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Storia delle mode XVIII-XXI secolo, Sintesi del corso di Costume E Moda

riassunto completo del libro Storia delle mode XVIII-XXI secolo, Enrica Morini

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 24/01/2021

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Scarica Storia delle mode XVIII-XXI secolo e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! STORIA DELLA MODA XVIII-XXI SECOLO Enrica Morini Il lusso, la moda, la borghesia Il lusso è una delle chiavi interpretative per comprendere la moda occidentale, ciò non esclude che il modo di vestire sia sempre stato utilizzato anche con altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali, ma le idee di magnificenza, ricchezza, esclusività e rarità hanno sempre costituito un dato costante delle trasformazioni della moda. Quando si parla di moda si intende qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento. Nel Medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la superiorità del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità. Il collegamento tra ruolo sociale e foggia dell’abito è proprio di tutte le civiltà, ma nel mondo antico e in quello extraeuropeo questo legame è fissato da regole che appartengono alle tradizioni e sono stabili nel tempo. Questo modello è stato messo in crisi nell’Europa occidentale fra XIII e XIV secolo, quando è stata introdotta la regola della trasformazione e della modernità. Da quel momento l’abito ha iniziato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale della persona secondo regole non rigide, ma soggette all’inventiva, al gusto, alle risorse dei singoli individui o di gruppi, ai quali è stata riconosciuta una preminenza estetica e culturale in questo campo. L’introduzione del principio del cambiamento e della moda è stato uno degli effetti di un più ampio processo storico, che ha visto la trasformazione strutturale dell’Europa e il suo passaggio ad una concezione moderna dello stato. Nella nuova condizione, comunque il possesso e la gestione della ricchezza hanno continuato ad essere il vero fondamento del potere reale, ma ricchezza e potere hanno cominciato ad avere caratteristiche e modalità di formazione diverse, con conseguenti trasformazioni di carattere sociale e culturale. Dato che la moda fu appannaggio delle classi più ricche e ne rivestì l’apparire pubblico per comunicare il loro ruolo, mettere in evidenza il potere e la ricchezza, scegliendo gli strumenti più consoni alla cultura e al modello di vita di ogni momento storico. La regola dell’Ancien Régime era “far vedere ed essere visti”. La struttura gerarchica della società europea conservò per secoli la rigorosa attribuzione dei compiti istituzionali, ma anche la suddivisione sociale della responsabilità in campo economico stabilita nel Medioevo, alcuni avevano l’incarico di produrre altri di consumare. Il consumo doveva essere commisurato al potere e alla visibilità. Il lusso della corte era anche immagine dello stato e della sua concezione economica precapitalistica. Solo con Luigi XIV lo sperpero esplicitò la propria funzione sociale ed economica, la nobiltà era costretta all’esempio del re e dall’appartenenza alla sua corte, invece lo Stato sfruttando il lusso favorì la crescita dei fornitori e dei finanziatori. Il potere costitutivo si organizzò per difendere anche in questo modo la propria preminenza istituzionale del meccanismo di ascensione sociale, che la borghesia europea mise in atto fin dalle sue origini e cercò di reprimere con le leggi suntuarie qualsiasi possibilità di confusione delle rispettive posizioni. Calvinisti e puritani posero il problema sulla natura dell’uomo e sulla sua possibilità di salvezza, si giunse alla conclusione che l’aspetto esteriore non ha relazione diretta con l’importanza sociale della persona, quindi modestia e moderazione divennero le vere doti da comunicare attraverso l’abito. Anche nel mondo cattolico cominciarono a farsi strada richiami a valori evangelici originari o naturali, che si opposero ai modelli di vita di corte attraverso la proposta di atteggiamenti austeri e rigorosi, più consoni ad una condotta cristiana. Abiti borghesi All’interno di questa nuova cultura la borghesia inventò la propria moda che corrispondeva a un ideale di vita, a un modello etico, a principi e gusti che le erano specifici. La lezione della corte di Luigi XIV era stata fondamentale per comprendere il senso borghese, il lusso era ancora un modello di consumo, un modo per far girare merci e produrre ricchezza. Su questo concetto si fondò The Fable of the Bees pubblicato da Mandeville nel 1714, che portò alla specificazione dei concetti di lusso e di fasto nelle voci dell’Encyclopédie, il secondo era collegato al principio dello spreco, il primo veniva considerato un semplice effetto della legittima pulsione all’emulazione sociale e poteva essere utilizzato all’interno di un’organizzazione economica. Restavano comunque da definire i confini, culturali e morali, all’interno dei quali il lusso poteva essere accettabile e la moda vestimentaria poteva diventare segno di valori positivi. Nel corso del Settecento si assiste alla lenta crescita di un modello di consumo borghese. Il primo segno riguardava l’abbigliamento maschile, rispetto al quale l’aristocrazia inglese e gli intellettuali europei proposero un modello semplificato, un completo composto da marsina, sottomarsina, camicia, calzoni restò invariato ma con tessuti di lana in tinta unita o nera. I ricami, nei completi più elaborati furono sostituiti da galloni applicati, negli altri scomparvero del tutto. Era una sobrietà scelta da chi voleva distinguersi dallo sperpero dell’aristocrazia e dei cortigiani. Bisognava inventare un modello analogo per il femminile, la cultura borghese cominciò a proporre un ideale di donna lontano dal quello della corte. Gli scopi della vita borghese erano il matrimonio e la cura dei figli, senza la possibilità di un ruolo pubblico, l’abito divenne lo specchio di questa virtù. Non si usò più solo il nero, ma anche colori chiari, nastri, passamanerie, merletti, indumenti leggeri e comodi. Questa forma di moda borghese si sviluppò in due modi antitetici, quella maschile si istituzionalizzò e quella femminile mutò nel tempo. La differenza di genere diventò la chiave di lettura del modello vestimentario moderno, sia nella foggia, che nella logica del cambiamento e delle novità. L’accostamento al potere da parte dell’uomo borghese portò ad una codificazione del modo di vestire che corrispose alla codificazione del suo ruolo, quindi anche l’abito divenne una divisa destinata a far riconoscere l’adesione ad un tipo di società da parte di chi la portava. Una divisa che non poteva essere soggetta alla moda, perché avrebbe messo in discussione il patto sociale o l’appartenenza ad esso. Le sole cose che potevano essere modificate erano segni marginali, delegati a comunicare sottosignificati, come la distinzione di ceto. Per questo motivo la moda maschile si concentrò sui particolari: tessuti, cravatte, gilet ma anche la perfezione nel taglio degli indumenti, la pulizia, la stiratura, la distinzione e l’eleganza del portamento. L’abbigliamento femminile ebbe una storia completamente diversa, nel mondo borghese ottocentesco le donne non avevano un ruolo pubblico, la loro vita tra le pareti domestiche le faceva dipendere dallo status sociale ed economico del marito o del padre. Le professioni della moda Le mode dovevano essere considerate tali dal gruppo do riferimento cui il soggetto apparteneva. Per tutto l’Ancien Régime la loro invenzione e adozione erano state appannaggio delle corti e delle gerarchie aristocratiche. La competenza creative era uno dei privilegi dei consumatori del lusso che proponevano nuove fogge, adottavano o respingevano le idee, si allineavano alle mode di altre corti. Era quindi dalle corti e dai centri di potere che discendevano le novità, senza che fosse pensabile il contrario e senza una circolazione diffusa, gli appannaggi gerarchici e le leggi suntuarie impedivano che questo avvenisse. Nei secoli dell’Ancien Régime nella moda si era praticata una netta distinzione tra momento ideativo, appannaggio delle corti e fase di realizzazione da parte degli artigiani, che seguendo specifici statuti corporativi, mettevano in opera l’oggetto d’abbigliamento. L’unica fase autonoma era quella della fabbricazione dei tessuti, che richiedeva certe competenze professionali e capitali da investire, questo giustifica la nascita di una casta di mercanti, di operai tessitori e di centri di produzione. Il tessuto era così costoso da costituire spesso il segno più lussuoso di un abito. Tutti gli artigiani che a diverso titolo intervenivano nella realizzazione dell’indumento erano semplici esecutori che lavoravano su commessa diretta e venivano pagati per il lavoro svolto. Di fatto il nuovo vestito della sovrana era una semplice camicia dritta con le maniche lunghe e una fascia in vita. L’ampiezza era ottenuta dalla scollatura, da una coulisse, ricoperta da una specie di colletto a due balze, e lungo le maniche da arricciature parallele, che formavano sbuffi di tessuto. Questo abito aveva esprimeva dei significati culturali: il tessuto, la mussola di cotone leggera, trasparente e preziosa proveniva dall’India, rispondeva perfettamente alle indicazioni delle teorie illuministe: era igienica, comoda, giovane. Il colore, un’adesione ideale a quel gusto neoclassico che stava trovando nei reperti del mondo antico la chiave moderna della bellezza, il bianco stava diventando il colore della fine del secolo e il corpo un fatto culturale sociale. Rose Bertin Gran parte delle novità che fecero la moda di questo periodo furono pensate scelte negli appartamenti di Maria Antonietta e presero forma nelle mani di Rose Bertin. Le sue scelte furono influenzate dal fascino dello stile di vita inglese, ormai diventato una moda. Rose Bertin fu la risposta questo continuo desiderio di rinnovare il proprio aspetto e in modo di vestire delle dame di corte. Fino al 1781 la regina di Francia fu quasi simbolo di una maniera di vestire ricca di decorazioni in cui nodi, cocche, nastri, fiori e frutti, rigonfi di garza invadono tutta la superficie disponibile, completata dalle monumentali acconciature di cui Léonard era maestro e dai pouf di ogni tipo creati da Rose Bertin. Dopo la nascita dell’erede al trono Maria Antonietta lanciò la moda dei capelli corti, e adottò un abbigliamento più semplice e più adatto alla ricerca di uno stile di vita più naturale. Fu la volta della chemise à la Reine e della moda all’inglese. Au Grand Mogol il magasin delle Bertin esponeva un’insegna con la scritta “Marchande de mode de la Reine”. Si trovava in Rue Saint Honoré, il quartiere in cui si concentrava il commercio del lusso e dell’eleganza francese. Più tardi si trasferì in Rue de Richelieu, molto più vicino al Palys Royal, i cui giardini con gallerie porticate diventarono il luogo più alla moda di Parigi e il punto d’incontro del bel mondo cittadino e internazionale. Per rispondere alla richiesta di una clientela esigente e numerosa, si serviva di una trentina di persone che lavoravano nella bottega, ma anche di una rete di fornitori di ogni genere da cui acquistava merci o a cui ordinava la confezione di manufatti da lei stessa inventati. Il mestiere della marchande de modes non comprendeva la confezione di indumenti, c’erano innanzitutto i sarti cui venivano consegnate sia le stoffe necessarie per l’abito, sia le guarnizioni che dovevano essere sovrapposte alla foggia di base. C’erano poi un numero infinito di mercanti e artigiani che lavoravano per lei e rendevano possibile la continua creazione di novità, ma contemporaneamente traevano vantaggio da questo contatto adeguandosi ai nuovi gusti e proponendo al proprio pubblico le più recenti mode di corte. Dal 1774 Rose Bertin era la più importante e influente tra le marchande de modes di Maria Antonietta, questo le permise di diventare una figura centrale della moda di fine Settecento. Le creazioni per cui è più famosa sono i pouf au sentiments che coronavano le acconciature degli anni Settanta. Erano monumenti da testa, ispirati spesso ai fatti quotidiani o eccezionali che riguardavano la corte (pouf à la circonstance dedicato alla salita al potere di Luigi XVI o la couffure au Dauphin per la nascita del principe). Con Maria Antonietta la moda cambiò, trasferendo il proprio interesse dalla ricchezza dei materiali all’infinita varietà di accessori e ornamenti soprammessi. Forme, materiali, colori si alleggerirono, si schiariscono, si moltiplicarono e il modo di apparire passo dal compassato al grazioso. Anche i tessuti divennero più leggeri e semplici, non particolarmente preziosi. La nuova concezione del lusso e della moda modifico e chiarì il ruolo professionale delle marchande de modes, se fino a quel momento i produttori di vesti erano semplicemente artigiani e merciai erano commercianti di accessori, in questo momento cominciò a farsi strada l’idea di un professionista delegato alla creatività. La trasformazione iniziò a mostrarsi nei prezzi, il costo degli oggetti dipendeva dalla fama della marchande. Il ruolo a corte di Rose Bertin le offriva la possibilità di far valere sul mercato della moda una fama che nessun’altra cliente sarebbe stata in grado di garantirle. La sovrana non la legò al suo uso esclusivo, ma le permise di continuare a tenere la bottega a Parigi, con il risultato di condividerla con le altre dame della corte, di Parigi, del mondo intero. Il ruolo di marchande de modes de la Reine le permetteva di gestire le novità, di scandire i tempi con cui una moda poteva essere esteso alla clientela della sua bottega, di conoscere e interpretare sul nascere gli eventi che potevano influenzare il sistema delle apparenze. Dopo aver fatto la prima comparsa negli appartamenti o nei giardini di Versailles, le sue creazioni passavano nei saloni del Grand Mogol a disposizione di una clientela di vastissime proporzioni. Fra i suoi acquirenti figuravano le corti di tutta Europa. La sua bottega serviva però anche un altro pubblico, composto dall’intera aristocrazia, dalle mogli di intellettuali famosi e di banchieri, da attrici e cantanti parigine e straniere, e probabilmente anche dai borghesi più abbienti. Le leggi suntuarie avevano ormai esaurito la loro funzione e il mercato della moda traeva beneficio da questa libertà. La moda cominciava ad avere i suoi quartieri, le sue botteghe, le sue vetrine, ma anche un modo per essere creata, fruita e diffusa. La stampa di moda La diffusione di nuove mode avveniva utilizzando strumenti diversi, dalla poupée de mode (bambola rivestita dalle ultime mode), alla più moderna stampa. Le incisioni, rispetto alle bambole, erano meno fragili e meno costose, venivano più facilmente moltiplicate e quindi erano in grado di raggiungere un più ampio pubblico, ma soprattutto erano un mezzo di comunicazione più consono ai tempi. La gazzetta “Le Mercure galant” dal 1678 cominciò a pubblicare articoli accompagnati da illustrazioni che fornivano anche gli indirizzi di alcuni fornitori, era la prima forma pubblicitaria moderna in questo settore. Questo durò poco e venne ripreso solo nel 1724 dal “Mercure de France”. Con il crescere della richiesta di modo nel corso del secolo aumentò anche lo spazio per un’informazione adeguata e un vero mercato dei figurini. Jean Esnaut e Michel Rapilly pubblicarono “La Galerie des modes”, una serie di fascicoli, ciascuno contenente un certo numero di stampe che uscirono abbastanza regolarmente fra il 1778 e 1787. Nel 1779 venne edito un volume che raccoglieva 96 stampe in cui offrirono una serie di informazioni sullo sviluppo del settore, si parlava dei famosi artisti che si erano specializzati in questo genere, poi viene sottolineato che non si trattava di invenzioni dei disegnatori ma di vere mode, questo poteva voler dire abiti accessori visti addosso le signore alla moda o nella vita quotidiana oppure abiti accessori inventati da sarti o da marchande de modes. Le immagini sono concepite in modo da dare informazioni sia sugli indumenti, illustrati nel disegno e spiegati in didascalia, sia sulle buone maniere, ossia sulle regole di comportamento adatte a ogni tipo d’abito. La documentazione offerta dall’illustrazione non si limitava gli indumenti della corte della nobiltà, ma mostra anche i borghesi e persino alcuni mestieri. Nello stesso periodo venne concepito un altro repertorio di immagini finalizzato a promuovere all’estero il modello di vita, la cultura e il gusto estetico dei francesi. Erano tre fascicoli concepiti come racconti per immagini della storia morale di due personaggi commentati da Restif de la Bretonne. Contemporaneamente cominciò a prendere forma la prima stampa femminile, che univa alle informazioni di moda un intento educativo tipicamente illuminista: plasmare una nuova cultura della femminilità. I primi giornali furono “Le Journal des dames” in Francia e “The Lady’s Magazine” in Inghilterra. Erano pubblicazioni che tendevano a sollecitare la nuova abitudine alla lettura del ceto medio. Si trattò di imprese effimere ma che prepararono il terreno a un nuovo tipo di giornale. La prima vera rivista femminile di moda fu “Cabinet des modes”, il suo editore era il libraio François Buisson e coinvolse diversi giornalisti, pittori, incisori e uno stampatore. Il prezzo era un po’ alto ma si rivolgeva a borghesi aristocratici che potevano permettersi questo lusso. La formula si basava su due fattori, uno di tipo tecnico e l’altro culturale ed economico. La rivista si presentava con un formato maneggevole, una buona qualità tipografica, immagini molto curate e periodicità garantita. Il suo pubblico era la nuova società formata e dagli illuministi che attribuivano alla moda un significato fondamentale per la trasformazione che stava perseguendo, quindi aveva la necessità di confrontare e diffondere i termini del nuovo buon gusto. L’editore, inoltre si impose di introdurre un tramite tra i creatori, i produttori e i consumatori/lettori, trasformando la comunicazione di moda in una sorta di strumento pubblicitario. La rivista diede spazio anche a produttori di cosmetici e profumi, guanti e bigiottieri che si contendevano il mercato. Le tavole di moda non erano semplici presentazioni di oggetti, ma rappresentavano le regole di un nuovo stile di vita cui non era estraneo il lusso, il capriccio e la seduzione della moda. “Cabinet des modes” divenne nel 1786 “Le Magasin des modes Nouvelles, françaises et anglaises” che durò fino al 1792. L’apparire rivoluzionario I codici dell’abbigliamento L’ultima vera rappresentazione ufficiale dell’Ancien Régime è stata il corteo degli stati generali, convocati da Luigi XVI, che ebbe luogo a Versailles il 5 maggio 1789. Il gran maestro delle cerimonie, marchese di Brézé, aveva imposto le regole vestimentaria cui i deputati dovevano attenersi e che avevano il compito di rendere visibili le differenze gerarchiche. La discriminazione vestimentaria venne messa in discussione immediatamente e il conte di Mirabeau, uno dei portavoce del terzo stato, chiese di poter indossare i propri abiti. Il principio contenuto in questa richiesta era lo stesso che sostanziava un problema politico di estrema rilevanza che vedeva contrapposte le ragioni del re e quella del terzo Stato, che ricusava il principio secondo cui i deputati dovevano deliberare rigidamente separati per Stati, sostenendo il contrario che fosse loro diritto intervenire nelle decisioni relative al futuro del paese come individui, ognuno con il proprio portato intellettuale e politico. Era la questione del voto, quella che si discusse per prima e che provocò la direzione che poi assunsero gli avvenimenti. Il regolamento del marchese Brézé venne abolito il 15 ottobre 1789. L’importanza della Rivoluzione francese nella codificazione del modo di vestire borghese iniziò probabilmente da questo atto. L’affermazione del significato politico dell’abito, contro la tradizione del suo codice gerarchico, diede il via la trasformazione e l’invenzione di una serie di segni esplicitamente caratterizzati in senso rivoluzionario o contro rivoluzionario. Dopo la Rivoluzione il luogo dell’apparire si spostò dalla corte alla città, dai salotti alle strade, dalle manifestazioni alle feste pubbliche. Il popolo di Parigi elaborò e impose le proprie regole di comportamento politico e i propri codici di comunicazione non verbali. La borghesia il popolo scoprirono così il potere comunicativo dell’abito. La nuova Francia si rappresentò con il tricolore bianco, rosso e blu che diventò oltreché una bandiera, coccarda da applicare sul vestito e tessuto, a righe o a piccole fantasie, con cui realizzare gonne, calzoni, marsine, gilet, nastri, cuffie, ecc. Ovviamente divenne la divista dei soldati della Guardia nazionale. La coccarda fu l’unico oggetto vestimentario reso obbligatorio come segno distintivo dei “cittadini” francesi. Uguaglianza Più complessa fu la rappresentazione dell’uguaglianza. Innanzitutto fu contrapposta al lusso, con il quale prima di mostrava il privilegio. Eliminando il lusso si eliminava il privilegio. Alle fibbie preziose per le scarpe si preferirono i lacci o i fermagli con decorazioni politiche, i tessuti di cotone o lana presero il posto di quelli di seta. Anche le acconciature seguirono lo stesso processo di che davano ampiezza al dietro, all’interno era affrancato una specie di corpetto che sosteneva il seno e impediva che l’abito si spostasse dalla sua posizione. Normalmente era completato da una stola drappeggiata, solitamente realizzata in tessuti preziosi. Nel 1798 quando i soldati tornarono dalla campagna d’Egitto portarono in Francia gli scialli cachemire, tessuti in India con la lana proveniente dal Tibet, riccamente operati con il caratteristico motivo palmette (boteh). Moda e società Tanta ostentazione corrispondeva in tutto alla cultura del gruppo sociale appena salito al potere, un’élite nata dalla rivoluzione, ricca e desiderosa di godere dei privilegi appena raggiunti e non ancora consolidati. Questo nuovo mondo cancello definitivamente il principio rivoluzionario dell’uguaglianza e proclamò, nell’ottobre 1795, una nuova costituzione che prevedeva una Repubblica basata sulla proprietà e sul censo. Le nuove signore dei salotti parigini, quelle che avevano sostituito la corte nel compito di inventare e imporre le novità, non erano certamente note per le loro virtù domestiche. Per le strade, ai giardini del Palais Royal, al Tivoli e al Frascati e alle feste, le stesse cose erano indossate dalle giovani donne votate alla moda come fosse un’ideologia, che ne seguivano i dettami, ne anticipavano le frivolezze e non temevano alcuna esagerazione. Nel 1797 avevano ricominciato ad uscire le riviste di moda e il più duraturo fu “Le Journal des dames et des modes” creato da Jean-Baptiste Sellèque e Pierre de la Mésangère. La rivista trattava un po' di tutto, tranne che di politica, ma soprattutto di moda e ad ogni numero erano allegati i figurini accompagnati da un testo di commento. I disegnatori prendevano spunto sia chi frequentava i salotti e i luoghi mondani, ma anche dalle vetrine dei magazins de nouveautés o dai lavori delle marchandes de modes. La rivista non ospito vere proprie forme di pubblicità, tuttavia queste collaborazioni furono spesso menzionate alla fine degli articoli o nelle didascalie delle incisioni. L’importanza che il “Journal” assunse nel panorama di moda fu grazie a Pierre de la Mésangère, che sapeva cogliere le novità che si sarebbero affermate, distinguere fra quelle che avrebbero avuto vita breve e quelle che sarebbero durate. Tutto questo lo trasformo in un’autorità in materia di eleganza e buone maniere, che le lettrici seguivano con interesse e fedeltà. Alla fine del secolo Parigi era tornata a essere il fulcro della moda. La società del Direttorio era fragile e non era riuscita a creare una vera idea di Stato né una cultura che funzionasse da regola per le sette e sociale che si andava formando, per questo quando Napoleone prese il potere venne visto come un salvatore. Egli agì per dare una nuova solidità alla Francia, per trasformare l’élite del Direttorio in una classe dirigente, per creare un sistema legislativo che eliminasse ogni parvenza di precarietà dalle istituzioni e dalla struttura sociale del paese, ma anche per costruire un vero centro di potere che fosse riconoscibile attraverso un’immagine precisa, pensata e controllata. La moda imperiale La moda come strumento politico Il Direttorio terminò il 9 novembre 1799 quando Napoleone prese il potere con un colpo di Stato. Ebbe l’appoggio del popolo, ma soprattutto quello della nuova borghesia arricchita, che sperava di dare solidità la posizione di potere la giunta, e di gran parte della vecchia nobiltà, di cui aveva favorito il ritorno in patria dai paesi in cui era emigrato durante il Terrore. Si trattava di due società diverse, una legata alle buone maniere dell’Ancien Régime, ma spesso privata della loro ricchezza, l’altra erano i nuovi ricchi ma privi di cultura. Napoleone cercò di amalgamarle per dar vita ad una nuova classe dirigente che le rappresentasse entrambe. Moda e modernità furono utilizzate come strumenti di Stato per raggiungere questo fine, la società dei ricchi voleva spendere per mostrare le proprie ricchezze, la società dei nobili guardava con disdegno il cattivo gusto di questa ostentazione e si rifiutava di avere rapporti con quelle donne vestite in modo “indecente” e con quegli uomini che non conoscevano le regole dell’etichetta. Il compito di gestire questo processo culturale fu affidato a Joséphine Beauharnais, la moglie del primo console, che cominciò a svolgere la sua azione organizzando feste e ricevimenti ufficiali che introducevano un nuovo protocollo mondano. Il modo di vestire fu rivisto in relazione alle nuove esigenze, il modello vita alta rimase, ma si cominciò a guardare con sufficienza alle trasparenze più audaci, alle nudità, agli eccessi. La veste lunga si comincia a portare semicoperta da una tunica più corta che prendeva diversi nomi a seconda della Foggia ed era completata, per il giorno, dallo spencer, una giacca corta con le maniche lunghe e in tutte le occasioni dallo scialle cachemire. Per i ricevimenti ufficiali Josèphine adottò la sopravveste a strascico, destinata a diventare manto di corte. Dopo la pace di Amiens (1802) l’abito da cerimonia divenne obbligatorio e gli uomini indossarono di nuovo l’habit à la française con le culotte corte. Il primo concole costituì intorno a sé un corte, che ebbe la sua ritificazione pubblica durante la cerimonia di incoronazione imperiale a Notre-Dame nel 1804. L’imperatore ripristinò la logica del fasto promuovendo feste e occasioni mondane. Parigi doveva tornare ad essere un modello di gusto per tutta l’Europa, rimettendo in moto l’economia del paese. Moda e arredamento potevano essere lo strumento adatto per risollevare l’industria tessile, che dal 1792 aveva avuto un crollo dovuto alla carenza di materie e prime di clientela. La moda aveva poi modificato le abitudini di consumo, la sostituzione dello stile francese con quell’inglese aveva indirizzato l’abbigliamento maschile verso il panno abbandonando la seta e lo stesso era accaduto per le donne che passarono all’uso di cotone e mussolina indiana. Napoleone intervenne in loro aiuto reintroducendo l’abito di corte di seta operata e i manti di velluto, tappezzò nel nuovo stile Impero tutti i palazzi in cui collocò la propria corte e favorendo per le dame l’uso di tulle e seta leggera. Anche la moda degli scialli cachemire offrire una possibilità di ripresa per l’industria tessile. Nonostante la loro imitazione ponesse enormi problemi sia dal punto di vista del reperimento della merce, sia da quello della realizzazione, inoltre la decorazione boteh venne sostituita da fiori e ghirlande, più facili da realizzare. Il disegno politico volto a favorire le più raffinate forme di artigianato interessò anche ricamo e il merletto. Manti abiti di corte, complementi maschili da cerimonia, oggetti da apparato furono decorati con i simboli della nuova iconografia imperiale ricamati in oro argento, mentre gli indumenti femminili furono ricoperti di lievi lavorazioni a plumetis e si arricchirono di bordi, di una banda centrale e di decorazioni a motivi di fiori, ghirlande, greche, realizzati in bianco o con paillettes. La ripresa della produzione di merletti avvenne dopo il 1806, ma solo per la corte. Lo stile Impero stabilì anche le regole della moda imperiale, che rimase uguale fino al 1815. Rimase invariato l’abito femminile a vita alta, alla robe en la chemise vennero aggiunte maniche lunghe e spesso sopra ad esso venivano sovrapposti altri indumenti come spencer, redingote, scialli. Le nuove mode nascevano spesso intorno alle campagne militari dell’imperatore, come quella del corsetto che faceva assumere un comportamento militaresco, dei ricami e delle spalline, copiati dalle uniformi dei marescialli di Napoleone. Il “grand habit” di corte La reintroduzione dei cerimoniali, dei rituali e dei protocolli di corte richiese l’elaborazione di un modello vestimentario e di apparato adatto agli eventi ufficiali. Per gli uomini si ritornò all’habit à la française, invece per le donne Napoleone optò per un’immagine moderna e per la vita alta. La funzione dell’abito di corte non era più solo una questione di moda, ma anche simbolica. Napoleone