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Storia delle donne nell'Italia Contemporanea - Silvia Salvatici (riassunto), Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto del libro Storia delle Donne nell'Italia Contemporanea per il corso di Storia di Genere della professoressa Monica Pacini

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 26/01/2023

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Scarica Storia delle donne nell'Italia Contemporanea - Silvia Salvatici (riassunto) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORIA DELLE DONNE NELL'ITALIA CONTEMPORANEA 1. La nazione delle italiane: patriottismo, nazionalismo, imperialismo La nazione e il nazionalismo sono stati tra i fenomeni più indagati dalla storiografia tra gli anni '80 del secolo scorso e il nuovo millennio. L'interesse per questi temi ha avuto anche una sua "ironia storiografica", distendendosi nella stessa stagione in cui l'integrazione europea appariva come un destino ineludibile e la globalizzazione rendeva desueta il paradigma nazionale della storia. Nel raffronto con il nazionalismo otto-novecentesco i neonazionalismi sembrano più difensivi che aggressivi, ripiegati a «tutela del proprio territorio» piuttosto che animati da un progetto di affermazione sul teatro mondiale. Le continuità risultano tuttavia evidenti, innanzitutto dal lato delle retoriche di genere, delle visioni normative delle identità sessuali e della famiglia. Genere, nazione, impero L'intreccio tra riletture critiche del nazionalismo e studi di genere ha senz'altro costituito un tornante della nuova stagione di ricerche sulla nazione. Innanzitutto è opportuno rilevare una coincidenza storico-teorica: tanto gli studi sul nazionalismo quanto la storia delle donne hanno tratto nuovo impulso dalla cosiddetta "svolta culturalista" degli anni '70-'80. I lavori degli anni '80 che hanno rivoluzionato le ricerche sulla nazione e il nazionalismo erano ancora «gender-blind», cioè incapaci di leggere il genere. Quegli studi hanno tuttavia operato una svolta decisiva, in cui il rapporto tra nazione e nazionalismo si è invertito, con la prima come prodotto del secondo e non viceversa. L'abbondanza di figure femminili nelle retoriche nazionali ha illuminato il ruolo svolto dal genere nel processo di immaginazione della nazione sovrana, nella sua doppia veste di popolo-nazione (soggetto unitario titolare della sovranità) e di popolo-sovrano (la parte di nazione legittimata ad esercitare il potere). Questa scomposizione aiuta a sciogliere e chiarire la lunga riflessione storiografica sull'inclusione differenziata delle donne nell'ordine pensato della nazione. La corporeità femminile ha infatti sostenuto un racconto della nazione che è stato a sua volta veicolo della moderna codificazione della irriducibile differenza fra i sessi. della classificazione binaria, esclusiva e totalizzante delle identità di genere. Non è quindi sufficiente ricorrere al mito della terra madre, o di Madre Natura, per spiegare le allegorie della nazione in corpo di donna. La definizione del diritto di cittadinanza nella Francia rivoluzionaria rischiara il funzionamento della metafora familiare della nazione. Il progetto democratico di autogoverno del popolo richiedeva infatti una rappresentazione intellegibile della figura unitaria a cui trasmettere la sovranità sino ad allora detenuta dal monarca. Conta sottolineare che l'attributo di cittadina, concesso alle donne nel corso dell'800, non comportava alcuna moderna ammissione di sovranità, alludendo piuttosto alla prerogativa femminile di adempiere coscientemente alla trasmissione generazionale e culturale del popolo-nazione. La partecipazione delle donne alla vita nazionale si arrestava alle soglie di ogni formale esercizio di potere, in ragione della loro riduzione (e/o idealizzazione) a sesso moderno, votato alla riproduzione e all'accudimento e perciò naturalmente affidato alla protezione maschile. La configurazione del popolo-sovrano veniva perciò a dipendere da una doppia esclusione, ovvero da una duplice relazione d'identità discendente da una presunta omogeneità culturale e sessuale, sulla cui base aprire un confronto tutto al maschile in merito al peso da assegnare alle differenze socioeconomiche nell'attribuzione del suffragio. Con l'idea naturale di nazione è dunque franata anche la nozione unitaria e autofondata di identità nazionale. La nazione è semmai apparsa come campo discorsivo nel quale sono state proiettate e ridefinite altre identità sociali: di genere, classe e razza. Gli studi sulle identità collettive hanno ormai ampiamente dimostrato la dimensione relazionale di ogni identità, costruita sempre per contrasto da un altro sé. Abitando lo spazio domestico nazionale le figure di donna hanno avuto un ruolo tutt'altro che secondario nelle retoriche sui caratteri dei popoli. Il paradosso del nazionalismo nello spazio europeo otto-novecentesco risiede proprio in questo, nell'essere stato un linguaggio di genere della comunità largamente condiviso e al contempo «divisivo». Le narrative settecentesche del progresso avevano offerto il "modello universale". Le virtù familiari e nazionali delle donne (purezza, dedizione, altruismo) divenivano perciò materia materia delle storie patrie e un argomento a sostegno della superiorità di vecchie e nuove potenze europee lanciate nelle conquiste coloniali. Due dei campi di studi rimessi a tema, tra loro correlati, sono quello dell' «ideologia della maternità» e la figura della «donna nuova». Catturate dai saperi medico- scientifici dell'età dell'imperialismo, le donne occidentali hanno visto riconfermata la loro subordinazione di sesso nella preminenza della maternità come destino bilogico al servizio della potenza della nazione, dell'impero, della razza. Una subordinazione che contestualmente garantiva privilegio e forme d'inclusione sociale. Tra la madre della patria e la madre della razza si insinuava così la donna nuova, figlia dell'ampliamento delle funzioni nazional- imperiali assegnate alle donne e al contempo foriera di sviluppi inaspettati, perché la maggiore istruzione e l'accesso ad alcune professioni contrastavano con la reiterata minorità sociale e politica femminile. Nei discorsi dei movimenti femministi l'immagine della donna nuova poteva quindi avvalorare la richiesta di diritti investendo sulla valorizzazione di specifiche competenze femminili a fini nazionali. Donna Italia Il Risorgimento è stato fra i tornanti storici maggiormente investiti dalla rivoluzione storiografica sollecitata dalla svolta culturalista e dalla storia delle donne e di genere. La distinzione tradizionale tra patriottismo e nazionalismo è quindi stata superata in favore di indagini sulle costellazioni discorsive che hanno donato senso alla costruzione nazionale, in particolare sulle figure della parentela, dell'onore e del martirio, d'ascendenza cetuale e religiosa, che hanno traghettato il sentimento di appartenenza nazionale nella penisola italiana. L'antica allegoria dell'Italia turrita ha conosciuto una nuova vita e fortuna nella propaganda patriottica italiana dal triennio rivoluzionario di fine Settecento alla stagione risorgimentale. La raffigurazione dell'Italia perdeva così la sua «algida compostezza» per acquisire un'inedita intensità emotiva nelle vesti di una bella donna ritratta in pose fiere o dolenti, a evocare glorie e decadenza della nazione italiana. Donna Italia assumeva perciò anche un'originale valenza politica (donna madre, sposa promessa). Immagini che potevano far leva sul ricco repertorio iconografico di sante e madonne, non di rado favorendo una sovrapposizione tra idealità patriottiche e fede cattolica. L'idea che il cattolicesimo costituisse il tratto distintivo dell'identità italiana risaliva a molto indietro, e avrebbe trovato la sua consacrazione nel Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti. Incoraggiata dall'iniziale favore della Chiesa, la presenza delle donne sulla scena pubblica del '48 ha rappresentato in sé stessa uno straordinario veicolo di propaganda patriottica. Le donne avevano raccolto fondi per equipaggiare le truppe, organizzato l'assistenza ai feriti nei palazzi e ospedali, una minoranza aveva seguito i corpi volontari nelle vesti di infermiera o vivandiera, qualcuna aveva imbracciato le armi (anche in abiti maschili), altre avevano fondato o animato circoli e riviste femminili. Analizzando l'attivismo patriottico delle italiane, gli studi si sono divisi sulla presenza o meno di una domanda femminile di cittadinanza politica. Le proteste per la discriminazione nei diritti, le rivendicazioni o le espressioni di adesione ai plebissciti nazionali appaiono comunque minoritarie e circoscritte, sopravanzate da una doverosa esibizione di appartenenza alla famiglia-nazione che in tutte le contenuta l'ammissione di un'Africa selvaggia. Questo perché i femminismi occidentali del secondo '800 condividevano la stessa visione eurocentrica della civiltà alimentata dai saperi maschili. Le figure della "donna vittima" della violenza primitiva degli uomini e più ancora della "schiava orientale" ricorrevano con una certa frequenza anche negli scritti delle collaboratrici della rivista "La Donna". L'orientalismo femminista non rappresentava però un semplice supplemento del discorso maschile, perché poteva essere rioreintato contro le stesse società occidentali che vantavano un progresso in realtà zavorrato da forme di dispotismo patriarcale, incompatibili con un effettivo sviluppo civile. La guerra di aggressione coloniale metteva ora alla prova questo nucleo teorico femminista, generando una tensione tra sentitmento dell'italianità ed esperienza della soggezione, tra prestigo nazionale e condanna dell'oppressione, tra mozione degli affetti patriottici e difesa del "diritto umano" a qualunque latitudine. Nel decennio successivo l'Italia al femminile aveva davvero cominciato a invadere la scena pubblica. Al pari delle altre donne occidentali, anche le italiane avevano avuto accesso e frequentavano i licei e le università del Regno, pubblicavano libri e riviste, popolavano le strade e i luoghi di ritrovo e viaggiavano lungo la penisola, si dedicavano ad attività commerciali, educative e assistenziali, senza contare le tante operaie. Il tema del suffragio amministrativo iniziava a farsi strada anche nel mondo moderato, mentre le femministe legate alla democrazia e al movimento operaio domandavano la pienezza dei diritti. Con l'inizio di una nuovo avventura coloniale a Milano, Pavia, Torino e Roma le militanti delle leghe e di altri sodalizi femminili avevano indetto comizi, promosso petizioni contro la guerra, rivolto appelli alle italiane affinché si unissero alla mobilitazione anticoloniale. Altre voci di donna si erano alzate per contrastare il dinamismo femminle anticoloniale: un contro-manifesto romano aveva invitato le italiane a non lasciarsi ingannare da un umanitarismo fallace, che accomunava razze superiori e inferiori; Serao si era spinta oltre, liquidando le attiviste come un piccolo gruppo di repubblicane ed ebree sprovviste della "fierezza" delle madri italiane. La vera insidia però non veniva dalle ingiurie, ma dalle banalizzazioni o dalle lusinghe. A banalizzare e richiamare all'ordine ci aveva pensato il "Corriere della Sera", pure favorevole al disimpegno africano ("tutte le donne sono contro la guerra quindi è inutile ogni loro dichiarazione"). Sempre in una prospettiva conservatrice, "L'Osservatore Romano" aveva accolto con favore l'idea della petizione contro la guerra coloniale. Stessa posizione aveva assunto Sofia Bisi Albini, direttrice del periodico "La Rivista per signorine". In questi giornali si indicava una via di rigenerazione nazionale ribadendo le priorità dell'etica femminile, mentre sul "Corriere" si appiattiva le posizione dell'anticolonialismo femminista su un pacifismo istintivo e sentimentale. Alla letteratura pseudoscientifica positivista si deve infatti la proposizione della razza come nuova divinità ordinatrice delle identità sociali, con la donna ridotta ai suoi presunti caratteri sessuali e destinata a quel lavoro riproduttivo che nell'amore materno offriva un riscatto di genere dal primitivismo. La donna era il ventre della razza, custode dei suoi caratteri ereditari e perciò le attitudini materne costituivano il grado più elevato di perfezionamento femminile. Il vero oggetto del discorso positivista sulla maternità non erano quindi le donne, bensì la loro discendenza. Non era certo questa la "cultura del materno" rivendicata dal variegato movimento femminista. La maternità costituiva semmai la matrice etica della politica femminsita che domandava un riconoscimento istituzionale anche attraverso il suffragio. Il nuovo secolo si era aperto nel segno dell'ambivalenza: bocciata la proposta sul divorzio e approvata quella sulla tutela del lavoro femminile e infantile (entrambe nel 1902). Le preoccupazioni eugenetiche ritornavano nell'impegno femminista della suffragista italiana Maria Montessori, saldamente ancorata ad una culturare positivista e al tempo stesso interprete di un immaginario religioso secolarizzato che rivisitava il modello amriano nella figura della Madre sociale. Anche attraverso Montessori la cultura materna diveniva così peculiare cifra etica del "femminismo latino". La strategia adottata dal suffragismo italiano ricalcava quella già messa in atto dal femminismo d'Oltremanica: approfittare della ambiguità della normativa elettorale per mettere in difficoltà il sistema. Guerre nazionali e generi di regime Il 1908 è stato un anno importante per il movimento delle donne, riunito nel suo I Congresso nazionale che aveva rappresentato, al tempo stesso, l'apice e il punto di rottura della sua tenuta unitaria. Meno nota la torsione nazionalistica di parte della cultura italiana avvenuta proprio quell'anno. Il nuovo clima politico si era riverberato anche nel linguaggio di alcune femministe, con il patriottismo materno invocato per sostenere la causa dell'Adriatico mare nostrum, frontiera e roccaforte di una "razza latina". Nessuna confusione, ci si affrettava a ribadire, tra la difesa dei diritti dell'italianità e la «nefasta politica africana». Con la guerra di aggressione coloniale alla Libia del 1911-12, l' "altro orientalismo" femminista aveva perso ogni innocenza. Benedetta da vescovi e prelati, l'avventura coloniale aveva conquistato il mondo liberale e cattolico. La Federazione nazionale pro suffragio, la formazione più radicale fra quelle aderenti al Consiglio nazionale, si era invece riparata dietro un cauto silenzio, lasciando che il conflitto tra favorevoli e contrarie si consumasse nei circoli pacifisti. A sinistra delle suffragiste, contrarie alla guerra, erano schierate esponenti dell'antimilitarismo repubblicano e libertario e le militanti del Partito Socialista, all'epoca impegnate nella redazione della rivista "La difesa delle lavoratrici". La roboante propaganda di guerra non aveva tuttavia lasciato loro molto spazio. Auspice il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, della primavera era infatti tornata in primo piano la questione dell'allargamento del suffragio e il diritto femminile al voto sembrava doversi misurare sulla fedeltà patriottica delle donne. Le torsioni dell'etica materna, definita in rapporto alla nazione, sarebbero emerse evidenti di fronte alla guerra europea e mondiale del 1914-18. Nell'autunno in cui montava la campagna per l'intervento dell'Italia nel conflitto, l'idea di una diversa eticità del sesso materno si era già infranta contro il patriottismo bellico di tante femministe europee. L'arcipelago associativo emancipazionista si era comunque acconciato a servire la nazione in guerra, con note spesso dolenti ma sovrastate dai toni sprezzanti verso le donne insensibili ai doveri patriottici dell'avanguardia interventista. La causa della civiltà e il destino di Trento e Trieste sembravano reclamare, con diversa