retribuiti. E stroncano la rivolta. Lo fanno, contrariamente rispetto alle norme che loro stesse si erano date, con la forza: sparano gli estintori contro le celle, irrompono nelle celle, spogliano i detenuti e li lasciano nudi nei corridoi, mettono il leader della rivolta in isolamento dentro the hole. Cominciano insomma le intimidazioni e le vessazioni. Il terzo giorno continuano gli episodi di violenza. Le guardie intimidiscono e umiliano attivamente i prigionieri, cercando di spezzare il legame di solidarietà che avevano sviluppato. Da lì in poi, il problema delle guardie diventa mantenere la disciplina. Non si può essere sempre attivi: il carcere deve andare avanti da solo, auto organizzandosi, per quanto possibile. Le guardie ricorrono alla violenza, da un lato, e dall’altro all’antica e sempre efficace tattica del divide et impera. Viene istituita la “cella dei privilegi”, in cui arbitrariamente le guardie possono spostare i prigionieri che, secondo loro, se lo saranno meritato. La definizione di che cosa sia meritevole di essere premiato è naturalmente arbitraria: è infatti ovvio che più è ambigua la situazione, maggiore è il potere di chi il potere lo detiene. Questo genera sconcerto e diffidenza interpersonale fra i prigionieri: la solidarietà sviluppata frana in breve tempo, venendo sostituita 56 da un clima di sospetto reciproco fra di loro, al punto che fra i prigionieri si diffonde la voce, falsa, che fra di loro ci sia un informatore. Inoltre, l’imprevedibilità delle conseguenze delle loro azioni paralizza i prigionieri, mentre lo spirito di corpo delle guardie si rinvigorisce: non c’è nulla di meglio di un nemico esterno per compattare un gruppo la cui coesione è a rischio. Le sofferenze cominciano a diventare inaudite. Un prigioniero, dopo sole 36 ore, inizia a manifestare disturbi emotivi, pensieri disorganizzati, crisi incontrollabili di pianto e accessi di rabbia. Come nelle carceri vere, gli si propone di alleviare la sua situazione diventando un informatore delle guardie: di entrare insomma in quella che la letteratura si campi di concentramento viene definita “zona grigia”. Ma soffre troppo, e fortunatamente viene liberato, venendo sostituito da un prigioniero che stava metaforicamente in panchina, pronto a subentrare. Il giorno dopo i prigionieri vengono fatti belli per i colloqui. Anche in questa occasione si verificano dei gravissimi soprusi: i visitatori sono fatti arbitrariamente attendere molto a lungo, vengono perquisiti, si decide che ogni prigioniero potrà ricevere solo due visite, solo per 10 minuti, e solo in presenza di una guardia. Nessuna delle norme che le guardie avevano stabilito prescriveva nulla di tutto ciò. La prigione è diventata vera nella mente di tutti quelli che ci hanno a che fare: non solo secondini e prigionieri, ma anche amici, fidanzate e parenti in visita. Piano piano, come a Bolzaneto, come alla Diaz, come ad Abu Ghraib, l’arbitrio diventa assoluto. Le guardie costringono i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non possono vuotare, a pulire le latrine a mani nude, a simulare accoppiamenti omosessuali fra di loro. Gli appelli diventano sempre più lunghi e sadici: come nei campi di concentramento, diventano infiniti, e devono farli stando in piedi, poi cantando, poi facendo le flessioni, poi insultandosi reciprocamente, poi saltando su un piede solo e così via. Alcuni detenuti cominciano a manifestare seri disturbi emotivi, confusione mentale, accessi di pianto, urla incontrollabili. I film e il tempo per la scrittura e la lettura vengono dimenticati, ma ormai questo conta davvero poco. Poi si diffonde la notizia di una possibile evasione di massa, che si diffonde a tappeto fra le guardie. Le guardie vanno da Zimbardo e chiedono di spostare l’esperimento in una vera prigione dismessa. Non era vero, ma anche le fake new impattano sulla realtà, e chi ne fa le spese è la parte più debole: quella dei prigionieri. In un clima di totale sopraffazione, i prigionieri chiedono e ottengono di vedere un prete. Zimbardo glielo consente, convocando un ex-cappellano delle carceri. Metà dei detenuti gli si presenta con il numero, e non con il nome. Il cappellano li ascolta e suggerisce loro di contattare un legale. Al quinto giorno la situazione è drammatica. I prigionieri sono stati vinti, schiacciati, sono totalmente conformi e condiscendenti, hanno un comportamento docile e passivo, hanno un rapporto con la realtà pesantemente compromesso. Le guardie sono sempre più vessatorie e più sadiche. I prigionieri sono disposti a rinunciare a tutto il denaro guadagnato fin lì pur di essere liberati, ma naturalmente non vengono liberati, perché il carcere è diventato vero agli occhi dello stesso Zimbardo. Entra un nuovo prigioniero, in sostituzione di uno liberato perché stava troppo male. Non è ancora intrappolato in queste dinamiche e si ribella, cominciando lo sciopero della fame. Viene costretto a mangiare dalle guardie, mentre gli altri detenuti lo considerano un pericoloso piantagrane. Finalmente l’esperimento viene interrotto, anche grazie all’intervento di Christine Maslach, la fidanzata di Zimbardo, che va a trovarlo nel luogo dell’esperimento, rimanendo incredula per quel che vede. Piangendo e urlando, intima a Zimbardo di interrompere lo studio. Lui ci pensa qualche ora, poi rientra in sé e lo interrompe. Ci è voluta una persona esterna al carcere e alle sue dinamiche, insomma, per mostrare che cosa stava davvero succedendo: quelle interne allo studio erano state infatti completamente travolte dalla forza delle variabili situazionali. Che cosa è successo in questo esperimento? Quali sono state le dinamiche psicosociali in gioco? Qui ve le accenno, rimandandovi al fondamentale L’effetto lucifero, pubblicato da Zimbardo ormai una decina di anni fa, per avere più dettagli e un discorso di respiro più ampio. 57 Prima di terminare, vorrei giustappunto tornare sul Ted talk di Zimbardo. Lo uso come chiave di lettura del messaggio che ho inteso darvi in questa lezione. Pur con le specificità dello studio, infatti, mutatis mutandis alcune delle scoperte che Zimbardo ci ha regalato valgono anche per gli altri argomenti di cui ci siamo occupati in questa lezione. Al di là dei risultati che ha fornito alla psicologia sociale, nel Ted talk che vi ho mostrato si vedono bene, sentendole raccontare in prima persona da uno dei massimi esponenti della storia della psicologia sociale, quattro cose. La prima è come gli interessi di chi fa psicologia sociale derivano, almeno in parte dalla storia della loro traiettoria individuale di singole persone. Come ci ha raccontato lui stesso, Zimbardo è cresciuto nel Bronx meridionale negli anni ’40, in un ambiente pericoloso e degradato, e già nella sua infanzia si chiedeva perché certe persone sono cattive, lo diventano, o si comportano come se lo fossero. Era la sua vita quotidiana a spingerlo a farsi queste domande. Ebbene, lui nel suo celeberrimo esperimento ce lo ha spiegato, o perlomeno ha contribuito a farlo. E ci ha mostrato che il bene e il male sono entrambi presenti dentro di noi, ed entrambi possibili. Sarà la situazione in cui ci troviamo a indirizzarci nell’una o nell’altra direzione. Un ragionamento tutt’altro che rassicurante, come tutt’altro che rassicuranti sono le cose più interessanti che la psicologia sociale ci ha mostrato nella sua storia. Non è rassicurante perché ci mostra che siamo sistematicamente a rischio di mettere in atto comportamenti nocivi per gli altri, ma anche perché ci mostra che i buoni comportamenti che mettiamo in atto possono derivare, appunto, più dalla situazione che da noi stessi. Per certi versi, viene insomma messo in discussione nientemeno che il fondamento stesso del libero arbitrio. Si tratta di un tema troppo grande e divergente dai nostri scopi per affrontarlo. Meglio tornare a noi. Zimbardo sostiene il suo ragionamento accennando anche a un altro dei più celebri esperimenti di tutta la psicologia sociale, quello condotto dal suo antico compagno di scuola Stanley Milgram per mostrare che tutti noi, indipendentemente da chi siamo, siamo a rischio di mettere in atto comportamenti distruttivi solo perché ce lo chiede un’autorità. Lo sperimentatore nello studio di Milgram. Un superiore nell’azienda in cui lavoriamo. Un capo politico nell’Italia fascista o nella Germania nazista. Il meccanismo psicologico in gioco è il medesimo, ed è un meccanismo che possiamo capire appieno solo se lo leggiamo attraverso le lenti di un’ottica situazionale, focalizzata sul contesto in cui si trovano le persone: su dove sono e con chi sono, più che su chi sono. Nell’esperimento di Zimbardo le cose terribili che abbiamo visto sono successe a opera di persone perfettamente normali, che erano state scelte mediante l’applicazione dei più avanzati test di personalità, che avevano portato a scartare tutti gli individui potenzialmente disturbati e devianti. E sono accadute in una situazione artificiosa. “Era una prigione ridicola”, ci dice il ragazzo nel filmato, “non era credibile”. Ma è bastato trovarsi in una prigione ridicola perché la situazione si impadronisse delle persone, e le trasformasse da mele sane in mele marce, perché inserite in un cesto perverso. Il messaggio di Zimbardo, come quello di tutti gli studiosi più attenti e fini concentrati sulla situazione, però, è che la situazione non ci porta necessariamente in direzione sbagliata. Come dicevamo, la situazione ci offre l’opportunità di fare il male, di restare indifferenti davanti a chi lo perpetra, o di scegliere il bene. E, ovviamente, la strada che sceglieremo dipende anche da noi: da chi siamo, da che cosa desideriamo, da che cosa prefiguriamo e così via. In sostanza, credo che l’esperimento di Zimbardo, come anche gli altri studi cui abbiamo dedicato questa lezione, ci mostri soprattutto che è solo un’ottica davvero psicosociale quella utile a spiegare le condotte umane diverse da quelle standard e rutinarie. E se lo dice, anche se implicitamente, Zimbardo, il massimo sostenitore delle spiegazioni situazionali, figuriamoci quanto possiamo sostenerlo noi a distanza di quasi 50 anni dal suo celeberrimo studio. Nel suo Ted talk Zimbardo ci insegna quattro cose, dicevamo. Il suo secondo messaggio è connaturato all’emozione che l’autore provava nel raccontare i risultati del suo studio. L’emozione di Zimbardo era visibilissima, e colpisce a maggior ragione perché, dal suo studio, erano passati alcuni decenni. I più interessanti studi psicosociali, da sempre, emozionano, 60 perché la disciplina si occupa di tematiche socialmente rilevanti e ci permette di scoprire cose sconosciute a noi stessi. Lo stesso Zimbardo, che aveva costruito il suo esperimento per dare scientificamente conto del fatto che le spinte situazionali sono assolutamente rilevanti nell’influenzare i nostri comportamenti, a un certo punto ha perso il controllo del setting sperimentale. Si era dato il ruolo di direttore del carcere, e si era immedesimato nel ruolo al punto da perdere completamente di vista i doveri etici e deontologici di chi fa ricerca su soggetti umani. È servita una persona rilevante per lui ed esterna allo studio per aiutarlo a tornare nei suoi panni e a interrompere l’esperimento perché stava nuocendo grandissimamente a tutti i suoi partecipanti: i prigionieri, certo, ma anche le guardie, che a causa delle spinte situazionali si sentivano vincolate a mettere in atto condotte violente e incomprensibili. Il terzo messaggio è appunto questo: le spinte situazionali ci spingono a fare cose per noi totalmente inattese. Nel Ted talk non si vede, ma lo si legge nel volume di Zimbardo che vi ho pubblicizzato prima e in uno dei documentari ufficiali prodotti sull’esperimento: documentari molto interessanti ma che non vi mostro perché sono tutti in inglese, e in un inglese piuttosto complesso. Ma cercateli, se ve la sentite. I più interessanti sono probabilmente quelli intitolati Quiet rage (rabbia quieta) e The Stanford Prison Experiment (l’esperimento della prigione di Stanford). Torniamo a noi. L’esperimento di Zimbardo è stato così estremo, per la vita dei suoi partecipanti, che lo sperimentatore e i partecipanti hanno continuato a incontrarsi per anni, per discutere di quello che era successo e per fare una sorta di elaborazione condivisa del trauma che era derivato loro dalla partecipazione. Ebbene, in uno di questi incontri si sono confrontati il prigioniero più ribelle e il secondino più severo e determinato: duro al punto che era stato soprannominato John Wayne. Il prigioniero si lamenta, lo attacca, lo mette alle strette, gli dice – a distanza di anni! – quanto era stato crudele, sadico e inappropriato il suo comportamento. John Wayne inizialmente contrattacca, poi cerca di spiegare, poi si difende, e poi chiede al prigioniero: “ok, ma tu che cosa avresti fatto?”