dopo l’incoronazione, scelse come proprio emblema l’aquila, che riuniva in sé una duplice immagine del potere: quella dell’Impero romano e quello di Carlo Magno. Anche le api rimandavano a una doppia simbologia: quello dell’antico regno dei franchi e quella borghese del lavoro che Napoleone prometteva di dedicare alla Francia. La preparazione dell’incoronazione fu curata con la stessa logica simbolica, la cerimonia Notre Dame doveva comunicare una cesura ideale nei confronti dei re Borbone, mentre la presenza del Papa serviva creare una continuità con Carlo Magno e il Sacro Romano Impero. La scenografia fu affidata a David e i costumi furono disegnati da Isabey con la supervisione dell’imperatore. Napoleone indossò una tunica di raso bianco, ricamata in oro e bordata di una frangia e un pesante mantello di corte di velluto porpora foderato di ermellino e che era stato ricamato in oro da Picot con un motivo che comprendeva monogrammi “N”, api, foglie d’olivo, alloro e quercia. Anche le scarpe che indossava erano ricamate in oro, con un disegno che fingeva i lacci dei sandali romani. Aveva un diadema con foglie d’alloro, lo scettro, la mano della giustizia e la spada. La stessa cura, anche se con un numero minori di simboli, era stata dedicata all’abito di Joséphine, con cui si intendeva riprendere il grand habit dell’Ancien Régime, senza però riprenderne la forma. Il vestito a vita alta era di raso bianco broccato d’argento, ricamato in oro e completato con una frangia. La linea neoclassica era arricchita dal rigonfiamento nella parte alta delle maniche, decorato con tralci ricamati in oro e file di diamanti, che riprendevano una foggia rinascimentale. Anche la leggera Cherusque di merletto di seta ricamato in oro, che segnava le spalle, ricordava mode passate. Il vero elemento trasformativo era il manto di velluto porpora, foderato di ermellino e ricamato in oro, che si allacciava alle spalle con due bretelle. L’abbigliamento delle altre dame di corte era modellato su quello dell’imperatrice, mentre quello maschile prevedeva una giacca-tunica lunga al ginocchio e un mantello corto, entrambi ricamati, culotte e gilet, cravatta di merletto e cappello piumato. L’incoronazione rappresentò la messa a punto dell’immagine della corte imperiale e la definizione del suo apparire e della nuova etichetta e fissò un modello simbolico e atemporale che non doveva più essere modificato. L’abito da cerimonia si avviò a diventare un’uniforme destinata a rappresentare la tradizione del potere. Diffusione e professioni della moda Tutta la moda imperiale fu un affare di corte, legata al suo entourage e al suo apparire, come tale venne inventata e diffusa soprattutto dalla famiglia imperiale, ma anche dalle mogli degli alti funzionari e dei marescialli che frequentavano le Tuileries e la Malmaison, e dalle nobildonne che facevano parte del seguito dell’imperatrice. Se l’immagine della nuova aristocrazia imperiale divenne presto un modello di riferimento internazionale, la diffusione capillare delle mode non poteva prescindere dagli strumenti inventati nei decenni precedenti, come le riviste e le riproduzioni a stampa dei figurini. Il vero mezzo di comunicazione dello stile Impero in Francia e all’estero fu “Le Journal des dames ed des modes”. Le tavole proponevano le mode del giorno riprese dalle toilettes delle dame più in vista. L’intervento dei professionisti non si limito alla diffusione delle nuove mode, il sistema di produzione si mostrò perfettamente adeguato alle nuove esigenze e Napoleone se ne servì in maniera programmatica. Il più famoso couturier fu Louis-Hippolyte Leroy, che lavorava sempre per i livelli più alti della società e dopo aver fornito gli abiti per l’incoronazione, divenne il solo fornitore dell’imperatrice e il punto di riferimento di tutte le dame d’Europa. La sua attività in Rue de Richelieu, aveva un atelier per la vendita di abiti, un altro per gli accessori e un negozio per i tessuti. Non era un progettista, ma un esecutore sui disegni che gli fornivano diversi artisti, utilizzando anche competenze esterne al proprio atelier, come quelle di ricamatori professionisti. Vendeva tutto quello che in qualche misura aveva una relazione con la moda: biancheria, guanti, fiori, che valorizzavano le forme e i movimenti, questo durò poco perché con la presa di potere della borghesia ci fu un revival di un segno che assimilava le nuove signore alle dame di corte dell’Ancien Régime. Non mancavano anche riferimenti alle terre di conquista coloniale, cariche di esotismi e lussi favolosi. Il revival e il kitsch che caratterizzavano la maggior parte dei manufatti di questo periodo costituivano una vera e propria negazione dell’eleganza, ma diventarono una parte importante della cultura medio borghese, che aveva scoperto anche in questo cattivo gusto diffuso una fonte di ricchezza per la produzione industriale per il commercio. Il cattivo gusto non era altro che uno dei tanti effetti della democrazia, la società borghese non era riuscita ad educarsi al buon gusto, perché si era arricchita troppo in fretta. La moda, a differenza della decorazione delle case, rimase a lungo esente dalle esagerazioni più vistose e limitò lo spazio della copia fedele alle feste in costume. Le sarte parigine seppero imitare le citazioni d’ispirazione storicista alle decorazioni e agli accessori che arricchivano la foggia di base, che caratterizzò l’abbigliamento femminile dagli anni trenta agli anni sessanta. Questo controllo estetico di natura professionale riguardava le prime fasi della produzione delle novità, quelle della creazione e del loro consumo da parte dell’élite. La diffusione agli altri strati sociali richiedeva strumenti e mezzi che furono messi a punto da nuovi professionisti. Magasins de nouveautés Il commercio degli articoli di moda si era fortemente sviluppato nel periodo napoleonico, alle marchandes des modes si erano sostituiti i magasins de nouveautés, che comprendeva tutti i settori e gli articoli riferiti all’abbigliamento e ai suoi accessori. Avevano vetrine sempre illuminate e insegne fantasiose, esponevano la merce in modo che fosse visibile all’esterno, per attrarre la clientela. Spesso collocati nei passage, le nuove gallerie coperte dedicate al passeggio e al commercio. Volantini e piccoli manifesti furono il primo veicolo pubblicitario diretto, senza sostituire le riviste di moda. Dagli anni quaranta la loro organizzazione divenne più moderna, nel 1944 Petit Saint-Thomas pubblicò un catalogo delle proprie merci da fornire al pubblico, in cui era descritta la suddivisione della struttura in reparti omogenei. Nello stesso periodo subì un cambiamento anche il rapporto con la clientela, la merce iniziò ad essere totalmente esposta, con un prezzo certo e non più contrattabile, liberamente visibile anche da chi non era immediatamente intenzionato a comprarla e persino sostituibile. Il dato fondamentale era quello dei prezzi, non più un mercato di lusso con prezzi esagerati, ma l’esatto contrario. La produzione industriale, che cominciava immettere sul mercato grandi quantità di prodotti realizzati in serie, aveva costi decisamente più bassi di quelli artigianali, d’altra parte l’incremento delle vendite consisteva ai commercianti di fare acquisti in quantitativi tali da permettere di strappare prezzi di assoluta concorrenza. La confezione La vera grande novità di questa fase della società borghese fu la confezione. Gli abiti degli uomini e delle donne delle classi sociali più alte continuarono ad essere confezionati da tailleur e couturièr, i cui modelli venivano pubblicati sulle riviste. La borghesia era estremamente stratificata i ceti medi e piccoli, da un lato erano impossibilitati per motivi economici a servirsi degli stessi fornitori dei ceti alti, dall’altro rifiutavano di ricorrere al mercato dell’usato che tradizionalmente forniva gli indumenti agli strati popolari. Per rispondere alla nuova domanda nel 1824 Pierre Parissot creò un’impresa in cui vendere indumenti maschili, confezionati in serie e nuovi, che inizialmente erano destinati solo al lavoro. La serializzazione riguardava soltanto il taglio delle pezze, la cucitura delle parti doveva ancora essere realizzata a mano. Visto il grande successo Parissot iniziò a confezionare anche abiti borghesi di tipi corrente. Fu dagli anni Quaranta che la realizzazione di abiti pronti esse un vero sviluppo. La confezione femminile riguarda solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo e seguire una logica completamente diversa da quella maschile.si rivolgeva un mercato di signore ricche deleganti cui proponeva capi e accessori costosi all’ultima moda: scialli di cachemire o di altre stoffe, mantelli da sera o di corte, giacche corte a bolero o zouave furono per molto tempo i generi di abbigliamento che le dame potevano scegliere sui banchi dei magazzini più esclusivi. Il successo della nuova iniziativa commerciale creò le condizioni affinché cominciassero a diffondersi due nuovi tipi di professione: le confezioniste e le sarte confezionisti. Le prime fabbricavano su carta modello e non su misura, mantelline, mantelle, pellicce destinate ai magasins de nouveautés, mentre le seconde realizzavano, oltre i normali indumenti su misura per singoli clienti, anche vestaglie, camice e abiti per bambini preconfezionati da vendere direttamente. La produzione di indumenti pronti non riguardo l’abito intero, che le signore preferivano far realizzare su misura da una sartoria di fiducia, ma anche in questo campo ci fu una novità, l’industria tessile cominciò a realizzare e commercializzare pezze operate ho stampate à disposition già pensate in funzione del modello finale. Le manifatture crearono stoffe con motivi ornamentali di grandi dimensioni per la sottana e ridotti in scala per il corpetto. I produttori alsaziani di stampati inventarono la robe de Paris, un taglio di quindici o diciotto metri da mettere in vendita in una scatola, accompagnato da una litografia che rappresentava una figura femminile vestita secondo una proposta di ripartizione della stoffa e uno schizzo che indicava la maniera di tagliarla specificando quello che corrispondeva il corpetto, ai pannelli e ai volants. Le indicazioni potevano servire da guida sia a una sarta sia una signora capace di cucire. Questa idea consentiva di vendere abiti completi in un periodo in cui era ancora prematuro pensare una vera e propria offerta di modelli femminili già fatti. I grandi magazzini Nel 1848 si verificò una grande crisi economica, che segnò la fine della prima fase dello sviluppo industriale e favorì lo scoppio di una serie di rivolte e rivoluzioni che riguardarono quasi tutta l’Europa. Nel 1850 inizia una ripresa che prese la forma di un vero e proprio boom economico di dimensioni mondiali. Ci furono le esposizioni universali che avevano il compito di mostrare al mondo intero la forza produttiva del capitalismo, e la sua vita e il suo progresso erano legati al fatto che lo stesso mondo di visitatori si trasformasse in un mercato per assorbire questa quantità di merci. I grandi magazzini furono in qualche modo la forma stabile delle grandi esposizioni, i luoghi in cui la merce poteva essere non solo ammirata, ma anche acquistata. Dagli anni Cinquanta iniziarono a nascere nuovi grandi magazzini: nel 1852 Boucicaut fondava il Bon Marché, nel 1854 Chauchard fondava il Louvre, nel 1856 Ruel inaugurava il Bazar de l’Hotel de Ville e molti altri. Queste imprese iniziarono da subito a ingrandirsi, inglobando le case intorno e approfittando della grande trasformazione urbanistica che Haussmann stava operando a Parigi, fino ad arrivare anche ad occupare interi quartieri. Le regole del magazzino erano di ridurre il margine di profitto sui singoli articoli per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e del capitale. Questo richiede una produzione in serie efficace e capace di offrire costanti novità, una caratteristica che momentaneamente apparteneva solo all’industria tessile la produzione di confezione. Ogni reparto, specializzato in un genere merceologico, era gestito in modo individuale, con un responsabile da cui dipendeva anche il rinnovo delle merci e uno stuolo di commessi e commesse, il cui compito era quello di essere a disposizione della clientela senza sforzarne la volontà. Ma era proprio questa volontà, apparentemente rispettata nel modo più assoluto attraverso le regole dell’ingresso libero, dell’assoluta assenza di qualsiasi coercizione all’acquisto e della sostituzione o restituzione della merce, il vero obiettivo della messinscena del grande magazzino. Per raggiungere lo scopo venne utilizzata una serie di ben calcolate tecniche scenografiche. Innanzitutto la facciata, che assunse lo stile eclettico della nuova architettura pubblica, tecnologica nella struttura, per la quale venivano usati nuovi materiali, ferro e vetro, ma fortemente allegorica nel decoro. Il vero strumento di adescamento erano le vetrine, che affascinavano le signore e le inducevano ad entrare, all’ingresso venivano disposte le occasioni, merci a prezzo basso ribassato, che avevano lo scopo di attirare il maggior numero di curiosi e dare l’impressione di qualche vendita straordinaria. Spesso le donne entravano solo per curiosare, ma il fascino della miriade di merci esposte vinceva facilmente ogni resistenza e gli acquisti si moltiplicavano. Questo era favorito in ogni modo della messinscena spettacolare dell’esposizione interne, non più semplici banchi di vendita, ma allestimenti temporanei dedicati all’articolo della stagione. Queste esposizioni di cadenza mensile erano i veri eventi commerciali del magazzino e avevano una periodicità stabilita (es. bianco a gennaio, pizzi e guanti a febbraio, a settembre i tappeti e a dicembre gli articoli invernali). Pubblicità e riviste di moda A tutto questo si aggiungeva la pubblicità, che veniva fatta utilizzando i mezzi più diversi, dalle vetture per la consegna domicilio, che mostravano i passanti il nome del magazzino scritto sulle fiancate, agli striscioni appesi alle facciate per annunciare occasioni particolari, manifesti con cui tappezzare i muri e colonne, fino a mezzi più raffinati e moderni come i cataloghi e le riviste, che raggiungevano i clienti lontani e favorivano le vendite per corrispondenza. I cataloghi pubblicati dei grandi magazzini avevano di norma uscite stagionali, ma potevano essere anche più frequenti. All’inizio privi di illustrazioni, ma dagli anni Settanta cominciarono a presentare le merci attraverso un disegno litografato. Le confezioni erano spesso oggetto di pubblicità specifiche, che erano distribuite o spedite le clienti e anche allegate a importanti riviste di moda. Lo sviluppo delle riviste in questo periodo è legato in maniera inscindibile alla vicenda della moda borghese. Lo sviluppo era stato reso possibile dalla diminuzione dei costi degli abbonamenti, che avevano allargato il pubblico delle riviste alla media borghesia, ma anche da un interesse accresciuto nei confronti della moda. Le riviste di moda erano destinate o alle donne o ai professionisti dei diversi settori, se nel secondo caso conservavano un approccio più tecnico, nel primo si occupavano, oltre che di moda, di problemi quotidiani, di educazione, di buone maniere e di tutti quei consigli di cui avevano bisogno le buone signore borghesi, per essere adeguate al modello sociale imperante. I racconti, le novelle e le sciarade che vi si trovavano regolarmente, divennero presto un appuntamento di divertimento e “buone letture”. Va ricordato che fra i redattori di queste riviste lavoravano letterati di fama e giornalisti all’inizio della loro carriera. Immagini e iconografia della moda L’elemento che differenziava questa stampa da tutte le altre erano i figurini di moda che richiedevano professionisti specifici. Gli illustratori provenivano dal mondo della formazione artistica tradizionale non sempre si dedicavano solo a questa produzione. In questo settore lavoravano anche molte donne, spesso provenienti da famiglie che già operavano nel campo della pittura e quindi erano preparate. Il caso più noto è rappresentato dalle sorelle Colin, che seppero tradurre in immagini non solo il gusto, ma anche gli ideali di bellezza e di lusso della metà del secolo, lavorarono per molte riviste e divennero ricercatissime sia in Francia sia all’estero. L’iconografia più comunemente seguito nell’immagine di moda all’inizio del secolo prevedeva una figura umana caratterizzata secondo l’ideale di bellezza in voga, la modella era semplicemente utilizzata per trasmettere i codici di tale bellezza e per mostrare l’abito che indossava. Questo tipo di immagini aveva come scopo la visibilità del vestito, che rimase l’obiettivo fondamentale per tutto il periodo in cui comunicare la moda significava in primo luogo dare la possibilità di copiare la novità. Il disegno doveva essere il più possibile chiaro e la figura atteggiata in modo da mostrare tutto ciò che era necessario a un’informazione completa. Raggiunta la fama Worth cominciò ad apportare i primi cambiamenti alla foggia dell’abito femminile. Presentò un nuovo coprispalle in merletto di dimensioni ridotte al posto degli scialli e un cappello che lasciava vedere l’acconciatura. Si trattava di particolari che non venivano più imposti dal capriccio di qualche signora alla moda, ma da un sarto attraverso la sua “portavoce” ufficiale. Presto sia le corti europee che la ricca borghesia americana cominciarono a ordinare toilettes per ogni occasione e le riviste femminili documentarono la diffusione delle sue proposte. Nel 1864 Worth divenne fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice. A questo punto poteva permettersi di uscire con proposte davvero innovative. La prima venne creata appositamente per Eugenia, la cui passione per le passeggiate era messa in difficoltà dai lunghi abiti, così Worth le fece un abito il cui orlo si fermava alle caviglie. Il modello era costituito da una sottoveste corta e una sopravveste drappeggiata. Successivamente Worth intervenne sulla forma della crinolina, la ridusse drasticamente sul davanti, spostando l’ampiezza sul dietro, che assunse la forma di un breve strascico. La diminuzione di tessuto nella gonna fu compensata con l’adozione di una sopragonna lunga fino al ginocchio chiamata “tunica”. Il raddoppiamento consentiva di introdurre soluzioni estetiche nuove operando sul drappeggio di questo elemento e sul contrasto di tessuto di colore fra le due sottane. Nel 1869 la mezza crinolina si ridusse e ulteriormente trasformandosi in un sellino di crine rigido, la tournure, che sosteneva solo la parte alta del dietro della donna in moda da creare un effetto di ricaduta verso il basso. Il suo risultato fu quello di modificare la silhouette femminile, il davanti cominciava ad aderire al corpo e il dietro si avviava ad assumere e sostenere forme decorative sempre più complesse. Anche in questo caso si trattava di un revival, ma il riferimento si spostava alla corte alla corte di Luigi XIV e al manteau degli anni 1680- 1690. Dal Secondo Impero alla Terza Repubblica La proposta di Worth divenne vincente negli anni Settanta, quando il panorama francese mutò. La vecchia classe dirigente venne spazzata via dalla guerra prussiana e Parigi fu sottoposta a un duro assedio e alla Comune. In questa situazione Worth chiuse la Maison. La borghesia che uscì da questa esperienza non era cambiata, chiedeva di trovare nuove forme di lusso per esibire il denaro conquistato e altri revival per collegare in modo sempre più stretto dividente il potere raggiunto con le immagini grandiose dell’antica aristocrazia. Il passato divenne sempre più di moda e anche la modernità che entrava nelle case per introdurvi nuovi comfort doveva attenuare la propria funzionalità e rivestirla attraverso nobili forme artistiche. La posizione di Worth divenne ancora più centrale e assoluta, a questo punto anche la guida della corte era venuta a cadere e il couturier assunse il compito di arbitro unico del gusto e della moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore di drappeggi e decorazioni rappresentò il passaggio fra Secondo Impero e Terza Repubblica. L’eccesso di tessuto necessario per decorare una signora trovò una giustificazione “patriottica”, venne considerato indispensabile per l’economia della nuova Francia borghese. Il couturier ridusse il busto con un effetto di vita alta, definito “Joséphine”, a favore della gonna e delle sue decorazioni. La tunica/sopragonna si avvolse con vari effetti di drappeggio intorno ai fianchi e fu decorata con applicazioni di fiori, balze, frange, nastri, ecc. Nello stesso periodo però Worth propose anche un tipo di abito nuovo, il modello chiamato princess, era realizzato in un unico pezzo. Eliminando la divisione fra gonna e corpetto, fu necessario strutturare l’intero indumento in modo da seguire le forme del corpo nella parte alta e allargare la gonna verso l’orlo. Negli anni Settanta però il suo successo si limitò all’ambito degli abiti da casa, quelli che le signore indossavano per ricevere le rituali visite pomeridiane, in queste occasioni la padrona di casa doveva essere vestita, ma senza dare l’impressione di essere in procinto di uscire, per sottolineare una volta in più la differenza fra spazio familiare e sociale. Dalla struttura della princess derivò una nuova moda che s’impose intorno al 1874, quella della corazza, un busto/corpetto steccato e modellato che arrivava ai fianchi e si allungava davanti e dietro. La sua comparsa modifico anche la forma della sopragonna, che venne completamente aperto al centro in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico. Sul davanti fu sostituita o dalla completa visibilità della sottogonna o da una sorta di grembiule drappeggiato. Lentamente anche la tournure diventò un ingombro inutile fu eliminata in modo da favorire una linea sottile e aderente. La silhouette era cambiata ancora una volta, dalla forma rigonfia e opulenta si passava a una struttura longilinea, dall’aspetto corazzato. Era forse uno dei primi elementi di mascolinità introdotti da Worth, attraverso questo artificio la figura femminile perdeva il tratto fragile e bamboleggiante che le conferivano i fronzoli precedenti. La forma del corpo veniva ostentato nella semplicità delle sue curve naturali, anche se questo non significava un’allusione alla nudità, al contrario, la donna veniva armata con una corazza che certamente doveva contribuire a turbare un immaginario maschile che in questo periodo si mostrava particolarmente sensibile al problema del rapporto fra i sessi. Worth si mostrò perfetto nell’interpretare gli stimoli che si muovevano nella cultura borghese e nel tradurli in abiti che ogni signora avrebbe voluto e potuto indossare. Egli sapeva di aver assunto il compito di arbitro del gusto della nuova classe dominante e lo svolgeva in modo inappuntabile. I suoi abiti risposero sempre a quella necessità di ostentazione, i suoi modelli erano ricchi, realizzati in stoffe lussuose, spesso tessute appositamente, venivano decorati in modo sapiente con ricami applicazioni. Erano vistosi, i disegni dei tessuti erano grandi ed evidenti, i ricami occupavano enormi porzioni dell’abito o creavano effetti particolari, le applicazioni erano sovrabbondanti, gli accessori fantasiosi. Tutto era armonizzato con una sapienza estetica. I suoi abiti erano unici, in una società in cui tutto cominciava a diventare riprodotto riproducibile, questo era un elemento di qualificazione e di distinzione che l’alta borghesia era disposta a pagare a carissimo prezzo, Worth imponeva l’unica legge suntuaria in una democrazia, un costo che fosse di per sé garanzia di una clientela elitaria e di un prodotto di altissima qualità sartoriale ed estetica. In realtà la cosa davvero unica era il modello/prototipo, che poteva venire sviluppato in più varianti per clienti diverse. Il trionfo del revival Negli anni Ottanta Worth concentrò la propria creatività sul gusto storicista, ripercorrendo stili e modi di vestire di tutte le epoche. Spesso la fonte d’ispirazione erano quadri celebri conservati nei musei, utilizzati sia come spunti creativi, sia per ricavarne dettagli, da riproporre in capi perfettamente adeguati allo stile di vita contemporaneo. Le fogge rimanevano all’interno di mode consolidate, i tessuti, i particolari sartoriali e le decorazioni si arricchivano di richiami al passato che si susseguivano e si accavallavano proponendo secoli e corti diverse a seconda delle stagioni. Dal Cinquecento e dal Seicento furono ripresi i colletti a lattuga o le ampie maniche, ma anche nuove soluzioni per mantelli, stole e cappe da sera derivati da fogge maschili di diversa provenienza. Il Settecento rappresentò per Worth una fonte d’ispirazione inesauribile con gli engageants, i fichu, i nastri da collo, le marsine trasformate in giacche femminile, le redingote, ecc. Antica aristocrazia e borghesia attuale si intrecciavano per assecondare i riti della nuova società. La stessa sopra gonna aperta sul davanti e drappeggiata sul dietro che richiamava gli abiti femminili dell’epoca di Luigi XIV, poteva essere dotata di due corpetti, uno da sera scollato e senza maniche con applicazioni di fiori e merletti rigidi, e uno da giorno con lunghe maniche elaborate e collo montante, per meglio adeguarsi alle esigenze e al modo di vivere di una ricca signora di fine Ottocento. Tutta questa ricchezza di elementi decorativi fece tornare di moda la tournures, che ricomparve dal 1883 fino alla fine del decennio. Non era più il rigonfiamento di crine arricciato, ma una piccola gabbia metallica dalla struttura squadrata destinata a sostenere un vero e proprio ampliamento posteriore della gonna. Gli anni Novanta Gli inizia degli anni Novanta segnarono una serie di cambiamenti alla Maison Worth e nel suo gusto, Jean-Philippe, il figlio maggiore, assunse la maggior parte dei compiti creativi e contemporaneamente si assistette a nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni. Comparvero le prime concessioni al giapponesismo che stava influenzando la cultura artistica d’avanguardia. Worth adottò per i suoi abiti decori, tessuti o ricami riferiti a quella corrente estetica, come il lampasso a tulipani o il ricamo con il sole tra le nuvole. Il tema tornerà negli anni seguenti nei tessuti a petali o fiori di crisantemo, o nei ricami a motivi floreali isolati. Abbandonata per la seconda volta la tournure, la figura femminile assunse l’andamento verticale che la Maison aveva destinato a modelli da indossare a casa. La gonna fu alleggerita di tutti gli elementi di decorazione che la tagliavano orizzontalmente e prese una forma a campana. Si trattava di una soluzione moderna e più funzionale, ma il pubblico femminile non era ancora preparato a tanto rigore, per cui la stampa specializzata si affrettò ad attribuire all’innovazione un significato di tipo storico. Pur conservando il busto steccato e i riferimenti di tipo storico, l’abito si alleggerì e si semplificò. La gonna a campana con il breve strascico venne a volte accompagnata con corpetti aderenti, ma più spesso comparve in abiti princess, che mettevano pienamente risalto la semplicità della nuova linea. L’introduzione di una semplificazione strutturale non impedì la proposta di nuovi revival. D’altra parte anche la semplicità di questa moda era ispirata allo stile degli anni Trenta dell’Ottocento, cosa che risultò ancora più evidente quando Worth “inventò” le maniche à gigot, derivate da una foggia della seconda metà del Cinquecento, ebbero il compito di controbilanciare la linearità del modello con un elemento fortemente decorativo. Nei capi di Worth, la forma à gigot “gonfiò” la spalla dandole una forma arrotondata. Charles Fredrick Worth morì nel 1895, per diversi anni la Maison continuò ad essere un punto di riferimento per l’alta società internazionale. Prima Jean-Philippe e in seguito il nipote Jean-Charles le conservarono una posizione di preminenza nel panorama dell’haute couture almeno fino alla fine degli anni Venti del Novecento, quando il suo ruolo divenne piuttosto quello di una sartoria di solida tradizione. Sparì nei primi anni Cinquanta, inglobata dalla Maison Paquin. Il ruolo del couturier Dal 1870-1871, quando Bobergh gli vendette la sua quota di partecipazione, Worth diresse da solo la sua Maison. Già nella seconda metà degli anni Sessanta aveva coinvolto nell’azienda i figli, Jean- Philippe ricoprì compiti creativi e Gaston-Lucine amministrativi. Charles Fredrick continuò ad esercitare un controllo diretto sulla produzione almeno ai primi anni Novanta. Worth conosceva da sempre il senso del suo lavoro nella moda, ma questo ruolo completamente nuovo, aveva bisogno di essere riconosciuto e riconoscibile. Scelse di comunicarlo attraverso i segni che caratterizzavano gli artisti, seguendo questo modello di riferimento, egli trasformò il proprio aspetto professionale in modo eccentrico e si atteggiò a tiranno delle sue clienti. Il “travestimento” non era casuale e neppure un capriccio, ma era finalizzato a rafforzare l’idea di originalità del prodotto, e di conseguenza di proprietà intellettuale del creatore in un ambito in cui la pratica andava in direzione opposta. Fino a quel momento le mode nascevano per diffondersi ed essere copiate e riguardavano fogge, accessori, complementi di cui non esisteva un unico modello originale. Con l’affermarsi di una figura professionale incaricata di produrre creazioni esclusive il