fondatezza rispetto al recente passato, l'estrema "prova di maturità" femminile, presentata però come una manifestazione di coscienza etnica- razziale. Oltre un secolo di discorsi sul sesso materno nell'ordine pensato della nazione precipitava così nella guerra europea dei nazionalismi e il fronte interno dell'Italia veniva solcato da una netta contrapposizione tra icone femminili dello sforzo bellico e le tante figure di un'anormalità femminile ricondotta a un primitivismo istitintuale non sublimato dall'amore materno per la famiglia-nazione. Quanto più la mobilitazione bellica stravolgeva la vita familiare e le esistenze femminili, tanto più lo stesso femminismo interventista contribuiva alle retoriche del "nemico interno" e della rigenerazione nazionale, peraltro travisando l'esperienza di guerra delle italiane (maggiore sopportazione = femminilità italica che merita i diritti). Non tutte avevano distorto il lessico dei diritti individuali nella formula della ricompensa di sesso alla rifondazione etica dello Stato (come per esempio Margherita Ancona). La causa suffragista nell'immediato dopoguerra risultava però indebolita dall' "incompatibilità etica" fra interventiste e neutraliste postulata dal femminismo nazional- patriottico e dalle retoriche populiste che inquinavano il dibattito politico dell'epoca, con il tema del voto alle donne inserito persino nel programma del fascismo diciannovista. Le false partenze e le resistenze del ceto politico liberale riguardo al suffragio femminile avrebbero addirittura regalato a Mussolini, appena giunto al governo, la patente di "suffragista" davanti alla platea congressuale dell'IWSA riunita a Roma nel Maggio 1923. In occasione del convegno, larga parte del movimento femminista si era comunque già rimessa alla benevolenza del fascismo, lasciando che Regina Terruzzi, si prendesse la scena suffragista in qualità di delegata del governo. Nei suoi interventi sulla stampa e dalla tribuna congressuale, Mussolini era diventato l'uomo della provvidenza che si accingeva a spezzare le "catene" della donna latina. Alla riunione di piazza San Sepolcro nel marzo del 1919, dove era nato il movimento fascista, si erano contate altre otto donne oltre a Terruzzi. I primi Fasci femminili avevano cominciato a sorgere l'anno seguente. Sino a tutto il 1925 questo mondo aveva espresso anche un equivoco femminismo fascista, imperniato proprio sulla richiesta del voto e dell'autonomia organizzativa. Nel 1926 era stata la direttrice della rivista allora raccomandata ai gruppi femminili, Ester Lombardo, a liquidare come anacronistica la passione per i diritti elettorali, per poi archiviare lo stesso femminismo perché "inghiottito" dalla rivoluzione fascista. La curvatura nazionalistica del femminismo latino trovava così il suo punto di caduta. Al netto del sessismo fascista, il disconoscimento del diritto di avere dei diritti aveva in ultimo ricondotto anche il popolo-sovrano nel registro femminile del popolo- stirpe. L'orizzonte dell'Impero, tra militanza sul "fronte interno" e avventura colonizzatrice, sembrava quindi forzare gli stessi confini del modello di femminilità fascista, favorendo un protagonismo femminile che non collimava con la propaganda di regime sul destino domestico delle donne. Un protagonismo, tuttavia, che rimaneva vincolato alle specificità di sesso, ora apertamente intrecciate alle responsabilità di razza. 2. Lo spazio pubblico delle donne: suffragio, cittadinanza, diritti politici Che la cittadella politica fosse la più ardua delle conquiste fu subito chiaro ai diversi movimenti femministi che si affermano in Occidente fin dalla nascita della sfera pubblica e dei moderni sistemi politici rappresentativi. Il gender gap tuttavia non riguarda soltanto il numero di seggi e di posti apicali occupati da donne, ma investe soprattutto una densa opacità che queste ultime mantengono con i partiti, con i meccanismi della gestione della cosa pubblica, con l'acquisizione della leadership. Nell'analisi bisogna tener conto delle diverse concezioni della cittadinanza che si sono conseguite: se in una prima fase l'appartenenza dalla costituenda nazione rappresenta il dato dominante, successivamente prevale il nesso che lega la cittadinanza alla fondazione dello Stato sociale per poi approdare a un approccio globale che mette in discussione le frontiere degli Stati nazionali. Prendere la parola: il triennio giacobino e il 1848 Una serie di novità rilevanti e durature si impongono in tutti i campi dell'agire sociale nel corso della seconda metà del '700. Tra queste in primo luogo l'emergere di una più precisa separazione tra sfera pubblica, riservata agli uomini, e sfera privata, assegnata alle donne. Tale processo ha imposto anche nuovi modelli normativi di genere. La nuova maternità diviene simbolicamente fonte di valori privati ma anche di pubbliche virtù. A partire dalla seconda metà del '700 molte donne prendono la parola per rivendicare i diritti civili e politici secondo una grammatica ascrivibile alla cultura illuminista. La valenza universalistica dei diritti d'altronde sollecita l'idea che l'uguaglianza tra i generi sia inclusa nei nuovi assetti culturali e politico-costituzionali. Nel triennio giacobino si intensificano il protagonismo e l'attivismo femminile nei circoli costituzionali, nei club, nella pubblicistica. Per esempio, durante la rivoluzione napoletana del 1799, Eleonora Fonseca Pimentel diviene un personaggio di spicco. Al di là della rivendicazione dei diritti politici, è la presenza nello spazio pubblico e la richiesta dei diritti all'istruzione che caratterizza questo tornante storico. L'attivismo femminile è presente in tutti i luoghi teatro delle rivoluzioni. Sotto il profilo teorico, restano di rilievo almeno due contributi: il discorso pronunciato nel 1797 da Carolina Arienti Lattanzi all'Accademia di pubblica istruzione di Mantova - Schiavitù delle donne - e il testo di Rosa Califronia, Breve difesa dei diritti delle donne. In entrambi i casi non vi è una Le battaglie per il diritto di voto portate avanti dai movimenti femministi restano, negli anni '90 dell'800, lievemente sotto traccia . Le cause sono da ricercare nell'aumento di numero delle suffragiste nei partiti politici, per un aumento dell'impiego extradomestico, per una crisi del sistema rappresentativo parlamentare. Proprio per descrivere questo soggetto politico nuovo e pericoloso (le masse), si attiva un cortocircuito attraverso cui molto del sapere scientifico che aveva definito l'essere femminile come un soggetto fragile, irrazionale, volubile, ora struttura e identifica in termini analoghi le masse. Quest'ultimo aspetto risulta cruciale per cogliere la portata profonda della negazione dei diritti di cittadinanza alle donne. Molte le discipline coinvolte: la fisiologia, l'antropologia, la psichiatria, la ginecologia; tutte a indagare le differenze biologiche delle donne, codificarne l'inferiorità, ma anche stabilire nessi per identificare altre disuguaglianze. Il contributo specifico che l'approccio antropologico del tempo darà in seno a questo ampio dibattito internazionale sarà quello di identificare la donna come depositaria e conservatrice non più e non solo della comunità nazionale ma anche della razza. Nella cultura politica di fine '800, per fronteggiare la crisi del sistema parlamentare, da un lato, e sostenere le imprese imperialiste dall'altro, acquistano centralità le categorie collettive di razza, anzione, famiglia a discapito di quella di individuo. All'interno di questo slittamento, l'accento ai valori dell'autonomia soggettiva, vero fil rouge dei movimenti femministi, con la sua evidente carica democratica è del tutto calpestato e negletto. Non più rappresentanza egualitaria dal basso, ma dominio delle masse, oggetto di studio da parte di una nuova disciplina: la psicologia. Ad essere in crisi è il concetto classico di soggetto cartesiano, razionale, padrone di sé. L'osservazione del comportamento del singolo all'interno del gruppo, anche dei gruppi parlamentari, mostra la tendenza dell'io ad abdicare la sua parte di sovranità in favore del gruppo e del suo leader trascinatore. L'emergere sulla scena pubblica delle masse, sia come insieme di soggetti richiedenti nuovi diritti, sia come protagonisti di nuovi conflitti sociali, crea forti timori e risposte autoritarie. Nel corso della crisi di fine '800, i rapporti osmotici nelle rappresentazioni tra donne, masse e razza assumono un rilievo maggiore e spiegano il complessivo restringimento dell'area dei diritti pubblici soggettivi. La stagione suffragista Le associazioni femministe, nonostante lo scioglimento subito in seguito ai "fatti di maggio", si riorganizzano presto. L'Italia esce dalla crisi di fine '800 nel complesso intensificando le ragioni del liberalismo e ciò sollecita la domanda di estensione dei diritti politici. Dal 1905 i diritti politici diventano una battaglia sempre più urgente e condivisa all'interno del femminismo italiano, tanto che iniziano a formarsi comitati pro suffragio femminile. Il comitato nazionale con sede a Roma è presieduta da Giacinta Martini Matescotti e vede la presenza di figure importanti come Maria Montessori, Sibilla Aleramo, Irene de Bonis. Il quinquennio 1906-1911 è dunque quello in cui il suffragismo italiano raggiunge il massimo apice in termini di militanti e di presenza nel dibattito pubblico. Maria Montessori, giocando sull'ambiguità di un diritto riferito a un soggetto presunto neutro che pertanto non ritiene di specificare, in riferimento al genere, chi gode o meno dei diritti politici, nel 1906 esorta le donna a iscriversi alle liste elettorali. Le richieste di iscrizioni alle liste elettorali rappressentano una delle tante forme di lotta per il suffragio insieme alla più classica petizione, come quella discussa in Parlamento nel 1907, redatta l'anno prima da Anna Maria Mozzoni e corredata da migliaia di firme. Tra il 1906 e il 1910 sono molte le occasioni di lavoro condiviso tra socialiste, laiche e cattoliche, anche se il congresso di Roma dell'aprile del 1908, indetto dal Congresso Nazionale delle Donne (CNDI) decreta la fine di questa prospettiva. Dopo il fallimento del congresso romano, un'ultima occasione di discussione sul voto sarà quello di Torino del 1911, in coincidenza con l'Esposizione Universale dell'industria e del lavoro nonché del cinquantenario dell'unificazione italiana. Nonostante la maggiore unità e il migliore riscontro sulla stampa, il congresso del 1911 chiuderà di fatto la stagione suffragista in Italia. Era già iniziata in seno al Comitato nazionale pro suffragio una crisi profonda che ha anche i tratti di un conflitto generazionale. I movimenti femministi nel rivendicare i diritti civili e politici sono stati capaci di risemantizzarli? Il tratto maggioritario e distintivo dei movimenti italiani è rappresentato dalla forte volontà di sottolineare le specificità femminili, cioè di porre la soggettività femminile come non omologabile. Rivendicando una diversa educazione, una istruzione più solida, migliori condizioni lavorative, l'attenzione è sempre rivolta alle condizioni di vita materiali dei ceti meno abbienti. Nella centralità delle politiche sociali si estrinseca una forma di proiezione sociale e di valorizzazione del ruolo materno, ma questa prospettiva rappresenta il tentativo di immaginare un'appartenenza a una comunità che pone al centro i bisogni dei meno abbienti; in ciò prende corpo l'idea di cittadinanza. In questa direzione, rivendicare i diritti politici ha significato pensare le donne come soggetti autonomi e dotati di una propria libera volontà , al tempo stesso, prospettare una diversa comunità politica regolata da forme di sussidiarietà e cooperazione. Attraverso queste esperienze di cittadinanza sociale, le donne avrebbero avuto modo di sperimentare lo spirito solidaristico e le pratiche di assistenza, ponendo così le basi di ciò che avremmo poi chiamato welfare state. La costruzione del nuovo Stato sociale avrebbe consentito alle donne di svolgere un ruolo sociale e dunque di scardinare quel sistema binario pubblico/privato, frutto della modernità. Per questo si applica un capovolgimento del codice materno; non più una maternità che preclude le donne da un ruolo politico attivo ma un'esperienza (anche simbolica) che legittima e immagina un diverso assetto sociale. La salvaguardia di una "specificità femminile" fondata sulla maternità è quindi un registro centrale del movimento suffragista per accedere alla cittadinanza, per contrassegnare un elemento identitario, ma anche per delineare i tratti profondi della statualità nelle sue relazioni con il corpo sociale. L'ostilità verso il riconoscimento dei diritti di cittadinanza alle donne nell'Italia liberale è inequivocabilmente ben radicata. E' utile ricordare che le due principali culture politiche di massa, quella cattolica e quella socialista, sono state a lungo ostili. Il Partito Socialista era diviso tra chi derubricava i diritti politici tra le libertà borghesi e chi si batteva per i diritti politici di tutti. Di tutti, ma non delle donne che avrebbero votato per i partiti conservatori, e non erano abbastanza istruite né interessate. E' nota a riguardo l'aspra polemica tra Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Solo successivamente il PSI cambia ufficialmente posizione; le disuguaglianze di genere sul voto stavano diventando davvero macroscopiche. Un itinerario parallelo riguarda il mondo cattolico. Nel dissenso al voto alle donne precipita tutta la cultura del cattolicesimo "intransigente" e conservatore, contro il liberalismo, reo di voler "scattolicizzre" l'Italia. Tuttavia, sulla spinta del cattolicesimo sociale, nel clima di una rinnovata attenzione alla società, già a partire dalla fine dell'800 nascono le prime associazioni che ben presto si radicheranno nel tessuto sociale del paese. Nel complesso tutta la precettistica ottocentesca assegnava alle donne compiti precisi (pace domestica, contenere conflitti, occuparsi di beneficenza e educazione). In seno a questa cultura si afferma quindi una nuova immagine femminile a cui si attribuiscono ruoli pubblici innovativi, un protagonismo civile importante, ma sempre distante dall'arena politica, dai diritti politici, dai luoghi della formazione della rappresentanza politica. L'incontro tra femminismo laico e cattolico avviene proprio sul terreno dei diritti. Il femminismo laico rivendicava un diritto, quello cattolico un servizio, ma tutti gli indirizzi si incontrarono sul concetto di dignità della persona. Il 1919 è la data spartiacque in cui cadono le antiche obiezioni del mondo cattolico. Il 1919 è un anno importante anche perché sembrava riprendere quota un certo riformismo liberale (Legge Sacchi che abolisce autorizzazione maritale). Il pieno esercizio dei diritti civili era una rivendicazione particolarmente sentita da tutte le anime del movimento femminista, anche per le immediate conseguenze materiali. L'obiettivo del voto che sembrava davvero raggiungibile subirà un lungo rinvio in seguito all'avvento del fascismo. Dallo Stato totalitario alla Repubblica dei diritti Da un lato il regime fascista promuove un ruolo femminile molto tradizionale, dall'altro partecipa al rinnovamento incentrato sulla figura della garconne o della flapper, ossia di una donna libera, colta, non necessariamente madre. Mussolini investe molto sulle strategie di coinvolgimento delle donne nello spazio pubblico del nuovo regime; ma alla fine assegna loro un ruolo esclusivamente esornativo, sulla linea dell'ambiguità richiamata. Mussolini si affretta a chiudere la questione presentando il femminismo come un fenomeno antiquato e superato dalle novità che il suo regime si avvia a inaugurare; regime non certo basato sui diritti soggettivi, ma che pur prevede precisi ruoli femminili nello spazio pubblico. Il contesto culturale è ancora più fosco in seguito alla sterzata impressa dal mondo cattolico (enciclica