. Il prigioniero ci pensa, si interroga, si macera, e alla fine risponde “non lo so”. Non lo sapeva. Si era ribellato, si era arrabbiato, aveva sofferto, aveva sperimentato grandissimi livelli di dolore mentale e un fortissimo senso di ingiustizia e di legittima indignazione, tanto che a distanza di anni l’esperienza era ancora assolutamente vivida nella sua mente. Ma nonostante tutto, con un’onestà davvero impressionante, non sapeva che cosa avrebbe fatto a parti invertite, se si fosse trovato al posto di John Wayne, perché aveva capito quanto forte è l’influenza che le variabili situazionali dispiegano sui nostri comportamenti. Credo che questo sia uno dei messaggi più importanti e inquietanti dell’esperimento di Zimbardo. L’ultimo messaggio fondamentale del Ted talk di Zimbardo è che i risultati delle ricerche psicosociali sono spendibili su scala più ampia rispetto a quella della disciplina scientifica in cui essi sono stati prodotti. Ricorderete che, nella nostra prima lezione, abbiamo detto che la psicologia sociale può avere tre scopi: la comprensione, la sensibilizzazione e l’emancipazione. Ebbene, Zimbardo ha fatto tutte e tre queste cose. Ha perseguito la comprensione conducendo il suo esperimento e sviluppando chiavi di lettura dei fenomeni psicosociali precedentemente inesistenti, se non addirittura impensabili. Ha perseguito la sensibilizzazione raccontando e discutendo i suoi risultati nelle sue pubblicazioni e in qualsiasi luogo e posto sia stato invitato a farlo. A oltre 80 anni, nel 2015 era a Milano, ad esempio, in una sala conferenze, a raccontarlo ancora una volta, a discutere con il pubblico, a impegnarsi affinché nella società si diffondesse il suo messaggio, e anche a farsi un selfie dopo l’altro con gli emozionati astanti. E ha anche fatto emancipazione, facendo il consulente di parte di uno dei processi messi in atto contro i soldati che si erano macchiati dei terribili crimini che ci sono stati mostrati e aiutando le corti a decidere se e come condannarli, insegnando loro quanto cogenti e vincolanti possono essere le forze situazionali e sistemiche. Non per farli assolvere, ovviamente, ma per 61 evidenziare che forse gli imputati avevano diritto a delle attenuanti: perché le forze situazionali ci influenzano, certo, ma alla fine, se fossimo giuridicamente assolti da ogni responsabilità in nome di tali forze, non ci sarebbe più spazio per lo stato di diritto e per la convivenza civile. Lo ha sancito il diritto internazionale dopo i processi di Norimberga, in cui i nazisti sono stati condannati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità: a un ordine illegale è obbligatorio disubbidire, e chi non lo fa deve essere condannato. Vorrei chiudere tornando a una delle cose che vi ho raccontato in questo video. Le forze situazionali interagiscono con quelle personali, disposizionali, come diciamo noi psicologi sociali, nell’influenzare i nostri comportamenti. È lo stesso Zimbardo, implicitamente, a ricordarcelo, quando parla di due specifiche persone che hanno messo inaspettatamente in atto comportamenti di aiuto generosissimi e assai rischiosi. E del resto, per tornare al Ted talk di Wilkinson, non tutte le persone che vivono nel medesimo contesto disuguale finiranno per avere lo stesso livello di malessere psicologico. Conta il contesto, ma conta anche l’individuo. Fortunatamente. Se no, saremmo come dei fuscelli sbatacchiati qua e là dal vento, senza possibilità di intervento sulle nostre vite e sulla realtà. Per concludere, credo che uno dei messaggi cruciali degli studi condotti con ottica situazionale sia insomma che se anche si rifiuta la soffocante ottica individualistica della psicologia sociale psicologica, che dimentica la rilevanza delle variabili contestuali, situazionali e sociali, non si deve cadere vittima di una sorta di effetto rimbalzo, e dedicarsi a queste ultime variabili in esclusiva, dimenticando che anche gli individui contano. Ed è in definitiva per questo, per dare conto di questo, che esiste la psicologia sociale. Con questo termina la prima parte della sezione del corso di storia della psicologia dedicata alla storia della psicologia sociale. Come vi ho preannunciato, il corso continuerà con una disamina della storia degli studi psicosociali destinati a spiegare pregiudizio e discriminazione. Ho scelto di approfondire questo filone di teorizzazione e di ricerca non solo perché si tratta di uno dei temi più classici della psicologia sociale, ma anche perché si tratta di argomenti di grande rilevanza sociale. E, ancora, anche perché consentono di evidenziare con buona chiarezza la contrapposizione fra le spiegazioni individualistiche e le spiegazioni situazionali del pregiudizio e della discriminazione. 5- Pregiudizi e discriminazione 5.1 gli approcci psicoanalitici: pregiudizio e discriminazione come esito di psicopatologia Introduzione In questa lezione ci occupiamo di analizzare come la psicologia sociale è andata avanti nel suo sviluppo, continuando a usare gli studi sul pregiudizio come caso di studio utile a esemplificare che cosa è successo nel corso dell’evoluzione storica della nostra disciplina. Nella lezione precedente abbiamo visto che i primi lavori sul pregiudizio partivano dal presupposto che le persone che hanno pregiudizi siano patologiche, e che ci radicali siano differenze qualitative fra chi ha pregiudizio e chi il pregiudizio non ce l’ha. Come se fossero due diversi tipi umani, con poco o niente in comune fra di loro. In questa lezione e nelle prossime, vedremo che gli approcci successivi, sviluppati a partire dagli anni ’60 fino ai nostri giorni, criticano e integrano questa visione. Certo, la patologia del carattere e della personalità aiutano, nello sviluppo del pregiudizio e nella messa in atto dei comportamenti discriminatori. Ma, come vedremo, il pregiudizio viene attualmente considerato l’esito di normali e innocenti processi di pensiero, che accomunano tutti noi nel nostro rapporto con noi stessi e con il mondo. Come vedremo, secondo gli approcci contemporanei le principali 62 Quello che vedete riassunto nelle slide è il clima culturale dell’epoca, come l’ho tratteggiato nel mio volume Le tendenze antidemocratiche. Non scendo ovviamente nei dettagli: ma credo che vi bastino queste slide per mostrarvi quanto la psicologia si è attivata per cercare di spiegare, scientificamente, le ragioni del fascismo e del nazismo e, assieme a loro, quelle del pregiudizio. Sono lavori quasi tutti di taglio psicoanalitico, a riprova del presupposto di psicopatologia del fascismo che governava la teorizzazione e la ricerca di questi autori. Alcuni degli autori sono filosofi, altri sociologi, altri psicologi clinici, altri psicologi della personalità, altri ancora psicologi sociali. E alcuni studi sono teorici e altri empirici. Non stupisce, visto quel che accadeva nel mondo e nella vita dei ricercatori, che e spesso si concentrino, in tutto o solo in parte, su uno specifico pregiudizio, l’antisemitismo. Fare ricerca costa. E non stupisce, vista l’urgenza del tema, che l’American Jewish Committee finanzi una di queste ricerche, che confluirà poi nel monumentale La personalità autoritaria. Insomma, la pubblicazione del libro di Reich è probabilmente la prima tappa importante di un percorso comune e spesso convergente. È un libro del 1933: data la sua veneranda età, non stupisce che sia quasi completamente superato. Ma è il primo, appunto, ed è utile conoscerlo, se non altro perché ha mostrato che anche la psicologia può dire la sua quando si tratta di spiegare pregiudizi, stereotipi e discriminazioni. Insomma, la prospettiva puramente teorica di Wilhelm Reich merita indubbiamente una specifica attenzione: essa infatti costituisce il principale capostipite degli studi sulle tendenze antidemocratiche, ed è su essa che si sono almeno in parte fondate le successive opere di Fromm e di Adorno e colleghi. Il tentativo dello studioso tedesco è quello di approcciare l’antidemocrazia utilizzando soprattutto spiegazioni psicosociali e psicoanalitiche, lette in chiave esplicitamente marxista. Secondo Reich, infatti, l’analisi politico-economica non era sufficiente a dare conto dell’affermarsi del fascismo e del nazismo, così come erano poco soddisfacenti quegli studi che si arrestavano alla constatazione che tale cedimento fosse paragonabile ad una sorta di «follia collettiva». «Non si possono liquidare le catastrofi sociali dicendo che si trattava di una “psicosi della guerra” oppure di un “offuscamento delle masse” ritenendole tanto deboli da farsi completamente offuscare. Il problema è che ogni ordinamento sociale produce in seno alle proprie masse quelle strutture di cui ha bisogno per raggiungere i suoi obiettivi principali». Reich intendeva pertanto «capire perché le masse si sono lasciate sviare, annebbiare e sopraffare da una situazione psicotica (…). Milioni di persone dicevano sì alla propria oppressione, una contraddizione che può essere spiegata soltanto psicologicamente a livello di massa e non politicamente o economicamente». L’affermazione del fascismo e del nazismo era per lo psicoanalista tedesco la risultante della somma delle tendenze irrazionali del carattere umano, l’espressione non dell’opera o della personalità di un dittatore, ma della struttura psicologica dell’uomo massificato. «Un capo o l’esponente di un’idea può avere successo solo quando (…) la sua concezione personale, la sua ideologia o il suo programma trova riscontro nella struttura media di un largo strato di individui che fanno parte della massa (…). Solo quando la struttura della personalità di un capo coincide con le strutture individuali a livello di massa di vasti strati della popolazione un “Führer” riesce a fare la storia». Secondo Reich, è soprattutto la piccola borghesia a ospitare al proprio interno larghe maggioranze di individui potenzialmente antidemocratici, dal momento che esisterebbe un nesso abbastanza stretto fra la struttura delle sue famiglie – particolarmente autoritarie e repressive dal punto di vista sessuale – e l’adesione dei suoi membri alla simbologia ed alla mistica del fascismo. In tale ottica, lo stile educativo castrante così diffuso nella cultura occidentale dell’epoca sarebbe la radice psicologica delle deviazioni dei rapporti con le autorità. Diamo nuovamente la parola a Reich: «Poiché la società autoritaria si riproduce con l’aiuto della famiglia autoritaria nelle strutture individuali di massa, la famiglia autoritaria deve essere considerata e difesa dalla reazione politica come la base per eccellenza dello “stato della cultura e della civiltà” (…). L’ideologia fascista della struttura gerarchica dello stato è prefigurata 65 e realizzata nella struttura gerarchica della famiglia contadina. La famiglia è una nazione in piccolo e ogni membro di questa famiglia si identifica con questa piccola nazione». Coerentemente con questa idea, Reich fonda una “analisi sessuo-economica” dell’ideologia totalitaria. Partendo dal presupposto freudiano che l’energia sessuale sia il fondamento di ogni attività umana, Reich individua nella repressione della sessualità infantile non solo il momento di inizio delle malattie mentali e psicosomatiche, ma anche la fase di incubazione della soggezione adulta all’autorità: il blocco delle sane pulsioni sessuali, e l’enorme spreco di energia psichica necessario alla loro rimozione, svuoterebbero l’individuo della capacità di resistere alla dominazione. Nella nostra società la ribellione, secondo lo studioso tedesco, muore nell’infanzia, insieme con la possibilità politica della libertà. È in quella fase, infatti, che si formerebbe e si cristallizzerebbe un carattere privo di vera indipendenza e si svilupperebbe l’incapacità di amare se stessi, gli altri e la vita in maniera genuina. Le persone così cresciute al momento opportuno tenderebbero dunque a trasformarsi, secondo Reich, in docili seguaci di qualsiasi Führer. Le deviazioni dell’autorità non si limitano però secondo lo psicoanalista tedesco alle spinte alla sottomissione: la repressione sessuale ed i conseguenti sensi di colpa spiegherebbero infatti, secondo la sua teoria, anche la fedeltà dei membri della classe media alle idee di onore, dovere, coraggio e autocontrollo, oltre che le loro tendenze al dominio sui più deboli, al sadismo ed alla suggestionabilità nei confronti del misticismo e dalle formule magiche e pseudo-religiose del nazismo. Reich considera dunque il legame che il piccolo borghese instaura nell’età adulta con i leader antidemocratici una diretta conseguenza delle relazioni sulle quali si è strutturata la sua famiglia nel corso dell’infanzia, tanto che ogni Führer sembra essere in grado di far riversare su di sé tutti quegli atteggiamenti affettivi a suo tempo rivolti al padre autoritario. I limiti dell’approccio di Reich sono moltissimi. Intanto, Reich ha usato un modello psicoanalitico molto arcaico, perfino per i suoi stessi tempi. In secondo luogo, è davvero arduo testare empiricamente le sue assunzioni in una ricerca scientifica. Soprattutto, per quel che ci interessa, è un approccio di taglio radicalmente individualista, che non consente di capire perché persone cresciute nello stesso clima culturale repressivo avranno traiettorie di sviluppo diverse per quel che concerne il loro rapporto con pregiudizio, fascismo e nazismo. Ciononostante, l’approccio dello psicoanalista tedesco rimane di grande importanza nella storia dello sviluppo degli studi sui motivi psicologici del fascismo, se non altro per il suo avere costituito un primo tentativo di proposizione di una piattaforma teorica a partire dalla quale sviluppare studi empirici. Fromm In questa lezione parliamo del secondo tentativo forte di spiegare pregiudizio, discriminazione e adesione al fascismo. Ci concentriamo su quello che per molti versi per me rimane il più affascinante e interessante tentativo di spiegare il pregiudizio e l’antidemocrazia psicologica: il libro di Erich Fromm Fuga dalla libertà. È un libro vecchio, visto che ormai ha un’ottantina