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Storia della radio e della televisione in Italia: Un secolo di costume, società e politica - Franco Monteleone, Appunti di Storia

riassunto del libro - Storia della radio e della televisione in Italia: Un secolo di costume, società e politica - Franco Monteleone

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 17/05/2021

AleZito95
AleZito95 🇮🇹

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Scarica Storia della radio e della televisione in Italia: Un secolo di costume, società e politica - Franco Monteleone e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! STORIA DELLA RADIO E DELLA TELEVISIONE IN ITALIA FRANCO MONTELEONE- STORIA DELLA RADIO E DELLA TELEVISIONE IN ITALIA 1- LA GRANDE STORIA DELL’ETERE: “Ho in mente un piano che potrebbe fare della radio uno strumento domestico, come il grammofono o il pianoforte. Sarà tenuta in salotto e si potrà ascoltare musica, conferenze, concerti”. Con queste parole, David Sarnoff aveva per primo immaginato, già nel 1916 che l’invenzione della radio sarebbe coincisa con l’affermarsi del mondo occidentale, agli inizi del 20esimo secolo, di un tipo di capitalismo sempre più fondato sulla produzione, di beni di uso quotidiano, di beni di consumo durevoli, di servizi. È stato detto che a nessuno, uomo o paese, si può assegnare la paternità esclusiva dell’invenzione della radio, che fu invece il risultato di uno straordinario concorso di forze intellettuali individuali e di organizzazione industriale in tutto il mondo. La radio come mezzo di comunicazione di musica, notizie, conversazioni, etc, era un’idea ancora estranea, culturalmente e tecnologicamente, alla mentalità dell’epoca. La nascente industria delle comunicazioni aveva altri obiettivi. Il suo scopo principale era la “telefonia” senza fili poiché era quello il settore d’impresa che più interessava i governi ei il mondo degli affari. Insieme al telefono, la radio fu una delle poche industrie a trarre enormi vantaggi dalla guerra. In tutti i paesi direttamente coinvolti nel conflitto la radio, ancora un telefono senza fili, si sviluppa come mezzo bellico e da lì inizia la sua trasformazione. Verso la fine del secondo decennio del secolo, con il passaggio dalla sfruttamento commerciale della radiotelegrafia alla creazione delle prime società di radiodiffusione, si delineano i due sistemi antitetici di organizzazione radiofonica nazionale, che da allora in poi saranno considerati i modelli classici del servizio radiofonico: il monopolio pubblico del broadcasting, in Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia; il sistema privato del network in America. Cominciamo dalla Gran Bretagna, e precisamente dalla stazione Marconi di Chelmsford in Cornovaglia che il 23 febbraio 1920 trasmise il primo regolare servizio radiofonico della storia, per due ore consecutive al giorno, per un periodo di due settimane. L’interesse suscitato fu enorme. L’anno successivo una Radio Society of Great Britain raccoglieva decine di club di radioamatori, e le richieste di licenza e autorizzazioni a trasmettere diventavano sempre più numerose. Il fenomeno, al quale erano interessati non solo i radioamatori, ma soprattutto il pubblico e le industrie, divenne rapidamente inarrestabile, e il Post Office cominciò a porsi seriamente il problema istituzionale di garantire lo sviluppo del mezzo, entro un sistema armonico di controllo statale sulle comunicazioni. In questo quadro, scartata l’ipotesi del finanziamento pubblicitario, vennero poste le premesse per la nascita del monopolio pubblico della British Broadcasting Company, ufficialmente costituita il 18 ottobre 1922 dall’unione di alcune fra le maggiori compagnie industriali britanniche. Il ricorso alla pubblicità come risorsa finanziaria fu, in un primo tempo, preso in seria considerazione ma poi definitivamente rifiutato per non compromettere la qualità dei programmi. Invece in America l’enorme estensione territoriale, la diffusione del benessere, la propensione all’investimento e all’avventura commerciale, il numero incredibile di operatori, erano tutti fattori di sfondo che moltiplicavano a dismisura il numero e la qualità dei protagonisti dell’impresa radiofonica. Nel 1919 il Congresso aveva cercato di far approvare ,senza successo, una legge che riservasse alla Confederazione il monopolio delle radiodiffusioni; questa legge era però in contrasto con il Radio Act del 1912, in base al quale il Ministero del commercio non poteva negare le licenze a nessuno che fosse cittadino americano. Negli Stati Uniti entrano così in scena le grandi corporations, prima fra tutte la American Thelephone and Thelegraph Company. La loro esistenza fa della radio americana un caso a parte, diverso da quello di ogni altro paese. Tra il 1912 e il 1916 furono rilasciate più di 8.500 licenze di trasmissione, molte delle quali erano state richieste da colleges, scuole, università. Diversamente dalla Gran Bretagna e da tutti gli altri paesi europei, dove la scarsità delle frequenze imponeva di porre comunque dei limiti per non causare dannose interferenze nell’etere, negli Stati Uniti l’enorme estensione territoriale consentiva uno sfruttamento più ampio delle bande. Il 16 ottobre 1920 la Westinghouse chiese e ottenne una licenza di trasmissione speciale per il servizio broadcast. La stazione, chiamata in codice KDKA, iniziò a trasmettere il 3 novembre 1920 e contemporaneamente, a collocare sul mercato i propri ricevitori. Poco più tardi, a New York, David Sarnoff aveva finalmente avuto il permesso e i finanziamenti necessari per realizzare un modello della sua Radio Music Box. Nacque così la WJY, che il 2 luglio 1921 trasmise in diretta l’incontro di pugilato Dempsey-Carpentier e si dice che più di 300 mila persone, attraverso altoparlanti collocati in luoghi pubblici, avessero ascoltato questa prima radiocronaca. In tutti gli Stati Uniti, verso la fine del 1922 i ricevitori funzionanti avevano raggiunto l’incredibile cifra di 750 mila. La “grande strada dell’etere” era stata per sempre tracciata. La prima legislazione italiana sulle comunicazioni senza fili risale al 1910. Il progetto assegnava, come già la legge sui telefoni del 1907, l’esercizio delle radiocomunicazioni alla sfera dei servizi pubblici e sottoponeva a regime restrittivo e controllato le concessioni a società private. Ne era derivata la legge del 30 giugno 1910 n. 395, ispirata a preoccupazioni militari e di sicurezza nazionale. Lo scoppio della prima guerra mondiale e la crisi di riconversione post-bellica troncarono a metà tutti ii progetti in corso e bloccarono l’attuazione di queste prime norme legislative che il parlamento aveva emanato in materia. Fu solo in coincidenza con l’avvento del fascismo, che la questione tornò di attualità. Ma la coincidenza della nascita del broadcasting con la fondazione del potere fascista fu puramente occasionale. Ovunque si andava affermando un modello radiofonico che, tutelando interessi privati, ne sanciva tuttavia il carattere di pubblica utilità riconducendolo sotto la protezione e la vigilanza dello Stato. Furono piuttosto le incognite di un mercato assai povero che, almeno nella fase dell’esordio, condizionarono il destino del broadcasting nel nostro paese legandolo saldamente al potere pubblico. Al momento dell’insediamento del nuovo governo la questione dell’organizzazione dei servizi radiotelegrafici era già stata attentamente esaminata negli ambienti finanziari e industriali italiani. La guerra aveva rallentato lo spirito d’impresa in un settore così nuovo, ma aveva pur contribuito a creare interessi, competenze, entusiasmi. Fin dal 1920 era stata creata l’Agenzia radiotelegrafica italiana, del gruppo Marconi; e nel 1921 una nuova impresa, la Società italiana per i servizi radiotelegrafici e radiofonici, era sorta per rilanciare le attività che, ancora una volta, facevano capo al nome di Guglielmo Marconi, che fu un Grande scienziato, ma soprattutto grande imprenditore, egli aveva immediatamente compreso il crescente valore commerciale della radiotelegrafia. Questo principe mercante della tecnologia contemporanea dimostrò uno straordinario talento nel saper trasformare in ricchezza e successo i risultati della sua invenzione. Già nel 1898 era nata a Londra la Marconi’s Wireless Telegraph Company, detentrice di tutti i brevetti dell’inventore bolognese e capofila delle successive Marconi Companies che di lì a poco avrebbero moltiplicato le sue fortune. In Gran Bretagna Marconi ebbe il privilegio di avviare una impresa commerciale privata e contemporaneamente godere dell’appoggio e della protezione dello Stato. Così in America, dove venne fondata un’altra società per lo sfruttamento dei brevetti, di grande interesse civile e militare soprattutto per la Marina degli Stati Uniti; anche se in breve, la American Marconi fu esclusa da ogni contratto per diverso tempo. Solo nel 1912 la società riuscì a conquistare negli Stati Uniti il monopolio delle comunicazioni marittime. Anche in Gran Bretagna il nome dell’inventore- imprenditore era arrivato ad imporsi stabilmente attraverso la British Marconi. In Italia, fin dal 1902, egli aveva concesso gratuitamente per vent’anni l’uso dei suoi brevetti alle amministrazioni dell’Esercito e della Marina. Ricevette il Nobel per la fisica e venne nominato senatore da Salandra. Dopo la marcia su Roma, Marconi non aveva esitato ad iscriversi al Partito fascista. Il dal gruppo Marconi e dalla SIRAC. Il capitale ammontava a 1.400.000 lire. Luigi Solari, il braccio destro di Marconi, nel momento in cui vedeva i suoi sforzi coronati in parte da successo si accorse che il suo ruolo veniva ridotto e dovette accontentarsi della vicepresidenza della società, riservando il posto di presidente a un uomo nuovo, Enrico Marchesi, improvvisamente rimbalzato sulla scena della radiofonia italiana, dal suo posto di direttore centrale della FIAT. Una soluzione di compromesso fra il gruppo Marconi e i rappresentanti del capitale americano (Western Eletric) aveva dato vita alla prima società di broadcasting italiana. Piuttosto che affrontarsi in una accanita concorrenza i due gruppi industriali avevano deciso di dividersi il mercato italiano. Con la mediazione di Ciano fu impedito alla società francese e tedesca di estendere il loro controllo dai servizi radiotelegrafici a quelli radiofonici propriamente detti. Ciano fu inoltre il ministro che condusse in porto l’operazione economica di privatizzazione dei telefoni, che come abbiamo visto, si inseriva nella politica di smantellamento delle gestioni pubbliche convertite a favore di gruppi privati solo nei casi in cui non fossero deficitarie; al contrario parte dei fascisti si erano enormemente estesi gli interventi in favore dei padroni del vapore, attraverso operazioni di salvataggio effettuate all’insegna di una discutibile politica di socializzazione delle perdite, tappe di questa politico furono, per esempio l’acquisto di una raffineria di olii minerali a Fiume, la combinazione con la FIAT. Il quadriennio 1922-1925 attuata con la marcia su roma, fu un periodo di rilancio in tutti i settori dell’economia. l’interesse della famiglia Agnelli verso i grandi mezzi d’informazione adoperati come merce di scambio tra potere economico e potere politico era tutt’altro che secondario. Nel 1926 Agnelli assumeva il diretto controllo politico e amministrativo del giornale la stampa. Al presidente della FIAT non sfuggì quindi il valore potenziale del nuovo mezzo radiofonico, anche se nessuno allora in Italia, e tanto meno Mussolini, era in grado di prevedere quale formidabile strumento di diffusione culturale di massa esso sarebbe diventato. La Fiat, quasi sicuramente per volontà del governo fascista, ebbe una partecipazione azionaria nell’unione radiofonica italiana. Probabilmente questa partecipazione non divenne di dominio pubblico. Solo dopo il 1930 il senatore Agnelli figurò apertamente nel consiglio di amministrazione dell’EIAR ma non si può quindi supporre che la proprietà dell’URI potesse interessare i dirigenti della casa torinese allo scopo di ricavarne un utile immediato. Se alla presidenza dell’URI era stata chiamata una persona di rilievo come Enrico Marchesi voleva dire che il governo non nutriva scarsa considerazione per la nuova società, nonostante l’esiguo numero degli abbonati, la limitata estensione della rete trasmittente, il livello ancora semiartigianale della nascente industria degli apparecchi riceventi. In quale regime giuridico si trovava ad agire la prima società radiofonica italiana? Il 1924 da questo punto di vista fu un anno importante. Con il regio decreto-legge 1 maggio 1924 n. 655 venivano definiti i contenuti delle radiodiffusioni: concerti, teatro, conversazioni, notizie. Veniva inoltre regolato il sistema dei finanziamenti ai futuri concessionari mediante la pubblicità commerciale e i canoni di abbonamento; una prassi che resterà immutata in tutta la storia della radiodiffusione italiana, l’unica nel mondo ad adottare entrambe le forme di entrate, considerate incompatibili fra loro in altri paesi. Con un secondo regio decreto 10 luglio 1924 n. 1266 veniva approvato il regolamento di attuazione del regio decreto 8 febbraio 1923 n. 1067 con il quale erano disciplinati non solo le modalità di esercizio degli impianti da parte dei concessionari ma anche i controlli del governo. In particolar modo l’art. 25 fissava le norme sulla diffusione di notizie a mezzo radio che la società concessionaria non aveva il diritto di trasmette senza un visto preventivo dell’autorità politica locale, a meno che le notizie stesse non fossero fornite dall’agenzia designata dalla presidenza del consiglio, ovvero la Stefani, controllata dal governo e portavoce ufficiale del regime. Anche quando l’assetto giuridico e organizzativo della radiofonia fu definitivamente stabilito, le informazioni trasmesse dai microfoni dell’URI furono sempre ricavate dal bollettino della Stefani: solo nel 1926 la concessionaria venne autorizzata a trasmettere, oltre al bollettino, anche le più importanti notizie pubblicate dai giornali della sera, a meno che non fossero stati colpiti da provvedimento di questo. La convenzione stipulata il 27 novembre 1924 fra l’Unione radiofonica italiana e il Ministero delle comunicazioni (approvata con regio decreto 14 dicembre n. 2191) istituiva definitivamente la figura giuridica della società concessionaria: rappresenta quindi l’atto di nascita del primo regime radiofonico in Italia. Lo stato concedeva all’URI l’esclusiva del servizio di radioaudizioni circolari su tutto il territorio nazionale per la durata di sei anni. L’URI si impegnava a fornire un certo numero di trasmissioni al giorno e ad ampliare la propria rete di stazioni trasmittenti. Nella convenzione veniva inoltre determinate le tasse di bollo, di licenza, i canoni di abbonamento. Il governo infine si riservava due ore al giorno per le proprie comunicazioni urgenti anche nel corso delle normali trasmissioni. Il governo si impegnava a non accordare a terzi altre concessioni per servizi radiofonici in italia almeno per tutta la durata della convenzione. Con il decreto del dicembre 1924 si può finalmente parlare di regime di monopolio. Solo adesso, infatti, esistono le condizioni che consentono a una sola società l’esercizio delle radioaudizioni circolari. È vero che il 55% del capitale è in mani private, ma con il passare degli anni lo Stato entrerà sempre più nella partecipazione azionaria fino a ottenerne la maggioranza. 2. LA SCATOLA SONORA Un oggetto misterioso Nessuna analisi del percorso storico della radio sarebbe ormai completa, se di pari passo, non fosse accompagnata anche dal tentativo di afferrare il vero oggetto misterioso della storia della radiofonia, il pubblico con le sue abitudini, i suoi mutamenti, i suoi gradimenti e i suoi malumori; oggetto indecifrabile e, insieme, determinante punto di riferimento. Fare la storia di un mezzo di comunicazione, senza individuare al tempo stesso coloro ai quali esso è destinato, è una lacuna grave. La storia della radio e della televisione non può che essere storia di un unico intreccio, variegato e complesso, costituito da elementi che si influenzano a vicenda e che mutano con il mutare delle condizioni esterni. Gli indici di sviluppo degli abbonamenti al servizio di radiodiffusione, le rubriche della stampa quotidiana, i documenti aziendali, le carte d’archivio, i dati sulle vendite degli apparecchi riceventi, le riviste specializzate, l’andamento dell’interesse amatoriale: sono queste le tracce, i segni, le fonti che ci servono, e non è possibile tra esse stabilire alcuna gerarchia. A questo vanno ad aggiungersi quelle poche testimonianze orali raccolte soprattutto in occasione di alcune trasmissioni radiofoniche e infine con lo sviluppo a regime della radio dopo la creazione dell’EIAR , i numerosi sondaggi di opinione e le campagne promozionali per la diffusione del mezzo lanciate dall’ente concessionario. Il ricorso a tutte queste fonti fa parte di un corretto metodo di indagine per una storia della radio completa. È probabile che la funzione domestica della radio sia quella maggiormente può restituirci il senso profondo dell’esperienza vissuta. Il 6 ottobre 1924 si inaugura il servizio regolare, ma la radio, per ora, è solo una sorprendente scatola sonora che interessa più per le sue caratteristiche tecnologiche che per i contenuti dei programmi, peraltro assai semplici ed eterogenei: musica classica, bollettini, qualche rara conversazione. La radiofebbre, morbo sottile e strano che arriva all’organismo in forma di vibrazioni sulle ali dell’etere. Da un esame delle prime riviste del radiodilettantismo italiano emerge lo scarso interesse per i programmi e una ben più marcata attenzione per la tecnica, ma soprattutto ne deriva l’immagine di un pubblico di amatori. L’ascolto radiofonico non è certo ancora quel fenomeno collettivo promosso su basi di massa dal regime fascista. L’ascolto è soprattutto una attività connessa alla conosceva tecnica dello strumento, l’apparecchio ricevente intorno al quale si formano rapidamente, sul modello inglese numerosi club e associazioni. La maggioranza di essi è composta da giovani elettrotecnici, studenti, giovani ingegneri. Un pubblico giovane, quindi, come giovane è il mezzo. Due anni dopo l’inizio dell’attività di radioaudizione circolare gli abbonati tuttavia, sono appena 26 mila. Un numero più che raddoppiato rispetto all’anno precedente, ma inferiore alla media dei maggiori paesi d’Europa. Tra il 1924 e il 1927 nacquero le leghe nazionali: Rai (Radio associazione italiana), la Fir (Federazione italiana radiocultori), il Radio Club nazionale italiano, l’Associazione nazionale radio dilettanti; queste ultime due confluirono nell’Ari, l’Associazione radiotecnica italiana. Questi gruppi erano portatori di interessi spesso contrastanti. La Fir sosteneva il principio della libera associazione dei dilettanti in funzione antimonopolistica; l’Ari era invece l’espressione di interessi legati all’industria degli apparecchi riceventi. Quest’ultima godeva dell’appoggio del mondo politico e finanziario e tendeva a promuovere la formazione di un pubblico indifferenziato, che era effettivamente in crescita, laddove in breve tempo il fenomeno amatoriale e dilettantistico sarebbe pressoché scomparso. L’Unione radiofonica italiana era interessata a creare le condizioni per un veloce sviluppo degli abbonamenti e quindi guardava con attenzione l’evolversi del mercato degli apparecchi riceventi. La creazione di un pubblico realmente di massa esigeva che si passasse da una produzione basata su industriali dilettanti o dilettanti industriali, a un sistema industriale che garantisse prodotti di qualità. I costi ancora molto elevati e l’impossibilità di iniziare una produzione in serie frenavano il decollo di questa nascente industria. Le vendite non andavano oltre i centri urbani ed erano limitate ai ceti più abbienti. La provincia italiana degli anni venti, soprattutto nelle zone meridionali non era certo in condizione di favori l’espansione del nuovo mezzo, chiusa nell’isolamento e nel pregiudizio. L0esistenza di ampie zone sottosviluppate, il permanere delle differenze fra Nord e Sud, l’analfabetismo, il livello di vita e il costume arretrato delle masse rurali, insomma gli squilibri endemici della società italiana rappresentavano un ostacolo serio allo sviluppo dei moderni metodi di comunicazione. I primi anni della gestione dell’URI servirono soprattutto a creare un mercato che consentisse di unificare un pubblico ancora troppo eterogeneo. Nel 1925 in tutta italia erano stati venduti soltanto 1.314 grammofoni. Il nuovo mezzo era scarsamente accessibile a un pubblico il cui reddito medio annuo era di 3.487 lire e un apparecchio costava 3.000 lire. L’amatore attratto dagli aspetti tecnici dell’apparecchio deve quindi lasciare sempre più il campo all’ascoltatore, cioè al vero rappresentante di un pubblico di massa in informazione. Occorre, che in breve tempo, all’interesse amatoriale per la tecnologia si sostituisca l’affezione domestica per i programmi. Nascondo anche le prime campagne di diffusione della radiofonia, i primi radioconcorsi. Qualcosa si stava muovendo in direzione di un profondo cambiamento. Il reagente di questo cambiamento fu la pubblicità, che dopo il 1926, rappresenta un elemento essenziale delle trasmissioni e una risorsa finanziaria indispensabile per la concessionaria. La Sipra (Società italiana pubblicità radiofonica anonima), costituita a Milano il 9 aprile del 1926, è la prima di una serie di consociate e nasce per gestire un fatturato pubblicitario piuttosto limitato anche se in costante aumento. Per motivi di marketing nasce anche Radiorario settimanale ufficiale dell’Uri che esce in edicola dal 18 gennaio del 1925 e grazie al quale si cerca di conoscere gusti, orientamenti e giudizi del pubblico. Più li si coinvolge, più si favorisce la crescita degli abbonamenti, principale risorsa finanziaria, insieme alla pubblicità, dell’azienda concessionaria. La stampa aziendale risulta così un terreno privilegiato di comunicazione: riservando largo spazio alle lettere degli ascoltatori, persegue anche l’obiettivo di promuovere nuovi abbonamenti e reclutare nuovi ascoltatori. IL GIORNALE PARLANTE L’interesse del fascismo per le radioaudizioni, dopo la svolta del 1925 cominciò ad avere un rilievo politico più pronunciato. Il sistema radiofonico contribuirà sensibilmente all’estendersi della cultura generale del popolo. Da scatola sonora, la radio veniva trasformandosi sempre più in veicolo di addottrinamento, se non proprio di cultura o non ancora di propaganda. Dal punto di vista dei programmi nei primi due anni non vi furono apprezzabili novità. Un nuove decreto aveva aumentato il canone di abbonamento, che da allora sarà però possibile rateizzare mensilmente. L’opinione pubblica era interessata ma guardinga. Le critiche riguardavano la qualità dei programmi, la mancanza di collegamenti con i teatri i disturbi causati dalle itnerferenze delle quello assai più avanzato degli altri paesi. Le iniziative e gli interventi che potevano favorire un altrettanto celere sviluppo del settore incontravano però un limite nelle condizioni generali della società e dell’economia: basso tenore di vita, costo eccessivo dei canoni di abbonamento, mancanza di alcune zone di impianti per l’energia elettrica. Nel 1927 il numero degli abbonati non superava le 40 mila unità, mentre in Inghilterra nello stesso anno se ne contavano più di 2.250.000. l’ampliamento della rete e dei servizi richiedeva grandi disponibilità di capitali che i proventi dei canoni di abbonamento non bastavano ad assicurare. Gli investimenti richiesti all’industria privata, per quanto a medio e lungo termine, tardavano a dare i loro frutti. All’inizio del 1927 l’Uri non era in grado di continuare l’esercizio dell’attività sociale senza l’intervento di massicci finanziamenti. Dal gennaio del 1927 al gennaio del 1928, si definiscono le caratteristiche del nuovo sistema: potenziamento delle stazioni trasmittenti, creazione di un nuovo ente concessionario e istituzione di un Comitato superiore di vigilanza sulle radiodiffusioni (= creatura di Ciano; al suo interno hanno ruoli di assoluta rilevanza Benni, Cartoni e Polverelli). La convenzione regola in dettaglio i rapporti tra il nuovo ente e l’amministrazione, prevedendo un diritto di riscatto degli impianti, un diritto di esazione sui proventi del canoni di abbonamento e su quelli delle pubblicità. Vengono anche indicate precise norme sui generi e sulla durata dei programmi. Il 15 gennaio 1928 la società concessionaria assume ufficialmente la denominazione di Ente italiano per le audizioni radiofoniche (Eiar). La radio italiana esce così dal periodo delle origini e comincia a imporsi all’opinione pubblica come mezzo di comunicazioni di massa. Giuridicamente la proprietà dell’EIAR si configura come una società anonima attraverso la quale, nel nome del servizio pubblico. Lo stato gestisce interessi del tutto privati. L’URI aveva cambiato denominazione ma il nucleo centrale degli azionisti di maggioranza, il gruppo Marconi, la SIRAC, la fiat, i gruppi finanziari facenti parte della SIPRA, era rimasto intatto. A questi si andavano ad aggiungere gruppi di azionisti minori, rappresentanti della SIAE, delle ditte costruttrici. Nel 1928 l’anno del potenziamento e del rilancio dell’intera rete radiofonica italiana, la mappa della proprietà dell’EIAR aveva subito alcune interessanti trasformazioni. Benchè la preoccupazione del governo fosse quella di estendere la rete radiofonica su tutto il territorio nazionale, negli anni intorno al 1930 lo sviluppo delle emittenti si verificò soprattutto nel Nord della penisola. Tra il 1929 e il 1934 le vicende della proprietà dell’ente radiofonico si incrociano con quelle della Sip (Società idroelettrica Piemonte), con il risanamento di questa attraverso l’IRI e con il controllo che il gruppo piemontese ebbe sul capitale azionario dell’EIAR. Nel rimpasto del consiglio di amministrazione dopo il 1930 si registrano infatti alcuni cambimenti. Oltre alla Sip facevano apertamente il loro ingresso nella radiofonia italiana anche la Fiat, con Giovanni Agnelli e l’editore Arnoldo Mondadori. Nell’estate del 1931, venne approvato e reso esecutivo un atto aggiuntivo alla convenzione con il quale il governo continuava ad accordare all’EIAR la concessione in esclusiva del servizio di radioaudizione circolare per L’italia e le Colonie e inoltre la concessione, ma senza esclusività, dei servizi di radiofotografia e di radiovisione circolare semprechè fatti a scopo di trasmissioni circolari destinate a tutto il pubblico. L’atto aggiuntino faceva obbligo all’EIAR di estendere la rete nazionale e aumentare la potenza di alcuni impianti, dettava nuove forme in materia di riscatto delle installazioni da parte dello stato, ma soprattutto introduceva all’.art. 2 una disposizione che salvaguardava gli interessi dell’industria radioelettrica nel settore della televisione. Questa norma raccomandava all’EIAR di studiare le premesse per l’introduzione della televisione in italia in accordo con le effettive possibilità di sfruttamento del mercato da parte dell’industria radioelettrica. Tuttavia il problrma della trasmissione delle immagini restò, durante il periodo fascista, allo stadi odi sperimentazione e non coinvolse grandi interessi economici. Dopo la svolta degli anni trenta, la struttura e l’0organizzazione radiofonica italiana erano ormai definite sia giuridicamente che finanziariamente. Nasce in questo periodo il modello della radio italiana: regime di monopolio, combinazione singolare di struttura privatistica e di controllo governativo. Con decreto legge 29 luglio 1933 veniva approvato lo statuto speciale dell’Ente italiano audizioni radiofoniche (Eiar) in cui si definivano la ragione sociale dell’ente, gli obiettivi, la struttura, le attribuzioni del consiglio di amministrazione. In particolare era fissata la composizione degli organi dirigenti: un presidente, due vicepresidenti, un segretario, un amministratore delegato e un comitato direttivo. Una speciale norma garantiva l’italianità della società, le cui azioni dovevano essere nominative e intestate a cittadini o enti o società riconosciuti italiani. Era fatto divieto alla società sia di costruire direttamente apparecchi riceventi sia di assumere partecipazioni di queste o azioni in ditte costruttrici. “patrimonio immobiliare” dell’EIAR negli anni a venire sarebbe diventato sempre più consistente e condurrà nel 1941 alla costituzione della Società immobiliare radiofonica italiana, che insieme alla SIPRA e alle CETRA ( compagnia per edizioni, teatro, registrazioni) formeranno il gruppo radiofonico delle consociate SIP. IL gruppo pubblico SIP-EIAR, che nella prima metà degli anni trenta promosse il grande sviluppo della radio e successivamente fornì al regime, negli anni della costruzione dello stato totalitario, l’apparato della propaganda, fu guidato passo storicamente e giuridicamente importante perché in esso si stabiliscono formalmente i limiti dell’esercizio della radiofonia. Il patrimonio immobiliare dell’Eiar invece, diverrà così consistente da condurre nel 1941 alla costituzione della Società immobiliare radiofonica italiana, che, insieme alla Sipra e alla Cetra (Compagnia per edizioni, teatro, registrazioni e affini), formeranno il gruppo radiofonico delle consociate Sip. Giancarlo Vallauri nel 1934 la decisione del governo di ribassare le tariffe elettriche aveva causato non poche difficoltà al precario equilibrio finanziario del gruppo e nel 1935 scongiurato il periodo del dissesto totale, l0offensiva della fiat aveva messo seriamente alla prova l’abilità politica di Vallauri che nondimeno era riuscito a convincere il governo a non cedere l’intero pacchetto azionario della SIP al gruppo Agnelli. L’EIAR aveva moltiplicato le sue trasmittenti e aumentato le ore di programmazione. Il governo fascista attribuiva ormai alla radio un ruolo di primo piano. LA MACCHINA DELL’ATTENZIONE Per i dirigenti dell’EIAR e per i responsabili della politica radiofonica del governo, il carattere di massa del nuovo mezzo di comunicazione è ormai ben chiaro ma il processo di formazione di un pubblico numericamente adeguato è bel lontano dall’essere concluso. Se il potenziamento delle stazioni trasmittenti venne affrontato con indubbio dinamismo e con sagace spirito d’impresa, il problema della costruzione di apparecchi riceventi, che fossero alla portata di tutti, non venne mai realmente risolto dai settori interessati alla produzione e al commercio. Si preferiva vendere meno pur di vendere a prezzi più sostenuti. Nel settore degli apparecchi radio, a una sempre maggiore perfezione tecnica di progettazione faceva riscontro l’utilizzazione di materiale scadente che si rifletteva soprattutto sul consumatore o costretto ad acquistare prodotti a prezzi più elevati oppure di cattiva qualità. L’EIAR era fortemente interessato alla possibilità che l’industria privata riuscisse a realizzare un apparecchio radio il cui costo di mercato non superasse le 1.000 lire. Tra il 1930 e il 1934 il costo di un ricevitore economico era ancora troppo. La radio (macchina dell’attenzione) continuava a essere un genere di lusso, al pari dell’automobile. Per molto tempo ancora la galena fatta in casa rimarrà l’unico strumento di ascolto per i ceti popolari. Solo nel 1934 il presidente dell’Eiar Vallauri, avanzò una precisa richiesta al Gruppo costruttori apparecchi radio al fine di studiare concretamente la possibilità di mettere sul mercato un radioricevitore di tipo popolare. Nel maggio del 1937 fu messo finalmente in vendita, al prezzo di 430 lire (pagabili in 18 rate), il Radiobalilla, dal bel nome augurale, espressivo e descrittivo, scelto dallo stesso Mussolini. L’EIAR dimostrò di saper fare abbastanza bene la propria parte, non solo con il potenziamento delle stazioni, con il miglioramento dei programmi e con la loro distribuzione ma anche con la scelta di forme pubblicitarie diverse in grado di colpire strati sempre più larghi della popolazione. Il direttore generale dell’EIAR, Chiodelli riconosceva nel 1939 che le masse avevano nozioni vaghe intorno alla radio e che le trasmissioni venivano ascoltate più per colmare i vuoti del tempo libero che per una scelta ragionata. In questi anni di lenta affermazione della radio, l’EIAR ebbe in gran parte della stampa un potente alleato. Tutte le manifestazioni promosse dalla direzione propaganda e sviluppo erano dirette verso un pubblico borghese, urbano, di reddito elevato e tendevano a un ascolto di tipo domestico, mentre verso le masse rurali e i ceti popolari l’intervento promozionale assumeva sempre le caratteristiche della mobilitazione collettiva di massa. Nel primo caso si trattava generalmente di iniziative che tendevano ad integrare la radio nel costume e nella vita quotidiana di un ceto medio borghese in cerca di evasione. L’uso della radio sull’automobile già diffuso all’estero, accoppiava i due simboli novecentisti per antonomasia. Dal 1930 l’EIAR dette vita a diverse campagne di radio autoportate, cui si accompagnavano iniziative per gli automobilisti, gli autoradioraduni, che divennero un appuntamento fisso per gli appassionati. L’industria italiana non era attrezzata per produrre questo genere di ricevitori, tutti di importazione e tuttavia la radio in macchina rimase a lungo uno dei sogni degli automobilisti italiani. La conoscenza dell’ascoltato e dei suoi gusti rimase a lungo un problema insoluto, e dal rilevamento veniva confermato solo il carattere borghese e conservatorio del pubblico radiofonico. Alla direzione dell’EIAR interessava soprattutto poter modificare la