Casti connubii). I diritti individuali sono sempre più lontani. Il quadro cambia con la Resistenza che vede una presenza attiva e diversificata delle donne. Alla fine del 1944 nascono l'Unione delle donne italiane (UDI) legata al PCI e il Centro Italiano Femminile vicino alla DC. I diritti politici delle donne saranno inseriti nel programma politico generale del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) come punto non negoziabile. Diritto di voto introdotto con un Decreto legislativo del governo Bonomi nel 1945 e contiene due aporie: sono escluse le donne che praticano la prostituzione fuori dalle "case chiuse" e non è previsto l'elettorato passivo. Il decreto è frutto di un accordo tra PCI, DC e PSI. Le donne diventano quindi un asse fondamentale del progetto di radicamento sociale e di costruzione dei nuovi partiti di massa, ai quali avrebbero dovuto aderire. Se da un lato i partiti di massa sono così attivi nel promuovere il suffragio femminile, dall'altro i liberali e gli azionisti temono di restare penalizzati dal voto delle donne, per l'appunto ben presenti nelle due organizzazioni femminili dei partiti di massa. Queste forze più sensibili all'esercizio del diritto elettorale come atto soggettivo libero e pienamente consapevole non nascondono antiche paure legate a una storica impreparazione delle donne in campo politico. I partiti di massa invece seguono una ratio collettiva, promuovendo varie forme di apprendistato politico e puntando sullo stesso partito come strumento di pedagogia politica. A dispetto dei timori espressi, le nuove elettrici partecipano in massa alle elezioni e non si è neppure verificato il paventato divario tra Nord e Sud del paese. Il biennio 1945-47 vede un protagonismo femminile senza precedenti, che per alcuni aspetti si inserisce su una linea già tracciata (azioni solidaristiche ed educative), per altri presenta tratti decisamente nuovi (la possibilità di esercitare i diritti politici). Si delinea pertanto un nuovo contesto che, nei luoghi istituzionali rappresentativi, vede in alcuni casi prevalere il senso di appartenenza al proprio partito e alla propria visione politico-ideologica, in altri quello di genere. Una radicata tradizione che aveva costruito la sfera pubblica e il sistema di potere decisionale sulla base dell'esclusione femminile ora offre i suoi frutti più aspri: la politica resta, ancora per molti, una "roba da uomini". Numero 3: I femminismi dall’Unità ad oggi Dal marzo 2015, a seguito di un ennesimo femminicidio, si sono susseguite proteste contro la violenza maschile sulle donne e a favore di pratiche di autodeterminazione; questo nuovo tipo di attivismo agisce in una dimensione transnazionale, ed una testimonianza di ciò è data proprio dallo sciopero globale delle donne, tenuto in occasione dell’8 marzo 2017, per rendere visibile lo sfruttamento del lavoro domestico. Il 2017 è stato anche l’anno del MeToo, movimento a favore della denuncia degli abusi e delle violenze sessuali, nato negli USA e poi diventato virale nel mondo. Nello scenario italiano attuale possiamo dire che le reti femministe sono molto più diversificate rispetto a dieci anni fa, quando nacque il pratico, fondata da Ersilia Majno (le battaglie su cui si concentrò di più furono il diritto alla ricerca della paternità e il contrasto alla prostituzione di Stato). La questione del suffragio femminile in questi anni fu centrale: si fondarono i Comitati pro voto e nel 1906 fu redatta dalla Mozzoni la Petizione delle donne italiane per il voto politico ed amministrativo. L’idea del suffragio creò però una spaccatura nell’area cattolica, in quanto era ancora in vigore il non expedit. L’apice del femminismo di età giolittiana si raggiunse nel 1908, quando si tenne il primo Congresso nazionale delle donne italiane (aprile) e quello dell’Unione femminile (maggio). Per quanto riguarda il CNDI, l’ambito più divisivo fu l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari, in quanto fu approvata una mozione della socialista Linda Malnati a favore dello studio comparato delle religioni. Un mese dopo venne promossa dal CNDI un’altra istanza insostenibile per le cattoliche: il divorzio. La guerra di Libia fu uno spartiacque in quanto parte dell’associazionismo femminista cedette all’idea della guerra di conquista come strumento di civilizzazione e affermazione nazionale; successivamente il primo conflitto mondiale favorì la diffusione tra le militanti femministe di sentimenti patriottici e sbiadì l’impronta pacifista del femminismo postunitario. La cultura della pace venne “aggiornata” alla luce del nuovo contesto postbellico: nel 1919 a Zurigo si riunì il secondo Congresso internazionale delle donne, che volevano influire sulla Società delle nazioni attraverso una nuova organizzazione: la Women’s International League for Peace and Freedom. In Italia poco dopo l’associazionismo femminista venne smantellato e sostituito da organizzazioni femminili fasciste. Molte attiviste inizialmente nutrirono fiducia verso il fascismo: il programma dei Fasci di combattimento (1919) prevedeva il diritto di voto attivo e passivo per le donne e ai suoi esordi si presentava come una forza moderna e libertaria. Con l’omicidio Matteotti e la marcia su Roma si spensero gli entusiasmi, ma la fiducia verso un compromesso tra associazionismo femminista e fascismo non svanì anche perché fu Mussolini nel 1923 a presiedere la cerimonia di inaugurazione del nono Congresso della International Women’s Suffrage Alliance. Fu dopo il 1925 che tutte le illusioni si spezzarono, infatti le misure repressive del regime calarono indistintamente su uomini e donne e su tutte le associazioni indipendenti. Il vuoto di presenza pubblica femminile venne colmato dalle organizzazioni cattoliche. I tentativi di conciliazione con il fascismo seguirono la strada della maternità sociale: nel 1925 nacque l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia. Le ragioni che portarono al soffocamento del femminismo durante il fascismo sono rintracciabili nel primo dopoguerra, che causò una rottura con le virtù civiche risorgimentali; inoltre nacquero nuovi gruppi fortemente nazionalisti, che diedero maggior spazio agli interessi della borghesia medio-alta, antibolscevica e timorosa della conflittualità sociale del “biennio rosso”. In tutto ciò va anche considerato il fatto che le associazioni delle donne fin dalla loro nascita cercarono un referente esterno nei partiti, ma nessuno di questi decise di fargli da portavoce. I temi del primo femminismo si sarebbero imposti nell’agenda politica solo molti anni dopo e con risultati scarsi (es: legge Sacchi, 1919, sollecitata dalle femministe per 50 anni, abrogò l’istituto dell’autorizzazione maritale e ammise le donne, al pari degli uomini, agli impieghi pubblici, ma il testo approvato finì per tutelare la figura della moglie, della famiglia, più che della donna; un altro esempio è il diritto di voto, che fu conquistato nel 1945). Nel periodo tra le due guerre, ciò che rimase del primo femminismo assunse un’accezione negativa; fu tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo che una nuova generazione politica di donne riutilizzerà questo termine per nominare il proprio movimento. Le femministe degli anni Settanta tenderanno ad operare una distinzione tra il loro movimento (della “liberazione”) e le altre esperienze politiche emancipazioniste, considerate più filoistituzionali. Alla nascita della Repubblica seguì il riconoscimento di diritti politici, civili, sociali e l’entrata in vigore della Costituzione a cui avevano contribuito anche 21 donne. Nonostante ciò su molti aspetti era evidente la continuità con il passato: la prostituzione nella neonata Repubblica rimase regolamentata dallo Stato attraverso le “case chiuse”, il divorzio non venne ammesso nell’ordinamento giuridico fino al 1970, tra i coniugi rimase disparità fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975. Nel secondo dopoguerra, le associazioni femminili di maggior successo furono l’Unione Donne Italiane (socialista- comunista) e il Centro italiano femminile (cattolico). Entrambe le associazioni avevano un forte legame con i partiti di massa, che prevedevano spazi d’azione politica per le donne in ambiti considerati tipicamente femminili come l’istruzione, le politiche sociali ed eccezionalmente il lavoro; il loro impegno tese alla conciliazione del diritto al lavoro e alla politica con i doveri della funzione materna: fu proprio verso questo punto che il nuovo femminismo volle creare una rottura. Col tempo infatti si fece spazio la percezione che col diritto di voto si fosse ottenuta una parità formale ma non sostanziale, incapace di scardinare l’egemonia del maschile sul femminile. La generazione nata tra la guerra e l’avvento della democrazia voleva mettere in discussione proprio questa gerarchia presente nella società; nel 1961, con l’uscita del Secondo sesso di Simone de Beauvoir, iniziò a circolare l’idea che la condizione di inferiorità delle donne avesse origine culturale e sociale e non naturale e di conseguenza si iniziò ad immaginare una nuova politica che non avesse come obiettivo la parità all’interno della società degli uomini, ma che fosse in grado di minare alle fondamenta una società intrinsecamente patriarcale. I prodromi del nuovo femminismo furono: · Demistificazione Autoritarismo (DEMAU), fondato a Milano nel 1966 con l’obiettivo di liberare sia uomini che donne da ruoli sociali predeterminati; · Movimento di liberazione della donna (MLD), nato da un comitato contro lo sfruttamento psicologico, economico e sessuale delle donne. Il pensiero femminista si nutrì dei fermenti del 68. Il ciclo di proteste offrì occasioni di socializzazione alle ragazze che prima erano precluse, così iniziarono ad analizzare e contestare i ruoli sociali tradizionali e in primo luogo rifiutarono il modello femminile incarnato dalla generazione delle madri. Dopo il 68 iniziò a svilupparsi il cosiddetto “separatismo”: nella facoltà di Sociologia di Trento, le studenti sentirono l’esigenza di creare spazi separati (in cui non vi erano uomini), in cui riflettere sulla condizione sociale di tutte le donne a partire dal proprio vissuto. Le prime rivendicazioni di un protagonismo politico femminile si rintracciano nelle università; un gruppo di donne laureate ( già prima del 68), senza pregresse esperienze politiche, fondò uno dei più importanti collettivi radicali italiani: Rivolta femminile, guidato da donne borghesi e autonome economicamente. Rivolta femminile rivendicò da subito il separatismo e sperimentò l’autocoscienza, una pratica che serve a riscoprire i nessi invisibili tra la propria esperienza biografica e la condizione sociale. Nell’estate del 1970, Carla Lonzi, Elvira Banotti e Carla Accardi sintetizzarono tutta l’elaborazione teorica di quegli anni in un Manifesto che invocava la realizzazione di una tabula rasa sulla quale le donne avrebbero iscritto una nuova politica, libera dai condizionamenti delle ideologie dominanti (maschili e patriarcali). Negli anni 1972-74, vi fu un processo di ramificazione sul territorio nazionale, su cui ebbe influenza anche la partecipazione di qualche femminista italiana agli incontri internazionali (es: 1972 in Vandea). Vennero fondate riviste per mettere in comunicazione gruppi attivi in città diverse e diffondere la riflessione del femminismo anche tra un pubblico più ampio e meno militante. Vi furono esperienze editoriali legate a gruppi della Sinistra extraparlamentare, ma lo spazio dato alle tematiche femministe da parte di questi ultimi fu limitato in quanto vi fu una sorta di scontro: il discrimine era la politicizzazione della sessualità, imprescindibile nella politica femminista. La critica femminista era rivolta alla naturalizzazione delle identità di genere, tema che per i gruppi di sinistra era considerato borghese e distante dalla morale rivoluzionaria. I collettivi post-68 infatti incentrarono la riflessione sulla “questione femminile” principalmente basandosi sulla questione operaia, quindi facendo derivare i concetti di sfruttamento sessuale e sorellanza da quelli di uguaglianza e solidarietà di classe. Ci furono militanti che cercarono di coniugare le istanze di liberazione della donna e della lotta di classe, praticando la “doppia militanza”, ma vi furono anche molte rotture: Lotta femminista, collettivo fondato nel 1971 da militanti provenienti dall’operaismo e che aveva come obiettivi: · Rivendicazione del lavoro riproduttivo e di cura; · Decostruzione del destino femminile; · Rivendicazione del salario per il lavoro domestico; · Rifiuto del ruolo materno come dovere e come unica via di autorealizzazione; Con l’avanzare del sapere medico, in questi anni diventò sempre più centrale la lotta per la libertà rispetto al corpo ed una delle parole chiave divenne “autodeterminazione”. Furono fondati consultori autogestiti e con l’intensificarsi della battaglia contro il reato di aborto, a metà anni Settanta, il femminismo divenne un fenomeno di massa, socialmente e culturalmente diversificato. Il pensiero femminista riuscì ad invadere sempre di più lo spazio pubblico e fu avviata una mobilitazione di lungo periodo sul tema della violenza sessuale. All’indomani della vittoria schiacciante del no all’abrogazione del divorzio, si aprì la strada verso la riforma del diritto di famiglia del 1975. Intanto l’elaborazione teorica in materia sessuale e procreativa si approfondiva e il movimento femminista decise di rispondere alla piaga degli aborti clandestini con i viaggi a Londra: venivano raccolti fondi per far abortire le donne in città dove l’aborto era regolamentato, come Londra. In altri casi, alcune attiviste fondarono “nuclei di autogestione dell’aborto”, ovvero imparavano la tecnica dell’aspirazione e agivano clandestinamente in case private. Lo scopo di entrambe le iniziative era garantire la libertà di abortire senza pericoli per la salute e senza discriminazioni economiche e culturali. L’approvazione del 1978 della legge 194, ovvero le “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”, pur legalizzando l’aborto, si basava sul rifiuto del principio dell’autodeterminazione delle donne. Tre anni dopo la legge 194 venne confermata e gli anni successivi all’approvazione di questa legge sono stati scarsamente indagati. Il femminismo nel corso degli anni Ottanta divenne un fenomeno “diffuso”, nonostante il fatto che i collettivi si dissolsero; nacquero nuove forme di esperienze collettive, che puntavano alla rivoluzione della produzione culturale (es: centri di documentazione, Università delle donne Virginia Woolf e invenzione di una rivista di storia delle donne > “Memoria”). Uno dei temi che creò maggior dibattito fu la prostituzione: va rifiutata o riconosciuta? Una separazione simile si propose tra femministe e lesbiche: negli anni Ottanta vi fu una maggiore visibilità dell’esperienza omosessuale nelle piazze e nella stampa femminista, ma vi furono anche lesbiche che rivendicavano separatismo dal femminismo stesso. Un’altra caratteristica degli anni Ottanta furono nuove convergenze tra femminismo, ambientalismo e pacifismo; questa caratteristica di networking perdurò anche dopo il decennio dedicato alle donne dalle Nazioni Unite (1975-1985). Di lì in avanti vi fu un movimento globale delle donne, che invitò a ripensare la categoria di diritti umani e sollecitò interpretazioni più larghe delle politiche di pari opportunità. · Per le braccianti tutto ciò era ancora più drammatico in quanto erano sottoposte ai licenziamenti e alle compressioni dei salari. Anche per chi percepiva il sussidio, la situazione non era migliore in quanto la cifra era misera; furono proprio i calmieri, i sussidi insufficienti e il caroviveri a costituire i moventi principali delle proteste delle donne, che si riunivano in cortei e marciavano verso i centri abitati, prendendo d’assalto municipi e magazzini. Anche nelle città le manifestazioni ebbero come causa immediata la partenza dei richiamati, il rincaro dei generi alimentari, i razionamenti, l’esiguità dei sussidi. I moti torinesi dell’estate del 1917 furono un esempio di protesta annonaria che coinvolse subito le operaie militarizzate. La maggior parte delle volte queste mobilitazioni erano spontanee e furono svilite attraverso l’immagine della furia femminile priva di razionalità, anche se i moti volevano colpire obiettivi precisi, identificati con l’esercizio del potere. Nel periodo tra le due guerre, l’immagine della madre che aveva sacrificato il proprio figlio in guerra divenne centrale, soprattutto nella propaganda del regime che affidava alle donne il compito di dare alla luce ed educare uomini nuovi che sarebbero stati i soldati del futuro. Nel 1935 con l’attacco all’Etiopia le organizzazioni femminili inclusero la preparazione bellica tra le loro attività e molte donne, soprattutto più giovani, furono preparate ad un’ipotetica vita coloniale. Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, i fasci femminili convertirono le loro iniziative filantropiche in attività di supporto per lo sforzo bellico e migliaia di donne confluirono nell’Unione nazionale protezione antiaerea. Per la mancanza di finanziamenti non furono mai costruiti rifugi adeguati e l’Unpa si dovette limitare a diffondere informazioni sui pericoli della guerra aerea e ad impartire istruzioni sulle procedure di allarme. Oltre alle bombe, gli aerei lanciavano anche volantini per piegare il morale del nemico e in questi ritornava il modello della “mater dolorosa” per la morte del figlio, che avrebbe dovuto trovare la propria forza opponendosi al regime (nei volantini lanciati dagli Alleati). I bombardamenti causarono sfollamento e difficoltà di approvvigionamento, che ricadde tutto sulle donne. Con la firma dell’armistizio, nel 1943, la situazione per la popolazione civile precipitò: le esperienze femminili variano geograficamente ed è impossibile restituire un quadro unitario. Nelle zone liberate dagli Alleati, per le donne ebree la vita tornò ad essere sicura, mentre nei territori della Repubblica sociale italiana scattarono confische e deportazioni. Molte famiglie cercarono di scappare e furono principalmente le donne ad attivare reti di conoscenti per trovare nascondigli ed acquisire informazioni. In tutta Europa la violenza degli occupanti e dei liberatori acquisì specifici connotati di genere e si abbatté nuovamente sulle donne tramite lo stupro. In Italia tra il 1943 e il 1945 gli episodi di violenza sessuale furono diffusi e commessi sia da tedeschi che dagli Alleati; il caso più grave e noto fu quello delle “marocchinate” del basso Lazio: questi stupri ebbero un carattere di massa e gli stupratori furono principalmente i goumiers, ovvero i soldati marocchini che costituivano il 70% delle truppe francesi. La loro violenza fu espressione del disprezzo verso il popolo italiano, che aveva tradito la Francia nel 1940. Le donne parteciparono attivamente anche alla guerra contro il nazifascismo e lo si vede già negli scioperi del 1943; le donne presero parte anche alle attività resistenziali che iniziarono dopo l’armistizio, per le più disparate ragioni: sia per il rifiuto etico del fascismo, sia per l’esperienza della clandestinità o del carcere vissuta durante il Ventennio. La scelta delle armi fu comunque difficile in quanto rompeva una visione consolidata della differenza tra i generi, che assegnava all’uomo il compito di “fare la guerra”. Inoltre le donne furono centrali nella ricerca di nascondigli, nel reperimento di informazioni, nella ricognizione del territorio, nel recapito di ordini e comunicazioni e nelle questioni di approvvigionamento, in quanto erano più libere di spostarsi; ed erano consapevoli del fatto che se fossero state scoperte, la tortura per loro prevedeva sicuramente violenze sessuali. Nel 1943 nacquero a Milano e Torino i Gruppi di difesa della donna; le formazioni femminili si diffusero in tutta l’Italia centro- settentrionale e gli furono affidati compiti ritenuti ausiliari rispetto alla lotta armata (come quelli citati sopra). Il pregiudizio sul ruolo marginale di queste attività si rifletteva anche nel nome completo dell’organizzazione: Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà. Altre donne scelsero di mostrare fedeltà al fascismo o di collaborare con i tedeschi: il progetto di “militarizzazione totalitaria” della RSI includeva anche le donne attraverso il Servizio ausiliario femminile, chiamato a svolgere servizi infermieristici negli ospedali militari e opere di assistenza. Molte giovani fasciste parteciparono anche ai rastrellamenti, alle distruzioni di centri abitati, alle stragi e alle esecuzioni dei partigiani. Questo fatto generò inquietudine all’interno della stessa RSI proprio perché rappresentava un sovvertimento dei ruoli di genere: il modello femminile domestico era messo in pericolo. Con la fine della guerra, la memoria degli anni del conflitto finì per essere oggetto di oscuramenti e revisioni: in tutte le società occidentali si affermò la tendenza a rimuovere le esperienze delle donne, in quanto ricordarle avrebbe significato mettere in pericolo il processo di normalizzazione postbellica, che aveva tra i suoi cardini il ritorno all’”ordine” del rapporto tra i generi, in cui la donna tornava ad essere confinata nell’ambito domestico. Proprio l’esperienza della guerra e della Resistenza contribuirono a dare forza all’impegno politico delle donne. Numero 5: La violenza maschile contro le donne Nel marzo 2020, con il lockdown a causa della pandemia di Covid-19, si è verificata una flessione delle denunce per violenza domestica. Inoltre, da marzo ad ottobre 2020, le chiamate al numero verde antiviolenza (1522), sono aumentate del 71,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’esplosione delle violenze di genere nel 2020 è stata definita dalla United Nations Women una “pandemia ombra” e si spiega con l’idea che l’obbligo di stare a casa e il peggioramento delle condizioni materiali ed emotive delle persone, avrebbero incrementato il consumo di droghe ed alcol ed anche i comportamenti aggressivi. Un numero crescente di donne si è trovato confinato in casa, in uno stato di dipendenza economica dal partner e quindi maggiormente esposte a dinamiche di potere e dominio. Il confinamento nella sfera domestica ha anche comportato l’isolamento delle donne dalle reti sociali e la possibilità per i maltrattanti di esercitare più facilmente il loro controllo. Tutto ciò ci rimanda alla diversa posizione storicamente occupata da uomini e donne nella società e alla costruzione storica della disuguaglianza. La categoria della violenza di genere evoca la qualità contestuale, relazionale e storica delle violenze, che sono date da determinate convinzioni e pretese che nascono dalla diversificazione dei ruoli dei due generi nella società. Nel 1903 un uomo di nome Alberto Olivo uccise la moglie Ernestina a coltellate in quanto accecato dall’ira per l’ennesimo insulto lanciatogli dalla consorte. Le sue parole per giustificare l’omicidio furono riprese dal codice civile, che diceva che la moglie deve stare soggetta al marito, gli deve obbedienza e rispetto. Alberto scrisse successivamente una sorta di romanzo matrimoniale in cui raccontò la sua vita coniugale, segnata dai comportamenti egoisti della moglie, poco incline ad occuparsi dell’economia familiare. Alberto sottolineò questi aspetti perché sapeva che così avrebbe guadagnato la benevolenza degli altri uomini ed è anche evidente dalle sue parole il legame esistente tra violenza domestica e ordine della famiglia, infatti Alberto ha agito in questo modo per riaffermare il dominio che il codice civile gli aveva assegnato e che evidentemente gli era conteso da Ernestina. Quando il Regno d’Italia, dopo l’Unità, si dotò del primo codice civile nazionale (Codice Pisanelli), nel 1865, furono regolati anche i diritti e i doveri che interessavano l’organizzazione della vita familiare: la famiglia era un’unità gerarchica, fondata su esplicite relazioni di potere (art. 131: “Il marito è il capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli creda opportuno fissare residenza”). L’articolo 134 invece istituì il vincolo dell’autorizzazione maritale anche per semplici operazioni economiche o commerciali, mentre il 220 assegnò al padre l’esercizio esclusivo della potestà sui figli e spiegava la condizione di subordinazione giuridica delle donne sposate. Tra i diversi strumenti legalmente accordati al capofamiglia per salvaguardare la posizione di comando, vi era il ricorso ad una determinata dose di violenza per ricondurre all’obbedienza moglie e figli. Lo “ius corrigendi”, seppur non esplicitamente previsto nel Codice civile, era indirettamente accettato e questo era evidente perché nella giustizia civile e penale si discutevano gli eccessi di violenza da sanzionare, stabilendo così implicitamente che esisteva una soglia di violenza legittima. Il primo codice penale unitario, il Codice Zanardelli del 1889, prevedeva l’abuso dei mezzi di correzione che arrecavano “danno o pericolo alla salute”, così come prevedeva i maltrattamenti verso componenti della famiglia: la distinzione tra i due reati era l’intenzione con cui le violenza venivano perpetrate: nel caso dei maltrattamenti, l’autore era mosso da rancore, mentre nell’abuso dei mezzi di correzione era mosso da sentimenti di benevolenza. La domanda fondamentale era quale fosse il limite e il contesto entro cui le violenze non giustificavano la separazione o costituivano reato; a fronte di una codificazione volutamente ambigua su questo punto, la decisione spettava di caso in caso ai tribunali. L’orientamento dei magistrati sembra sia stato quello di pronunciarsi a favore della separazione solo in presenza di pericolo di vita per la donna e sempre mostrando una certa riluttanza a sciogliere matrimoni di lungo corso e con figli. Esaminando processi dell’epoca, emerge che un ruolo fondamentale fosse affidato alla reputazione e allo status sociale dei protagonisti: per le “persone civili e di onesta condizione”, uno schiaffo o un pugno erano considerati atti eccessivi e sufficienti a concedere la separazione, mentre il “volgo”, abituato ad atti brutali, aveva soglie di violenza più alte. Un altro fattore determinante era la condotta femminile: in che misura la donna aveva provocato (e meritato) le violenze? Molto spesso infatti nei processi non si discuteva delle percosse o ingiurie subite, ma dei costumi e contegni femminili. Oltre alla condotta morale e sessuale delle donne, ciò che era posto sotto esame era la loro autonomia o il loro potere economico: attraverso gli insulti o l’uso della violenza gli uomini sembravano riaffermare la loro posizione di dominio rispetto a donne che mandavano avanti la famiglia. L’ultimo punto determinante nei processi, era se la violenza avveniva in pubblico o in privato: nel caso avvenisse in privato, senza provocare pubblico scandalo, non veniva concessa la separazione. La gerarchia familiare del Codice del 1865 rimase immutata per decenni e anche il nuovo Codice civile del 1942 mantenne il marito a capo della famiglia, la patria potestà, l’indissolubilità del matrimonio. L’unica cosa che scomparve era l’autorizzazione maritale (abolita nel 1919). Il carattere privato e nascosto delle violenze domestiche ha condizionato la maggiore o minore tolleranza giuridica e sociale verso il fenomeno stesso ed è il motivo per cui le violenze si sono ripetute per anni. Tra Otto e Novecento, ad intaccare la visione della famiglia patriarcale come corpo intermedio a carico del capofamiglia, intervenne la nuova cultura individualista e liberale che si stava diffondendo e che ha influenzato anche la concezione di famiglia. Questo si nota perché progressivamente venne messa al bando la tirannia violenta del capofamiglia e venne introdotto il nuovo reato di maltrattamenti in famiglia. Va sottolineato però che la nuova cultura della privacy borghese e i nuovi ideali di generazione di avvocate ha partecipato ai movimenti femministi degli anni Settanta, frapponendosi tra l’assistita e gli avvocati difensori, i giudici e i pubblici ministeri. Queste condotte traevano forza dal fatto che il reato di violenza sessuale era a fine anni Settanta ancora rubricato tra i diritti contro la moralità pubblica ed il buon costume; è solo dal 1996 che la violenza sessuale è trattata dall’ordinamento italiano come un reato contro la persona. 6. Lavoro e riconoscimento: un binomio mobile Il nostro tempo è caratterizzato, sia per le donne che per gli uomini, dalla precarietà del lavoro nelle sue diverse dimensioni: occupazioni poco qualificate, disoccupazione, licenziamenti, instabilità contrattuale. Al degrado del lavoro sono esposti soprattutto i giovani, le donne, gli immigrati e in primis le donne immigrate. Nella ricerca storica e sociale le rappresentazioni più empatiche verso i lavoratori riconducono il problema alla minore domanda di lavoro delle imprese, conseguenza delle nuove tecnologie, della globalizzazione, del potere delle gig economy e della loro delocalizzazione in paesi sottosviluppati. Questa prospettiva propone spunti stimolanti permettendoci di riflettere sugli andamenti quantitativi del lavoro tra passato, presente e futuro, ma tende a rappresentare come unitario un mondo che in realtà è molto eterogeneo trascurando la differenza di genere. Le attività a più alta applicazione tecnologica sono sia per gli economisti classici (Smith – Marx) che per il mainstream liberista il cuore della ricchezza delle nazioni, le occupazioni che rientrano nel target dell’innovazione tecnologica, dagli operai metalmeccanici agli informatici di ultima generazione, si configurano come lavori buoni. Nella nostra società gerarchizzata per genere, tali occupazioni sono quasi esclusivamente affidate agli uomini. La storia delle donne ci insegna però che il lavoro meno riconosciuto svolto a casa offre importanti risposte ai bisogni sociali, anche se tale riconoscimento è lento e contradditorio. Oggi lo scarto tra lavoro e dignità si ripropone in forma diversa, parte degli studiosi sottolineano che il lavoro indipendentemente dal genere, non sia più considerato una fonte di dignità sociale e di diritti, le seconde e le terze generazioni nate dopo la Seconda guerra mondiale hanno preso le distanze dai valori “materialisti” dei genitori e nonni. Le nuove generazioni hanno aderito a ideali postmaterialisti di libertà individuale e di sviluppo della soggettività. Questo cambiamento ha spinto Andrè Gorz a riclassificare il lavoro come un elemento tra molti altri di uno sviluppo pluridimensionale della persona, basato sull’apprendimento continuo, nuove conoscenze e tempo libero. A questa visione positiva del valore del lavoro si contrappone il sempre maggiore disinteresse da parte dei giovani. A partire da questa visione la società italiana è stata rappresentata come una “società signorile di massa” nella quale gli attori sociali preferiscono al lavoro l’ozio e il consumo. Il rapporto tra riconoscimento e lavoro è in continua evoluzione e il valore che ne viene attribuito ha ripreso ad aumentare con il crescere dell’insicurezza (crisi 2008 – 2018). La dignità del lavoro: donne e uomini nella lunga durata. Nelle società aristocratiche il riconoscimento della dignità e dell’onore delle persone non si basava sul lavoro, ma sulla capacità militare e sul controllo delle donne. L’Ideale universale della dignità del lavoro emerge con le rivoluzioni liberali e con il tentativo della borghesia di universalizzare i valori del giusnaturalismo e dell’illuminismo che si espressero nelle rivoluzioni americana e francese. La figura del borghese si pose a cavallo tra due sfere, quella pubblica con l’impegno professionale e quella privata caratterizzata dalla predominanza sul nucleo familiare. Il suo onore era fondato sul controllo di entrambe le sfere e sulla sua libertà di lavoratore