problema si spostava. Autentico diventava solo l’abito cucito all’interno della Maison e corredato dell’etichetta corrispondente, e l’autenticità costituiva forse la parte più importante del valore dell’oggetto. Ciò si contrapponeva a una pratica tradizionale che proponeva il pubblico figurini e spiegazioni affinché le nuove toilettes potessero essere copiate nelle sartorie persino in casa. Worth scelse volontariamente di sottrarre le proprie creazioni a tale pratica per introdurre la novità di un diverso statuto professionale del sarto di moda. Il couturier non era più un semplice artigiano, ma Health Society, si rese conto che non era ancora giunta l’ora per questa rivoluzione. Per il momento ci si doveva limitare a ragionare intorno all’abito intero, che non stringeva troppo la vita e si appoggiava sulle spalle, due caratteristiche che permettevano di limitare l’uso del busto, ritenuto responsabile di vere e proprie malformazioni. Le esposizioni promosse nei primi anni Ottanta dalle due associazioni mostrarono una serie di soluzioni vestimentarie alternative, che ebbero successo nei primi indumenti sportivi e tecnici per le donne. L’aspetto più rilevante dei due movimenti era legare la riforma dell’abbigliamento femminile al processo di emancipazione della donna. Questo consentì la diffusione delle idee dei gruppi inglesi all’estero, soprattutto in Germania, dove venne creato il movimento della Reformkleidung, che sosteneva la lotta contro la moda, gli abiti e i busti antigienici, ma anche contro la Francia. Il dibattito sull’abbigliamento coinvolgeva anche i principi basilari della cultura borghese più tradizionale. Una nuova concezione dell’igiene e le recenti indicazioni sanitari combattevano il busto per i timori che la sua azione pregiudicasse la gravidanza. Il risultato fu una strana alleanza fra la medicina ufficiale e i primi movimenti che parlavano di emancipazione femminile, sia dal punto di vista del diritto di voto e di cittadinanza, sia da quello di esistenza sociale e culturale. Per raggiungere l’obiettivo della liberazione del corpo dal busto, dall’abito pesante e dal ciclo della moda si seguirono diversi modelli ideologici. I preraffaelliti Già alla fine degli anni Quaranta i preraffaelliti avevano creato abiti femminili adatti al loro tipo di pittura. Le donne della confraternita preraffaelita venivano ritratte con i capelli sciolti e con vestiti che non richiedevano il busto o la crinolina. Il movimento Arts and Crafts aveva lo scopo di ridiscutere alla base il gusto delle arti decorative e il modello di produzione capitalistica e industriale degli oggetti, proponeva il ritorno al lavoro manuale, per combattere la spersonalizzazione della nuova forma al lavoro, recuperava le raffinatezze delle lavorazioni artigianali antiche, per immettere sul mercato oggetti che avevano tutte le qualità del prodotto artistico unico, riproponeva un ideale di gusto elaborato sulla base di un medioevo fantastico e mitico, visto come luogo della totale integrazione fra le classi sociali e soprattutto come momento del perfetto precapitalismo. In tutto questo l’artificialità dell’abito femminile, costruito per mostrare le differenze sociali era privo di significato. Negli anni seguenti la ricerca di un nuovo canone cui ispirare l’abbigliamento femminile s’intreccio con la scoperta della cultura giapponese e con la moda che ne seguì. La possibilità di creare una sintesi fra il gusto occidentale e le raffinatezze nipponiche affascinò i pittori, ma presto l’abito estetico uscì dalla cerchia artistica che lo aveva prodotto e divenne una specie di segno di riconoscimento delle signore della società intellettuale che ruotava intorno agli artisti d’avanguardia e cercava modelli di vita alternativi. Il Künstlerkleid Il progetto di riforma del modello culturale borghese ottocentesco nel giro di pochi decenni si diffuse in tutta Europa e in vari paesi si formarono gruppi di artisti che perseguivano questa utopia di cui il vestito estetico divenne una sorta di simbolo. Il progetto di un modello di bellezza che rivoluzionarono innanzitutto lo spazio della vita quotidiana era finalizzato a una sorta di missione educativa di cui gli artisti si incarnarono nei confronti dei contemporanei, modificare la forma degli oggetti in chiave estetica significava indurre l’abitudine a un gusto più colto e raffinato e quindi costringere la società borghese a operare un salto culturale. Questa educazione del gusto avrebbe portato necessariamente una trasformazione nella forma e nella funzione degli oggetti d’uso e a una messa in discussione del modo di produrli. Fredrich Deneken organizzò nel 1900 in Germania una mostra dedicata all’abbigliamento d’artista nel Kaiser Wilhelm Museum di Krefeld. Era la prima volta che degli indumenti venivano esposti in un museo e questo sanciva il loro diritto a essere considerati opere d’arte. L’iniziativa ebbe grande successo vi parteciparono numerosi artisti con proposte d’avanguardia. Krefeld rappresentò l’inizio di un sodalizio fra artisti e cultura vestimentaria in aria tedesca. Negli anni seguenti mostre analoghe furono organizzate in altre città contribuendo alla diffusione della moda Reform. Più rivoluzionari furono i risultati raggiunti a Vienna da Gustav Klimt che disegnò per sé e la sua compagna modelli ispirati alle tradizioni orientali, lontani dalle strutture sartoriali del primo Novecento. Semplici nella linea e raffinati nei tessuti e negli schemi decorativi suggeriscono l’idea di una versione occidentale della morbidezza degli indumenti etnici orientali. Sua moglie Emillie e la sorella dirigevano una delle case di moda più rinomate di Vienna, Schwestern Flöge, contribuì a diffondere l’idea del nuovo modello di abbigliamento realizzando capi che, pur non essendo innovativi come quelli disegnati da Klimt, ne conservavano lo spirito. A Vienna però, il luogo dedicato alla ricerca sull’abito d’artista fu la Wiener Werkstätte, la scuola di arti applicate fondata nel 1903 da Josef Hoffmann e Koloman Moser, che dal 1911 ebbe un laboratorio sartoriale dedicato alla moda, diretto da Eduard Wimmer-Wisgrill. Spesso i modelli di questa sede rimasero a livello di disegno, ma ciò non impedì che la loro forza innovativa colpisse Poiret. L’abito alla greca La ricerca di un abbigliamento estetico, adeguato è una società che voleva vivere in modo più naturale soprattutto circondata dalla bellezza, ebbe una svolta anche in relazione alla moda “greca”. Alcuni pittori fecero del mondo classico lo scenario e il soggetto principale dei loro quadri, che ebbero uno straordinario successo. Era inevitabile che ciò non avesse ripercussioni sulla moda. L’idea di un ritorno all’ambito delle origini si andava diffondendo in ambiti culturali molto lontani e diversi fra loro. Il vero interprete moderno dell’abbigliamento greco fu un artista catalano eclettico che operava a Venezia, Mariano Fortuny. Da un lato, egli reinventò il modello del chitone e lo tradusse in una tunica, il “Delphos”, dall’altro tributò con la sciarpa “Cnossos” un omaggio alla scoperta della civiltà minoica e agli scavi che Evans stava conducendo a Creta. La ricerca di Fortuny intorno al tema Reform non si limitò alla riedizione dell’abito greco, ma si estese ai sistemi di taglio degli indumenti orientali o etnici e alla creazione di tessuti adatti a una loro tradizione in termini “estetici”, elaborando tecniche di colorazione a stampa che sapevano rendere gli effetti i disegni degli antichi velluti operati. Egli aveva creato qualcosa che costituiva una vera alternativa all’abito con il busto e le sottogonne. Questo non significa che i suoi modelli potessero entrare immediatamente nell’uso comune e sostituire tutte le sedimentazioni culturali di un secolo di moda, ma la sua esistenza condizionò le elaborazioni e le trasformazioni vestimentarie successive. I futuristi Il gruppo futurista comunicò la propria idea della modernità e dell’arte attraverso un manifesto pubblicato sul quotidiano francese. I diversi manifesti che seguirono il primo riguardavano tutti i campi d’azione della nuova ideologia e disposero sia il modo in cui doveva avvenire il rinnovamento sia il significato sociale e culturale delle trasformazioni. I miti futuristi erano la metropoli, la macchina e la tecnologia e significavano di fatto una rottura totale con le estetiche del revival che avevano caratterizzato il secolo precedente. Fu l’abbigliamento maschile ad essere messo in discussione, gli artisti futuristi cominciarono ad adottare il colore e la simmetria, prima nella forma di calzini colorati e spaiati, poi di cravatte variopinte e di indumenti dall’aspetto inusuale. Balla disegnò e realizzò per sé abiti innovativi in cui forme ritmi cromatici dovevano suggerire effetti dinamici. La soluzione astratta e geometrica era quella che meglio si armonizzava con lo spazio urbano moderno. Nel 1914 fu pubblicato Le vêtement masculin futuriste. Manifeste, in cui Balla prendeva le distanze dal costume del momento e dettava i nuovi precetti dell’abito futurista. Non una moda, ma un avere propria forma estetica adeguata al mondo del futuro che coinvolgeva l’apparire sociale individuale della nuova società. L’abbigliamento doveva modificarsi secondo regole generali, ma ciascuno era libero di cambiare l’aspetto esteriore di un indumento attraverso i “modificanti”, elementi geometrici di tessuti e colori diversi, forniti insieme al capo, da applicare a piacere. Negli anni successivi i futuristi diedero forma concreta le loro ideologie estetiche aprendo laboratori in cui realizzare oggetti d’arte applicata dalle forme eccentriche innovative. La collaborazione tra il futurismo italiano la produzione di moda fu pressoché assente, anche perché la ricerca di questo movimento d’avanguardia si dedicò soprattutto l’abito maschile in modo più teorico che concreto. Costruttivismo e rivoluzione russa La Russia postrivoluzionaria voleva costruire un mondo e una società completamente nuovi. I vestiti vennero presi in esame come componente simbolica e produttiva del nuovo progetto. L’obiettivo del dopo 1917 non era più scandalizzare i borghesi, ma creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più i segni della distinzione sociale. Uno scopo che richiedeva un ripensamento anche di tipo produttivo, non più i piccoli numeri destinati ad un’élite, ma i grandi numeri di una produzione industriale di massa. La Russia non aveva una tradizione nel campo della confezione, la nobiltà si era sempre servita a Parigi o dai grandi sarti della capitale, la borghesia faceva realizzare i propri abiti nelle sartorie e il popolo aveva continuato a vestire i costumi tradizionali cuciti in casa o da piccoli artigiani. Il nuovo percorso cominciò nel 1919 con la creazione di laboratori e scuole dove elaborare i progetti del nuovo modo di vestire e formare i professionisti che avrebbero potuto mettere in atto la produzione. L’obiettivo politico era dare una nuova forma estetica alla società. Fu la Nuova politica economica (NEP) a dare un vero impulso alla libera creazione di modelli vestimentari e fu nel 1923 che si costruì il primo atelier di moda, che presentò la sua filosofia e i suoi modelli attraverso una rivista, “Atelier”. La ricerca di una nuova bellezza in ambito vestimentario tenne conto di due elementi di fondo, la possibilità di una produzione industriale e il legame con la tradizione popolare russa. Sarte e artiste come Lamanova, Ekster, Muchina elaborarono, ciascuna secondo la propria sensibilità, questi obiettivi. La prima si concentrò su sulla funzione, i materiali, le forme e la decorazione. Al contrario Aleksandra Ekster e Vera Muchina concentrarono la loro creatività sulla produzione teatrale, questo non impedì la ricerca nell’abito sia della toilettes importanti di produzione artigianale, sia degli abiti da lavoro. Sul tessuto si concentrarono in particolare l’attenzione del gruppo costruttivista, Varvara Stepanova e Ljubov Popova, modificarono completamente il disegno tessile della prima fabbrica di cotone stampato di Mosca, innovandole secondo i principi geometrici del movimento d’avanguardia a cui appartenevano, ma in modo originale e creativo. Le divise della nuova società si differenziavano in base alla funzione, ma anche all’appartenenza. La generosa ed entusiasta adesione di sarte artisti al progetto rivoluzionario, però si scontrò con la realtà dei fatti, l’arretratezza del sistema produttivo sovietico non consentiva una vera produzione di massa. D’altra parte la progettazione era spesso tanto innovativo quanto in adeguata sia alla traduzione industriale sia a una vera diffusione, che peraltro mancava di canali adeguati. I progetti rimasero in gran parte irrealizzati o limitati a prototipi da esporre nelle periodiche mostre nazionali o al pubblico internazionale. Nonostante ciò, molte delle idee elaborate durante la prima fase rivoluzionaria trovarono la strada della moda attraverso la produzione delle maison parigine. L’attenzione dell’Europa nei confronti della cultura russa fu alimentata nel periodo appena successivo alla Rivoluzione, anche dall’arrivo a Parigi di esuli aristocratici. Dopo il riconoscimento mescolando segni che venivano da culture diverse. Nel 1905 sposò Denise Boulet, che in breve diventò la sua musa ispiratrice e una delle donne più eleganti ed estrose di Parigi. L’anno seguente l’atelier si trasferì al 37 di Rue Paquiret, dove fu possibile procedere ad una riorganizzazione del lavoro per reparti specializzati, seguita da una nuova équipe. Qui Poiret mise a punto la sua prima vera sfida alla moda dominante, eliminando il busto e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Il primo abito senza corsetto fu denominato “Lola Montes” e indossato da Denise Poiret al battesimo della figlia Rosine. L’ispirazione neoclassica Poiret cominciò a lavorare alla nuova linea e a un’idea di donna innovativa. L’ispirazione era rivolta alla moda neoclassica degli anni del Direttorio. Egli non pensava di riproporre un’epoca storica all’attenzione del presente, al contrario si concentrò sulla struttura di quel modello vestimentario cercando di coglierne gli elementi fondamentali cui agganciare la progettazione di un abito completamente nuovo. Il risultato iniziale fu un modello dritto, a vita alta, in cui alla tradizione settecentesca fu abbinata a suggestioni che venivano da altre fonti, come quelle orientali ed etniche. Il tutto venne realizzato con materiali innovativi sia rispetto alla fonte sia rispetto all’uso della sartoria contemporanea, con colori e stoffe che derivavano direttamente dalle culture vestimentarie extraeuropee, unite a un’attenta osservazione della pittura d’avanguardia. Il modello chiave della collezione presi il nome di “Joséphine”, ed era quello che più esplicitamente dichiarava l’ispirazione Impero, ma la sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto al seno gli toglievano ogni rigore filologico. Insieme ad esso Poiret propose una serie di capi della chiara ispirazione esotica, c’erano la tunica “Cairo” che riprendeva nei ricami idee prese dal folklore mediterraneo, il modello “Eugénie” che accostava la linea Impero a una garza di cotone rossa broccata a pois dorati molto probabilmente di provenienza indiana, il mantello “Ispahan” di velluto di seta e altri ancora. Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo adatto per comunicare la trasformazione degli abiti. Non poteva ricorrere alla stampa di moda, decise di agire da solo trovando un artista adatto alle sue necessità e pubblicando le immagini delle sue creazioni come voleva che fossero colte dal pubblico. Nell’ottobre del 1908 uscì Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe, un album contenente dieci tavole a colori, in cui metteva a confronto la novità dei modelli con il punto d’ispirazione utilizzando un linguaggio grafico mai usato prima nella stampa di moda, con punti di contatto evidenti con la bidimensionalità delle stampe giapponesi. I disegni rappresentavano figure femminili collocate in ambienti sommariamente definiti in cui si trovavano mobili, oggetti, quadri che richiamavano alla mente il periodo Impero. Il colore era riservato solo alle figure femminili. La novità non era solo di ordine stilistico, anche le figure femminili rappresentate erano diverse, alte, sottili, senza forme evidenti, con capelli corti semplicemente avvolti da un nastro, colorato in armonia con l’abito. L’album fu inviato a tutte le clienti di Poiret e alle dame del gran mondo che avrebbero potuto diventarlo, ma venne anche messo in vendita come cartelle di stampa d’arte per collezionisti. L’immagine Poiret Poiret incaricò Iribe di progettare il marchio a forma di rosa e utilizzò particolari delle tavole dell’album per realizzare una specie di comunicazione integrata dell’azienda attraverso carta intestata, biglietti d’invito, fatture, ecc. Secondo elemento fondamentale della nuova immagine che stava costruendo intorno a sé fu la sede in cui trasferì la Maison nel 1909, un hotel particulier del XVIII secolo, con un grande parco intorno. L’interno venne ristrutturato e arredato in maniera da diventare l’adeguata cornice dei modelli che il couturier presentava alle sue clienti, accostando elementi in stile Direttorio e orientali in una cornice colorata. Poiret utilizzò anche il parco, che divenne una specie di secondo marchio della Maison. L’orinetalismo Fra 1909 e 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Ballets Russes. Ciò che colpì maggiormente gli spettatori occidentali fu la rivoluzione effettuata nella presenza dei balletti, fino a quel momento la danza classica era vestita in tutù e calzamaglia e le sue scene erano estremamente semplificate. Benois e Bakst vestirono i danzatori con costumi mirabolanti e li fecero muovere in scene elaborate e colorate. Tutti notarono una somiglianza fra i costumi dei nuovi balletti i modelli di Poiret, così scomparvero dai suoi modelli i richiami al Direttorio e si fecero sempre più forti quelli alle culture etniche, orientali e arabe. Il punto di passaggio fu rappresentato dalla jupe entravée, una gonna lunga e dritta che veniva serrata con una specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di impedire il passo di costringere chi la portava a procedere a piccolissimi movimenti. Sembra la negazione di tutto quello che il sarto e va realizzato prima del 1910, liberando il corpo dai corsetti. Probabilmente si trattava solo di un esperimento alla ricerca di una nuova linea, oppure di un freno a un movimento di liberazione che rischiava di sfuggire di mano. Egli la liberò nel corpo ma non nel ruolo. Non più madre o moglie messe in mostra come segno di ricchezza, ma femme fatale o fatata, circondata di un alone di esotismo e misterioso, che la trasformavano in oggetto di desiderio e di lusso. Fu nell’anno successivo che l’immagine di donna che Poiret sognava venne esplicitata, quando egli presentò la prima jupe-culotte. La realizzazione di pantaloni per le donne non passò inosservata, ma la sua proposta non voleva essere rivoluzionaria, al contrario si trattava di un paio di pantaloni da portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava il polpaccio. Il nuovo album pubblicitario fu affidato a Lepape, un giovane disegnatore agli inizi della carriera, fu pubblicato il 15 febbraio 1911 con il titolo Les Choses de Paul Poret vues par Georges Lepape. Lo stile di Lepape era molto più sensibile al colore, agli elementi di ambientazione e alla pittura giapponese. Le immagini di figure femminili sempre conciate con il turbante che il couturier aveva lanciato nel 1909, conducono attraverso le immagini una vita pigra, morbida e lussuosa circondate da cuscini e tende colorate, sedute a teatro a vedere Shéhérazade o servite da piccoli schiavi di colore. La festa della Milleduesima Notte Poiret utilizzò tutti i modi possibili per far parlare i giornali, ma l’idea che più colpì la fantasia del tempo fu una serata in costume dal titolo “La festa della milleduesima notte” che si svolse il 24 giugno 1911 nel giardino della Maison. Poiret aveva già utilizzato in precedenza il parco per eventi mondani dello stesso tipo, dedicati di volta in volta a temi diversi. La casa era ricoperta da tendaggi in modo che dalla strada non si potesse vedere l’interno, l’entrata era sorvegliata e venivano controllati i costumi indossati dagli invitati, proponendo sostituzioni fatte dalla stessa Maison nel caso non fossero stati in tema. All’interno del giardino era stato creato un percorso che portava ad una gabbia dorata con all’interno la signora Poiret, circondata da dame di compagnia, un’altra sala ospitava l’attore de Max che raccontava le storie di Mille e una Notte. Poiret si trovava nella stanza più in fondo ed assomigliava ad un sultano sul suo trono con attorno le concubine. C’erano anche varie esibizioni e venditori di ogni genere. Poiret non voleva presentarsi alla società come un sarto e un imprenditore, ma come un artista e un uomo di mondo, che amava circondarsi della stessa bellezza che forniva alle donne attraverso i suoi abiti. Per questo ricercò l’amicizia di vari pittori e mescolò volentieri il proprio lavoro a quello di artisti, cui riconobbe sempre il merito del lavoro. Fu anche un abile amministratore dei propri risultati professionali che sapeva inventare iniziative promozionali, come il viaggio nel 1910 attraverso l’Europa per mostrare le sue collezioni. La Secessione viennese e l’Atelier Martine Da questo viaggio Poiret non ricavò solo clienti, anzi il risultato più importante che ottenne fu quello di conoscere direttamente realtà diverse da quella francese e movimenti artistici d’avanguardia da cui prendere spunto per il futuro. L’Europa dell’Est offrì al sarto parigino nuove idee e soprattutto una serie di elementi decorativi popolari che si aggiunsero a quelli esotici e che trovavano collocazione nei modelli degli anni seguenti. L’incontro che doveva segnarlo maggiormente fu quello con Vienna dove conobbe Gustav Klimt ed Emilie Flöge e attraverso Josef Hoffmann, la realtà della produzione della Wiener Werkstätte. Si recò a Bruxelles per vedere palazzo Stoclet progettato da Hoffmann. Poiret nell’aprile 1911 aprì in Rue du faubourg Saint-Honoré l’Atelier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazzine guidate da Madame Serusier, davano libero sfogo alla propria creatività in tutti i campi delle arti applicate. L’idea aveva preso forma attraverso il ripensamento di diversi aspetti dell’esperienza viennese. L’Atelier Martine fu dotato di un punto vendita, partecipò a varie esposizioni, realizzò diversi arredamenti di case e fu sostenuto dalla Maison che lo utilizzò per diverse iniziative. La sua produzione ebbe sempre un tratto un po' dilettantesco e quindi non raggiunse mai quel valore di rottura estetica che Poiret sognava. Un discorso diverso va fatto per la decorazione di tessuti direttamente finalizzati all’abbigliamento, che Poiret affidò a Raoul Dufy nel 1911. Il livello professionale delle sue realizzazioni attirò immediatamente l’attenzione dell’industria tessile e nel 1912 il pittore venne cooptato dalla Bianchini-Férier. Tutte queste iniziative colpirono il mondo del designr e degli architetti e furono accolte con grande apprezzamento da riviste di settore. Un successo maggiore doveva avere la produzione di profumi. Con la collaborazione del dottor Midy, che aveva un laboratorio farmaceutico, nel 1911 fu messo a punto il primo profumo e venne fondata la ditta Rosine che ne curò la fabbricazione. Allo stesso modo si aprì un laboratorio di cartonnage, Colin, che produce le scatole e gli oggetti pubblicitari. Anche le bottiglie venivano curate direttamente da Poiret e spesso affidate per la decorazione all’Atelier Martine. Alla produzione di profumi venne associata un’intera gamma di prodotti di bellezza come mascara, creme, ciprie. Anche in questo caso era la prima volta che il nome di un couturier veniva associato a quello di una linea di prodotti di bellezza. Ormai la fama di Poiret era costruita e i suoi modelli influenzavano la moda, senza nemmeno dover ricorrere alla mediazione delle signore dell’alta società. Anche la posizione di Poiret nel mondo degli artisti sembrava accettata e assodata, ballerine e attori frequentavano la sua casa e le sue feste. Nel 1913 Poiret e la moglie compirono un viaggio pubblicitario negli Stati Uniti, il vero mercato dell’haute couture parigina. Gli anni della guerra L’anno successivo scoppiò la guerra, dopo un primo momento di blocco, la Francia tentò di salvare la produzione di moda, che poteva essere un valido sostegno allo sforzo bellico, utilizzando tutti gli strumenti disponibili. Poiret fu inizialmente mobilitato in un regimento di fanteria dove prestò servizio come sarto, poi venne destinato agli archivi del Ministero della Guerra. Nella sua qualità di presidente del Syndicat de défense de la grande couture française collaborò all’organizzazione della Fête parisienne, promossa da “Vogue”, che si svolse nel 1915 al Ritz Carlton di New York. Come couturier partecipò alla manifestazione insieme alle maison di moda ancora aperte. La presentazione delle novità parigine aveva lo scopo di mantenere uno stretto rapporto con il mercato d’affari inglese. Con il suo aiuto economico nel 1910 lasciò l’appartamento e affittò la prima sede di Rue Cambon, la stessa in cui si trova tuttora la Maison Chanel. Già nel 1910 e 1911 le riviste cominciarono a pubblicare i suoi cappelli indossati da attrici famose. Ma la pubblicità maggiore venne dai cappelli indossati da Gabrielle Dorziat sulle scene del teatro Vaudeville. Gli abiti di scena erano stati commissionati a Jacques Doucet e Chanel fece di tutto per realizzare i copricapo. La Vita culturale di Parigi non era fatta solo di questo genere di eventi, ormai entrati nella tradizione sociale borghese. Chanel scoprì l’esistenza di una produzione artistica d’avanguardia che stava distruggendo il modello culturale ottocentesco. Durante l’estate Chanel e Boy si recarono in vacanza a Deauville, una località di mare della Normandia, dove i parigini e i londinesi dell’alta borghesia, si recavano in villeggiatura. La coppia intuì che quello poteva essere il luogo in cui iniziare una vera attività di moda. Boy finanziò l’apertura della sua prima vera boutique situata nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi, ma le loro esigenze erano un po’ diverse, gli sport lentamente stavano entrando a far parte dello stile di vita vacanziero e anche il mare e la spiaggia esercitavano una trazione nuova. La moda balneare dell’epoca prevedeva abiti di lino bianco ricamati e decorati di pizzo, scarpe con quattro cinturini abbottonati, tre giri di perle e monumentali cappelli molto decorati. I cappelli semplificati Chanel conquistarono il “bel mondo”. Decise di provare a modificare anche l’abbigliamento e si rivolse all’abbigliamento maschile. Provò a realizzare per sé capi di maglia dritti e comodi, poi cominciò a produrre capi da vendere nella boutique, marinare di maglia, pullover sportivi, blazer di flanella copiati da quelli di Boy. Era la sua prima esperienza di sarta ed ebbe un successo immediato, un successo cui la guerra contribuì in modo fondamentale. La guerra Allo scoppio della Prima guerra mondiale Deauville si svuotò, tutti tornarono a casa tranne Chanel. Quando i tedeschi cominciarono l’invasione della Francia, Deauville divenne meta di fuga dalla capitale. Le signore, questa volta sole, cominciarono una vita inusuale, perché non potevano considerarsi in vacanza, ma allo stesso tempo erano lontane dalla normalità della città. Per affrontare la situazione iniziarono rifacendosi il guardaroba nella boutique di Chanel, l’unica aperta. Quando gli alberghi vennero trasformati in ospedali per accogliere i feriti dal fronte, si rese necessario loro impegno come infermiere e di conseguenza una divisa bianca. Chanel adatto le divise delle cameriere degli hotel per le infermiere. Passata la paura per l’invasione tedesca Gabrielle tornò a Parigi, ma la situazione non era facile. La vita si riorganizzò intorno alle donne, che cominciarono a fare cose fino ad allora non consentite e a impegnarsi in attività necessarie. Lavoro e volontariato furono le scoperte delle signore borghesi, insieme a libertà mai sperimentate prima, iniziarono a frequentare da sole i bar degli alberghi. Il Ritz divenne il punto di ritrovo e Chanel seppe trarne vantaggio, il suo negozio al 21 di Rue Cambon era sulla strada dell’albergo e divenne un luogo un momento dell’appuntamento quotidiano delle signore. Un altro luogo era Biarritz, che ospitava anche la buona società spagnola in vacanza. Boy e Coco decisero di aprire lì una vera e propria maison de couture, che fu collocata in una villa posta di fronte al casinò. L’attività fu affidata ad Antoinette, la sorella, affiancata da abili premières e fu rifornita direttamente da Parigi. La clientela comprendeva, oltre ai rifugiati, l’élite spagnola. Contrariamente a quanto di potrebbe pensare, l’impegno bellico della Francia non ridusse la produzione dell’haute couture parigina, il governo comprese presto che la moda era una delle poche attività che potevano sostenere il bilancio del paese. Il problema era rappresentato dai materiali indispensabili per confezionare abiti. Molti servivano per le divise dei soldati e altri erano rari per la mancanza di operai nelle aziende tessili. Chanel pensò di proporre modelli realizzati a tricot, ma la lana e le lavoranti necessarie mancavano. La