programmazione in risposta alle indicazioni degli ascoltatori; al regime interessava che si procedesse alla formazione di luoghi di ascolto controllabili. Da un alto quindi il focolare domestico sede dell’istituzione familiare dall’altro lo spazio collettivo per un uso sociale della radio. LA RADIO IN OGNI VILLAGGIO Nella prima metà degli anni trenta si va quindi realizzando il passaggio da un periodo caratterizzato dall’obiettivo di vendere il prodotto, richiamando l’attenzione sugli aspetti spettacolari del mezzo, ad un periodo dominato dalla necessità di utilizzare la radio come vero e proprio strumento di propaganda politco-sociale. In realtà l’EIAR era, e rimase sempre, interessato soprattutto alla prima alternativa. Si trattava pur sempre di una grande società di broad-casting, inserita in un contesto europeo e mondiale, il cui scopo primario era quello di diffondere i programmi, ampliare il portafoglio abbonati, aumentare i profitti, rendere un servizio al pubblico dei radioascoltatori. Lo stato fascista aveva finalità in parte analoghe, ma in parte diverse. È vero che la volontà dell’EIAR di promuovere la diffusione del mezzo in aree sempre più vaste coincideva con le strategie politiche del regime, tuttavia le procedure, i modi, le scelte spesso divaricavano. Un conto era far buoni programmi; un conto organizzare l’ascolto di massa. Già nel 1929 si era creduto di individuare la maggioranza degli ascoltatori negli abitatori delle campagne, ma il vero problema restava quello di raggiungere questo vasto bacino di utenza nelle condizioni sociali ed economiche del momento. Dopo il 1930 Ciano avanzò l’ipotesi che si dovesse migliorare il servizio radiofonico per gli agricoltori. L’intervento in questo settore era ancora troppo limitato anche per la mancanza di apparecchi riceventi. Occorrevva incrementarne la produzione, a basso costa, e la diffusione. Questo progetto era solo uno dei molteplici interventi dettati dalla politica di ruralizzazione lanciata da Mussolini. L’attuazione della politica rurale venne assunta come uno dei principali obiettivo del nuovo ciclo di governo apertosi all’indomani del plebiscito del 1929. L’integrazione della radio in questo disegno aveva un fine educativo. L’uso didattico dello strumento radiofonico era concepito in funzione di gruppi sociali che maggiormente soffrivano della deprivazione culturale e sui quali si supponeva potesse avere maggiore efficacia un messaggio di massa. L’idea di usare la radio a scopi didattici, rivolgendosi soprattutto a un pubblico difficilmente raggiungibile da altri mezzi tradizionali di comunicazione culturale e in zone dove la stessa scuola lamentava una carenza di strutture di base, si ispirava a una caratterizzazione della radio come servizio pubblico, contraddistinto tuttavia da un’ideologia totalitaria. Un intervento così articolato richiedeva un efficiente apparato distributivo degli apparecchi radio e una struttura organizzativa e tecnica in grado di assumersi le responsabilità politiche e giuridiche di una gestione complessa. La possibilità che venisse creato un organismo appositamente concepito per l’opera di educazione radiofonica nelle zone rurali fu avanzata in una lettera al radiocorriere da Ciano. L’organizzazione possedeva in misura contenuta. Le nuove direttive riguardavano tutti i settori della cultura di massa: giornali, cinema, radio, spettacolo, sport. Questo sostanziale cambiamento nell’apparato di controllo ebbe varie cause, ma principalmente fu dovuto a due avvenimenti esterni di grande rilievo politico: l’ascesa del nazismo in Germania, che rivelò al regime un modello esemplare di manipolazione delle coscienze e la guerra di Etiopia, che mobilitò a fondo tutto il sistema della propaganda in Italia. Dal 1931 era stato costituito un servizio per la propaganda che aveva quasi interamente assorbito le funzioni dell’analogo ufficio facente capo al PNF. Mussolini intedeva rimettere alle competenze dello Stato ogni iniziativa del genere, ma la carenza di funzionari specializzati nelle tecniche della propaganda in uno Stato moderno rendeva questo aspetto della politica mussoliniana ancora troppo rozzo e superficiale. Dopo più di 10 anni di potere il fascismo richiedeva una modernizzazione delle sue istituzioni culturali. Mussolini si era convinto che per fascistizzare veramente l’Italia e metterla all’unisono con la propria politica era necessario passare a una vera e propria azione sistematica di propaganda di massa. La nomina di Galeazzo Ciano a capo dell’ufficio stampa nell’agosto del 1933 fu il segno che Mussolini intendeva dare maggiore impulso a questo organismo e allargarne autorevolmente le attribuzioni e le competenze per renderlo più rispondente alla nuova politica del regime. Al momento dell’insediamento della nuova carica, Ciano fece ripetuti tentativi rimasti senza successo. Per far sì che l’ufficio stampa assumesse il diretto controllo delle radiodiffusioni. Già nel 1934 Ciano realizzò un piccolo capolavoro di informazione controllata, mobilitando stampa, radio e cinema in occasione del primo incontro fra Mussolini e Hitler che si svolse a Venezia nel mese di giugno. Verso la fine dell’estate, considerata la necessità di non rimandare ulteriormente la riorganizzazione dell’intero settore, con regio decreto 6 settembre 1934 n. 1434 l’ufficio stampa venne abolito e al suo posto fu istituito il sottosegretariato per la stampa e propaganda alle dirette dipendenze del Duce. Non si può dire che vi fosse una precisa e radicale presa di coscienza dell’importanza del settore. L’obiettivo immediato di raggiungere un controllo accentrato sui diversi settori dell’informazione e della cultura prevalse cioè con tutte le manchevolezza che ne conseguirono, rispetto all’idea di unificare sotto una sola testa pensante, con un progetto articolato e culturalmente moderno, tutti gli strumenti di intervento politico. Tuttavia nel settore radiofonico si ebbe una importante novità: la soppressione del Comitato di vigilanza, che non rispondeva più allo scopo per il quale era stato istituito. Con regio decreto legge 3 dicembre 1934 n. 1989 veniva creata una Commissione composta di soli quattro membri per fissare le direttive artistiche dell’Eiar e la vigilanza sulla parte programmatica delle radiodiffusioni. Nel giugno 1935 con regio decreto 24 giugno 1935 n. 1009, il sottosegretariato fu elevato a Ministero per la stampa e la propaganda, un organismo sostanzialmente identico al precedente dal punto di vista amministrativo ma che aveva ampliato la propria sfera di competenza. Anche il controllo sui programmi dell’EIAR passava di nuova dicastero. Al Ministero delle comunicazioni rimanevano solo competenze di ordine tecnico. Alla fine del 1935 gli abbonati alle radioaudizioni erano oltre 500 mila, con un incremento di circa 97 mila nuove utenze rispetto all’anno precedente. Complessivamente gli utenti dell’Eiar costituivano l1,28% della popolazione italiana e quasi 6 famiglie su 100 avevano sottoscritto l’abbonamento. Inoltre l’ascolto pubblico era in notevole aumento. L’ascolto di massa era piuttosto conseguenza di un uso socializzante della radio fatto nei ritrovi: un ascolto rubato. In ogni caso la radio doveva adempiere a una funzione istituzionale: doveva essere un elemento importante dell’unione nazionale, diffondendo esperienze e comportamenti ispirati dal regime e indicati come modelli a tutti gli italiani. Solo la radio poteva rendere simultanea e quindi fortemente avvalorata nella sua dimensione unificante, la parola autoritaria del fascismo, e non a caso, infatti il genere radiofonico che sembrò rispondere meglio a questo scopo fu rappresentato dalle radiocronache e dal giornalismo parlato. LA RADIO IN DIRETTA A questo punto della sua storia il mezzo comincia a funzionare come agente moltiplicatore. Il banco di prova della radio in diretta furono le grandi manifestazioni sportive di massa. La Boxe con l’incontro Bosisio Jacovacci inaugurò il primo collegamento in diretta trasmesso da Milano nel 1928. Carosio venne definito come il miglior radiocronista sportivo. L’informazione è ormai il nuovo genere radiofonico che sta per decollare. Nel 1933, il Centro radiofonico sperimentale, sotto il doppio controllo del Ministero dell’educazione e del CNR, fu istituito proprio allo scopo di preparare radiotecnici specializzati e soddisfare così la crescente domanda di personale. La scuola fu progettata da Fulvio Palmieri. Per l’annuale della fondazione dei Fasci nel 1933 speciali disposizioni vennero addirittura impartite onde assicurare l’ascolto nelle migliori condizioni e da parte del maggior numero di persone possibile. I rappresentanti provinciali dell’EIAR dovettero mettersi a disposizione dei segretari federali e dei segretari dei fasci. I costruttori di apparecchi radio, i commercianti ebbero ordine di procurare quanti più apparecchi possibile. Si trattò forse della prima vera audizione di massa della radio italiana. Il genere della radiocronaca era un mezzo di informazione ideale per celebrare con la radio eventi di regime o che avessero comunque una forte impronta nazionale. Dietro la capacità di suscitare la partecipazione corale degli ascoltatori vi è un mestiere ormai maturo un uso sapiente del timbro, del tono, del volume della voce. La preparazione della grande adunata del 2 ottobre 1935 quando il Duce annunciò l’attacco all’Etiopia, dimostra inoltre che l’uso politico della radio, a metà del decennio, è ormai consolidato. Il regime era presente in quei messaggi con la forza del potere. Nelle trasmissioni informative lo strumento che riuscì meglio a coniugare il dirigismo politico con le qualità specifiche del mezzo fu il giornale radio. Le prime trasmissioni iniziarono nell’ottobre del 1929 a Milano. Esso nacque in seguito alla trasformazione subita dai semplici notiziari che non rispondevano più alle nuove esigenze di una informazione ampia e generale sugli avvenimenti della vita nazionale e internazionale. Un avvertimento a sviluppare i contenuti dei notiziari era venuto dal Ministero degli esteri, che aveva segnalato alla Presidenza del consiglio il divario esistente tra l’informazione radiofonica italiana e quella di altri paesi. Nel giugno del 1930, con l’unificazione delle stazioni del Nord, da un lato e di quelle del Sud dall’altro, assunta la denominazione ufficiale di giornale radio, vennero diffuse tre edizioni quotidiane dalle stazioni settentrionali e tre edizioni da quelle meridionali ad orari sfalsati. Solo nel 1935, unificata la redazione a Roma sotto la guida di Antonio Piccone Stella, nacquero le nuove edizioni delle ore 13.00 e delle 13.50. Da l’appuntamento del giornale radio comincia a scandire il tempo quotidiano di tutti gli italiani. In un certo senso questo tipo di giornalismo, destinato a collaborare con quello stampato, ha effettivamente una concreta funzione di pedagogia nazionale e risponde a quelle indicazioni di politica generale per le quali era nato il nuovo ministero. La politica mussoliniana intende operare all’estero per accreditare l’immagine di un’Italia forte, rigenerata, all’avanguardia del progresso, e all’interno per educare il popolo al nuovo modello di pensiero e di comportamento. La politica non è solo diffusamente pervasiva in molti programmi dell’EIAR, essa è anche fatta direttamente al microfono, tanto sul fronte interno dell’opinione pubblica, quanto su quello internazionale. Si comprendere allora, come dal 1934 in poi l’informazione radiofonica non potesse più limitarsi alla rassegna delle notizie selezionate ma occorreva che fosse articolata in rubriche con caratteri complementari, in grado di suscitare l’interesse degli ascoltatori nei confronti della realtà del paese e dell’impegno fascista. La crisi economica non era scomparsa, la disoccupazione, cominciava a preoccupare. Fin dall’ottobre 1933 Ciano aveva cominciato a elaborare un piano rivolto a migliorare la propaganda del regime e per quanto riguarda la radio aveva proposto a Mussolini l’idea di realizzare una serie di trasmissioni, intonate ai più importanti aspetti del paese, che godessero di una investitura ufficiale. Il notiziario del giornale radio, secondo Ciano, non rispondeva che in parte agli scopi della propaganda. Occorreva che ogni sera, in un’ora di grande ascolto domestico, un commentatore di sicura fede e di provata capacità professionale, sufficientemente autorevole, con l’apparenza di spiegare e illuminare il corso degli avvenimenti, di discutere pacatamente i fatti del giorno, orientasse l’opinione pubblica, la preparasse, la incitasse o la frenasse secondo le direttive del Duce. Nacquero così le Cronache del Regime, una delle realizzazioni più efficaci dell’informazione radiofonica durante il fascismo. Gli argomenti che Forges, il giornalista, trattò nelle Cronache andavano dalle descrizioni delle riforme del regime ai commenti sulle relazioni internazionali. sugli avvenimenti politici in Francia, Inghilterra, fatti di cronaca. Presentando un panorama negativo degli avvenimenti al di fuori d’Italia Forges metteva in luce per contrasto un’Italia laboriosa e pacifica, senza disordini e senza sciagure. Ma è soprattutto sul tradimento di paesi una volta amici e alleati, come Francia e Inghilterra, contro uno dei membri più autorevoli della Società delle nazioni, l’Italia fascista, che Forges insiste, richiamando anche il merito conquistato a Vittorio Veneto, il mito della vittoria mutilata, le mancate concessioni territoriali in Africa e in Asia. La guerra di Etiopia divenne il vero tema dominante delle sue conversazioni. Screditare agli occhi dei radioascoltatori italiani l’organismo internazionale significava accreditare il diritto dell’Italia fascista a regolare da sola i propri conti nella politica europea. Il vero nemico delle armi italiane era il complesso di imperi coloniali egemoni nella Società delle nazioni, che rifiutavano di riconoscere il ruolo di grande potenza che l’Italia si stava conquistando. Le Cronache furono uno strumento usato con abilità e con rigore professionale. Negli anni trenta gli ascoltatori italiani, che non erano in grado di conoscere altro all’infuori di quello che i media mostravano loro, furono realmente sedotti dalle esortazioni di quella voce, sempre la stessa, che ogni sera parlava alla radio. Forges la usò come un grande giornale parlato, comunicando al suo pubblico lo schietto orgoglio di sentirsi una nazione. Alla sua morte improvvisa nel 1936 si mise un segno di lutto all’apparecchio telefonico, questo fa capire quanto incisiva e persistente fosse stata la sua presenza nell’etere. La fibrillazione che coinvolge tutta la radio prima, durante e dopo la guerra di Etiopia è particolarmente avvertita in quelle trasmissioni, direttamente curate dall’Ente radio rurale. Il cui scopo politico e propagandistico era stato in realtà dichiarato e palese fin dall’atto della sua costituzione. Ma la grande impennata del contenuto politico nella radiofonia rurale si ebbe solo dopo che Achille Starace cominciò ad occuparsene in qualità di segretario del partito. La militarizzazione precoce dell’infanzia, ad esempio, pervase esplicitamente tutte le trasmissioni dedicate alla scuola elementare: nell’ottobre del 1935 queste si concludevano immancabilmente con l’annuncio delle nuove conquiste in Etiopia, e i ragazzi dovevano segnare con bandierine a spillo le posizioni vittoriose sulle grandi carte dell’Africa orientale che ogni classe possedeva. Nel 1936 gli abbonati in tutto il paese erano circa 700 mila, un numero ancora modesto rispetto ai livelli europei; bassissimo se riferito alla Germania. In italia solo il 7% delle famiglie possedeva una radio, con grandi squilibri ancora fra Nord e Sud. Il sogno di un apparecchio popolare dipendeva ancora totalmente da un’industria che non era in grado o non aveva interesse a produrlo. Nell’aprile del 1937 fu messo sul mercato un apparecchio di tipo nuovo il RadioBalilla, risultato del massimo sforzo produttivo delle ditte costruttrici nel settore degli apparecchi economici. Il costo non superava le 430 lire, pagabili in rate, un costo ancora alto, ma che venne considera un’importante passo in avanti. In realtà anche Radiobalilla fu una delle tante realizzazioni di facciata operate dal regime e risoltasi in un sostanzialmente fallimento per il mancato appoggio delle categorie interessate. Alla fine del 1937 erano state distribuite alcune migliaia di nuovi ricevitori, per la maggior parte istallati nelle scuole primarie e nei centri ricreativi dove gli agricoltori si riunivano nelle ore serali e la domenica. A scopo di propaganda venne anche sfruttata la compiacenza dei proprietari terrieri ai quali il partito chiese di mettere a disposizione dei loro braccianti alcuni apparecchio radio perché ascoltassero la rubrica l’ora dell’agricoltura, il cui messaggio fondamentale era ispirato alla necessità dell’attaccamento alla terra. Oltre una buona metà delle scuole italiane continuava ad essere sprovvista di un apparecchio ricevente. Alla vigilia della guerra molte zone agricole, soprattutto in Sardegna, Sicilia e Basilicata e nell’Italia centrale politica fascista coincise con il momento più maturo dell’ascolto radiofonico individuale e privato. Lo stile globale della radio italiana, che modellava il gusto degli ascoltatori, insieme al cinema e alla stampa di evasione, aveva pervaso l’intera esperienza privata di tutte le classi sociali proponendo loro un ampio ventaglio di generi di spettacolo e di informazione. Il genere più ascoltato era la musica leggera. L’azione più vistosa fu la trasformazione, nel maggio del 1937, del Ministero per la stampa e la propaganda in Ministero per la cultura popolare. Alle masse lavoratrici venne dedicato il programma Dieci minuti del lavoratore, trasmesso a partire dal 1937 con il proposito di sollecitare la partecipazione di operai e contadini alla vita della nazione dando loro l’illusione di essere parte integrante del processo di sviluppo sociale del paese. La trasmissione era indirizzata prevalentemente al proletariato urbano. Il suo successo fu molto limitato e la rubrica venne presto sostituita da Radio Sociale, destinata anch’essa al mondo del lavoro. Inaugurato nel 1939 ed ebbe un effettivo momento di popolarità, fino a diventare quotidiano. Su tutta la giornata radiofonica incombeva, anche se apparentemente distante, lo stile del fascismo. Il giornale radio dell’Italia fascista, era uno dei migliori esempi al mondo di informazione radiofonica, nonostante il controllo politico. Esso con la familiarità domestica della sua rassicurante invadenza, si accreditava come fonte insospettabile, con una credibilità di cui forse non godeva neppure la stampa. Sono gli anni in cui comincia a circolare lo slogan “lo ha detto la radio” come sinonimo di massima attendibilità. Le trasmissioni culturali non potevano naturalmente restare immuni dalla campagna di propaganda scatenatasi in seguito alla politica razziale del regime e culminata con le leggi antisemite del 17 novembre 1938. Questo genere di trasmissioni diventeranno frequenti nel periodo bellico ma già all’inizio la loro azione di propaganda era piuttosto efficace e si univa ai corsi antiebraici che veniva impartiti a scuola. Fra il 1941 e il 1943 l’EIAR mise in onda in collocazioni serali numerose trasmissioni che avevano lo scopo di dimostrare come l’eterno suscitatore di guerre, il vero ispiratore del bolscevismo, sia stato sempre il giudeo. Un impegno di propaganda antisemita diretto e specializzato tuttavia non fu mai eccessivamente presente nella radio. Francamente abbiamo motivo di credere che questi programmi fossero in verità piuttosto noiosi. TAMBURI LONTANI Col passare degli anni il regime divenne l’arbitro della partecipazione dei cittadini alla vita nazionale non solo attraverso il controllo rigoroso delle fonti ufficiali d’informazione, ma anche mediante la repressione delle fonti non ufficiali. Poiché la propaganda diretta, perfino la più invadente, ha effetto solo se agisce dentro un sistema in cui siano bandite tutte le voci contrarie, tutte le opinioni di minoranza. Le caratteristiche del mezzo radiofonico, dove qualsiasi tipo di messaggio poteva essere captato dall’apparecchio ricevente, impedirono il bavaglio totale all’informazione via etere. Le prime misure di prevenzione e repressione erano il segno che il regime cominciava seriamente a preoccuparsi delle conseguenze politiche di questo genere di ascolto non gradito. La possibilità di esercitare clandestinamente la radiotelegrafia da parte di malintenzionati. Nell’ottobre del 1935 a guerra etiopica iniziata, il ministero per la stampa e la proparanda comunicò ai prefetti l’obbligo di vietare l’ascolto delle trasmissioni straniere nei locali pubblici. Sul territorio italiano da qualche tempo agivano gruppi isolati di emittenti clandestine antifasciste, specialmente a Cagliari Trieste e Firenze che avevano richiamato l’attenzione preoccupata del regime e la sua immediata risposta in termini di repressione. Ci fu nel gennaio 1936 una segnalazione sull’attività di Carlo Rosselli , noto antifascista che stava organizzando a Parigi e a Londra una raccolta di fondi nell’ambiente massonico, comunista e antifascista francese, inglese e italiano per impiantò di una radio trasmettitrice per diramare notizie contro l’italia e ribattere le informazioni comunicate dall’EIAR. In realtà Rosselli non intendeva impiantare una stazione radio su territorio francese bensì in Catalogna. Fu con l’inizio della guerra civile spagnola, infatti, che l’antifascismo fece sentire la sua prima voce alla radio. Le intercettazione radiofoniche di emittenti spagnole erano sempre più numerose. Era assolutamente impossibile capire da quale località e da quale paese giungessero i messaggi antifascisti. Fra l’autunno e l’inverno le segnalazioni di messaggi provenienti dalla stazione comunista Radio Milano situata in territorio spagnolo divennero frequentissime. Ormai la radio comunista era stata perfettamente identificata e in molti uffici politici e militari era stato istituito un servizio d’ascolto per le intercettazioni. Ad esse venne risposto, come sappiamo, con la creazione di una falsa stazione clandestina spagnola, Radio Verdad, che trasmetteva in realtà da Roma. L’occasione per un exploit propagandistico si ebbe nel marzo di quell’anno con la vittoria di Guadalajara che trovò larghissima eco nei bollettini di Radio Milano. Pur avendo proibito agli italiani di ascoltare qualsiasi trasmissione che non fosse proveniente dalle antenne dell’EIAR, il regime non poteva ovviamente erigere una barriera nell’etere e tra gli antifascisti residenti in Italia non erano pochi quelli che sintonizzavano di nascosto i loro apparecchi radio sulla lunghezza d’onda di stazioni clandestine. Queste trasmissioni erano rivolte agli operai, agli intellettuali, ai contadini e avevano lo scopo di contribuire ad una crescita della coscienza antifascista fra le masse italiane. Vi si dava notizia della situazione spagnola e di quella internazionale, si chiariva agli italiani il vero scopo della guerra d’Abissinia, si davano notizie sulla disoccupazione, sull’aumento dei prezzi, sulle reali condizioni di vita dei lavoratori costretti a prestare la loro opera sotto il regime. La presenza dell’antifascismo italiano nella propaganda radiofonica dalla Spagna non si limitò alla stazione di Aranjuez. Radio Madrid le emittenti di Valencia e quelle della Generalitat di Barcellona ospitarono numerosi leader dell’antifascismo democratico italiano. Le stazioni spagnole in lingua italiana apparivano informatissime sulla situazione interna della penisola. Disordini, malcontenti, tensioni tenute nascoste dall’informazione di regime venivano conosciute dagli ascoltatori clandestini di particolari che ne aumentavano la credibilità. Due i capisaldi di questa radiopropaganda: smascherare le ripetute falsità del nemico; denunciare i crimini e le atrocità screditando moralmente l’avversario. Non si può escludere che la radio clandestina avesse una funzione non solo politica ma sociale e morale. La pericolosità di tale contropropaganda, che diventerà davvero efficace solo nel momento in cui gli italiani si accorgeranno di correre un grave pericolo e si raduneranno nell’ascolto di Radio Londra, che tra l’altro parlava alla generalità della popolazione e non a pochi nuclei politicizzati, era stato nondimeno riconosciuta dalle stesse autorità fasciste. Radio Milano con uno stratagemma noto agli esperti di comunicazioni radio, era in grado di cambiare onda di trasmissione da un momento all’altro, non appena iniziavano i disturbi da parte delle stazioni italiane. Le trasmissioni radiofoniche captate dalle stazioni estere cominciarono realmente a risvegliare i primi sentimenti di dissenso solo dopo l’inizio della guerra mondiale, ma prima del 1938 nonostante la possibilità di tutti gli apparecchi radio in commercio di captare le onde corte, non erano molti, a parte ristretti nuclei antifascisti, coloro che ascoltavano le notizie trasmesse dall’estero in lingua italiana. L’ascolto di queste emissioni presupponeva un rapporto attivo nei confronti del mezzo radiofonico e in generale un desiderio, frutto dell’impegno politico, di ricevere informazioni contrastanti con la linea ufficiale del regime. Non a caso, il fondatore di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli, tentava di combattere il fascismo proprio utilizzando emittenti clandestine. Fu con l’inizio della guerra civile spagnola, che l’antifascismo fece sentire la sua prima voce alla radio. ANATOMIA DEL PUBBLICO Nel periodo della non belligeranza su tutto dominavano le trasmissioni allineate con la politica del regime. Se non era possibile censurare la guerra, se ne poteva parlare poco. I silenzi dell’EIAR, a lungo andare, contribuirono in misura notevole a favorire lo stato di preoccupazione e di inquietudine che nondimeno cominciò a serpeggiare in ampi strati dello spirito pubblico italiano alla vigilia dell’intervento. Se l’offerta dei programmi si era considerata dilatata, esistevano ancora incertezze sulle linee editoriali da adottare nei confronti della grande massa dei radioascoltatori. L’imminenza del conflitto aumentava questa incertezza che, dal punto di vista della programmazione, era necessario eliminare al più presto. Di fronte alla prospettiva di un conflitto mondiale, ormai da tutti considerato inevitabile, la radio italiana propone trasmissioni rassicuranti e l’EIAR continua a rappresentare il nucleo forte dell’informazione di regime. Ma nell’inverno 1939-40 il pubblico pare disaffezionarsi ai programmi. Anche se indubbiamente erano stati ottenuti notevoli progressi nella qualità e varietà delle trasmissioni. Nonostante queste critiche il governo si riteneva artefice orgoglioso dello sviluppo del mezzo radiofonico. L’obiettivo del milione di abbonati, fissato da Mussolini nel giugno del 1938 era stato in qualche modo raggiunto e superato: il 1939 registrò anzi una delle punte più alte nell’incremento di nuovi abbonamenti. Il costo dell’utenza radiofonica continuava ad essere elevato. L’EIAR decide di dare corso ad una attenta valutazione della consistenza quantitativa e qualitativa del suo uditorio che, per l’ampiezza con cui fu condotta, per la modernità dei suoi strumenti demoscopici, per la sistematicità dell’organizzazione e l’ingente partecipazione del pubblico, ma non aveva precedenti né in Italia né all’estero. Il referendum sui gusti del pubblico lanciato dell’EIAR nel novembre del 1939 non è quindi solo uno strumento di controllo censorio, ma soprattutto il primo segnale di consapevolezza, nella storia della radio italiana, che il pubblico è qualcosa di molto complesso e non può essere limitato al numero di abbonamenti; che l’ascolto implica una quantità elevata di variabili sociali, economiche, culturali; L’accuratezza con cui viene organizzato il referendum e la imponente campagna propagandistica ad esso collegata danno l’idea dell’importanza dell’evento. Un questionario inviato a tutti gli abbonati, chiedeva le preferenze degli ascoltatori. Al sondaggio, nel periodo compreso tra il novembre del 1939 e il gennaio del 1940, risposero più di 900 mila abbonati: il 75% dell’intera utenza radiofonica che, in quella fase, poteva essere calcolata in circa 6 milioni di ascoltatori. La radio, come in seguito la tv, era da l’elemento unificante della grande folla domestica degli ascoltatori. Questa sua funzione è il dato essenziale che scaturisce dal sondaggio del 1940. SOTTO LE BOMBE Dopo il 10 giugno 1940 l’Eiar mette in onda un nuovo genere radiofonico: la guerra. Contrariamente all’opinione diffusa, è solo nel conflitto mondiale che la radio italiana riconverte totalmente il suo modello comunicativo alle necessità belliche. Non così era stato al tempo dell’impresa etiopica, non così durante l’intervento in Spagna. Allora si era trattato di fare propaganda; ora si trattava di costruire un vero e proprio palinsesto di guerra. Si ridefiniscono i contenuti della programmazione e i conseguenti atteggiamenti nei confronti del pubblico, che sono dettati soltanto dalla necessità, all’interno, di contribuire a tenere sereno e alto lo spirito nazionale; all’esterno, di controbattere la propaganda nemica. L’intero apparato radiofonico era stato rapidamente ristrutturato: nel maggio del 1940 l’ispettorato per la radiodiffusione veniva riorganizzato in tre settori: per l’interno, per l’estero, per le intercettazioni. Un centro radio guerra, di nuova costituzione, doveva servire a raccogliere e diffondere le notizie sulle operazioni militari. Nel 1940 l’ufficio stampa e propaganda del comando supremo, da poco costituito, forniva tutto il materiale per un settimanale a grande tiratura che si era iniziato a stampare dal 1939, Cronache della guerra. Dal 23 giugno tutte le trasmissioni vengono unificate e i programmi si concentrano su tre obiettivi fondamentali: l’informazione e i commenti; l’intrattenimento; la propaganda per l’interno e per l’estero. La direttiva in base alla quale vennero ridotti tutti i programmi leggeri, di divagazione o culturali in favore di programmi a chiaro contenuto propagandistico suscitò critiche da varie parti. Potenziata al massimo livello fu invece l’informazione del giornale radio. Aumentate da sei a otto le edizioni quotidiane, il giornale radio trasmetteva ogni giorno alle 13 il bollettino del quartier generale delle Forze Armate, che com’è noto nei locali pubblici occorreva ascoltare in reverente trasmissioni radiofoniche per l’estero erano del tutto uniformi nello stile e nel valore dei messaggi e variavano solo secondo le situazioni contingenti degli avvenimenti politici e militari, la propaganda via etere del regime si adattava di rado e assai male alla natura specifica, alla mentalità e al comune sentire delle differenti popolazioni alle quali si rivolgeva e che voleva persuadere. L’impegno organizzativo, innegabile anche se inefficiente, non bastava da solo a compensare i paurosi vuoti di un’informazione che durante tutti gli anni di guerra non riuscì mai a battere la concorrenza di Radio Londra. Mancava una visione strategica della propaganda. La popolarità delle emittenti in questa grande guerra delle parole, era determinata soprattutto dalle condizioni dello spirito pubblico dei paesi in conflitto e dalla capacità di fare breccia in essa. La partita delle parole fu giocata soprattutto sulle bugie sempre meno sostenibili della radio italiana e sulle verità sempre più ascoltate delle radio nemiche. L’ASCOLTO NEGATO di fronte alla scarsa efficacia delle trasmissioni fasciste verso i paesi belligeranti, ben altrimenti incisiva appare infatti l’azione delle radio estere nei confronti dell’Italia. Ora, e solo ora, la diffusione e l’ascolto delle voci nemiche nell’etere assume dimensioni di massa. L’abitudine a sintonizzarsi su queste stazioni si intensifica nell’inverno del 1941, quando, dopo le sconfitte in Grecia e in Libia, si manifesta la prima ondata di sfiducia nella politica bellica del fascismo. L’offensiva ideologica e propagandistica lanciata da Radio Mosca venne subito accolta con favore, non solo per le caratteristiche delle sue trasmissioni che coglievano sempre nel segno della realtà italiana, ma per la grandissima potenza delle emittenti che potevano essere udite in tutto il mondo. I comunisti italiani presenti a Mosca curavano le trasmissioni quotidiane in italiano dalla capitale sovietica. Cautela, ovviamente non esisteva nelle trasmissioni diretta agli italiani, anche se non veniva mai meno il realismo politico di una propaganda consapevole di muoversi in un momento delicatissimo e assai oscuro della storia del mondo. Un servizio complesso ed efficiente a cui presiede dal punto di vista dell’indicazione e del controllo politico Palmiro Togliatti. Dopo l’attacco sferrato dall’esercito nazista all’Unione Sovietica rinacque Radio Milano Libertà. Le trasmissioni dell’emittente erano direttamente modellate sulle indicazioni politiche di Togliatti e sul valore unitario dell’antifascismo come lotta di riscatto nazionale e popolare. Comunque l’organizzazione comunista assicurava anche tutte le altre emissioni in italiano da Mosca. Nei loro messaggi veniva lanciato all’Italia un richiamo all’unità del popolo, rivolto a suscitare fermenti di opposizione; questo richiamo rappresentava il motivo centrale di tutti i discorsi che Togliatti, sotto lo pseudonimo Correnti, per due anni pronunciò da Radio Mosca. Il linguaggio, chiarissimo, era compreso da operai, da intellettuali da borghesi. Era un messaggio di massa capace di destare immediate reazioni umane. Nonostante i divieti all’ascolto delle radio estere, l’interesse si va ormai manifestando in tutta la penisola. La macchina repressiva del regime si scatena. Dalla guerra combattuta