affrancato ormai dai vincoli dell’ancien Regime. La storia del lavoro femminile ci parla di vite di impegno e di fatica molto spesso non riconosciute e svalutate, al femminile c’era una doppia subalternità quella come al maschile verso i datori di lavoro e la discriminazione di genere radicata nella cultura patriarcale della famiglia e della società. Si apre un divario tra la loro partecipazione al lavoro e la loro invisibilità sociale, culturale, giuridica, che nascondeva il loro ruolo produttivo. La costruzione della subalternità femminile mostra nella storia una continuità secolare, ma anche cambiamenti importanti. Il confinamento domestico, considerato una costruzione ottocentesca borghese, muta nel corso del tempo il suo statuto e le sue ragioni. Sia nel mondo antico che moderno la donna non seguiva i modelli di vita che erano stati idealizzati dalle élite (Economico di Senofonte), nell’antica Roma infatti sia le schiave che le donne delle classi popolari lavoravano in tutti i settori nonostante era “alla donna più convenevole lo starsi in casa, che l’andar fuori”. Nella Firenze medievale l’onore maschile dei ceti sociali intermedi era legato all’invisibilità del guadagno femminile, il cui lavoro era ascritto all’uomo (anche del caso della balia – balio). Patriarcato, maternalismo, male breadwinner: Al momento dell’unificazione italiana furono due gli universi sociali del depotenziamento della soggettività femminile: il mondo borghese e il mondo contadino. L’onore borghese si basava sul possesso lavorativo – patrimoniale e sulla subordinazione della donna legata al binomio protezione – deferenza. Il controllo sulle donne si rifà all’ideale del male breadwinner cioè all’idea che l’uomo guadagni il pane per tutta la famiglia. Questa innovazione ideologica borghese trova riscontro nel Codice Pisanelli del 1865 che rafforzò il legame tra mogli e mariti piuttosto che quello padre – figlia, eliminò l’obbligo della dote matrimoniale ma introdusse l’autorizzazione maritale che impediva alle donne sposate di disporre liberamente dei beni. Il codice però tardò ad essere accolto nelle pratiche sociali. Una spinta importante all’universalizzazione della norma del male breadwinner venne dalle nuove idee scientifiche sulla funzione generativa delle ovaie che fu la base di un nuovo discorso sul corpo materno allo stesso tempo prezioso e fragile, da proteggere e medicalizzare. Si va nella direzione di un disvelamento della potenza del corpo femminile, ma allo stesso tempo si propone un’immagine della donna come mero corpo passivo, motivando così l’esclusione dal lavoro. Questa nuova ideologia trova riscontro nelle rilevazioni censuarie del 1901 che registrano il lavoro delle coniugate solo se il reddito era superiore a quello del marito. Questa grande differenza di genere rafforzò l’antica obbligazione alla domesticità fino ad allora applicata solo alle famiglie benestanti. Nascono tra 1902 – 1910 le leggi a tutela della lavoratrice madre per proteggerla dalla fatica estrema, per la prima volta la donna era giuridicamente più protetta dell’uomo. La svalutazione del lavoro: nelle campagne, nelle città, in fabbrica: l’Italia postunitaria era fortemente ancorata al mondo rurale che rimase a lungo lontano dai venti liberali che soffiavano in città. Le due realtà condividevano la svalutazione del lavoro femminile, ma con esiti opposti. Infatti, l’idea di tutelare il corpo materno da eccessivi sforzi non penetrò mai nel mondo rurale. Fonti ottocentesche a partire dall’inchiesta Jacini (1870 – 1880) mostrano la pervasività della fatica delle contadine (lavori stagionali di raccolta, aratro, vanga), le donne contadine furono tuttavia il pilastro – “l’anello forte” della società rurale. Solo dopo la Seconda guerra mondiale con la consapevolezza della svolta democratica diminuì la loro disponibilità al sacrificio. La loro voglia di fuggire dal duro lavoro si espresse sia con le lotte contadine sia nella decisione di non sposare contadini. Nel mondo urbano è più complesso avere un quadro dello sfruttamento lavorativo delle donne, a causa della maggiore eterogeneità si ha l’impressione di una transizione complessa, fluida, diversificata, articolata per contesti, mestieri e status sociale. Le fabbriche tessili ottocentesche rivelano condizioni di lavoro durissime, ma, nonostante ciò, la presenza femminile in questo settore fu sempre più massiccia. Il disciplinamento femminile a fine Ottocento era più duro di quello maschile, gli orari di lavoro dell’industria tessile erano molto più lunghi di altre industrie, la scarsa sopportazione alla reclusione di fabbrica era considerata nelle donne l’espressione di una cattiva moralità, erano inoltre obbligate a indossare il grembiule a salvaguardia della loro onestà. La fabbrica fu un luogo di anticonformismo e di emancipazione, che dava voce alla protesta femminile come nei moti del 1898 con il protagonismo delle giovani della Pirelli. Il lavoro a domicilio fu una fuga ambita dal duro lavoro delle campagne e dal lavoro servile, tanto da essere stato elevato a simbolo di affrancamento, non si estinse con l’industrializzazione, ma anzi rifiorì ai margini delle città industriali. Il servizio domestico fu un altro ambito super femminilizzato, nonostante la sua cattiva reputazione ottocentesca fu un vasto canale di reclutamento per le giovani immigrate in città. Nel primo Novecento molte ragazze preferivano il duro lavoro di fabbrica pesante ma libero, dove non subivano lo stigma associato alla servitù. Con la grande depressione del 1929 il numero delle domestiche tornò a crescere in tutta Europa come sintomo della disoccupazione maschile e della diminuzione delle occupazioni alternative. Tra gli anni 20 – 30 del Novecento la presenza femminile aumentò anche negli esercizi turistici, servizi di accoglienza e ristorazione. Ceti medi al lavoro: tra Ottocento e Novecento si aprirono nuovi spazi lavorativi per le giovani del ceto medio nei servizi postali, nell’insegnamento, nella professione di infermiera e servizi telefonici. Le prime lavoratrici furono assunte dal ministero dei lavori pubblici e vivevano una condizione simile a quella operaia, per questo furono protagoniste nel Novecento di accese battaglie sindacali. L’assunzione però era condizionata dai “costumi integerrimi” (proibizione del matrimonio, licenziamento per immoralità come concubinaggio). Nel 1875 il ministro Zanardelli giustificò l’assunzione delle donne nel campo della telefonia – telegrafia, presupponendo la superiorità delle donne di ceto medio rispetto agli uomini di ceto basso, si trattò di un passo in avanti capace di mettere fine alla retorica dell’inferiorità femminile e alla logica di patriarcato, nell’ambiente urbano si stava procedendo verso un riconoscimento di una parità di genere nelle facoltà intellettuali. La nuova classe socialista però guardava ai nuovi mestieri femminili in modo ambiguo, Anna Kuliscioff vicina alle istanze femministe nel 1892 denunciò la condizione delle donne nelle nuove professioni che invadevano i nuovi campi professionali a causa della loro fragilità sociale, quindi per lei per ottenere un qualche riconoscimento. Le donne dei ceti medi, infatti, entravano nel mercato del lavoro accettando paghe molto basse, ma erano volenterose di farlo perché anche questi poveri lavori allargavano il loro sguardo sul mondo. Le figure più rispettate erano quelle che si legittimavano grazie all’idea della vocazione femminile alla maternità e alla cura. Il simbolismo del materno si legò ben presto alla figura della maestra che divenne un forte appiglio identitario. Alla fine dell’Ottocento il totale delle maestre superò quello dei maestri, il grado di femminilizzazione dell’insegnamento può essere letto come un indice della disponibilità di occupazioni maschili alternative a quelle di maestro. dentro di sé anche la questione del consumo e quindi il nesso inscindibile tra casa e mercato, spesso visto come un’attività individuale. Il consumo invece è un’operazione funzionale alla soddisfazione dei bisogni in quanto interpretazione di necessità, desideri, abitudini dei familiari, ma anche come forma di tessitura di legami attraverso gli oggetti di mercato. Oltre l'approccio consumerista: Le ragioni dell’invisibilità del lavoro domestico sono da ricercarsi nella divisione Settecentesca tra sfera pubblica sfera privata, che ha proposto due idealtipi in contrapposizione: quello dell’uomo produttore e quello della donna consumatrice responsabile del Ménage domestico. Nel dibattito storiografico la genesi di una nuova cultura materiale orientata ai beni di consumo è stata collocata cronologicamente nell’Inghilterra di XVII – XVIII secolo o nell’Italia del Rinascimento. Questa rivoluzione dei consumi è stata spesso associata al ruolo cruciale svolto dalle donne. In una prima fase del dibattito è stata data una definizione riduttiva di consumo, inteso solo come il momento dell’acquisto dei beni senza considerare le attività che precedono e seguono quel momento. Da questa lettura il consumo è emerso come un’attività contrapposta al lavoro produttivo, associata allo spazio extradomestico. Il ruolo delle donne in tale ambito è stato rappresentato in veste semplicistica e riconducibile al modello del “consumo vistoso”. Molto spesso gli storici si sono concentrati sullo studio del ruolo delle donne nel consumo senza accompagnare a ciò uno studio delle pratiche quotidiane e sociali che legano il mercato alle dinamiche familiari. Nel corso degli anni 2000 si va nella direzione di un superamento dell’ottica semplicistica a vantaggio di uno sguardo più sofisticato di lungo periodo incentrato sulla dimensione culturale e politica dell’agire di consumo. La consumatrice agisce in un’area di costante scambio tra sfera pubblica e privata ed è in questo quadro che si inserisce la centralità assegnata in età contemporanea alle donne nella riproduzione biologica e sociale della famiglia, di cui l’attività di consumo è parte integrante. Uno sguardo di lungo periodo sulla trattatistica domestica ci aiuta a cogliere un salto di qualità nel corso dell’Ottocento, quando nasce una vivace produzione editoriale dedicata alla cucina e alla cura della casa scritta dalle donne per le donne. La costruzione di una “moderna donna di casa” è un tratto della contemporaneità e marca un cambiamento significativo che esce dalla sfera maschile – politica e si definisce come “economia domestica”. Il consumo e la scienza del governo domestico: è molto difficile ricostruire con le fonti la vita degli ambienti domestici e i suoi diversi ruoli in relazione al consumo per la casa e la famiglia. Tuttavia, numerose spie nelle fonti (trattatistica, letteratura, stampa periodica …) esprimono che nella società di Otto – Novecento il ruolo di consumo per la famiglia sia svolto in gran parte dal mondo femminile. Il consumo ordinario è parte integrante delle cure domestiche – familiari che si considerano al cuore dei doveri sociali delle donne adulte, per la maggior parte della popolazione italiana il consumo è un’attività connessa alla sfera dei “bisogni” in primis legata all’esigenza di conservazione dei corpi (nutrirli, vestirli, riscaldarli …). Nelle prime indagini sui bilanci familiari a partire dalla metà dell’Ottocento la nozione di consumo è legata a quattro ambiti: alimentazione, vestiario, abitazione e bisogni morali come spese religiose e piccoli svaghi. All’indomani dell’unità i dati ISTAT sulla media dei consumi provano al primo posto l’alimentazione con un’incidenza che supera il 60% della spesa media annua. Dunque, quando parliamo di consumo quotidiano intendiamo beni alimentari e in misura decrescente servizi, vestiario e oggetti per la casa. L’accezione più propriamente economica di consumo si è affermata più tardi, nell’economia politica classica il consumo ha assunto un’accezione positiva, diventando l’obiettivo della produzione, quindi un’attività fondamentale per il benessere delle nazioni. Questo passaggio ha creato una divaricazione tra l’economia politica, che si pone come una nuova scienza sociale attenta ai meccanismi della produzione e l’economia domestica, una disciplina minore che si specializza sul consumo inteso come quell’insieme di comportamenti, dalla pianificazione all’esecuzione della spesa, ritenuti funzionali a una riproduzione sociale armoniosa. Nel 1846 Ristori nel “corso elementare di economia domestica” esplicita che è “l’economia” il compito più importante delle donne, le quali devono mostrare sapienza nel custodire e centellinare le risorse alimentari, lasciando sempre da parte quote di risparmio. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si moltiplicano i manuali dedicati alla vita domestica, come quello di Angelica Devito Tommasi che parla di “scienza del governo domestico” in una fase storica in cui l’economia domestica era divenuta materia scolastica. In questo senso il consolidamento della nazione e la gestione virtuosa della sfera familiare apparivano strettamente legate, si insisteva sull’importanza della formazione femminile in quanto questa aveva una ricaduta sia sociale che politica. Questa e molta altra letteratura riconosce un nesso tra sfera pubblica e privata, tra vita domestica e destino della nazione, mostrando una morale di fondo nell’educazione delle lettrici. Il rigore nella spesa parte da una corretta individuazione dei bisogni familiari e dalla scelta di materiali – oggetti capaci di durare nel tempo. Sono le “mode” il vero nemico delle virtù domestiche, capaci di ledere il principio di dignità morale di una donna e della rispettabilità sociale della sua famiglia. Il mondo della distribuzione commerciale italiana rimane per tutta la prima metà del Novecento legato a negozi di piccola taglia, sul piano culturale innovazioni come le gallerie commerciali e negozi concepiti in maniera moderna e funzionale allo spettacolo della merce (sorti alle fine dell’ottocento a Milano), producono conseguenze inattese (preoccupazione del troppo coinvolgimento delle donne attirate da nuovi beni di consumo non necessari). Tra guerra e dopoguerra: una stagione ambivalente: La grande guerra e l’ascesa del fascismo furono momenti cruciali di politicizzazione del quotidiano, in primo luogo dal punto di vista alimentare la guerra apre un lungo periodo di crisi. Nei diversi paesi belligeranti già a partire dai primi anni del conflitto, si diffonde un crescente malcontento legato alla sofferenza alimentare e ben presto si prese consapevolezza che la battaglia alimentare era importante quanto quella militare. In tutta Europa la riduzione della disponibilità di cibi considerati essenziali e l’aumento dei prezzi, trasforma l'atto del consumo in un compito pieno di ansia e rancore. Ciò contribuisce a creare una ristrutturazione delle relazioni sociali contrapponendo produttori – commercianti e consumatrici, rappresentate talvolta come campionesse di patriottismo che attendono in fila per un tozzo di pane, invocando legittimamente un intervento dello stato. L’inflazione e la compressione dei consumi incidono negativamente sulla qualità della vita quotidiana e producono nel dopoguerra una riconcettualizzazione dei bisogni quotidiani. Tanto che nell’Italia postbellica il caroviveri resta un tema politico molto sentito e i fascisti fecero della politica del consumo quotidiano un pilastro del loro progetto politico. La preoccupazione per la disponibilità, il prezzo e la provenienza dei beni diventa un elemento costante della politica dei consumi nel ventennio, unendosi all’assunzione del controllo su produzione e commercio annunciato con la politica autarchica che negli anni Trenta pone il consumo e il risparmio del superfluo al centro di una propaganda rivolta in primis alle donne. Nel quadro della trattatistica domestica e culinaria rivolta alle donne si consolida il processo di costruzione di uno spazio pubblico di dialogo al femminile che si faceva portavoce di un’ideale di domesticità