soluzione fu l’acquisto di interi stock di jersey da Rodier, uno dei più importanti industriali tessili francesi. Coco capì che quel materiale sobrio, di colore nocciola, poteva diventare un nuovo simbolo di eleganza. Le difficoltà nel cucirlo potevano essere volte in positivo, eliminando le lavorazioni inutili e le decorazioni in favore di un’assoluta semplicità. Le donne che indossavano i suoi abiti potevano camminare dritte e agili, con vestiti che non stringevano il corpo e si fermavano alla caviglia, soprattutto le rendeva autonome. Nel 1916 “Harper’s Bazar” pubblicò il suo modello, era una specie di camicione morbido lungo fino alla caviglia, con una profonda scollatura a punta, le maniche a guanto e una lunga fusciacca annodata sui fianchi, completato da una blusa semplice con un colletto a revers. L’abito era decorato da ricami che sottolineavano lo scollo, i polsi, l’orlo e l’estremità della fusciacca, accompagnato da un manicotto e un cappello a testa larga. Nel maggio dello stesso anno “Les élegances parisiennes” pubblicò sei completi di Chanel, uno dei quali aveva un aspetto decisamente maschile, la gonna a pieghe lunga fino al polpaccio, era accompagnata da un blazer con quattro tasche applicate chiuse con ribalta e bottone, era decisamente ispirato ad una divisa militare. La moda parigina degli anni di guerra non aveva perso di eccentricità, accanto a tailleur maschili e ai riferimenti militari, si susseguivano i revival settecenteschi. Chanel cercò di seguire la propria linea di semplicità e rigore e limitando le variazioni del jersey ai sobri ricami, alle bordature di pelliccia e all’accostamento della tinta unita con le righe colorate e lo scozzese. Aveva raggiunto anche il mercato americano e “Vogue” pubblicava regolarmente i disegni e le fotografie delle sue creazioni, che si arricchirono di colori come verde e rosso. La moda del dopoguerra La fine della guerra fu contrassegnata da un arricchimento della sua produzione, ai modelli in jersey cominciarono ad aggiungersi abiti da sera più fantasiosi realizzati in tessuti usuali e femminili come il raso, il velluto, lo chiffon e nel 1920 anche il pizzo Chantilly. Anche le decorazioni si adeguarono al ritmo di vita più euforico del dopoguerra. Ma la fine della guerra rappresentò per Chanel anche la fine di una fase della sua esistenza, Boy Capel sposò la figlia di Lord Ribblesdale. La guerra gli aveva procurato un prestigio internazionale che poteva essere consolidato attraverso un matrimonio calcolato. Ma la storia con Capel finì solo nel 1919 quando lui morì in un incidente d’auto. A questo punto Coco cominciò una vita nuova. Gli artisti e le avanguardie Nel 19120 acquistò una casa nuova, il Bel Respiro a Garches, un sobborgo di lusso di Parigi. Nello stesso periodo cominciò a frequentare l’ambiente degli artisti avendo come guida i Sert, lui un pittore spagnolo, lei un personaggio al centro delle avanguardie. Misa Godebska aveva sposato Thadée Natanson, il fondatore di “Le Revue Blanche”, una tra le più importanti riviste d’avanguardia. Misa divenne un punto di riferimento e simbolo della testata, ma nel 1914 sposò Josep Maria Sert. Chanel si trovò al centro della società degli artisti internazionali che animavano Parigi. A Venezia fu presentata a Diaghilev, il fondatore dei Ballets Russes, che per ogni opera lui ricercava l’artista che meglio poteva contribuire alla realizzazione, ma gli spettacoli non gli garantivano guadagni adeguati. Chanel, al suo ritorno a Parigi, finanziò in segreto la ripresa di La sagra della primavera. Nel 1922 Jean Cocteau le affidò la realizzazione dei costumi per Antigone. Nel 1924 Diaghilev commissionò allo scrittore il soggetto per un’operetta danzata. Le Train bleu, parlava della nuova moda delle vacanze in Costa Azzurra. I personaggi principali erano due nuotatori, una tennista e un giocatore di golf, attorniati da una folla di ballerini. I costumi di Chanel erano veri indumenti sportivi ispirati a casi reali, la tennista era vestita con un completo bianco, il golfista indossava una camicia bianca, cravatta stretta, calzoni alla zuava, pullover e calzettoni a righe, i nuotatori avevano un costume da bagno di maglia, composti da calzoncini corti e canotta sbracciata, che sembravano fatti per nuotare. Il rapporto con gli artisti dell’avanguardia non impedì a Chanel di essere al centro della società alla moda, che stava cambiando le abitudini, i modelli di comportamento e lo stile di vita della borghesia internazionale. Il profumo e l’influenza russa Fu in questo contesto che Chanel conobbe il granduca Dimitrij, nipote dello zar ucciso durante la Rivoluzione sovietica. Lui si era salvato perché nel 1917 era già in esilio. Grazie a lui Chanel scoprì il profumo, e fu probabilmente Dimitrij a farle conoscere Ernest Beaux un chimico di Grasse, che elaborò il metodo di fabbricazione, mettendo insieme essenze naturali e componenti sintetiche che dovevano avere il compito di stabilizzare la fragranza e farla durare nel tempo. Il suo profumo non assomigliava a nessun odore riconoscibile, l’insieme degli ingredienti era dosato in modo da avere una fragranza del tutto specifica e nuova, gradevole e artificiale. Il nome che scelse fu N°5, la confezione era una semplice bottiglia di farmacia trasparente su cui veniva applicata un’etichetta bianca con la scritta nera. Nel 1924 Coco stipulò un contratto con i Wertheimer, proprietari dei Les Parfumeries Bourjois, per creare una nuova società, Les Parfums Chanel, incaricata della sua produzione e distribuzione. Gabrielle non aveva molta esperienza nelle questioni finanziarie e stipulò un accordo che le garantiva di non doversi occupare del profumo in cambio del dieci per cento delle azioni della Parfums Chanel. D’altra parte era solo dal dopoguerra che il profumo aveva cominciato a essere un genere di lusso adottato da tutte le donne, quindi non era facile capire che sviluppo ci sarebbe stato. L’influenza russa esercitata dal granduca Dimitrij e dai Ballets Russes si vide soprattutto negli abiti che Chanel propose in quegli anni. Ad attirare l’attenzione fu la roubachka, il tipico camiciotto con la cintura che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale dei contadini russi, ma che in realtà indossavano anche i soldati. La sua foggia era una semplice variazione del capospalla dritto e appoggiato sui fianchi, ma realizzato in tessuto. Scoprì anche disegni, motivi geometrici e figure fantastiche molto diverse da quelle occidentali. La collezione che presentò nel 1922 era incentrata su due temi di derivazione contadina, la roubachka realizzata dalle sue premières e i ricami realizzati dalla Maison Kitmir. Chanel riusciva a tradurre in un linguaggio che piaceva alle signore dell’alta società gli elementi vestimentari maschili più lineari, trasformandoli in segni di libertà, ma anche di distinzione. Nelle collezioni successive l’influenza russa si fece sentire nella produzione di pellicce, chanel provo a tradurre le fodere e gli ampi bordi di volpe o di cincillà nel linguaggio occidentale dei mantelli per il giorno e la sera. Quello che cambiava erano gli accessori e il tessuto, per la sera utilizzò sete e lamé, per il girono impiegò la lana, accompagnata dalla nuova cloche di feltro ben calzata sulla fronte. Fra 1924 e 1925 i modelli assunsero una linea a “tubo”, con la vita bassa, una cintura annodata sui fianchi e una gonna che poteva essere dritta o con effetti di sbieco e l’orlo di alzava sempre di più verso il ginocchio. Il 1925 fu l’anno dell’Exposition Internationale des Arts Décoratifs, quella da cui prese il nome l’Art Déco. Erano state esposte le creazioni dei couturiers e fu il trionfo definitivo dello stile à la garçonne, rappresentato oltre che da Chanel, anche da Jean Patou, Jeanne Lanvin e Madeleine Vionnet. La ricerca di Chanel non era finalizzata a uno schema decorativo, il suo oggetto era un abito funzionale alla vita moderna. Nel 1926 presentò un abito nero che poteva essere indossato in qualsiasi occasione, la sua destinazione d’uso era indicata dagli accessori con cui veniva accompagnato, contravvenendo alla regola tradizionale di realizzare capi diversi per situazioni sociali differenti. Stile inglese, gioielli e bijoux Il vestito nero può essere considerato il risultato finale del suo lavoro di semplificazione cui Chanel sottopose l’abito intero femminile, la sua ricerca negli anni successivi si concentrò sul tailleur e Bijoux de Diamants Nel 1932 l’International Diamond Guild, l’associazione che riuniva i produttori e mercanti di diamanti, le chiese di progettare gioielli con gemme autentiche a scopo benefico. Chanel lavorò con un gruppo di amici e in particolare con Paul Iribe, il suo nuovo compagno, e preparò una serie completa di pezzi, snodabili e trasformabili, che espose nel suo appartamento di Fauborg Saint- Honoré. Negli anni successivi Chanel tronò alla bigiotteria e Fulco Santostefano della Cerda, la creò per lei. Era un nobile siciliano arrivato a Parigi nel 1927, ed era entrato nella Maison Chanel come disegnatore tessile, ma presto gli fu affidato il laboratorio di bigiotteria. A seconda dei casi Fulco s’ispirò, copiò o prese spunto da originali appartenenti alle più diverse epoche storiche o tradizioni culturali. La dimensione dei monili e delle pietre era sempre esagerata e dichiarava in modo esplicito la falsità dell’oggetto, ma contemporaneamente era perfettamente adeguata a completare gli abiti semplici di Coco. I pezzi erano realizzati dalla Maison Gripoix, specializzata in questo tipo di produzione. I prezzi erano tali da trasformare in lusso anche le pietre di vetro colorato, le perle de Paris e le catene dorate. Per ottenere un vero effetto di decorazione Chanel proponeva di indossarli a cascate, mettendo insieme pezzi dal gusto estremamente diverso. Come per i profumi, anche per i gioielli fu dedicata un’intera vetrina in Rue Cambon, in modo da attirare anche la clientela che non poteva aspirare ad un abito, ma poteva comprare un bijou una cintura. Moda anni Trenta Il panorama della moda degli anni Trenta risultava molto più variegato rispetto a quello del decennio precedente. Chanel rappresentava solo uno degli stili vestimentari possibili e non quello più all’avanguardia. Chanel dovette specializzarsi in modelli più facili da indossare rispetto a quelli delle sue rivali, ma con molte deroghe all’assoluta semplicità degli anni Venti. Anche lei usò il tulle, il merletto e i ricami di paillettes per realizzare abiti dall’aria romantica con grandi maniche rigonfie, con una maggiore aderenza al corpo e persino con ampie gonne. Anche il tailleur conquistò una vera giacca costruita con tecniche più sartoriali e femminili. Fecero capolino riferimenti a mode antiche, come i colletti bianchi che comparvero sui semplici fourreaux neri, poi fiori da posare in testa o da appuntare allo scollo o alla cintura. Anche se il successo professionale commerciale continuava, era evidente che Chanel non rappresentava la moda di punta del momento, se non nella produzione di accessori. La rottura del 1936 Il 1936, con il suo sfondo di miseria e disoccupazione, portò alla vittoria elettorale del Fronte popolare e agli scioperi dei lavoratori francesi. Anche le operai della Maison Chanel entrarono in sciopero, ma Gabrielle rifiutò di ricevere le delegate sindacali, non riconoscendone il ruolo. Come risposta le scioperanti le impedirono l’accesso alla Maison. Quello che gli operai francesi rivendicavano era un sistema di diritti garantiti, volevano contratti collettivi, le quaranta ore settimanali, le ferie pagate. Di fronte al rischio di essere messa nell’impossibilità di realizzare la collezione dell’autunno, Chanel dovette cedere. Il mondo che aveva costruito era entrato in crisi, il compagno con cui aveva pensato di dividere vita e professione morì improvvisamente, il sistema di lavoro nella casa di moda adottava regole nuove che rivoluzionavano i rapporti tradizionali e consolidati, la sua vena creativa non sembrava più essere in sintonia con i tempi. Il successo di Schiaparelli continuava a crescere, costringendo Chanel a confrontarsi con lei sul mercato della moda. Rispose creando capi prevedevano clori brillanti e modelli in sintonia con la tendenza del travestimento giocoso. Dal 1938 comparvero nelle sue collezioni tinte e forme ispirate ai vestiti da festa dei contadini o degli zingari. Nel 1939 tentò addirittura un discorso ideologico proponendo i colori della “patria” o forse nazionalisti blu, bianco e rosso. Era come se il suo percorso creativo si fosse scontrato con l’eccesso di fantasia e di lusso che percorreva la fine degli anni Trenta e il suo senso dell’ordine e del rigore fossero stati messi in crisi. Le sue collezioni continuarono a presentare i capi che l’avevano portata al successo, sempre realizzati con grande sapienza, ma non erano in grado di fare proposte davvero alternative alla concorrenza rappresentata da Schiaparelli e Vionnet. La Seconda guerra mondiale e la chiusura della Maison Il 2 settembre 1939 la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra alla Germania. Tre settimane dopo Chanel chiuse la Maison, lasciando aperta solo la boutique che vendeva i profumi. Le lavoratrici, licenziate in massa, ricorsero al sindacato, che cercò di convincerla a sospendere la decisione, ma non ci fu nulla da fare. Negli anni della guerra Chanel visse al Ritz, dove si era stabilita dal 1934, che di nuovo era diventato punto di riferimento e d’incontro, ma questa volta dei tedeschi che occupavano la Francia. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, fu arrestata e interrogata dal Comitato d’epurazione. Poche ore dopo fu liberata e partì per la Svizzera, dove rimase per nove anni in volontario esilio. Li conobbe Paul Morand, che annotò il suo racconto. Solo nel 1976 uscì il libro in cui Chanel parla in prima persona. Il ritorno alla moda Nel 1946 sveva sessantatrè anni e la sua parabola sembrava definitivamente chiusa. Un anno dopo Dior sarebbe comparso sulle passerelle della moda internazionale con il New Look, che era l’esatto opposto di quello che lei aveva sempre ricercato, ed ebbe un grande successo. Il dopoguerra riproponeva a un pubblico di massa una moda dalle fattezze aristocratiche, elegante, scomoda, difficile da portare. Le uniche cose che restavano di Chanel erano i tessuti, commercializzati con il suo marchio e il suo profumo che continuava ad essere considerato un mito. Tornata a Parigi decise di riaprire l’atelier, Les Parfums Chanel sostenne metà dei costi della collezione di riapertura, che fu di alta moda. La sfilata avvenne il 5 febbraio 1954, ma venne interpretata come una semplice riedizione della moda degli anni Venti. La stampa reagì in modo impietoso, il giorno dopo i quotidiani uscirono con articoli durissimi. Chanel incassò il colpo e decise di continuare, Wertheimer la sostenne e stipulò con lei un ulteriore accordo, la società Les Parfums Chanel si sarebbe accollata tutte le spese della Maison e tutte quelle personali della couturière. In cambio riaffermava la proprietà della griffe Chanel per i profumi. Era ormai chiaro che la produzione di alta moda non era più fonte di guadagno, quello che rendeva erano gli accessori, i profumi e il prêt a porter. La società dei profumi acquistò tutto, Gabrielle conservò le royalty dei profumi, il controllo delle collezioni e la scelta dei collaboratori. La prima reazione positiva venne dagli Stati Uniti, i modelli della prima collezione furono venduti meglio di quanto ci si aspettasse. Stagione dopo stagione il progetto di Chanel diventava sempre più chiaro, creare uno stile riconoscibile e non soggetto ai repentini cambiamenti di moda che stavano caratterizzando il decennio. Il tailleur Chanel Il suo proposito era costruire una divisa o una “macchina” perfetta per vestire il corpo femminile, realizzare un vero oggetto di design, ergonomicamente studiato per rispondere a diverse esigenze, il movimento, l’eleganza, la duttilità. Le collezioni comprendevano modelli da giorno e da sera, ma l’oggetto intorno al quale si concentrò la ricerca fu il tailleur. I materiali che utilizzò furono i più diversi: jersey, velluto, merletto, mussola, lamé, ma quello che passerà alla storia con il suo nome fu il tweed. Il completo era composto da tre pezzi, una giacca, una gonna o un vestito senza maniche e una blusa. Il tailleur in tweed era foderato con una seta identica alla blusa. Per evitare che il tweed si deformasse, fodera e tessuto facevano un corpo unico, erano composti da un’impuntura caratteristica che costituiva una sorta di imbottitura. Per conservare la caduta a piombo di questi materiali leggeri, una catenella piazzata in fondo alla giacca assicurava una verticalità all’insieme. Queste catenelle a volte si trovavano in fondo alle bluse di seta. Per compensare l’assenza di maniche della blusa, in fondo alle maniche della giacca erano piazzati dei polsini staccabili, in modo da completare l’effetto finito. Le proporzioni degli insiemi erano variabili, il busto piccolo è lungo, la gonna o l’abito, sempre sotto il ginocchio, i mantelli sempre più corti di qualche centimetro. Le rifiniture della giacca erano tenute con bordi ricamati a sfilatura, utilizzando trama e ordito del tessuto, che venivano intrecciati confido di colore contrastante. Anche in questo caso una decorazione insita nel design dell’oggetto e non una volgare applicazione. Chanel si trovava al centro del movimento culturale che si proponeva di innovare il gusto occidentale, Modern style e design stavano mettendo le basi per una nuova estetica del quotidiano. Chanel si concentrò sulla realizzazione del vestito perfetto, continuò per tutti gli anni Sessanta a raffinare il suo stile, a realizzare capi sempre più perfetti. Il lavoro di Chanel era un perfezionamento continuo che non dipendeva da un progetto fatto a priori, ma dal perfetto adattamento dell’abito alla figura cui doveva appartenere. Il modello era semplice e sempre uguale, anche l’uso del tessuto non prevedeva grandi variazioni, il lavoro e la sapienza stavano tutti nel modellarli sul un corpo di cui saper vendere i particolari, nell’utilizzarli come mappa per costruire il vestito. Era l’esatto contrario del prêt à porter, della taglia, dell’abito che va bene a tutti quelli che hanno le stesse caratteristiche morfologiche. Era un perfetto oggetto di design che nasceva per una precisa funzione, e come ogni oggetto di design era espressione di una cultura e di uno stile di vita. Per questo era necessario inserirlo in un contesto adatto, circondarlo di altri oggetti che completassero la sua funzionalità. Nel caso di un abito questi oggetti sono gli accessori. Chanel riprese la produzione di bijoux, ma questa volta limitandone la gamma tematica alle catene e alle perle, qualche spilla con grandi pietre colorate. Ridusse i fiori alle camelie bianche da appuntare all’abito o sul nastro nero che legava i capelli. Recuperò i suoi capelli e inventò alcuni complementi nuovi, indispensabili al suo tailleur, nel 1955 la borsetta 2.55 in pelle impunturata, sostenuta da una catena dorata e più tardi i sandali con la punta di colore contrastante. Questa differenziazione produttiva era anche una necessità economica. Chanel sapeva che la ricerca nel campo dell’alta moda non avrebbe potuto continuare se non fosse stata sostenuta economicamente dalla vendita di accessori e profumi. Il rilancio del marchio era riuscito a creare un mercato internazionale che li ricercava come oggetti di moda, tutte le riviste ormai parlavano di lei e le donne eleganti del mondo intero avevano almeno un suo tailleur. Lo stile Chanel era diventato una valida alternativa al New Look. Era il momento di utilizzare l’immagine dell’haute couture per imporre sul mercato tutti quei prodotti che avrebbero ripagato dell’investimento iniziale, anche il profumo ritornò in auge con la riapertura della Maison. Chanel morì il 10 gennaio 1971 al Ritz. Madelaine Vionnet (1876-1975) Il lavoro di “première” Madelaine Vionnet era nata nel 1876 e i genitori si erano separati quando aveva tre anni. Era stata allevata dal padre a Aubrevillers e aveva frequentato la scuola con risultati brillanti. A undici anni abbandonò gli studi per andare a imparare il mestiere di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi. Nel 1895 partì per l’Inghilterra, lavorò a Londra come guardarobiera in un asilo per malati di mente e poi nell’atelier di Kate Reily, un ‘importante sartoria specializzata in capi da giorno dal rigoglioso taglio inglese, ma soprattutto nella confezione di modelli acquistati da Parigi. Erano gli anni in cui in Inghilterra si stava svolgendo un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire delle donne. Corpo e abito erano diventati il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una grande trasformazione culturale. Agli inizi del nuovo secolo tornò a Parigi dove era stata assunta dalla Maison Callot Soeurs come première di Madame Marie. Era una Maison di lusso specializzata in capi riccamente decorati con merletti e passamanerie. Il connesso con la struttura dell’abito e non una decorazione, completava la forma definitiva del modello e ne sottolineava le linee di forza. 50, Avenue Montaigne La proposta di moda di Vionnet venne accolta positivamente sul mercato francese e americano. Nel 1922 trovò il modo di espandersi, prese contatti con Théophile Bader e Alphonse Kahn, proprietari dell Galeries Lafayette e soci di Monoprix. Il 22 giungo dello stesso anno fu firmato un nuovo statuto della Madeleine Vionnet et Cie che prevedeva l’ingresso di Bader come socio. Il primo atto del gruppo fu l’acquisto di un hôtel particulier in Avenue Montaigne per dare alla Maison una sede più adatta. Nel realizzare la nuova sede si diede importanza, oltre all’aspetto estetico, alla sua funzionalità come luogo di lavoro. Vionnet fondò una cassa di soccorso per le malattie, introdusse i congedi di maternità e le ferie pagate. Nel 1927 istituì anche un corso di formazione della durata di tre anni destinato alle apprendiste cui veniva insegnato l’uso dello sbieco. Nonostante questo, nel 1936 nemmeno Vionnet passò indenne nell’ondata di scioperi che sconvolsero la Francia. La Maison Vionnet aveva già messo in pratica tutto quello per cui stavano lottando, ma una minoranza di operai sindacalizzate aderì per solidarietà alla vertenza generale. Fu uno sciopero di un giorno che non creò problemi, ma che ebbe un forte effetto simbolico, da quel momento la festa di Santa Caterina divenne un giorno di ferie pagate. Il copyright Vionnet condusse un’altra battaglia, riuscendo a imporre una novità fondamentale nell’haute couture parigina, il copyright. Uno dei problemi dell’alta moda era la diffusione delle imitazioni, intorno alle quali si era formata una vera industria della contraffazione organizzata secondo diverse specializzazioni. Vionnet cercò di difendersi pubblicando su “L’Illustration” annunci di diffida ma il problema era di ordine legale. La legge difendeva dai falsi la produzione artistica, ma fino ad allora le produzioni dei couturier non venivano assimilate a quelle degli artisti. Il 30 dicembre 1921 il Tribunal correctionnel de la Seine, alla fine di un processo che opponeva Dame Madeleine Vionnet à Demoiselle Miller et Veuve Bourdeau, emise una sentenza che assicurava ai modelli di abiti, costumi e mantelli la protezione della legge del 19/24 luglio 1793 allo stesso titolo di tutte le creazioni artistiche. Nel 1922 fu costituita l’Association pour la Défense des arts plastiques et appliqués che doveva occuparsi di studiare un quadro giuridico più adatto per proteggere le creazioni di moda dalla contraffazione. Nel 1929 fu costituita l’Association de protection des industries antiques saisonnières (PAIS) che fino al 1943 si occupò di organizzare le presentazioni dei suoi aderenti, facilitare il deposito dei brevetti, ma anche di redigere una “lista nera” di acquirenti scorretti. Dopo la sentenza la Maison fece pubblicare su “Vogue” e “L’Illustration” un comunicato in cui spiegava il modo per riconoscere gli originali e documentò tutti i capi della Maison attraverso fotografie accompagnate dal numero e la data di realizzazione. Le foto venivano raccolte in Album di Copyright che furono conservati e dopo il 1952 donati da Vionnet al futuro Musée de la Mode et du Textile di Parigi. Prêt à porter Il successo di Vionnet fu immediato e nel 1925 fu aperta una succursale a Biarritz, specializzata in abiti per le vacanze e per lo sport. Ma la vera sfida era il mercato americano, nel 1924 Vionnet presentò la sua collezione primaverile a New York da Hickson Inc, un elegante magazzino. Saul Singer aveva firmato un accordo con la Vionnet et Cie per la produzione in esclusiva dei modelli della Maison, ma soprattutto fu formata una nuova società, Madeleine Vionnet Inc, finalizzata alla vendita di abiti “one-size-fits-all” (taglia unica). L’ipotesi era nata dall’esigenza di assecondare la clientela statunitense, abituata ad acquistare capi confezionati e trovava un punto di forza negli abiti di Vionnet. La collezione della primavera 1924 fu chiamata “Made While You Wait”, nei mesi successiva aprì una Boutique Vionnet nella Fifth Avenue, ma l’esperimento non durò più di sei mesi. Nel 1926 fece un secondo tentativo nel settore del prêt à porter con lo store John Wanamaker’s realizzando quaranta abiti che venivano realizzati in tre taglie, griffati e con l’etichetta della Maison cui era aggiunta la dicitura “Repeated Original”. Anche in questo caso l’impresa non ebbe successo, dimostrando che l’alta moda non era pronta ad entrare nel mercato del redy-to-wear. Vionnet non utilizzò la griffe per commercializzare altri prodotti, il suo obiettivo fondamentale erano sempre gli abiti. Anche il profumo non diventò mai davvero un fatto pubblico, prodotto da Rallet in quattro tipi contrassegnati dalle prime lettere dell’alfabeto e con una confezione elegante, veniva venduto sono nella Maison parigina ed esclusivamente a chi lo richiedeva. Stile anni Venti Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono, la linea si fece più squadrata e gli elementi di decoro si ridussero, in favore di singoli elementi di ricamo e asimmetria. Vionnet non seguì la tendenza, ma la interpretò a modo suo ammorbidendo il parallelogramma con lo sbieco, montando le frange a lisca di pesce, giocando con i ricami e il crêpe romain broccato, con i disegni geometrici fatti con intarsi e nervature che modificavano le tensioni del tessuto, con le pieghe cui veniva data una profondità diversa dall’altro al basso in modo che non irrigidissero la figura. Indubbiamente le sue realizzazioni non riproducevano le forme anatomiche perché erano sempre più studiate in modo che l’architettura del vestito poggiasse sulla struttura portante del corpo per evidenziarne la naturale armonia. Madeleine Vionnet non era “di moda” nel senso che non faceva nulla per essere un personaggio “alla moda”, lavorava isolata come una sarta o come un’artista che segue il suo processo creativo e il proprio obiettivo estetico, cercando in sé stessa la ragione di tale ricerca e nell’abito finito la verifica della perfezione raggiunta. Forse in questo fare da artista stava la ragione della sua “posterità”, quando nel 1929 ci fu il crollo do Wall Street e cambiò lo stile di vita, Vionnet assunse ancora di più la funzione di punto di riferimento. Gli anni Trenta Negli anni Trenta le arti visive abbandonarono lo stile di rottura delle avanguardie storiche e si dedicarono a nuove ricerche, che furono spesso indicate con il termine “neoclassico”. Anche la moda adottò un linguaggio “classico”, il fisico modellato dallo sport durante gli anni Venti venne preso a simbolo di una bellezza statuaria, sinuosamente accarezzata da abiti bianchi che valorizzavano il naturale sex appeal. Il metodo di Vionnet diventò di moda, era il metodo più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in forme precostituite dal taglio. Tutti o quasi si cimentarono con lo sbieco, ma i suoi modelli continuavano ad avere un aspetto più sciolto, naturale e meno revival. I suoi vestiti conservavano l’aspetto non costruito dell’indumento antico, spesso erano realizzati con i pannelli sciolti da accomodare addosso secondo panneggi e torsioni calcolati, ma anche adatti alla struttura fisica. La stessa logica di un drappeggio morbido e solo apparentemente libero guidava il famoso scollo “ad acquasantiera” che formava una specie di cappuccio morbido sul davanti e che i collaboratori della couturière chiamavano “dégueulé- Vionnet”. La gonna ampia Nel 1934 ci fu una svolta nella produzione, quando “Vogue” pubblicò la moda della nuova stagione, rappresentò lo stile di Vionnet attraverso un vestito dalla gonna larga coperta da file di volant, ispirata all’Ottocento più romantico. Da quel momento il modello scivolato e quello con la gonna ampia procedettero in parallelo. Negli anni successivi gli abiti si fecero più lussuosi e sensibili al gusto hollywoodiano. La vita segnata, spesso alta, dava spazio a larghe gonne che potevano essere sostenute utilizzando diversi accorgimenti tessili. Tessuti nuovi come il crêpe Rosalba di Bianchi- Férier, o antichi come il crêpe romain o quello broccato aux tonneaux di Ducharne, diventarono quasi un simbolo della Maison. Insieme a Lesage, Vionnet inventò nuove tecniche di decorazione. Furono creati inediti effetti di contrasto applicando mille materiali diversi sui tessuti dei vestiti, velluto, su merletto o