nell’etere si comincia a capire chi avrebbe vinto e chi avrebbe perso: non a caso l’ascolto clandestino di massa delle emittenti nemiche fu una delle cause più evidenti e clamorose della crisi dello spirito pubblico in italia durante i mesi che precedettero la caduta del fascismo. Fin dal 1939 quando la germania aveva già sconfitto la polonia, una certa frangia dell’opinione pubblica italiana aveva cominciato a lamentarsi che la stampa e la radio non dicevano che cosa realmente stesse accadendo e che il duce avrebbe dovuto essere più esplicito. Nonostante le misure repressive verso la fine del 1940 in pieno clima bellico. Molti italiani ascoltavano abitualmente le trasmissioni di Radio Londra al fine di rendersi realmente conto degli avvenimenti politici e militari. Tra i provvedimenti repressivi c’era stato l’invito alle industrie a ridurre la produzione di apparecchi riceventi per uso domestico. Era molto difficile durante la guerra poter acquistare una radio. Ma vi era sempre qualcuno capace di riparare un ricevitore avariato o che metteva a disposizione il proprio, per l’ascolto di gruppo. Soprattutto nella provincia italiana era più facile eludere le norme repressive: l’ascolto avveniva dovunque. Non è raro sentire: l’ha detto la radio inglese… come affermazione di verità. Le autorità si erano rese perfettamente conto della difficoltà di reprimere l’ascolto clandestino effettuato nelle case private, la repressione doveva servire soprattutto da deterrente e non mancavano i casi di punizioni pubbliche per i colpevoli. Violente misure occasionali erano inabili a limitare e reprimere l’ascolto delle trasmissioni antifasciste. Nel marzo 1941 in un appunto del segretario del PNF al Duce si propone di disporre che i prefetti intensifichino il ritiro degli apparecchi radio. L’azione repressiva si concretò nella conversione in legge del regio decreto legge 18 aprile 1941 con il quale venivano triplicate le pene a carico degli ascoltatori delle radio estere, elevando il periodo di reclusione fino al massimo di un anno e sei messi e la multa fino a un massimo di 30mila lire. Questi divieti non facevano che aumentare la credibilità delle emissioni della BBC che sfidando la paura dell’arresto, venivano ascoltate sempre più avidamente da una popolazione ormai divenuta scettica verso tutto ciò che la propaganda nazionale avrebbe voluto farle credere. Vi furono arresti e condanne, nell’ottobre un aggravio di pene, ma in nessun caso, forse, il regime risultò impotente come in questo. La voce di Londra arrivava ormai in ogni casa. Radio Londra rappresenta la straordinaria efficienza raggiunta dagli inglese nel campo della propaganda. Nel periodo bellico, nessun paese più dell’Inghilterra riuscì a servirsi con altrettanta efficacia del mezzo radiofonico, intorno al quale la BBC costruì una organizzazione perfetta in grado di parlare in tutte le lingue del mondo. La BBC si rendeva perfettamente conto che la prima impressione era quella decisiva, che gli ascoltatori andavano catturati al primo colpo e i testi delle trasmissioni per la loro freschezza, immediatezza e attualità, dimostrano ancora oggi l’indiscussa superiorità di Radio Londra su tutte le altre emittenti. Il contributo brittanico al movimento partigiano in Italia è stato ampiamente riconosciuto. I programmi di Radio Londra traducevano in termini di propaganda la politica degli Alleati verso le nazioni nemiche: essi quindi si accordavano alle necessità del momento e alla piega degli avvenimento. Simile alla propaganda di Radio Londra, anche se diverse erano le ragioni politiche e spesso divergenti gli obiettivi strategici, fu quella delle stazioni americane. L’intervento negli affari italiani divenne concreto solo dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, sotto la pressione dei più attivi gruppi cattolici e dell’intera comunità italo americana. Si faceva appello alla tradizione di amicizia fra i due popoli, insistendo sulla tesi che gli italiani erano stati traditi da Mussolini e che gli Alleati combattevano per la liberazione dal fascismo e per instaurare la democrazia. Il 25 luglio del 1942 dai microfoni della NBC cominciò a farsi udire ogni domenica la voce del sindaco di NY, Fiorello La Guardia, il cui esordio fu di estrema violenza: “il cagnolino Mussolino dovrà pagare per i suoi atti criminali ed i suoi peccati, come dovranno espiare il porco Hitler e il sorcio Hirohito”. L’Italia per lui contava molto perché i suoi genitori erano italiani. I suoi interventi erano carichi di suggestione per gli ascoltatori. La propaganda americana si basava però su un’impostazione politica nei confronti dell’Italia che non era condivisa dal governo inglese, maggiormente preoccupato di assicurare nel Mediterraneo uno stabile assetto post-bellico e fermamente deciso a imporre una pace punitiva alla nazione che più aveva urtato i suoi interessi. Oggetto della propaganda diretta contro l’italia è di dare la massima assistenza agli sforzi militari per eliminare l’italia come partner attivo dell’asse Roma-Berlino e renderla un peso per la Germania. IL DECLINO DELLEIAR a partire dal dicembre di quell’anno nei programmi radiofonici si comincia a notare una decisa accentuazione dell’interesse per il fronte interno. La situazione militare va rapidamente volgendo al peggio. I commenti politici cercano sempre più di sostenere il morale della popolazione. L’EIAR evita di distorcere gli avvenimenti bellici. All’inizio del 1943 l’opinione pubblica italiana prende coscienza che la disgregazione del regime è ormai irreversibile. Le difficoltà della guerra stavano travolgendo è ormai irreversibile. Le difficoltà della guerra stavano travolgendo il sistema di propaganda fascista che fu infatti il primo a crollare. Con la svolta del 1943 il fronte interno aveva dovuto affrontare difficoltà sempre crescenti: si stava ormai sgretolando sotto le bombe, la fame, la stanchezza. Un mese dpo l’occupazione dell’Algeria cominciarono a intensificarsi i bombardamenti sulle città italiane, creando il serio problema delle vittime e aggravando quello di mantenere alto il morale e la disciplina. Lo stesso Mussolini ammetteva che il disagio alimentare diventava sempre più acuto. I mezzi di comunicazione di massa non potevano certo modificare l’immagine di un paese allo stremo delle risorse, costretto a fare da spalla all’alleato nazista impegnato duramente sul fronte orientale. Anche se tardivamente tutti si rendevano conto che la propaganda radiofonica per l’interno era stata inutile oltre che disorganizzata e che le trasmissioni per l’estero avevano perduto molta della loro iniziale efficacia e importanza. Radio Urbe creata apposta per la propaganda di guerra, venne soppressa. Lo sbarco alleato in Sicilia del 10 luglio 1943 precipitò la sua definitiva caduta. Come è noto, gli italiani appresero dalla voce di Giovan Battista Arista l’annuncio della caduta del fascismo e dell’incarico a Pietro Badoglio di formare il nuovo governo, alle direttive del quale l’Eiar si conformò immediatamente. Raoul Chiodelli, il direttore generale rimasto al suo posto, e il nuovo ispettore per la radiodiffusione stabilirono nuove regole per l’informazione radiofonica. Durante i quarantacinque giorni le trasmissioni erano ispirate alla massima cautela. Ormai Radio Londra e Radio Algeri, oltre alle stazioni italiane del Sud liberato, poste sotto il controllo anglo americano, fornivano quotidianamente. L8 settembre 1943 gli italiani ascoltarono da Radio Londra la notizia della firma dell’armistizio: alle 19.45 la radio italiana trasmise l’annuncio dato personalmente da Badoglio. Subito dopo la trasmissione, Chiodelli ordinò a tutte le sedi dell’Eiar di collaborare con gli Alleati e disattivare gli impianti nel caso fossero occupati dai tedeschi. Da quel momento, per due giorni interi, la radio tace. Tutte le sue stazioni cessano di trasmettere. Fino alla sera del 10 settembre quando i nazisti, in base all’accordo su Roma città aperta, occupano il palazzo di via Asiago. L’Eiar si avvia lentamente alla sua fine. Lo smembramento dell’azienda è inevitabile; vengono smontate dai tedeschi le stazioni di Roma I e Roma II; una parte dei dipendenti si trasferisce al Nord per collaborare con la radio della Repubblica di Salò; altri si sono nascosti. Dopo l’avventurosa liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso e la formazione della Repubblica sociale italiana, la dipendenza dei fascisti dai tedeschi fu pressocché totale. Il primo annuncio della formazione di un nuovo governo fascista era stato emesso il 9 settembre dal quartier generale di Hitler. Il primo verso discorso radiotrasmesso di Mussolini al popolo italiano, dopo il colpo di stato fu pronunciato il 18 settembre dalla stazione di Monaco di Baviera. Per un certo periodo di tempo la radio del governo fascista repubblicano ebbe la sua emittente in quella bavarese dato che tutte le stazioni del territorio nazionale o erano fuori uso o sotto il controllo degli alleati. Al rientro in italia i tedeschi vollero che il nuovo governo fascista restasse nel nord piuttosto che tornare a roma. Radio Monaco come radio del governo fascista repubblicano era in una situazione di totale mancanza di strutture organizzative. La situazione era piuttosto imbarazzante dato che la voce ufficiale del governo repubblicano proveniva in realtà dal territorio tedesco. La disponibilità delle emittenti, in special modo quelle a onde corte, era un problema di grande importanza logistica per la Repubblica di Salò. Al momento, la stazione di Prato Smeraldo, disattivata da azioni di sabotaggio dopo l’8 settemnre, non era in funzione; i tedeschi ne avevano deciso lo smontaggio e il trasferimento al nord, dove avrebbe dovuto essere ripresa la propaganda radiofonica diretta ai paesi esteri. Dopo l’armistizio l’italia fu considerata territorio soggetto a occupazone tedesca: obiettivo del Reich era di impossessarsi dell’Italia per fini legati a interessi esclusivamente tedeschi, sia per quanto riguardasse scopi difensivi, sia per l’eventuale assorbimento della penisola nella sfera di territori, soggetti alla discrezionalità del Reich. Come è noto il 9 settembre 1943 cessata la resistenza dei reparti italiani e della popolazione civile, Roma fu occupata e costretta a subire, in assenza di tutti i responsabili di governo, un armistizio in virtù del quale le truppe tedesche dovevano sostare ai margini della città aperta, salvo l’occupazione della sede dell’ambasciata germanica, delle stazioni radio e della centrale telefonica. Durante il periodo della ritirata, un anno e mezzo dopo, le più importanti installazioni erano in mano dei tedeschi e ciò Al di fuori del Regno la guerra continuava duramente. Stava nascendo la resistenza ai tedeschi e la lotta per bande. L’opposizione alla dittatura fascista era diventata guerra partigiana. Si costituivano i primi Comitati di liberazione con le loro formazioni armate. Sulle trasmissioni di Radio Bari si intensificò il controllo militare. Nacque così Italia combatte, la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari. Si trattava di un servizio (radio) con obiettivi esclusivamente militari. Italia Combatte oltre a selezionare e rielaborare le notizie in rapporto alle esigenze della trasmissione, aggiungeva servizi particolari e informazioni raccolte al di qua e al di là del fronte. I commenti, secondo le testimonianze di molti redattori, erano abbastanza liberi, purché in linea con le direttive militari degli Alleati. Ogni sera veniva trasmesso il Bollettino della guerra partigiana in Italia. Spesso veniva accompagnato da brevi editoriali, affidati all’amministrazione alleata; questi editoriali avevano lo scopo di fornire agli italiani in ascolto un’immagine rassicurante degli anglo-americani. Gli Alleati, si voleva dire, erano venuti in Italia per portare la pace e la democrazia, non per inserirsi nel difficile gioco politico dei partiti antifascisti. I testimoni venivano chiamati a trasmettere brevi messaggi dai microfoni di Italia combatte. Tutto quanto potesse contribuire all’obiettivo militare della lotta antitedesca, venivano trasmette interviste con partigiani; istruzioni ai partigiani. Una delle rubriche più note, Spie al muro, consisteva nel mettere in guardia tutti i cittadini che partecipavano alla Resistenza, sull’attività spionistica di persone insospettate. Segnalarli per radio significava indurre i conoscenti a non fidarsene, a prendere le debite distanze. Nell’insieme dei suoi messaggi, la radio italiana controllata dal PWB mirava in quel periodo a due precisi obiettivi: da un lato, un obiettivo di carattere strettamente militare, tipicamente tecnico che nel corso del 1944 diventerà, con il diffondersi delle radio clandestine, una delle caratteristiche della guerra partigiana; dall’altro, un obiettivo più ampio di informazione democratica. In un’Italia spaccata in due dal conflitto la radio aveva anche la funzione di essere un tramite tra gli italiani del Sud e quelli del Nord. La popolazione italiana, sia nelle zone libere che in quelle ancora occupate dai nazifascisti, aveva bisogno più che mai di orientamenti sicuri e di notizie certe. L’aspetto propagandistico delle trasmissioni era invece spesso prevalente, genericamente ispirato a un antifascismo che non di rado diventava antitaliano. In un paese diviso e lacerato non poche volte l’opinione pubblica ebbe la sensazione che tutti i mezzi di informazione fossero nelle mani dei partiti di sinistra. Esistevano delle differenze: nei rapporti dei servizi strategici americani non si nascondeva una marcata antipatica per il vecchio maresciallo e per il re. In quel periodo Alberto Moravia ed Elsa Morante erano a Radio Napoli. RITORNO ALLA NORMALITA’ Nel gennaio del 1944 i territori liberati ritornano sotto l’amministrazione italiana. Il governo, come è noto, si trasferisce a Salerno e il re a Ravello. Una nuova Commissione alleata sostituisce la vecchia Commissione di controllo. Tra i nuovi poteri amministrativi di competenza del governo italiano vi è quello di autorizzare la pubblicazione di quotidiani e periodici. È un primo passo che permette ai partiti e ai gruppi politici organizzati di far sentire la propria voce. La situazione politica risente della diversità di atteggiamento dei due alleati vincitori. Mentre gli americani sono favorevoli a rinnovare la compagine governativa adottando soluzioni più avanzate, gli inglesi mantengono nei confronti dell’antifascismo un atteggiamento di estremo riservo se non addirittura di diffidenza. La liberazione non aveva risolto i problemi di Napoli ma li aveva proiettati in una dimensione diversa, della quale i pochi mezzi di informazione non riuscivano a rendere la tremenda drammaticità. L’esercito alleato era la principale fonte di redditi, di piaceri e di intrallazzi. Durante l’inverno 1943- 44 Napoli offrì l’immagine peggiore del governo militare. In quel periodo Napoli era probabilmente la città peggio governata del mondo occidentale, e un anno dopo la situazione non era migliorata di molto. Eppure nulla di questi problemi appare nella informazione della radio perché si vuole tranquillizzare, non esasperare gli animi, evitare ogni argomento che possa incrinare l’unità delle forze antifasciste. Liberata Roma il 4 giugno, anche le stazioni radio della capitale o almeno quanto restava di esse dopo lo smontaggio effettuato dai tedeschi in ritirata, cominciarono a funzionare sotto il controllo del PWB sistemato in diverse sedi. Duramente provata dall’occupazione nazista e dalla guerra Roma manca di tutto, ma nonostante ciò i giornali sono numerosi. Molto lentamente, invece, la radio si riorganizza. Nascono nuove rubriche di notizie e commenti politici. Decadute le clausole del lungo armistizio, gli Alleati avevano restituito le stazioni radio di tutto il territorio liberato al governo italiano. A Roma, più che altrove, cominciarono a sorgere i primi contrasti fra i vecchi funzionari e dirigenti dell’EIAR e gli uomini nuovi entrati alla radio col PWB. Nel clima più generale si determina anche alla radio il riemergere di vecchi quadri, vecchie strutture gerarchiche, mentre molti giovani reclutati dal PWB si allontanano o vengono allontanati. Soprattutto a Radio Firenze. All’ironia cinica di Leo Longanesi e all’arguzia intelligente di Mario Soldati si deve la prima trasmissione di satira politica nell’Italia libera, Stella Bianca, anche se non mancano programmi in cui compaiono spunti che preannunciano il fenomeno del qualunquismo. Tra poco, con la liberazione dell’Italia e con la fine della guerra mondiale, le necessità della ricostruzione di tutti gli apparati produttivi diventeranno prevalenti sulle spinte di rinnovamento, che in qualche caso non erano lontane da veri e propri tentativi di sovversione. 7. DAGLI ALLEATI ALLA DEMOCRAZIA l’emergenza postbellica La seconda guerra mondiale non solo ha prodotto grandi innovazioni in tutto il mondo nel campo dei media ma ha contribuito ad accelerare la diffusione di massa di quelle forme della comunicazione, come la stampa e la radio, che in precedenza interessavano fasce di pubblico ancora limitate. Anche in Italia, con la seconda guerra mondiale, si sono determinate le condizioni per un profondo cambiamento nell’uso sociale dei grandi media; in primo luogo la radio. Comincia a delinearsi nella radio italiana, anche per effetto del lavoro svolto dagli angloamericani nelle emittenti delle città liberate, una pluralità di compiti cui è necessario far fronte: innanzitutto un dovere imprenditoriale, che consiste nel ricostruire una rete di comunicazione gravemente danneggiata; inoltre un impegno politico, che ha non solo lo scopo di cancellare l’oppressione nazifascista, ma quello di abbattere o fortemente ridurre il potere con cui la radio era stata usata dal regime per dominare le coscienze degli italiani. Subito dopo la guerra vi era il rischio che si venisse a creare una situazione di forte frammentazione e turbolenza in tutto l’apparato produttivo della radio; riunificare quanto restava dell’Eiar, scoraggiando tutte le dispersioni e le richieste di autonomia, ancorché proclamate in nome della libertà conquistata, fu la prima preoccupazione dei nuovi governi democratici. Il rapporto con le nuove forme della politica dopo il 1945 balza così in primo piano anche nel processo di riorganizzazione dei servizi radiofonici. Il mezzo di comunicazione, che nel Ventennio fascista era stato concepito come puro strumento di regime, assumeva adesso il suo vero carattere, istituzionale, di servizio reso alla comunità nazionale. Ma il passaggio dall’esperienza delle radio liberate alla struttura pubblica del nuovo organismo risorto nel dopoguerra fu percorso con grandi difficoltà, le quali nascevano dal tentativo di conciliare elementi di netta frattura del passato con i fattori di continuità dovuti al bisogno di conservare acquisizioni tecniche e professionali. Fra il 1945 e il 1948 la programmazione, la gestione del personale, il controllo politico e amministrativo divennero punto di grande attrito da parte dei partiti e della classe di governo. Il primo provvedimento ufficiale, che manifestava la volontà di dare vita al graduale passaggio dall’esercizio radiofonico ai legittimi poteri del governo italiano, fu preso nel luglio del 1944 a Roma, dove fu insediata dagli Alleati una Commissione per le attività radiofoniche dell’Italia centro-meridionale con il compito di provvedere a rilevare la gestione delle stazioni fino a quel momento sottoposte al controllo della Commissione alleata. Questa, infatti, si era preoccupata che il governo italiano, nell’ambito di un regime di occupazione, sistemasse anche se provvisoriamente la delicata materia delle comunicazioni. Con una nota del 13 agosto 1944 la Commissione alleata di controllo aveva nominato, così com’era ei suoi poteri decisionali, Luigi Rusca commissario straordinario dell’EIAR. In una riunione del Consiglio dei ministri del novembre del 1944 era stata esaminata una proposta per trasferire al sottosegretariato per la stampa e l’informazione ei compiti che in periodo fascista erano stati affidati al Ministero della cultura popolare. La proposta incontrò la resistenza del Ministero delle poste e telecomunicazioni, geloso delle proprie prerogative. In una relazione anonima il Ministero delle poste proponeva invece che il controllo sull’azienda di radiodiffusione fosse di propria competenza, riservando a un’apposita Commissione di vigilanza il compito di sovrintendere alla parte programmatica ed artistica. La reazione del sottosegretario per la stampa e l’informazione, Giuseppe Spararo fu immediata Fu istituita una Commissione di vigilanza, un organo che avrebbe dovuto specificamente affiancare i compiti di controllo governativo. Nell’ottobre del 1944 questi prepara uno schema di decreto relativo alla riorganizzazione della radiodiffusione. Il 26 ottobre del 1944, sotto il governo Bonomi, la società di radiodiffusione assume la nuova denominazione di Radio Audizioni Italia (Rai). C’era la necessità di avere, presso il sottosegretariato per la stampa e l’informazione, un organo consultivo per il coordinamento ed il controllo dei programmi radiofonici. L’Italia non si era ancora completamente sciolta dall’amministrazione alleata, ma già in molti settori della vita nazionale si cercavano le soluzioni più idonee alla successione di potere che si sarebbe verificata di lì a pochi mesi con la vittoria e la definitiva liberazione dai nazifascisti. Con decreto del 20 gennaio 1945 Luigi Rusca veniva confermato da Bonomi commissario per la gestione straordinaria della società Radio Audizioni Italia. La gestione tecnica era sottoposta alla vigilanza del Ministero delle poste e telecomunicazioni. Rusca mantenne le sue funzioni solo fino al 20 aprile del 1945. Eletto dall’assemblea degli azionisti della nuova società concessionaria il consiglio nominò direttore generale Armando Rossini, un avvocato romano. Poco a poco l’autonomia progressivamente concessa al governo italiano a partire dalla seconda metà del 1944 si riduce sempre più e prende forza un disegno moderato, dove la necessità di contenere il disordine prevale sulla volontà di una radicale defascistizzazione. Questo processo ha, nelle vicende della neonata RAI, uno dei suoi punti più delicati e controversi. Luigi Rusca apparteneva al Partito Liberale e venne accusato di voler evitare la divulgazione di notizie scomode e di voler avallare il carattere governativo dell’informazione radiofonica; il primo direttore del giornale radio dell’Italia libera, lo scrittore Corrado Alvaro si dimette per protesta contro quello che egli considerava un suo della radio non corrispondente alla nuova realtà democratica del paese. L’atteggiamento professionalmente corretto di Alvaro, che rifiutava di dipendere da fonti esclusivamente ufficiali e rivendicava alla radio il diritto di disporre di proprie fonti di informazione, non teneva conto del delicato passaggio verso la libertà di un paese, vessato dalla dittatura e distrutto da una guerra, dove forze eversive erano pronte a impedire il costituirsi di un regime democratico. Non a caso Rusca viene dimesso prima della scadenza del suo mandato a causa delle agitazioni violente del personale della RAI. Dal 25 aprile tutte le stazioni radiofoniche ancora attive nel Nord liberato avevano ripreso a funzionare regolarmente. La radio continuò a essere separata tra le regioni settentrionali, amministrate da Carrara per conto del CLNAI e le regioni centro meridionali dipendenti dalla RAI, sotto il doppio controllo degli Alleati e del governo. Di fronte ai pericoli di una soluzione violenta della crisi italiana, che ancora risentiva del clima di guerra civile, e sotto l’urgenza dei problemi economici, la normalizzazione e la ricostruzione degli apparati produttivi acquistarono una priorità assoluta sui progetti di riforma e modificazione delle strutture politiche e sociali. Come altrove nel paese, anche alla RAI era necessario che un programma equilibrato di riconversione non disperdesse l’enorme patrimonio accumulato in vent’anni. L’opera di riordinamento tecnico e manageriale all’interno dell’azienda che non poteva privarsi di personale qualificato e l’interesse evidente che le forze politiche cominciavano a nutrire per la RAI non impedirono il rilevante NASCE UNA GRANDE AZIENDA alla fine del 1947 l’organizzazione produttiva della RAI non era in grado di sopportare lo sforzo indispensabile per risollevare le sorti della concessionaria, fortemente provata dagli eventi. La rete dei trasmettitori e la disponibilità di mezzi tecnici risentivano sia dell’impostazione prebellica sia delle distruzioni non ancora completamente riparate. La divisione dei programmi in due direzioni distinte ( rete azzurra a Torino, rete rossa a Roma) accentuava la scarsità di mezzi condizionando tutta l’attività dell’ente di radiodiffusione. Infine, la perdita di bilancio del 1947 poneva con estrema urgenza il problema del risanamento economico dell’azienda. A tal fine fu chiesto l’aumento del canone, inadeguato sia al costo del servizio sia al mutato valore della moneta. La ricostruzione procedeva speditamente utilizzando tutti i progressi messi a disposizione dall’innovazione tecnologica, frutto della guerra e dell’aiuto americano. La nuova distribuzione dei trasmettitori cercava di venire incontro anche ad esigenze di equità geografica con particolare attenzione alle regioni meridionali. Il presidente della RAI, Spataro, che aveva preso parte alle riunioni di Montecarlo, aveva sottoposto all’attenzione di De Gasperi il delicato problema politico e diplomatico connesso alla nuova ripartizione delle frequenze. Il prestigio della RAI veniva riconosciuto nel massimo organismo internazionale, l’union europeenne de radiodiffusion. L’attività dell’azienda era ormai tesa verso obiettivi di grande importanza: il primo, e più immediato, consisteva nell’ampliare la programmazione fino a tre canali radiofonici fra loro distinti e complementari; il meno immediato, ma più impegnativo, era quello che fissava al 1° gennaio 1954 il decollo del servizio di televisione. Le realizzazioni di questo periodo furono sostanzialmente di tre tipi: a) costruzione di una rete di trasmettitori a onde media, capaci di diffondere il programma nazionale in tutto il paese, il secondo programma nella maggior parte delle regioni e il terzo nei centri urbani più importanti; b) costruzione di una rete di trasmettitori a modulazione di frequenza, limitata inizialmente alle zone orograficamente meno accidentate del paese, destinata a integrare la diffusione a onde medie del secondo e terzo programma; c) sistemazione, sia nelle sedi principali, sia in quelle minori, degli studi e degli impianti di ripresa, amplificazione, controllo e registrazione dei programmi, secondo le esigenze acustiche più moderne e secondo le nuove tendenze della programmazione. In pochi anni vennero sostituiti quasi tutti gli impianti di audiofrequenza nelle sedi minori, in gran parte restaurate e ampliate; venne allestito a Palermo un nuovo palazzo della radio e furono rimodernati i tre principali centri di produzione di Roma, Torino e Milano. Contemporaneamente all’esecuzione del piano tecnico, condotto in tempi brevi e con innegabili risultati positivi dalla direzione generale della RAI, fu radicalmente rinnovata l’immagine e la struttura organizzativa dell’azienda, l’aspetto più vistoso fu la riunificazione della direzione programmi, premessa indispensabile per l’ulteriore sviluppo del servizio. Questa trasformazione fu voluta e diretta da Salvino Sernesi, direttore generale, di tutta l’azienda dopo che Spataro ebbe lasciato la presidenza. Si passò alla formulazione di un disegno organizzativo che consentisse la trasformazione di un’azienda media in una grande azienda articolata in settori produttivi. La direzione generale adottò una prima serie di provvedimenti consistenti nella costituzione di comitati per gli affari del personale, per la formazione dei programmi, per gli acquisti ecc al fine di rendere partecipi i maggiori dirigenti membri dei comitati, della formazione di un’unitaria volontà aziendale. La ristrutturazione di Salvino fu un grande passo in avanti nel tentativo di dotare il paese di un efficiente strumento di comunicazione di massa che obbedisse agli standard produttivi di un’azienda moderna. Nel settore dei programmi il primo provvedimento di rilievo come già accennato, fu l’unificazione nel febbraio del 1948 delle due direzioni di rete, rossa e azzurra ancora divise tra Torino e Roma. Inoltre, mentre per il passato i programmi venivano studiati e decisi con pochissimo anticipo e la realizzazione risentiva perciò dell’inevitabile improvvisazione, con la nuova organizzazione produttiva si introdusse il sistema della preordinazione dei programmi con anticipo di alcuni mesi sulla data di messa in onda. Una particolare cura fu posta nel riordinamento del personale. Fra il 1947 e 1948 le condizioni in cui si trovava l’azienda erano aggravate anche dal disorientamento che serpeggiava fra i dipendenti. Alla base delle agitazioni del personale vi era l’insufficienza delle retribuzioni e la mancanza di un’adeguata regolamentazione dei rapporti di lavoro. Nell’immediato dopoguerra la situazione dei lavoratori all’interno della RAI, così come nelle altre attività produttive del paese, fu caratterizzata da un continuo, stato di agitazione per rivendicazioni salariali che spesso determinava comportamenti duri e intolleranti da parte dei lavoratori. Le trattative fra la RAI, l’AGIS (associazione generale italiana spettacolo) e la FILS ( federazione italiana lavoratori dello spettacolo) risentivano anche dell’aggravata situazione economica dell’azienda. La RAI aveva fatto un grande sforzo per migliorare i livelli retributivi dei suoi dipendenti. Dietro la giustificazione di una migliore e più efficiente organizzazione produttiva c’era il proposito politico di centralizzare al massimo l’intero esercizio dell’attività radiofonica: la costruzione dell’azienda nuova richiedeva la sconfitta di tutte le spinte di autonomia periferica e il blocco di qualsiasi ipotesi di decentramento. Alla fine del 1951 vi erano in servizio 68 trasmettitori a Onde Medie (di cui 22 ripetitori). Ma bisognerà attendere il 1953 per vedere riconosciuta all’azienda l’esclusiva proprietà delle registrazioni e sancita una definitiva regolamentazione del diritto d’autore. 