di anni. Ma ve lo presento lo stesso non solo perché questo è un corso di storia della psicologia sociale. Lo faccio anche perché vibra di emozione, e alcune pagine hanno una forza che poche altre pagine nella storia della psicologia sociale hanno avuto. Sembrano scritte ieri, o addirittura oggi stesso. Il che è affascinante e anche molto inquietante. Fuga dalla libertà è insomma un libro bellissimo, che vi consiglio assolutamente di leggere. Ma, dicevamo, ha 80 anni, e ha molti punti deboli. Finiremo la lezione discutendoli, e discutendo di 66 quello che rimane vivo, di questa interessantissima opera, per noi uomini e donne del Terzo millennio. L’opera di Erich Fromm ha un ruolo cruciale nello sviluppo della teorizzazione e della ricerca empirica su pregiudizio, discriminazione e fascismo. Il suo approccio, come quello di Reich, è puramente teorico, ma è molto più ricco e moderno di quello del suo predecessore: Fromm, infatti, ha preso spunto dalle teorie post-freudiane, modificandole, rivedendole ed integrandole in un’ottica sociologica di scuola marxista, nel tentativo di fondare una nuova scienza umana che fosse in grado di orientare la formazione di personalità equilibrate nel caos culturale, nella violenza e nella solitudine della società dell’epoca. Il fulcro fondamentale di questa scienza è l’idea che, per le persone, nel percorso di sviluppo della loro individualità sia cruciale il bisogno di sicurezza. Il punto di partenza di Fromm è la questione dello sviluppo dell’Io: dal punto di vista psicologico, nel proprio processo di individuazione il singolo si trova a doversi affrancare dai propri legami primari (che da un lato limitano la sua libertà, ma dall’altro sono fonte di sicurezza, di senso di appartenenza e di radicamento), per costruire una sua propria individualità. Secondo lo psicoanalista tedesco, nell’occidente industrializzato la rescissione di tali legami è un processo doloroso e difficile, ed il processo di individuazione è dialettico e complesso: infatti, se da un lato esso può portare alla libertà ed allo sviluppo di una forza autonoma, dall’altro può avere come conseguenza una crescente solitudine che deriva dall’abbandono dei propri legami primari e dall’incapacità di costruirsene di nuovi. Nel suo studio, Fromm analizza la storia umana alla luce del rapporto che gli individui hanno avuto con la libertà a partire dal medioevo: a suo dire è evidente come, in tale periodo di tempo, essa sia andata aumentando, ma a ciò si sia affiancata una parallela diminuzione della sicurezza psicologica delle persone. L’individuo moderno, protetto dai pericoli delle forze della natura, troverebbe infatti nuovi nemici interni che bloccano il completo sviluppo delle sue potenzialità. Questo almeno da quando le dottrine del protestantesimo, in risposta alle mutate condizioni economiche nel passaggio fra medioevo e rinascimento, lo hanno preparato psicologicamente al suo ruolo in un sistema industriale governato dall’impersonale legge del mercato, promuovendo un senso di impotenza e di irrilevanza, ed offrendogli come unica soluzione all’angoscia la completa umiliazione e la totale sottomissione ad un Dio lontano, incomprensibile e ciecamente punitivo. In quest’ottica, se ogni passo del processo della separazione e dell’individuazione del singolo potesse essere accompagnato da un passo analogo nel processo di crescita dell’Io, senza ostacoli di origine sociale ed individuale, lo sviluppo di tutti sarebbe armonioso e la libertà non rischierebbe di essere vissuta come insopportabile, né di essere identificata con il dubbio e l’assenza di significato e di orientamento. Nella società occidentale accade però che numerosi fattori psicologici e sociali intervengano nel deviare la crescita armoniosa della maggior parte delle persone: in tale prospettiva, Fromm segnala alcuni aspetti della vita del tempo, a suo dire “Più pericolosi per la nostra democrazia di molti aperti attacchi contro essa”. Fra essi i più rilevanti sembrano essere il potere crescente del capitale monopolistico, che ha ridotto le possibilità di successo dell’iniziativa, del coraggio e dell’intelligenza dei singoli; l’atomizzazione della vita professionale dei lavoratori delle grandi organizzazioni burocratiche; la trasformazione degli individui in consumatori ed il sistematico bombardamento pubblicitario cui sono sottoposti che, facendo quasi esclusivamente appello all’emozione invece che alla sfera razionale, tende a soffocare e uccidere le loro capacità critiche, illudendoli in cambio di essere importanti e di decidere i propri acquisti in base al proprio discernimento; la lontananza dei partiti politici dalle esigenze dei cittadini e la loro sostanziale impermeabilità alle istanze di chi non si collochi al loro interno; il rischio continuo della disoccupazione; la paura per il proprio sostentamento nell’età senile; la continua minaccia della guerra; il condurre la propria esistenza in immense città anonime, fra edifici alti, degradati ed anonimi, sottoposti ad un costante bombardamento acustico. 67 Fuga dalla libertà è insomma un genuino sforzo di coniugare meccanismi individuali e meccanismi sociali nella spiegazione di pregiudizio, discriminazione e fascismo, sforzo che non ha probabilmente avuto eguali nelle opere successive. Le vibranti e commoventi pagine sull’alienazione, l’anomia e la standardizzazione del mondo della sua epoca come potenziali cause dell’adesione al fascismo di milioni di persone sembrano tuttora, a distanza di oltre sessant’anni, di grandissima attualità. Ribadisco: vi consiglio caldamente di leggere questo libro, che è davvero cibo per la mente. Adorno Parliamo ora di un’monumentale quanto a mole e onnicomprensiva quanto ad obiettivi: La personalità autoritaria. Si tratta di un punto di svolta degli studi sul pregiudizio. Per molti versi criticata e superata, rimane comunque il principale riferimento storico dell’approccio individualista al tema. In queste slide vi racconterò i lineamenti fondamentali di quest’opera, scritta da un’équipe di ricercatori compista da Theodor Adorno, Else Frenkel-Brunswik, Daniel Levinson e Nevitt Sanford. Solo i lineamenti fondamentali, dato che si tratta di discutere quasi 1400 pagine. E, dopo averveli tratteggiati, discuterò con voi l’eredità che Adorno e colleghi hanno lasciato agli studi sul pregiudizio. Nata come studio dei motivi psicologici dell’antisemitismo, finanziato dall’American Jewish Committee, La personalità autoritaria si è trasformata, nel corso degli anni nei quali la ricerca è stata sviluppata, in un tentativo di comprendere prima le ragioni del pregiudizio tout court (che gli autori definiscono etnocentrismo), e in seguito le condizioni psicologiche che promuovono la ricettività alle idee fasciste negli individui che non necessariamente si dichiarano di estrema destra. L’ipotesi principale dell’opera è che l’ideologia deriva dalle tendenze profonde della personalità. Il suo principale riferimento teorico è ancora una volta quello psicoanalitico. Esistono molte diverse psicoanalisi, e quella scelta da Adorno è quella freudiana classica. A differenza degli studi di Reich e di Fromm, che avevano un approccio solo teorico, siamo qui di fronte a uno studio empirico, ed è uno studio empirico davvero monumentale. È infatti basato sulla somministrazione di 4 questionari (rispettivamente volti a rilevare empiricamente l’antisemitismo, l’etnocentrismo, il conservatorismo politico-economico e il potenziale fascismo) in un campione assai ampio, di più di 2000 persone. Ma anche sulla conduzione di colloqui clinici in profondità, di test psicologici e di domande proiettive, volte a spingere gli individui a comunicare i loro stati psicologici più profondi senza che se ne accorgessero e dunque in maniera sincera. Questa parte di approfondimento è stata svolta in un sotto-campione di 80 individui. Il fulcro iniziale era appunto l’antisemitismo: non a caso, dato che, come abbiamo detto, la ricerca era stata finanziata dall’American Jewish Committee. L’idea fondamentale di Adorno e colleghi è che l’ideologia antisemita deriva da fonti psicologiche profonde assai simili a quelle del fascismo. L’antisemitismo attinge a un’ostilità profonda relativamente cieca, diretta contro un’immagine stereotipata alla quale gli ebrei corrispondono solo parzialmente, e a una disposizione generale ad accettare immagini negative, oltre che ad una tendenza alla stereotipia nelle relazioni interpersonali. L’antisemitismo, in sostanza, non sarebbe altro che una componente di una più ampia ideologia etnocentrica, che si caratterizzerebbe a sua volta per un rifiuto generale degli outgroup, percepiti come minacciosi. La distinzione rigida fra ingroup ed outgroup costituisce la base del pensiero sociale degli etnocentrici, che tendono a categorizzare le persone non in quanto individui, ma in base al loro gruppo di appartenenza, a pre-giudicarle a prescindere da 70 esperienze pratiche concrete ed a valutare ogni relazione umana sulla base del dominio e della sottomissione. Secondo gli autori è dall’etnocentrismo che si sviluppano il nazionalismo, il cinismo, le convinzioni sulla intrinseca malvagità delle persone e sulla necessità di sradicarla ad ogni costo e con ogni mezzo. L’etnocentrismo, oltre a essere tipico delle persone conservatrici, è a sua volta parte della più ampia sindrome autoritaria. Secondo Adorno e colleghi, la personalità potenzialmente fascista è caratterizzata da un Io fragile, da cui la necessità di cercare al di fuori di sé un agente coordinatore ed organizzatore: un duce o un Führer. Le persone potenzialmente fasciste hanno nove caratteristiche fondamentali. Tendono infatti a non rispondere alla propria coscienza, ma a pressioni esterne (convenzionalismo). Hanno un notevole bisogno emotivo di sottomissione, derivante da una carenza nello sviluppo della coscienza o dall’ambivalenza verso l’autorità (sottomissione autoritaria). L’aggressività autoritaria viene spiegata in base alla costrizione a rinunciare ai propri piaceri fondamentali, che produce in loro la tendenza a cercare oggetti esterni sui quali “vendicarsi” e la volontà che nessuno rimanga “impunito” per le violazioni dei valori cui essi devono sottostare, pur non sentendoli completamente propri. Tipicamente, gli ebrei. L’aggressività autoritaria, inoltre, è un comodo canale attraverso il quale poter scaricare i propri impulsi aggressivi più profondi ed inaccettabili. L’anti-intraccezione, cioè la spinta a non conoscere onestamente e adeguatamente i propri stati mentali, deriva direttamente dalla debolezza di un Io che ha paura di poter pensare “in modo sbagliato” ai fenomeni umani, di non essere in grado di dominare le proprie emozioni, o di potere scoprire parti di sé che potrebbero spaventarlo. La superstizione e la stereotipia si legano ad una scarsa intelligenza per le questioni emotive, psicologiche e sociali, all’etnocentrismo e alla debolezza dell’Io. L’eccessiva enfasi sul potere e sulla durezza coincide con l’eccessiva importanza attribuita alle caratteristiche più convenzionali dell’Io. Essa è segno di debolezza dell’Io, e correla con l’etnocentrismo e il “complesso del potere”, per cui si attribuisce al potere, proprio o altrui, troppa importanza. L’origine della distruttività e del cinismo risiede nella frustrazione dei bisogni fondamentali, che porta all’aggressività, che viene indirizzata sugli outgroup. La proiettività porta ad incolpare senza motivo altre persone dei propri impulsi repressi. Si definisce proiettività perché gli altri vengono usati come un vero e proprio schermo cinematografico, sul quale si vedono proiettati, appunto, i propri stati interni considerati inaccettabili. Sono aggressivo, non posso accettarlo e vedo questa aggressività negli ebrei, ad esempio. La concezione della sessualità come estranea all’Io, infine, è segno di repressione sessuale e di paura che gli impulsi istintuali emergano incontrollati. Il sesso viene utilizzato dai potenziali fascisti soprattutto per affermare se stessi sul piano narcisistico, o per conseguire una posizione sociale più elevata e non per scambiarsi autenticamente piacere ed emozioni fra adulti consenzienti. Le personalità autoritarie sarebbero dunque caratterizzate da un’immagine di sé estremamente favorevole, convenzionale e stereotipata, da scarsa consapevolezza di sé, dalla ricerca del potere più che dell’affetto nelle relazioni, della dipendenza utilitaristica dagli altri, specie se considerati potenti. Esse tenderebbero a glorificare esageratamente se stessi ed i loro genitori (dal momento che la loro famiglia è l’ingroup per eccellenza), mantenendo estraneo all’Io il (giusto) risentimento nei confronti di questi ultimi, e proiettandolo sugli innocenti bersagli rappresentati dagli outgroup deboli e sanzionati negativamente dalla società: questa l’origine del loro pensiero etnocentrico. Il loro stile conoscitivo sarebbe infine caratterizzato da rigidità ed intolleranza dell’ambiguità, probabilmente per la loro incapacità di sopportare l’ambivalenza e l’incertezza. Secondo Adorno e colleghi, l’origine psicologica del pregiudizio è familiare. Le personalità autoritarie risulterebbero differire da quelle non autoritarie soprattutto in base alla qualità ed alla quantità di affetto ricevuto dalla famiglia a partire dalla prima infanzia, ed alla conseguente forza dell’Io sviluppata. I loro genitori sembrano infatti essere stati sistematicamente