tulle, strass su merletto di crine, sete lisce e velluto, lamé su tulle o mussolina. Furono reinventati procedimenti di tintura usando bagni di differente intensità di colore per le diverse parti dell’abito o togliendo i fili del ricamo dopo la tintura così da ottenere un effetto “a riserva”. Nel campo dei modelli aderenti Vionnet sperimentò la pieghettatura in rilievo su un taglio circolare. Il risultato spesso assimilava la figura femminile a una colonna scanalata o alle antiche statue. La collezione della primavera del 1939 fu suntuosa come le precedenti, ma sarebbe stata l’ultima ad essere messa in commercio. Il 15 giugno la Madeleine et Cie era stata messa in liquidazione, era il termine di scadenza della società nata nel 1919. A settembre scoppio la Seconda guerra mondiale e nel giugno 1940 la Francia era occupata dai tedeschi. Ad aprile 1940 vennero messi all’asta gli arredi della Maison e poi tutto quello che l’atelier conteneva. Nel 1952 Vionnet donò all’Union française des arts du costume (UFAC) quello che le era rimasto del suo lavoro. Morì nel 1975 a novantanove anni. Elsa Schiaparelli (1890-1973) Una giovinezza inquieta Era nata a Roma in una famiglia di intellettuali piemontesi, il padre nel 1975 era stato nominato direttore della biblioteca dell’Accademia dei Lincei da Vittorio Emanuele II. Nel 1903 lasciò l’incarico per una cattedra di lingua e letteratura araba all’Università di Roma, così la famiglia si trasferì in un appartamento in piazza Santa Maria Maggiore. La madre proveniva da una famiglia dell’aristocrazia napoletana discendente dai Medici. Elsa avrebbe voluto fare l’attrice, ma la posizione sociale della famiglia non le consentiva di farlo. Scrisse delle poesie, un cugino le scoprì e convinse un amico editore a pubblicarle con il titolo di Arethusa. La famiglia non fu contenta e decise di mandarla in un convento in Svizzera, ma la soluzione fu temporanea. Un’amica della sorella cominciò ad occuparsi di bambini orfani e chiese informazioni a proposito di una ragazza che potesse aiutarla, Elsa decise di cogliere l’occasione e partì alla volta di Londra, passando per Parigi. Nella capitale inglese conobbe il conte William de Wendt de Kerlor con cui si sposò nel 1914. Allo scoppio della guerra si trasferirono a Nizza, ma nel 1919 ripartirono per gli Stati Uniti. Elsa ebbe una figlia, ma il matrimonio si rivelò un disastro e il marito se ne andò. Senza alcun sostegno e una figlia dalla salute cagionevole da allevare, si mise alla ricerca di un lavoro e conobbe Gabrielle Buffet che si occupava della bambina e la coinvolse in un tentativo di vendita diretta di biancheria portata da Parigi, ma fallì. Gabrielle però le permise di inserirsi nella vita di New York e frequentare un gruppo di artisti e dadaisti e fotografi d’avanguardia come Man Ray, Alfred Stieglitz, Edwar Steichen. All’inserimento di Elsa contribuì anche l’amicizia con Blanche Hays, la moglie di un famoso avvocato, ma in quel periodo sua figlia si ammalò di poliomielite. La situazione sembrava ormai volgere al peggio, quando Blanche Hays le propose di trasferirsi entrambe a Parigi. Partirono nel 1922 e Gaby Picabia le ospitò a casa sua. La bambina fu ricoverata in una clinica ed Elsa trovò lavoro da un antiquario. Gaby introdusse Elsa nel gruppo dadaista che si incontrava in un locale di Montmatre, e riprese a fare lavori saltuari, amicizie anticonformiste e dimore precarie. Un girono accompagnò un’amica da Poiret e lo incontrò mentre si provava degli abiti che non poteva permettersi, fu dopo il loro incontrò che lei iniziò a inventare abiti. Scelse di cominciare da un settore che negli anni Venti stava aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. “uccello” con berretti alati, ali in spalla, cappe alate su giacche da indossare di giorno e di sera, risvolti con ala. Nello stesso periodo sperimentò una grande quantità di materiali, naturali, artificiali, sintetici o rielaborati chimicamente. Tutto ciò era finalizzato alla ricerca di effetti particolari che otteneva spesso mischiando elementi diversi o usandoli in modo mimetico. Le collezioni a tema Nel 1935 la Maison fu trasferita al 21 di Place Vendôme. La sua produzione non si limitò alla sartoria, ma spaziò dai profumi agli accessori, dai bijoux agli indumenti sportivi e a quelli che non avevano bisogno di essere realizzati su misura. L’idea era offrire alle clienti sia la possibilità di vestire totalmente Schiaparelli, sia di scegliere anche solo un particolare. Per inaugurare il nuovo atelier fu creato un tessuto stampato a pagine di giornale che parlavano di Schiaparelli, con cui furono realizzati abiti, bluse, fodere e accessori. La vera novità riguardo le collezioni che dal 1935 ebbero una cadenza stagionale e cominciarono essere concepite ognuna intorno a un tema di ispirazione che faceva da filo conduttore tra gli abiti, gli accessori, la loro presentazione ispirata e la comunicazione sulla stampa. La collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’Oriente più esotico, con pantaloni da harem, sari, piume colorate, drappeggi, grandi cappe. Non mancarono quegli elementi di eccentricità e di ricerca sui materiali che erano diventati un segno di riconoscimento della sua moda. In mezzo agli abiti esotici c’erano oggetti d’avanguardia come le cape de verre, un corto mantello da sera realizzato in Rhodophane, un materiale trasparente molto fragile che somigliava al vetro. La collezione dell’autunno 1935 affrontò l’attualità, si chiamava “fermati, guarda, ascolta” e s’ispirava a fatti e personaggi reali. Così al Giubileo di Giorgio V d’Inghilterra erano dedicati abiti blu reale e viola imperiale, alla Sinistra francese cappe e mantelli rosso rivoluzionario e cappelli che inalberavano vistose creste di gallo. Il conflitto italo-etiopico era rappresentato da un modello da sera composto da un abito nero ispirato alla tunica dei guerrieri etiopi e un paio di pantaloni porpora, un omaggio all’imperatore Hailè Selassié. La novità della stagione furono le cerniere, che si vedevano perfino sugli abiti da sera. Realizzate in colori contrastanti rispetto al vestito così da accentuare la loro visibilità, esse furono un vero successo di vendite. In ottobre presentò la collezione “Eskimo” basata sull’uso d’insetti di pelliccia a scopo decorativo. Nel dicembre 1935 Schiaparelli andò a Mosca per rappresentare la couture francese alla Prima fiera internazionale sovietica, che Stalin aveva organizzato sia per aprire canali commerciali con l’estero, sia per cominciare a modificare il modello di vita dell’Urss. Il motivo del volo e dei nuovi mezzi di trasporto fu alla base di entrambe le prime sfilate del 1936, in febbraio si materializzò nella silhouette rappresentata da una cappa di lana viola porpora con un colletto di astrakan che mimava le ali di Icaro. Nella stagione successiva nacque la linea “Parachute”, con piccoli busti con gonne che si gonfiavano suddivise a spicchi come un paracadute. La collezione dell’inverno 1936-1937 si adeguò alla moda che tutte le case parigine stavano proponendo, gli abiti bianchi, in sbieco, scivolati sul corpo, ispirati all’abbigliamento delle statue greche. La linea “Neoclassique” fu probabilmente realizzata per accontentare la clientela, ma Schiaparelli interpretò a suo modo l’idea e realizzò sia abiti morbidi di raso sia modelli più vicino al suo stile, decorati da un motivo costituito da un nastro che si appoggiava sugli indumenti ripiegandosi su sé stesso durante il percorso. Nella stessa collezione presentò un cappello che aveva il significato di una presa di posizione a favore del Fronte popolare, una versione haute couture del berretto frigio, che era diventato il simbolo degli scioperi che avevano conquistato la Francia e le sartorie di alta moda. Anche lei aveva risolto molto presto la situazione contrattuale delle persone che lavoravano nel suo atelier garantendo salari più alti della media, tre settimane di ferie l’anno e una particolare forma di assistenza malattia ottenuta riservando perennemente alcuni letti all’ospedale Saint-Joseph, le sue operaie non si unirono allo sciopero del maggio 1936. Il rapporto con il surrealismo Dal 1936 cominciò un periodo particolare nella ricerca di Schiaparelli. L’unica cosa che non aveva mai fatto era stata seguire i metodi e i contenuti tradizionali dell’alta moda, non le interessava creare indumenti graziosi, eleganti e tali da rassicurare il desiderio di status della buona borghesia. Voleva che le donne fossero sé stesse, osassero essere femminili, fantasiose ed estrose, comunicassero agli altri la propria individualità e la propria forza sfrontata. La forma di lusso che offriva alle sue clienti era permettere loro di non seguire le regole del senso comune, di essere capaci di emanciparsi anche nell’aspetto. La sua moda non si era limitata intervenire sulla linea dei vestiti, quello che stava facendo agiva sulla cultura dell’apparire, sul significato dei segni vestimentario e corporei tradizionali che venivano stravolti e usati fuori dal contesto. C’era qualcosa nella sua maniera di fare moda che somigliava al sovvertimento delle regole dell’espressione della comunicazione messo in atto dagli artisti dadaisti e surrealisti che Schiaparelli aveva frequentato a New York e Parigi. A partire dall’autunno del 1936 le collezioni si articolarono su doppi filoni, da un lato si concentrò sull’elaborazione di alcuni temi decorativi specifici, attorno ai quali sviluppava l’intera collezione, dall’altra Cocteau e Dalì crearono singoli capi attraverso i quali doveva emergere il nuovo rapporto tra abito, corpo, pulsioni inconsce. Per l’autunno 1937 Cocteau lavorò sul doppio e l’ambiguità, una giacca di lino grigio fu ricamata con la silhouette di una donna virtuale a grandezza naturale che si appoggiava al petto di quella reale che indossava l’indumento, un mantello da sera di jersey di seta blu portava sulla schiena un tradizionale schema di ambiguità visiva, un vaso contenente fiori applicati a rilievo, appoggiato su una colonna, ma il suo disegno era ottenuto attraverso le sagome di due profili femminili affrontati. Dall’inverno 1936-1937 Dalì rielaborò il tema del richiamo sessuale nascosto dalla fascinazione vestimentaria. Innanzitutto tradusse in tessuto la dissacrazione della classica bellezza femminile rappresentata dalla Venere di Milo. I cassetti con cui aveva sondato i segreti erotici di quel corpo mitico dovevano far emergere quello che la più grande bellezza esteriore nasconde dietro una maschera di serenità e divina superiorità. Gli stessi cassetti diventarono altrettante tasche con pomello ben evidenziate su un cappotto e una giacca. Nell’estate del 1937 un’aragosta fu dipinta sulla gonna dell’abito di organza di seta candida, circondata da ciuffi di prezzemolo. Nella collezione invernale venne presentato un tailleur di crêpe nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso. Il cappello femminile progettato da Dalì e rielaborato da Schiaparelli inalbera un vistoso tacco rosa shocking. Mettendo insieme una serie di ambiguità diverse si arrivò a costruire una perfetta iconografia fallica che veniva peraltro completata dal simbolo sessuale femminile rappresentato dalle bocche decorate sui tailleur. La conclusione cui sembrava essere giunto Dalì era che, per la cultura occidentale, il corpo femminile è un artificiale insieme di simboli di significato erotico che possono essere smontati e isolati per trasformarsi in feticci. Scomparsa definitivamente ogni illusione di naturalità, la struttura anatomica della donna non era altro che un busto da sarta da vestire per comunicare con gli altri e da adattare all’idea di bellezza che di volta in volta la moda indicava. La “persona” intesa come immagine sociale dell’individuo, stava quindi solo nei vestiti. Sempre nel 1937 Schiaparelli comunicò esplicitamente questa scoperta in due modi: per l’Exposition des Arts ed des Techniques a Parigi, realizzò un allestimento in cui il manichino che le era stato assegnato fu adagiato nudo su un prato e i suoi abiti furono appesi a un filo, come per fare il bucato. In secondo luogo, il nuovo profumo, che si chiamò Shocking come il suo colore rosa, venne commercializzato in una boccetta che aveva le forme del busto di Mae West e il tappo coperto di fiori, ancora una volta ispirato a Dalì. Il marchio era scritto su un metro da sarta che passava intorno al collo del flacone. Il messaggio era esplicito, la moda è un manichino da decorare. Solo l’abito può dare un significato a questo essere inanimato e introdurlo nell’unico spazio di vita possibile, quello della comunicazione sociale. La moda, l’inconscio, l’immaginazione poetica Questa conclusione avrebbe potuto significare un ritorno al vecchio modello, ma a Schiaparelli non bastava. La donna era per lei un insieme complesso composto da una forma anatomica e uno stato sociale, ma anche da un mondo interiore. Se la prima, era semplicemente un dato materiale naturale sempre uguale a sé stesso, il nuovo ruolo che le donne avevano assunto negli anni Trenta doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionale e stabile, rimaneva il mondo interiore che andava ricercato secondo le regole della libera associazione studiate dalla psicanalisi e utilizzate dai surrealisti. A questo punto gli abiti realizzati da Dalì dovettero sembrare troppo finalizzati a comunicare un unico significato erotico-sessuale. Si trattava allora di ricorrere ad altri universi linguistici, di adottare altri modelli iconografici per esprimere altri significati e altre pulsioni della psiche femminile. Schiaparelli capì che quello che la stimolava era considerare il corpo della donna e la forma dell’indumento una specie di pagina bianca su cui scrivere il flusso delle fantasticherie che sorgevano spontaneamente nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema. Quello che lei vedeva erano immagini isolate e precise, il problema sorgeva nel momento in cui queste immagini dovevano essere accostate alla realtà degli abiti e qui le venne in aiuto il metodo di creazione inventato da Marcel Duchamp, il ready-made. Prendere un oggetto qualsiasi dalla realtà che gli è propria per immetterlo in un’altra, scelta dell’artista, crea uno spostamento totale di significato nella direzione indicata dall’autore che ha compiuto tale spostamento. Schiaparelli scelse lo stesso sistema, le figure si aggregarono sui suoi modelli senza alcun senso preciso che non fosse quello della sua fantasia poetica e quindi furono opere della immaginazione, e le sfilate cominciarono ad essere messe in scena in modo sempre più teatrale. La prima collazione che seguì fino in fondo questo criterio fu quella della primavera del 1938 dedicata al circo. L’intera Maison fu coinvolta nell’avvenimento, sulla facciata vennero appoggiate scale che servivano a gruppi di acrobati per fare i loro numeri entrando uscendo da finestre vetrine, all’interno attori e pagliacci sbucavano all’improvviso. La sfilata Venne organizzata come una parata e molti capi vennero indossati su calzamaglie, mentre le scarpe di André Perugia, con la suola alta costringevano le modelle a incedere come sui trampoli. I vestiti presentati erano sempre i soliti, la novità stava nella decorazione. Lesage eseguì ricami straordinari ed enormi che rappresentavano il circo, cavalli, elefanti, trapezisti, i tessuti concepiti appositamente portavano stampe con analoghi motivi. I bottoni erano accoppiati alla decorazione dell’indumento ed erano piccoli gioielli a forma di ginnasti sospesi sulla giacca, cavalli, zucchero filato e tutto ciò che poteva ricordare il circo, poi c’erano collier a trapezio con gli acrobati e spille a forma di struzzo di Jean Schulemberg. Anche i cappelli si adeguarono alla linea generale e furono piccoli feltri conici ispirati ai pagliacci, cappellini con la piuma come quelli delle scimmiette, coni del gelato rovesciati, finte galline da accompagnate da bottoni a forma di uova. Nell’aprile del 1938 “Vogue” dedicò alla sfilata una doppia pagina, concepita con un invito a uno spettacolo di cui venivano riassunti i diversi numeri, “Harper’s Bazar” pubblicò un grande disegno di Vertes che raffigurava Elsa Schiaparelli nelle vesti di una maga. Aveva trasformato un immaginario ludico infantile in abiti che non avevano nulla del costume per una festa in maschera. Anche in questa collezione Schiaparelli aveva riservato uno spazio Dalì, che disegnò due modelli da sera, il primo bianco con il velo, che mostrava vistosi strappi, stampati e applicati, da cui traspariva un fondo rosso come fosse carne viva, il secondo era un abito nero percorso dal disegno dello scheletro umano ricamato rilievo. Nell’aprile del 1938 Schiaparelli presentò la collezione per l’estate intitolata “Païenne” in cui esplorò il mito della natura. Fece partire il suo flusso creativo della Primavera di Botticelli, in cui gli dei celesti assistono alla rinascita della natura. La natura del prato e del boschetto fece da traccia alla sua immaginazione che ricercò fra i fili d’erba, le foglie, i piccoli animali, insetti, fiori di campo, ecc. che si trasformarono in bottoni, si posarono sugli abiti, entrarono nel materiale trasparente di una collana. Ad agosto presentò la collezione sorella. Christian venne interpellato da Alice Chavanne, che si trovava a Cannes, con la proposta di continuare ad illustrare “Le Figaro”. La vita elegante della Francia libera si era concentrata in Provenza. Dal momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti, gli Stati Uniti e tutti i paesi alleati cessarono i rapporti con Parigi la sua moda, d’altro canto il governo di occupazione vietò le esportazioni. Era la fine di uno dei canali commerciali più importanti per l’haute couture, con un drastico ridimensionamento della clientela. A questo si aggiunse il problema dei materiali necessari alla confezione di abiti e accessori. Con la firma dell’armistizio nel 1940, la Francia diventava fornitore ufficiale della Germania, che comincia a requisire ogni tipo di materie prime, derrate alimentari e combustibili, ma anche lana, cotone, iuta, cuoio, per poi passare alla limitazione nell’uso dei tessili. D’altra parte quella della moda era una delle più importanti industrie francesi, ed era anche un fattore di prestigio, fu questo ad attirare l’attenzione del governo di occupazione nazista. Gli archivi della Chambre syndacale de la couture parisienne, che contenevano tutte le informazioni produttive e commerciali, furono requisiti e portati in Germani, con l’intenzione di traferire nelle capitali del Reich tutta questa attività. Fu grazie a Lucien Lelong, presidente della Chambre, che la Francia riottenne i propri archivi e la possibilità di continuare a produrre moda a Parigi. Lelong ottenne che un certo numero di case di moda potesse disporre di una quantità di materiali superiore di quella consentita per il consumo normale dei francesi. I modelli per ogni collezione furono limitati, la loro confezione sottoposta a controlli, e la loro concezione regolamentata in modo preciso. Anche la stampa di moda passò momenti difficili, “Vogue” francese cessò le pubblicazioni, gli altri ebbero la carta contingentata e furono sottoposti a controlli di censura, alcuni passarono direttamente in mani tedesche, altri uscirono in modo irregolare. I cambiamenti imposti dall’occupazione dalla guerra interessarono anche la clientela delle case di moda. Scomparse quasi tutta quella straniera, era rimasta quella francese. Il vero pubblico era rappresentato dalle nuove categorie, la prima era composta dalle mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti di ogni tipo, la seconda era costituita dai cosiddetti BOF, cioè quelli che con il mercato nero stavano costruendo fortune. Grazie a loro e i prezzi molto elevati, gli affari delle maison prosperavano e i bilanci furono in crescita per tutto il periodo di guerra. Fu in questo contesto che nel 1941, Robert Piguet, invitò Dior a riprendersi il proprio lavoro. L’idea di tornare nella capitale non lo convinceva molto, ma quando decise di accettare il suo posto era già stato occupato. Dior riuscì ad ottenere un ruolo di modellista per Lucien Lelong. La nascita di un nuovo mercato per le creazioni di moda esclusive non cancellava però i problemi, da un lato c’era la necessità di confrontarsi con il gusto eccessivo e poco raffinato delle nuove clienti, dall’altro la costante lotta con la mancanza di materiali. La capacità inventiva dei modellisti e creatori risentì della mancanza di materiali e il risultato fu che le linee proposte dagli atelier non si differenziavano molto dalla moda di strada, gonne corte e spalle larghe, seppur con qualche accorgimento sartoriale in più. Furono sperimentati tessuti di ogni tipo, ma soprattutto si ridussero i consumi usando il minor quantitativo di stoffa possibile. Rimaneva uno spazio di sperimentazione nel cinema, in particolare nella creazione dei vestiti di scena per i film in costume. Dior si specializzò nei modelli romantici e Belle Époque, nei quali ebbe la possibilità di ricercare una silhouette femminile opposta a quella che gli imponeva il lavoro quotidiano. Il busto che stringeva la vita, le gonne ampie gonfiate con la crinolina, gli strati di tessuto per dare sostegno alle ampiezze, i drappeggi erano cose che lo riportavano ad un tempo lontano. Solo nel 1944 quando l’esercito francese entrò a Parigi, si poté cominciare a pensare a un ritorno alla normalità. La guerra non era finita e continuavano a mancare cibo, combustibile e tutto ciò che serviva la vita normale, i trasporti e le vie di collegamento era in interrotti, la produzione era destinata alle necessità della guerra. Il “Théatre de la Mode” Nell’autunno 1944 Raoul Dautry, presidente dell’Entraide française, cui era affidata la gestione della distribuzione e del coordinamento dei soccorsi delle vittime di guerra, propose a Robert Ricci, responsabile della commissione che si occupava delle relazioni pubbliche della Chambre syndacale de la couture parisienne, di organizzare una manifestazione a sostegno del programma di aiuti. La Chambre accolse la proposta e ne affidò la realizzazione allo stesso Ricci e a Paul Caldaguès, che progettarono una mostra di bambole vestite dai sarti parigini. Mandare in giro per il mondo le bambole-manichino per far conoscere le ultime tendenze era un’idea antica, ma questo serviva per trovare una soluzione al problema della carenza di tessuti e creare modelli nuovi senza impiegare tutto il materiale necessario per vestire una persona in carne ed ossa. Ricci incaricò Eliane Bonabel venivano applicati visi di bronzo realizzati da Joan Rebull. Non solo tutte le maison, ma anche tutti gli artisti che erano a Parigi parteciparono, realizzando manichini, accessori e abiti per vestirli e scenari in cui inserirli. Era il Théatre de la Mode, che fu esposto al Pavillon Marsan e inaugurato il 27 marzo 1945. Il successo fu enorme e si era ottenuto il risultato di riunire l’industria della moda intorno a un progetto volto al futuro e alla ripresa. La mostra venne portata a Londra, poi a Leeds, Copenaghen, Stoccolma, Vienna e nel 1946 negli Stati Uniti. Anche Dior aveva partecipato all’impresa, molto probabilmente i modelli presentati da Lucien Lelong erano suoi ed erano decisamente più fantasiosi di quanto non fosse la produzione che fino a quel momento aveva realizzato per le clienti. Ma il Théatre de la Mode rimase solo una grande operazione di promozione e non fu attraverso le sue bambole che si diffusero le novità. D’altra parte la situazione dell’Europa era tragica e non era ancora possibile che le donne fossero in grado di trovare il tessuto e i complementi necessari per il farsi guardaroba, però fu importante come segno che i tempi stavano cambiando. Dior e Boussac Dior e Balmain si misero in società per fondare un atelier, ma l’iniziativa si concluse subito perché la sede che avevano scelto non era disponibile. Balmain iniziò da solo aprendo una Maison in Rue François I nel 1945 fece sfilare la sua prima collezione. Dior rimase da Lelong in attesa di un’occasione migliore. La sua amica Suzanne Lemoine Luling seppe che Georges Vigoroux stava cercando di rilanciare la Maison Gaston et Philippe, l’impresa era finanziata da Marcel Boussac, un’importante industriale cotoniero di Francia, ma non aveva un modellista. Subito gli fu suggerito il nome di Dior. Il progetto di Boussac era di creare una maison innovativa nel guato e nell’aspetto, piccola ed elitaria, capace di produrre uno stile diverso, ma in cui lavorare secondo le più raffinate tradizioni dell’artigianato di qualità. Boussac impegnò sei milioni di franchi e un credito illimitato, Dior ebbe uno stipendio, un terzo dei guadagni e l’incarico di direttore della SARL Christian Dior. L’impostazione dell’impresa era nelle mani del couturier, che costruì una squadra con cui lavorare e cercò la sede adatta per la Maison. La prima collaboratrice fu Suzanne Luling, cui fu affidata la direzione dei saloni e delle vendite, ma si occupò anche della promozione. Harrison Elliott venne scelto come responsabile dell’ufficio stampa. Lo staff operativo venne formato da Raymonde Zehnacker, che aveva lavorato con Dior da Lelong e ricoprì il ruolo di direttrice dello studio e da Marguerite Carrè che divenne direttrice tecnica e portò con sé le sue lavoranti. Fu poi istituita la figura del consigliere artistico, ruolo ricoperto da Mitzah Bricard. Jacques Rouët fu il direttore amministrativo, era un uomo di fiducia di Boussac, incaricato di seguire tutte le questioni di carattere finanziario. Per quanto riguarda la sede, si cominciò a cercare una collocazione che fosse all’interno del perimetro del commercio del lusso, ma anche vicino ad un albergo. L’attenzione si puntò sul un hôtel particulier in Avenue Montaigne. La Maison Dior La ristrutturazione fu affidata a Victor Grandpierre, che progettò gli interni in stile Luigi XIV-1900. I lavori iniziarono il 16 dicembre 1946, mentre si preparava la collezione che doveva sfilare a febbraio. Mentre si lavorava alla collezione, procedeva l’attività di promozione in cui vennero coinvolte amiche e conoscenti di Dior, anche le giornaliste delle grandi testate come “Vogue” e “Harper’s Bazar” contribuirono a creare un clima di attesa. La straordinarietà dell’impresa che stava per decollare e la possibilità di legarsi ai suoi destini, aveva colpito la fantasia degli imprenditori, molti dei quali offrirono a Dior il proprio contributo. Il primo fu Serge Hefflet-Louiche, propose di costruire insieme una società per i profumi con il nome della nuova griffe. L’idea fu proposta a Boussac che diede il proprio assenso. Dior decise di chiamare il nuovo profumo Miss Dior, Grandpierre suggerì di usare il pied-de-poule di un tessuto per la confezione, Gruau fu incaricato di disegnare il primo manifesto, Vacher realizzò l’essenza che fu presentata al pubblico insieme alla prima collezione. L’anno dopo venne formalizzata la SARL dei Parfums Christian Dior. Un industriale americano propose a Dior di utilizzare nelle collezioni le sue calze Prestige in cambio di cinquemila dollari e di pubblicità nei magazzini di moda statunitensi. Si presentò anche un produttore di seta cinese che vendeva shantung, fu con questo materiale che venne realizzata la giacca del modello “Bar”, che divenne il simbolo della collezione. La restaurazione del lusso: il New Look Il 12 febbraio 1947 era l’ultimo giorno delle sfilate, davanti all’ingresso della Maison, il “bel mondo” coinvolto nell’evento delle signore che avrebbero fatto le “pubbliche relazioni” c’era tutto e anche le giornaliste che contavano. Mancavano molti compratori americani che non avevano aspettato l’ultimo giorno delle sfilate tornare negli Stati Uniti. La prima uscita fu il modello “Acacia”, con il busto aderente, la vita stretta, i fianchi segnati e la gonna lunga fino a metà polpaccio, seguito da una serie di capi con la stessa linea chiamata a “8”. Poi comparvero i modelli con le gonne lunghissime, la silhouette “Corolle” era la vera novità della collezione. La moda di Dior aveva delle caratteristiche revival e s’ispirava a un modello vestimentario preciso, il secondo Ottocento, reso più aggraziato attraverso un richiamo di gusto al Settecento. Dalla rielaborazione di questi due temi veniva l’idea di modellare il corpo della donna secondo una silhouette che ne enfatizzava le curve ricorrendo l’aiuto di un accessorio da tempo dimenticato, il corsetto. Al busto piccolo è arrotondato faceva riscontro una gonna ampia, lunga fino al polpaccio, spesso a pieghe sagomate, che si appoggiava su una sottogonna rigida per costruire una silhouette femminile oscillante tra la dama del Settecento e il figurino Secondo Impero. Dior offriva una nuova immagine femminile, recuperando il senso più tradizionale del termine, ma anche un’immagine di lusso, costruita attraverso la quantità dei materiali utilizzati, e di scomodità, di difficoltà di movimento, di abito fatto per apparire più che per agire. La linea “Corelle” costituiva anche una ripresa delle tendenze di moda che avevano preceduto l’inizio della guerra, nelle collezioni della fine degli anni Trenta erano comparse gonne ampie, cariche di ricami e volants. L’intento di Dior era certamente stato cancellare la guerra, ripartire da capo proponendo l’esatto contrario di quello che si era dovuto indossare per necessità. Tanta levità nascondeva però una progettazione rigorosa e una confezione che aveva richiesto tutta la capacità professionale dell’équipe. Le