8. RADIO ITALIANA il ruolo della chiesa il modello dell’informazione e della diffusione culturale di massa, negli anni che vanno grosso modo dal 1935 al 1955, corrisponde al modello sociale: a un modello retorico-nazionalistico di tipo scolastico alimentato nell’orizzonte della famiglia piccolo-borghese. Sul piano dell’istituzione e del potere pubblico, l’interprete di questo modello fu il partito politico della Democrazia cristiana quando, alle elezioni del 18 aprile 1948, la grandissima maggioranza del paese si riconobbe in esso. Una vittoria ottenuta attraverso l’alleanza con la Chiesa e perfezionata in particolar modo nella comune gestione dei mezzi d’informazione. La Chiesa aveva guardato, fin dal loro nascere, a tutte le tecniche della comunicazione di massa con ansia. Il grande sviluppo dei mezzi di comunicazione e il conseguente affermarsi e consolidarsi di un mercato sempre più vasto dell’industria culturale apparve subito il terreno sul quale la Chiesa avrebbe dovuto giocare la sua scommessa per rinvigorire la diffusione della sua presenza in una società di massa. È opportuno andare indietro di qualche decennio, agli anni venti-trenta per osservare l’inizio dell’egemonia della presenza cattolica nella vita italiana. È nel regime fascista che l’obiettivo cattolico di allargare la base sociale dell’intervento religioso, culturale e politico nella società italiana trova le condizioni più favorevoli: la Chiesa riesce, attraverso la capillarità delle sue organizzazioni, a imporsi con un ruolo egemonico proprio laddove la politica del fascismo aveva registrato i maggiori insuccessi, cioè nella creazione di una cultura per gli strati più trascurati. Lo sviluppo della cultura di massa nella prima metà del secolo avviene quindi sotto l’influenza non sempre ostentata, ma non per questo meno efficace della chiesa che condiziona e dirige il processo di inserimento delle masse cattoliche nella vita del paese. La chiesa cerca di impadronirsi dei mezzi di comunicazione, di conoscerli e adeguarli alla sua visione pastorale. L’obiettivo, durante il fascismo, è di realizzare l’egemonia nel campo dell’educazione popolare delle masse, neutralizzando quanto di laico vi era nel progetto sociale del regime; nel dopoguerra è di costringere il partito cattolico, succeduto alla guida dello Stato, a rendersi garante in tutti i modi di questo disegno pedagogico. La saldatura fra gerarchie ecclesiastiche e partito democristiano fu di fondamentale importanza. La DC era nata come proiezione dell’aerea cattolica nella politica, come mediazione ecclesiastica verso la sfera dello Stato. Il suo obiettivo era quello di difendere la Chiesa e imporne il modello sociale e culturale. La nuova classe dirigente cattolica uscita dalla guerra trovò così nelle campagne elettorali il suo banco di prova e realizzò, grazie ai connotati ideologici e politici del partito cattolico, il passaggio dal regime reazionario di massa al regime conservatore di massa. Tutta la vita sociale, fra il 1948 e il 1954 appare dominata dalla speculazione sulla paura e dalla propaganda. Enormi mezzi finanziari, furono impiegati per far nascere periodici, quotidiani,, manifesti, opuscoli, volantini, distribuiti a centinaia di migliaia di copie nelle chiese, nelle parrocchie, nelle famiglie, duranti i comizi, nelle assemblee, nelle scuole. La dislocazione su differenti media condotta dalla Chiesa e dalle organizzazioni democristiane era, oggettivamente, il risultato di una visione strategica avanzata, in quanto aveva saputo cogliere la diversa qualità dei media e la necessità di aggiornare i quadri tecnici in grado di usarli. In questo senso è stato giustamente affermato che la Chiesa incarnò a suo modo un elemento di modernizzazione nella società italiana del dopoguerra. L’obiettivo era quello di rispondere a ogni costo alla sfida comunista, in uno scontro tra diverse forme di propaganda il cui messaggio tendeva a divaricarsi sempre più. DI NUOVO, PROPAGANDA La vittoria elettorale della Dc del 18 aprile 1948 determina il consolidamento definitivo del gruppo dirigente della Rai legato al partito cattolico. Le altre forze politiche laiche alleate della Dc continuano, dal canto loro, a sottovalutare l’importanza dei mezzi di comunicazione di massa. È l’inizio del centrismo. Le tensioni politiche si acutizzano, gli organi d’informazione si dividono in campi rigidamente separati, lo scontro di classe viene mascherato da una propaganda che sembra riecheggiare il modello fascista. I quotidiani, i periodici, la grande stampa borghese, la radio, i cinegiornali diventano sempre più il riflesso dell’azione politica e propagandistica sia per quanto riguarda gli avvenimenti interni che internazionali. il Vaticano è schierato su una linea di lotta senza quartiere al bolscevismo, che in Italia si traduce in una netta ostilità contro comunisti e socialisti e in una avversione costante e ossessiva per la cultura laica. In molti pensavano che l’Italia era destinata a rimanere un paese relativamente povero. Ma proprio con l’aiuto americano riprendevano gli investimenti pubblici e privati, mentre le condizioni di vita cominciavano a migliorare. Nel 1949 veniva abolito il tesseramento del pane, i quotidiani aumentavano il numero delle pagine. Con l’inizio degli anni cinquanta veniva dato impulso alla politica di privatizzazione nei trasporti: apparivano sul mercato la FIAT 1400 e la Lancia Aurelia, la 500 C e la Vespa. L’indice di disoccupazione era tuttavia ancora elevato, i salari nettamente inferiori a quelli di altri paesi dell’Europa occidentale. In questa complessa situazione si manifesta una più accentuata domanda di informazione da parte di vasti strati sociali del pubblico: il raddoppio degli abbonamenti alla radio, l’aumento delle tirature della stampa periodica, la crescita degli spettatori nelle sale cinematografiche, dove si proiettano soprattutto pellicole americane, rivelano che il modello culturale degli italiani è ormai espresso con sufficiente approssimazione dai mass media. È esattamente il modello che la DC e le organizzazioni cattoliche hanno alimentato. Alcune abili scelte propagandistiche, come le campagne promozionale dei concorsi a premi, la mobilitazione dei dilettanti, la popolarità dei servizi sportivi davano della RAI un’ immagine di sicurezza e di familiarità. Dietro questo schermo rassicurante e di familiarità. Dietro questo schermo rassicurante anche l’informazione del giornale radio passava tranquillamente nell’ascolto del pubblico, indifferente alle scelte unilaterali dei notiziari. L’informazione radiofonica continuasse ad essere di parte. Inevitabilmente la RAI finì per diventare il terreno per uno scontro di grande asprezza. Il 20 dicembre 1950, in un clima politico dominato dai settori più oltranzisti della DC, un gruppo di deputati presentò la prima mozione nella storia della RAI contro la faziosità del suo giornale radio :” la camera afferma la necessità che il governo prenda i provvedimenti necessari affinché la radio italiana risponda alle esigenze della più stretta obiettività e imparzialità ponendo fine all’attuale indirizzo che fa della radio uno strumento di parte.” Fu rimandata con mille pretesti. Nel maggio del 1951 una seconda interpellanza denunciava con maggiore precisione il vergognoso asservimento della radio ai fini della propaganda governativa e clericale. Dalla documentazione presentata emergevano omissioni, parzialità, autentici falsi. Nella trasmissione del GR del 2 giugno 1950 era stata praticamente ignorata la ricorrenza della nascita della Repubblica. Il 10 giugno la sarebbe rivelato, dopo qualche anno, un vantaggio per gli industriali del settore, dato l’enorme sviluppo dell’utenta tv, e quindi della dilatazione del mercato di materiale elettrico. L’occasione per il decollo di un’industria ad alta specializzazione venne offerta dallo sviluppo del nuovo mezzo, la televisione, che consentì un rapido processo di accumulazione attraverso rapidi aumenti di produttività e di profitti. CARI AMICI VICINI E LONTANI! Sarebbe tuttavia ingiusto non riconoscere, storicamente, che molta parte della radio italiana del dopoguerra nasce già nel corso degli anni 1944-45 ad opera delle singole stazioni: le idee, l’entusiasmo e il rinnovamento artistico delle trasmissioni radiofoniche di questo periodo si trasferiranno nella programmazione della nuova radio nazionale. La programmazione resta distinta, per il Nord e per il Sud, fino al dicembre 1946: la rete rossa e la rete azzurra. Questa distinzione permane fino al 1951, quando la suddivisione in programma nazionale, secondo programma e terzo programma fu attuata per corrispondere ai diversi livelli e gusti culturali del nuovo pubblico. Il 30 dicembre 1951 viene varata una consistente riforma delle reti in tre programmi nazionali differenti e complementari: il primo destinato a soddisfare esigenze molteplici ( informazione sugli avvenimenti italiani ed esteri, aggiornamento sui problemi politici, sociali e artistici, svago) di un pubblico medio; il secondo volto piuttosto a un compito ricreativo; il terzo con finalità culturali, rivolto sia a un pubblico intellettualmente elevato sia a tutti coloro che hanno interesse a migliorare la loro preparazione culturale. Tra il primo assetto dell’immediato dopo guerra e quello definitivo degli anni cinquanta corre n periodo di sistematico impegno da parte dell’apparato nell’acquirente nuovo pubblico e nel chiarirne le caratteristiche socio-culturali. S’intensificano massicciamente le campagne di abbonamento e si dà più rilievo alla corrispondenza degli ascoltatori sul radiocorriere. Quello che poi diventerà il Servizio opinioni, istituito nel 1945 si fa carico di analizzare la notevole mole di lettere inviate alla RAI, proprio per ricavarne dati utili per una sorta di mappa dei radioascoltatori. Da queste ricognizioni emerge un sostanziale gradimento del pubblico nei confronti della programmazione, con una spiccata preferenza per il teatro e i servizi informativi, accompagnata dal desiderio di ascoltare più musica leggere. Una tendenza che troverà la sua mitica ribalta nel Festival di Sanremo, che nasce la sera del 29 gennaio 1951:presenta Nunzio Filogamo e vince Nilla Pizzi con Grazie dei fior. L’attenzione ai gusti del pubblico non ha però svalutato, nell’apparato radiofonico, il progetto di educazione civile e culturale strettamente legato alla concezione della RAI come servizio pubblico. In quegli anni la capillare opera di alfabetizzazione e di divulgazione culturale viene articolata in molte iniziative volte a promuovere l’unità e la solidarietà nazionale Da allora gli abbonamenti aumentano costantemente alla media di mezzo milione l’anno: la diffusione del mezzo radiofonico si svilupperà in seguito di pari passo con la diffusione repentina della TV. I destini dei due mezzi inizieranno a diversi solo con l’inizio degli anni sessanta. L’ascolto di sottofondo alle faccende domestiche sarà la caratteristica del consumo radiofonico negli anni del boom televisivo. La propaganda per la diffusione della radio, nel corso dei primi anni cinquanta si rivolge soprattutto a quegli strati sociali meno saturi a causa delle loro minori capacità d’acquisto. Si susseguono quindi le iniziative in favore della diffusione di ricevitori economici; la segnalazione dei programmi sui giornali, in locandine affisse nei pubblici servizi e nei volantini distribuiti per le strade; le trasmissioni legate a concorsi a premi. Volendo dare uno sguardo alla programmazione del decennio che prevede l’avvento della televisione va osservato innanzitutto che l’attenzione al mondo dell’adolescenza e dell’infanzia, da sempre una costante della radio italiana, continua a rappresentare un punto di forza della proposta produttiva dell’azienda radiofonica. I programmi de La radio per le scuole iniziarono nel 1947 per integrare le conoscenze linguistiche e le curiosità culturali di una popolazione scolastica che spesso non era economicamente in condizioni di acquistare neppure i libri di testo. La radio per le scuole era concepita come temporanea sostituzione dell’insegnante; si proponeva piuttosto di presentare, l’intreccio disciplinare necessario per comprendere il mondo esterno. La radio è dunque un occhio in più per i ragazzi che diventeranno cittadini di un mondo in cui le distanze culturali si vanno annullando progressivamente. Nel 1949 la redazione del giornale radio, allo scopo di ampliare le fasce di ascolto intorno ad appuntamenti che proponessero l’approfondimento sul panorama dei fatti internazionali, realizza una nuova rubrica, Voci dal mondo. Politica, cronaca, sport, costume sono al centro di brevi servizi giornalistici realizzati con grande agilità e ricchi di informazioni. Dall’immediato dopo guerra la radio italiana risponde ai suoi compiti di diffusione della cultura presso i larghi strati della popolazione riferendosi in più di una occasione alla grande tradizione pedagogica della BBC inglese e considerato tre livelli fondamentali di pubblico: 1) un livello ampio, bisognoso di un’acculturazione di base, dal punto di vista umanistico, scientifico e tecnico in genere; 2) un livello di ascoltatori che aspira a conoscenze più approfondite, non facili da acquisire per iniziativa personale; 3) un livello molto ristretto di ascoltatori intellettuali, dotati di una qualche forma di istruzione superiore. Il terzo programma che comprende ampie sezioni dedicate alla musica colta, oltre che alla letteratura, alla scienza, al teatro e all’economia. Fin dalle sue premesse il terzo nasce da un’esigenza a cui la radio non poteva sottrarsi: offrire alla cultura uno spazio svincolato dalle preoccupazioni di una assoluta e universale accessibilità. La programmazione radiofonica dedica anche brevi spazi alle letture poetiche, alle attualità scientifiche, alle informazioni per i medici. La fortunata rubrica Scrittori al microfono, nata nel 1944 e mandata in onda da Roma (rete rossa), assume la funzione dell’elzeviro di terza pagine dei quotidiani. Si alternarono al microfono Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale. Per tutto il lungo dopoguerra la funzione assolta dalla radio come traduttrice di cultura è un tema di grande importanza dal punto di vista storico. La traduzione della scrittura in voce e in suono si affermò proprio nel periodo di massa crescita della civiltà dell’immagine. L’Approdo, la rubrica nata quasi per caso nel 1944 è forse la rubrica culturale più famosa e longeva della RAI. Norme per la redazione di un testo radiofonico scritto da Gadda spedite ai collaboratori del terzo programma, provocavano sdegno professionale in cui Gadda rifaceva qualsiasi testo gli capitasse, spesso con grave disappunto degli autori, ossessionato dal linguaggio radiofonico. Ma non solo di letteratura viveva la radio. Usciti dal regime, gli italiani volevano sapere, volevano conoscere: dalle nuove conquiste della scienza ai consigli pratici di comportamento sulla medicina, sull’agricoltura, sull’economia. Diffondeva listini di generi alimentari, si occupava di lingua e di grammatica: tentava la riscoperta delle tradizioni popolari. I nuovi mezzi di registrazione, disponibili dopo la liberazione contribuiscono a sviluppare un nuovo tipo di giornalismo radiofonico, più agile, più presente e più attento alla documentazione della realtà. Nascono così trasmissioni come Senza invito, visite improvvise col microfono ad ambienti curiosi o segreti. Il rapporto con la società si definisce in modo significativo, fino all’avvento della tv, anche in quelle trasmissioni che, in vario modo, si aprono a iniziative di solidarietà. Una delle occasioni straordinarie in cui il coordinamento tecnico e professionale dei giornalisti radiofonici si è coniugato con una funzione di stimolo alla solidarietà collettiva fu l’emergenza per l’alluvione del Polesine nel novembre del 1951. Le notizie del giornale radio erano attendibili, concrete, tempestive. Con la riforma del 1951 invece, anche il giornalismo radiofonico venne potenziato. Nacque nel dicembre il nuovo giornale radio del secondo programma, Radiosera, concepito nello stile di un magazine, con una durata di mezzora dalle 20.00 alle 20.30 animato da una grande ricchezza di notizie e da una concezione più moderna del mezzo. L’alto livello professionale della radio italiana, durante l’intero decennio degli anni cinquanta, si manifestò non solo nelle edizioni del Gr, ma in un genere di informazione più meditata, spesso di rara efficacia linguistica, a volte addirittura di notevole bellezza estetica: il documentario (= neorealismo radiofonico). I documentari radiofonici di quel lungo periodo ebbero il merito di contribuire a far conoscere il paese così com’era ma anche ad allargare gli orizzonti di una realtà non solo nazionale. Lo spettacolo di varietà non era da meno nel connotare, con la sua carica simbolica, l’ascolto di questa grande stagione della radio italiana. Nel 1951 nasce Rosso e Nero, forse il programma leggero della radio più famoso del dopoguerra. La canzone italiana alla radio continuava ad essere un grande veicolo di socializzazione ma anche di identità e stabilità. La gara di abilità, il gioco, la conquista dei premi in denaro, con il loro richiamo agli svaghi tipici delle feste popolari, vengono a poco a poco a costituire, insieme alle canzoni, la struttura portante dell’intrattenimento degli italiani. Il microfono è vostro, gara di dilettanti rimasta famosa soprattutto per il suo slogan “miei cari amici e lontani, buonasera; buonasera ovunque voi siate”. Ma il programma più popolare in queste genere fu senza dubbio Il campanile d’oro in cui si fronteggiano concorrenti provenienti da tutta Italia. Anche questa trasmissione, condotta da un giovanissimo Enzo Tortora, contribuisce a far conoscere l’Italia agli italiani. Campanile d’oro diventa anzi il prototipo di un prodotto spettacolare tipicamente nazionale, la cui formula continuerà ad essere sfruttata in seguito. Fra i premi in palio per gli ascoltatori, i simboli perfino ovvi del benessere economico: il televisore e il frigorifero. Da questa esperienza radiofonica, nascerà uno dei programmi di maggior successo dei primordi della tv italiana: Campanile sera, che ripropone la gara tra paesi collegati direttamente con le piazze dei centri in concorso. Un altro successo radiofonico, Il motivo in maschera condotto da Mike Bongiorno e basato su un indovinello musicale, sarà il modello de Il Musichiere, cavallo di battaglia televisivo di Mario Riva. A Jacopo Treves invece, si deve nel 1947 l’iniziativa del Manifesto della radio, un titolo programmatico sotto il quale venivano trasmesse opere radiofoniche molte delle quali straniere che avevano in qualche modo contribuito allo sviluppo di quelle ricerche sulla radio come mezzo artistico che erano state avviate negli anni venti e trenta dalle avanguardie storiche. Il dibattito animato attorno al Manifesto costituì una premessa fondamentale per l’istituzione del Premio Italia nel 1948 e del terzo programma nel 1950. 9. VEDERE A DISTANZA l’invasione delle immagini La guerra era finita da appena sette anni e l’Occidente industrializzato stava cominciando ad assistere a uno dei più importanti salti tecnologici in tutta la storia dei media nel secolo ventesimo. La televisione, negli anni precedenti il conflitto mondiale, era ancora a uno stadio di tecnologia sperimentale e un mezzo a circolazione limitatissima, nonostante la Gran Bretagna avesse inaugurato il 2 novembre del 1936 il primo servizio televisivo regolare del mondo. Intorno alla metà degli anni cinquanta, quando la rapida espansione del nuovo mezzo si impose agli occhi di tutti, la crisi della radio italiana si manifestò in tutta la sua evidenza. Obbligata a riconsiderare il proprio ruolo sociale la radio seppe tuttavia col tempo, modificare la sua organizzazione e i suoi programmi, riconvertire il suo rapporto col pubblico adeguandosi alle nuove condizioni di ascolto così come l’avvento della televisione le aveva trasformate. La radio aveva dietro di sé un modello assai forte; aveva accompagnato la vita degli italiani mano a mano che essi andavano scoprendo nuovi benefici e si liberavano della schiavitù del bisogno; essa era il rassicurante suggello della loro identità. Fra il 1945 e il 1955 il tenore di vita rimaneva assai basso, e l’agricoltura continuava ad essere il più vasto settore di occupazione. Ma in poco meno di un decennio il paesaggio rurale e urbano così come le dimore dei suoi abitanti e i loro modi vita, cambiarono radicalmente e l’Italia divenne una delle nazioni più industrializzate dell’Occidente. A travolgere quel modello di comunicazione di massa offerto dalla radio non fu tuttavia soltanto l’avvento della televisione, quanto i profondi mutamenti prodottisi nella società e nella struttura del paese. Il cosiddetto miracolo economico italiano stava preparando il terreno al nuovo modello televisivo e la radio dovette abituarsi a convivere con tutte le differenze che andavano manifestandosi nel paese. Innanzitutto, il pubblico radiofonico si restringe progressivamente. Dopo un periodo di equilibrio, anni cinquanta la diminuzione del prezzo degli apparecchi riceventi è determinata dalla concentrazione industriale che unifica il 75 percento della produzione nelle mani delle maggiori ditte del momento. Ci troviamo di fronte a una produzione e a un consumo squilibrati, direttamente investiti da tutte le contraddizioni dello sviluppo italiano di quegli anni, all’interno del quale sono presenti il Nord industriale e produttore e il Sud contadino e consumatore. Proprio laddove maggior fu il suo consumo, cioè nelle zone sottosviluppate del Sud, fu subito evidente che lo spettacolo televisivo avrebbe cambiato i modi di vita e le abitudini delle masse molto più di quanto non avesse fatto la radio negli anni trenta. Il fenomeno dilagante dell’ascolto collettivo, concentrato soprattutto nei locali pubblici e nelle stesse case private in occasione del rito settimanale di Lascia o raddoppia? Stava creando le premesse di un nuovo modello di socializzazione fino allora sconosciuto agli italiani. Mentre in altri paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, che da diversi anni usufruivano di programmi tv, gli enti concessionari procedevano gradualmente e con cautela nella diffusione della rete televisiva, in Italia la strategia adottata dalla RAI per conto del governo fu quella di estendere il servizio il più rapidamente possibile. Questa strategia non sarà priva di conseguenze determinando negli anni futuri le condizioni per un consumo di televisione che in Italia assumerà una importanza e un valore inimmaginabili in altri paesi europei. Nasce così l’apparato televisivo, esso denota un orientamento politico-culturale dell’industria radicalmente nuovo: il tentativo di creare un pubblico unificato, al quale proporre modelli d’informazione e di comportamento standardizzati. L’apparato televisivo, attraverso un nuovo modo di produrre, crea le premesse per riarticolare un nuovo tipo di pubblico e riqualificare un nuovo genere di consumo culturale di massa, più rispondente alle esigenze di controllo sociale delle classi al potere, rappresentate dalla DC. L’apparato della televisione nasce con connotati del tutto nuovi per l’Italia. Lo schema orario giornaliero e settimanale è costruito su appuntamenti fissi. Anche se molta parte della programmazione, come vedremo, è ricalcata su modelli americani, essa viene sempre adattata alle situazioni italiane. Dopo poche settimane dall’inizio delle trasmissioni nasce anche il servizio opinioni, il luogo specifico della ricerca sul pubblico radiofonico e televisivo, organizzato in modo da fornire sia dati standard che dati su richiesta. L’obiettivo di fondo è gia lucidamente intravisto; unificare e rendere omogeneo, attraverso il rito del consumo di massa, un pubblico eterogeneo per la cultura, lingua e classi sociali. La televisione in Italia è stata responsabile del cambiamento linguistico del paese. L’unificazione della lingua avviene parallelamente alla crescita delle antenne televisive e determina la sconfitta dei dialetti come strumenti di separazione. La DC mostrò grande perspicacia nel comprendere il contributo che la televisione, con la sua forte carica innovativa, poteva dare al consolidamento del suo ruolo di partito di governo dopo la vittoria sulle sinistra nel 1953. C’era la sensazione diffusa che anche le innovazioni tecnologiche potessero essere utilizzate per fini politici. Ma occorreva riconsiderare a fondo la questione dell’egemonia sulla cultura di massa, così diversa dalla tradizione cattolica. La televisione aveva ormai spalancato le porte alla società dei consumi. VECCHI E NUOVI CONSUMI CULTURALI gli anni del decollo televisivo sono anche quelli che assistono a una esplosione delle dinamiche e dei comportamenti di consumo privato e individuabile, dagli elettrodomestici all’automobile. Il primo a risentire della crisi è il teatro, incapace di reggere la concorrenza del nuovo medium. Anche i settori della carta stampata in particolare quello dei quotidiani, risentono, sebbene in misura ridotta, della concorrenza dell’informazione televisiva, più rapida e immediata. Ma l’impatto più significativo della TV si determina con l’unico vero altro apparato che nell’Italia degli anni cinquanta produce e diffonde cultura di massa: l’industria cinematografica. L’unico settore dell’industria del tempo libero in grado di misurarsi con il nuovo apparato televisivo è il cinema, che poteva considerarsi il più forte mezzo di comunicazione di massa, ma dal punto di vista industriale, esso era un apparato fragile, frammentato, con un mercato tra l’altro interamente dominato dall’imperialismo economico e culturale americano. Fin dal 1945 infatti gli americani impongono massicciamente il monopolio della distribuzione dei loro film. Paradossalmente invece, nel 1954, il consumo di cinema attraversa la sua età dell’oro. L’aumento dell’esercizio è uno dei segnali più evidente di un consumo che si è andato espandendo secondo ritmi estremamente accelerati. Nel momento in cui la tv entra nell’area del tempo libero lo spettacolo cinematografico occupa cioè un posto di primo piano fra i consumi di questo tipo. Ma da un inchiesta effettuata nel febbraio 1955 risultava che in quel periodo 370 mila spettatori assisteva ogni giorno alle teletrasmissioni in casa propria, 1 milione circa in casa di amici e parenti due volte a settimana, ben 3 milioni di spettatori seguivano gli spettacoli televisivi in locali pubblici, due volte a settimana. La tv andava estendendosi con una rapidità non prevista: gli incassi nelle sale cinematografiche cominciavano a registra le prime sensibili diminuzioni fino ad arrivare, con il 1957, dopo i primi grandi successi televisivi, da Lascia o Raddoppia, a Un, due e tre con Tognazzi e Vianello, all’esordio del Musichiere, a subire flessioni ancora più forti. Le cause che in Italia hanno determinato un impatto così squilibrato tra il vecchio apparato dell’industria cinematografica e il nuovo apparato nascente della televisione, a tutto vantaggio di quest’ultimo sono tre: la polverizzazione produttiva dell’industria cinematografica, la saturazione della domanda, il rapporto con le nuove tecniche di ripresa e di proiezione. La legge del 29 dicembre 1949 uno dei più importanti provvedimenti legislativi del dopoguerra nel settore cinematografico, aveva introdotto una serie di norme per favorire la produzione italiana. La legge aveva determinato però un altro effetto, di segno negativo, favorendo il moltiplicarsi di numerose case di produzione di tipo artigianale, prive di qualsiasi consistenza industriale, tese a un puro e semplice accaparramento di premi governativi. L’apparato televisivo nasce quindi e si consolida nel momento di maggiore debolezza dell’apparato cinematografico. Con l’estensione e la copertura dell’intero territorio nazionale, la tv avvia una profonda modificazione delle abitudini di vita degli italiani. Il dato interessante è che la televisione tende a modificare il vissuto dei suoi consumatori. Il processo del televisore modifica immediatamente e in misura massiccia, l’uso del tempo libero. Contemporaneamente allo sviluppo televisivo, stanno inoltre diffondendosi altri tipi di consumi e di divertimenti destinati a ridurre dovunque le spese per il cinema: la motorizzazione, lo sport, il consumo, discografico, e intrattenimenti di vario genere. L’avvento della tv non è quindi l’unico fattore anche se il più importante, nella crisi del consumo del cinema, d’altra parte come è stato giustamente osservato, manca qualsiasi rilevazione statistica che serva a stabilire qual è la rispettiva influenza, sulla crisi cinematografica. Di fronte a questa situazione, ad ogni modo, gli esercenti cercarono di parare il danno ricorrendo a un accordo diretto con la tv. In un primo tempo ottennero lo spostamento di Lascia o Raddoppia? Dal sabato al giovedì, per far fronte alla contrazione degli incassi di fine settimana. In un secondo tempo si giunse all’accordo tra l’AGIS, L’ANICA, e la RAI per l’istallazione di apparecchi tv nelle sale cinematografiche. Da un lato si cerca di realizzare un impossibile connubio fra tipi di spettacolo che vanno fruiti in modo diverso; dall’altro la tv rinnova i suoi programmi ricorrendo alle riedizioni di vecchi film di successo. Ma tra i due contendenti è il cinema che rincorre la tv, consapevole di non essere più il principale riferimento dello svago fuori casa. È a questo punto, dalla seconda metà degli anni cinquanta, che si compie la saldatura fra una congiuntura di mercato favorevole al diffondersi della tv e del suoi consumo di massa e il disegno cattolico democristiano, ormai in fase di avanzata maturazione, di utilizzare le possibilità di penetrazione del nuovo mezzo televisivo contro la cultura di sinistra espressa dal cinema italiano e dai suoi autori. La televisione diventa così l’alternativa moderata di quella cultura: e dallo scontro ne uscirà vincente, perché il qualche modo corrispondeva alle attese di modernizzazione degli italiani. PULPITO E CATTEDRA qual era lo scenario politico italiano nel momento in cui nasce la televisione? Scelba era da poco alla testa di un nuovo governo di centrista dopo i mesi incerti che erano seguiti alle elezioni politiche del 1953 e alla caduta di De Gasperi. De Gasperi era ancora segretario del partito, ma sempre più inattivo anche per le cattive condizioni di slaute che in pochi mesi lo avrebbero portato alla morte. All’interno della Democrazia cristiana affioravano nuovi equilinri e strategie che si manifesteranno nel congresso di Napoli aprendo la strada a Fanfani. L’ideologia della democrazia guidata che era alla base dei gruppi della sinistra cattolica fanfaniana, si esprimeva in un grande lavoro politico in ogni campo del sociale e con un particolare interesse per i mezzi di comunicazione di massa, sui quali l’attenzione della chiesa aveva già, come abbiamo visto, prodotto numerose iniziative e creato una saldatura molto stretta fra gerarchie cattoliche e partito di maggioranza. La televisione per la forza stessa della sua attrattiva, apparve subito come lo strumento fondamentale di intervento sociale e un’occasione irripetibile di modernizzazione della cultura in senso antilaicista. In quella che possiamo definire storicamente una prima ipotesi di lottizzazione, la televisione fu dominata dall’area politica che nel campo dell’industria culturale, non aveva che pochi strumenti di intervento. Amministratore delegato con ampi poteri venne nominato Filiberto Guala:, primo grande manager dell’azienda di radiotelevisione, formatosi nel Movimento laureati cattolici. Il potere di Guala si manifestò in modo incisivo sull’organizzazione aziendale. Il primo atto fu l’assunzione del suo braccio destro all’INA, CASE, Luigi Berretta Anguissola, alla direzione della segreteria generale, il cervello politico della RAI. Successivamente Guala sconvolse l’intero organigramma allontanando uomini legati al vecchio gruppo aziendale e sostituendoli con altri. Nel suo progetto c’era già tutta la concezione pedagogica sulla quale verrà basata la programmazione televisiva per almeno un quindicennio; cera l’idea di un educatore collettivo pulpito e cattedra, come fu detto profondamente radicato nell’identità moderata, cattolica, sentimentale della maggioranza degli italiani. Guala comprese quanto fosse essenziale per la RAI selezionare nuovi giornalisti, nuovi programmisti. La matrice religiosa di Guala rese quanto mai agevole l’osmosi fra gerarchie ecclesiastiche, DC e industria culturale: una miscela indispensabile per governare, in un paese arretrato come l’Italia, fortemente condizionato dall’ipoteca comunista, un mezzo di comunicazione così potente come la televisione. Egli cercò il perfezionamento dell’alleanza con la Chiesa, il condizionamento delle forze liberal-democratiche, l’emarginazione della sinistra socialcomunista, l’avversione per la cultura laicista, il rigore moralistico. Con Guala venne introdotto nella Rai, a uso degli addetti alla programmazione televisiva, quell’insieme di norme morali e di costume, informate a una precisa identificazione con i modelli che il mondo cattolico rivendicava come propri nel paese, che prese il nome di codice di autodisciplina. Un nuovo rapporto con il pubblico, la suddivisione e la distribuzione dei generi in relazione alla fasce orarie e alla composizione qualitativamente differenziata dell0audience, indica che il gruppo dirigente al quale è stato affidato il compito di espandere, con grande rapidità ed efficacia, il servizio di televisione in tutto il paese sta lavorando nel segno di un progetto culturale di notevole maturità. Il periodo della diretta influenza clericale sulla televisione non andò oltre il biennio compreso fra il 1954 e il 1956, anno in cui Guala lasciò la sua carica. Egli introdusse inoltre, il codice di autodisciplina a uso degli addetti alla programmazione televisiva. 