punitivi, freddi affettivamente, rigidi, castranti, esageratamente interessati a uno status spesso sentito vacillare 71 e al potere. Nello specifico, il padre sembra essere stato essenzialmente un dominatore, e la madre una persona particolarmente restrittiva. L’affetto dato ai loro figli è stato condizionato all’obbedienza assoluta ed indiscussa, in relazioni (essenzialmente sadomasochiste) di dominio-sottomissione. Una famiglia con queste caratteristiche tenderebbe a sopprimere duramente ogni tendenza alla disobbedienza dei figli, e da ciò deriverebbero una identificazione ed una sottomissione premature e complete a genitori vissuti così potenti. I sentimenti aggressivi nei loro confronti non potrebbero pertanto essere focalizzati su ciò che li origina, e questo sarebbe alla base della loro proiezione e del loro spostamento su oggetti più deboli e meno terrorizzanti, interni (origine dell’anti-intraccezione) ed esterni (origine dell’etnocentrismo). In presenza di un dominante bisogno di potere, e di una forte punitività esercitata nei confronti di chi è più debole ed indifeso non c’è dunque spazio per tenerezza, empatia, affetto, gioco e per qualsiasi altro aspetto dell’intimità; uno sviluppo giocato all’insegna del potere come principio organizzatore sembra infatti inevitabilmente contaminare il processo creativo, così come la capacità di costruirsi mete vitali e gratificanti. In definitiva, i fascisti potenziali, secondo gli autori, sono stati allevati da genitori minacciosi, severi ed interessati allo status; essi avrebbero punito arbitrariamente e duramente ogni impulso anticonformista dei figli. A questi ultimi non sarebbe restata altra possibilità che reprimere la loro ostilità nei confronti di genitori tanto incapaci di soddisfare i loro bisogni affettivi, coprendone le tracce con una sottomissione servile ed un’eccessiva glorificazione. Ma l’aggressività, pur repressa, continua ad esistere, e deve essere spostata e proiettata su vari outgroup; così il pregiudizio e il potenziale fascismo sarebbero due facce della stessa medaglia, coniata nell’inconscio per evitare punizioni traumatiche e usata da un lato per placare autorità parentali così forti, e dall’altro per trovare una sicura valvola di sfogo per una così cospicua quantità di odio. La personalità autoritaria considera insomma il pregiudizio e la discriminazione di una più ampia sindrome psicopatologica che porta al fascismo. Il pregiudizio ha ragioni individuali, è un sintomo di una più ampia psicopatologia, che si manifesta nei più svariati ambiti: per Adorno e colleghi, la loro opera ha dimostrato la «stretta corrispondenza nel tipo di approccio e di atteggiamento che un soggetto può assumere in una grande varietà di campi, che vanno dagli aspetti più intimi dell’adattamento familiare e sessuale alle relazioni con gli altri in generale, alla religione, alla filosofia sociale e politica. Così un rapporto fondamentalmente gerarchico e di sfruttamento fra genitore e figlio tenderà a tradursi in un atteggiamento orientato verso il potere e di dipendenza in vista dello sfruttamento, nei confronti del proprio compagno sessuale e del proprio Dio, e può culminare in una concezione politica e in una prospettiva sociale che permettono soltanto un attaccamento disperato a tutto ciò che appare forte, e un rifiuto sdegnoso di ciò che è relegato al fondo. La drammatizzazione che ne deriva si estende anche dalla dicotomia tra genitore e figlio a una concezione dicotomica dei ruoli sessuali e dei valori morali, così come a una considerazione dicotomica dei rapporti sociali, come risulta specialmente dalla formazione di stereotipi e di fratture tra gruppo interno e gruppo esterno. Il convenzionalismo, la rigidità, la negazione repressiva e il successivo affioramento della debolezza, del timore e della dipendenza non sono altro che aspetti diversi dello stesso modello fondamentale di personalità, e possono essere osservati sia nella vita personale che negli atteggiamenti verso la religione e le questioni sociali». Questo sguardo ha affascinato la comunità scientifica, e la personalità autoritaria ha avuto un impatto travolgente su di lei, come poche altre opere nel corso della storia di tutta la psicologia sociale. Il ricercatore olandese Meloen ha calcolato che dal 1952 al 1987 siano stati pubblicati più di 1200 studi (obiezioni, spiegazioni, rassegne, approfondimenti, chiarificazioni, elaborazioni, tentativi di replica e così via) sull’opera di Adorno e colleghi. Pensate che essa ha addirittura goduto del discutibile privilegio di essere una delle poche ricerche criticate ancor prima di essere pubblicate, tanto se ne parlava, nella comunità scientifica, anche in corso d’opera! 72 funzione dell’ottica (individualista o centrata sul contesto) in cui ci si riconosce. Lo farò, coerentemente con il titolo di questo corso, in ottica storica, partendo dai primi lavori sul tema e mostrandovi come, nel corso dell’evoluzione della disciplina, la chiave di lettura dei lavori è cambiata, passando da uno sguardo rigidamente individualista a uno sguardo più attento all’articolazione fra le dinamiche individuali e quelle collettive. Prima di entrare nel vivo, è indispensabile dare una veloce definizione dei costrutti dei quali ci occuperemo in queste lezioni. Diremo dunque che cosa intendiamo in psicologia sociale con stereotipo, con pregiudizio e con discriminazione. È importante che impariate bene che cosa si intende in psicologia sociale con queste parole, perché saranno il nucleo di quello che faremo da qui alla fine del corso. Cominciamo da stereotipo e pregiudizio. Per definirli, dobbiamo fare un passo indietro, e definire prima che cosa intendiamo in psicologia sociale con atteggiamento. Per gli psicologi sociali gli atteggiamenti sono delle valutazioni complessive di oggetti. La parola deriva dal latino aptus, che significa “adatto e pronto all’azione”. Con oggetti noi intendiamo proprio cose, ma anche persone, gruppi, eventi, posti… Avere un atteggiamento positivo nei confronti, ad esempio, del gelato significa valutarlo positivamente, averlo negativo significa valutarlo negativamente. Lo stesso quando valutiamo una persona, una casa, una statua, una partita di tennis, una spiaggia e così via. Secondo la definizione più accreditata, gli atteggiamenti sono composti da tre diverse dimensioni. La prima è la dimensione cognitiva: è costituita da quello che noi pensiamo, crediamo, riteniamo, teniamo e così via dell’oggetto dell’atteggiamento. Sappiamo che il gelato è freddo, è buono, è nutriente, fa ingrassare, eccetera. La seconda componente è quella affettiva, e fa riferimento ai sentimenti positivi o negativi associati all’oggetto dell’atteggiamento. Per il gelato possiamo provare emozioni positive, perché è buono e rinfrescante, ma anche negative, perché fa ingrassare, eleva il colesterolo e così via. La terza componente è quella conativa o comportamentale, e fa riferimento allo stato di prontezza a intraprendere un’azione che coinvolge l’oggetto dell’atteggiamento. È quella più vicina all’etimologia di atteggiamento: ad esempio, possiamo essere pronti ad acquistare un gelato se passiamo davanti a una gelateria. L’atteggiamento è una valutazione complessiva di un oggetto, dunque. Ci sono letteralmente migliaia di studi che hanno messo in relazione l’atteggiamento nei confronti di un oggetto con i comportamenti che lo riguardano. Sarebbe molto facile immaginare che gli atteggiamenti predicano i comportamenti. È quello che facevano i primi studiosi sul tema, che hanno operato ai primordi della psicologia sociale. Ricordate, abbiamo detto che la stessa etimologia del termine atteggiamento fa riferimento alla prontezza a mettere in atto un’azione. Se fosse vero che l’atteggiamento spiega inevitabilmente il comportamento, ad esempio, dovrei predire che se ho un atteggiamento positivo nei confronti del gelato, se passo davanti a un gelataio mi fermerò e mi comprerò un bel cono. In realtà le cose non sono così semplici: accade assai spesso che mettiamo in atto quelli che gli psicologi sociali definiscono comportamenti controattitudinali, ossia contrari all’atteggiamento. Ho un atteggiamento positivo nei confronti del gelato ma non lo compro per non ingrassare; ho un atteggiamento positivo verso lo stare in vacanza ma invece che andare in spiaggia sto davanti al computer a guardare questo video perché penso che faccia bene alla mia formazione; ho un atteggiamento negativo nei confronti di mia cugina, che non fa altro che lamentarsi, ma le telefono anche se non ne ho voglia perché so che la cosa le può fare piacere e aiutarla, e così via. Non è questo il luogo per approfondire gli studi sulle relazioni fra 75 atteggiamenti e comportamenti: ci basti qui sapere che non sempre i due sono nella stretta relazione che si potrebbe intuitivamente immaginare li colleghi. Grazie a questa breve introduzione possiamo arrivare a definire gli stereotipi, i pregiudizi e la discriminazione. Il pregiudizio è un atteggiamento complessivo nei confronti di un oggetto (in psicologia sociale, tipicamente, di una persona o un gruppo) che prescinde, almeno in parte, da un’esperienza diretta con tale oggetto. Come diceva negli anni ’50 il grande studioso di pregiudizio Gordon Allport, il pregiudizio è un “giudizio prematuro”. Giudizio prematuro che, secondo lui, consisteva nel pensare male di qualcuno senza avere sufficienti motivi per farlo. Il pregiudizio ha due caratteristiche fondamentali. La prima è che viene attivato automaticamente nei confronti di una persona in funzione della sua appartenenza a una categoria sociale. Vedremo nelle prossime lezioni che cosa questo significa e che cosa comporta. Notate però che, contrariamente a quel che sosteneva Allport, i pregiudizi non sono necessariamente negativi, anche se tipicamente la psicologia si occupa soprattutto di quelli negativi. La seconda caratteristica distintiva del pregiudizio è che è condiviso a livello sociale: all’interno della stessa cultura, le persone tendono a concordare sul suo contenuto e sulla sua valenza. Mi imbatto in un nero e, siccome è nero, attivo una valutazione negativa nei suoi confronti, perché la categoria dei neri è connotata negativamente a livello sociale. Mi imbatto in un uomo e, siccome è una persona di sesso maschile, attivo una valutazione positiva nei suoi confronti, perché la società mi ha insegnato che i maschi hanno una connotazione positiva. Questo per quel che riguarda il pregiudizio. Lo stereotipo è una parte del pregiudizio. È una delle sue tre componenti: più precisamente, quella cognitiva. Senza conoscerlo, visto che è nero decido che ha il senso del ritmo, visto che è genovese decido che è avaro, visto che è donna decido che è irrazionale. E infine, la discriminazione. La discriminazione non è un atteggiamento, ma un comportamento, e più precisamente un comportamento che consiste nel trattare ingiustamente i componenti di specifici gruppi di persone, tipicamente caricati da stereotipi e pregiudizi negativi a livello sociale. La discriminazione, essendo un comportamento, è evidentemente più grave del pregiudizio, in quanto è solitamente lesiva, offensiva e talvolta dannosa anche drammaticamente per i gruppi di minoranza e i loro componenti. Sono sessista e in un colloquio di lavoro, a parità di ogni altra condizione, privilegio un uomo a discapito di una donna per la loro appartenenza di genere. Sono un allenatore razzista e, a parità di rendimento e di serietà negli allenamenti, faccio giocare il bianco e non il nero per la loro appartenenza etnica. Sono un docente razzista e, a parità di prestazione, do un voto più alto allo studente settentrionale che a quello meridionale per la loro origine sociale. Coerentemente con gli studi sulle relazioni fra atteggiamenti e comportamenti, che hanno mostrato che tali relazioni sono sovente deboli, per fortuna non sempre elevati livelli di pregiudizio si accompagnano a elevati livelli di discriminazione: perché, per fortuna, vivere in società ci impone specifici obblighi, e non siamo liberi di mettere in atto tutti i comportamenti che desidereremmo mettere in atto. Ciononostante, oltre alla discriminazione, è assai importante studiare anche il pregiudizio, perché esso può essere considerato uno stato che facilita la messa in atto di comportamenti apertamente discriminatori. Torniamo a noi. Gli studi psicosociali sul pregiudizio affondano le loro radici negli anni ’30 del XX secolo. Il primo lavoro importante cui è bene che faccia un cenno è stato condotto da Katz e Braly nel 1933. I due studiosi si concentrarono sugli stereotipi che alcuni studenti di college statunitensi avevano nei confronti di un insieme di gruppi nazionali cui non appartenevano. Diedero ai loro partecipanti un elenco di caratteristiche, chiedendo loro di indicare quali erano tipiche dei diversi gruppi nazionali. Con inquietante regolarità, emerse che, nell’immaginario di 76 queste persone, noi italiani eravamo artistici, passionali, impulsivi, focosi… I turchi avevano un’immagine molto negativa, ma quasi nessuno degli intervistati ne conosceva. Katz e Braly conclusero che gli stereotipi e i pregiudizi hanno origine sociale, e che sono la manifestazione di una patologia del pensiero: se il nostro pensiero funzionasse bene, non ci sarebbe bisogno di pre-giudicare persone sconosciute solo perché appartengono a gruppi nazionali sovente altrettanto sconosciuti. Ma lo studio di Katz