spettatrici della sfilata furono rapite dalla novità, Carmel Snow fu la madrina della nuova linea, fu lei a definirla New Look, nome che sarebbe stato immediatamente adottato da tutti. Dato che i giornali francesi erano in sciopero, furono quelli stranieri e soprattutto americani, a diffondere la notizia e a costruire i presupposti per il vero trionfo. I buyer americani ritornarono subito a Parigi per acquistare i modelli Dior per i magazzini statunitensi. Anche le dive di Hollywood fornirono un aiuto eccezionale per enfatizzare l’evento. Il tailleur “Bar” con la piccola giacca di shantung crema Il mercato della moda L’America rappresentava per la moda un mercato più ampio di quello europeo e anche molto più ricco. Quello che Dior affrontò era un mercato differente da quello degli anni precedenti. Quando nel 1940 gli Stati Uniti avevano interrotto i legami commerciali con la moda francese, si erano dedicati a riorganizzare il sistema produttivo interno e alla creazione di una moda americana ben organizzata nei suoi vari livelli, progettato da designer di alta qualità. Eppure nel 1945 hanno cominciato a riallacciare i rapporti, forse per il fascino dello stile francese o per dare un contributo alla ricostruzione europea. Apparentemente il pubblico statunitense era meno esigente di quello che le case parigine erano abituate a servire, l’abitudine ad indossare il redy-to-wear aveva sollecitato il desiderio di cambiare piuttosto di avere un vestito perfetto o un prodotto di lusso esclusivo. Le toilette di alta moda comunque avevano sempre avuto solo una destinazione di élite, questo ristretto gruppo continuava ad esistere, ma accanto ad esso c’era chi cercava una moda più abbordabile. Il boom economico di cui godette l’America dalla fine degli anni Quaranta avvicinò all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiore, che presentavano precise esigenze. Rimaneva la ridotta élite dell’haute couture, la grande massa che cercava prodotti a basso prezzo, tra i due si configurava uno stato sociale con esigenze nuove, che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma voleva qualcosa di raffinato, ben fatto ed esclusivo. Tutto questo dava la possibilità alla Maison Dior di sperimentare qualcosa di nuovo, che avesse il marchio del couturier, ma senza avere i costi e i rituali dell’alta moda. La risposta non poteva essere che il prêt à porter di lusso. Alla fine del 1947 tutto il gruppo cominciò a lavorare intorno all’ipotesi di aprire a New York una casa di confezioni di grande classe e Boussac finanziò l’iniziativa. Hélène Engel fu assunta come direttrice e fu affiancata da due persone incaricate di trovare i sistemi più adatti di realizzare l’idea. La sede fu collocata a 730 di Fifth Avenue e fu decorato da Nicolas de Gunzburg con lo stile Dior. La prima collezione interamente realizzata negli Stati Uniti dallo staff Dior in trasferta l’8 novembre 1948. Nel frattempo era iniziato anche un serio lavoro sulle licenze, partito dalla riconsiderazione del contratto per le calze stilato con la Prestige. La ridiscussione del contratto portò a una rottura e alla prima licenza, dal 1949 Kayser cominciò a produrre per il mercato statunitense le calze di Christian Dior sotto lo stretto controllo della Maison francese. La seconda licenza del 1950 riguardò le cravatte, la cui fabbricazione era gestita dalla società Stern, Merritt & Co. Nel 1952 si giunse alla conclusione che era preferibile concentrare a Parigi la creazione di tutte le collezioni, in modo da evitare i trasferimenti stagionali dello studio Dior a New York, la stessa logica venne seguita per la sede di Londra inaugurata quell’anno. Per arginare il mercato delle copie e favorire i venditori accreditati, si decise di rendere usuale una pratica che al momento si seguiva solo in alcuni casi, vendere i modelli degli abiti della collezione. Jacques Rouët mise a disposizione dei buyer due possibilità, il modello su tela corredato di tutte le referenze necessarie alla realizzazione e quello in carta, che lasciava la scelta dei materiali e accessori al fabbricatore. Solo nel primo caso era possibile utilizzare la doppia etichetta con la griffe. L’immagine dell’haute couture Per sostenere tutto ciò era necessario che l’haute couture continuasse il suo spettacolo e attirasse sempre più l’attenzione. Gli elementi dello spettacolo su cui si concentrò l’attenzione della stampa erano la lunghezza delle gonne e la linea. Dior scelse di sviluppare in ogni collezione solo due temi, cui venivano attribuiti nomi e che riassumevano le caratteristiche fondamentali della silhouette. Le denominazioni scelte avevano lo scopo di suggerire immagini grafiche o dinamiche cui collegare le strutture sartoriali degli abiti. Anche i singoli modelli erano sempre accompagnati da un nome, ma in questo caso l’evocazione faceva riferimento o all’ispirazione del couturier o all’immagine del pubblico. Ai molti nomi di fiori si aggiunsero quelli di donna, di paesi esotici, di musicisti, piuttosto che formule che alludevano a situazioni da favola. La rappresentazione teatrale della sfilata era preparata con metodo e seguendo un rituale sempre che vedeva Dior al centro dell’intero progetto. Il lavoro creativo si svolgeva nella casa di campagna, dove veniva accompagnato solo dai collaboratori più stretti. La prima fase, cui l’intero gruppo partecipava, consisteva nel buttare giù idee di ogni tipo e doveva servire al couturier a identificare il tema che lo interessava. A questo punto lasciava che le idee si sviluppassero intorno al primo spunto. Terminata la fase progettuale iniziava la selezione dei disegni insieme al suo staff, solo i modelli scelti venivano affidati a Marguerite Carré per esseri sviluppati in tela e passare alla fase della realizzazione negli atelier della Maison. Il nome veniva dato al modello al memento della prova generale, quando si decideva quali abiti sarebbero entrati nella collezione. La composizione della sfilata dipendeva da diverse variabili, ma soprattutto teneva conto dello spettacolo finale e della sua regia. Ogni collezione comprendeva dai centosettanta ai duecento modelli ed era essenziale che essi colpissero il pubblico nel loro insieme, offrendo un’immagine di armonia complessiva. L’evento veniva organizzato nei più piccoli particolari e provato su un pubblico ristretto fino alla sera prima della sua presentazione ufficiale. La sua riuscita era essenziale, perché questo spettacolo si giocava ogni volta il nome della griffe. La sfilata, con il suo rituale e il suo pubblico selezionato composto da compratori, giornalisti e dai rappresentanti di quel “bel mondo” che faceva notizia era essenziale. La sapiente composizione del suo pubblico garantiva che il giorno dopo i quotidiani cominciassero a raccontare, discutere, enfatizzare l’evento della nascita di una nuova linea e che dal mese successivo le riviste di moda ne pubblicassero fotografie e disegni accompagnati da professionali commenti. Lo stile Dior Il New Look durò sette anni. Ebbe il suo apogeo nella “Ligne Muguet” per la primavera del 1954 e venne cancellato dalla linea “H” della stagione successiva. L’industria della confezione stava prendendo piede anche in Francia e si rivolgeva a signore che volevano vestirsi senza sottostare ai rituali sociali previsti dalla couture. Era poi accaduto un fatto imprevisto, Chanel era tornata dall’esilio e aveva presentato una collezione rivolta a una donna moderna e occupata in cose più interessanti che seguire i minimi cambiamenti delle mode. Il New Look era finito e anche il modello femminile stava cambiando, il fenomeno mondano del momento in Francia era Françoise Segan e negli Stati Uniti stavano lanciando una nuova diva, Audrey Hepburn. La press relaese della collezione autunnale 1954 affermava che la linea “H” era diversa, basata sulle lunghezze e l’allungamento del busto. Nelle collezioni successive il modello dritto venne riproposto in variazioni che continuavano la serie delle lettere dell’alfabeto, “A” e “Y”. Dior non abdicò mai dal suo gusto per assumere quello di altri e continuò a vestire una figura femminile che ostentava le curve del suo corpo, che amava le gonne larghe e i ricami fioriti. L’innovazione era stata creata senza cancellare del tutto quello che ormai era diventata l’immagine di Dior. La maison Dior aprì un dipartimento di prêt à porter e inaugurò in Rue François la cosiddetta grane boutique. Nel 1957 la fama di Christian Dior era al culmine, la sua azienda era un impero valutato sette miliardi di franchi. Persino “Time” gli dedicò una copertina, ed era la seconda volta che questo accadeva a un couturier francese, la prima fu Elsa Schiaparelli nel 1934. Ma il 27 ottobre Dior morì improvvisamente mentre era in vacanza. Il 15 novembre Rouët convocò una conferenza stampa per comunicare la decisione sul futuro dell’impresa, Boussac decise che la Maison Dior avrebbe continuato perché aveva uno stile, una tecnica, un gusto e un’organizzazione. La creazione rimase nelle mani dell’equipe formata da Dior. Da questo momento l’immagine Dior sarebbe stata legata al nome di Yves Saint Laurent, che era entrato nella Maison come assistente dal 1955. La responsabilità che trovò ad affrontare era enorme, presentò la sua prima collezione il 30 gennaio 1958, era concepita su due linee, la prima era costruita sulla figura geometrica del trapezio e sulla purezza della costruzione. La seconda riprendeva lo stile di Dior, gonfiando le gonne a cupola o palloncino. Il successo fu travolgente e la Maison poteva continuare la sua strada. Il giovanissimo couturier avrebbe disegnato collezioni fino al 1960, quando partì per il servizio militare. Il suo ruolo fu affidato a Marc Bohan, che dal 1957 si occupava della casa Dior di Londra. La moda italiana La moda italiana è nata nel secondo dopoguerra. L’Italia era diventata un paese marginale nella creazione di beni di lusso. Le novità venivano da Parigi e la produzione locale si concentrò in sartorie che eseguivano abiti su modello o ispirati ad altre creazioni. Gli Stati Uniti e la moda italiana Il processo di rinnovamento che il settore tessile moda affrontò nel periodo della ricostruzione fu favorito dal rapporto che il paese incrociò con gli Stati Uniti. Alla fine della guerra gli alleati cominciarono a fornire generi alimentari e materie prime, ma fu con il piano Marshall dal 1947 che gli aiuti assunsero una configurazione più programmata e finalizzata. Attraverso un complesso sistema di crediti, l’America mise a disposizione finanziamenti e macchinari, assunse il ruolo di modello per modernizzare un sistema produttivo antico. L’obiettivo era trasformare le modalità di consumo che l’Italia seguiva da secoli e contemporaneamente fabbricare beni adatti al mercato statunitense. Il 1947 fu l’anno chiave, in agosto la rivista “Fortune” dedicò un articolo all’Italia, a gennaio “Vogue” era uscita con un articolo di Marya Mannes dal titolo Italian Fashion, nello stesso periodo Clifford Coffin fu incaricato di un servizio su Capri. Ad Agosto “Vogue British” dedicò due pagine all’ “Italian school of fashion-faschion made with the famous fine Italia hand” con modelli di Gabriellasport. A coronare tutto questo interesse, quell’anno il Neiman Marcus Fashion Award fu assegnato a Salvatore Ferragamo per le calzature. I primi viaggi di buyer e osservatori americani in Italia alla ricerca di oggetti da acquistare risalgono all’immediato dopoguerra, con un’intensificazione nel 1949. L’Italia stava diventando interessante sia per i suoi paesaggi, sia per il suo fermento culturale. Ancora una volta “Vogue” assume ruolo di promotore, pubblicando un articolo sul nuovo design milanese e imbarcando su un idrovolante la fotografa Lee Miller con un assistente, tre modelle e un fashion director con il compito di realizzare un servizio di moda redy- to-wear in Sicilia. La sartoria di alta moda Dopo la fine del conflitto le sartorie delle grandi città avevano riaperto i battenti per accontentare le richieste di una vita sociale che stava riprendendo i suoi appuntamenti. I nomi famosi del periodo prebellico erano stati sostituiti da imprese giovani come Biki, le Sorelle Fontane, Antonelli, Vanna, Gabriellasport, Carosa, Simonetta, Gattinoni, Marucelli, Curiel e Capucci. L’invenzione del nuovo necessitava di punti di riferimento anche nel campo della moda, così si riprese ad andare a Parigi per guardare e anche per comprare modelli, ma contemporaneamente si dà spazio all’invenzione e alla creazione di collezioni. In questa prima fase la capacità progettuale di molte delle sartorie era estremamente limitata. Il ricorso a fonti creative eterogenee rendeva forse queste prime collezioni scarsamente caratterizzate, ma stimolava la nascita di una cultura di ricerca dell’originale sia nella clientela sia nei professionisti, che in questo modo si affrancarono dall’idea di essere prevalentemente dei fedeli copisti e cominciarono identificarsi nel ruolo di creatori di alta moda. Nel corso del decennio il problema fu superato attraverso contratti di esclusiva che legarono alcuni designer a una singola a casa di moda, così da favorire la definizione di un’identità di stile precisa. Per buona parte degli anni Cinquanta l’alta moda italiana fu fortemente ispirata alla cultura sartoriale francese e alla sua capacità di inventiva, ma non era un problema, era questo che chiedevano gli Stati Uniti. Il compito che il mercato americano aveva assegnato alla produzione italiana era stato quello di fornire alta moda a prezzi ridotti e sportwear di gusto europeo. Nel primo Bazar”. Anche la stampa nazionale presto grande attenzione al fenomeno e dovette rinnovarsi per poterlo affrontare in modo professionale. Ormai la moda era un sistema produttivo sempre più complesso che richiedeva una comunicazione adeguata. Il panorama italiano offriva da tempo diverse riviste specializzate di grande qualità come “La donna” e “Bellezza”, i “tessili nuovi” finanziata dalla SNIA Viscosa fu trasformata in “Linea”, continuando a dedicare uno spazio speciale alla produzione tessile. Nacquero anche testate nuove come “Novità”, che sotto la direzione di Bebe Kuster Rosselli, si pose l’obiettivo di raggiungere un pubblico borghese colto, che poteva essere interessato la moda come componente di un panorama culturale più ampio fatto di design, arti figurative, teatro e letteratura di avanguardia. Anche le riviste femminili riservarono alla moda uno spazio sempre più importante, ma anche i settimanali cominciarono ad occuparsene. Una vera comunicazione di moda, come quella delle riviste internazionali, aveva bisogno di professionisti che in Italia mancavano. I disegnatori non erano più sufficienti, i servizi di moda, ma anche la pubblicità delle singole case, richiedevano ormai un uso della fotografia più intensivo e specializzato. Alla domanda rispose una nuova generazione di fotografi che si dedicò a questa specialità come Pasquale De Antonis, Gianni Della Valle, Federico Garolla, Elsa Haertter, tutti si accostarono alla moda elaborando un linguaggio più possibile personale. Allo stesso modo si affermò la prima generazione di modelle professioniste, che gradualmente sostituirono le nobildonne cui la moda italiana era inizialmente ricorso per presentare i propri modelli. La promozione della moda italiana all’estero coinvolse una serie di enti statali o di categoria che organizzarono innumerevoli fiere e presentazioni. Nel maggio 1952 ci fu la New York Fair of Italian Manufactures, in cui erano esposti esempi di ogni ramo della produzione italiana e un intero piano fu riservato alla moda. Nel febbraio 1956 il centro per la moda italiana e il turismo di Firenze organizzò una crociera a New York, cui parteciparono case di moda milanesi e romane. Gli abiti furono presentati, a un party sulla nave altri eventi di gala e in televisione. Nel 1958 il Centro italiano della moda di Milano fu incaricato di coordinare una manifestazione promossa dal Ministero del Commercio con l’Estero, che prevedeva una serie di presentazioni a New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles, Dallas, Washington, Boston. La forma di comunicazione più spettacolare di cui godette la moda italiana fu comunque offerta dal grande schermo. Cinecittà, fondata da regime fascista nel 1937, fu rimesso in funzione nell’immediato dopo guerra e diventò un polo di estrema importanza per il cinema degli anni Cinquanta. Nel giro di poco tempo Roma divenne una delle capitali dell’industria cinematografica mondiale, con la conseguente concentrazione di attività e di attori famosi o aspiranti tali. Le Sorelle Fontana furono probabilmente tra le più abili nel servirsi di questo potenziale. Dall’abito di nozze di Linda Christian, fino ai modelli di scena e non per Ava Gardner. Emilio Federico Schuberth vestì le nuove dive italiane come Sophia Loren e Gina Lollobrigida, dal suo atelier uscirono anche lussuosi abiti commissionati dalle più famose soubrette dell’epoca per le scene del teatro di rivista. Fernanda Gattinoni si occupò di costumi cinematografici, sia storici come quelli per Audrey Hepburn in Guerra e pace, sia contemporanei come quelli per Ingrid Bergman in Viaggi in Italia. Tutte le sartorie romane vestivano fra la loro clientela, più o meno saltuaria, nomi celebri dello star system. Il sodalizio con il cinema consentì alla moda italiana di uscire dalle pagine delle riviste specializzate o da quelle che le altre testate dedicavano a questo specifico argomento raggiungendo un pubblico molto basso una popolarità di cui in passato non avevano mai goduto. Prêt à porter La fine della guerra aprì un nuovo capitolo nel modo di vestire dell’intera Europa occidentale. L’influenza americana sulla cultura, sul suo stile di vita e suo modo di produrre ebbe in quegli anni un peso incommensurabile. Anche la moda risentì di questo clima, importando un sistema di produzione che era stato inventato in Europa più di un secolo prima, ma che aveva avuto il suo sviluppo negli Stati Uniti, la confezione industriale o redy-to-wear. Le origini del prêt à porter La parziale riapertura delle frontiere commerciali degli Stati Uniti forni l’occasione per organizzare una serie di scambi culturali che portarono gli imprenditori europei a visitare le aziende americane, fu modo diretto e rapido per capire come e in quale direzione si doveva muovere l’industria europea. Il settore moda scopri il redy-to-wear, non era la confezione che si conosceva Europa, limitata le fasce più alte e più basse del mercato, ma un vero e proprio sistema moda progettato da designer che nulla avevano da invidiare ai couturier parigini e articolato in una gamma di offerte estremamente ricche di alta qualità. La strada più rigorosamente industriale fu adottata dalla Francia, che aveva un’antica tradizione nella confezione popolare e di lusso e una buona rete di distribuzione. Dopo un viaggio negli Stati Uniti organizzato nel 1948 dalla Chambre syndacale de la confection e guidato da Albert Lempeur, Robert Will decise di perseguire questa strada e di intervenire sulla percezione che il pubblico francese aveva dell’abbigliamento confezionato innanzitutto cambiandogli il nome. Prêt à porter divenne il modo per definire una produzione industriale di qualità, che si adeguava agli stili produttivi dell’haute couture e che poteva sostituire il “fatto su misura”. La relazione diretta tra produzione e pubblico era assolutamente fondamentale, poiché bisognava guidare le donne verso un altro gusto su cui erano abituati a sognare è più vicino al loro standard di vita quotidiano. Nel 1955 i francesi organizzarono una seconda missione di studi negli Stati Uniti e la partecipazione fu estesa alle giornaliste di moda per coinvolgere la stampa nel progetto di promozione della moda industriale. “Elle”, “Marie Claire” e “Jardin des modes” colsero le potenzialità del modo di vestire adottato dagli americani e cominciarono a proporre alle francesi le collezioni stagionali di Weill, Lempereur, Basta, Webé e tanti altri, uniti sotto il marchio Trois Hirondelles che garantiva la qualità del prodotto. Analogamente si mossero i grandi magazzini che iniziarono ad affidare a un consigliere il compito di visionare tutte le collezioni di confezione e di haute couture per identificare il gusto da proporre attraverso il magazzino e armonizzare gli acquisti con questa immagine, così da accontentare i nuovi desideri della clientela abituale e attirare altre generazioni di consumatrici. Nel marzo 1952 il neologismo fece la propria comparsa in una rubrica dell’edizione francese di “Vogue” che periodicamente dedicò servizi al nuovo tipo di produzione. La sua ufficializzazione dovette attendere il 1956 quando l’intero numero di agosto fu dedicato alle collezioni di prêt à porter. L’alta moda aveva cominciato a sentire i primi segni di crisi, gli enormi impegni di capitali necessari per realizzare i modelli da presentare nelle sfilate stagionali non erano più compensati dalle vendite. La clientela privata, in particolare quella americana, cominciava a diminuire o a limitare i propri ordini, attratta da una produzione di ready-to-wear sempre più raffinato ed elegante. Dior aveva colto il mutamento di consumi e aveva risposto con una linea di prêt à porter di lusso destinata ad un pubblico statunitense e presto altri couturier sperimentarono questa via. Nel 1954 comparve sul mercato francese il marchio Jacques Fath Université, prodotto da Jean Prouvost, la morte del couturier spinse l’azienda a firmare un contratto con Givenchy Université, ma anche questa esperienza fu breve. In Italia iniziarono Jole Veneziani e Fernanda Gattinoni che sfilarono a Firenze con collezioni Boutique dagli anni Cinquanta, presto si aggiunsero Marucelli, Biki, Antonelli, Sorelle Fontana. Fu però negli anni Sessanta che le sartorie diedero vita a vere e proprie linee di prêt à porter. L’industria della confezione in Italia In Italia la produzione di abiti in serie non aveva tradizioni. La conformazione sociale del paese non aveva mai favorito la nascita di una vera industria di confezione, contrastata dalla presenza di una fitta rete di sarti e artigiani in grado di rispondere alle richieste di abbigliamento di tutti gli strati della popolazione. Gli unici esempi di aziende che si erano occupate di confezione femminile nel periodo tra le due guerre erano Merveilleuse di Torino e la Fias-Lo Presti Turba di Milano, ma la loro attività aveva una forte impronta sartoriale e serviva un mercato di lusso. Il settore mosse i primi passi negli anni Cinquanta, nacque principalmente all’interno di alcune aziende tessili, ma non mancarono iniziative imprenditoriali nuove che ne fecero il centro della loro attività. La maggior parte della produzione riguardo l’abbigliamento maschile, ma anche quello femminile fu sperimentato sia in line particolari come Cori del Gruppo Finanziario Tessile, sia in modo esclusivo, come nel caso di Max Mara, Conber, Rosier e molti altri. Nel 1945 era nata l’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento (AIIA), un organismo di categoria con compiti organizzativi, che nel 1947 aveva partecipato alla fondazione a Lione dell’Associazione europea delle industrie di abbigliamento (AEIH). Già nella metà degli anni Cinquanta l’industria italiana della moda pronta cominciava essere una realtà concreta che necessitava di strumenti organizzativi e commerciali nuovi per il proprio sviluppo. L’alta moda e l’artigianato di lusso avevano trovato nelle sfilate fiorentine inventate da Giorgini il mezzo per raggiungere il mercato americano, qualcosa di analogo fu messo a punto per la confezione industriale e la produzione tessile. Il 24 novembre 1955 fu inaugurata a Torino la prima edizione del Salone mercato internazionale dell’abbigliamento (SAMIA) per promuovere le vendite della moda pronta sia sul mercato interno che su quello estero. Organizzato dall’Ente italiano moda, l’appuntamento si ripeteva due volte l’anno, in novembre e in aprile e offriva i produttori la possibilità di confrontarsi con la concorrenza e di venire in contatto con le esigenze di mercati diversi da quelli fino ad allora praticati in modo artigianale. Nel 1957 si svolse a Milano la prima edizione del Mercato internazionale dei tessili per l’abbigliamento e l’arredo (MITAM), che doveva svolgere un analogo compito nel mondo delle stoffe. In quei primi anni l’industria di confezione non si era posto il problema di creare tendenze o di competere con la grande moda, il suo pubblico di riferimento era composto dalle signore della media borghesia italiana che conducevano una vita ancora legata a lavori e riti tradizionali ed erano abituate a commissionare le proprie sarte di fiducia abiti copiati dei modelli parigini. Il problema del “contenuto moda “dell’abbigliamento industriale però si pose presto, nel 1959 fu affrontato anche dall’AIIA che diede vita al Comitato moda, con lo scopo di promuovere un’azione di coordinamento tra creazione, produzione e distribuzione, ma soprattutto di offrire un contributo, attraverso lo studio di tendenze, la pubblicazione di una rivista, la circolazione delle novità. Furono molte le aziende che aderirono al Comitato, il gruppo de confezionisti italiani cominciava ad essere consistente e stava affrontando un problema che riguardava l’intero comparto moda internazionale, quello del rapporto di dipendenza creativa dall’alta moda. La scarsa differenziazione delle collezioni dei diversi marchi poteva diventare un problema. Era giunto il momento di organizzare in modo più strategico la pubblicità sui giornali, ma contemporaneamente era necessario affrontare il problema del contenuto moda o ricorrendo a disegnatori creativi ed esperti, capaci di progettare collezioni organiche, o trovando il modo di utilizzare in maniera più originale gli stimoli che venivano dall’alta moda. Per quanto riguarda la pubblicità, dalla seconda metà degli anni Cinquanta i modelli erano pubblicizzati in modo saltuario dai femminili come “Grazia”, ma anche dalle testate specializzate come “Linea” e “Bellezza”. Una vera collaborazione fra industria e stampa fu però costruita con alcune riviste di nuova concezione che in quegli anni rinnovarono il panorama della comunicazione del settore. Il mensile “Arianna” e il settimanale “Amica” iniziarono a dedicare interi servizi monografici alle diverse aziende. In assenza di una pubblicità diretta, fornivano alle lettrici un’informazione completa di quanto il mercato dell’abbigliamento metteva a loro disposizione, non tralasciando neppure i prezzi dei modelli e gli indirizzi dei negozi in cui potevano essere acquistati. Il problema relativo all’aspetto creativo era forse meno evidente, negli anni Sessanta solo alcune grandi aziende cercarono la collaborazione di un designer, ad esempio Jean Baptiste Caumont nel 1963 collaborò con Rosier, Max Mara sperimentò la consulenza di Lison Bonfils e dal 1965 si servì abitualmente di stilisti, sempre per brevi periodi, in modo da non identificare troppo stabilmente il nome dell’azienda con quello del creativo di turno. Solo nel 1969 soprattutto nelle boutique rivolte al mercato giovanile. Già nel 1965 Giorgini aveva colto l’importanza del fenomeno e l’anno successivo Firenze si organizzò per dare spazio nel proprio calendario delle sfilate alle aziende che producevano questo tipo di confezione. La professione di stilista: Walter Albini Il primo a cogliere l’eccezionalità della situazione e la sua ambiguità fu Walter Albini. Mentre la produzione di alta moda era fortemente personalizzata, invece la riconoscibilità della confezione era legata al marchio aziendale o al nome della boutique che la distribuiva. Nel 1968 Albini era sulla passerella di palazzo Pitti come progettista di cinque collezioni, ma nel calendario delle sfilate comparivano i nomi di Trell, Krizia maglia, Montedoro, Princess Luciana e Billy Ballo. Fare emergere il nome dello stilista dall’anonimato significava ratificare l’esistenza di un terzo polo all’interno del sistema di produzione, un polo che prevedeva una produzione industriale di piccola serie progettata e seguita da un creativo che adottava metodiche diverse dal passato. Per raggiungere questo obiettivo le strade da percorrere erano due, una di tipo contrattuale, l’altra di tipo estetico, Albini le sperimentò entrambe. Il primo passo era creare un rapporto paritario con un produttore, così da non essere nella condizione del semplice consulente e di poter determinare in modo totale l’aspetto formale della collezione. Questo era lo scopo che egli raggiunse formando insieme a Luciano Papini una piccola società per la produzione di abiti, chiamata Misterfox. Le collezioni ebbero un grandissimo successo. Albini intuì che era giunto il momento di operare una cesura con il vecchio e tentare una strada diversa, che comunicasse immediatamente un’idea di modernità, di internazionalità, di futuro. Soprattutto comprese che ormai era necessario non disperdere in più canali la proposta dello stilista, ma presentarsi sul mercato con un’unica idea, forte e riconoscibile che qualificasse una grande varietà di prodotti. La soluzione affrontò i diversi nodi del problema. Innanzitutto si imponeva la separazione da Firenze, fu scelta Milano, una città industriale, priva di legami con i riti dell’alta moda, ed estremamente sensibile alla boutique più giovane. Scegliere il capoluogo lombardo significava puntare su un’altra Italia, quella che non viveva nel mito dei fasti del passato, ma che cercava uno spazio attivo nella modernità. Il secondo nodo è il rapporto tra stilista e compratore finale, quello che si offriva non poteva essere semplicemente un indumento confezionato, ma qualcosa di più complesso che doveva collocarsi in una zona intermediale fra il gusto e lo stile di vita della nuova società emergente. Albini arrivò a pensare al senso della professione di stilista, comprese che se il problema era culturale e di stile, il compito dello stilista non poteva essere quello di progettare singoli indumenti, ma un clima di gusto in cui il compratore potesse riconoscersi. Questo è possibile solo controllando una collezione completa e cioè tutti gli indumenti gli accessori necessari ad accentuare le richieste di un ipotetico compratore per un’intera stagione. 