10. IL MAGICO OCCHIO LUMINOSO moderno e antimoderno il movimento operaio e i partiti della sinistra non reagirono in modo adeguato all’entrata in funzione del nuovo apparato di comunicazione. La battaglia contro la televisione, che si scatenò allora, e che tenne banco per quasi un ventennio, non era frutto di una sola parte politica; essa faceva parte della strategia di quell’ampio fronte antimoderno che vedrà saldarsi, con sotterranee alleanze, una parte del mondo cattolico. Il partito comunista e frange non marginali dell’aristocrazia laica e del situazione e tempesta di telefonate il centralino della RAI. Nelle intenzioni degli autori si voleva ammonire il pubblico e le autorità alla difesa dei figli insidiati dagli eccessi scandalistici dei giornali e degli spettacoli del nostro tempo. La televisione si preoccupa di integrare nella sua offerta tutti i possibili segmenti generazionali. La tv dei ragazzi comincia ad essere al centro delle indagini del Servizio opinioni. Quella infatti è una fascia che resterà quasi intoccata fino alla riforma del 1975. Ai programmi destinati ai giovani fu data una denominazione precisa “la tv dei ragazzi” con tanto di sigla. L’espressione più riuscita di questa tendenza fu Lo Zecchino d’Oro, nato nel 1957. Nella gara canora fra giovanissimi, in cui si alternavano divertimento e insegnamento morale, c’era tutta la carica educativa prodotta dal sistema di valori della famiglia italiana. La trasmissione darà vita a personaggi buffi: dal Mago Zurlì, di Cino Tortorella, a Topo Gigio e tanti altri. Nasce così Telescuola, un esperimento di educazione a distanza che prosegue fino al 1966. Con l’inizio degli anni sessanta i corsi di Telescuola assumono addirittura carattere sostitutivo e si propongono di surrogare le strutture scolastiche là dove esse non esistevano. Il primo esperimento di educazione per adulti fu invece Non è mai troppo tardi che nacque il 15 novembre 1960. Si trattava di un vero e proprio corso di insegnamento della lingua italiana per analfabeti. Ad Alberto Manzi, il maestro che assicurò il grande successo popolare della serie va riconosciuto il merito di aver fatto prendere la licenza elementare a più di un milione di analfabeti. MENTRE CRESCE LA TV, LA RADIO… Anche la radio nel suo piccolo non aveva smesso del tutto di esprimere i valori di un paese in rapida trasformazione. Compiva il suo trentesimo anno. La diffusione del servizio televisivo lungo la penisola è infatti abbastanza graduale e non arresta la tendenza del consumatore italiano a possedere almeno un apparecchio radio per famiglia. Cosa può contrapporre la radio alla novità e all’impatto spettacolare della tv? Anzitutto l’abitudine all’ascolto. Trent’anni di attività dietro le spalle, permettono alla radio di contare su un pubblico affezionato che apprezza nelle trasmissioni radiofoniche in primo luogo musica leggera e programmi di svago generale ( che interessano soprattutto il pubblico delle casalinghe e quello di operai e agricoltori) e poi gli aggiornamenti sui fatti del mondo, i temi della politica e della società, che riguardano un pubblico di professionisti, dirigenti e impiegati. Se la frequenza d’ascolto della radio diminuisce con l’inizio delle trasmissione televisive, essa è tuttavia legata a una consolidata abitudine all’ascolto quotidiano, che tende a stabilizzarsi nelle ore diurne: la radio accompagna il lavoro di casalinghe e artigiani e costituisce ancora un diversivo serale soprattutto per i lavoratori della terra e dell’industria, o comunque, nonostante l’effetto della concorrenza televisiva, per tutte quelle categorie meno provvedute economicamente e culturalmente che non possono permettersi il televisore. Nel complesso un certo pubblico è rimasto sempre fedele alla radio; un pubblico forse più umile e casuale. Già dalla seconda metà degli anni cinquanta comincia quindi una revisione dei palinsesti dei tre programmi, in vista di una loro maggiore omogeneità editoriale e di una più definita fisionomia. Il programma nazionale si specializza nell’offerta di informazione ( acquisendo dal secondo tutti i programmi per ragazzi) e di musica, testi teatrali classici e di opere fantastiche. Il secondo è il programma preferito in assoluto, soprattutto da un pubblico di donne e di giovani. Nel confronto continuo fra i due mezzi, radio e tv, assume rilievo la tendenza del primo a ritornare a un uso più ampio delle trasmissioni dal vivo: se la diretta era comunque utilizzata per i notiziari e per i servizi giornalistici, dal 1945 la diffusione degli strumenti di registrazione aveva consentito una migliore qualità dei programmi e nuove possibilità di linguaggio. Dalla seconda metà degli anni cinquanta il ritorno alla diretta, soprattutto per i varietà e per la musica leggera, ha il senso di un recupero della tradizionale efficacia spettacolare della radio come teatrino domestico. La costatazione che il pubblico radiofonico fosse un pubblico in movimento, un pubblico che fa altro mentre ascolta e che ha umori e bisogni diversi nell’arco della giornata, spinge la RAI a caratterizzare i tre programmi non più per tono, bensì per generi differenti. Così il nazionale accentua la propria fisionomia di canale d’informazione aumentando il numero e la durata delle rubriche giornalistiche. Il secondo, che tradizionalmente riunisce tutti i generi ricreativi, punta soprattutto alla messa in onda di quattro spettacoli giornalieri di prosa, musica, e varietà, impaginati da una continua colonna sonora di musica leggera. Quanto al terzo era specificamente culturale, vede ammorbidire l’impostazione troppo accademica. In generale, per quanto riguarda il decennio successivo all’inizio delle trasmissioni televisive, la prima reazione della radio sembra quella di giocare in difesa, puntando sul prestigio della propria tradizione e sfruttando anche qualche effetto di rimbalzo dai programmi tv. L’offerta di prosa si fa imponente. Nessuno scrittore o studioso fu assente dai programmi radiofonici. La RAI era diventata davvero un punto di riferimento per il mondo della cultura. Ogni testo, presentazione critica o racconto, era davvero scritto per la radio. Fin dalla seconda metà degli anni cinquanta la radio è un laboratorio culturale tra i più attivi del panorama italiano. (Prende ufficialmente il via il servizio di Filodiffusione: è la radio diffusa attraverso una rete di telecomunicazioni il cui ultimo tratto, quello che raggiunge l’utente, utilizza il doppino telefonico con cui sono cablati gli edifici serviti dalla telefonia fissa). RITORNO A CASA Surclassando la radio, l’esperienza “leggera” della televisione di quegli anni stabilisce prepotentemente l’egemonia del mezzo, che sconvolge le abitudini degli italiani. Autori e interpreti vengono ripresi direttamente dal grande serbatoio del teatro di rivista e varietà. Non sempre questi autori riusciranno andare il meglio di sé. Abituati a scrivere una o due riviste l’anno, erano sottoposti a una tale intensa richiesta creativa da non reggere il ritmo. E’ l’incrocio fra il quiz e lo spettacolo leggero che agisce come straordinario moltiplicatore produttivo, contribuendo in maniera decisiva all’aumento del genere nel palinsesto della tv tradizionale. Appena tre anni dopo l’inizio di Lascia o raddoppia? nascono due programmi che segneranno il definitivo lancio di questo settore. Nel 1957 si assiste al successo di Un, due e tre che, dopo il suo esordio nel 1954 con Mario Carotenuto, verrà presentato da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, e alla nascita del Musichiere condotto da Mario Riva. La televisione ha dunque già definito alcune linee di sviluppo: da un lato cerca soluzioni di programmi autonomi e originali, dall’altro saccheggia i territori di altri apparati dell’industria culturale sconvolgendone gli equilibri. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta il rapido diffondersi dell’apparecchio ricevente rivela le proporzioni di questo consumo. Mentre nel 1959 solo 36 persone su 100 assistevano ai programmi in casa propria e ben 42 in locali pubblici, nel 1966 le proporzioni saranno più che invertite: 75 in casa propria e 10 nei locali pubblici. Dal 3 febbraio 1957, fino all’immotivata e improvvisa abolizione del programma dopo la riforma del 1975, la formula pubblicitaria televisiva del racconto breve, due minuti di spettacolo cui seguiva un rapido advertising, diventa un appuntamento di grandissimo richiamo popolare. Ogni sera, dopo il telegiornale, al suono di trombe e mandolini, dietro un sipario inventato si susseguono le piazze e le fontane più celebri d’Italia, è la preparazione allo spettacolo per eccellenza che ha accompagnato le serate di una intera generazione di telespettatori. Carosello rappresenta una storia a sé nel panorama di ogni discorso sulle immagini: una storia di costume, e nello stesso tempo, di linguaggio e di creatività. Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisione, Carosello crea un vero e proprio star system di personaggi divi, la cui vita privata non si esaurisce nella breve storia rappresentata ma continua fuori di essa. C’erano regole fisse per le durate dei messaggi pubblicitari e per il loro inserimento, che obbligavano a scelte precise di struttura nelle storie; ma c’erano anche indicazioni rigorose per tutto quanto riguardava ciò che non poteva essere mostrato in tv: sesso, adulterio, lusso eccessivo, oggetti superflui. La pubblicità non doveva creare troppi desideri né suscitare odio di classe. Associare il consumo di beni a uno stile di vita attraente non era una invenzione italiana. Il paese che aveva scoperto la pubblicità televisiva: l’America. Il richiamo al modello americano, nell’italia degli anni cinquanta è generale. Così nell’apparato televisivo, anche per mezzo della pubblicità, l’America come una sorta di fata Morgana, sta entrando nell’immaginario degli italiani: dopo averli liberati dal nazifascismo adesso sembra volerli liberare dal bisogno. GOOD MORNING AMERICA! Il basso livello dello sviluppo economico italiano nei primi anni cinquanta fu una delle condizioni che avevano permesso questa forte penetrazione di modelli culturali e abitudini di consumo americani. Essa fu favorita dall’assenza di una forte cultura nazionale, di forti e radicati sedimenti nella coscienza e nella tradizione italiane che potessero fare da filtro contro quella invasione. Solo la cultura cattolica riuscì in qualche misura a limitare la portata delle innovazioni più americanizzanti. Il vero consumismo inizierà infatti solo nel periodo successivo, verso la metà degli anni settanta ma per potersi affermare e diffondere era appunto necessario che si creasse un terreno comune e che quindi si azzerassero, per quanto possibile, le differenti fisionomie culturali dei suoi protagonisti. La televisione rappresentò il veicolo primario attraverso il quale la penetrazione statunitense si impose nel nuovo processo di socializzazione delle masse che l’Italia stava sperimentando, anche se l’America che, attraverso il video, entrò nelle case di tutti fu comunque riveduta e corretta da un preciso disegno di adattamento alla sensibilità, alla ricettività, alla mentalità italiane. Se è vero che molteplici furono i tentativi di copiare il modello americano, la televisione italiana si impose alla fine per i suoi caratteri di autentica originalità. Anche se l’ispirazione da cui prendevano spunto fu spesso indubbiamente americana, le trasmissioni mostravano un’impronta inconfondibilmente casalinga e tradivano l’influenza di altre fonti diverse. Poche settimane di successo di Lascia o Raddoppia? Fecero dimenticare la provenienza di Mike Bongiorno dalla Voice of America e l’archetipo del gioco che aveva debuttato di là dall’Atlantico cinque mesi prima. La differenza fondamentale fra i due programmi stava nella grande spettacolarità di quello italiano. Il quiz americano durava solo mezz’ora, il programma italiano ha la durato di uno spettacolo classico, i concorrenti e i loro padrini sono i comprimari di una messinscena teatrale. Mike Bongiorno è un vero e proprio personaggio, qualcosa di più di un semplice presentatore. In un senso più profondo la trasmissione rispecchiava i valori della cultura americana, la competitività, l’abilità individuale, la scalata alla ricchezza e al successo; ma nello spettacolo, brillavano soprattutto i valori italiani di sempre, la speranza nella fortuna, la fiducia nel proprio fascino, l’arte di arrangiarsi, la vanità esibizionistica. Da noi la televisione doveva essere protetta dagli assalti del mercato. In America la mentalità market oriented era invece sovrana: il numero degli spettatori era decisivo nella scelta del tipo e della qualità della programmazione e gli spettacoli erano realizzati in funzione delle vendite dei prodotti reclamizzati dagli inserzionisti. Il valore di un programma, dipendeva dagli indici di ascolto. In Italia occorrerà attendere trent’anni prima di veder consolidata una simile svolta. Ecco perché nonostante la forte caratterizzazione del suo modello americano, Lascia o raddoppia? È per gli italiani il momento della scoperta della tv e al tempo stesso, il momento in cui la tv scopre l’Italia. La prova dell’oggetto misterioso in Telematch e la trasmissione Voci e volti della fortuna sono i primi esempi di partecipazione della provincia ai giochi televisivi. Un altro grande successo di quegli anni fu il Musichiere, un felice neologismo che alludeva al modello di un grande show della NBC creato nel 1954, portato al successo soprattutto dalla cordialità romanesca di Mario Riva. Lo show system americano, benché fonte primaria di ispirazione per i programmatori della televisione italiana era quindi trasformato e reiventato a tal punto che finiva per non essere più riconoscibile. Poco a poco l’America venne progressivamente allontanandosi per fare posto a stili, linguaggi, strutture di programmi inconfondibilmente italiani. Nel 1959 nasce Campanile di sera, il più originale e illuminante ritratto antropologico dell’Italia della fine degli anni cinquanta: una gara collettiva fra comuni di differenti regioni, condotta da Mike Bongiorno. Una delle invenzioni più squisitamente italiane dell’universo televisivo. Nata dal programma telefonico il Gonfalone, la trasmissione si fondava su uno dei caratteri peculiari della nazione. Essa ebbene anche la funzione di integrare classi sociali diverse nel processo di formazione di una moderna società industriale. La trasmissione italiana che più corrisponde al modello del varietà televisivo americano fu Un, due e tre, animato dalla comicità della coppia Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Canzonissima terrà banco per 18 edizioni: un record! Il programma che nasce nel 1956 alla radio con il titolo Le canzoni della fortuna, è il primo esempio di abbinamento fra una gara di canzonette e una lotteria gestita dallo Stato. Il nome Canzonissima compare solo nel 1958, con una nuova formula che prevede numeri di varietà, balletti, parodie; l’ambizione della RAI è di realizzare uno spettacolo da far invidia a Broadway, costruito in grandi studi, con scenografie stupefacenti, vistosi corpi di ballo e modalità di linguaggio televisivo fino ad allora inusitate, con lunghe carrellate, campi lunghi o lunghissimi dell’apparato spettacolare. Canzonissima è inoltre un vero e proprio trampolino di lancio per divi emergenti: Sandra Mondaini, Corrado, Raffaella Carrà, Loretta Goggi, Pippo Baudo. Dall’America arrivano invece ben presto altri prodotti: l’amore per il poliziesco esplode irrefrenabile. Dal novembre del 1959 Giallo Club diventerà un grandissimo successo televisivo e lancerà un personaggio celebre, Ubaldo Lay. La formula del “giallo-quiz” segna un’esperienza nuova nella vita dell’ente televisivo italiano, che, per la prima volta, passa dal ruolo di importatore di modelli americani a quello di produttore, in grado di offrire al pubblico uno spettacolo inedito. Per quanto uniformi e inespressivi, furono i notiziari del telegiornale a consacrare il successo definitivo del nuovo mezzo di comunicazione. Per molti italiani che continuavano a non leggere il consumo e il palinsesto diventa il regolatore supremo delle abitudini del pubblico. Il secondo programma non era solo uno strumento per relegare in un ascolto più ridotto temi e argomenti sgraditi, come è stato per anni sostenuto, ma era il canale di sperimentazione di nuovi prototipi e nuove formule, soprattutto culturali, dirette a un pubblico di cui si stava iniziando un processo di scomposizione direttamente proporzionale alla sua crescita e al diversificarsi della sua domanda. Lo sbocco finale era l’aumento complessivo dell’ascolto, un obiettivo che la RAI continuerà a perseguire negli anni con indubbia capacità professionale. Il consumo di televisione conobbe infatti un ritmo di incremento intensissimo grazie anche alla scelta politica e industriale di assicurare la diffusione del segnale sulla quasi totalità del territorio nazionale in tempi record. Nel periodo del suo grande sviluppo la televisione italiana valorizza e sfrutta al massimo tutte le sue potenzialità e il palinsesto si ispira a criteri strategici rivolti a massimizzare l’ascolto. Con l’inizio del secondo programma si preferì catturare un pubblico molto ampio attraverso una programmazione di genere leggero, ma in una logica eminentemente unitaria. La costruzione della serata sul piccolo schermo faceva parte di una strategia di controllo dei contenuti e di dosaggio delle diverse collocazioni. La programmazione consiste ormai nella gestione di un magazzino di prodotti già confezionati, indipendentemente dalle caratteristiche del pubblico e delle fasce orarie cui esse sono destinati dalla collocazione in palinsesto sui due canali. Dal punto di vista della logica d’impresa questa strategia fu indubbiamente vincente: l’ascolto, così stabilizzato, presentava valori assai elevati. Il secondo programma svolse quindi una importante funzione integrativa in un modello televisivo sostanzialmente monocanale tendente a fare il pieno dell’ascolto. L’elemento caratterizzante del palinsesto complementare della televisione monopolistica a due canali era la combinazione, nel prime time, di un appuntamento forte e un appuntamento debole regolarmente contrapposti. Tale modello, che verrà poi sconvolto dalla logica concorrenziale della riforma, era congegnato in modo da attivare un meccanismo di protezione del programma forte, generalmente sul nazionale, e di traino di quello più debole. Le prime importanti modificazioni si verificano tra il 1960 e il 1961. Il mercato elettronico è alla ricerca di nuove espansioni, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Sono già stati venduti circa 5 milioni di televisori e l’industria italiana sollecita una innovazione tecnica che induca i teleutenti a cambiare il loro apparecchio. La nascita del secondo programma risponde anche a questo importante indirizzo di politica industriale; il nuovo canale, infatti, per essere ricevuto, impone o un adattatore o l’acquisto di un nuovo televisore. Dall’America arriva inoltre la registrazione videomagnetica e i primi satelliti di telecomunicazione, che consentono di collegare in diretta i più lontani punti del globo. Nel luglio del 1962 veniva stipulata tra la nuova società e lo stato una convenzione per la concessione in esclusiva per dieci anni dell’impianto e dell’esercizio di sistemi atti a realizzare collegamenti televisivi, telefonici a mezzo di satelliti artificiali. Da quel momento la RAI conserverà per molti anni il monopolio delle trasmissioni via satellite sul territorio nazionale. Queste prime innovazioni influenzeranno il linguaggio per tutto il decennio. Le trasmissioni informative, sempre più spettacolarizzate, modificano profondamente il sistema del giornalismo televisivo e crea nuovi stili stili e nuovi dii. L’uso delle telecronache dirette è andato diminuendo nel corso degli anni. Soprattutto da parte delle sinistre si volle dare a questa riduzione il significato di una pratica manipolatoria esercitata dall’apparato, con la conseguente rinuncia a voler rappresentare liberamente la realtà. Va ricordato inoltre, che il 18 ottobre del 1961 era stata costituita la società Telespazio, con capitale ripartito fra la Rai e l’Italcable. Da quel momento la Rai conserverà per molti anni il monopolio delle trasmissioni via satellite sul territorio nazionale. LA QUESTIONE DEL COLORE Un’azienda che sempre più veniva risucchiata dalle turbolenze della politica, non poteva continuare a espandersi e a contare nella società italiana basandosi esclusivamente su criteri di rigida efficienza. Rodinò cercò di amministrare l’azienda con la bussola del manager, incoraggiato dall’IRI che protestava inutilmente contro l’espansione delle spese. Ma la RAI era entrata in una fase della sua storia incompatibile con la visione rigida di un dirigente formatosi ad altre scuole e in altri contesti. Nel 1965 dopo l’accantonamento di Pugliese, anche Rodinò lasciava la scena televisiva per la scadenza del mandato. In quell’anno il parlamento aveva deciso di rinviare al 1970 l’introduzione della tv a colori in Italia. Dal 1962 era iniziata la sperimentazione. La decisione del parlamento era una decisione grave. Benché la sperimentazione continuasse a svolgersi regolarmente, il rinvio della data di inizio dell’attività si stava rivelando come uno di quegli eventi che più avrebbero influenzato, negativamente, lo sviluppo del mezzo televisivo del nostro paese. Infatti, nel 1967 mentre tutte le nazioni europee introducono il colore nelle loro trasmissioni televisive. La Rai, che pure attrezzata per farlo, ne viene impedita da una allarmata e vasta polemica condotta parallelamente dal Partito repubblicano. Il servizio di televisione a colori verrà introdotto nel 1975; quindi per quasi un decennio, un procedimento tecnologico ormai largamente disponibile e profondamente innovativi, resta bloccato sul mercato italiano. La RAI viene così a trovarsi in una situazione di arretratezza tecnologica proprio nel momento e negli anni in cui comincia a formarsi un vasto fronte politico e di opinione pubblica che preme per la riforma del servizio radiotelevisivo. La responsabilità di questa mancata espansione tecnologica non era dell’azienda ma di alcuni partiti e della grande industria. Ancora una volta potenti lobbies politoco- imprenditoriali lavoravano contro i processi della modernizzazione in nome di una cultura elitaria che continuava a vedere nella televisione non uno strumento di democrazia ma una minaccia alla conservazione del loro potere economico e finanziario. I PROGRAMMI CHE HANNO FATTO LA TV Nel decennio 1960-70 la Rai si dedica alla creazione di un pubblico popolare il più possibile omogeneo, attraverso l’estensione della programmazione intorno a tre grandi aree tematiche: lo spettacolo leggero e di varietà, che negli anni sessanta raggiunge forme di spettacolo totale, una volta affrancatosi dai modelli americani; la musica leggera, soprattutto quella direttamente prodotta nelle grandi esibizioni canore; e i programmi culturali e d’informazione. in tutte queste aree si inaugura un massiccio utilizzo di quella politica dei generi, doveva interessare tutti i vari livelli del consumo: dal fantastico all’informazione. Nasce la Domenica sportiva. Nel gennaio del 1961 il decennio televisivo si apre sullo spettacolo delle gambe, senza calzamaglia, delle gemelle Alice ed Ellen Kessler, esse propongono un erotismo “freddo”, che non emoziona e non turba, quindi lecito, tutto assorbito dalla perfetta macchina scenografica di Giardino d’inverno, prima, e di Studio Uno, poi. Studio uno è finalmente quello spettacolo di prestigio che i dirigenti della rai da tempo pensavano di produrre, il primo grande varietà di respiro internazionale che inaugura l’epoca d’oro de da da um-pa. Affidata per molti decenni soprattutto alla divulgazione radiofonica che ne celebra, come abbiamo visto parlando degli anni trenta e cinquanta la presenza dominante del costume nazione, la canzone è diventata nell’epoca della televisione uno dei capisaldi della programmazione leggera. Da Canzonissima “nasce” Mina. Il Festival di Sanremo diventa infine l’unico grande appuntamento in diretta della programmazione annuale del palinsesto televisivo. Sul piano artistico la storia del Festival è in primo luogo la storia dell’adattamento fra un evento, nato e concepito per la radio, e la ripresa televisiva; sul piano sociale essa è anche la storia di una progressiva unificazione del pubblico che vede rispecchiati i suoi gusti musicali. Avventure della scienza, di Enrico Medi, fu la prima trasmissione tv ad aprire le porte dei laboratori scientifici. 20 gennaio 1963 TV 7 di Enzo Biagi: nuova rubrica giornalistica in cui era già possibile scorgere i caratteri del moderno news magazine. Specchio segreto di Nanni Loy vuol cogliere le reazioni più immediate di persone comuni attraverso una telecamera invisibile o camuffata. Il programma, ricalcato sul modello americano Candid Camera non è trasmesso in diretta, ma opportunamente montato e messo in onda con l’autorizzazione degli involontari protagonisti. QUEL PICCOLO, QUASI INTIMO STRUMENTO… La prosa televisiva raddoppia la sua dimensione produttiva, diventa un vero e proprio laboratorio linguistico da cui prendono corpo non solo gli spettacoli propriamente teatrali, bensì una serie di forme derivate, fortemente dipendenti dall’origine scenica e dislocate trasversalmente nei macrogeneri del palinsesto televisivo. Il teatro si avvale degli elementi propri del linguaggio elettronico realizzando vere e proprie messinscene d’autore. Dopo la seconda metà degli anni sessanta, il modello linguistico della tv-teatro si rivolge di preferenza verso temi di attualità o di ricostruzione storica, trascurando testi di stretta origine teatrale. Il telefilm americano, anche europeo, padrone di molte serate televisive, non sembra più incontrare il favore del passato e dal 1964 nelle preferenze del pubblico, il grande film popolare e il film d’autore occupano ormai il primo posto. Se nel 1965 la rai produce 9 telefilm italiani contro 142 americani, già nel 1968 si contano 39 telefilm italiani contro 62 americani. La radio intanto, sembrava aver perduto molte delle sue qualità. I tempi cambiavano velocemente e la radio ne restava in qualche modo tagliata fuori. Ormai era chiaro che la radio non sarebbe stata mai più quella di una volta. Da questo momento la radio sarà soprattutto un mezzo consumato nelle ore mattutine. Maurizio Costanzo, che nel suo Cabaret delle 22 del 1965 inaugura la gentile chiacchiera da salotto su usi e costumi dei suoi concittadini che in seguito lo renderà famoso. Sempre nello stesso anno nasce il popolarissimo Bandiera gialla di Gianni Boncompagni “severamente vietato ai maggiori di anni 18”, nel quale c’è già molto delle trasgressive impertinenze del futuro Alto gradimento. I nuovi appuntamenti sportivi della domenica, Tutto il calcio minuto per minuto e 90° minuto. Con l’avvento del transistor – e quindi con la rivoluzione delle dimensioni ed una migliore maneggevolezza dell’apparecchio – la radio accentua la propria peculiarità di mezzo di comunicazione individuale. La riforma della radiofonia promossa dal suo direttore, Leone Piccioni, nel 1966 non è una semplice operazione di cosmesi, ma un autentico rinnovamento di modelli, di palinsesti, di programmi. Di fatto, vengono ideate e prodotte trasmissioni destinate ad entrare nelle abitudini di ascolto di un pubblico che è, inscindibilmente, soprattutto spettatore televisivo. La radio portatile fu un’invenzione che non ha esaurito la sua portata innovativa solo nel diffondere l’apparecchio oltre le mura domestiche ma ha comportato attraverso lo spostamento fisico e psicologico del luogo di ricezione, anche la perdita di qualsiasi ritualità nell’ascolto tradizionale. Nel tempo dell’opulenza televisiva la radio è andata trasformandosi in una compagna discreta della giornata. Anche l’apparato radiofonico si sposta verso forme e qualità dei messaggi che privilegiano il riferimento al singolo, spesso solitario, ascoltatore. La radio sembra così avere ritrovato storicamente un ruolo e una funzione di nuovo adeguati alle caratteristiche del suo linguaggio. L’innovazione tecnologica coincide con il formarsi di una cultura marcatamente giovanile, che rintraccia nella musica rock più che nel cinema i propri miti e modelli di comportamento. La radio insegue i suoi nuovi ascoltatori, soprattutto giovani e casalinghe, negli spazi non occupati dalle trasmissioni televisive. Verso la fine degli anni sessanta, al contrario, si avverte l’esigenza di offrire ai programmi di più ampio respiro e dal marchio doc: non più tanti quiz, tanto varietà, tanta prosa ma poche produzioni mirate a precise fasce di utenza e professionalmente garantite da personaggi di indiscusso gradimento. La riforma della radiofonica nel 1966 è un autentico rinnovamento di modelli, di palinsesti, di programmi. Di fatto, vengono ideate e prodotte trasmissioni destinate ad entrare nelle abitudini di ascolto di un pubblico che è, inscindibilmente, soprattutto spettatore televisivo. L’apparato mette ancora in atto strategie di ascolto radiofonico di massa in quegli spazi dove minore risulta l’incombenza televisiva. E se la tv ha ormai generato l’abitudine al venerdì della prosa, la radio punta decisamente sulla serialità proponendo soprattutto a un pubblico di casalinghe, la formula inedita della Commedia in trenta minuti, con altissimo gradimento. Particolare attenzione viene dedicata al pubblico giovanile, la radio assume con naturalezza un ruolo privilegiato nei gusti della nuova classe generazionale che si va formando. Gran varietà presentato da Johnny Dorelli. Da ricordare Radiosera. Dal 6 marzo del 1966 nell’etere italiano c’è una presenza nuova, la nascita di una stazione radiofonica dedicata al mercato italiano, anche se collocata in territorio estero. La società della nascente Radio Montecarlo per l’Italia. In pieno movimento studentesco, la voglia di “chiacchiera” liberamente divagatoria appare anche nei canali della Rai, fino al momento in cui verrà magistralmente interpretata, nei suoi aspetti più corrosivi, dal fenomeno di Alto gradimento. Il 1969 si inaugura con un vero e proprio programma manifesto del nuovo corso dell’etere, chiamate Roma 3131, tre ore si trasmissione quotidiana in diretta telefonica con gli ascoltatori, invitati a raccontare le proprie storie, casi e problemi personali. Con Chiamate Roma 3131 per la prima volta il telefono diventa strumento costitutivo, e non solo occasionale, di un programma radiofonico. Nel periodo in cui la programmazione televisiva raggiunge il massimo di chiusura dell’apparato nei confronti del pubblico, la radio tenta invece proprio attraverso l’uso del telefono, addirittura di sfondare quella barriera di mancanza di risposta che è si è eretta fra emittente e ricevente in tutto il sistema della comunicazione in quel momento. Per mezzo del telefono la radio si apre ai suoi ascoltatori invertendo il senso di direzione del messaggio. Con il telefono la radio sembrava acquistare la possibilità di un feed back in tempo reale. Alla guida della trasmissione c’era Gianni Boncompagni e ricevevano la media di cento chiamate al giorno, nel primo programma, nel successivo fu ampliato sia nella formula che nei tempi e il successo appare senza ventennale fra lo Stato e la Rai che scadeva il 15 dicembre del 1972. In quello stesso periodo cominciano a comparire le prime televisioni locali private via cavo. In questo clima così vario e indefinito prende corpo l’ipotesi di privatizzazione avanzata da Eugenio Scalfari che intravede nella concorrenza fra pubblico e privato l’unica scelta operativa possibile. Il suo ragionamento è semplice: la rai è asservita al monopolio della Democrazia cristiana; gli altri partiti politici, in particolare socialisti e comunisti, ne sono esclusi salvo ricevere poche briciole di potere. Un regime di libera concorrenza fra radiotelevisione pubblica e canali commerciali privati, presenterebbe sicuri vantaggi. Nasce così quella campagna di stampa che, raccogliendo vaste forze imprenditoriali, in dieci anni porterà all’abolizione del monopolio della Rai e conquisterà persino il favore del Partito socialista che, all’epoca, è invece del tutto contrario a ogni ipotesi di privatizzazione. Il problema della riforma della RAI stava tutto nel riuscire a trovare il delicato punto di equilibrio tra le esigenze della collettività. FERMENTI NELL’ETERE A partire dall’autunno del 1973 la grande crisi che investe tutti i paesi capitalistici colpisce anche l’Italia con pesanti ripercussioni sulla sua politica economica e sociale, che durano per tutto il corso degli anni settanta. Diventata una delle nazioni più industrializzate del mondo, l’Italia si trova esposta a una forte ondata di recessione. La crisi non determina tuttavia stagnazione ma crea nuove forme di aggregazione, nuove mode, e contemporaneamente distrugge vecchi valori e vecchie mentalità. Il modello americano è alla base della formazione di un nuovo quadro sociale ma, per quanto riguarda la nuova fase della produzione e del consumo radiotelevisivo che si sta aprendo, esso sarà mediato e trasformato da caratteristiche del tutto italiane, al punto di renderlo irriconoscibile. Nel 1970, la Mondadori, la Rusconi, l’Olivetti cominciano ad interessarsi al prodotto audiovisivo e a studiare la possibilità di sfruttamento commerciale delle nuove tecniche di riproduzione elettronica dell’immagine. Ma la vera novità è rappresentata dall’interesse che si sta manifestando nei confronti della tv via cavo come mezzo di comunicazione di massa. Per le sue caratteristiche la CATV (Community Antenna Television), nata in America negli anni cinquanta, presenta tutti gli elementi di una televisione alternativa e quindi viene pensata, come lo strumento più adatto per concorrere, in maniera agile e con investimenti limitati, con il colosso RAI. Mentre il servizio pubblico si rivolge a un pubblico di massa, la tv via cavo si rivolge a un pubblico limitato e facilmente identificabile. Non a caso la prima televisione privata che nel 1971 riesce a trasmettere in Italia è proprio una televisione di questo tipo: Telebiella. Dopo aver cominciato a trasmettere regolarmente, Telebiella viene fatta tacere nel gennaio del 1973. Solo un pronunciamento della magistratura autorizzò l’emittente a riprendere la sua attività. Ancora una volta è nell’ambito della Costituzione che vengono definite le regole. In quegli stessi mesi un altro fenomeno sembrava mettere in serio pericolo la sua sicurezza. Si trattava della presenza in Italia dei ripetitori della Svizzera italiana e di Capodistria che consentivano la ricezione dei programmi di queste emittenti in diverse regioni del paese. La RTSI e Tele Capodistria trasmettono già a colori e rappresentano, per molti italiani, una novità allettante: i campionati mondiali di calcio disputati nel 1974 in Germania federale furono in moltissimi casi seguiti attraverso le trasmissioni a colori delle due stazioni estere, con un notevole svantaggio per la Rai. Non fu certo casuale, dunque, se la prima delle due rivoluzionarie sentenze emesse dalla Corte costituzionale nel luglio del 1974, la n. 225, riguardasse proprio l’illegittimità del decreto con cui un mese prima, il 7 giugno, il nuovo Ministro delle poste Togni aveva ordinato lo smantellamento dei ripetitori delle due emittenti straniere. È questa una prima grande svolta giuridico-istituzionale: la sentenza osservava che “la riserva dello Stato trova il suo presupposto solo nel numero limitato delle bande di trasmissione riservate all’Italia” e che quindi l’abbattimento dei ripetitori delle televisioni straniere avrebbe costituito una sorta di sbarramento “alla libera circolazione delle idee” compromettendo un bene essenziale della vita democratica. Nella prima delle sue sentenze la Corte aveva inoltre osservato che le norme regolatrici dell’esercizio radiotelevisivo svolto dalla Rai non offrivano sufficienti garanzie di imparzialità, obiettività e pluralismo, qualità considerate essenziali per la stessa permanenza in mano pubblica dell’attività ad essa riservata. Con le sue sentenze la Corte aveva certamente impresso un’accelerazione decisiva al processo di riforma, ma aveva anche determinato un vuoto legislativo suscettibile di essere colmato dall’intervento dell’iniziativa privata. Attraverso numerose possibilità di interpretazione legislativa si fanno strada, dall’estate del 1974, le prime esperienze di emittenti “libere” via etere. Il 5 agosto 1974 va in onda la prima trasmissione per l’Italia di Telemontecarlo. Neanche una settimana dopo, il 10 agosto, Firenze Libera inizia le trasmissioni via etere. Ovviamente sono in palese contrasto con la sentenza della Corte costituzionale che autorizza le trasmissioni televisive locali soltanto via cavo; cionostante nascono numerose altre tv locali