competente e intimo. La cultura commerciale, in particolare del cinema e della moda, durante il regime, è intrisa di messaggi contraddittori dove la propaganda sulla devota massaia si contrappone a figure femminili indipendenti e ribelli, le protagoniste femminili che dominano la scena sono tutt’altro che in linea con i modelli reclamati dal regime. Le culture del “miracolo” e la critica femminista: Il secondo dopoguerra e i periodi successivi rappresentano un momento decisivo nella logica del consumo. Il processo che porta alla diffusione generalizzata di nuovi beni di consumo (elettrodomestici, televisori, automobili) e la conseguente modifica delle abitudini familiari, è molto meno uniforme socialmente e geograficamente di quanto la retorica del “boom economico” la descriva. Negli anni del miracolo (1958 – 63) parte consistente delle famiglie operaie e contadine era ancora esclusa dal godimento dei nuovi beni. Solo tra gli anni Settanta e Ottanta si può parlare di una nuova concezione dello standard di vita, quando il mondo domestico italiano si omogeneizza sotto il profilo delle dotazioni essenziali (acqua, gas, luce, servizi igienici) e sotto quello di una modernizzazione funzionale ed estetica, che fa della casa uno dei “progetti” delle famiglie italiane. Gli anni del “miracolo” preparano il terreno dentro al quale i nuovi beni di consumo e un nuovo modo di consumare si afferma nel contesto italiano. I modelli provengono dagli Stati Uniti che introducono una strategia economica e culturale che assegna ai consumi di massa un ruolo centrale. Gli ideali di libertà di consumo, libertà di scelta, di una femminilità moderna che non tradisca l’orizzonte della domesticità sono veicolati con vari mezzi che vanno dall’attivismo degli imprenditori alle tecniche commerciali – pubblicitarie ai nuovi luoghi di consumo quali grandi magazzini e supermercati. Tale processo chiama in causa la figura femminile e in particolare la casalinga – consumatrice, sono questi infatti gli anni d'oro della casalinga a tempo pieno. I nuovi beni di consumo per la casa vengono promossi come “necessità” fondamentali per i “tempi moderni” in cui il benessere diviene l’obiettivo politico della logica capitalistica e si misura a partire dalla liberazione delle donne dalla fatica e dal grande dispendio di tempo di alcune mansioni. Si consolida così il processo di “visibilizzazione” della dimensione del lavoro domestico della casalinga – consumatrice, favorito dalla diffusione dei principi del taylorismo. I vettori culturali che si rivolgono alle fasce medio – alte accompagnano alla rivoluzione dei consumi una discussione sull’eccessiva liberazione dal tempo quotidiano delle donne, associata ad una perdita di senso delle loro giornate. L'idea di fondo era che la domesticità, costruita nel tempo come un forte elemento identitario, se ridimensionata poteva rischiare di lasciare un vuoto enorme aprendo la strada all’assenza di riconoscimento sociale. Queste istanze di preoccupazione verranno elaborate dal linguaggio pubblicitario degli anni Sessanta che propone il consumo come attività che qualifica la “donna moderna” e ne potenzia le capacità. Sempre nel quadro degli anni Settanta, per effetto di una serie di fattori (scarto generazionale, forza del movimento femminista), il nesso tra lavoro domestico e liberazione delle donne diviene una questione politica, stimolando le prime riflessioni e indagini sulle donne nella società capitalistica. Molte studiose insistono sul potere manipolatorio della pubblicità e della cultura commerciale, vista come principale responsabile della “mistica della femminilità” che tenta di mantenere le donne dentro i confini domestici. Parte del femminismo italiano inscrive il lavoro domestico all’interno delle dinamiche del sistema capitalista, intendendolo come un presupposto fondamentale e invisibile dell’accumulazione del capitale. Attraverso la piuttosto sostenere una particolare idea di famiglia. Al fascismo vanno attribuite le basi legislative, sociali e simboliche di un modello di Welfare state che si mantenne nel tempo. Madri e cittadine: le politiche del fascismo: Nel periodo tra le due guerre mondiali la sconfitta del maternalismo fu identificata con il fallimento della campagna a favore del sussidio di maternità. In ogni caso la questione della tutela delle lavoratrici madri fu un tema condiviso sia dai governi democratici e liberali che autoritari, anche se con finalità diverse. In Italia fino al 1934 non si registrarono mutamenti rispetto alla legislazione prefascista, ma il regime non esitò ad avere il primato rispetto alle altre nazioni sul tema protezione della maternità e dell’infanzia. Fu la creazione dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia ONMI del 1925 a costituire l’asse centrale delle politiche sull’assistenza alla gravidanza, alla medicalizzazione del parto con l’obiettivo di ridurre la mortalità infantile, alla modernizzazione dell’assistenza sanitaria e sociale (infermiere, ostetriche, assistenti sociali). Per l’OMNI la maternità era un valore sociale il cui compito era quello di formare le “cittadine – madri” della nuova Italia. Avevano l’obiettivo di mettere in atto una welfare revolution a favore della tutela di madri e minori. I primi anni dell’Opera furono segnati da una certa lentezza delle iniziative e da un profondo appesantimento burocratico. I compiti dell’ente erano vastissimi e legati ad attività di assistenza diretta (consultori ostetrici e pediatrici, asili nido, erogazione di sussidi) e indiretta (affidamenti familiari, ammissione a istituti educativi, collocamento a lavoro). L’OMNI, dunque, avrebbe dovuto assolvere il compito di garante dell’applicazione di gran parte della legislazione di tutela della madre lavoratrice. Nel 1923 era stata erogata la legislazione in materia di assicurazione di maternità che prevedeva un contributo annuale di 7 lire per ogni lavoratrice e un’erogazione di 18 lire da parte dello stato per ogni parto o aborto assistito. Potevano fruirne le donne tra 18 e 50 anni addette alle aziende soggette alla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e quelle impiegate in imprese private. Nel 1927 la legge attutò un miglioramento dell’assicurazione di maternità per cui a ogni operaia era concessa una indennità di 150 lire in caso di parto o aborto spontaneo e alle operaie veniva consentito di astenersi dal lavoro durante l’ultimo mese di gravidanza e di prolungare il riposo per un mese dopo il parto, con la garanzia di non perdere il posto di lavoro. Fu la legge del 1934 ad occuparsi della tutela fisica e morale delle donne occupate nei lavori più dannosi per la salute, estendeva il periodo di assenza obbligatoria dall’ultimo mese di gravidanza a sei settimane dopo il parto e dava alle donne due periodi al giorno di riposo per l’allattamento, mentre il sussidio di maternità passò a 300 lire in caso di parto e 100 in caso di aborto. Questa legge rispetto a quelle emanate dai governi liberali apportava molti miglioramenti anche se l’obiettivo era scoraggiare l’occupazione femminile e modificava profondamente il significato dell’intervento legislativo. Solo nel 1936 l’assicurazione di maternità sarebbe stata ampliata ad altre categorie come le lavoratrici agricole, anche se i sussidi erano notevolmente inferiori. I provvedimenti del 1926 del Regolamento dell’OMNI che prevedevano la verifica del rispetto delle normative sul lavoro delle donne madri e il collocamento al lavoro possibilmente a domicilio o in stabilimenti in grado di provvedere all’assistenza del neonato, sembravano porsi in contraddizione con la tendenza del fascismo ad espellere le donne dal mercato del lavoro. Ne è la prova la politica di limitazione al 10 % del personale femminile, per cui poco poteva fare l’OMNI. Le misure a favore della maternità non gettarono una base assistenziale permanente, ma si possono identificare come misure e interventi di emergenza che infatti nel 1936 verranno sostituiti dagli assegni familiari e dai premi di fertilità, entrambi provvedimenti che offuscavano la centralità femminile. Durante gli anni di guerra il lavoro dell’ente divenne ancora più complesso a causa degli incarichi crescenti e nonostante i numerosi propositi di migliorare le prestazioni erogate sembrava ancora mancare un progetto previdenziale complessivo. Inoltre, l’impatto delle riforme del welfare fascista fu limitato perché lo stato esitò ad erogare finanziamenti a molte iniziative dell’OMNI. In ogni caso ben al di là delle intenzioni del regime, la modernizzazione imperfetta realizzata dal fascismo nel campo dell’assistenza alla maternità e all’infanzia e il ruolo acquisito dalle donne sia come fruitrici che, come operatrici, avrebbero aperto nel dopoguerra potenzialità e scenari per una nuova cittadinanza femminile i cui embrioni erano già visibili. Dalla legge del 1950 alle politiche di conciliazione: Nel secondo dopoguerra la spinta democratica dei partiti antifascisti portò ad un rilancio dei diritti politici femminili e ad una politicizzazione del lavoro come fonte di cittadinanza. Un ruolo di primo piano fu svolto dall’associazionismo femminile, in particolare dall’unione delle donne italiane (UDI) e dal centro italiano femminile (CIF). Nella costituzione l’articolo 37 pur ponendo sullo stesso pari i diritti delle donne e degli uomini, riaffermava la maternità come elemento centrale dell’identità femminile. Alla complessità della dialettica politica sui ruoli femminili si accompagnava la difficoltà legata alla fase di transizione delle istituzioni del fascismo. Non fu mai avviata una vera e propria epurazione del personale fascista e se i propositi erano quelli di cancellare il ricordo fascista, la strada da seguire era molto frastagliata e incerta come le finalità. Molti interrogativi furono posti riguardo all’OMNI in particolare quali obiettivi avrebbe dovuto assumere dopo essere stata uno strumento di propaganda del regime. Le risposte ideologiche si incontravano inoltre con le grandi difficoltà del post – guerra, per cui molte strutture erano distrutte e altre molto carenti rispetto ai bisogni della popolazione. All’interno dell’OMNI era da ridefinire l’intera gerarchia di valori sociali, etici, politici, igienico – sanitari su cui l’Opera si era formata nel periodo fascista. La strada da seguire sembrava chiara: decentramento, razionalizzazione dei servizi, professionalizzazione e collaborazione con altri enti per tentare di rendere l’assistenza un diritto per tutti. Ma nei primi anni Cinquanta l’OMNI si preoccupò principalmente di problematiche legate al sovrappopolamento, alla carenza alimentare, all’arretratezza igienica, all’assistenza di persone in condizione precaria … mentre si espansero notevolmente le Case della madre e del bambino che includevano consultori pediatrici e ostetrici, asili nido e servizi assistenziali. La legge del 26 agosto 1950 sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri approvata dal progetto Noce – Di Vittorio, fu un primo vero intervento organico a protezione della maternità che riguardava le lavoratrici dipendenti private e pubbliche includendo anche le lavoratrici agricole salariate e lavoratrici a domicilio. La norma prescriveva il divieto per le donne in gravidanza di svolgere mansioni di trasporto – sollevamento pesi e lavori faticosi e dannosi, l’interdizione al lavoro nei tre mesi precedenti al parto per le impiegate nell’industria, ridotte a sei per le altre categorie, il divieto di licenziamento, una retribuzione pari all’80 % e fu anche garantita l’assistenza medica. Frutto di idee condivise all’interno del parlamento italiano, la legge era una delle più avanzate a livello internazionale. Fu la legge del 1971 ad adeguare la normativa sul congedo di maternità aprendo un decennio di trasformazione in campo di diritti civili per le donne, grazie all’attivismo dei movimenti delle donne, la normativa degli anni Settanta puntava alla parità tra uomo e donna e all’integrazione delle donne nel mondo del lavoro. La proposta di legge si ancorava su tre cardini: l’estensione del congedo obbligatorio, l’introduzione di un periodo di congedo facoltativo, un assegno di natalità alle lavoratrici autonome. Sebbene questo provvedimento fosse tra i più avanzati di Europa non si trovava traccia dei padri, tale lacuna verrà colmata solo nel 1977 con la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, mentre bisognerà aspettare la legge del 2000 perché venissero accolte le proposte europee sulla condivisione dei compiti di cura tra uomini e donne e alcuni diritti fossero estesi anche ai padri, favorendo la condivisione della responsabilità di cura dei figli e la ridefinizione del rapporto tra tempi di vita e di lavoro, sulla base di un approccio innovativo rispetto al passato. Il congedo parentale superava la legislazione degli anni Settanta sulla lavoratrice madre. In Italia esistono due tipologie, il congedo di paternità, di breve durata nel periodo immediatamente successivo al parto e il congedo genitoriale, da condividere con la madre che incide molto sulla distribuzione dei ruoli familiari. L’asimmetria di genere nella distribuzione del lavoro familiare e della cura dei figli continua ancora oggi a manifestarsi anche nella prevalenza della fruizione dei congedi da parte delle donne. Le politiche di conciliazione conducono ad un allontanamento dal maternalismo attraverso quello che è stato definito un “significativo cambiamento culturale verso compiti di cura che prescindano dai ruoli di genere”. Negli ultimi decenni le politiche della famiglia si sono trasformate da un modello male bredwinner a uno dual earning family. 