27 aprile 1971 sfilò al Circolo del Giardino di Milano la collezione per l’autunno-inverno 1971-1972, composta da centoottanta modelli. I capi, progettati da Albini, erano realizzati da cinque aziende ognuna delle quali era specializzata in un determinato settore merceologico: Basile per tailleur e capispalla, Diamant’s per la camicieria, Escargots per la maglieria, Callaghan per il jersey e Misterfox per gli abiti eleganti da sera. L’etichetta portava la dicitura “Walter Albini per” seguito dal nome dell’azienda, che conservava quindi una posizione preminente. La figura dello stilista come creatore e garante unico di un’immagine complessiva non era ancora giunta a maturazione e per il momento gli si riconosceva solo quella di coordinatore stilistico di produzioni diverse. Molti nodi però non erano ancora risolti, primo fra tutti quello del rapporto fra stilista e azienda. Ancora una volta fu Albini a fare da battistrada, nel 1972 presentò a Londra una collezione di soli abiti che portavano come marchio le iniziali del suo nome “WA”. Il prezzo pagato per far nascere la griffe era stata la rottura con quattro delle aziende del team, solo il socio Papini lo aveva seguito nella nuova avventura. Per l’autunno-inverno 1973-1974 furono presentate due collezioni, una a Venezia con il marchio “WA”, l’altra a Milano con il marchio Misterfox. I risultati non furono quelli sperati, i tempi non erano ancora maturi perché il marchio di uno stilista italiano si affermasse improprio, imponendo regole sia all’industria sia all’alta moda romana. Lo stile Il secondo obiettivo con cui nuovi professionisti si cimentarono fu l’invenzione dello stile con cui presentarsi a un pubblico che non era più costituito dalla ristretta élite internazionale che decretava il successo di un sarto o di un’idea. Diventava quindi necessario che ogni creatore di moda adottasse uno stile ben riconoscibile e lo perseguisse nel tempo, fino a essere identificato con esso, cercando di differenziarsi dagli altri così da non creare sovrapposizioni. Missoni fin dagli anni Sessanta, aveva scelto di concentrarsi sui materiali e colori della maglieria. Krinzia, in collaborazione con Mariuccia Mandelli e Anna Domenici, decise di puntare sulle mode che via via si affacciavano, elaborarono uno stile ironico ed eccessivo, che aveva legami stretti con il linguaggio della pop art e delle avanguardie storiche. Scott’s s’identificò con i grandi stampati realizzati da Falconetto. Albini scelse la strada del revival, costruendo una versione moderna delle atmosfere favolose e aristocratiche che avevano scoperto che nei figurini dei primi decenni del secolo. Alla fine degli anni Sessanta ci fu un recupero del passato, riproposto in modo massiccio. Cominciò Hollywood, che nel 1967 affascinò il pubblico delle sale con i costumi anni Trenta indossati in Bonnie and Clyde di Arthur Penn. Parigi offriva un panorama espositivo che riproponeva l’arte e gli stili decorativi dei primi decenni del secolo e Yves Saint Laurent portava in passerella una collezione ispirata alla moda degli anni Quaranta. Milano organizzò una mostra sul liberty. Il gioco del travestimento, che è connaturato in ogni revival, consentiva una pausa di riflessione per sperimentare le corrispondenze fra le diverse proposte vestimentaria e gli stili e le occasioni di vita della nuova era. La seconda generazioni Nel 1975 praticamente tutti gli stilisti avevano seguito l’esempio di Albini, Milano era di fatto diventata la capitale del prêt à porter. A questo punto cominciarono a comparire nomi nuovi, come Versace, Armani e Ferré. Il primo iniziò da Callaghan, ma presto sarebbe diventato il progettista di Genny e Complice. Il secondo aveva costruito una società con Galeotti e stava lavorando per aziende diverse. Il terzo si era già fatto conoscere attraverso la realizzazione di gioielli fantasia e presto avrebbe iniziato il suo percorso di stilista con un contratto con la San Giorgio, per approdare poi al sodalizio con Mattioli. Nonostante il paese stessi attraversando un momento difficile sia dal punto di vista politico che sociale, fra il 1979 e il 1980 si verificò una forte ripresa produttiva accompagnata da una sorta di euforia commerciale, determinata dal recupero del mercato interno e soprattutto dei risultati ottenuti su quelli esteri. Fra il 1977 e 1978, il progetto di rilancio promosso da Federtessile aveva avuto un primo risultato visibile con Modit, una fiera dell’abbigliamento confezionato, organizzata a Milano dall’Associazione italiana industriali dell’abbigliamento e dall’associazione Magliecalze. La prima edizione del marzo 1978, che ospitava solo le aziende, non ebbe un grande esito. Si decise perciò di aprire l’iniziativa gli stilisti, offrendo uno spazio sfilata a quelli che non avevano una sede adatta la presentazione delle proprie collezioni. L’anno successivo sulle passerelle si succedettero tutti i nomi del prêt à porter italiano. Il casual La seconda generazioni degli stilisti italiani si dedicò al casual o alla destrutturazione. L’oggetto destrutturato non era tanto il singolo indumento, si trattava dell’intera società che aveva definitivamente messo in discussione i riti e rituali cui rispondevano le vecchie rappresentazioni vestimentaria. Nonostante la crisi economica anche il mito borghese del lavoro, inteso come strumento di arricchimento e di scalata sociale, venne messo in discussione a favore di un modello umanistico che lo collocava in un progetto generale di realizzazione della persona e di servizi e la società. Le novità del modo di vestire degli anni Settanta provenivano dalla strada, un abbigliamento che combinava capi separati della più diversa provenienza e stile. L’unica condizione da rispettare era che non avesse legami con le consuetudini borghesi, oppure che fosse in grado di darne una totalmente alternativa. Tutto ciò mise in difficoltà la moda tradizionale e il suo ruolo di status symbol, ma contemporaneamente diventò il terreno su cui far crescere un nuovo tipo di guardaroba. In questa logica casual assunse un significato preciso, definire tutto quello che non era formale, che non pretendeva che la giornata si dividesse secondo certe regole, che poteva essere indifferentemente usato in ogni occasione, rispettava il corpo e la sua comodità e anzi ne salvaguardava la salute il benessere attraverso l’uso di materiali naturali. Il viaggio in Oriente divenne una tappa fondamentale da cui riportare pantaloni ampi di cotone leggero, camice lunghe e dritte, tagli semplificati, colori come arancione, zafferano, rosso, fucsia e persino la versione occidentale del sari, che Albini realizzò per Trell nel 1977. Dal mondo arabo furono riportati djellaba, cappotti di stile beduino, cafetani e persino tentativi di chador. Anche l’abbigliamento povero dell’Occidente fu riconsiderato, come l’uso di panni pesanti bordati da semplici sopraggitti di lana, la sovrapposizione di capi dall’aspetto informe che potevano essere tolto o indossati a seconda della temperatura, il fustagno e il velluto a coste per pantaloni o completi, gli stampati a fiori e ricami folk, gli scialli, i calzettoni e le calze di lana pesante. In generale si trattava di indumenti dalla struttura sartoriale molto semplice che potevano essere facilmente realizzati dall’industria, ma soprattutto capi decontestualizzati dalla loro situazione di origine e che non avevano alcuna collocazione nell’immaginario sociale dell’Occidente. La giacca Armani Il casual italiano cominciò con la giacca, l’indumento che più rappresentava da un lato il ruolo maschile e dall’altro la sapienza sartoriale. L’idea di Giorgio Armani fu proposta quando, nella metà degli anni Settanta, la generazione del dopo guerra si trovò di fronte alla necessità di assumere un ruolo adulto entrando nel mondo del lavoro. Un’intera generazione si trova nella situazione di non voler vestire gli indumenti che la tradizione aveva assegnato per decenni all’età adulta, senza però avere elaborato regole diverse. Fu per questo pubblico che Missoni creo un cardigan che per un certo periodo diventa una specie di divisa colta per intellettuali e uomini di spettacolo, un capo che stava sopra la camicia come una giacca, ma aveva una vestibilità inusuale perché era fatto di maglia e un apparire diverso perché era fatto di colori. Armani risponde la stessa richiesta proponendo una moda che teneva conto dei mutamenti culturali e sociali in atto, portò in passerella un indumento formale classico, ma totalmente rinnovato. Era una giacca di foggia maschile realizzata con tessuti morbidi, che venne proposta a uomini e donne. La trasformazione riguardava il suo aspetto esteriore, lo stilista annullò fodere, imbottiture, rinforzi, togliendo ogni sagomatura nel taglio ed eliminando la lunga stiratura iniziale, che serviva a mantenerla in forma. Dal punto di vista culturale l’operazione di Giorgio Armani fu indubbiamente rivoluzionaria, inventò una giacca nuova che non era più né maschile né femminile, che aveva perso di formalità e quindi di ruolo definito. Era un vestito adatto a ogni occasione e con ogni abbinamento. In questo modo diventava un indumento che non ostentava più alcun significato particolare, ma comunicava che le donne non volevano più vestirsi da donne e gli uomini da uomini. Negli Stati Uniti il successo fu immediato, nel 1978 Diane Keaton ritirò l’Oscar come miglior attrice per il film Io e Annie di Woody Allen indossando una giacca di Armani, l’anno dopo allo stilista fu assegnato il Neiman Marcus Fashion Award. Stili e industria Parallelamente alla ricerca dello stile procedeva la costruzione di un nuovo modello produttivo. Si trattava di stingere un’alleanza tra industria e stilisti, in modo da utilizzare il potenziale della prima per creare nuova moda. Dagli anni Sessanta Max Mara aveva qualificato il proprio prodotto con la più alta della produzione. Era finito il modello secondo cui le nuove tendenze venivano create per una ristretta élite, per poi essere riprese e diffuse da sistemi meno costosi. Lo stilista aveva sostituito il couturier nel ruolo di interprete dei cambiamenti sociali e culturali e trasportarli in tessuti, modelli e prodotti diversi per una clientela allargata e internazionale. Nell’immaginario collettivo la boutique monogriffe sostituì l’atelier del couturier e divenne il luogo in cui acquistare o semplicemente vedere le ultime novità del look della moda. Il cosiddetto “Italian look” interpretò appieno il desiderio di essere e mostrarsi alla moda e rispose a ogni tipo di domanda articolandosi attraverso un’offerta di modelli, ma soprattutto di stili di abbigliamento, abbastanza diversificati fra loro e facilmente riconoscibili. Armani divenne quasi sinonimo di un abbigliamento funzionale discreto, Ferré lavorò a un’immagine di donna al limite con la tradizione dell’alta moda, unendo elementi etnici con effetti da haute couture e una spiccata predilezione per la sperimentazione sui materiali. Versace si specializzò in un abbigliamento aggressivo e provocatorio, ispirato agli eccessi del mondo dello spettacolo. Gli stilisti sostennero la propria attività con atteggiamenti divistici, le griffe dilagarono attraverso estesi sistemi di licenze che articolavano veri e propri total look, le sfilate assunsero sempre più l’aspetto di show fatti per stupire il pubblico attraverso il top model e modelli opulenti ed eccessivi. L’immagine che ciascuno si era creato doveva essere sostenuta con tutti gli strumenti di comunicazione disponibili. Mode di strada, ricerca di avanguardia, produzione industriale Il prêt à porter era diventato la moda, ma dopo aver eliminato l’idea che ci potesse essere un unico centro di creazione e una ristretta élite di riferimento. Questo significava che potevano cominciare a coesistere stili differenti, in cui pubblici diversi potevano riconoscersi e che i centri di creazione delle nuove mode potevano moltiplicarsi. Si aggiunsero anche altre proposte estetiche e culturali, corrispondenti a esigenze di altri gruppi sociali. La più spettacolare fu forse quella che nasceva dalle mode di strada e portava principi eversivi e una rivoluzione vestimentaria dei gruppi giovanili sulle passerelle di Jean Paul Gaultier a Parigi e Vivienne Westwood a Londra. Sul fronte opposto, dalla tradizione del più puro sportwear americano arrivò una tendenza che declinava il prodotto industriale con monacale purezza di tagli, con una quasi totale assenza di colori, ma con tessuti ricercati. Zoran e Donna Karan negli Stati Uniti e Jil Sander in Germania furono i precursori del “pauperismo di lusso”, che trovò successiva interpretazione nelle proposte di Prada e Helmut Lang. La scelta di capi base funzionali e semplici creava nuove forme di distinzione, alla facile adozione di oggetti griffati si contrapponeva la raffinata e sapiente scelta di materiali preziosi e di un intelligente sobrietà. Il potere e lo stato sociale raggiunto si manifestavano attraverso il consumo, ma declinato in modo non vistoso, privo di accessi, fatto per occhi esperti. La ricerca di un’eleganza intellettuale decretò il successo di un’estetica di tipo intimistico e ascetico, di cui i giapponesi furono maestri, che introduceva nella moda occidentale principi nuovi come l’imperfezione studiata e la ricerca sui materiali poveri. Lo stile nipponico era comparso in Francia nel 1970 con Kenzo e nel 1973 con Issey êMiyake. La proposta divenne dirompente nel 1981 quando a Parigi sfilarono Rei Kawakubo di Comme des Garçons e Yohji Yamamoto, con modelli che facevano intuire un modo diverso di intendere il corpo femminile e l’erotismo, di utilizzare i materiali, i colori e le proporzioni. Dai primi anni Novanta la proposta giapponese influenzò la nascita di un’avanguardia europea, di cui il gruppo di stilisti formato all’Accademia di Belle Arti di Anversa ha forse rappresentato la forma più avanzata. La moda italiana scelse uno stile massimalista, tanto lusso però poteva creare seri problemi a un sistema costruito sul prêt à porter, infatti le vendite cominciarono a denunciare flessioni. Era evidente che gli stilisti avevano sfiorato un’altra volta lo spazio dell’alta moda, quella fatta per pochi, che non vada a costi e che permette le ricerche più innovative perché il suo ruolo e soprattutto l’immagine. Fra 1989 e 1990 il luogo di confronto si spostò a Parigi, dove Valentino scelse di sfilare per sfuggire all’atmosfera dell’alta moda romana. Ferré fu chiamato da Dior e Versace approdò con la linea atelier. Pochi dei grandi nomi del made in Italy si attennero in modo rigoroso il proprio compito di stilisti legati all’industria, fra di essi Armani, che continuò la sua ricerca di uno stile sobrio e rigoroso e Moschino che limitò la fantasia straordinarie mise-en-tête dadaiste costruite su giochi di parole e a teatrali provocazioni contro il fashion sistem. La morte di Moschino nel 1994 e l’assassinio di Versace nel 1997, la rottura del sodalizio fra Anna Domenici e Mariuccia Mandelli con Krizia, il difficile rientro di Ferrè dopo l’esperienza Dior accelerarono la flessione della moda italiana. La sua fama presso i consumatori e l’importanza di Milano e nel marcato del prêt à porter sopravvissero a tutto ciò, più per la qualità dei prodotti che per l’innovazione. Fra i grandi degli anni Ottanta solo Armani e Dolce & Gabbana riuscirono a mantenere intatta la propria posizione internazionale adeguando tu le scelte ai cambiamenti culturali e di mercato. Nel 2005 Armani cominciò a sfilare a Parigi con una collezione di haute couture, Armani Privé, per collocarsi a pieno titolo nell’industria del lusso. In generale il successo del made in Italy fu sempre più affidato a grandi marchi capaci di gestire in modo professionale il rapporto fra marketing e creatività, come Max Mara o fra abbigliamento e accessori come Prada. Vecchi marchi e industria del lusso Un capitolo particolare della storia degli ultimi decenni fu affidato al rilancio di vecchi brand come Gucci o Pucci, anche se c’era ben poco di italiano in queste operazioni condotte da proprietà straniere e affidate a direttori artistici francesi o americani. Nel 2000 il gruppo LVMH acquistò la maggioranza da Emilio Pucci e decise di ripopolarla sul mercato utilizzando sistemi basati sulla comunicazione, il marketing e la creatività, che avevano già dato buoni risultati in Francia. Inizialmente la direzione creativa fu lasciata Laudomia Pucci, ma nel 2002 questo ruolo fu affidato a Christian Lacroix, sostituito nel 2005 da Matthew Williamson. Troppi cambiamenti per garantire davvero una continuità la nuova immagine che si voleva dare al marchio. Molto più significativo fu il caso di Gucci. Nel 1990 fu affidato a Dawn Mello il compito di rinnovare immagine e prodotto. Nel 1994 l’azienda era di totale proprietà di Investcoop e Domenico del Sole ne assunse la direzione. Tom Ford fu nominato responsabile sia delle collezioni di abbigliamento accessori per uomo e donna sia della comunicazione. L’obiettivo era recuperare l’immagine di marchio di lusso che l’azienda aveva fino agli anni Settanta. Per ricostruire il significato sociale e commerciale del prodotto Gucci si dovevano isolare i segni che lo avevano rappresentato e riproporli come elementi forti di un guardaroba attuale. Si comincia a costruire un archivio acquistando sul mercato vintage e antiquario tutti modelli reperibili, raccogliendo immagini da riviste, pubblicità, fotografie, scene di film e tutto quello che poteva rappresentare la storia della produzione e della fama di Gucci. Per sostenere l’immagine degli accessori che caratterizzavano la produzione Gucci, Tom Ford puntò sull’abbigliamento, un settore che la casa fiorentina aveva sempre considerato marginale. Il corso iniziò con la collezione autunno-inverno 1995-1996. Propose la rivisitazione degli anni Settanta, scegliendo come modello lo Studio 54, locale di New York che aveva segnato l’inizio della disco music. Nell’abbigliamento maschile questo significò completi aderenti, pantaloni a vita bassa, molto colore molto velluto. Per la donna divenne un look ricco, aggressivo e molto sexy fatto di giacche modellate con spalle strette, pantaloni scampanati a vita bassa, camicia di raso aperte fino in vita, cappotti con ampi revers. In entrambi i casi figure smilze, unisex, caratterizzate da colori incandescenti e da tessuti lucenti. Anche gli accessori furono ripensati con la stessa logica, scarpe femminile di vernice colorata con tacco alto, stivali e scarpe maschili dello stesso materiale, tutti con morsetto e staffa argentata. Le borse iridescenti erano contrassegnate dal caratteristico manico di bambù e le cinture di vernice con fibbie con le diverse versioni grafiche del marchio. Tom Ford utilizzò Carine Roitfeld come stylist e affidò a Kevin Krier la regia di una sfilata al buio in cui le modelle incedevano come dive nella luce di un riflettore. Per la campagna pubblicitaria scelse Mario Testino. La nuova immagine con cui il marchio affrontò il mercato collegava la storia di Gucci a un’idea di lusso, bellezza e sesso ostentati e levigati. Uno stile di vita prima ancora che di abbigliamento, proposta a un pubblico ricco che di nuovo cercava la sicurezza della griffe vistosa riconoscibile. Gli accessori, come le scarpe a punta di vernice con tacchi a stiletto di metallo, reso in inconfondibile il nuovo mondo Gucci, mentre i segni tipici della casa fiorentina, come la statua, il bambù, i morsetti, vennero ingigantiti su modelli che riproponevano forme storiche. Tutto ciò doveva essere comunicato utilizzando una cornice adeguata e Tom Ford scelse il design moderno. Il successo dell’operazione fu travolgente planetario, mettendo in luce l’importanza della figura del direttore artistico e la capacità dei vecchi marchi di risorgere e se adeguatamente guidati, ma la sua durata fu breve. Nel 1999 Bernard Arnault acquistò un pacchetto azionario Gucci, fu l’inizio di una complessa vicenda finanziari e giudiziari che si concluse con l’acquisizione da parte di Pinault- Printemp-Redoute dell’intero Gruppo Gucci, ma con l’uscita di Ford e del Sole. Nel 2003 PRP annunciò la volontà di non rinnovare il loro contratto e l’anno successivo entrambi lasciarono i loro incarichi. Questo segnò la fine della stagione che avrebbe fatto di Gucci uno dei marchi più ambiti e acquistati in tutto il mondo. Nuove forme di consumo Dal punto di vista creativo, la fine del XX secolo fu rappresentata nel prêt à porter soprattutto dalla moda più di avanguardia, con la sua varietà di proposte e di percorsi, sia nel campo delle fogge che dei materiali. L’intero sistema del consumo e della fabbricazione di abbigliamento stava però mutando ancora una volta in modo radicale. Un nuovo modello di grande distribuzione, sostenuto da una produzione decentrata in paesi a basso costo di manodopera, cominciò ad offrire un pronto modo di buon gusto, qualità accettabile e prezzi bassi. Il successo di catene come GAP, Zara o H&M nasceva dal fatto che i consumatori erano sempre meno attratti dall’abito status symbol o di grande qualità, destinato a durare per un’intera stagione, l’acquisto era sempre più legato al piacere di modificare il proprio aspetto con cose sempre nuove e diverse, rincorrendo tendenze brevi ed effimere. I grandi store che aprivano in tutte le città del mondo offrivano incessantemente novità attraenti e alla portata di tutti. Era nata una nuova era per la moda, quella della confezione in serie per il mercato di massa globale, progettata scientificamente attraverso ricerche di mercato, analisi dei consumi, marketing e retail. Il ruolo creativo era di nuovo entrato nell’anonimato degli uffici stile. La moda di élite e dei grandi creativi però non era scomparsa e cominciò ad affrontare il nuovo mercato parlando di lusso. Haute couture e industria del lusso: Chanel La rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta e Settanta, l’affermazione delle culture giovanili, il profondo processo di democratizzazione intervenuto in Occidente e la diffusione del consumo di massa avevano favorito lo sviluppo di un prêt à porter sempre più qualificato e creativo, capace di soddisfare le esigenze anche dei pubblici più esigenti e raffinati. Tutto questo però era solo la superficie, del sistema commerciale costruito negli anni del grande successo sopravviveva ben poco, nessuno si rivolgeva più all’haute couture per comprare creatività. L’industria di confezione aveva ormai i propri stilisti, quindi non aveva più bisogno di andare a Parigi ad acquistare i modelli da copiare o trasformare. Le sartorie erano del tutto scomparse, anche i buyer dei department store di lusso non sceglievano più i capi di sfilata da realizzare su misura per la clientela di élite, quei reparti erano stati sostituiti con il prêt à porter firmato dagli stessi couturier. Rimaneva la clientela privata che frequentava gli atelier di Parigi, ma ridotta nel numero e nelle richieste. Il vero volume d’affari delle poche maison rimaste era ormai rappresentato dalla profumeria, dalle licenze e dal prêt à porter, spesso però inadatto a fare concorrenza a quello creativo degli stilisti. Nonostante ciò, due volte l’anno, Parigi continuava a mettere in scena il grande spettacolo delle sfilate haute couture. storia di Chanel faceva scoprire che il suo lavoro negli anni Venti e Trenta non era stato così unico. Il ritorno alle fonti metteva poi in evidenza che le innovazioni più determinati di quei decenni erano state operate da altre signore della moda, come Madeleine Vionnet. Lagerfeld chiariva anche che una serie di innovazioni di avanguardia ormai ritenute di Coco, non lo erano affatto, ad esempio non fu la prima a tagliarsi i capelli corti e l’idea dei bijoux era di Misia Sert. La stessa collezione del 1954 non era stata così innovativa. Infine Lagerfeld sollevava il problema più grave, il punto debole che aveva caratterizzato le ultime collezioni di Mademoiselle e creato le basi della stagnazione del decennio successivo, il rifiuto dell’evoluzione. Il punto focale proposto da Lagerfelf come chiave interpretativa del fenomeno Chanel era in ultima analisi questa filosofia del cambiamento, del saper evolvere interpretando i tempi e i desideri delle donne. Il contrario di quello che avevano fatto i direttori artistici della Maison nel corso degli anni Settanta, fermi nel riproporre all’infinito le procedure sartoriali e le massime sull’eleganza di una vecchia signora. Eppure la Maison Chanel era dotata di un “patrimonio spirituale” che le consentiva di adattarsi alle mode più diverse, bastava un maggior senso di libertà e un po' di opportunismo. Prima di arrivare a questa libertà di contaminazione fra presente e passato, Lagerfeld aveva fatto un’approfondita ricerca sulle fonti alla scoperta di quel “patrimonio spirituale” o di quei segni che avrebbero trasformato in un codice simbolico. Il risultato di questo lavoro è esemplificato in un gruppo di disegni del 1991, che furono allegati alle cartelle stampa delle sfilate e poi pubblicati. Una prima serie di essi ripercorre la storia di Chanel, a ogni decennio è dedicata una tavola sulla quale sono schizzati alcuni modelli accompagnati da didascalie e da un titolo generale. I modelli sono pochi, da tre a cinque, scelti con molta cura in modo da rappresentare la sintesi della decade datati e riprodotti con fedeltà dalla fonte d’epoca utilizzata. Le parti scritte chiariscono il procedimento di Lagerfeld, il titolo generale è a volte è qualcosa di più della semplice notazione cronologica, le didascalie possono essere semplicemente indicative, ma anche veri e propri commenti. Oltre alla sua vita e alla lunga produzione Chanel aveva messo a disposizione di Lagerfeld qualcos’altro, un foulard. Prodotto dal 1965, quel quadrato di twill di seta portava stampato una specie di testamento fatto di disegni stilizzati. La doppia C intrecciata, il tailleur con i profili a contrasto, il cappello con la piccola tesa, la scarpa bicolore, i bottoni di metallo dorato con il marchio, la borsa impunturata, la collana di perle, la cintura a catena con il quadrifoglio, il fiocco, la camelia, la spilla di metallo dorato e pietre colorate, gli orecchini a clip. Gli stessi elementi compaiono in due tavole disegnate da Lagerfeld quasi ripresi alla lettera. La prima intitolata Les éléments d’identification instantanée de Chanel. Le Patrimoine Spirituel de Chanel, la seconda più ironica, vede al centro un autoritratto di Lagerfeld, corredato di ventaglio, macchina fotografica e carta da disegno con matita, seduto nella posa pensosa, intorno a lui ruotano tutta una serie di accessori. Il titolo della tavola era Faire un meilleur avenir avec les élements élargis du passé. Dieci anni dopo questi elementi si erano ulteriormente ridotti, in un disegno del 2002 intitolata Les éternels de Chanel, dove compaiono una serie di oggetti e una piccola Coco di profilo e la testa di Karl che si guardano. Il lavoro di decostruzione e di selezione aveva messo in luce una serie di segni visivi che potevano essere disancorati dal momento storico in cui erano nati. In questo modo fu creato un codice fatto di emblemi potenzialmente eterni che potevano essere usati in qualsiasi modo e in ogni situazione. La nuova moda Chanel A quel punto tutto diventava veramente possibile, dal 1983 Karl teneva in mano l’intera direzione artistica della Maison. Fu dal prêt à porter che cominciò il ringiovanimento della moda Chanel. La clientela della couture era sempre la stessa, composta da un piccolo gruppo di signore dell’altissima società internazionale, tradizionalista e raffinate. Il mercato del prêt à porter era invece del tutto nuovo, composto soprattutto da donne giovani, con le quali era più facile osare e in modo sempre più evidente furono loro il pubblico di riferimento dello stilista/direttore artistico. La collezione per la primavera-estate 1984 aprì un nuovo corso sia dal punto di vista della moda si da quello delle strategie aziendali. Il 13 dicembre 1983 fu inaugurata la nuova Boutique Chanel a Parigi in Avenue Montaigne. La sfilata di settembre aveva presentato i tailleur in tweed pastello, il tubino nero, il pizzo Chantilly per i vestiti da sera, ma anche una rivisitazione più trendy dello stile Chanel degli anni Venti. Anche i costumi per il Train blue furono riportati in passerella, ma progettati secondo regole della pratica sportiva più recente. Erano un completo da cricket, uno da scherma, un insieme da tennis, una tenuta da polo e una da motociclista, con tanto di giacche in pelle bianca e bottoni automatici, tutti provvisti di attrezzi accessori, dalle scarpe il casco firmati Chanel, ma tutti pensati per poter essere indossati nella vita quotidiana. La collezione proponeva anche il denim. Lagerfeld lo utilizzò per