che trasmettono via etere. Tra il 1974 e il 1975 spariscono dalla scena quasi tutte le tv via cavo sostituite s tv via etere, mentre la convenzione fra lo stato e la rai, in assenza di una legge, viene prorogata attraverso provvedimenti limitati nel tempo. Nel settembre del 1974 Silvio Berlusconi, un dinamico costruttore edile, fa nascere Telemilano via cavo, e nell’ottobre si costituisce l’Anti (Associazione nazionale delle teleradiodiffusioni indipendenti) che raggruppa già 24 stazioni. Il 30 novembre 1974 la proroga della concessione accordata alla Rai arrivava intanto al suo termine. Dopo un’ampia discussione, la legge n. 103 (riforma Rai) venne finalmente approvata il 14 aprile 1975. La legge si basava su tre grandi nodi fondamentali: a) la riserva allo Stato della diffusione dei programmi su scala nazionale. La Rai inoltre, sarebbe stata gestita e controllata dal parlamento e non più dall’esecutivo; b) le istanze locali e le esigenze di decentramento e di partecipazione delle associazioni dei cittadini alla produzione di messaggi radiotelevisivi venivano affidate alla costituzione di una terza rete pubblica e allo sviluppo di reti televisive via cavo il cui bacino di utenza non doveva superare i 150 mila abitanti, alle quali era vietate l’interconnessione e fatto obbligo di produrre almeno il 50% dei programmi trasmessi; c) la ripetizione sul territorio nazionale di televisioni straniere – che non risultavano costituite al solo scopo di diffondere programmi sul territorio italiano – era consentita in base alla sentenza della Corte cui s’è fatto cenno. Una legge scritta per un contesto monopolistico rischiava di bloccare lo sviluppo di una grande azienda improvvisamente venuta a trovarsi in una realtà di mercato non regolato, a tutto vantaggio dei concorrenti. Il presupposto di questa legge era una valutazione, generalmente condivisa, sulla incapacità della RAI, come si era venuta storicamente determinando, di assicurare una informazione e una programmazione rispondenti alle richieste della classe politica e alle esigenze degli utenti. Non una riforma, quindi, ma una rifondazione. Nel momento e negli anni nei quali la spinta di rinnovamento proveniente dalla società e successivamente il vasto movimento di partiti politici e di opinione pubblica tenta e in parte ottiene la democratizzazione della RAI, spostandola sotto il controllo del parlamento, questa si verrà a trovare in una condizione di scarsissima operatività a causa di innumerevoli lacci e lacciuoli che la legge le aveva posto e che le impedivano di fronteggiare ad armi pari la concorrenza con la televisione commerciale, ben altrimenti libera di muoversi, al riparo del vuoto legislativo una volta divenuta adulta. Quando nel 1976 completato il processo delle nomine e attuata la nuova struttura organizzativa, la concorrenza tra la prima e la seconda rete televisiva divenne un’occasione per dispiegare il massimo delle sue potenzialità, la Rai scopriva la sua arretratezza organizzativa, legislativa, e tecnologica. Una legge scritta per un contesto monopolistico rischiava di bloccare lo sviluppo di una grande azienda improvvisamente venuta a trovarsi in una realtà di mercato non regolato, a tutto vantaggio dei concorrenti. Un altro intervento della Corte costituzionale cambia nuovamente le regole del gioco. È la sentenza n. 202 del luglio 1976 che dichiarando incostituzionali gli articoli 1, 2, 14, 45 della neonata legge 103 autorizza le trasmissioni via etere di portata non eccedente l’ambito locale. È la definitiva mossa liberalizzatrice. D’ora in poi sarà solo questione di tempo. In questo periodo nascono moltissime emittenti televisive, e radiofoniche. I terreni strutturali che consentirono la crescita della televisione commerciale in Italia, oltre quello politico, furono soprattutto due, uno di carattere tecnologico e uno di carattere merceologico. Innanzitutto la riduzione anche in termini fisici oltre che di costo, dei principali apparati necessari all’esercizio della televisione; e in secondo luogo la diffusione del telecomando, cioè l’abitudine a selezionare un numero di canali sempre più crescente. Nel gennaio del 1976 vede la luce un progetto di legge, primo di una lunga serie di proposte, presentato dal deputato democristiano Simonacci per regolamentare le radio e le televisioni private (Tra le novità del periodo in oggetto, vanno citate la miniaturizzazione dei mezzi tecnologici e la diffusione del telecomando). CATV: (Community Antenna Television) PICCOLE ANTENNE CRESCONO Apparentemente intangibile da questi avvenimenti, la radio viveva una delle stagioni migliori della sua storia sull’onda lunga del rilancio voluto da Leone Piccioni nel 1966. La radio era il mezzo sul quale lo spirito del ’68 aveva avuto una notevole influenza. Il ’68 aveva inaugurato un decennio di creatività diffusa che trovò nella radio, pubblica e poi privata il suo sbocco naturale. Questa creatività intelligente venne rivelata proprio da una trasmissione della RAI, alto gradimento, nata nel 1970 dall’incontro di due figure ben note: Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. La più stravagante galleria di personaggi del repertorio radiofonico aveva “letteralmente messo in scena le tecniche trasgressive proprie dell’avanguardia. Quella straordinaria trasmissione diventerà il modello di quasi tutte le radio libere apparse nel corso del decennio. Senza Alto gradimento è impossibile capire nella sua totalità il fenomeno dell’emittenza privata, del suo linguaggio iterativo e afasico, del suo ascolto epidermico e trasversale. È l’inizio di un vero e proprio boom: solo pochi mesi e le radio locali sono già più di 150. Alla base di questa rapidissima affermazione c’è la volontà di supplire alle carenze del servizio pubblico. Sulla radio della rai pesano gli effetti negativi dell’accentramento organizzativo e produttivo in un momento di tumultuoso bisogno di partecipazione che sale da tutto il paese. La radio ritorna ad essere, come nei tardi anni quaranta, un mezzo di forte carica simbolica per chiunque voglia affermare la propria autonomia o rivendicare una funzione rivoluzionaria nella società. Ciò esprime un bisogno incoercibile delle masse di non essere più soltanto soggetti passivi della comunicazione, ma di impadronirsene per far ascoltare la propria voce. A Roma comincia a trasmettere Radio Città Futura (di Renzo Rossellini, figlio del noto regista): emittente fortemente politicizzata, che si propone un vero e proprio obiettivo di lotta contro “l’informazione borghese”. A Bologna nasce Radio Alice e altrove Radio Radicale. Le più autorevoli di questo genere di emittenti si costituiscono in Federazione, la Fred, per contrastare qualsiasi forma di oligopolio nell’emittenza privata. Nel luglio del 1976 la Corte costituzionale liberalizza le radio e le televisioni via etere di portata non eccedente l’ambito locale. È la radio in questo momento il fenomeno più vistoso. Alla base del successo vi è certamente la capacità di aver saputo adeguare il mezzo radiofonico alle esigenze della società. L’emittenza privata aveva posto alla RAI la necessità di ripensare i suoi programmi, già in grande calo d’ascolto, onde far fronte a una concorrenza spesso di bassa qualità ma di elevato valore sociale, commerciale, e li a poco anche industriale. l’emittenza radiofonica privata sembrava quindi avviarsi a delineare un proprio assetto ben definito: stabile il numero delle stazioni; ripartito a metà con la RAI l’ascolto complessivo; avviato un processo di riorganizzazione. Ma tutta questa attività non era regolata da alcuna normativa. Inizia una fase di transizione che possiamo collocare intorno al 1977-80. Sono gli anni di piombo che insanguinano il paese. Sono anche gli anni in cui si progetta e si lancia la nuova terza rete televisiva, in cui nascono le prime concessionarie di pubblicità. Da questo momento la Rai si trova a subire le conseguenze di una doppia legge: quella di riforma e quella del mercato. RETI E TESTATE Con la nuova struttura organizzativa, conseguente alla legge del 1975 aveva fine un lungo periodo di incertezza nella gestione della concessionaria. Il presidente Delle Fave e Bernabei si dimisero sostituiti da Beniamino Finocchiario, e un funzionario di partito Michele Principe, che un monopolio iperprotetto dalla mano pubblica, ma del tutto inadeguate a rilanciare un’azienda produttiva. Un nuovo gruppo dirigente si metteva al lavoro per gestire un sistema molto meno agile del precedente. La società italiana aveva imboccato nuove direzioni di marcia che la vecchia televisione non riusciva più a riflettere e la nuova, non ancora nata, non poteva ancora registrare. La nuova spinta, il nuovo modo di essere la nuova televisione, più libero e più spregiudicato, sarebbe nato dalla concorrenza con la televisione commerciale. Soltanto dal 1 febbraio 1977 la RAI aveva avviato ufficialmente le trasmissioni televisive a colori: un ritardo che aveva pesato su tutto il comparto della nostra industria elettronica. La tv cambia volto, cambia la domanda e l’atteggiamento del pubblico nel momento in cui cambia la società italiana. La rottura del monopolio non fu una causa ma un effetto necessario di questa trasformazione che la politica riuscì a governare solo in parte. Soltanto con la rottura del monopolio, l’azienda, anche se a tentoni inizialmente ma con forte dinamismo nel volgere di due anni, riuscirà a superare il vecchio modello di consumo recuperando la sua dimensione d’impresa. Senza il contesto esterno, la RAI sarebbe rimasta un ente monopolistico e ministeriale del tutto scollato dalla realtà del paese. Tuttavia la rai, intorno alla metà degli anni settanta, continuava ad essere il punto di riferimento centrale per la di palinsesto tradizionalmente intoccate da questo genere. Dopo la riforma, l’obiettivo di allargare il consumo televisivo, ottenuto con il potenziamento delle fasce di ascolto, modifica quindi spazi, ruoli e punti di riferimento nei confronti del pubblico. Il modello di questo nuovo stile è già presente in un programma del 1969, Speciale per voi di Renzo Arbore. Mescolando insieme gli argomenti più eterogenei presi dal mondo dello spettacolo, della moda, del costume e della cultura, il programma era diretto a un pubblico giovanile ma con la tentazione di riuscire a interessare anche gli adulti. Dopo otto anni nel 1976 Roberto Benigni utilizza ancora una volta stili, tempi e linguaggi del giovanilismo consacrando il genere della comicità demenziale ormai dilagante. La trasformazione dello spazio domenicale diventa inoltre uno dei punti di forza della strategia dell’incremento del consumo e la nascita nel 1976 dei due grandi contenitori L’Altra Domenica e Domenica in… sancisce definitivamente l’inizio di una nuova epoca. Il contenitore della seconda rete, l’Altra domenica con Renzo Arbore è il primo della rai riformata a sfondare il muro di un grande successo, ma avrà vita breve. Non così quello della prima rete, che dura tutt’oggi. E come la radio, la televisione è accesa per tradizione, per compagnia, rumore di sottofondo. È l’italia moderata e pantofolaia. Con il telecomando lo si può abbandonare e riprendere senza timore di aver perso qualcosa di particolarmente significativo. Nasce da questo genere (Domenica in…) la televisione senza qualità che sarà tipica degli anni ottanta; essa si fonda su un modello Rai introdotto al solo scopo di aumentare il consumo, dilatare l’audience. In realtà la televisione, da questo punto di vista, non ha inventato nulla; ha solo vampirizzato la radio, svalutando perfino la qualità stessa della parola, che alla radio è quasi sempre elevata, per ridurla, a chiacchiera sbiadita e generica. Il talk show nasce quindi dal flusso comunicativo dei tardi anni settanta come risposta al clima di inquietudine sociale generato dal terrorismo e dagli effetti della crisi economica. Dal punto di vista della strategia complessiva della RAI il genere fa balenare alti indici di ascolto ottenuti attraverso costi assai limitati. Bontà loro con Maurizio Costanzo è il prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessarsi. Bontà loro è storicamente un programma geniale; in un paese non abituato a conversare, Costanzo seppe fare della conversazione un atout di successo. Da ricordare Portobello (condotto da Enzo Tortora): frutto di un primo grande cedimento dell’apparato televisivo pubblico alle zone d’ombra delle televisioni private, ai loro giochi casalinghi, alle pratiche delle compravendite attraverso il video, all’uso ripetitivo del telefono. In realtà a pensarci bene, più di dieci anni prima Sergio Zavoli con Processo alla tappa aveva tentato una operazione quasi identica: parlare con personaggi apparentemente comuni, trattandoli con una attenzione facendo loro confessare ciò che essi stessi non avrebbero mai pensato di poter dire. Indipendentemente dalla volontà dell’apparato riformato, la televisione sta imboccando per effetto del meccanismo di concorrenza una strada totalmente estranea al quadro progettuale e alle intenzioni dei responsabili di rete. 13. NEL MERCATO ELETTRONICO il monopolio spezzato Tv “Generalista”= Televisione che trasmette una mescolanza di generi diversi, dall’informazione allo spettacolo, sino alla cultura. La nuova proposta politica che si ispirava a un compromesso storico tra le grandi forze popolari non ebbe nelle riforme degli anni settanta quell’esito da molti auspicato. Lo spettro del terrorismo era presente dappertutto e solo l’economia cominciava a dare segni di forte ripresa. Anche il sistema della comunicazione presentava uno scenario piuttosto critico. Il processo di modernizzazione sembrava essersi arrestato. Ed ecco che in soli tre, quattro anni l’intero settore dei media in Italia venne completamente sconvolto, con un profondo rinnovamento nella cultura e nelle strategie della comunicazione. Il cambiamento avvenne all’insegna della liberalizzazione dell’etere. La modernizzazione ulteriore della società italiana non sarebbe stata possibile senza la fortissima innovazione tecnologica e culturale intervenuta nel comparto industriale dei media. In quello che possiamo chiamare il suo stadio maturo ( dagli anni cinquanta all’inizio degli anni ottanta), la televisione si è presentata come un sistema di offerta di programmi via etere rivolta a un pubblico di massa e tuttavia, rigorosamente rinchiusa nei confini nazionali. Questa tv, definita generalista per il fatto di trasmettere una mescolanza di generi diversi ha replicato con la forza dell’immagine il capillare potere di diffusione già esibito dalla radio. Il nuovo arrivo ha moltiplicato la scala del pubblico, ma lo ha rinchiuso nel guscio domestico. Inoltre poco a poco si è sottomessa ad inserzionisti disposti a pagare pur di farsi aprire il piccolo schermo a marchi e prodotti. Più spettatori, più introiti pubblicitari, più profitti. In europa lo stato non ha rinunciato al controllo di uno strumento tanto importante nella formazione della pubblica opinione e nella trasmissione di valori e conoscenze: da qui, sulla linea indicata dalla BBC negli anni venti, la costituzione di concessionarie di un servizio pubblico in regime di monopolio, garantite da un canone e incaricate di gestire una programmazione non rivolta all’inseguimento del massimo ascolto, quanto gelosa delle minoranze e consapevole di un compito di grande responsabilità. All’inizio degli anni ottanta lo scenario muta. In Europa in particolare, la traiettoria del cambiamento è duplice: da un lato si rompe la tradizione del monopolio e si afferma il sistema misto, dall’altro irrompono le nuove tecnologie. Il pluralismo interno, che la tv pubblica si è data con il varo di nuovi canali e una strategia di decentramento, non basta più. Anche per la tv del vecchio continente arriva il mercato e con esso competitors agguerriti che si contendono shares e utenti di pubblicità, esattamente sulla falsariga di quanto già accadeva da decenni in America. La novità costringe i servizi pubblici di radiotelevisione a ripensare compiti e funzioni. Le tv pubbliche sono chiamate a ricodificare il broadcasting. Che cosa aveva caratterizzato il sistema tradizionale del broadcasting nella televisione monopolistica? Innanzitutto la sua separatezza dal circuito economico, con una risorsa pubblicitaria fortemente minoritaria e controllata ( carosello era uno spettacolo più che un volano produttivo). In secondo luogo una forte connotazione educativa, sottratta alla dittatura dell’audience. Infine un mercato di tipo protezionistico dove la riserva del broadcasting allo stato impedisce la presenza di altri soggetti, sia nazionali che stranieri. Il primo cambiamento è un ritorno al privato. Si assiste a una mutazione nei gusti del pubblico, delle sue attese. Un secondo cambiamento riguarda le innovazioni tecnologiche in tutti i campi dell’elettronica, che moltiplicano i canali di diffusione e di utilizzazione dei segnali televisivi. Un terzo cambiamento si verifica nella sfera economica, dove si espande l’ideologia dell’impresa e della competizione che sta alla base degli innegabili successi del sistema produttivo italiano nell’ultimo decennio. L’idea di una radiotelevisione pubblica fondata sulla funzione culturale di servizio entra quindi in crisi per cause oggettivi. Spezzato il monopolio era necessario armonizzare quanto di esso sopravviveva. Nel periodo monopolistico la radio e la televisione si rivolgevano a un pubblico omogeneo ma ci sono tanti pubblici che hanno caratteristiche, gusti e interessi sempre più frammentati. Una domanda culturale così diversificata e cresciuta non avrebbe mai potuto trovare nella televisione monopolistica il proprio soddisfacimento. La storia della radio e della televisione negli anni ottanta si può riassumere sinteticamente così: da un lato un servizio pubblico che deve continuamente ricercare la propria identità e combattere per la sua sopravvivenza minacciata da molteplici fattori di cambiamento; dall’altro una televisione privata che assume subito una precisa identità, quantomeno merceologica, che lotta anch’essa per la sua affermazione. Poco a poco cominciava a diffondere in italia una opinione che il servizio pubblico non era più in grado di corrispondere a una situazione così profondamente mutata, e che le nuove opportunità offerta da un sistema di libera concorrenza doveva essere sfruttate fino in fondo proprio per favorire libertà. Cominciava una lotta combattuta senza esclusione di colpi tra la radiotelevisione pubblica e il gruppo privato che era riuscito per l’abilità di un imprenditore come Berlusconi, a conquistare una posizione di asosluto predominio nel mercato dei media. Per la rai comincia un lungo periodo di incertezza del suo ruolo, della sua funzione, della sua influenza. ASSALTO ALLA DILIGENZA L’assenza di una normativa in grado di regolamentare fin dall’inizio del sistema radiotelevisivo, così come le dinamiche economiche, sociali, e politiche lo stavano trasformando, ha comportato in un primo tempo uno sviluppo anarchico e frammentato e in secondo tempo, il formarsi di una gigantesca concentrazione, il gruppo Fininvest, che nella seconda metà degli anni ottanta disporrà di tre network televisivi, un network radiofonico, oltre a notevoli partecipazioni nell’editoria, nel cinema, nell’industria televisiva europea e alcuni giornali. Si possono distinguere due fasi: la prima dal 1976 al 1979, riguarda la veloce proliferazione delle radio e delle televisioni private a carattere locale. La seconda dal 1980 al 1984 vede la formazione di un solo gruppo privato, quello di Silvio Berlusconi, egemone nel panorama dell’industria televisiva nazionale. La maggior parte delle emittenti televisive erano sorte per iniziative di piccoli imprenditori che desideravano sfruttare il mercato pubblicitario locale attraverso l’offerta di programmi acquistati a basso costo. L’iniziativa privata nel settore radiotelevisivo coincide con la scoperta dello sfruttamento della pubblicità locale fino a quel momento rimasta in una zona d’ombra rispetto ai mezzi classici della grande pubblicità. Lo sforzo finanziario sostenuto dagli inserzionisti permette di sostenere economicamente la programmazione delle varie emittenti. Nielsen: una società che si occupa delle rilevazioni per gli investimenti pubblicitari e che suddivide il paese in 4 aree di rilevamento. Nella primavera del 1978 il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera acquista l’intero pacchetto azionario di Telealtomilanese, un’emittente che trasmette su tutto il territorio della Lombardia dagli impianti di Cologno Monzese. In maggio anche Silvio Berlusconi ha una propria emittente via etere, Telemilano, il nucleo di partenza di ciò che diventerà nel 1980 Canale 5. Il mondo politico cominciava a preoccuparsi che l’assenza di regole, formali e sostanziali, nell’uso privato dei mass media provocasse una situazione difficilmente controllabile. Dopo soli due anni il servizio pubblico era costretto a confrontarsi con una concorrenza molto ma molto più dura di quanto non sarebbe stato lecito immaginarsi, ma ormai era tardi. Berlusconi ottiene grandi successi con i film della Titanus, Dallas, e con le trenta puntata de I sogni nel cassetto, un quiz condotto da Mike Bongiorno, passato alla concorrenza. Un importante punto a suo favore segna invece Silvio Berlusconi quando esce vincente, anche se in base a un accordo di compromesso con la Rai, dalla vicenda del Mundialito. Il primo, clamoroso episodio di una concorrenza ormai evidente tra reti pubbliche e private scoppia nel mese di dicembre (1980) a proposito di un torneo di calcio tra squadre nazionali che si svolge a Montevideo. Berlusconi era riuscito a strappare i diritti per la trasmissione in Italia delle partite, dopo che l’Eurovisione non aveva raggiunto l’accordo con gli organizzatori. Ma la Rai rifiutò a Reteitalia la concessione del satellite. Dopo febbrili trattative, accompagnate anche da aspre polemiche, venne trovato un accordo. L’episodio, era importante perché da quel momento la questione calcio diventerà il principale motivo di contenzioso all’interno di una concorrenza sempre più accesa fra la rai e la televisione commerciale. L’episodio è inoltre importante per valutare già dall’inizio i caratteri della strategia imprenditoriale di Berlusconi che nel volgere di quattro anni, diventerà il dominatore incontrastato del polo privato italiano. Che ciò sia accaduto per i favori e le complicità che l’imprenditore milanese riuscì ad accattivarsi è certamente vero. Ad ogni modo è innegabile che Berlusconi fu il primo a comprendere cosa andava fatto. Andare costruito un modello commerciale fondato non sulla produzione di programmi, troppo costosi e sui quali il margine di concorrenzialità con la rai era ancora smisuratamente a suo sfavore, ma sulla produzione di pubblico, ottenuta attraverso un intelligente sfruttamento della risorsa pubblicitaria. Fare televisione diventava da quel momento un business come un altro. Dal punto di vista delle opportunità Berlusconi ebbe il merito di capire che il motore pubblicitario era il vero centro propulsivo della televisione privata non restava che approfittare abilmente sia della mancanza di regole nel mercato, sia dell’eccesso di regole che imprigionava la RAI. La concessionaria di pubblicità del gruppo Fininvest, la finanziaria che raccoglie ormai tutte le attività dell’imprenditore milanese, fu una delle ultime a comparire sulla scena; tuttavia proprio la nascita di Publitalia ’80 segnò la svolta decisiva nella storia della televisione privata in Italia. Il centro dell’innovazione non fu la televisione ( programmi, palinsesti,) ma la capacità di imprimere una fortissima accelerazione al mercato pubblicitario. Berlusconi aveva compreso tre punti fondamentali: 1) lo sviluppo della programmazione televisiva sarebbe rimasto sempre assai gracile senza una struttura capace di commercializzare il plus di qualità ottenuto; 2) la vendita degli spazi pubblicitari, non poteva essere delegata ad altri, che avrebbero finito per controllare l’impresa televisiva; 3) l’investimento sui programmi, in una dimensione che non fosse condannata a rimanere localistica, era talmente elevato che per finanziarsi doveva necessariamente ricorrere alla pubblicità nazionale. Qui però c’è la forte, pluridecennale presenza della SIPRA, la concessionaria della RAI, con una gestione ancora sostanzialmente monopolistica rispetto alla quale il gruppo privato milanese adotta nuove strategie di marketing che in breve si riveleranno vincenti. IL SISTEMA “MISTO” L’inizio degli anni ottanta, per la Rai riformata, è invece un periodo segnato da una profonda crisi. Da molte parti si sente la necessità di rilanciarne la sua dimensione d’impresa, dopo che anche i più irriducibili difensori del monopolio si sono dovuti rassegnare all’evidenza dei fatti. La conflittualità politica sembra per un momento diminuire. L’innovazione nei programmi e nell’informazione vive una stagione felice. Ma con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel paese vorticoso aumento di immagini apparentemente casuali ma in realtà regolate da un preciso ordine marketing oriented. La pratica della televisione, dispersa in una enorme quantità di canali, ha finito per abbandonare quelle che erano alcune delle peculiarità che avevano caratterizzato, al suo nascere, il mezzo di comunicazione emergente nell’ambito della cultura di massa. La proliferazione delle emittenti, con il suo flusso omogeneo e indifferente di messaggi e di informazioni, aveva vanificato l’elemento primario della sua capacità comunicativa: il genere. Il suo talento non è quello di saper produrre buoni programmi, come ci aveva abituato la televisione pubblica, bensì di produrre quote sempre più ampie di pubblico da vendere al mercato degli investitoti pubblicitari. Non potendo vendere i propri prodotti direttamente al pubblico, la tv vende infatti ai pubblicitari l’audience, cioè una certa quantità di pubblico misurabile con gli indici di ascolto. La tv commerciale diventa così un grande Carosello, uno spettacolo messo in scena per promuovere l’ascolto dello spot che deve essere così incisivo da costringere lo spettatore a comperare le vere merci. Così nell’offerta della televisione commerciale i programmi, ancor prima di sedurre il pubblico, devono essere di gradimento degli investitori. È il mercato delle merci, quindi che imposta e costruisce il palinsesto di questa neo televisione. A distanza di tanti anni, il modello americano determina di nuovo le scelte della televisione italiana. Negli anni cinquanta si era trattato di un modello culturale sul quale si erano formate diverse tipologie di programma; negli anni ottanta si tratta di un modello economico che riguarda l’arte di saper vendere i prodotti, il packaging, l’autopromozione, le tecniche di distribuzione del palinsesto. Tutto questo nelle reti di Berlusconi avviene poco per volta, inizialmente senza alcun ricorso a indagini e ricerche di mercato, per l’intuito eccezionale del patron che tutto governa e tutto decide. È da questa particolare esigenza di competitività con il modello della rai che i network sviluppano una strategia del tutto opposta a quella della prima fase dell’emittenza locale riqualificando le tecniche di scrittura del palinsesto e cercando di rendere effettivamente catturabile il maggior numero di spettatori potenziali. L’allungamento degli orari di trasmissione e il massiccio aumento dei generi di acquisto furono i primi livelli sui quali venne impostato il cambiamento. La seconda intuizione dei network fu quella di organizzare gli appuntamenti dei programmi in senso orizzontale e quotidiano, replicando lo stesso schema per fasce orarie durante tutti i giorni della settimana. Come abbiamo già osservato alla Rai il primo a capire il senso di questa rivoluzione fu Angelo Guglielmi programmando un telefilm per ragazzi, Furia cavallo del West, tutti i giorni nella fascia preserale. Berlusconi capì che la ripetitività dei prodotti seriali andava potenziata e sviluppata. Dallas che la rai aveva trasmesso come riempitivo, nelle mani di Berlusconi divenne un’abitudine di ascolto. In Fininvest la diversificazione delle reti è attuata soprattutto in relazione alla richiesta del mercato pubblicitario, dove l’ascolto è solo l’indicatore di un potere di acquisto delle merci e non, come per la Rai, un rivelatore di successo e di prestigio (= Rivoluzione del palinsesto). Carlo Freccero, Roberto Giovalli, Giorgio Gori, e in seguito Michele Franceschelli, sono gli uomini che hanno fatto grandi le reti Fininvest. Angelo Guglielmi, in Rai, fu il primo a intuire (molti anni prima) il senso di quel cambiamento (vale a dire appuntamenti dei programmi in senso orizzontale e quotidiano) programmando un telefilm per ragazzi, Furia cavallo del West, tutti i giorni nella fascia preserale. LA NEOTELEVISIONE Lo spettatore si scuote dall’inerzia e da terminale passivo della programmazione, comincia a diventare l’artefice dei propri palinsesti. La condizione tecnologica è esaudita da uno strumento che consente di saltare da un canale all’altro e di scandire secondo ritmi assolutamente personali i percorsi del consumo. Nessuna tutela, nessuna garanzia per i produttori, lo zapping attraverso il telecomando aggira qualunque progetto di rete e soprattutto è il primo indizio di un’incrinatura nel sistema articolato quanto si vuole ma tuttora monolitico, del broadcasting televisivo. Si rompe una dittatura e viene sconvolto un rapporto unidirezionale. Grazie alla nuova tecnologia della videoregistrazione domestica poi, i programmi si autonomizzano dal flusso dei palinsesti e dalle costrizioni spazio-temporali. I new comers si chiamano pay tv e satelliti, televideo e alta definizione. Il telecomando aveva determinato una liberazione dalla schiavitù del monocanale. Il cambiamento rifletteva sulla mentalità della gente. Questa nuova fase venne definita “neotelevisione” da Umberto Eco. La neotelevisione ha ridisegnato completamente il rapporto di coinvolgimento dello spettatore. Fin dall’esordio l’apparato televisivo pubblico ha innegabilmente assolto a una funzione importantissima di diffusione culturale e di servizio sociale. La neo tv determina un sostanziale ridimensionamento di questa funzione anche perché contemporaneamente, si assiste allo sviluppo di altre fonti di approvvigionamento culturale del pubblico, soprattutto in campo editoriale e musicale. La progressiva scomparsa di programmi tradizionalmente culturali non è quindi da addebitarsi a una malvagia volontà di abbrutimento mercantile ma è il risultato di una nuova funzione che lo spettatore attribuisce all’atto di vedere tv. La paleo tv aveva un ruolo materno, attento all’educazione e alla formazione dell’utente e viene sostituito da un ruolo di compagno di giochi. Dalla serialità della fiction televisiva nasce l’estetica della ripetizione, che pervade tutta l’esperienza della nuova cultura di massa. Un’estetica della ricezione fondata sul frammento. I varietà domenicale di tutte le grandi reti nazionali presentano ormai tutti questo carattere di ascolto frammentato che non risparmia neanche l’informazione. è in questo campo infatti che la neo tv produce con la grande svolta degli anni ottanta, i suoi effetti più rilevanti. Sempre e ancora l’America è all’origine di quella pratica dell’infotainment ( information and entertainment) che nel nostro paese appare ormai senza limiti, rintracciabile in qualsiasi angolo della programmazione. La televisione verità, da Io confesso a Chi l ha visto? Un’altra caratteristica fondamentale della neo tv strettamente dipendente dalla sua matrice pubblicitario-commerciale è il progressivo consolidarsi del mezzo come canale di comunicazione politica. È new politcs, di una crescente influenza dei media sulla vita politica. Con gli anni ottanta, l’egemonia pubblicitaria e la moltiplicazione dei canali spostano l’interesse per i media da parte degli apparati politici su un piano istituzionale, imprenditoriale, legislativo. Fu nella campagna elettorale del 1983 che le televisione private e in primo luogo i maggiori network commerciali italiani hanno svolto un ruolo non secondario di comunicazione politica, sia organizzando trasmissioni giornalistiche elettorali, sia vendendo spazi pubblicitari ai partiti e ai candidati. NULLA E’ PIU’ DEFINITIVO DEL PROVVISORIO Nell’ottobre del 1984 alcuni pretori decisero di oscurare le reti Fininvest in tre diverse regioni, Lazio, Piemonte e Abruzzo: una decisione maturata in una fase di forte attivismo, in molti campi, della magistratura italiana. Il ricorso al decreto, emanato dal governo Craxi, si rese necessario per riaprire le stazioni oscurate. Decaduto per scadenza dei termini ne venne emanato un secondo, il 6 dicembre, che sarà poi convertito nella legge n. 10 del febbraio 1985. Una legge certamente favorevole alla Fininvest, che modificava anche alcune regole riguardanti la Rai, aumentando addirittura i poteri del direttore generale, limitando quelli del consiglio di amministrazione. Era un elemento di stabilizzazione ancorché momentaneo. Agli inizi del 1985 si crea la Federazione radio e televisioni che raggruppa le televisioni e le radio locali e nazionali private, fra le quali le reti di Berlusconi, Euro Tv, Rete A e Tele Elefante. Il primo contratto collettivo di lavoro normalizza infine anche il settore privato della radiotelevisione. Solo con la SIAE resta aperto un contenzioso che le reti private si mostreranno sempre riottose a conciliare. Nel quadro giuridico provvisorio delineato dalla legge n.10 dal 1985, una sentenza della magistratura romana aveva dichiarato legale, alla fine di quell’anno, l’interconnessione di contenuto,, mediante cassette registrate, su scala nazionale. Ma all’inizio del 1986 