e Braly non tenta un’interpretazione delle ragioni di questa supposta patologia del pensiero: si limita infatti a registrarla, senza cercare di spiegare in che cosa consiste e perché si manifesta. Per arrivare a una spiegazione di questi fenomeni, occorre che l’Europa e il mondo siano squassati da una delle peggiori tragedie della storia dell’umanità, il fascismo e il nazismo. Come era possibile che in un mondo civilizzato, ordinato, saldo giuridicamente, industrializzato, milioni di persone apparentemente normali avessero tollerato o addirittura promosso lo sterminio in massa di milioni di persone solo perché avevano l’origine sbagliata dal punto di vista religioso? A partire dagli anni ’30 del XX secolo, una serie di studiosi si mette a lavorare per rispondere a questa impegnativa domanda. Come è sovente accaduto nella storia della psicologia sociale, non erano mossi esclusivamente da un “freddo” interesse scientifico: erano le loro stesse vite a rendere urgente e imprescindibile la conduzione di questi studi. Erano infatti, in buona parte, studiosi tedeschi, ebrei e socialisti, che riuscirono a salvarsi la vita scappando da un’Europa che pareva impazzita, trovando rifugio negli Stati Uniti, che diedero loro cattedre universitarie e un contesto in cui poter lavorare e soprattutto vivere al sicuro. Sentite quanto siamo lontani dalla fredda e distaccata oggettività scientifica standard: ecco che cosa scrive Carl Binger nella sua introduzione al volume “Antisemitismo e disturbi emotivi”, scritto dai due studiosi tedeschi Ackermann e Jahoda. Non vi presenterò il volume in queste lezioni per ragioni di tempo e di spazio, ma vi invito naturalmente a leggerlo se l’argomento vi pare interessante. Sentite le parole di Binger, che colpiscono ancora adesso, a distanza di più di 60 anni. «Si potrebbe sostenere che il dottor Ackerman e la dottoressa Jahoda hanno dei pregiudizi nei confronti dell’antisemitismo. Li hanno, nella stessa misura in cui Pasteur li aveva nei confronti della rabbia, Koch nei confronti della tubercolosi, Walter Reed nei confronti della febbre gialla, o Harvey Cushing nei confronti dei tumori cerebrali. Ognuno di questi scienziati ha usato il suo genio, o il suo coraggio, o entrambi, per attaccare il male. Il male erano quelle affezioni. Il metodo dell’attacco era il freddo ed accurato metodo scientifico. Ma tutti loro avevano un pregiudizio che potrebbe essere espresso così: “È meglio che la terra venga ereditata dall’umanità piuttosto che dai cani rabbiosi o dai bacilli della tubercolosi, o dalle zanzare”. Allo stesso modo, i dottori Ackerman e Jahoda si sono formati un pregiudizio. Essi considerano l’antisemitismo un male; un sintomo di malattia sociale. Sono abbastanza coraggiosi da combattere con questo male, usando in combinazione le armi delle loro discipline (…). Sono passati i tempi nei quali i veri scienziati potevano essere indifferenti ai valori etici ed ai giudizi morali». Vediamo ora che cosa hanno teorizzato e scoperto questi veri scienziati La categorizzazione Come sempre, cominciamo con l’indice di quello che faremo in questa lezione. Nella precedente lezione abbiamo visto che i primi studi psicosociali sul tema sostenevano che il pregiudizio è l’esito di una patologia, del carattere o della personalità. Nel corso degli anni, questa idea è andata modificandosi, o meglio è stata integrata da un altro punto di vista, che sostiene che il pregiudizio è, o può essere, l’esito di normali processi di pensiero, comuni a tutti 77 a trattare le persone non come singoli individui, ma come membri di categorie, socialmente definite, attribuendo loro le caratteristiche che, a ragione o a torto, la società ci insegna che le contraddistingua. Ci sono centinaia di esperimenti che mostrano che le cose vanno così. Qui ve ne presento uno, che ha il duplice vantaggio di essere ormai un classico della psicologia sociale e di essere molto chiaro nei suoi risultati. Lo studio è stato condotto da Patricia Devine alla fine degli anni ’80, e aveva come oggetto il pregiudizio nei confronti delle persone di colore. Ai partecipanti viene detto che prenderanno parte a due diversi studi, non collegati fra di loro. Questo per non fare loro capire gli scopi della ricercatrice e di conseguenza per minimizzare il rischio di ottenere risposte distorte da persone particolarmente interessate a mostrare di non avere pregiudizio. La prima scelta rilevante di Devine è quella di usare come partecipanti solo persone con livelli molto alti o molto bassi di pregiudizio nei confronti delle persone di colore, così come emersi da un questionario usato come strumento di screening. In questo modo, la ricercatrice seleziona 78 persone, metà con livelli molto alti, e l’altra metà con livelli molto bassi di pregiudizio. A queste persone fa fare un primo compito che viene presentato come compito di vigilanza al computer. Sullo schermo davanti al quale sono seduti i partecipanti compaiono per pochi millisecondi delle parole, abbastanza a lungo da poter essere comprese ma non abbastanza a lungo da rendersi conto di averle comprese. Si tratta insomma di una percezione subliminale, di cui i partecipanti non hanno consapevolezza. Ai partecipanti viene detto che il loro compito è indicare, nella maniera più veloce e accurata possibile, se le parole compaiono nella metà di destra o di sinistra dello schermo. Al ricercatore non interessano né l’accuratezza né la velocità di queste risposte: il suo obiettivo è che i partecipanti le percepiscano, senza rendersene conto. Le parole usate sono 100 e fanno riferimento a due diverse categorie: parole relative allo stereotipo dei neri e parole neutre. I soggetti sono inseriti a caso in uno di due gruppi. Nel gruppo sperimentale, 80 parole su 100 fanno riferimento allo stereotipo dei neri; nel gruppo di controllo solo 20. Lo scopo di questa manipolazione è di attivare in maniera differenziale, fra i due gruppi, lo stereotipo dei neri. I partecipanti che avranno visto, in maniera subliminale, l’80% di parole relative ai neri lo avranno realisticamente attivato con più intensità di quelli che avranno visto, in maniera subliminale, il 20% di parole relative allo stereotipo dei neri. A quel punto i partecipanti vengono ringraziati e si chiede loro di fare un altro esercizio, slegato dal precedente, volto a studiare come le persone sviluppano le percezioni delle persone. Viene fatto loro leggere un brano che racconta alcune azioni di un certo Donald, del quale non viene specificato altro. Queste azioni sono ambigue, e possono essere interpretate come le azioni ostili di una persona aggressiva o come le azioni legittime di una persona che vuole che i suoi diritti vengano rispettati. Il punto fondamentale è che, negli Stati Uniti, i neri sono stereotipicamente considerati persone con alti livelli di ostilità. Come gli uccelli sono stereotipicamente considerati animali che volano. I partecipanti hanno il compito di valutare Donald rispondendo a 12 domande, sei delle quali fanno riferimento all’ostilità. Ebbene, le persone sottoposte all’80% di parole stereotipiche, ossia quelle istruite, al di fuori della loro consapevolezza, a vedere un nero, attribuiscono a Donald le caratteristiche stereotipiche dei neri più di quelle sottoposte al 20% di parole stereotipiche. La cosa interessante è che non emergono differenze rispetto alle altre dimensioni della valutazione. Non è un peggioramento indifferenziato. È che, a causa della categoria in cui lo inseriscono, le persone si aspettano di vedere una persona ostile, e vedono una persona ostile. Metaforicamente, si aspettano di vedere un animale che vola, e decidono che lo struzzo vola. In conclusione, questo studio e gli altri analoghi mostrano che non serve essere patologici per manifestare pregiudizio. È sufficiente essere vivi, potremmo dire. O meglio, è sufficiente essere in un mondo troppo complicato per poterlo conoscere usando esclusivamente i dati che la realtà ci fornisce. La nostra conoscenza della realtà è sempre l’esito di una negoziazione fra quello 80 che percepiamo e quello che ci aspettiamo di vedere. È insomma sempre una costruzione, e mai una fredda, oggettiva rilevazione Lo facciamo per non essere soverchiati dall’infinito scorrere privo di senso della realtà, come lo definiva Max Weber. Ma, siccome la costruzione che facciamo del reale tende a essere coerente con gli stereotipi che la società ci insegna nel corso del processo di socializzazione, questi processi hanno anche una rilevante funzione sociale: legittimare e lasciare immutato lo status quo. Se i neri sono inevitabilmente ostili, se le donne inevitabilmente non sono razionali, se gli immigrati sono inevitabilmente pericolosi, se gli omosessuali sono inevitabilmente immorali, è giusto che stiano al loro posto, in posizione subordinata, senza pretendere di usurpare lo status di chi se lo merita davvero. E quindi il fatto che nessuno di noi sia immune da questi processi cognitivi tendenziosi, che si innescano automaticamente in pochi millisecondi, porta la psicologia sociale contemporanea a conclusioni molto meno rassicuranti di quelle cui portavano i primi studiosi di questi temi: siccome siamo tutti accomunati dall’avere rilevanti limiti nelle nostre capacità di elaborazione dell’informazione; siccome siamo tutti impegnati a conoscere un mondo assai complesso; siccome siamo stati tutti socializzati a interiorizzare i valori dominanti della società in cui siamo cresciuti, è quasi inevitabile che processi cognitivi neutri, innocenti e anche salvifici si carichino di rilevanti conseguenze, costituendo una delle basi del pregiudizio nei confronti dei membri degli outgroup, ossia dei gruppi a cui non apparteniamo. Vedremo nelle prossime lezioni come spesso questi processi non si limitino a fermarsi al livello degli atteggiamenti, ma possano sfociare addirittura nella messa in atto di veri e propri comportamenti discriminatori. Abbiamo ora le basi per fare un passo in avanti, e andare a occuparci dei processi e dei costrutti automatici, della loro rilevanza e della loro influenza sui nostri comportamenti. Si tratta, come abbiamo detto all’inizio di questa parte del corso, di una delle nuove frontiere della psicologia sociale. Faremo il punto su quello che si è scoperto nelle prossime slide. Gli atteggiamenti impliciti Parlando di categorizzazione e di categorizzazione sociale, abbiamo accennato a che cosa sono i processi cognitivi automatici. In queste slide vedremo più nel dettaglio quali sono le loro caratteristiche. Vedremo poi che cosa sono gli atteggiamenti impliciti, che ne costituiscono una rilevante sezione, e a che cosa serve studiarli. Avrete poi la possibilità di fare in prima persona un test per studiare vostri atteggiamenti impliciti, l‘Implicit Association Test, che è uno di quelli più usati in psicologia sociale. Alla fine del test vi verrà comunicato il risultato del test. Finiremo discutendo la logica e i principi dell’Implicit Association Test. Facciamo ora una veloce introduzione ai processi automatici di elaborazione dell’informazione. Vi invito a seguirla avendo in mente le cose che ci siamo detti parlando della categorizzazione e della categorizzazione sociale, in modo da contestualizzare adeguatamente quello che vi racconterò. I processi automatici di elaborazione dell’informazione hanno alcune caratteristiche fondamentali. Primo, non sono intenzionali. Si attivano senza che noi necessariamente lo desideriamo. Vediamo un fenicottero e, senza desiderare farlo, lo consideriamo un uccello. Vediamo una persona di sesso maschile e, senza desiderare farlo, la consideriamo un uomo. La prova che lo facciamo senza desiderare farlo è che noi categorizziamo in questo modo anche quando non ci conviene farlo, perché sappiamo che saremo premiati se, in un compito di rievocazione successivo alla presentazione degli stimoli, saremo in grado di distinguere fra di loro i componenti della stessa categoria. Lo hanno mostrato Taylor e colleghe in un esperimento del 1978. Ai partecipanti venivano presentate le foto di tre uomini e tre donne, corredate dalle frasi che ognuna di loro aveva detto, e veniva dato loro il compito di rievocare chi aveva detto che cosa. Ebbene, i partecipanti tendevano a confondere fra loro le frasi dette dai diversi uomini 81 e le frasi dette dalle diverse donne, proprio perché, avendole categorizzate, consideravano le persone che appartenevano alla stessa categoria sostanzialmente come intercambiabili fra di loro. La seconda caratteristica dei processi automatici è che sono inconsapevoli. Come ci siamo detti, la categorizzazione, come del resto tutti i processi automatici, avviene in pochi millisecondi, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. La conseguenza è che è davvero molto difficile evitare di metterla in atto. La terza caratteristica dei processi automatici è che non sono controllabili: una volta che si innescano (come ci siamo detti, al di fuori della nostra volontà e consapevolezza) è molto difficile interromperli: anche perché, giustappunto, non ci rendiamo di starli utilizzando. La loro ultima caratteristica è che sono efficienti. Questo significa che richiedono il ricorso a poche risorse cognitive, o addirittura a nessuna risorsa cognitiva. I processi controllati, deliberati, volontari, possono essere usati solo in serie. Si ricorre a uno, lo si porta a compimento, e poi si passa a quello dopo. I processi automatici possono essere