confezionare un tailleur e una sorta di chemisier senza maniche. Entrambi allacciati con bottoni dorati dalla doppia C. Nella collezione primavera-estate del 1985 furono proposte giacche con le spalle vistosamente allargate e imbottite. Le gonne ben sopra il ginocchio e fecero la loro apparizione nella stessa sfilata per poi approdare sulla passerella dell’haute couture l’anno successivo. Il codice Chanel Nel 1997 la Maison distribuì un piccolo catalogo in folio disegnato da Karl dal titolo Les éléments d’identification instantanéè de Chanel. Sulla copertina erano schizzati i soliti emblemi, in ognuna delle tavole invece comparivano decine di diverse versioni di ciascuno di essi, un vero catalogo delle innumerevoli maniere in cui era possibile creare oggetti diversi pur restando fedeli a un codice dato. Esemplare fu il lavoro fatto con gli elementi/segni che caratterizzavano la borsetta 2.55, che la Maison produceva dagli anni Trenta. All’inizio fu l’intero oggetto a diventare decorazione connotante dell’abito ricamato in trompe-l’oeil con lucenti paillettes su un semplice tubino nero. Poi i segni si resero indipendenti, nella collezione autunno-inverno del 1986 uno dei capi di punta della collezione haute couture fu il tailleur Chanel nella sua versione più classica, ricamato da Lesage con paillettes nere disposte in modo da formare dei rombi, I bordi della giacca e delle tasche erano rifiniti con l’applicazione di una passamaneria che simulava la catena dorata con il nastro di pelle passante con cui invece era fatta la cintura. Da quel momento il motivo a losanghe divenne una delle variabili cui Lagerfeld poteva attingere per caratterizzare le sue creazioni e ottenere effetti diversi. Seguendo la medesima logica, le camelie potevano essere appuntate ovunque, potevano cambiare materiale o colore, potevano diventare cappelli, orologi, orecchini, il disegno di un tessuto stampato o il motivo di un richiamo. Lo stesso tailleur Chanel cominciò a subire delle variazioni. Negli anni Novanta si colorò di tinte fluo, la giacca a volte si allungò sui fianchi, altre fu accorciata e modellata. Anche il tessuto poteva essere trattato in vari modi, ad esempio sfilacciato, sfrangiato o ricamato. Presto le mode di strada entrarono in passerella mettendo a dura prova le lezioni sull’eleganza, ma aprendo le porte la clientela più giovane. Nella primavera-estate 1991 il classico blazer fu confezionato in tessuto elasticizzato coperto di paillettes colorate, segnato da profilature di gros grain nero, che lo trasformavano in una tuta da surfista. Fu però la collezione successiva a portare le novità maggiori. La giacca di tweed fu abbinata a minigonne jeans e a stivaletti da motociclista, ma soprattutto i giubbotti chiodo di pelle nera trapuntata e stivali da moto abbinati a gonne da ballo, arricciate con fiori di raso bianco, rosa o azzurro, con vertiginosi spacchi sul davanti. Il tutto portato con un berretto di pelle, una camelia e una profusione di bijoux. Nella collezione autunno-inverno 1990-1991 comparvero in passerella i primi piumini, poi fu la volta dei costumi da bagno e anche l’abbigliamento più tecnico per lo sport e la ginnastica. Era una scelta che teneva conto di un cambiamento di costumi nato negli Stati Uniti, jeans, maglietta e scarpe Nike stavano diventando una nuova divisa. Il mito Coco Tutto questo però poteva funzionare solo grazie alla sopravvivenza del mito di Coco Chanel, che doveva periodicamente essere rispolverato e riproposto il pubblico. Lagerfeld ne era cosciente fin dall’inizio e nei disegni del 1991 aveva messo bene in evidenza il fatto che tutta la lunga storia della maison ruotava intorno alla sua figura fisica. Nelle tavole è lei l’indossatrice reale o presunta della maggior parte dei modelli. Il mito non doveva essere sfatato, evocato ogni qualvolta necessario. Lo fece in modo magistrale Jean-Paul Goude nel filmato pubblicitario del profumo Coco, lo fece in modo diverso Karl Lagerfeld scegliendo modelli icona che nel corso del tempo dovevano essere identificati dal pubblico come l’incarnazione dello stile, ma soprattutto di quel modo indipendente unico di essere donna che aveva sempre caratterizzato Chanel. Lo fece servendosi del linguaggio della moda, organizzando colpi di teatro che lasciavano stupefatto il pubblico e costringevano i media a parlarne. Esemplare il finale della sfilata di prêt à porter del 17 ottobre 1994, quando 50 modelle portate sulle spalle da altrettanti robusti giovani salirono in passerella indossando una camicetta di lana nera, larghi pantaloni bianchi, sandali con zeppa, fascia in testa e collane di perle al collo, l’esatta copia di una famosa foto scattata nel 1937 da Jean Moral che ritraeva Coco sulle spalle di Serge Lifar. Ancora più coinvolgente le collezioni di haute couture del 1996, dedicate a Chanel nel venticinquesimo anniversario della morte. Le sfilate ebbero luogo all’hotel Ritz, nella suite Impériale. Fu collezione omaggio diretto il suo lavoro, la sua concezione della couture e delle proporzioni, ma con alcune citazioni dirette, come la mise da sera esplicitamente ispirata ad una foto che Cecil Beaton le scattò nel 1936. La cartella stampa della seconda aveva sulla copertina un disegno di Lagerfeld e un titolo, Le Ritz. Coco Chanel Suite. L’immagine ritraeva il salotto di Chanel come era stato fotografato da Robert Doisneau nel 1954. La collezione proponeva capi dalla linea sottile, giacche lunghissime e un’aderente tuta nera in lycra che egli chiamò body beautiful e che faceva da base a quasi tutti i modelli presentati. L’omaggio di Chanel e il suo appartamento al Ritz veniva alla fine, nelle lunghe tuniche coperte di paillettes con cui Lesage aveva ricamato pagode e ruscelli, personaggi mitologici, ciliegi in fiore, draghi e templi, montagne e uccelli direttamente presi dai paraventi di lacca cinese di Coromandel che Coco amava. Già nel 1986 il mondo della moda prese atto del successo dell’operazione e assegnò a Karl Lagerfeld il Dé d’Or, il numero di marzo de “L’Officiel”, quello dedicato alle collezioni haute couture di primavera, portava per la prima volta in copertina un suo modello. Anche prêt à porter e accessori stavano vivendo una stagione felice, nel 1990 i punti vendita erano ventinove in Europa, uno in Australi e Canada, Ventotto negli Stati Uniti e nove in Giappone, oltre alle due boutique di Parigi. A sostegno del lavoro di Lagerfeld aveva operato tutta la dirigenza di Chanel. Le sfilate erano la maniera più certa e sperimentata per affermare lo stile di una griffe e per comunicare con il pubblico attraverso quel complesso sistema mediatico che da sempre fa da tramite fra le case di moda e le donne che si vestono. I piani di Alain Wertheimer riguardavano l’intera gamma. Utilizzando in modo sapiente il fascino esercitato dall’alta moda, facendo leva su profumo e cosmetici pubblicizzati in modo innovativo, prêt à porter e soprattutto gli accessori crearono una moda che seppe fronteggiare la concorrenza degli stilisti italiani, dell’avanguardia giapponese e del minimalismo degli anni Novanta. L’investimento pubblicitario non fece perdere di vista il fatto che Chanel era un marchio di lusso, una prerogativa che poteva essere garantita unicamente salvaguardando la qualità. Il rifiuto della logica delle licenze dipendeva anche da questo, solo un controllo diretto sulla produzione poteva mettere a riparo dai rischi. Per l’alta moda il problema non si poneva, la confezione a mano su misura di ogni capo, ma anche l’esiguità della domanda in questo settore, consentono di fare ricorso agli artigiani di altissimo livello. Per gli altri comparti la soluzione non era così tradizionale, ma sono state trovate efficaci soluzioni. Solo per quanto riguarda gli occhiali si è fatto ricorso a un contratto di licenza, firmato nel 1999 con Luxottica. Ben presto il sistema Lagerfeld cominciò a essere mondo contemporaneo. La scelta di Ferré non era stata casuale, lo stilista italiano aveva cominciato lavorare nella moda dopo la laurea in architettura, prima collaborando con diverse aziende, poi dal 1978 con un marchio proprio. Il suo stile ebbe una rapida affermazione, fu uno degli stilisti che crearono la fama del prêt à porter made in Italy nel mondo. La consegna che gli fu assegnata al momento del primo contratto quadriennale come couturier della Maiosn era “faire di Dior”, doveva ridare alla Maison Dior quell’immagine di sogno meraviglioso e irraggiungibile che avevano avuto in passato. A luglio 1989, nel giardino della Fondazione Rothschild, fu proposta al pubblico la prima collezione haute couture dello stilista italiano, un omaggio a Christian Dior e il New Look. Fu un grande successo e il risultato più importante fu costituito dall’arrivo dei compratori americani e dalla ricomparsa dei modelli Dior nelle vetrine dei più importanti stores statunitensi. Il ritorno alle origini però non fu il tratto principale della progettazione di Ferrè, certamente ci fu un lavoro negli archivi da cui venne l’ispirazione per i modelli, decori e soluzioni sartoriali, ma soprattutto propose un proprio stile, una personale interpretazione del lusso e un ideale femminile che identificò con le clienti di Dior. Egli inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante in cui portò alla perfezione i codici del proprio linguaggio, la costruzione architettonica, le asimmetrie, le soluzioni geometriche impreviste, i tagli e i dettagli impeccabili, le camice bianche. Un lusso vistoso, barocco, dispendioso caratterizza invece la progettazione degli abiti da sera a cui fu demandato il compito di rinnovare il sogno. Ferrè e Maison Dior continuarono a rimanere legati alla tradizione elegante ed esclusiva del passato. La fine del rapporto si consumò nel 1996, le due ultime sfilate furono organizzate come feste di addio. John Galliano e l’haute couture A metà anni Novanta le ricerche di mercato segnalavano la presenza di un potenziale pubblico giovane e soprattutto nuovi ricchi provenienti da paesi che per la prima volta si affacciavano al consumo della moda e soprattutto del lusso. Per tutti loro la filosofia di Dior era poco attraente, così per portare un cambiamento di rotta venne scelto John Galliano come créateur di Christian Dior Couture. Era nato nel 1960 a Gibilterra, ma trasferito a Londra già alla metà del decennio, aveva seguito un regolare corso di studi e si era diplomato alla Central Saint Martins College of Arts and Design. Il gusto per il travestimento e per lo spettacolo era frutto delle sue esperienze nella Londra degli anni Ottanta, quella in cui la ribellione o la diversità giovanile si organizzavano in gruppi di strada, con modi di vestire e di decorare il corpo anarchici e sovversivi. Finita l’era punk, la scena fu occupata dal Neo Romantics, che si distingueva per la ricerca di una nuova eleganza piena di riferimenti al passato e di particolari bizzarri. A tutti ciò si aggiunse la scoperta del teatro e del valore dei costumi per la narrazione della storia. Galliano per pagarsi gli studi, lavorò come vestiarista al National Theatre. La sua prima collezione, quella per il diploma alla Saint Martins nel 1984, fu messa in scena come se fosse una performance, intitolata Les Incroyables, era stata ispirata da Danton prodotta da National Theatre, i modelli che sfilarono si atteggiavano come gli attori di una vera pièce. Tutto ciò era ben presente ad Arnault quando gli affidò la guida artistica di Givenchy. Le due collezioni di haute couture sconcertarono il pubblico delle sfilate, ma anche di Gianni Versace o Pierre Bergé e delle giornaliste più convinte del fatto che la moda aveva bisogno di un cambiamento. Il passaggio di Galliano alla Maison Dior fu ufficializzato nel 1996 all’inaugurazione della mostra dedicata a Dior dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. La prima sfilata haute couture si svolse a gennaio 1997 nel Salon Opéra del Grand Hotel, la collezione era principalmente un omaggio a Dior, in parte perché coincideva con il cinquantenario della prima sfilata, in parte perchè il “paradigma Lagerfeld” aveva ormai creato una tradizione che si ripeteva ogni volta che un nuovo stilista assumeva la direzione artistica di una vecchia maison. Questo tema però si intrecciava e si arricchiva con altri stimoli, più o meno attraenti, messi a confronto in maniera da costruire l’immagine di una femminilità nuova e più libera. Il patrimonio culturale della maison era riproposto in tante soluzioni diverse, dalla citazione diretta la semplice allusione trasfigurata. C’erano il tailleur “Bar” e alcuni abiti da ballo con il bustino aderente e l’ampia gonna, che riportavano in scena il New Look. C’erano pied-de-poule e il principe di Galles, ma anche i mughetti e le rose. Lo spunto esotico, introdotto dal disegno animalier dipinto sull’organza e il crêpe di seta più leggeri, tornavano nelle pettinature da sera, soprattutto però c’era un riferimento diretto all’africa colorata e altera dei guerrieri masai, i loro vistosi ornamenti di perline multicolore trasformavano radicalmente lo stile parigino dei modelli su cui furono indossati. Nella collezione successiva dedicata a Mata-Hari, all’Art Nouveau e alle donne simbolo del primo Novecento, lo stesso ruolo fu giocato da bijoux e anelli dorati paralleli ispirati alle donne ndebele dell’Africa dell’Est, chiamate “donne giraffe”. Il tratto multietnico della moda di Galliano era qualcosa di molto diverso dall’antico esotismo. Quella con cui il giovane stilista si presentò al pubblico di Dior era una nuova lingua, fatta di commistioni fra oggetti provenienti da culture e costumi differenti, tutto ciò faceva parte del bagaglio personale dei designer. Fu il primo passo verso la nuova immagine di Dior, il cappello con intagli tribali di figure umane creato da Stephen Johns fu usato per la pubblicità del rossetto Diorific, e nel 1999 il flacone di J’adore, il primo profumo dell’era Galliano, fu progettato ispirandosi alle collane africane. La scelta di sperimentare questa strada non doveva essere stata dettata solo da motivi di carattere culturale, ma piuttosto essere nata all’interno di un progetto di comunicazione spettacolare e di forte impatto sul pubblico. L’identità di Dior Il problema dell’identità di Dior e della sua individuazione immediata da parte del pubblico, era più complessa di quanto non fosse stata nel caso Chanel. Christian Dior aveva lavorato solo per dieci anni, troppo pochi per fossilizzare la sua idea di eleganza in icone immutabili. C’era la grafica che connotava la griffe, il décor stile Luigi XVI, il colore grigio perla e il motivo cannage per gli arredi, c’erano poi alcune costanti come i mughetti o la stella profumata e il disegno pied-de-poule, troppo poco per costruire un vero sistema di codici. Anche la sua moda aveva avuto temi ricorrenti, come la giacca aderente del tailleur “Bar” o la gonna a corolla, ma nel complesso era stata ricca d’innovazioni e di idee. Quella che doveva essere comunicata al pubblico non era una continuità di segni, ma di atteggiamento verso la moda e la società, una sorta di filosofia o di maniera di pensare. Dior era stato un grande innovatore che avevo osato cambiare il modello culturale in cui la moda faceva riferimento e con esso la maniera di vestire delle donne, la Maison Dior cinquant’anni dopo si ricollocava su questa strada maestra assumendo di nuovo il compito di guidare il cambiamento delle donne che si affacciavano al XXI secolo. C’era però un altro retaggio del patrimonio storico che doveva essere salvaguardato, il lusso e le sue declinazioni. Christian Dior aveva inventato un modello molto complesso che vedeva al centro il lusso assoluto ed esclusivo della couture, ma che si diramava poi per i mille rivoli delle licenze, per arrivare ad un pubblico più ampio. La nuova identità Dior doveva quindi essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po' trasgressivo, pensato per donne che volevano lo status symbol delle griffe, ma anche la sensazione di osare novità un po' eccentriche. Marketing e creatività Tutto questo fu sostenuto e guidato da un sistema di marketing che utilizzò per la comunicazione i canali ormai assodati della pubblicità e delle boutique monomarca. Le campagne pubblicitarie, presto affidate allo stesso Galliano e al fotografo Nick Knight, subirono un deciso cambiamento d’immagine per raggiugere un pubblico diverso da quello del passato. Lo stesso fu fatto per le boutique più importanti, che furono affidate a decoratori di grido e architetti come Peter Marino, per diventare vettori d’immagine. Il centro dell’intero progetto era comunque la moda, o meglio il potenziale creativo del direttore artistico, considerato parte della strategia di marketing, ma in modo particolare. Il centro della comunicazione diventava la sfilata. In questo quadro l’haute couture ritrovava uno spazio adeguato ai ritmi e ai modelli di consumo più moderni, il suo scopo era trasformare la moda in un grande spettacolo capace di calamitare l’attenzione di pubblico e media sul marchio. Era irrilevante il fatto che le mise di sfilata potessero essere ritenute importabili, non erano pensate per questo. La Maison inventò due sistemi di presentazione, che contemplava uno show eclatante, che implica la creazione dell’altra collezione destinata ai clienti, presentata su appuntamento, prodotta dagli atelier e progettata da John Galliano contemporaneamente a quella mostrata in passerella. I modelli della sfilata erano a disposizione delle celebrities, popolari personaggi del mondo dello spettacolo disposti a indossarli in occasioni mondane di particolare impatto mediatico. Questo ruolo liberava l’haute couture dalle tradizioni del passato e consentiva di salvarla come strumento di comunicazione di straordinaria forza e come laboratorio di ricerca. La Maison Dior aveva messo in discussione anche la sfilata del prêt à porter, il nuovo progetto gli attribuiva più valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale, e di solito appena mascherata da musica, regia e top model. A maggior parte delle vendite sarebbe stata fatta con le precollezioni, create appositamente per i compratori. Il défilé è un esercizio di stile sostenuto dai pezzi più complessi e più sofisticati della stagione. Era questo nucleo forte che doveva dare l’immagine della proposta Dior del momento e quindi veniva mostrato alla stampa il pubblico presente nella forma di un grande spettacolo, che attraverso i media sarebbe poi giunto il compratore finale. Lo stesso Galliano arrivava a far parte dello spettacolo sfilata come attore principale, non come semplice creatore, l’uscita finale, quella in cui lo stilista illuminato da un unico spot si presenta al pubblico per ricevere l’applauso al suo lavoro e ringraziare, fu trasformata in un colpo di scena in più. Galliano cominciò a offrirsi alla platea con i più bizzarri travestimenti, creando un clima di attesa quasi superiore quello che precedeva la collezione stessa. Utilizzare il breve attimo in cui tutti gli obiettivi sono puntati per immortalare l’immagine del creatore della collezione per moltiplicare l’effetto mediatico fu un’idea di grande comunicatore, era infatti del tutto prevedibile che i media non avrebbero perso l’occasione di trasformare l’ultimo travestimento di Galiano in una notizia. La sfilata spettacolo Il sistema fu messo a punto passo dopo passo e le filate haute couture di Galliano assunsero sempre più la forma di grandiosi spettacoli teatrali. Per la collezione primavera-estate 1998 Arnault mise a disposizione il grande salone e il foyer dell’Opéra di Parigi, trasformati in sala da ballo per rendere omaggio alla marchesa Luisa Casati. Annunciati da una pioggia di petali rosa, i modelli che sfilarono raccontavano, in un prologo e sei atti, la vita della marchesa. Una celebrazione grandiosa, con un finale emozionate sullo scalone d’onore del teatro, avvolto da un volo di farfalle di carta. In realtà gli abiti proposti dallo stilista non erano tutti così eccentrici e importabili, certamente c’erano dei veri e propri costumi teatrali, ma anche modelli sbieco o capi dal giorno di grande semplicità. Ciò che rendeva il tutto fuori norma erano la regia, il trucco, le pettinature, gli straordinari cappelli di Stephen Jones e la recitazione delle modelle. La collezione successiva fu un vero delirio creativo che travolse e lasciò esterrefatto il pubblico. Il titolo della collezione era “Principessa Pocahontas”, la prima scena era una banchina della Gare d’Austerlitz, l’arrivo di un antico e gigantesco treno a vapore su cui capeggiava la scritta “Diorient Express” diede inizio alla performance. Dal locomotore e dei vagoni cominciarono a scendere in modelle provenienti da diverse epoche storiche che si mescolavano a indiani d’America fra i quali fece la sua comparsa la principessa Pocahontas. La press release offriva la chiave di lettura di una presentazione che non rispettava nessuno dei canoni tradizionali delle sfilate di moda. lunga permanenza in Egitto produsse una collezione in cui le modelle erano acconciate come regine divinità dell’epoca dei faraoni, direttamente ispirate i bassorilievi del museo del Cairo, ma vestite con sontuosi abiti modellati sulla linea “H” del 1954. Non era più tempo di esaltazione del multiculturalismo, l’attentato alle Twin Towes del 2001 aveva aperto una frattura fra Occidente e Medio Oriente e la clientela americana dell’haute couture non avrebbe certamente apprezzato una sfilata ispirata agli indumenti dell’Egitto moderno. La successiva visita nella Mitteleuropa portò in passerella regine, imperatrice principesse delle famiglie che nel tempo avevano regnato sul vecchio continente. Corone e tiare inventate da Stephen Jones, messi in bilico su acconciature arruffate, vistosi monili più simili ai lampadari di Murano che ai gioielli della corona inglese completavano abiti da sera ricamati o dipinti con i più vistosi e noti emblemi del potere. C’erano tutti segni dell’antico lusso di corte, quello più esclusivo e di apparato, quello che rappresentava la distanza fra il potere regale ai sudditi attraverso abiti rigidi, smisurati e scomodi, che conferivano a chi li portava un incedere lento, grave e aulico. Alla fine del 2006, iniziò in modo sotterraneo una crisi economica, originata dai mutui subprime statunitensi. Esplose nell’estate successiva e colpì l’intero mercato creditizio e gli effetti si propagarono immediatamente in tutto il mondo. La dirigenza di Dior colse il mutamento molto prima che scoppiasse la crisi e si rese conto che era necessario inventare nuove strategie di impresa e rivedere sia l’aspetto creativo sia l’immagine del marchio attraverso un’attenta politica di marketing. Le “domane precise” che le nuove possibili clienti di Dior proponevano erano però tutte nella direzione dell’eleganza più ricercata, di un ritorno all’immagine più tradizionale della maison parigina. Era finito il tempo dell’eccentricità, dell’arroganza porno- chic, delle più audaci destrutturazioni. La clientela più interessante in quel momento sembrava essere costituita dalle ricche cinesi, desiderose di indossare modelli che sembra essere il più possibile usciti dalle stesse mani di Christian Dior. Anche ciò che rimaneva dei mercati americano, europeo giapponese chiedevo maggiore bon-ton. Ci si concentra sulla grande tradizione Dior, proponendo raffinate collezioni che rinnovavano l’antico chic parigino. Anche l’immagine si fece meno aggressiva, affidata al gusto di fotografi più tradizionali. E anche la maison Dior identificò infine la propria icona atemporale il tailleur “Bar”. Il “New New Look” fi John Galliano Il ritorno a Christian Dior fu celebrato il 3 luglio 2005 con una sfilata che sembrava un film biografico o un album di ricordi. L’occasione era il centesimo anniversario della nascita del couturier, ricordato anche da una mostra al museo a lui dedicato a Granville. La sceneggiatura prevedeva dieci sequenze, ognuna delle quali raccontava uno dei momenti che avevano segnato la vita il lavoro di Dior e che ne avevano creato il mito. L’introduzione era dedicata a Madeleine, l’elegantissima madre di Christian Dior, che dava inizio alla sfilata scendendo da un calesse insieme al figlio, entrambi vestiti nello stile Edward Jano di moda agli inizi del Novecento. La storia si trasferiva poi in Avenue Montigne per raccontare il lavoro di Dior. Si partiva dall’analisi del modo in cui fu messo a punto il suo famosissimo stile mostrando il procedimento che egli seguiva per realizzare un capo. Il primo capitolo presentava I passaggi sartoriali che accompagnavano la costruzione di modello in atelier, a partire dalle strutture nascoste di busti, imbottiture, tulle e crini, fino alle prove di tessuti, ricami, decorazioni. Veniva poi la presentazione delle collaboratrici di Dior, poi il risultato, in passerella sei modelli che offrivano un’esemplificazione delle possibili variazioni di tema, fino a comprendere alcuni accenni al Perù, meta del più recente viaggio di Galliano. Quindi le clienti celebri, le dive di Hollywood, sfilavano con altrettanti abiti da sera lunghi e splendenti di ricami. Seguivano poi le vere clienti della Maison, a cominciare dall’aristocrazia francese in abito da cocktail per passare alle debuttanti famose. A conclusione della sfilata, tre scene pensate per sottolineare il legame di continuità ideale fra Galliano e di oro, fra l’amore per i viaggi dell’uno e le passioni dell’altro. La prima era una rivisitazione delle ballerine di Degas vestite dei colori e dei materiali della tradizione andina, ispirate a Margot Fonteyn. La seconda era tributo al lavoro dell’atelier, quattro Catherinettes vestite di giallo e di verde per celebrare le tradizioni del “sainte Catherine, patrona delle petites mains della haute couture” cui il fondatore della Maison era molto affezionato. Infine un omaggio alla passione di Christian Dior per i balli mascherati. La collezione era frutto di un approfondito lavoro negli archivi della maison, che Galliano faceva risalire i suoi esordi in Avenue Montaigne. Il dialogo fra presente e passato era avvenuto ancora una volta e in grandissimo stile. Galliano aveva compiuto una rivisitazione che forse nessuno aveva osato fino a quel momento. Egli però l’aveva portata in passerella come proposta di moda e non come ricerca storica, era qualcosa di più di un omaggio compiuto rifacendo alcuni modelli del passato, in realtà si trattava di un revival in piena regola. I sessant’anni della Maison Dior L’evento fu celebrato in grande stile, con la pubblicazione di un monumentale coffee-table book firmato da Farid Chenoune, che per la prima volta prendeva in considerazione l’intera storia della casa parigina, una mostra al museo di Granville, l’ennesima ristrutturazione della boutique in Avenue Montaigne affidata a Peter Marino e l’haute couture alla reggia di Versailles seguita da un party a base di paella e musica gitana con oltre tremila invitati nei giardini Le Nôtre. L’organizzazione della sfilata all’Orangerie fu degna dell’occasione, con la sua candida passerella di centotrenta metri affiancata da due enormi cavalli bianchi ispirati a quelli della fortuna di Apollo, il simbolo del re Sole, un parallelismo tra Christian Dior e Luigi XVI. Come tema per la collezione Galliano aveva scelto due delle passioni del grande couturier, le feste in costume e l’arte. Ciascuno dei modelli presentati era ispirato un artista, a partire da quelli con cui Dior aveva lavorato per passare poi in rassegna interi a storia dell’arte. La sfilata fu accolta da un’ovazione e da commenti entusiastici da parte della stampa. In effetti si trattava di una collezione straordinaria che amalgamava alla perfezione obiettivi diversi, esaltare l’haute couture e la sua maestria professionale con modelli che solo i più grandi professionisti erano in grado di realizzare, offrire un’immagine assoluta del gusto per il teatro e i costumi che aveva sempre caratterizzato Galliano, rendere omaggio a Dior uscendo dagli stereotipi dei revival. C’era l’idea che la moda potesse rivaleggiare con l’arte e l’affermazione che il lusso della corte di Luigi XIV era tornato essere una realtà. Era la celebrazione del successo del progetto di Bernard Arnault. Galliano aveva creato qualcosa che andava oltre il normale prodotto haute couture e superava anche le sue performance precedenti. E non l’aveva dedicato a Dior, la collezione era un tributo alla memoria di Steven Robinson, il più stretto collaboratore di Galliano, morto a trentotto anni. Per lui lo stilista mise alla prova tutta la sua immaginazione teatrale, la sua capacità di giocare con i costumi per evocare epoche diverse e realizzò una sorta di sogno a occhi aperti, ridare vita all’arte, quella che entrambi avevano amato. Ma in questa favola c’era anche la morte fu rappresentata dalla Spagna. Per quella primavera Galiano aveva progettato insieme a Robinson il viaggio stagionale in Africa del nord e nella penisola iberica, lo fece da solo. L’obiettivo iniziale era una ricerca sull’influenza araba, ma l’Andalusia gli offri qualcosa che superava di gran lunga le bellezze della civiltà moresca. A Siviglia incontrò il torero Miguel Abelàn, fu un’esperienza che gli portò con sé a ritorno dal viaggio e che gli fece scoprire qualcosa di sé. Gallinao si rese conto che quell’antica sfida e la profonda consapevolezza della tragica prossimità di vita e morte, facevano parte della sua anima spagnola.
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