9. donne e migrazioni L’emigrazione deve essere inquadrata prendendo in esame le rinnovate caratteristiche del fenomeno, come una diversa e più articolata composizione sociale, il livello di scolarizzazione dei soggetti che partono, la provenienza urbana e non rurale e la presenza di nuove mete. L’esperienza del migrare che è stata costitutiva e strutturale della storia italiana nella sua dimensione globale, torna a riaffermare la sua centralità. Le protagoniste di queste nuove migrazioni sono le donne, le “nuove italiane” cioè le immigrate che hanno acquisito la cittadinanza italiana, ma soprattutto le seconde generazioni delle immigrate. Secondo l’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero il 45% di coloro che hanno lasciato l’Italia è costituito da donne, nel 2019 l’aumento degli espatri dei laureati è superiore per le donne, ma tale incremento risente anche della maggiore incidenza di donne laureate. Mentre il trasferimento in Italia dall’estero risente di un lieve squilibrio a favore degli uomini, che varia a seconda della cittadinanza dei migranti, gli immigrati con passaporto europeo sono in prevalenza donne (russe – ucraine) mentre gli arrivi dal continente africano sono in maggioranza uomini. Muoversi nelle pieghe della storia: Ruolo, presenza, agency delle migranti sono oggi meno in ombra rispetto al passato. Anche se ancora oggi la storia delle migranti trova difficoltà ad essere inserita nella storia delle migrazioni, si possono considerare passati i tempi in cui gli studi consideravano il processo migratorio neutro dal punto di vista del genere. I nuovi approcci metodologici e interpretativi hanno rivelato come la storia di genere possa essere proposta come un surplus rispetto alla semplice storia delle migrazioni, arricchendola di elementi decisivi come: la complessità del mondo del lavoro, le diverse forme di oppressione e di agency, la sessualità, la fluidità tra sfera pubblica e privata, le ri - significazioni di mascolinità e femminilità. La visione interpretativa del genere ha contribuito all’abbandono dell’ottica macro che vedeva le migrazioni come vere e proprie espulsioni di massa e ha permesso di spostare l’attenzione sulle origini individuali e sulle scelte della migrazione. L’Italia mostra chiaramente, oltre alla lunga tradizione di circolazione di popolazione straniera, la presenza di mobilità a micro – medio – lungo raggio e di migrazioni circolari, stagionali e stanziali. Il ruolo attivo giocato dalle donne nelle migrazioni interne e di confine, evidente già nel periodo preindustriale, quando le giovani nubili della campagna si inurbarono per lavori manifatturieri fissi o stagionali. Le donne si spostavano per diversificare e migliorare la condizione della famiglia contadina. Lavoravano come lavandaie, tessitrici, ricamatrici, balie, nell’industria della seta … presso famiglie abbienti ancora in tutta la prima metà del Novecento. Le balie erano ben pagate e a partire dalla seconda metà dell’Ottocento il baliatico si inserisce nelle rotte internazionali del lavoro globale (Cairo - Alessandria). Nei primi del Novecento all’intensificarsi della mobilità internazionale partecipa anche il mercato del sesso con l’apertura dei “bordelli per bianchi” nelle colonie o nelle comunità di uomini emigrati. Le donne migranti sono state agenti al pari Un primo flusso importante è quello legato alla presenza di scuole superiori e università alle quali sono iscritte anche studentesse europee, giunte in Italia come “ragazze alla pari” che spesso si trovano a svolgere il ruolo di domestiche o baby-sitter per potersi mantenere. Un secondo flusso è determinato dai nuovi assetti post – coloniali, è prevalentemente costituito da donne provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia che giungono in Italia con un livello di istruzione medio – basso e si dedicano all’attività di domestiche. Questa fase dell’immigrazione femminile degli anni Settanta è stata a lungo ignorata a favore di una periodizzazione che colloca l’arrivo delle migranti negli anni Ottanta, è vero che la caduta del muro di Belino del 1989 e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica aprirono una stagione in cui le migrazioni divennero più ingenti. Il punto di svolta fu l’apertura delle frontiere dei paesi dell’Europa Orientale, si tratta di una migrazione assai eterogenea con una grande presenza di donne che incontra la crescente domanda di lavoro di cura e assistenza. Le più dequalificate mansioni di cura si moltiplicano e vengono destinate in massima parte a donne straniere. Numero 10: Identificazione di genere: corpi e culture della sessualità Nel 2021 nel Parlamento italiano è approdato un testo di legge volto ad intervenire in materia di discriminazione e violenza, integrando i motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Altre volte l’ordinamento giuridico italiano ha prodotto norme che riguardano la sessualità, in forme diverse: nel 2004 aveva toccato il tema della genitorialità di coppie non sposate o dello stesso sesso, occupandosi di procreazione medicalmente assistita; nel 2016 è arrivata la legge sulle unioni che ha sancito il riconoscimento dell’omosessualità. La proposta del 2021 non si è trasformata in legge in quanto restano molto divisivi alcuni concetti come corpo, sesso anagrafico, sesso biologico, identità sessuale, orientamento sessuale e genere. La questione riguarda proprio il ruolo che ha la natura: è uno spazio originario che precede la volontà umana e quindi non si può fare niente a riguardo, oppure il corpo e la sessualità non sono dati naturali fissi ma una costruzione culturale? I provvedimenti presi a riguardo segnalano che il confine dei diritti è mobile e si sposta nel tempo e nello spazio. Questo approccio promuove una denaturalizzazione della sessualità e di conseguenza smuove convinzioni culturali, religiose, giuridiche; cosa definisce quindi la sessualità? La natura o la soggettività? La sessualità è qualcosa che è data alla nascita e va semplicemente accettata o è qualcosa che si acquisisce nell’interazione sociale e culturale, che può essere modificata e scelta? Il tema centrale quindi è il rapporto tra natura e cultura e del loro peso nel definire relazioni sociali. Sulla naturalità del corpo e della sessualità si è costruita una gerarchia sociale che, richiamandosi ad una natura che precede qualsiasi costruzione sociale, ha legittimato un diverso accesso ai diritti di uomini e donne ed una subordinazione della donna all’uomo, che si ritrova anche nell’ordinamento giuridico. La sessualità è stata indagata a partire dall’Ottocento e il Novecento è stato definito il “secolo del sesso” proprio per la progressiva liberalizzazione dei costumi che si è verificata in Occidente. Tutto ciò ha causato anche reazioni contrarie, come quella della Chiesa cattolica, che iniziò a considerare le questioni giuridico-politiche legate al genere e alla sessualità come un problema di primaria importanza fin dalla IV Conferenza mondiale sulle donne, organizzata dall’Onu a Pechino nel 1995 e in cui venne posta la questione del gender: ovvero come i diritti e la libertà delle donne in diversi contesti del mondo restava condizionata dal modo di pensare il maschile e il femminile. La storia occidentale ha considerato per lungo tempo corpo e sessualità come aspetti meno nobili dell’umano secondo una concezione che contrapponeva ragione e natura e che si rispecchiava nella dicotomia maschile/femminile. La medicina ippocratico-galenica e la filosofia aristotelica avevano fondato l’inferiorità della donna nella fisiologia dei liquidi e del sangue: questa concezione ebbe una forte influenza fino all’età contemporanea e un’impronta più decisa a queste idee è stata data anche dalla religione cristiana. La conoscenza della sessualità e del corpo, per molti anni, è stata basata su un modello monosessuale: maschio e femmina erano variazioni di uno stesso corpo e secondo una disposizione gerarchica in cui quello maschile era al vertice e andava poi a digradare verso quello femminile. Con il Settecento e le rivoluzioni, che posero il tema dei diritti, questa concezione entra in crisi; in questo periodo corpo e sessualità acquisirono centralità politica per gli Stati nazionali, che si interessarono sempre di più agli aspetti biologici della vita degli individui e della comunità politica (nascere, morire, crescere, riprodursi). Michel Foucault l’ha chiamata biopolitica (azione politica centrata sulla capacità di investire sul corpo del singolo e della collettività). La parola sessualità fu coniata intorno agli anni 70 dell’Ottocento per indicare un’attività specifica e delimitata, era interpretata in chiave medica, in una prospettiva definita dalla dimensione naturale che vincolava il rapporto tra i generi alla prospettiva eterosessuale, fondata sulla capacità procreativa come elemento fondamentale e ordinatore. Successivamente lo psichiatra Carl Westphal introdusse il termine “istinto sessuale contrario” e lo scrittore Karl-Maria Kertbeny coniò i termini omosessualità ed eterosessualità. Con la creazione di questi termini iniziava un processo di patologizzazione dei comportamenti sessuali “devianti”, che si inseriva nel processo di medicalizzazione della sessualità. Emerge così una prospettiva deterministica, secondo cui genere, identità individuale, ruoli e funzioni erano stabilite dalla natura e da una prospettiva organicistica. La natura era considerata la base da cui definire una gerarchia ed una complementarità tra donna e uomo. Oltre a questo la scienza riuscì però ad incrinare alcune convinzioni errate: sul finire degli anni 60 dell’Ottocento fu identificata la periodicità del ciclo femminile, che diventava dunque un fenomeno fisiologico distinto dal desiderio sessuale o dal concepimento (come si riteneva prima). Questa teoria slegò la sessualità dalla riproduzione; le donne cominciarono così a poter controllare la propria fertilità, facendo della maternità non un destino subito ma una scelta voluta. In questo modo, anche la sessualità “deviante” non era più un peccato o un reato, ma la manifestazione della fisiologia che si esprimeva aldilà della volontà individuale. Aldo Mieli riuscì a fare dell’omosessualità un oggetto di studio medico-scientifico, fondando la “Rassegna di studi sessuali” (1921) con la quale promuoveva la lettura dell’omosessualità come di un fenomeno naturale, quindi di pertinenza medico-scientifica. Dall’Unità d’Italia fino alla Grande Guerra vi sono stati due percorsi principali attraverso i quali la concezione del corpo e della sessualità della donna si è costruita e modificata: · Da una parte il ruolo centrale delle scienze biomediche ha delineato un’interpretazione deterministica, con un forte carattere normativo che faceva derivare ruoli e condizioni sociali dalla natura del corpo e della sessualità. Il destino individuale delle donne era da intendersi segnato dalla funzione biologica della riproduzione. · D’altra parte si è avuto un processo di trasformazione promosso dalle donne che nelle proprie esperienze biografiche hanno messo in discussione il legame vincolante tra destino individuale e destino naturale della riproduzione (Eleonora Duse, Maria Montessori, Sibilla Aleramo). Il radicamento dell’appartenenza religiosa segnava molto il modo con cui si parlava di corpo e sessualità nello spazio pubblico, in quanto la religione confinava questi argomenti nel territorio dell’indicibile e del vergognoso, legati al peccato. Dopo l’Unità comunque la sessualità divenne un tema di discussione politica e culturale attraverso la questione della prostituzione: considerata lesiva di un ordine morale e sociale ed espressione di una degenerazione del corpo della nazione. La lotta alla prostituzione si configurava come battaglia in difesa di un ordine morale; la regolamentazione della prostituzione è stata introdotta nel 1860 con il decreto Cavour, per combattere un presunto aumento delle malattie veneree tra i soldati e per proteggere la salute fisica e morale dei cittadini. La regolamentazione nel corso del tempo fu più allentata e poi nuovamente irrigidita anche per l’emergere in Italia del tema del malthusianismo, che poneva la questione del controllo delle nascite e di un uso consapevole della fertilità e della sessualità. Gli ultimi anni dell’Ottocento hanno visto un aumento della sessualità nel discorso pubblico anche a causa della pornografia, ritenuta un morbo infettivo capace di contagiare individui, famiglie, società. Vi fu la richiesta di messa al bando di cartoline e fotografie erotiche. Fu in questo contesto che si manifestò un crescente interesse per le sessualità devianti: la stampa si iniziò ad interessare ai primi fenomeni di travestitismo, vi fu una forte attenzione medico-psichiatrica verso le pratiche omosessuali femminili e una sorta di “ossessione letteraria” verso la figura della perversione sessuale che si diffuse nella letteratura romantica di fine Ottocento. Le scienze biomediche rilanciarono una forte attenzione anche verso la sessualità della donna, con letture polarizzate tra la centralità della maternità in quanto essenza della femminilità, e l’esistenza di un istinto sessuale femminile separato dalla maternità stessa. Cesare Lombroso fu un esempio del peso che ebbe la scienza nella considerazione della sessualità e del corpo e della costruzione di un legame tra comportamento sociale e biologia. Lombroso era l’emblema della scienza positivista che nel rapporto natura-cultura, schiacciava tutto su un determinismo riduzionista e biologista, secondo cui i comportamenti e i generi erano espressione diretta di una natura non modificabile. Nel 1893 ha pubblicato “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, in cui rilanciava teorie sull’inferiorità delle donne, considerando la prostituzione come l’espressione peculiare della criminalità della donna. La prostituzione sarebbe un aspetto proprio del genere femminile, la manifestazione di un atavismo della donna che ne esprimeva l’inferiorità intellettuale, considerandole esempio di una evoluzione non compiuta. Le critiche alla sua opera, anche quelle più feroci, si muovevano comunque dalla convinzione dell’inferiorità della donna iscritta nella natura, subordinata anche dal punto di vista sessuale alla funzione materna. Fu nel contesto della pubblicazione dell’opera “L’origine della specie” di Darwin, che la Chiesa cattolica cominciò a concentrare la sua attenzione sulla sessualità con l’obiettivo di difendere l’ordine morale minato dalla secolarizzazione. Nel 1851 la Congregazione del Sant’Uffizio iniziò a regolamentare i temi della sessualità e della procreazione, temi che poi assunsero forma compiuta nell’enciclica del 1930, Casti connubii. Ciò che regolamentava era l’interruzione della gravidanza per motivi terapeutici, la contraccezione, la sterilizzazione, la fecondazione artificiale. Un altro conflitto tra Stato e Chiesa riguardò la famiglia e il matrimonio e l’opposizione alle proposte di legge per modificare l’assetto giuridico delle relazioni matrimoniali. Questo segnò anche l’ingresso dei cattolici in politica, in quanto il contrasto al divorzio fu uno dei sette punti sottoscritti dai candidati che ambivano al voto cattolico e che aderirono al patto Gentiloni. Il lungo Ottocento fu quindi segnato da un approccio deterministico che lega la sessualità e il corpo al dato naturale. Per quanto riguarda i comportamenti sociali, emersero cambiamenti significativi sulla scena artistica, che mettevano in scena spesso la relazione della donna con la sessualità. Il topos della donna desiderosa sessualmente (presente nelle opere liriche e nei romanzi francesi) ebbe un ruolo nel mobilitare le donne appartenenti alle élite. Grazie al teatro invece iniziò a modificarsi la rappresentazione delle donne: molte attrici trasportarono la libertà di costumi che avevano sul palco anche nella vita quotidiana, mostrando un’immagine di sé che sfidava gli stereotipi di diritto di famiglia riequilibrò l’asimmetria tra i diritti di donne e uomini nella sfera domestica e nel maggio 1978 fu approvata la legge 194 sull’interruzione terapeutica di gravidanza. Sempre in quest’anno fu approvata la legge Basaglia, che riformava la cura psichiatrica abolendo i manicomi. Gli anni Settanta si chiusero con l’approvazione di tre leggi importanti, che avevano a che fare con la salute, il corpo, la sessualità. Parte del femminismo criticò la legge 194 perché rispetto ad altri paesi, in Italia non riconosceva pienamente l’autodeterminazione della donna sulla scelta dell’aborto, subordinando questa richiesta ad una verifica del personale medico. Con gli anni Ottanta e lo sviluppo della televisione ci fu un cambiamento nel modo di vedere, pensare, giudicare il corpo e la sessualità della donna. In questo contesto si inseriscono associazioni e movimenti che diedero a queste mutazioni un contributo con una mobilitazione attiva slegata dalle formazioni partitiche. Le scienze biomediche in questi anni conobbero un grande sviluppo per quanto riguarda le conoscenze tecniche sulla procreazione. Nel 1983 nacque la prima cittadina concepita in provetta in provincia di Napoli e questo fu l’ingresso ufficiale dell’Italia nella stagione delle biotecnologie. Nel processo di riflessione sul rapporto tra scienza, corpo e sessualità si delineò un secondo percorso di critica verso la concezione binaria ed eteronormativa della sessualità. La questione ha rilanciato istanze poste da una parte del femminismo per un uso critico più articolato del rapporto con la scienza. La questione emerse anche in Italia con quella che è stata chiamata “svolta teorica” o “lesbofemminismo”, che aveva il proprio referente nel separatismo e che pose il tema della “differenza nella differenza”. La posizione lesbofemminista si collocava in un quadro transnazionale richiamando le istanze del poststrutturalismo e intrecciando i temi della critica femminista con le questioni della razza, del post-colonialismo e delle politiche identitarie delle minoranze sessuali. Nel 1979 fu fondato il Movimento identità trans e poco dopo l’Arcigay, che diventò Arcigay e Arcilesbica per poi arrivare alla separazione con la nascita di Arcilesbica. L’associazionismo omosessuale rimanda però agli anni Settanta, quando fu organizzata una manifestazione per contestare il Congresso internazionale delle devianze sessuali (1972, Sanremo). Questo Congresso fu tenuto dal Centro italiano di sessuologia, di ispirazione cattolica, e dedicato a “comportamenti devianti della sessualità umana”, proponendosi di discutere cure riparative delle omosessualità. La manifestazione di protesta che nacque sancì il momento fondativo del movimento LGBTQ+ in Italia. Tra il 1979 e il 1981 il Parlamento italiano discusse la disciplina del cambio di sesso e nel 1982 furono approvate le Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso. A metà degli anni Ottanta fu fondato il Coordinamento nazionale delle donne di scienza che, tra le altre cose, si confrontò con l’epidemia di AIDS, che nell’opinione pubblica simboleggiava il prezzo della deviazione dalla norma sessuale. Il ministro della sanità Donat-Cattin, nel 1988 lo scrisse esplicitamente in una lettera inviata alle famiglie italiane in occasione della Prima giornata mondiale sull’AIDS. Con gli anni Novanta, sono state promosse normative che per alcuni versi hanno rilanciato una prospettiva essenzialistica dei generi, come quella del 2004 in materia di procreazione medicalmente assistita, segnata da una riduzione essenzialista della donna alla funziona procreativa, subordinandola all’embrione che aveva le principali preoccupazioni del legislatore ed escludendo qualsiasi genitorialità non eterosessuale. Nel 1996 è stato istituito il ministero delle Pari opportunità e tra il 2010 e il 2016 in Parlamento si è avviato il confronto politico sulle unioni civili che ha portato al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Dagli anni Novanta la diffusione dei “gender studies” ha concentrato l’attenzione sulle modalità in cui si sono definite la differenza sessuale, le culture della sessualità e larga parte delle conoscenze sul corpo su cui queste si fondano. Si approda così alla rivendicazione dell’esistenza di un numero di generi che eccede il maschile e il femminile. 