usati in parallelo: categorizziamo e intanto, contestualmente, possiamo elaborare altri stimoli. I processi automatici sono salvifici, dicevamo, perché ci permettono di non soccombere all’eccesso di stimolazione che sistematicamente riceviamo. Il ricercatore americano Bargh ha addirittura calcolato che più del 99% dei processi cognitivi cui ricorriamo siano automatici. Si potrebbe discutere su questa quantificazione (individuarli è infatti un compito metodologicamente davvero complesso); ma è evidente che sono la stragrandissima maggioranza dei processi cognitivi che usiamo. Per inciso, potremmo ragionare sul fatto che questi dati di ricerca mettono radicalmente le nostre idee sul libero arbitrio e la nostra idea di essere effettivamente padroni delle nostre azioni. Ma non è questo l’oggetto della nostra lezione di oggi. Torniamo dunque ai processi automatici. Molte ricerche mostrano che essi influenzano anche radicalmente le nostre condotte esplicite. Ad esempio, per quanto possa sembrare incredibile, rendere saliente, con stimolazioni subliminali simili a quelle usate da Devine nell’esperimento che abbiamo appena incontrato, il concetto di “anziano” spinge i soggetti sperimentali a muoversi più lentamente dal posto A al posto B del campus in cui è stato condotto lo studio; rendere saliente il concetto di “giovane” spinge a fare più rapidamente tale percorso. Analogamente, rendere subliminalmente saliente il concetto di “successo” spinge a impegnarsi di più in un gioco tipo Scarabeo; rendere subliminalmente saliente il concetto di “insuccesso” spinge a impegnarsi di meno, Tutto questo, ribadisco, al di fuori della consapevolezza della persona. Dopo quella con cui lo concepiscono gli psicologi clinici, ci imbattiamo qui in un’altra accezione di inconscio, che lo concepisce come inconscio cognitivo. Secondo Freud, l’Io non sarebbe davvero padrone in casa propria, sia perché il suo potere è minimo rispetto a quello delle altre istanze della mente, sia perché il suo ruolo è quello di tentare sistematicamente una impossibile mediazione fra le istanze dell’Es (che mirano all’immediato soddisfacimento di ogni desiderio pulsionale), quelle del Super-Io (che mirano alla rigida adesione ai dettami sociali) e le richieste della realtà esterna. Come per Freud, in sostanza, anche per i cognitivisti prestati alla psicologia sociale l’Io non è padrone in casa propria, ma per ragioni diverse: principalmente per quei limiti di elaborazione del nostro sistema di elaborazione dell’informazione che abbiamo ripetutamente richiamato. Ma veniamo al fulcro di quanto vi voglio raccontare, ossia gli atteggiamenti impliciti. Intanto una prima precisazione terminologica: In psicologia sociale attualmente con atteggiamento si intende la valutazione complessiva di un oggetto. Quando pensate a un atteggiamento pensate dunque a una valutazione. Ebbene, come abbiamo visto parlando dell’esperimento di Devine, nei confronti di un oggetto (nel caso di Devine, di una persona di colore) possiamo avere una valutazione esplicita, consapevole, e una implicita, inconsapevole. A differenza di quelle 82 outgroup. E vi racconterò un paio di esperimenti che mostrano che il colore della pelle delle persone americane può impattare anche tragicamente sulla loro speranza di uscire vivi quando una pattuglia li ferma. Ma prima di dare una risposta scientifica a questa domanda, vi darò la risposta che le ha dato, in forma artistica, Bruce Springsteen. A testimoniare che l’evento da cui questi esperimenti hanno mosso ha scosso drammaticamente le coscienze più sensibili della cultura americana, e non solo gli psicologi sociali. Termineremo questa lezione, per una volta, non con un mio video, ma dando la parola all’illustre collega Bloom, dell’Università di Yale, che nel terzo Ted talk che vi mostro in questo corso, riassumerà con precisione ed eloquenza i moderni studi psicosociali sul pregiudizio, dandovi anche qualche interessante spunto e qualche utile suggerimento per ridurre il rischio di esprimere pregiudizi e di mettere in atto comportamenti apertamente discriminatori. L’intergroup bias INDICE Abbiamo visto che siamo sistematicamente impegnati a categorizzare in modo automatico oggetti sociali (le persone, tipicamente) e ad attribuire automaticamente loro le caratteristiche stereotipiche della categoria in cui li inseriamo. Questo doppio processo automatico dà conto dell’attivazione dei pregiudizi, considerandoli l’esito di normali processi di pensiero. Ora ci occupiamo di vedere un’altra conseguenza della categorizzazione sociale, che ci permette di fare un passo in avanti, mostrandoci come dal pregiudizio (un atteggiamento) si può passare alla discriminazione (un comportamento volto a nuocere all’outgroup) La radice di questi studi affonda nel terreno insanguinato della II guerra mondiale, del nazismo e dello sterminio di milioni di persone, condotto solo perché esse non appartenevano alla categoria giusta: erano ebrei invece che cristiani, zingari invece che ariani, omosessuali invece che eterosessuali, comunisti invece che nazisti e così via La psicologia sociale, almeno in parte, ha cercato di spiegare questi eventi drammatici leggendoli con la categoria dei conflitti fra i gruppi. Fino agli anni ’60, si riteneva che il conflitto fra i gruppi nascesse principalmente perché i diversi gruppi (ad esempio, gli ebrei e gli ariani) competevano per cercare di guadagnarsi la massima quota possibile di risorse limitate (istruzione, prestigio, potere, status…). Il pregiudizio e la discriminazione sarebbero l’esito di questi rapporti conflittuali. È la cosiddetta “teoria del conflitto realistico”, che sostiene che, ancorché molto sgradevole e addirittura potenzialmente drammatico, è realistico che i gruppi abbiano fra di loro rapporti conflittuali. Ancora una volta, si tratta, in maniera paradossale, di una idea che pecca di ottimismo. Dagli anni ’70, infatti, la psicologia sociale ha mostrato che il conflitto fra i gruppi e la discriminazione sono certo favoriti dalla competizione per ottenere queste risorse limitate, ma che si possono innescare anche in loro assenza. Perché succeda è sufficiente che le persone considerino se stesse e gli altri non come singoli individui, ma come membri di un gruppo. Vediamo come questa importantissima scoperta viene fatta e perché le cose vanno in questo modo CATEGORIZZAZIONE SOCIALE E DISCRIMINAZIONE INTERGUPPI La figura di riferimento fondamentale in questo ambito di studi è stato Henri Tajfel, una delle figure più importanti di tutta la storia della psicologia sociale. Tajfel è davvero uno dei grandissimi della psicologia sociale; un ricercatore che ha lasciato un segno definitivo nella storia della disciplina. I suoi primi studi risalgono quasi a 50 anni fa, eppure costituiscono ancora una delle basi indiscusse della psicologia sociale. Tajfel, come pochi altri, rappresenta 85 l’emblema della psicologia sociale, per come la sua storia di vita personale si è intrecciata inestricabilmente con la Storia, con la S maiuscola, contribuendo a influenzare il suo interesse scientifico. Tajfel era un polacco di origine ebraica, trasferitosi a studiare a Parigi negli anni precedenti lo scoppio della II guerra mondiale. Allo scoppiare del conflitto, si arruolò volontario nell’esercito francese, e fu fatto prigioniero dai tedeschi dopo poche settimane di conflitto. Passò tutti gli anni della guerra internato in un campo per prigionieri di guerra, e questo, paradossalmente, rappresentò la sua fortuna. Evitò infatti sia di combattere al fronte, sia la deportazione in un campo di sterminio. Al termine della guerra tornò a casa e trovò che tutta la sua rete sociale era stata sterminata dai nazisti. Si trasferì in Inghilterra e si dedicò allo studio della psicologia sociale, cercando di trovare spiegazioni scientifiche all’immane tragedia che aveva colpito lui e il mondo, in un commovente quanto disperato tentativo di elaborare un trauma impossibile da elaborare Il suo punto di partenza era l’idea che, nel conflitto fra i gruppi, non è necessario che ci sia una rilevante posta in gioco. Non serve che le persone e i gruppi interagiscano fra di loro. Non serve che competano per rilevanti risorse limitate (economiche, di status, di potere…). Non serve nemmeno che i componenti dei due gruppi si conoscano e, addirittura, se vogliamo estremizzare, che esistano effettivamente GRUPPI MINIMI Si propone di mostrare questo mediante uno dei più celebri esperimenti di tutta la storia della psicologia sociale: il cosiddetto esperimento dei gruppi minimi. I gruppi minimi hanno le caratteristiche che vedete riportate nella slide: si basano su una divisione di nessuna importanza per i loro componenti, nessun componente dei gruppi interagisce con altre persone, né del proprio gruppo né del gruppo cui non appartiene, e in gioco ci sono risorse di nessun valore e di nessun interesse (punti, gettoni privi di valore economico e così via) L’ESPERIMENTO Nella prima fase, i partecipanti vengono divisi in gruppi, in base alla preferenza per Klee o Kandiskij, due pittori all’epoca davvero poco conosciuti. E i partecipanti erano persone che non li conoscevano e non erano né particolarmente esperte né particolarmente interessate all’arte moderna. Essere estimatori dell’uno o dell’altro era insomma una cosa davvero poco, o meglio, per nulla importante per loro. In altre versioni dell’esperimento, stima del numero di puntini su uno schermo e divisione, arbitraria, in base all’essere sovraestimatori o sottoestimatori. Credo che concordiate con me che non sarebbe minimamente, rilevante, per voi, preferire uno dei due pittori o credere di vedere troppi o troppo pochi puntini Nella seconda fase, il partecipante aveva il compito di distribuire delle ricompense o delle penalità (in certe condizioni dell’esperimento erano economiche, come monete, in altre erano solo simboliche, come punti o gettoni di nessun valore), usando sei matrici di pagamento come quella che vedete riportata nella slide. Come vedete, nella prima riga c’è la persona 1, della quale non viene detto niente, e che il partecipante non vedrà mai. Lo stesso nella seconda riga. Il partecipante deve decidere come distribuire i punti che vedete nella matrice TRE CONDIZIONI SPERIMENTALI I partecipanti venivano sottoposti a una di queste tre condizioni sperimentali, che variavano fra loro in funzione di come venivano presentate le persone nelle due righe della matrice. Supponiamo che voi preferiate Kandinskij a Klee. Quando le due persone in matrice sono presentate come, ad esempio, Membro 33 del gruppo che preferisce Klee e Membro 96 del 86 gruppo che preferisce Klee, voi dovete distribuire le risorse in matrice fra due persone che, su questa variabile di nessuna importanza, sono diverse d a voi. Viceversa, quando le persone in matrice sono presentate come Membro 17 del gruppo che preferisce Kandinskij e Membro 44 del gruppo che preferisce Kandinskij, voi dovete distribuire le risorse fra due persone simili a voi, sempre su una questione totalmente irrilevante. Quando dovete distribuire le risorse, ad esempio, fra due persone, una presentata come Membro 37 del gruppo che preferisce Klee e Membro 55 del gruppo che preferisce Kandinskij, dovete distribuirle fra una persona simile a voi e una diversa da voi. La variabile su cui si basa questa somiglianza/differenza continua a essere, sempre e comunque, irrilevante. Quando le persone sono entrambe uguali a voi, o sono entrambe diverse da voi, con ogni probabilità voi distribuirete le risorse in maniera equa, senza favorirne nessuna. In questa matrice, l’opzione prescelta con la massima frequenza è quella che distribuisce a entrambi 13 (monete o gettoni). Questo fa sì che entrambe ottengano meno di quanto potrebbero avere. Se sceglieste la prima colonna della matrice, il signor 13 otterrebbe 12 monete o gettoni in più, e il signor 96 ne otterrebbe 6 in più. Entrambi, rispetto alla scelta più equanime, ci guadagnerebbero. Ma la distribuzione non sarebbe equilibrata e, con ogni probabilità, voi non la sceglierete. Questo ci dice che, quando non ci sono appartenenze di gruppo contrapposte, noi tendiamo a non discriminare. Scherzosamente, e usando un linguaggio poco scientifico, potremmo insomma dire che non siamo cattivi. Ma quando c’è in gioco l’appartenenza di gruppo, è assai difficile che voi scegliate l’equità. Al contrario, è molto più facile che voi, se preferite Kandinskij, scegliate una delle opzioni alla destra della matrice, che sono quelle che, nel confronto fra i gruppi, avvantaggiano chi preferisce il vostro stesso pittore a discapito di chi preferisce il pittore concorrente. Questo avviene nel 70% dei casi circa IN CONDIZIONI INTERGRUPPI Le opzioni scelte con la massima frequenza sono insomma le opzioni che vi porteranno a distribuire più risorse a chi preferisce il vostro stesso pittore, anche un solo gettone o una sola moneta in più (è la colonna in cui attribuite 12 a chi preferisce Kandinskij e 11 a chi preferisce Klee), o a massimizzare la differenza di ricompensa a favore della persona che preferisce il vostro stesso pittore (è la colonna in cui attribuite 7 a chi preferisce il vostro stesso pittore e 1 a chi preferisce il pittore concorrente). Tutto questo in una situazione assolutamente asettica, neutra, asciugata da ogni competizione e ogni interazione. I gruppi non interagiscono fra di loro, né interagiscono fra di loro i loro componenti. È sufficiente che si evochi l’appartenenza di gruppo, anche se i gruppi si basano su niente di significativo, per spingere le persone a ragionare in termini intergruppi, e a mettere in atto dei processi che si allontanano dalla “normale equità”, favorendo l’ingroup a discapito dell’outgroup. E notate che, dal punto di vista assoluto, questo è controproducente in termini di risorse (monete o gettoni) che arrivano a chi fa parte del nostro gruppo. Se volessimo massimizzare il numero assoluto di risorse che ottiene chi preferisce il nostro stesso pittore dovremmo infatti scegliere la prima colonna a sinistra. Ma, scegliendo quella, la persona che preferisce il pittore concorrente avrebbe ancora di più, e questo ci disturba. Si rinuncia al massimo profitto pur di promuovere la differenza positiva. Il tentativo è quello di raggiungere la massima differenziazione positiva possibile per il proprio gruppo. Ragioniamo, appunto, in termini di confronto fra i gruppi (ribadisco, gruppi costituiti da persone che non conosciamo e non conosceremo mai, e che si differenziano su questioni totalmente irrilevanti), favorendo il nostro gruppo nel confronto con il gruppo cui non apparteniamo. 