per iniziativa della magistratura torinese, si dava ordine di interrompere la diffusione dei programmi delle reti Fininvest in Piemonte. Il Presidente del consiglio Craxi disapprovò. Anche questo episodio fu risolto rimettendosi all’interpretazione della sentenza della corte costituzionale del 1976. Inoltre nell’ottobre del 1986, dopo tre lunghi e angosciosi anni di paralisi, la Commissione parlamentare di vigilanza in base alla legge n.10 eleggeva il nuovo consiglio di amministrazione della rai con un nuovo presidente. Ancora una volta in assenza di una legge era stato possibile soltanto identificare i grandi problemi in discussione. Come ebbe a dire lo stesso Berlusconi, tra fare la legge e fare la televisione si era preferito fare la televisione. SUL SIGNIFICATO DI “POPOLARE” Questa politica aveva indubbiamente assicurato alle televisioni private l’egemonia del mercato, all’interno di quel duopolio che ormai era chiaro aveva finito per stabilirsi nel sistema italiano ma non l’egemonia dei programmi. La centralità della RAI in questo senso sembrava imbattibile, come imbattibile era stata la determinazione di un gruppo dirigente di resistere all’attacco della concorrenza. L’uso della diretta, ancora monopolio della rai, consentiva un margine di supremazia, soprattutto nel campo dell’informazione, che difficilmente poteva essere abbattuto. Eppure proprio il giornalismo televisivo del servizio pubblico sembrava non essere in condizione di sfruttare pienamente questo vantaggio. I telegiornali arrancavano nella loro ritualità quotidiana, più vicina alla radio e sempre meno alla televisione. Dopo il terremoto del 23 novembre del 1980 la radio e la televisione hanno scritto una pagina straordinaria di giornalismo popolare., nel senso di vicino alle attese del popolo. Il giornalismo popolare più che dagli scarni telegiornali è stato fatto da tutte le trasmissioni che fin dall’esordio della tv, hanno mostrato la realtà, sostituendosi a essa con la forza delle immagini che vivono sempre di vita proprio. Nel giugno del 1981 l’agonia e la morte di un bambino, Alfredino Rampi di Vermicino, un paese nei pressi di Roma, precipitato in un pozzo artesiano per cause accidentali, sono documentate dalle telecamera della RAI che seguono e trasmettono a reti unificate le operazioni di soccorso per 18 ore consecutive. È la più lunga diretta della storia della RAI, che vede crescere di ora in ora il pubblico fino a segnare il record d’ascolto di 30 milioni di telespettatori. Dopo il terremoto è questo il secondo grande evento che la televisione registra. Nel caso di Vermicino ben tre volte la RAI aveva deciso di sospendere la diretta, ma ciò non fu possibile per la protesta di migliaia e migliaia di telefonate contrarie a questa decisione. L’arrivo di Sandro Pertini mostrò al paese la parte migliore dello Stato e nel suo capo gli italiani riconobbero il simbolo della totalità nazionale della tragedia. In anni più vicini, una sciagura naturale, l’alluvione in Valtellina, metteva in scena uno spettacolo molto simile a quello di Vermicino ma rivelava nell’informazione televisiva una diversa funzione sociale. L’esito della tracimazione pilotata del Lago Pola era assolutamente incerto, quanto bastava per generare su basi di massa l’aspettativa di una conclusione che si sperava positiva. Un successo di pubblico, anche in questa occasione, inaspettato. In questo caso la tv ebbe una funzione essenziale di sorveglianza. Nessun melodramma tragico ma un uso sociale e popolare del mezzo condotto con grande senso civico. Infine un terzo modello della funzione informativa nella neotelevisione della rai è costituito da quell’aspetto problematico culturale, con forti elementi innovativi rispetto alla tv tradizionale degli anni sessanta, che appare ancora orientato sugli schemi del news magazine. Gli esempi più prestigiosi di questo modello ( linea diretta, Samarcanda) nascono per ragioni eminentemente distributive dell’offerta cioè ragioni di palinsesto. TV SPAZZATURA O TV INTELLIGENTE? Le migliori esperienze di televisione informativa indicano che la supposta centralità dell’informazione va perdendo terreno, almeno nelle aspettative del pubblico se non nelle decisioni e nei regolamenti dell’apparato. Nell’ultimo decennio è proprio sull’intrattenimento, sul varietà, sul programma a contenitore e sul talk show che avviene il confronto qualitativo e spettacolare fra i network e la rai. Nel momento più acuto dello scontro RAI FININVEST, l’ottobre del 1984, fiera di aver provocato addirittura l’intervento del Presidente del consiglio, la Carrà con Pronto Raffaella? Non fa fruttare in termini di ascolto l’investimento fatto dal servizio pubblico. Tuttavia il modello di conversazione a tema inaugura con quel programma una complessa riqualificazione della fascia meridiana su Raiuno ripescando due vecchie conoscenze della radio: Gianni Boncompagni e il telefono. Per un anno alla Carrà e a Pippo Baudo prima di passare entrambi a Berlusconi, vennero affidate le sorti del servizio pubblico perché in realtà la loro proposta spettacolare corrispondeva esattamente alla filosofia dei dirigenti del momento. Passagli gli anni e dal 6 gennaio 1985 anche Canale 5 vuole riempiere di chiacchiere la festività degli italiani e produce Buona domenica. Ma la vera straordinaria rivelazione della televisione commerciale fu nel 1983 Drive in, il programma di Antonio Ricci, il più popolare e innovativo cabaret televisivo degli anni ottanta trasmesso da Italia 1. La Rai risponde con Fantastico (conduce dapprima Pippo Baudo poi Adriano Celentano) che andava in onda il sabato sera sulla prima rete già dal 1975 e rappresentava la prosecuzione di Canzonissima. Dal 1988 invece, sulla Fininvest compare Enrico Montesano. Il varietà televisivo, per la Rai, a dire il vero, nel decennio ottanta era iniziato con un buon programma, quel Te la do io l’America del 1981 con Beppe Grillo e la regia di Enzo Trapani, un viaggio alla scoperta di una America così diversa che assomiglia addirittura all’Italia; in ogni caso un tentativo di realizzare uno show meno convenzionale dei soliti. Programmi di buon livello ma che non potevano competere con Drive in e in ogni caso, concepiti e programmati ancora nella logica dell’appuntamento, entro palinsesti non rinnovati. Dall’aprile del 1985 vanno in onda Quelli della notte di Renzo Arbore e rappresenta nel panorama televisivo di quel momento una invenzione di straordinaria qualità. Ma è Raitre che funge da grande motore dell’innovazione, che rivela personaggi come Piero Chiambretti, che progetta Schegge, Blob. Quest’ultimo è l’autentico fast food della televisione dei nostri anni. Ed è ammirevole la caparbia e dolce volontà di continuare a proporre, con la sua trasmissione, un modello indubbiamente persuasivo di televisione culturale. QUELLA PARTE DI TELEVISIONE CHIAMATA CINEMA Il genere della produzione artistica e industriale che più ha caratterizzato gli schermi della neotelevisione è stato il cinema. Il film entra nella dimensione televisiva. Con il passaggio da un regime di monopolio a un regime di pluralità di reti la competizione si è svolto proprio sul terreno della proposta cinematografica che è diventata l’ossatura della programmazione televisiva, nonostante i costi sempre crescenti. Col tempo, tuttavia, l’offerta si è ampliata a dismisura. Risultato: la saturazione da parte dello spettatore. Nel 1981 venivano trasmessi ormai più di 400 film l’anno e sei anni dopo il numero era arrivato a circa 1.300. fra i 1.300 film della RAI e i 1.770 trasmessi dalla Fininvest il pubblico poteva disporre di ben otto film al giorno, solo su reti maggiori. La crisi del cinema non era solo imputabile all’espandersi della televisione. Molti altri fattori vi concorrevano: il nuovo modo di vivere, lo sviluppo di nuove forme di divertimento come le maxidiscoteche, i grandi parchi di divertimento. E il cinema era incapace di rinnovarsi sul piano creativo e produttivo. Attraverso innegabili successi, l’intervento economico della RAI nel settore della industria cinematografica segnalava che l’obiettivo del servizio pubblico era quello di non essere soltanto distributore ma, a tutti gli effetti, produttore di cinema. Da allora comincia un nuovo periodo, fertilissimo di riconoscimenti, durante il quale il cinema italiano rafforza la collaborazione con la rai. Il cinema di qualità era una strada indubbiamente vincente sul piano dell’immagine, dei riconoscimenti conseguiti ai festival; ma occorreva dar vita anche a una produzione seriale di prodotto medio. Nel marzo del 1987 la rai, attraverso il patto firmato con Cecchi Gori ( prima che si costituisse la Penta Film) impone la sua presenza nei confronti della Fininvest anche nel settore della produzione cinematografica. L’affermazione della Piovra aveva coniugato le ragioni della serialità, con quelle della grande produzione. La fiction televisiva è ormai oggetto di un notevole processo di rivalutazione anche da un punto di vista culturale in quanto specchio della realtà e portatrice di modelli di comportamento. Dal 30 marzo del 1991 anche gli italiani potevano disporre della loro tv a pagamento. LA RISORSA TECNOLOGICA Da alcuni anni sono iniziate sperimentazioni che hanno dimostrato la competitività dell’immagine elettronica in HD soprattutto per le enormi possibilità di manipolazione creativa che essa offre. In grado di rinnovare l’interesse per la televisione e di aprire nuovi e spettacolari orizzonti allo schermo elettronico. Sul versante del consumo il passaggio decisivo è quello dal “televisore” al “video”. Finisce, cioè, la monarchia dei programmi e dei palinsesti etero-diretti, e il vecchio apparecchio diventa il terminale di una rete multimedia: videoregistratore, computer, pay-tv, satellite. Davanti a esso non c’è più uno spettatore, ma un utente, collegato con un sistema di opportunità tecnologiche che modulano, e diversificano, una fruizione sempre più integrata la rai inaugura una strategia produttiva di fiction in alta definizione. Eureka 1995: Progetto patrocinato dalla Comunità europea, con cui le principali industrie elettroniche si accordano per realizzare uno standard di produzione in HD e scendono in campo contro i giapponesi. Nasce RAISAT, un canale sperimentale veicolato sul satellite dell’Agenzia spaziale europea “Olympus”. Parte all’inizio del 1990 i Mondiali di calcio a Roma e le Olimpiadi del 1992, che mettono in mostra le virtù dell’HD europea. Nel luglio del 1992, mentre il biennio sperimentale di RaiSat si avviava alla sua definitiva conclusione, Massimo Fichera lasciava la Rai, chiamato alla presidenza di Euronews, il primo canale europeo di informazione via satellite. Era solo un caso o non piuttosto il risultato di una scelta aziendale ambigua e strategicamente miope? 14. RESTATE IN ASCOLTO un destino di minoranza? Prima che venisse liberalizzata la radio privata a livello locale la RAI aveva progettato una ricerca qualitativa sulle funzioni del mezzo radiofonico nella vita quotidiana degli utenti in piena epoca televisiva. La radio non rappresentava solamente una fonte di informazione e di rumore di fondo, ma il suo consumo era la risposta a fondamentali bisogni dell’individuo, tutti riconducibili alla necessità di rompere l’isolamento. A soli due anni dalla liberalizzazione, la concorrenza aveva sottratto al servizio pubblico nazionale circa la metà dell’ascolto medio, mentre l’ascolto globale era stazionario. Esattamente il contrario di ciò che stava accadendo in televisione. Impegnata a contrastare l’attacco della Fininvest, la RAI ha concentrato tutte le risorse aziendali sul settore televisivo e la radio è stata lasciata a se stessa. In particolare era una sfida estrema per la RAI, dato il suo ruolo istituzionale, fare radiofonia per giovani giovanissimo con la necessaria carica di esibito anticonformismo e risultare credibile. Tuttavia del decennio in esame la radio pubblica continua ad essere apprezzata per la sua proposta complessivamente accolta a favore del pubblico. La radio pubblica si trova di fronte a scelte obbligate ma che non sono state perseguite in modo adeguato: dedicare ogni rete a una programmazione nettamente caratterizzata per target e finalità comunicative; rivedere il concetto stesso di radio di programmi programmi a partire dalla inevitabile constatazione che questo modello è entrato da tempo in una crisi irreversibile; ristrutturarsi anche dal punto di vista organizzativo. Nel 1982 furono inaugurati i due programmi stereofonici in FM, Stereouno e Stereodue (poi denominata RadioverdeRai), che avrebbero dovuto contrattaccare l’emittenza privata sul suo stesso terreno, vale a dire sul formato musicale di intrattenimento per il pubblico femminile ma soprattutto per quello giovane e giovanissimo. I risultati furono deludenti per una serie di ragioni solo in parte relative alla qualità della programmazione. Più originale, per i caratteri che subito assunse e che ancora oggi conserva, la programmazione di Stereonotte. Radiouno si esercita in una programmazione rivolta al grande dibattito civile (vedi Radio anch’io di Gianni Bisiach); Radiodue, vuole essere il canale per tutti; Radiotre appare la più innovativa, soprattutto nella fascia mattutina (vedi Il Filo di Arianna). IL CONSUMO E L’OFFERTA La radiofonia privata ha conquistato una posizione centrale nei consumi culturali degli italiani nel corso dell’ultimo decennio. La limitata intercambiabilità dell’utenza e quindi la complementarità tra radio pubbliche e private assegna a queste ultime una prevalenza di pubblico giovane e giovanissimo, soprattutto femminile, rispetto all’audience della radio Rai, che è più maschile e di età media considerevolmente più elevata. UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO Nel corso degli anni ottanta, soprattutto nella seconda metà del decennio, il fenomeno più rilevante e visibile nella radiofonia italiana è stato il crescente interesse di un numero sempre maggiore di editori radiofonici ad estendere l’ambito di attività della propria emittente fino a farne una radio nazionale. Un processo è stato tuttavia rallentato da molte difficoltà: ancora oggi non può dirsi del tutto compiuto. L’insediamento in una dimensione d’ascolto nazionale poteva tuttavia realizzarsi solo a partire dall’adozione di un formato, cioè di un modello e di uno stile di programmazione, che avesse valore di richiamo per un segmento di pubblico trasversale alle realtà locali. questo processo si è compiuto solo in parte e con molte incertezze, dati alcuni fattori negativi di diverso genere. Tra tutti, il principale risiede nel modello di sviluppo adottato da pressoché tutte le emittenti locali (private) per raggiungere una dimensione nazionale: il sistema delle affiliazioni. Tale sistema prevedeva che la proprietà dell’emittente legasse con un contratto, per ogni nuova area che voleva raggiungere col proprio segnale, un operatore che, possedendo gli impianti e avendo occupato una o più frequenze, poteva impiegarle tutte o in parte per ripetere localmente il segnale della radio. Come contropartita il cosiddetto “ripetitorista” acquisiva il diritto di inserire pubblicità locale nei break appositamente predisposti dalla radio e di trattenere i relativi proventi (per una percentuale non inferiore al 90%). Questa soluzione presentava diversi svantaggi: le radio estendevano l’area di copertura del proprio segnale, tanto più la struttura tecnica si appesantiva e si complicava. Il sistema dell’affiliazione, con la delega della gestione locale ai ripetitoristi, ha impedito che le radio nazionali sviluppassero politiche commerciali centralizzate e quindi univoche. Per un’emittente che aspira ad essere nazionale sono vincoli importanti sia le cadute di tono die comunicati di pubblicità locale, di cui non può controllare la qualità, sia il modo in cui i suoi spazi pubblicitari vengono venduti sulla piazza locale. L’adozione del sistema delle affiliazioni è giustificata in primo luogo dal fatto che il riconoscimento del diritto di radiodiffusione operato nel luglio del 1976 dalla Corte costituzionale sanciva unicamente il diritto a trasmettere in ambito locale. In assenza di altri interventi regolatori, i proprietari di Radio 105 di Milano avviarono il processo di estensione del segnale realizzando quello che formalmente avrebbe potuto configurarsi come un network di emittenti locali, ma che nella sostanza non era tale in quanto il segnale era unico e centralizzato con la sola eccezione dei break pubblicitari locali. Per questa rete e poi per tutte le altre radio che ne seguirono l’esempio, l’estensione del segnale tramite l’affiliazione delle emittenti locali rappresentò una soluzione di compromesso che consentiva di sfruttare gli ampi spazi di manovra lasciati dal vuoto legislativo. In altre parole la mancanza di una legge per il settore costrinse l’emittenza che voleva diventare nazionale a svilupparsi secondo un modello compromissorio poco felice dal punto di vista commerciale. In seguito all’approvazione della legge n.223 del 1990 tutte le strutture che ripetono il segnale sono state acquistate o almeno compartecipate dall’editore nazionale ma questa trasformazione, a cui le radio sono state costrette in tempi molto stretti, non ha mutato il quadro complessivo, che risente ancora fortemente delle modalità con cui la radiofonica commerciale nazionale si è sviluppata. Su 15 radio che hanno chiesto la concessione nazionale, infatti, solamente 4 (Rete 105, Radio Montecarlo, Deejay Network e Radio Italia solo musica italiana) sono presenti su tutto o quasi tutto il territorio italiano e raccolgono ascolto in modo abbastanza omogeneo in tutte le regioni. LA STRATEGIA DELLA RADIO PRIVATA NAZIONALE La scarsità di risorse economiche, la mancanza di un quadro legislativo e il tipo di modello di sviluppo adottato hanno impedito alla radiofonia commerciale nazionale di realizzare una cospicua diversificazione dei formati e un’effettiva segmentazione dell’offerta. Alle radio private nazionali va comunque riconosciuto di avere svolto un’importante funzione di traino per quel che riguarda la professionalizzazione della radiofonia privata anche a livello locale. Le radio nazionali hanno rappresentato un fattore competitivo che ha certamente stimolato le più importanti realtà locali in primo luogo a definire una specificità dell’emittenza locale e poi a realizzarla grazie ad adeguati livelli di professionalizzazione e di organizzazione aziendale. Sul fronte dell’ascolto il modello della radio di intrattenimento sembra entrato in crisi. I dati premiano le radio che trasmettono colonne sonore poco o per nulla interrotte dai commenti degli speaker e questa tendenza sembra destinata a mettere in crisi anche le radio che fino ad oggi hanno detenuto la leadership e che nella personalità dei DJ hanno sempre avuto un importante punto di forza. L’unica soluzione sta nella diversificazione dell’offerta e nella decisa segmentazione del pubblico. RTL 102.5 ha realizzato la prima format radio all’americana, basata interamente sul concetto di flusso, vale a dire sull’idea che la radio debba farsi immediatamente fruibile e riconoscibile per un consumo tendenzialmente occasionale e soprattutto limitato nel tempo. Con questa scelta RTL 102.5 si è immediatamente imposta all’attenzione del pubblico e ancor più degli inserzionisti. Il successo più clamoroso degli ultimi anni però è quello di Radio Italia solo musica italiana, vincitrice assoluta dell’ultima edizione di Audiradio (società di rilevazione ascolti) Il successo di questa radio si deve alla scelta radicale di programmare solo musica italiana. Accanto al fenomeno della musica italiana si è diffuso quello delle radio di revival. Radio Radicale e Italia Radio (nata come radio del PCI): Rappresentano radio di informazione. Radio Maria: Radio di culto, finita sotto inchiesta (nel luglio del 1992) per appropriazione indebita di capitali e per truffa. “Radio nastroteca”: Radio che trasmettono colonne sonore poco o per nulla interrotte dai commenti degli speaker. In ambito locale sul piano della programmazione prevale in modo assoluto il formato generalista. I formati alternativi a quello generalista sono essenzialmente legati alla programmazione musicale. Esiste poi qualche esempio di radio d’informazione. LE CONSEGUENZE DELLA LEGGE Altri due eventi importanti hanno interessato la radiofonia negli ultimi anni. Il primo è il varo dell’indagine ufficiale sull’ascolto Audioradio, lanciata per la prima volta nel 1989,90. Nelle speranze degli operatori la disponibilità di dati d’ascolto avrebbe dovuto sbloccare il mercato pubblicitario per il mezzo radiofonico ma così non è stato per i vincoli negativi. Un evento rilevante è stato l’approvazione della legge n. 223 di disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato. Essa riconosce l’esistenza dei principali attori della radiofonia privata italiana: le radio nazionali in poco tempo, a una posizione di quasi assoluto monopolio nell’acquisto dei diritti delle più importanti manifestazioni sportive, compreso addirittura il campionato di calcio. La Pay tv rappresentava un’opportunità importante che avrebbe dovuto tuttavia essere accompagnata da un dispositivo di regole che ne definissero la collocazione e il carattere distintivo rispetto alla televisione via etere. Affidare, in cambio di un modesto canone mensile, una cospicua offerta di cinema di qualità a un canale criptato era apparso una intuizione imprenditoriale utile e intelligente. Con l’avvicinarsi della scadenza per il rilascio delle concessioni, lo stabilirsi di un regime monopolistico privato per la tv a pagamento, il cui assetto proprietario ne faceva un’evidente appendice della Fininvest, avrebbe ulteriormente legittimato e potenziato la grande concentrazione. Ma i privati facevano il loro mestiere; laddove governi e parlamento si erano lasciati sopraffare dall’innovazione tecnologica nel campo dei media senza essere in grado di produrre quel minimo di strumenti giuridici necessari per dare limiti e certezze, all’esercizio dei vari livelli di specializzazione dei nuovi servizi televisivi. Una volta assimilate le pay tv al broadcasting tradizionale, a fronte di uguali doveri, era più difficile sostenere che non avessero anche uguali diritti. Nell’estate del 1992: in attesa delle concessioni, l’equilibrio del duopolio sembra improvvisamente modificato da una accelerazione dei successi della tv commerciale, da un lato, e dalle sempre maggiori difficoltà che stanno manifestandosi nella gestione del servizio pubblico, dall’altro. Secondo il suo presidente, la RAI ha sei mesi di tempo per superare la crisi, ma occorrono almeno tre interventi essenziali: ottenere da governo e parlamento un adeguamento delle entrate; introdurre una politica austera di contenimento delle spese; rivedere l’intera linea della programmazione onde tener testa alla concorrenza sul fronte degli ascolti. Il direttore generale Pasquarelli, l’uomo che aveva creduto nell’armonia prestabilita del duopolio, chiama adesso l’azienda a rispondere colpo su colpo all’offensiva della Fininvest. Nei due anni trascorsi dalla sua nomina il nuovo direttore generale si era dedicato al risanamento finanziario, aveva visto diminuire di circa un quarto l’indebitamento, era perfino riuscito, per la prima volta, a presentare un bilancio in attivo, anche se di modesta entità. Ma di fonte ai nuovi attacchi del gruppo privati contro territori finora di sicura supremazia per la rai, informazione e sport, era ormai necessaria una risposta energica, onde conservare il primato dell’ascolto, facendo cessare ogni velleità di concorrenza interna, ridando fiato a una creatività alquanto appannata, a costo di rimettere in discussione la politica dei budget. Sono i primi deboli segnali di quella autoriforma di cui si parla da tempo. Una incombenza non più rinviabile, non solo per fronteggiare la concorrenza ma per rafforzare quel ruolo di servizio pubblico al quale la RAI doveva la sua prima e unica legittimazione. Dopo l’incidente di Scommettiamo che? Mandato in onda nonostante la notizia dell’omicidio del giudice Falcone, sembra infatti a molti che il patto stabilito fra la televisione pubblica e la collettività sia fortemente allentato. Si ripete ormai da anni, che la riorganizzazione del sistema radiotelevisivo italiano deve essere compiuta conservando la centralità del servizio pubblico; ciò significa da parte della politica, assicurare alla RAI le condizioni istituzionali, giuridiche, economiche e organizzative per essere effettivamente impresa; e da parte della stessa RAI rivedere radicalmente il modello della sua organizzazione, del suo management e della sua offerta, specializzando la programmazione, elevandone la qualità, lavorando in direzione di contenuti intelligenti, con maggior fiducia verso un pubblico fortemente differenziato che richiede prodotti non omologati agli standard della tv a spazzatura. Risulta, però singolare che l’unica innovazione concretamente apprezzata dal pubblico, la pay tv, era stata opera dei privati, mentre la sperimentazione via satellite inaugurata dalla tv pubblica era stata addirittura sospeso. La situazione politica italiana era profondamente mutata dopo le elezioni del 5 aprile 1992. Poco più di due mesi erano trascorsi dal 17 febbraio quando quasi in sordina, l’informazione italiana registrò l’arresto del socialista Mario Chiesa, accusato di corruzione. Quella sera Tangentopoli aveva cominciato, con un frastuono sempre più forte, a travolgere l’intero mondo politico. Le elezioni confermavano la DC primo partito. Il mondo politico, che si limita a “sorvegliare” l’industria televisiva, ha un improvviso sussulto dopo il decreto che, all’inizio dell’estate (1992), trasforma l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) in società per azioni. Nel momento in cui il capitale privato si appresta a entrare nel neonato pacchetto azionario dell’Istituto, si avanzano interrogativi sulla compatibilità tra ruolo e finalità del servizio pubblico radiotelevisivo e cambiamento dell’assetto societario del gruppo. Già da tempo aveva fatto notare l’anomalia di una società, la RAI controllata dall’azionista IRI sul piano economico ma gestita da un vertice di nomina politico parlamentare. L’esercizio provvisorio della legge Mammì ha ormai i giorni contati. Il piano di assegnazione delle frequenze avrebbe dovuto essere preparato entro sei mesi, il regolamento di attuazione emanato entro nove, il rilascio delle concessioni doveva avvenire entro 12 mesi. Al neo-Ministro delle poste, il socialdemocratico Maurizio Pagani, è quindi affidato l’obbligo di far rispettare la legge, che fissa al 23 agosto del 1992 il termine ultimo per l’esercizio provvisorio dell’attività radiotelevisiva. L’anomalia del cosiddetto “caso italiano” è sempre più evidente: il ritardo con cui si sono definite le regole le rende inutili e improduttive. Inutili perché rischiano di non essere rispettate; improduttive perché arrivano nel momento in cui si rende necessario il loro superamento. Ma il ministro ha già deciso: presenterà l’elenco delle 12 emittenti nazionali oltre a quello, ben più numeroso, di quelle regionali che, a suo giudizio, hanno diritto alla concessione. La graduatoria comprende le tre reti Rai, le tre reti Fininvest, Telemontecarlo, Rete A, Videomusic, e le tre Telepiù, sulle quali però non si deciderà subito, rimandando la loro definizione a un nuovo provvedimento legislativo, ma “prenotando” loro il posto nelle liste delle 12 emittenti ammesse alle concessioni. La televisione a pagamento diventa così, di nuovo, il nodo dello scontro. In particolare, la Dc si preoccupa che le tre reti pay tv diventino il cavallo di Troia per l’espansione della Fininvest oltre i limiti fissati dalla legge. Con il decreto del 13 agosto 1992 il Consiglio dei ministri sceglie infine la strada del compromesso, attenendosi al puro e semplice rispetto di una legge vecchia e, tra poco, inservibile. Canale 5, Italia Uno, Retequattro, Telemontecarlo, Rete A, Videomusic, Raiuno, Raidue e Raitre ottengono la concessione di emittenti nazionali. Per le tre reti a pagamento si dovrà studiare, entro il 28 febbraio 1993, una disciplina particolare. Il decreto storicamente vorrebbe chiudere un’epoca iniziata circa 16 anni prima con la parziale liberalizzazione dell’etere decisa dalla Corte costituzionale e in apparenza sembra l’ultimo atto di una serie di adempimenti rivolti a mettere ordine nel guazzabuglio tutto italiano dell’etere. In realtà, politicamente esso appare, il tentativo di stabilizzare l’esistenza del duopolio. Il sistema che ne è venuto fuori disegna la mappa di due estesi territori sui quali governano regimi affatto disposti a cedere alcunché del loro potere e delle loro conquiste: un equilibrio armato che tuttavia comincia a dare segni di cedimenti sia da una parte che dall’altra. DOPO TANGENTOPOLI D’ora in poi il quadro dei rapporti tra televisione e politica cambia completamente, anche in conseguenza del quasi azzeramento del parlamento dovuto all’effetto di Tangentopoli. Da almeno vent’anni una vera e propria Cupola delle tangenti aveva riempito di miliardi le casse dei principali partiti italiani. Lo scioglimento delle camere elette nel 1992, nelle quali siedono ancora molti inquisiti, viene chiesto con forza soprattutto dalla Lega Nord, nuovo gruppo politico in forte ascesa e dal PDS. Nella primavera del 1993 la vittoria per referendum dei sostenitori del sistema elettorale maggioritario aveva spinto le forze politiche a varare in tempi brevi la nuova legge e consentire così il ritmo alle urne. Si usa dire, con una fastidiosa semplificazione, che in quell’anno termina la prima e nasce la seconda repubblica. Avvenimenti decisivi stanno cambiando radicalmente la vita della nazione: la fine del PSI e del suo leader Craxi, l’uscita di scena di Andreotti, Forlani e di tutto il gruppo egemone della DC, tutti messi alla gogna in televisione dalle riprese del processo Cusani. Le inchieste di mani pulite cominciano a lambire l’impero della Fininvest e perfino la RAI, che viene visitata dalla Guardia di Finanza, per sospetta corruzione. Il gruppo dirigente della rete ha ben compreso che in un momento di acuta crisi politica e morale è l’integrazione fra il mezzo televisivo e lo spazio stesso della politica l’espediente che può assicurare i grandi ascolti. Un nuovo assetto politico si sta determinando in Italia. Il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria, il profondo rimescolamento e rinnovamento della classe politica, la nascita di un tendenziale bipolarismo sono tutti fattori che caratterizzano l’ampiezza del mutamento che sta interessando l’intero paese. La comunicazione politica in televisione era stata disciplinata da alcune norme contenute nella nuova legge elettorale, ovvero il riconoscimento della cosiddetta par condicio nell’accesso agli spazi delle trasmissioni, sotto il controllo della Commissione parlamentare di vigilanza. All’inizio della primavera del 1993 con il passaggio di consegne a Palazzo Chigi ( da Giuliano Amato, a Carlo Azeglio Ciampi) la sinistra vuole prepararsi a vincere le elezioni del maggioritario. La rai non può sottrarsi a questo trend; ed ecco che il 26 maggio dopo mesi di dibattito, la camera approva la legge n. 206 che fissa i nuovi criteri di nomina del consiglio di amministrazione e del direttore generale. Assegnare inoltre il potere di nomina ai presidenti delle Camere, in quel particolare momento della vita italiana, non era stata una buona idea. Non era questa la riforma della riforma di cui la radio aveva bisogno. Ma proprio la sinistra che era allora animata da improvvise smanie di privatizzazione, non capì che occorreva fare di tutto per salvaguardare la Rai come istituzionale nazionale e proteggere in tal modo un bene di tutti. La RAI perde Aldo Biscardi, che passa a Telepiù 2, ma in compenso guadagna un nuovo direttore generale Gianni Locatelli. Una nuova squadra è pronta a governare la programmazione della RAI. In poche settimane l’azienda cambia completamente tutto il suo tessuto connettivo, con clamorose esclusioni e altrettanto clamorose promozioni. La RAI che viene fuori è irriconoscibile. Un nuovo centro di produzione, costruito a Roma, in località Saxa Rubra, esprime simbolicamente, per la tetraggine della sua architettura carceraria, questi anni cupi come meglio non si potrebbe. Le nomine dei “professori”, con qualche rara eccezione, furono il frutto di una assoluta incompetenza di che cosa significhi governare complesse macchine di spettacolo e di informazione di massa come le reti e le testate radiotelevisive. Clamoroso il caso di Nadio Delai, ottimo ricercatore, del CENSIS di cui ricopriva la carica di direttore generale, che fu collocato a capo di Raiuno nonostante egli stesso avesse dichiarato di non sapere nulla di televisione. Nacque la prima soap opera italiana, un posto al sole. Era il primo esperimento di fiction industriale seriale realizzato su format dell’australiana Grundy. Per la prima volta nella storia della RAI si ha la sensazione che il suo vertice lavori contro di essa. Ai primi di dicembre del 1993 il presidente Rai Demattè annuncia che le casse sono vuote e che il pagamento delle tredicesime ai dipendenti verrà differito al prossimo anno. Sul piano politico parte una trattativa per far passare quel decreto “salva Rai”, che viene approvato il 29 dicembre dal governo Ciampi insieme all’aumento del canone. LO SPECCHIO DEL SISTEMA POLITICO Invocare un ennesimo provvedimento statuale di ripianamento del deficit dimostrava solo che i professori erano ben lungi dall’attuare soltanto una politica di risanamento e di oculata gestione, che indubbiamente essi hanno iniziato per primi, ma intendevano in realtà prolungare, anzi enfatizzare