11. Le forme della fede: cristianesimo, femminismi, militanza Se le donne sono ancora una maggioranza silenziosa nella Chiesa, alcuni aspetti sembrano indicare anche in Italia l'inizio di una "mobilitazione". La nuova "minoranza attiva" è rappresentata dalle teologhe, dal 2003 riunite nel Coordinamento teologhe italiane. La messa in discussione degli stereotipi e dei ruoli di genere, i diritti e la costruzione di autonomia e di cittadinanza hanno segnato in profondità il cambiamento nel vissuto religioso delle donne e nella loro conformità o meno agli indirizzi del magistero. Il femminismo cristiano nel primo Novecento Nelle èlite cattoliche aristocratiche e borghesi tra '8-'900 molte donne furono partecipi del vasto movimento di riforma culturale e religiosa che promuoveva una religiosità che si definiva talvolta "neocristiana", tesa a riscoprire il Vangelo nel suo dettato originario e a vivere la fede come esperienza interiore e come impegno etico. Due libri "coraggiosi" rispondenti a queste istanze: La fede nel soprannaturale di Luisa Anzoletti e Sulla breccia di Antonietta Giacomelli. Il primo introduceva a un cristianesimo inteso come tensione spirituale e come valorizzazione dell'impegno nella società. Il secondo insegnava alle giovani a trasfondere nella pratica questa spiritualità rinnovata, procurando il bene con la "carità operosa". Nel 1893 a Roma veniva fondata l'Unione per il bene, a cui avrebbe partecipato la stessa Giacomelli. Nell'Unione accanto alle signore dell'aristocrazia italiana vi erano dame della colonia russa presente a Roma, americane e inglesi di formazione cosmopolita, anglicane, ortodosse, cattoliche «appassionate e militanti» come Giacomelli. Il suo Sulla breccia, ristampato più volte, divenne un libro di formazione rivolto alle giovani donne. L'educazione che Giacomelli proponeva alle sue lettrici aveva per fondamento il cristianesimo in aperto contrasto con il devozionalismo coltivato nel cattolicesimo. Nelle pagine del suo libro il matrimonio non appariva più come l'unica via di realizzazione della donna. Giacomelli difendeva la dignità della donna sola e promuoveva un'educazione che indicasse altre scelte di vita. La fede nella sua visione non era sentimento, ma piuttosto una conquista ottenuta con lo studio e la ragione. "Apostola" della libertà e del progresso, la donna cristiana ha bisogno di libertà per compiere la sua missione. La crisi che dopo l'enciclica Pascendi (1907) e la condanna del modernismo colpì il riformismo religioso non la scoraggiò. Nella sua visione l'educazione religiosa era parte della promozione culturale e intellettuale delle donne, una delle rivendicazioni sociali più significative da porre al nuovo secolo. Nel tempo dovette sopportare il peso della censura ecclesiastica. Nel 1895 era intanto uscito a Milano, il secondo libro di Luisa Anzoletti, La donna nel progresso cristiano. Nelle prime pagine l'autrice traccia un profilo delle donne contemporanee: «fanno impero per schierarsi tutte in massa alla testa del progresso civile» ma le idee che le sostengono sono straniere. Anzoletti ammirava le donne educate nei college degli USA, forti di un "primato sociale" che otteneva loro stima e riconoscimento. Ma le parevano modelli lontani dalla cultura delle italiane. Tanto più le pareva impossibile in Italia un'organizzazione femminile unitaria, minata al fondo da un divario che ripeteva le divisioni politiche e religiose che avevano percorso la costruzione dell'Unità, Le cattoliche cercavano «una bandiera propria» attorno a cui raggrupparsi, ma per sentimento e per educazione erano aliene da azioni "ribelli" e che si allontanassero troppo dal solco del magistero ecclesiastico. La nuova generazione di donne istruite e "laboriose" che anche in Italia reclamava la propria indipendenza era ormai per loro un ineludibile termine di confronto. Di questo soggetto inedito dalla forte valenza civile coglieva la capacità di trasformazione del femminile di cui poteva farsi segno. Ne era attratta, ma più ancora la inquietava la ricerca di un rapporto tra femminismo e cristianesimo, come argine a una libertà emozionante quanto pericolosa. Era sua convinzione che il femminismo fosse profondamente radicato nelle Scritture. Nella visione di Anzoletti si congiungeva l'ebraismo al cristianesimo, la donna cristiana senza disconoscere la propria appartenenza era già preparata al "risorgimento intellettuale" propugnato dal femminismo. La donna cristiana è consapevole della dignità e libertà trasmessale dalla propria tradizione, ma non assume la soggettività forte delle emancipazioniste- Anzoletti prendeva le distanze dalla donna istruita. La donna cristiana sceglie per sé la debolezza, non percorre le vie della rivendicazione, segue le tracce dei cadenti. Un'incarnazione del femminismo cristiano le appariva la suora di carità. La vita interiore è il tratto eminenete della donna cristiana e la distingue dalla femminista tutta "impeto" e "audacia" nel fare e nel riveendicare. Non le appartengono le virtù che sono proprie di donne educate per la patria e non solo per la famiglia. Suo è l' «affetto sofferente», frutto di attenta educazione. Nel tempo la considerazione di Luisa Anzoletti mutò sensibilmente. Al convegno organizzato a Milano nel 1907 dalle giovani redattrici di "Pensiero e Azione" propose un femminismo inteso come forza ordinatrice, movimento disciplinato, restaurazione morale. La nuova «civiltà femministica» sarebbe stata un campo di azione e di lotta, ma anche baluardo per la famiglia. Qui Anzoletti prendeva le distanza dai temi della parità. La "vera emancipazione femminile cristiana" additava come modello una donna «giustamente libera e moralmente grande» che ha diritto alla coscienza e all'indipendenza, ma vi rinuncia come dono per il bene comune, l'ordine e la pace della famiglia. La raccolta di firme indetta nel 1902 dal periodico "Azione muliebre" contro il progetto di legge sul divorzio fu la prima battaglia pubblica delle cattoliche. Intanto si era costituito a Milano il Fascio democratico cristiano femminile promosso da Adelaide Coari e da don Carlo Grugni. Il Fascio e il suo periodico "Pensiero e Azione" diretto da Coari intendevano promuovere l'educazione e l'organizzazione delle operaie attraverso associazioni, scuole di lavoro, biblioteche e circoli di studio. COncepivano l'impegno come un apostolato nel solco del pensiero intransigente e della sua opposizione alla società moderna. In Coari la matrice intransigente si intrecciava con l'impegno per la giustizia e la riforma sociale. A fianco delle operaie fece propria la rivendicazione dei diritti del femminismo laico e socialista. "Pensiero e Azione" a partire dal 1906 alimentò il dibattito attorno a un Programma minimo femminista che poneva in agenda la questione del voto alle donne a cui Pio X era nettamente contrario. Il convegno del 1907 promosso da "Pensiero e Azione", aperto a tutte le confessioni, fu la prima occasione di confronto nel femminismo italiano. Elena de Persico, direttrice di "Azione muliebre" non aderì e la stampa integrista accusò il programma di modernismo, secondo un classico accostamento tra femminismo e modernismo. Al I Congresso femminile italiano indetto a Roma nel 1908 la partecipazione delle cattoliche fu scarsa. La rottura avvenne sull'ordine del giorno proposto da Linda Malnati, socialista, a favore dell'aconfessionalità della scuola elementare. Per la stampa integrista fu la conferma dell'impraticabilità di una ricerca di intesa tra "laiche" e cattoliche. In un clima di grande ostilità verso il femminismo cristiano di cui il periodico era espressione, Coari nel 1908 pose fine alla sua pubblicazione. Nell'aprile del 1909 nasceva, in una solenne udienza pontificale, l'Unione fra le donne cattoliche d'Italia (UDCI). L'associazione aveva una netta finalità religiosa, escludendo dai suoi fini per volontà di Pio X la politica e l'esigenza di diritti che sono in opposizione diretta con la missione provvidenziale della donna. La militanza delle cattoliche La scelta di dare vita a un'organizzazione femminile di azione cattolica rappresentò una "cesura" nella storia del cattolicesimo italiano. Giuseppe Toniolo, presidente dell'Unione popolare cattolica italiana, rimproverava ad Adelaide Coari di non essersi affidata alla guida dell'autorità ecclesiastica. La nuova organizzazione nasceva nell'obbedienza alla gerarchia e peccato inculcato dall'educazione; la confessione era spesso un "dovere" male accetto. A fianco delle inquietudini che attraversavano in misura più ampia il mondo femminile, emergeva un movimento che proponeva un rinnovamento della pratica e della fede e che investiva gli strati più diversi della vita sociale. La contestazione nata negli anni del Concilio e dell'immediato post-Concilio come un discorso interno alla Chiesa e al mondo cattolico sfociò poi in aperto dissenso nella stagione dei gruppi spontanei (1967-68), nella quale si discuteva del rinnovamento della Chiesa, della riforma liturgica, ma anche del divorzio, del concordato, dell'unità politica dei cattolici e della libertà di aderire ai partiti e ai movimenti di Sinistra. Nei gruppi del dissenso molte credenti cercarono un modo diverso di vivere la fede, tentando di comporre più appartenenze. Le tematiche del femminismo introdussero una variabile importante all'interno del movimento animato dalle comunità di base. Dal desiderio di intrecciare questa riflessione con il vissuto di fede nacque, nel 1973, il gruppo La donna e la chiesa. La pratica femminsta apriva a un processo di liberazione dai condizionamenti di un'educazione che giustificava con motivazioni religiose, rituali e sacralizzanti la subordinazione delle donne. Nel denunciare i legami tra Chiesa e patriarcato, il gruppo proponeva di liberare la teologia dal dominio maschile e di guardare alla Bibbia con occhi femministi , come al racconto di un popolo oppresso che tenta la sua liberazione. Nella convinzione che la rivelazione cristiana ci sia giunta «attraverso la violenta mediazione della cultura patriarcale», il lavoro del gruppo era di riappropriazione culturale, era la fondazione secondo Fossati di «una teologia dalla parte della donna».I viaggi in Italia e all'estero erano occasione di incontri e di scambi. Dalle questioni dibattute in quegli anni nei convegni e nei gruppi di studio possono essere indicativi i temi proposti dal gruppo "La donna e la chiesa". La pratica di riappriopriazione di sé proposta dalla prassi femminista e la visione culturale sessiste che è alla base della morale tradizionale della Chiesa apprivano inconciliabili. Durante gli anni '70 le donne delle comunità cristiane furono coinvolte nelle battaglie a difesa del divorzio, per l'interruzione volontaria di gravidanza e per la gestione dei consultori. Nel rifiuto dell'abrogazione si trovarono uniti i gruppi e i movimenti del dissenso, ma anche molti che non si erano mai riconosciuti nel dissenso. Per il referendum sull'aborto dell'81 il fronte dei cattolici favorevoli al mantenimento della legge 194 fu meno vasto e meno organizzato. Le donne cristiane e cattoliche che prendevano posizioni articolate in difesa del diritto di aborto preferivano alla condanna l'accettazione del rischio e della responsabilità della scelta. Nel 1969 di era costituita la Federazione giovanile evangelica italiana (FGEI). Anche per i giovani e le giovani evangeliche il '68, il Vietnam, la teologia della liberazione rappresentarono una cesura. La FGEI era anche il luogo in cui le tematiche del femminismo trovarono maggiore accoglienza. Ad Agape venne organizzato nel 1974 il "campo femminista internazionale". Lì fin da subito si impose la scelta del separatismo. Molto si rifletteva negli incontri sull'educazione ricevuta e sui condizionamenti religiosi. Nel rapporto tra fede e politica, il cristianesimo appariva annuncio del Vangelo all'interno di una prassi di liberazione vhe univa lotta di classe e lotta femminista. Nel 1987 l'esperienza degli incontri riprese con un campo femminista italiano rivolto inizialmente al monndo protestante ma ben presto aperto a tutta l'area del femminismo. Nei primi anni '90 il Centro di Agape ospitò incontri di conoscenza del pensiero della differenza. Cassiopea, l'associazione nata dalle ragazze della FGEI ma non solo, richiamava all'importanza del linguaggio e sollecitava a nominare il femminile nella liturgia, nella teologia e negli stessi documenti della Federazione. Era anche tempo di individuare una genealogia per ricostruire la propria storia. Fu riflessione femminista e la relazione con le altre donne della comunità a fare del pastorato femminile un'esperienza innovativa e originale. Emerse allora un "discorso femminile" moderato, "riformista", che prendeva le distanze dai movimenti femministi di tipo "radicale" e che all'inizio degli anni '80 dette vita a una rivista, "Progetto donna", che esprimeva l'impegno a portare il progetto cristiano in un campo ritenuto appannaggio esclusivo della cultura laica. Femminismo cattolico, quello che avrebbe preso forma nei convegni di "Progetto donna", era per le redattrici il termine più vicino alla loro appartenenza e militanza confessionale. Del femminismo proponevano un'accezione larga, un processo che coinvolgeva uomini e donne. Alle parole del lessico politico del femminismo con la tensione che quasi le opponeva, "Progetto donna" preferiva la parola promozione, nell'ambito di quella più ampia promozione umana e cristiana a cui era stato dedicato il convegno ecclesiale sull'evangelizzazione convocato a Roma dalla CEI nell'Ottobre del '76. Per "Progetto donna" famiglia, nella sua accezione comunitaria. era tra le parole chiave della reinvenzione di una dimensione politica dove «il potenziale di rottura di ieri si faccia capacità di mediazione». "Progetto donna" mantenne per tutti gli anni '80 un carattere minoritario e una sostanziale invisibilità.
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