87 passo in avanti, andando a prevedere non un riconoscimento di stimoli, ma un comportamento. I partecipanti sono impegnati a giocare a una sorta di videogioco. Il loro compito è guardare delle scene in cui compaiono sullo schermo persone bianche o di colore con in mano degli oggetti ambigui (ancora una volta, armi o utensili). Come nel caso dei poliziotti di fronte a Diallo, il loro compito è, ogni volta che vedono un’arma, quello di sparare alla persona che ce l’ha in mano schiacciando un tasto della tastiera. Al contrario, ogni volta che vedono un utensile il loro compito è quello di non sparare alla persona che ce l’ha in mano, schiacciando un altro tasto della tastiera I risultati sono coerenti con quelli dell’esperimento precedente, e consentono di estenderne la portata al livello dei comportamenti. Quando la persona che compare sullo schermo è nera, le si spara più velocemente che quando essa è bianca. Al contrario, quando si decide, sbagliando, di non sparare a una persona armata, si sbaglia più velocemente se chi abbiamo di fronte è bianco invece che nero. Nel complesso, questi risultati ci dicono che, come spesso accade, nella lettura del mondo l’arte ha preceduto la scienza. Aveva ragione Springsteen a dire che una persona può essere uccisa solo perché vive nella sua pelle americana i Come psicologi sociali, abbiamo insomma prodotto un’evidenza cumulativa che, per quello che ci interessa in questo corso, ci ha insegnato due cose. La prima è che, quando si parla di pregiudizio e discriminazione, siamo, entro certi limiti, tutti uguali. Questo soprattutto se dobbiamo decidere in breve tempo, affidandoci a processi automatici. In quel caso, è probabile che saremo portati a non seguire i nostri standard e i nostri principi, affidandoci invece ai dettami che la società ci avrà insegnato. La seconda è che i nostri atteggiamenti di pregiudizio e i nostri comportamenti di discriminazione hanno come bersagli soprattutto membri di gruppi che sono sanzionati negativamente a livello sociale. È la società che ci insegna che i neri sono più pericolosi dei bianchi, e noi, in pochi millesimi di secondo, vedendo un nero invece che un bianco tendiamo a rispondere in maniera coerente con quello che ci è stato insegnato, vedendolo come più pericoloso di quanto in realtà non sia, e diventando a nostra volta più pericolosi per lui di quanto in realtà non dovremmo. Viceversa di fronte a un bianco. Detto in pillole, affidandoci ai processi automatici finiamo per comportarci in maniera coerente con quello che la società ci ha insegnato e si aspetta da noi, diventando eccessivamente propensi a uccidere un nero innocente e a farci uccidere da un bianco colpevole. Questo è assai coerente con l’ottica situazionale che, come abbiamo detto più volte, orienta una parte della storia della psicologia sociale: è la cultura in cui cresciamo, in questo caso, che influenza il modo in cui noi vedremo le persone in cui ci imbattiamo e il modo in cui ci comporteremo con loro… spesso, almeno potenzialmente, spingendoci a essere un rischio per loro se vivono nella loro pelle americana di colore nero, e a essere un rischio per noi se vivono nella loro pelle americana di colore bianco. Quasi sempre solo potenzialmente, per fortuna. 5.4 pregiudizio, performance e influenza sociale Introduzione Abbiamo visto fin qui che cosa succede quando noi siamo detentori di pregiudizio nei confronti degli altri. Abbiamo visto che in gioco c’è la combinazione di tre famiglie di normali processi. I primi sono processi cognitivi, che ci spingono a semplificare la realtà. I secondi sono processi motivazionali, che ci spingono a promuovere la nostra immagine di noi stessi. I terzi sono processi culturali, che fanno sì che, spesso inconsapevolmente, ci adattiamo a pensare quello che la società ci insegna che dovremmo pensare delle persone solo perché appartengono a specifiche categorie. La ricerca mostra come la combinazione, tendenzialmente automatica, di categorizzazione sociale, promozione della nostra immagine di noi stessi e attivazione di stereotipi socialmente connotati può renderci tutti uguali nel rischio di conoscere e valutare gli altri in maniera connotata dal pregiudizio, e addirittura nel rischio di discriminare altre persone 90 solo perché non sono come noi su questioni socialmente connotate (ad esempio il sesso, l’età, lo status, la nazionalità, il colore della pelle, l’orientamento sessuale e così via). Ci occupiamo ora di un paio di altri aspetti molto rilevanti per chi si occupa di psicologia sociale del pregiudizio. Sono aspetti che, nel corso dell’evoluzione e dello sviluppo della psicologia sociale, si sono affiancati abbastanza di recente a quelli di cui ci siamo occupati in precedenza. I primi studi si occupavano infatti di capire come e perché il pregiudizio si sviluppa e si manifesta. Questi guardano invece al pregiudizio e alla discriminazione da un versante un po’ diverso. Il primo filone di studi che vi voglio raccontare ha studiato che cosa succede non quando noi siamo detentori di pregiudizio (siamo un bianco, incontriamo un nero e ci comportiamo con lui in maniera coerente con i dettami sociali negativi nei suoi confronti), ma quando noi stessi siamo l’oggetto del pregiudizio. Nell’esempio che vi ho appena fatto, siamo il nero in cui il bianco si imbatte. Questo filone di studi ha un’origine piuttosto antica: risale infatti agli anni ’50 del XX secolo, e più precisamente all’imprescindibile volume La natura del pregiudizio, scritto nel 1954 da quel Gordon Allport che abbiamo già nominato qualche volta in queste lezioni. Secondo Allport, una delle conseguenze più nefaste e pericolose del pregiudizio è il fatto che esso tende a spingere i membri dei gruppi che sono oggetto di pregiudizio a comportarsi in maniera coerente con il contenuto del pregiudizio stesso. Se sono gruppi stigmatizzati, a confermare la sensatezza della loro stigmatizzazione grazie ai propri stessi comportamenti. Questo finirebbe per dare una giustificazione fra virgolette razionale alla loro stessa discriminazione, aiutando a sostenere che essa sia legittima e sensata. Se io, che sono bianco, ho interesse a mantenere il mio status privilegiato nei confronti delle persone di colore, per me è strategico spingerle a comportarsi in maniera coerente con gli stereotipi negativi che la società ci insegna a condividere nei loro confronti. Lo stesso se sono un uomo e ho a che fare con le donne. Si potrebbero ovviamente fare decine di altri esempi. Ebbene, nella storia della psicologia sociale questa interessante idea di Allport è stata dimenticata per lunghi decenni. Ma negli ultimi anni essa è stata recuperata da alcuni ricercatori che hanno deciso di assumere il punto di vista dei membri dei gruppi meno avvantaggiati a livello sociale, al fine di capire se e come, senza rendersene conto, i membri dei gruppi di minoranza possano concorrere alla loro stessa discriminazione, finendo per confermare gli stereotipi negativi nei loro confronti condivisi a livello sociale. Ad esempio, questo accade tipicamente quando una ragazza deve essere valutata in base alle sue abilità matematiche. Se voi siete una ragazza, sapete che, a livello sociale, è assai diffuso uno stereotipo che sostiene che gli individui di sesso maschile sono più bravi in matematica di quelli di sesso femminile. Se voi siete un ragazzo, anche. Ma questo, per il discorso che facciamo, ci interessa un po’ meno. Sarete forse sorpresi, e sorprese, di sapere che lo stereotipo, come spessissimo accade, è totalmente infondato. Non ci sono infatti differenze fra i due sessi quanto ad abilità matematica. Ma le ragazze non lo sanno e anzi, essendo state coerentemente e ripetitivamente socializzate a impararlo, tendenzialmente lo condividono. Credono di essere meno brave in matematica dei ragazzi. Vedremo che i componenti dei gruppi oggetto di pregiudizio, come le donne in confronto agli uomini, quando si trovano a fare un compito effettivamente impegnativo, come un complesso test di matematica, si trovano doppiamente in difficoltà rispetto alla loro controparte maschile. Condividono con gli uomini la difficoltà del compito. Ma solo loro hanno un ostacolo aggiuntivo: se falliscono, il loro insuccesso diventa non solo l’indicatore di una scarsa capacità individuale, ma un esito che si è quasi inevitabilmente prodotto perché loro appartengono al loro gruppo. Questo genera un sovrappiù di ansia, in loro, e la gestione di questa ansia supplementare distoglie risorse cognitive dal compito. Perché, non dimentichiamolo, le nostre risorse cognitive sono limitate. 91 È insomma ovvio che, se ci si impegna in un compito doppiamente difficile, sarà probabile che si riuscirà peggio di chi si impegna in un compito che è sì difficile, ma per una sola ragione. Questo elemento di difficoltà aggiuntivo, socialmente determinato, viene definito minaccia dello stereotipo. Ed è particolarmente interessante dal punto di vista teorico perché si attiva in maniera sostanzialmente inconsapevole. E lo è anche dal punto di vista sociopolitico, perché ci aiuta a capire quanto debole e tendenzioso sia il presupposto sostegno scientifico della legittimità di certe discriminazioni sociali. Perché il passo da una presunta e infondata “minore abilità matematica” a “minore razionalità” a “cittadini di serie B” rischia di essere davvero molto breve. Il secondo aspetto di cui ci occupiamo fa riferimento a un altro versante della storia degli studi psicosociali sul pregiudizio. Ci concentriamo in questo caso su quello che accade, nella relazione con gli altri, quando noi esprimiamo visioni e pensieri che sono coerenti con la connotazione sociale di un outgroup. Possiamo parlare di un componente di un gruppo svantaggiato socialmente in termini coerenti con lo stereotipo socialmente condiviso nei suoi confronti. Ad esempio, possiamo parlare di una donna come un essere sensibile e irrazionale, di un nero come una persona aggressiva e atletica, di un uomo omosessuale come una persona emotivamente instabile e artistica, e così via. Ma possiamo anche parlare di queste persone in termini neutri, non connotati stereotipicamente. Ad esempio, possiamo parlare di una donna come una persona vivace, di un nero come di una persona attenta, di un uomo omosessuale come una persona ignorante. Possiamo infine parlare di queste persone in termini controstereotipici, ossia con termini che contraddicono quello che, stereotipicamente, dovremmo aspettarci da loro. Ed ecco che allora parleremo della donna come persona razionale, del nero come persona gracile e dell’uomo omosessuale come persona emotivamente stabile e inquadrata. Che conseguenze ha per noi, nella nostra relazione con gli altri, il modo con cui parliamo di chi appartiene ai gruppi svantaggiati, ossia il fatto che, parlando, confermiamo o smentiamo gli stereotipi nei loro confronti? Come impatta il contenuto delle nostre comunicazioni sull’immagine di noi che gli altri svilupperanno e sulla nostra autorevolezza? Un filone di studi assai ridotto, ma di grandissima importanza, si è dedicato a rispondere a queste domande; ed è di esso che parleremo dopo avere parlato della minaccia dello stereotipo. Come vedremo, questo filone ha mostrato che se parliamo dei gruppi svantaggiati esprimendo pregiudizio nei loro confronti, finiamo per apparire più autorevoli agli occhi degli altri, aumentando la nostra capacità di influenzarli e, in senso lato, di influenzare le dinamiche sociali. Un risultato, ancora una volta, piuttosto inquietante. Insomma, in questa lezione vedremo come, nel corso dell’evoluzione della disciplina, gli studi sul pregiudizio non hanno solo cambiato ottica, passando da una visione patologizzante delle persone che hanno pregiudizio a una che vede il pregiudizio come esito dei normali processi di pensiero. E vedremo che non solo sono passati da una visione centrata sull’individuo, per cui sono le caratteristiche del singolo a spingerlo ad avere pregiudizi, a una centrata sull’articolazione fra le caratteristiche del singolo e quelle della società, per cui quel che crediamo e pensiamo dei membri degli outgroup e i modi con cui ci comportiamo nei loro confronti ha in buona parte un’origine sociale. Vedremo infatti che, oltre a questo, nella storia della psicologia sociale è cambiato, almeno per certi versi, anche il focus dell’interesse dei ricercatori, o per lo meno esso è stato integrato da una visione alternativa. Il tradizionale sguardo sulle dinamiche della persona che ha pregiudizi è stato infatti affiancato dallo sguardo sulla persona che è oggetto e talvolta addirittura vittima di pregiudizio, e dallo sguardo sulle persone che hanno a che fare con chi il pregiudizio lo manifesta. 