quello stato di emergenza sul quale erano sempre possibili accordi di vario tipo, a seconda ovviamente delle convenienze e in base alla diverse dislocazioni del potere. Da un’epoca in cui la televisione veniva costantemente occupata dalle forze politiche, si stava passando a una fase nuova in cui è la televisione a occuparsi le istituzioni e la politica. I giochi stavano cambiando e la televisione stava diventando essa stessa un soggetto politico del tutto autonomo. Una campagna condotta con asprezze da entrambe le parti e che riproponeva, sul fronte del centrosinistra, la volontà di azzerare il potere accumulato in tanti anni da Berlusconi. Asprezze che si sarebbero ancor più accresciute nella campagna per le politiche del 1994. La trasmissione Al voto, al voto! Del tg1 così come Il rosso e il nero, divenuto poi Tempo reale, di Michele Santoro su Raitre, non peccavano certo imparzialità. Con i suoi messaggi televisivi Berlusconi convinse la maggioranza degli itlaiani che un imprenditore di successo, fattosi da solo, aveva il potere di farli sognare. E la gente, che nei due anni precedenti aveva visto molti uomini con le manette di Tangentopoli ai polsi e l’intera classe dirigente della Prima Repubblica sbranarsi in un colossale processo di autodistruzione, gli credette. La nascita di un partito dei media, è in realtà l’evento più clamoroso di questo periodo di storia della radiotelevisione italiana. In linea generale si può affermare che i media sembrano aver preso coscienza di un proprio autonomo potere di rappresentanza nel confronto democratico. La discesa in campo di Berlusconi e la trasformazione di una azienda televisiva in partito politico hanno solo concluso un processo evolutivo nel quale l’imprenditore milanese risulta essere più oggetto che soggetto. Ciò non toglie che il fenomeno berlusconi abbia totalmente condizionato la campagna elettorale del 1994. Non ha vinto berlusconi in quanto tale, ha vinto la società che i suoi mass media, la sua pubblicità, hanno creato. Berluscono non avrebbe avuto quel successo immediato se non vi fossero state le condizioni dettate da molti fattori: da una nuova legge elettorale, dagli errori della sinistra, dallo spazio lasciatogli in un sistema televisiva non regolato; ma anche da un uso spregiudicato della tv. Nel momento in cui con la nascita di Forza Italia, avvenne la saldatura fra potere dei media e potere politico, con il primo che ormai corrisponde in modo quasi perfetto al secondo. Il processo di imposizione alla politica dello schema e dei formati dei media arriva alla sua estrema e logica conclusione: evento politico ed evento mediativo ormai coincidono, sia quando competono per accaparrarsi l’audience, sia quando si alleano per conquistare elettori. Dal momento in cui, sciolto il parlamento, sono fissate nuove elezioni per la fine di marzo, forza italia batte sul tempo tutti gli management spesso devastanti, l’instabilità della sua funzione immediata palpabile e avvertita da tutti gli italiani. Parlamento e forze politiche sembrano impotenti a superare le innegabili inadeguatezze della legge mammì ma l’inefficacia delle loro decisioni è pari alla loro ipocrisia. Sia comincia a considerare l’ipotesi della privatizzazione come la più attendibile per togliere l’azienda dal vicolo cieco in cui è stata cacciata. Ma l’intero sistema radiofonico e televisivo, nella seconda metà degli anni novanta, imbocca tutt’altra strada. La riorganizzazione dei mercati vede i primi segni del consolidarsi dell’offerta a pagamento, allora considerata in grado, insieme a quella satellitare, di differenziarsi dall’omologazione dell’offerta free allorchè fosse avvenuto il passaggio al digitale. Sul fronte delle telecomunicazioni, azzerato il monopolio della telefonia fissa, l’esplodere della telefonia mobile, e la privatizzazione di Telecom, lasceranno prevedere l’entrata sulla scena televisiva di nuovi soggetti. L’universo televisivo si va redifinendo con una nuova capacità di intrattenere il pubblico, con cadenze e appuntamenti molto diversi dal passato e con una modernità di linguaggio che la neotelevisione aveva tutt’al più solo anticipato. Già il salotto televisivo di Costanto e di quella autoritaria e giustizialista di Santoro, allorchè nel 1996 se ne aggiunse una terza, quella di Bruno Vespa, con la più indovinata e furba spettacolarizzazione della politica rappresentata da Porta a Porta. È certamente verso che l’offerta della rai e di mediaset in quegli anni poteva contare anche su altri programmi di qualità, ma in sede storica va riconosciuta l’importanza di una trasmissione come porta a porta non solo per la sua costante ricerca di un punto di equilibrio in una difficile fase di transizione della vita del paese, ma anche perché essa diventerà con il passare del tempo uno dei pilastri del servizio pubblico nel serrato confronto sugli ascolti con le reti mediaset. Le restrizioni economiche la riduzione dei budget disponibili per tutta l’industria televisiva italiana aveva comportato l’utilizzo di formati a basso costo. La vera mutazione che si verifica verso la fine degli anni novanta è il cambiamento, assolutamente radicale rispetto al passato, nel rapporto tra la selezione dei generi e le abitudini dell’ascolto. Anche per effetto dell’invecchiamento dei telespettatori, le abitudini del consumo televisivo si sono orientate verso una fruizione sempre più inerte e abitudinaria. Essa si realizza nella seconda metà degli anni novanta e crea quella languida assuefazione all’intrattenimento che si dipana durante tutto l’arco della giornata a prescindere da ciò che si vede, perché ciò che più conta è ciò che si sente. L’intuizione di vespa fu di riconoscere che la politica poteva reggere solo in seconda serata quando lo spettatore era sazio di video evasivo. Vespa, Santoro, Costanzo ciascuno a suo modo cambiando comunque radicalmente natura e funzione del talk show ereditato dagli anni settanta. Nei mesi successivi il ricambio alla rai fu quasi contestuale alla vittoria elettorale che aveva portato romano prodi a palazzo chigi. Letizia moratti anticipò gli eventi e si dimise con grande eleganza dalla presidenza dell’azienda. LA SINISTRA NEL PAESE E NELLA RAI Il mandato che Enzo Siciliano riceve è quello di restituire alla RAI il ruolo istituzionale e culturale che aveva fatto grande la sua storia. E va detto che egli interpretò come pochi il ruolo di difensore del servizio pubblico. Qualità, pluralismo, credibilità e autorevolezza sono i cardini sui quali il nuovo governo vuole aggiustare la funzione della radio e della televisione pubblica, in una competizione con Mediaset. In questo scenario non si riuscì a trovare posto per Santoro, il quale dopo un incontro riservato con Berlusconi nella villa di Arcore, lascia la rai per Mediaset dove su Italia1 darà vita in dicembre a MobyDick. La vicenda tenne per qualche tempo grande spazio sui giornali anche perché il consiglio non riuscì a far comprendere le ragioni che lo avevano convinto a disfarsi tanto a cuor leggero di un protagonista indiscusso dell’offerta televisiva pubblica. Ci fu probabilmente una ragione politica, come sostiene Bruno Vespa nel suo Rai, la grande guerra : alla sinistra arrivata al potere Santoro non serviva più, mentre a Berlusconi serviva un uomo di sinistra in grado di accreditare l’immagine che le sue tv non avevano nulla da spartire con il suo impegno politico. Anche canale 5 aveva qualche problema. Tuttavia mediaset riesce a conquistare alcuni punti a suo favore con verissimo di cristina parodi, striscia quotidiana in concorrenza con la vita in diretta e una nuova edizione completamente trasformata di buona domenica che si oppone a domenica in. Nel 1994 sono liberalizzate le comunicazioni via satellite, l’anno successivo quelle via cavo. Nel 1996 si apre alla concorrenza la telefonia cellulare e nel 1998 stessa sorte toccherà alla telefonia fissa vocale. LO SCENARIO INDUSTRIALE E LEGISLATIVO A pochi passi ormai dal fatidico 2000, il dibattito politico e parlamentare ruota intorno alle basi normative per la concorrenza nelle telecomunicazioni e per quanto riguarda la televisione, si può sinteticamente ricondurre a due aspetti fondamentali: il numero di reti assegnabili a un solo soggetto e la trasformazione della rai in una holding di società distinte. Aspetti che stavano alla base del riordino legislativo condotto da Maccanico. Da questo lavoro nasce la legge la legge n. 249 del 1997, costitutiva tra l’altro dell’autorità per le garanzie, i cui punti nodali erano un maggior controllo sulle telecomunicazioni, l’abolizione delle barriere tra comparti industriali, la limitazione ad usare il segnale terrestre per sole due reti della Rai e di Mediaset, obbligando le altre a trasferirsi sul satellite, prive di pubblicità. Il senso ultimo della legge era quindi quello di introdurre norme che facessero preciso riferimento all’impiego delle risorse onde evitare il pericolo di posizioni dominanti. La legge aveva inoltre previsto che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e la concessionaria di telecomunicazioni potessero utilizzare una piattaforma unica per le trasmissioni digitali, aperta anche a operatori privati. Ma sia l’autorità antitrust sia la commissione europea erano di fatto contrarie all’idea di una piattaforma unica. Dopo un ennesimo tentativo di accordo fra rai e telecom. La privatizzazione di quest’ultima chiude un periodo di estenuanti e inutili trattative. Dal 1998 il servizio pubblico, con la costituzione di Rai Sat affidata a Carlo Sartori, era di fatto entrato nel business dell’offerta tematica satellitare. L’aspetto più singolare è che gli schieramenti non erano univoci e chiaramente delineati, ma trasversali e ondivaghi, a seconda delle convenienze, in una materia dove le decisioni spostano quote rilevanti di denaro, e di potere. Questa è stata la costante caratterizzazione dell’ultimo quindicennio della storia della radio e della televisione italiana. Non hanno affatto modificato la permanente precarietà dell’intero sistema. Con un particolare francamente esilarante, almeno nel caso della RAI, che in tutti questi anni, ad ogni ricambio di gestione, si andava annunciando la soluzione finale. In ogni caso non è mai stato chiaro se una moderna legislazione dovesse proteggere il servizio pubblico dal mercato, dovesse potenziarne al suo interno la presenza, oppure dovesse definitivamente espellerlo. L’eccezione del maxi emendamento presentato nella primavera del 1997 dal ministro delle poste e telecomunicazioni Maccanico aveva tratteggiato alcune linee guida che avrebbero portato a uno snellimento della pay tv terrestre italiana. PRIVATIZZARE In questi ultimi anni aleggia il sospetto che la difficile transizione del sistema radiotelevisivo italiano possa non aver mai fine. Sul fronte della RAI, dopo le dimissioni di Enzo Siciliano, tutto lascia pensare che stia maturando una stagione più aggressiva. Costretto a dimettersi sotto il peso di attacchi, anche da parte della grande stampa, che gli avevano reso sempre più difficile onorare il suo impegno di garante del servizio pubblico. Il nuovo consiglio era presieduto da Roberto Zaccaria. Ancora una volta nasce per effetto di una legge provvisoria e si stabilizza solo su posizioni di potere. Direttore generale fu nominato Pier Luigi Celli, già capo del personale con i professori. Governerà la rai per 4 anni ( due mandati) con indubbie capacità, ma anche con comportamenti settari e a volte arroganti da parte di presidente e direttore generale. In questo periodo la transizione assume i suoi aspetti più Turbolanti, il sistema televisivo italiano registra significativi cambiamenti, l’azienda pubblica si trasforma a tal punto da mettere in crisi la sua stessa funzione di servizio e la sua missione di garante dell’identità della nazione, la programmazione assume aspetti inconsueti, che fanno gridare alla devastante perdita di qualità, ma che d’altra parte registra anche una indiscutibile fisionomia innovativa, parallela alla trasformazione della società italiana e alla dittatura imposta, come vedremo, dalle esigenze della nuova televisione. Tutto cambierà dopo la vittoria di Forza Italia e della destra alle elezioni europee e all’avvicinarsi della scadenza per il rinnovo del parlamento nel 2001 quando la rai di Zaccaria abbandonata dal direttore generale con abile e cinico tempismo, verrà gettata come nuova gioiosa macchina da guerra nella campagna elettorale. In questo lasso di tempo, gran parte del centrosinistra al governo, riprendendo antiche tentazioni premono per la privatizzazione dell’azienda. Pochissimi si rendono conto che si sta per danneggiare in modo irreparabile un patrimonio nazionale inestimabile. In seguito come vedremo si arriverà a prevedere una forma di privatizzazione mirata soprattutto a creare un vero concorrente a Mediaset e a tenere la politica fuori dalla rai. Fin dai suoi primi passi il nuovo consiglio di Roberto Zaccaria si caratterizza con una forte impronta di decisionismo, protagonismo, efficientismo. L’obiettivo allora considerato possibile, era quello di vincere di nuovo alle politiche del 2001; vincere su mediaset; vincere nella coscienza della gente. Tutti e tre questi obiettivi non sono stati raggiunti. Ma dopo l’esperimento Siciliano, il nuovo compito assegnato all’azienda dai presidenti delle Camere è: ristrutturare. La vera novità riguardò il TG 1 che, per la prima volta, cambiò di segno politico. Tradizionalmente democristiano, dopo la parentesi professionalmente eccellente di Marcello Sorgi, venne affidato a Giulio Borrelli, di area PDS. Era un cambiamento notevole e nonostante le ampie dichiarazioni di pluralismo , lasciava immaginare quanto la testate più importante fosse fortemente ambia dal partito che rappresentava un soggetto politico essenziale nell’Ulivo. UNA HOLDING E UNA FONDAZIONE I due schieramenti del maggioritario erano ormai rappresentati dai rispettivi bracci armati, il partito RAI e il partito Mediaset, che fanno a gara ad alzare il polverone delle polemiche per nascondere le proprie pecche e difendere i propri interessi. Sintesi brillante di una situazione che si prolungherà fino a tutto il 2001, quando con la vittoria della destra i bracci armati si ritroveranno tutti da una sola parte. I due poli televisivi avevano nelle stime superato il tetto antitrust del 30% con grave danno per le altre tv e per tutto il sistema. Lo spinoso problema della qualità in particolare per la rai, viene utilizzato in modo improprio dagli amministratori dell’azienda i quali tendono a giustificare la loro politica di prodotto con l’obiettivo di non abbassare i ricavi da pubblicità. Obiettivo giusto. Ma ancora una volta sfugge l’altra questione di fondo, determinante sul versante del polo pubblico e cioè che la legittimità del canone e la qualità della televisione pubblica sono due facce di una stessa medaglia, dove l’una giustifica e condiziona l’altra. Una delle ipotesi di riforma era la creazione di una Fondazione alla quale conferire tutte le azioni del capitale Rai una volta disciolto l’IRI. Va chiarito che il processo di scioglimento dell’IRI stava arrivando alla sua conclusione. Scomparso l’antico azionista, tra il giugno del 2000 e l’ottobre del 2002, la proprietà della Rai verrà conferita al Ministero del tesoro (con a capo il ministro Giuliano Amato). Questo passaggio non sarebbe stato privo di effetti. In caso di vittoria del centrosinistra alle elezioni politiche il servizio pubblico sarebbe rimasto nelle mani dell’ulivo. In caso di sconfitta, l’azienda sarebbe stata proprietà del centrodestra. Come nei fatti è avvenuto. La rai cominciava ad essere un peso, un problema insolvibile, una questione della quale sbarazzarsi. QUALITA’ E ANTITRUST Le elezioni europee del 13 giugno sono vicine e non è detto che possano essere vinte dall’Ulivo. Il rientro in Rai di Santoro era la carta giusta da giocare, anche sul fronte della riscossa politica. Faceva comodo averlo di nuovo in squadra in un momento in cui l’informazione del servizio pubblico avrebbe dovuto mostrare più grinta. Mediaset stava immaginando nuovi confini geografici per l’intero gruppo ed era sempre più una minaccia temuta dal consiglio di amministrazione del servizio pubblico. Si preparava insomma a diventare u grande gruppo multimediale europeo. Un abile imprenditore mantovano, Roberto Colaninno, era riuscito a raggiungere un obiettivo giudicato impossibile: l’acquisto della Telecom e la sua separazione dalla Olivetti. Nonostante l’incoraggiamento avuto dal presidente del consiglio Massimo d’Alema sui nuovi assetti societari gravavano ben 28.000 miliardi di debiti. È una vicenda che riguarda anche l’industria televisiva e che avrà un esito importante, con la nascita della rete La 7. Decolla inoltre l’intesa fra Letizia Moratti e Rupert Murdoch, l’australiano padrone di News Corp per i diritti televisivi del calcio italiano. Ma limitare gli eventi calcistici alla sola visione della tv a pagamento andava contro qualsiasi idea di buon senso e di opportunità, in un paese dove il calcio era parte integrante della vita sociale. Un decreto del governo, che impediva qualsiasi monopolio nell’acquisizione dei diritti calcistici, mandò in fumo le aspettative di Murdoch. A Murdoch non restò, per il momento che accontentarsi del 35% di Stream, ottenuto dopo una laboriosa trattativa con Telecom. In breve tempo, acquisisce l’intero capitale di Stream ed assorbe persino Telepiù. Murdoch si era inserito con successo negli USA, in Cina, in India, in Europa. Poteva l’Italia spaventarlo? Dopo la decisione dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni di aprire un’istruttoria per accertare eventuali posizioni dominanti di RAI e Mediaset, il clima generale è in forte fibrillazione. L’istruttoria era un atto dovuto. Episodi del genere costellano ormai tutti questi anni sregolati e folli. Lo citiamo perché comico, come le esibizioni di Gene Gnocchi e di Simona Ventura, come 25 milioni di cazzate di Adriano Celentano, come Quelli che il calcio di Fabio Fazio o dei Quiz show tipo La Zingara. L’innovazione è altrove. Figlia in qualche modo dello “sceneggiato” la fiction italiana, ovvero quel genere narrativo che l’industria della tv ha ricavato nel corso degli anni, sul modello americano, da un singolare connubio tra fotoromanzo e cinema, registra in questo scorcio di passaggio fra i due secoli la presenza mediatica più interessante, sia per quantità di ore prodotte che per dignità dei risultati espressivi. La fiction italiana aveva iniziato faticosamente a cercare nuove strade. Una nobile gara tra il servizio pubblico e la stessa Mediaset che poteva vantare una programmazione di tutto rispetto come nel caso di Vivere o di Centovetrine, in grado di rispondere con prodotti, fiction di lunga serialità, anche migliori, porta a eccellenti risultati: tra il settembre 2000 e il giugno 2001 entrambi i gruppi arriveranno a produrre un totale di 700 ore di fiction domestica. Anche la rete di Carlo Freccero è certamente in prima fila nella produzione di una fiction popolare appetibile da ampie fasce di pubblico, dal Maresciallo Rocca al Commissario Montalbano. Né va trascurato il salto di liberalità che la Rai si consente nella serie Commesse, storie di amori e amicizie, anche trasgressive, e comunque intimamente collegate alle questioni di fondo di un nuovo modo di intendere l’educazione sentimentale. Lo ritroviamo nel Medico in famiglia, il cui successo sta tutto nella visione laica con la quale vengono affrontate le grandi questioni private della vita di ognuno. Nel momento in cui la tv satellitare e quella a pagamento ampliano le potenzialità di diffusione, l’apparato produttivo è costretto a riorganizzarsi e imboccare procedure market oriented. I canali tematici avevano iniziato a sottrarre alle reti generaliste contenuti di pregio che dovevano in qualche modo essere rimpiazzati. In secondo luogo la legge n. 122 del 1998 voluta saggiamente dal vicepresidente del Consiglio, Walter Veltroni, cominciava a conseguire i suoi obiettivi. Essa aveva imposto ai broadcasters di reinvestire nella produzione nazionale ed europea di film e fiction quote significative dei loro ricavi netti: il 10% del canone nella tv pubblica; il 20% della pubblicità in quella privata. IL FILTRO SOCIALE DEL PAESE Sotto il segno del duopolio RAI-mediaset uno standard commerciale unico attraversa ormai l’intero spazio della televisione generalista italiana. Dopo le nuove forme espressive e di linguaggio della neotelevisione degli anni ottanta, e dopo il suo contributo offerto alla mutazione politica avvenuta in Italia all’inizio dell’ultimo decennio, la televisione italiana a cavallo tra i due secoli sembra segnata da una quasi esclusiva finalità commerciale, rivendicata addirittura come prioritaria non solo dal soggetto privato ma correntemente anche da quello pubblico. La gestione della comunicazione radiotelevisiva più recente si richiama soprattutto ai criteri economici del profitto, dove le graduatorie dell’audience e le necessità degli investimenti pubblicitari sembrano godere dovunque della più importante considerazione di merito. Da tempo erano annunciate scadenze che avrebbero dovuto una dopo l’altra, rendere marginale la vecchia tv sotto i colpi dei new media. E invece è il suo modello arcaico ad essere sempre più centrale. Non è forse questa la vera novità del tempo attuale? Evidentemente entro tale modello funziona qualche meccanismo vincente, qualcosa di molto pervasivo, di assolutamente necessario per il grande pubblico. Più che in qualsiasi altro momento è in questi anni cruciali che la tv generalista ha saputo monopolizzare l’attenzione degli spettatori. La tv ha assunto in pieno un ruolo sociale. Nella confessione pubblica, o nella resa dei conti privata esibita in pubblica, la televisione si apre all’abbraccio con la gente. Creare pubblico è l’obiettivo primario di tutto il sistema. Per quanto detestabili, per quanto spazzatura, sono tuttavia momenti esaltanti della filosofia generalista, poiché concorrono a dare visibilità ai suoi obiettivi. Non si spiega altrimenti il successo ottenuto dai quiz show di canale 5, ben presto imitati dalla RAI, nella fascia preserale, con i volti di Gerry Scotti, di Amadeus, di Carlo Conti: un successo che coinvolge la gente come nel meccanismo di un talk show, ma che assolve anche a una funzione di autoeducazione. Di questa televisione esiste infatti anche una faccia universalmente considerata perbene e lodevole: essa ha i volti di Piero e Alberto Angela, ormai sacerdoti della TV intelligente, Licia Colò. Un cenno ancora al grande fratello e sul fenomeno della Real tv. Esso non va letto come qualcosa di specifico dell’ultimo stadio della comunicazione televisiva nazionale, poiché il suo formato, non italiano è diffuso ovunque. Va piuttosto sottolineato che il programma, nato e destinato alla tv tematica se non addirittura a Internet, ha registrato il suo successo nel centro cruciale della scena televisiva generalista. Probabilmente è invece proprio la nuova televisione italiana a funzionare da perfetto sistema speculare, in grado di rappresentare, nel bene e nel male, gran parte della nazione. Ma non è un merito della tv è un demerito della nazione. Il vero trionfatore della tv generalista postmoderna comunque è lo spettacolo leggero. LA TRANSIZIONE CONTINUA Il sistema radiotelevisivo italiano rispecchia da molto tempo tutte le ambiguità, le distorsioni, i ritardi e le inadeguatezze del paese. Rispetto agli inizi del decennio, il sistema è cambiato nelle tipologie e nelle consuetudini del consumo, nelle modalità della sua offerta, nella consistenza, ancorché anomala, della sua dimensione economica, finanziaria e di mercato. Non è cambiato invece nell’assetto regolatorio e nella modernizzazione tecnologica. Il pubblico continua a riconoscersi in esso, almeno a giudicare dagli indici di popolarità di gran parte delle trasmissioni, sia nelle reti pubbliche che in quelle private. La caratteristica peculiare del sistema italiano è quella di essere ormai costantemente al centro dello scontro politico. Accanto a nuovi soggetti che si affacciano sul mercato, tra i quali spicca, nonostante le remore del suo definitivo assetto, la tv a pagamento, la scena è ancora tenuta da RAI e mediaset che negli anni hanno finito per rappresentare i presidii militarizzati dei due schieramenti politici nati dopo l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, Ulivo per il centrosinistra, Casa delle libertà per il centrodestra. La rai non interpreta più l’intera società italiana con quell’equilibrio e quel rigore che, in tanti decenni, l’aveva sempre e comunque resa autorevole. È solo l’inizio di una deriva che si rivelerà inarrestabile. Con le dimissioni nel febbraio del direttore generale Rai Pier Luigi Celli (viene sostituito dal suo vice Claudio Cappon), le imminenti elezioni costringono a scelte di campo nette e decise e il presidente della rai, Roberto Zaccaria, ha già fatto le sue. Getterà le reti pubbliche con l’accordo degli altri due consiglieri di maggioranza, nella competizione elettorale con l’obiettivo di vincere su tutti i fronti anche a costo di snaturare la funzione istituzionale di un servizio che andrebbe mantenuto, almeno formalmente, al di sopra delle parti. Le elezioni saranno vinte, il 13 maggio 2001 dal centrodestra e porterà alla formazione del nuovo governo Berlusconi. Inizia un lungo periodo di logoramento delle capacità di governo dell’azienda, a fronte della stabilità industriale, politica. L’appello di Ciampi era un segnale preciso e molto importante di svolta, forse il segnale istituzionale più forte dall’inizio di tutto questo decennio. Esso metteva insieme problemi diversi ma strettamente connessi: il conflitto di interessi, la limitazione delle concentrazioni nel settore televisivo come in quello della carta stampata, l’urgenza di preparare il paese alla rivoluzione digitale, come previsto dalla legge n. 66 che fissava per il 2006 la data dell’abbandono della tecnica di trasmissione analogica terrestre. Un provvedimento destinato a cambiare radicalmente tutta la mappa industriale della radio e della televisione italiana, orientata verso una inevitabile dimensione globale. Accanto alla turbolenza politica, l’evoluzione del mercato è il secondo aspetto che caratterizza l’attuale fase della transizione, la tv generalista non rinuncia a partorire dal suo grembo i suoi replicanti, in base alla insaziabile pretesa del pubblico, ormai considerata un diritto, di essere alimentato gratuitamente da una larga offerta di intrattenimento. Continua da decenni a restituire loro lo spettacolo del tempo in cui vivono, a rassicurarli ogni sera, forse persino ad esimerli dall’obbligo di dover pensare. La nascita de la 7 sembra suggerire l’ipotesi che il mercato televisivo abbia cominciato a muoversi. Se la nuova rete non costituisce una preoccupazione per i due maggiori competitori, essa tuttavia dimostra che, pur in presenza della sclerosi duopolistica del sistema, il mercato si è messo in moto anche sul fronte della televisione gratuita. La proposta di legge del ministro Gasparri, presentata nel settembre del 2002, con la previsione di un lungo e dibattuto iter parlamentare, vorrebbe aggiornare in maniera definitiva ed esaustiva la regolamentazione del sistema. I suoi punti principali, in estrema sintesi, sono: l’abolizione del precedente limite, fissato dalla legge Maccanico del 1997, secondo il quale nessun editore può crescere oltre il 30% in ogni singolo settore (carta stampata, radio, tv); abolizione dei divieti agli incroci nella proprietà di reti televisive e organi di stampa; limite del 20%, per ciascun soggetto, alle possibilità di drenaggio delle risorse complessive di tutto il sistema dell’informazione. Si propone inoltre di risolvere l’annosa questione di Retequattro e Telepiù nero, che potranno continuare a trasmettere “in chiaro”, senza quindi essere confinate sul satellite, fino alla fine del sistema analogico. Il disegno di legge indicava infine, per la prima volta nella storia della legislazione in materia radiotelevisiva, i tempi di una probabile privatizzazione della Rai, prefigurando la possibilità di dar vita a una Public Company. In un mercato in cui non esiste la concorrenza del cavo, l’unica alternativa alla tv generalista del duopolio è ancora la pay tv. Rupert Murdoch si ripresenta nel sistema italiano della televisione a pagamento su una strada lastricata d’oro. Dopo mesi di negoziati, nell’ottobre Telepiù passa dalla francese Canal plus alla News Corporation. La nuova piattaforma unica nascerà dalla successiva fusione con Stream, controllata dalla stessa News Corp e da Telecom. È gia pronto il nome, Sky Italia. L’accordo prevede l’avvio della piattaforma unica, quindi di un unico decoder, dal giugno del 2003, dopo l’approvazione dell’Antitrust europeo. L’offerta comprende tutte le partite delle diciotto squadre di calcio, una programmazione di cinema internazionale che può contare sulla straordinaria library della Fox, una forte attenzione ai prodotti del cinema italiano, i documentari della National Geographic Society. Il pubblico consumatore di radio e tv al quale eravamo abituati, sta per essere interessato da una profonda modificazione. Saranno quindi necessarie non solo nuove classificazioni di target ma probabilmente anche nuove forme di rilevazione degli ascolti. L’auditel mostra ormai tutta la sua criticità e potrebbe, fra non molto rivelarsi una forma obsoleta di rapporto con l’utenza. Se all’inizio degli anni novanta il duopolio era un fattore imperfetto di una possibile liberalizzazione, all’inizio del nuovo secolo esso si rivela un fatto perfetto di mancata liberalizzazione: una situazione bloccata, prodotta dall’incapacità di rinnovare il rapporto tra media e politica. Dopo la vittoria elettorale del polo nel 2001 il cerchio si è chiuso: il duopolio blindato ed impari tra rai e mediaset si è trasformato in un monopolio di fatto, dovuto alla coincidenza nella stessa persona, della proprietà di mediaset della carica di capo del governo, della leadership di una larghissima maggioranza parlamentare. Una concentrazione di potere che appare difficilmente eliminabile. Una parziale privatizzazione della rai della quale si comincia con insistenza a parlare, viene sempre più considerata una possibile soluzione. Ogni gruppo politico, al contrario, ha tentato di farsi largo per conquistare il monopolio dell’’immagine mediatica: il controllo dell’informazione sembra ormai divenuto un obiettivo più importante di una vittoria congressuale. Il comparto pubblico del sistema radiotelevisivo italiano ha finito così per essere la preda più ambita di tutte le maggioranze di governo. Il primo anno di governo della rai, in quota al centrodestra mostra tutti i suoi vistosi limiti, nello stile e negli obiettivi. L’intero sistema è ormai nell’occhio del ciclone, come mai lo era stato in passato. Tuti avvertono che occorre una profonda rifondazione dell’impresa televisiva pubblica, dei suoi rapporti con gli utenti, della conseguente normativa alla quale dovrà uniformarsi il servizio reso agli italiani, dell’eventuale progetto della sua effettiva privatizzazione. LA CONCENTRAZIONE MEDIATICA Ed ecco i cinque nuovi membri dell’organo di governo della RAI. Con una differenza però che introduceva la figura di un presidente di garanzia. L’opposizione di centrosinistra la reclama e la ottiene: Lucia Annunziata. Direttore generale venne nominato Flavio Cattaneo. Il presidente avrebbe dovuto garantire l’intero schieramento di centrosinistra, e non fu senza imbarazzo e meraviglia che l’ufficio politico della Margherita all’indomani dell’elezione, si affrettò a dichiarare che il partito non si sentiva affatto rappresentato dalla nuova nomina. Lucia Annunziata nel corso del suo breve mandato, fu costantemente tenuta in scacco, dal direttore generale che dai membri del consiglio, messa troppo volte in minoranza, priva di solidi strumenti operativi di potere e di decisione, forte solo del suo temperamento e della sua indiscutibile grinta. Le sconfitte registrate dal presidente sono state altrettante sconfitte politiche del centrosinistra. In senso più generale si può osservare una costante nel modo con cui tutti i presidenti della RAI, succedutisi ed eletti con i criteri della legge del 1993, hanno affrontato il loro destino: chi di loro non ha compreso che l’unico sbocco realistico dopo la fine del mandato, era la politica, è rientrato nell’anonimato. La vera questione all’ordine del giorno nell’agenda politica, per entrambi gli schieramenti era piuttosto l’iter parlamentare della legge Gasparri che, una volta approvata, avrebbe stravolto, come di fatto è avvenuto, il sistema dell’informazione e della comunicazione nel nostro paese. Eppure era chiaro, nonostante gli interventi del capo dello stato, che quella legge era uno degli obiettivi irrinunciabili per Forza Italia. Il passaggio al digitale rimaneva comunque un obiettivo complesso e difficile da raggiungere in tempi brevi. il disegno di legge Gasparri non tendeva affatto a riformare, bensì a “cristallizzare” l’assetto industriale e normativo della tv, che la Corte aveva ritenuto non conforme alla Costituzione. In sostanza il ddl non rimuoveva ma blindava ancor più l’anomalia italiana relativa a un duopolio padrone dell’intera informazione e usufruttuario della quasi totalità delle risorse pubblicitarie. Il 2 dicembre 2003 essa divenne legge dello Stato. Una decisione della direzione generale della RAI di acquistare frequenze necessarie per la sperimentazione digitale da 39 emittenti locali era apparsa infatti affrettata e poco trasparente non solo al presidente ma all’interno consiglio. Una decisione
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