92 (gli uomini, in questo caso) riescono meglio di quelli di status meno elevato (le donne, in questo caso) perché i gruppi di alto status sono (un po’ lombrosianamente) migliori di quelli di basso status, oppure perché l’ansia deriva dalla disuguaglianza di status e non dalla minaccia dello stereotipo. Ebbene, gli studi condotti per testare questa ipotesi alternativa hanno portato a smentirla. Ve ne racconto due. Nel primo, è stata utilizzato lo stereotipo relativo all’associazione fra colore nero della pelle e ridotte abilità verbali. I 40 partecipanti erano per metà bianchi e per metà neri. A loro volta, sia i bianchi che i neri sono stati suddivisi in due sottogruppi. A un sottogruppo veniva detto che il test che avrebbero fatto serviva per misurare le loro abilità verbali. Come ci siamo detti, negli Stati Uniti si crede stereotipicamente che i neri siano meno bravi dei bianchi su questa abilità. All’altro sottogruppo veniva detto che il test avrebbe misurato la capacità di soluzione dei problemi. Negli Stati Uniti non ci sono differenze stereotipiche circa le diverse abilità di bianchi e neri riguardo a queste abilità. Il test, ovviamente, non misurava nessuna di queste due abilità, ma i partecipanti non lo potevano sapere. Il risultato dell’esperimento è incontrovertibile. Fra i gruppi emergevano le differenze coerenti con la teorizzazione sulla minaccia dello stereotipo, ma non quelle che avrebbero potuto derivare dallo status. Se si dice che il test misura le abilità verbali si attiva la minaccia dello stereotipo e i neri riescono peggio dei bianchi. Se si dice che il test misura la capacità di problem solving, bianchi e neri ottengono lo stesso punteggio. Il test, ricordate, è il medesimo: cambia solo la proprietà che i partecipanti credono che esso misuri. E quindi non sembrerebbe essere in gioco un semplice meccanismo di status. Lo status dei neri è sempre inferiore a quello dei bianchi, ma loro vanno peggio dei bianchi solo se la prova riguarda un’abilità in cui loro sono stereotipicamente considerati inferiori rispetto alla loro controparte Vi presento ora un altro studio, che conferma quanto vi ho appena detto. Cadinu, e Maass (2003) riportano i risultati di una loro ricerca condotta assieme a Lombardi in cui hanno fatto fare a partecipanti di sesso maschile e femminile lo stesso test. In un caso lo hanno presentato come un test che era volto a misurare l’intelligenza logica delle persone. Nell’altro, come un testo che era volto a misurare la loro intelligenza sociale. Il test, nuovamente, non misurava né l’una né l’altra abilità, ma, nuovamente, i partecipanti non potevano saperlo. Non vi presento i risultati con un grafico perché le autrici li hanno presentati solo qualitativamente. Comunque dal loro resoconto il risultato è evidente. Le donne, che hanno uno status inferiore agli uomini, riuscivano peggio degli uomini solo quando uomini e donne credevano di fare un compito di abilità logica, coerentemente con lo stereotipo che ritiene le donne meno logiche degli uomini. Ma gli uomini, che hanno uno status superiore alle donne, riuscivano peggio delle donne quando uomini e donne credevano di fare un compito di abilità sociale, coerentemente con lo stereotipo che ritiene gli uomini meno sociali delle donne. I cali di prestazione, insomma, non avvengono in maniera generalizzata, né in maniera coerente con lo status dei gruppi. Avvengono, invece, in maniera coerente con la vulnerabilità che i test suscitano quando mettono in gioco associazioni stereotipiche fra il gruppo cui si appartiene e specifiche abilità Veniamo alle altre due domande. Cadinu e colleghi hanno evidenziato la ragione per cui questo fenomeno si attiva: perché la minaccia dello stereotipo manda in ansia i partecipanti, soprattutto per quel che concerne la dimensione cognitiva dell’ansia. Attiva insomma nella mente delle persone una serie di pensieri intrusivi, legati alle loro aspettative di fallimento. Questi pensieri ci sono, vanno gestiti e per gestirli serve usare delle risorse cognitive, che vengono distolte dalla prova di matematica. È come fare una gara di Formula 1 potendo usare solo le prime tre marce: il fallimento diviene quasi inevitabile. 95 La seconda domanda ha una risposta altrettanto interessante: questi fenomeni si verificano anche nei bambini relativamente piccoli: quelli di 7-8 anni. Ossia quelli che hanno avuto modo di essere socializzati alla cultura dello stereotipo. Questi effetti si dispiegano insomma da molto presto nella traiettoria individuale delle persone, rischiando davvero di cronicizzarsi. La vita degli individui, insomma, si organizza, almeno in parte, attorno a queste associazioni stereotipiche, che tendono a confermarsi e quindi a diventare sempre più rigide per il singolo e sempre più condivise a livello culturale. In conclusione, questi studi, anche al di là degli specifici risultati cui hanno condotto, ci mostrano quanto la società più influire sulle nostre cognizioni e sui nostri comportamenti, fino a spingerci a rischiare di legittimare la nostra stessa discriminazione. Sono fenomeni pervasivi, e sono davvero difficili da combattere. Alcune ricerche che non vi ho raccontato per ragioni di tempo mostrano addirittura che la minaccia dello stereotipo ha effetti più ampi sulle persone che sono molto coinvolte nelle prove. Più per loro la matematica è interessante e importante per loro, per continuare nel nostro esempio, più è facile che le loro prestazioni peggiorino nelle condizioni di minaccia dello stereotipo, proprio perché è probabile che per loro la minaccia sia particolarmente ansiogena. In sostanza, da questo filone di studi ci portiamo a casa dei risultati che si applicano a livello individuale, quello delle persone che falliscono perché sottoposte alla minaccia dello stereotipo. Dei risultati che si applicano a livello sociale, quello della legittimazione di disuguaglianze infondate. E dei risultati relativi alla storia della psicologia sociale, quelli relativi al rilevante ampliamento degli argomenti di studio, da chi ha pregiudizio a chi ne è bersaglio. Nelle prossime slide amplieremo ancora il tiro. Stereotipi e conformismo implicito Finendo il nostro discorso sulla minaccia dello stereotipo ci siamo dati il compito di allargare ulteriormente il tiro. Lo facciamo in queste slide, in cui vi racconto che cosa succede alla nostra immagine quando noi parliamo di un membro di un outgroup in termini stereotipici. Si tratta di un tema davvero interessante per la storia della psicologia sociale, che è stato studiato per la prima volta da un’équipe di ricercatori in cui tre su quattro erano italiani: équipe capitanata da Luigi Castelli dell’Università di Padova. Vi racconterò il primo esperimento condotto sul tema, e dopo averlo fatto, come al solito, coerentemente con il taglio storico di questo corso, discuterò con voi l’eredità che esso ha lasciato nel percorso di sviluppo della disciplina. I partecipanti vengono fatti sedere di fronte allo schermo di un computer, e si dice loro che parteciperanno a due compiti scollegati l’uno dall’altro. Il primo serve a capire come le persone sviluppano i loro giudizi sugli altri. Il secondo a come facciamo a fare passare la nostra attenzione da un compito a uno completamente diverso. Il primo compito consiste in questo: i partecipanti, basandosi sulla descrizione datane da Marco, dovranno farsi un’impressione di com’è Almad, un ragazzo nordafricano immigrato in Italia. Viene detto loro che Marco conosceva Almad, ma non si dice che cosa sapeva di lui. Sullo schermo compaiono le descrizioni che Marco dà di Almad: sono 20 aggettivi, che compaiono uno dopo l’altro in sequenza. Dieci di questi, comuni a tutti i partecipanti, sono neutri rispetto allo stereotipo che caratterizza gli immigrati nordafricani. Gli altri 10 variano in funzione del gruppo in cui sono inseriti i partecipanti. In questo consiste la manipolazione sperimentale. Un gruppo è esposto a 10 tratti coerenti con lo stereotipo dell’immigrato nordafricano, l’altro gruppo a 10 tratti che sono incoerenti con questo stereotipo. Il compito dei partecipanti è farsi un’idea di Almad, ovviamente basandola sulle informazioni date da Marco. Ricordate, questo pezzo di esperimento viene infatti presentato come uno studio volto a capire come la gente si forma le impressioni sugli altri. 96 Ai partecipanti veniva anche detto, che assieme a questo compito, ne avrebbero fatto un altro, volto a capire come siamo in grado di passare da un compito a un altro. Fra un aggettivo e l’altro, per 5 secondi compariva sullo schermo una serie di A. Nella parte alta dello schermo veniva presentata una stima di quante queste A fossero. La manipolazione sperimentale consisteva nel dire chi aveva dato quella stima. A metà dei partecipanti si diceva che la stima era stata data da Marco, all’altra metà che essa era stata data da un altro partecipante che aveva fatto l’esperimento prima di loro, scelto casualmente dagli sperimentatori. Il compito dei partecipanti era dire, secondo loro, quante A erano comparse. Dopo un paio di compiti distrattori, si chiedeva ai partecipanti di esprimere un parere: secondo loro quanto erano accurate le stime del numero di A che Marco o l’altro partecipante avevano dato? La variabile dipendente fondamentale era una domanda in cui si chiedeva al partecipante quanto, secondo lui o lei, era accurata la stima che compariva in alto sullo schermo. Vi presento il dato fondamentale della complessa costellazione di risultati: i partecipanti si affidavano alle stime di Marco molto di più quando Marco parlava di Almad in termini stereotipici, e molto meno quando Marco ne parlava in termini controstereotipici. Il modo con cui Marco parlava di Almad non impattava invece su quanto i partecipanti si affidavano alle stime date da una terza persona. Era insomma in gioco proprio un meccanismo di conformità nei confronti di chi esprimeva una visione stereotipica del componente dell’outgroup. Un approfondimento ha mostrato che un meccanismo analogo si attivava quando non si trattava di esprimere una stima del numero di A, ma se alcune affermazioni sulle quali era quasi impossibile essere preparati erano vere. Le affermazioni erano costruite apposta in modo che i partecipanti non sapessero la risposta. Ad esempio: “è vero che Tiepolo è morto a Madrid nel 1770?”. Ebbene, anche in questo caso i partecipanti si affidavano alle risposte di Marco soprattutto quando Marco aveva descritto Almad in termini stereotipici. E questo anche se dallo studio pilota era emerso che tendiamo a esprimere giudizi negativi nei confronti di chi parla degli outgroup in modalità pregiudiziale. A livello esplicito, appunto. Ma alla fine diamo loro più credito quando in gioco c’è un conformarsi implicito. Questo studio, concentrato sulle situazioni relazionali in cui possiamo esprimere visioni stereotipiche e pregiudiziali nei confronti di specifici outgroup svantaggiati, ci ha mostrato che chi dà informazioni coerenti con gli stereotipi è favorito, a livello interpersonale, rispetto a chi fornisce informazioni che con gli stereotipi coerenti non solo. Ci ha insomma aiutato a comprendere un effetto piuttosto curioso e interessante: quello per cui, negli ultimi decenni, è cresciuta, almeno in larghe fette della popolazione l’aperta stigmatizzazione di chi parla degli outgroup esprimendo pregiudizi. Questo da un lato. Ma dall’altro lato, i pregiudizi continuano a esistere e a guidare il nostro pensiero e le nostre azioni. Quello di Castelli e colleghi è uno studio interessante, lo abbiamo detto, perché è uno dei pochissimi a essersi concentrato non su chi detiene il pregiudizio, non su chi ne è vittima, ma su chi lo esprime in una relazione interpersonale. L’altro elemento di originalità è che non si concentra solo sulle relazioni fra i gruppi, come avviene di solito, ma su un loro collegamento con le relazioni intragruppo: tajfelianamente, infatti, il partecipante e Marco appartengono allo stesso gruppo, quello degli italiani, e hanno a che fare con un componente dell’outgroup, quello degli immigrati nordafricani. E lo studio di Castelli e colleghi mostra che una forma indiretta di discriminazione per l’outgroup consiste nel favorire implicitamente i membri dell’ingroup che discriminano l’outgroup. Insomma, gli studi classici avevano mostrato che i rapporti fra i gruppi sono il terreno di coltura di stereotipi e pregiudizi. Questo studio mostra che il loro terreno di coltura possono essere anche le dinamiche che si innescano dentro i gruppi. Un altro cambiamento significativo nella storia degli studi psicosociali sul pregiudizio. VI invito a notare che il processo di conformità a chi esprime pregiudizio è implicito, e cozza con il rifiuto esplicito che dichiariamo nei suoi confronti. Questo conflitto è probabilmente un mezzo con cui manteniamo intatta la nostra autostima: ci autoconvinciamo di non sopportare Marco 97
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