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storia delle teoriche del cinema, Appunti di Storia Del Cinema

Appunti integrate con slide e clip viste a lezione, tutto il materiale necessario per sostenere l'esame.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 18/04/2023

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Scarica storia delle teoriche del cinema e più Appunti in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! 1 Storia delle teoriche del cinema Lezione 1 – 22/09/2022 Il testo di studio è un testo di appoggio, dunque l’esame verterà prevalentemente sul contenuto delle lezioni. - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - George Demenÿ, 1892  era un ginnasta che conduceva anche esperimenti sulla scomposizione del movimento. Siamo in un momento in cui il cinema tecnicamente non è ancora nato (nascita 1895). «Quanti sarebbero felici se oggi potessero rivedere i tratti di una persona scomparsa. Il futuro sostituirà la fotografia immobile, irrigidita, con il ritratto animato al quale si potrà, con un giro di manovella, restituire la vita. Sarà possibile conservare l’espressione di una fisionomia come si conserva la voce in un fonografo. Per completare l’illusione, si potrà addirittura combinare quest’ultimo con il fonoscopio. Ormai non ci si limiterà più ad analizzare, si farà rivivere»  Questa frase ha in sé qualcosa di profetico: da una parte c’è un artista che lavora sull’analisi del movimento che ha ben presente cosa si può creare con la velocizzazione, dall’altro ci sono delle anticipazioni di alcune teorie. Idea della persona scomparsa, di poter rivedere il volto di qualcuno che non c’è più (complesso della mummia di Bazin), la comparazione tra la conservazione della voce nel fonografo e un mezzo che può invece restituire il visivo, la prefigurazione del cinema sonoro sincronizzato (accoppiando il fonoscopio potremmo avere un cinema che restituisce l’illusione). Il termine ILLUSIONE è molto importante. Clip di Lumière - Arrivo del treno alla stazione di La Ciotat  è interessante perché l’immagine del treno ritorna molto spesso nei primi momenti del cinema, è un elemento che in qualche modo simboleggia la modernità in quegli anni. È un filmato mitico. Ovviamente, chi vede questa scena a quell’epoca prova meraviglia e stupore. Questi 2 sentimenti, sono subito registrati anche dai cronisti che commentavano. Prima cosa: quest’idea del cinema che è la vita stessa, il reale stesso, sarà una delle grandi tendenze della teoria, colta immediatamente da questo recensore che si stupisce della qualità di vita presente in questo filmato, perché sorprendeva il movimento, qualcosa che nessuno aveva mai visto. Abbiamo (nel secondo) un passaggio in più, con il concetto di essere sopresi negli atti della vita, perché il cinema all’inizio è soprattutto questo. Inoltre, vi è il concetto della grandezza naturale, la grandezza e le dimensioni di ciò che vediamo. E ancora, il potere immaginistico di questa visione è tale che questo recensore vede i colori nel bianco e nero della pellicola. Lui parla, però, di ILLUSIONE, quindi non è la vita stessa, il movimento vero, la realtà, ma è illusione della vita reale. Il cinema all’epoca era realmente un fenomeno internazionale, poiché non essendo parlato poteva circolare 2 ovunque. Questa è una recensione dello stesso film a Bombay, in India. Qui abbiamo anche una consapevolezza tecnica di ciò che succedeva, cosa che nelle altre recensioni mancava; già circola nei discorsi sociali la consapevolezza della natura tecnica dell’illusione che stiamo vedendo. Prima esperienza cinematografica di un reporter cinese, qualche anno dopo. Ciò ci mette di fronte alla questione del riconoscimento dell’alterità, perché abbiamo un orientale di fronte agli occidentali. Aggiunge un tassello, quello dell’immersività, ossia di quello spettacolo che, grazie al buio, è immersivo come niente era mai stato: lo spettatore si sente presente nella scena, si identifica, e ciò dà una sensazione esilarante. C’è però sempre qualcuno che vede i limiti e i rischi di questo fenomeno. Maksim Gor’kij, famoso romanziere russo, nota subito quello che manca a questa rappresentazione affinché sia vita vera: mancano i colori della vita, il suono (della natura, dell’uomo, della città, ecc). Inoltre, egli non riesce a capire il fuori campo, poiché escono dal campo e spariscono. E poi, cosa molto importante, ci racconta le condizioni di fruizione, dunque ci dice che quello che noi siamo abituati a pensare del cinema (paghi il biglietto, entri in una sala buia con le poltrone con del cibo) nei primi anni del cinema non esisteva, quindi era un fenomeno da baraccone che si vedeva soprattutto nei bar, in condizioni moralmente discutibili (idea del vizio)  ci racconta di un cinema in cui la fruizione era distratta, perché intorno c’erano altri vizi (donne, film, sigarette) e la visione del film era qualcosa che faceva parte di un ambiente molto caotico e multiforme. Altro grande detrattore è Luis Gonzaga Urbina, scrittore e critico sudamericano che veniva mandato alle cronache degli eventi mondani; è fortemente critico, che chiamo il cinema “aggeggio”, termine che è spia di un atteggiamento  uno dei grossi problemi del cinema delle origini era che non era considerato all’altezza delle altre arti o degno di valore, anche perché aveva una natura tecnologica per cui sembrava che l’apporto umano fosse ininfluente. Anche qui, manca di colore. Abbiamo altre questioni, innanzitutto la questione sociale: nell’800 la borghesia è terrorizzata dalle masse popolari, il cinema però è un mezzo molto popolare, dunque molti intellettuali vedono con sospetto/terrore la possibilità che le masse popolari vi abbiano accesso. Inoltre, dice che per rivolgerti al cinema devi essere un bambino, dunque non capisce come persone educate possano apprezzare uno spettacolo così rozzo  panico morale (fenomeno sempre presente con la nascita di nuovi media). Dice inoltre che quel cinema era incomprensibile, dunque si vedevano anacronismi, narrazioni incoerenti, quindi ci restituisce la forma del cinema delle origini, che era un cinema molto incoerente, senza un reale modo di raccontare le cose. POSSIBILITÀ UTOPICHE VS. DEMONIZZAZIONE 5 visiva del cinema era forte anche per essi e che cambiavano di giorno in giorno (continuo cambio delle programmazioni). E ancora, vuole farci capire che, in realtà, il cinema non è mai stato muto, ma semplicemente sincronizzato. Altra cosa interessante è l’associazione del cinema con la modernità: il cinema è come il tram, qualcosa che rende più veloce e viva una città, rendendola più moderna (ancor più a Firenze, dove le tracce della storia sono molto forti). “ I filosofi, per quanto uomini ritirati e nemici del chiasso, farebbero molto male a lasciare codesti nuovi stabilimenti di passatempo alla semplice curiosità dei ragazzi, delle signore e degli uomini comuni” (La Stampa, 18 maggio 1907)  al cinema vanno persone facilmente impressionabili e gli intellettuali sbagliano a non cercare di capire questo fenomeno: per la prima volta ci si rende conto della valenza spettacolare e sociale del cinema, ma vi è anche un invito agli altri a considerare questo fenomeno, a non lasciarselo sfuggire e a cercare di capirlo. Bisognerebbe scoprire le cause, perché ci si rende conto che è possibile una nuova metafisica con l’avvento del cinema, perché cambia la nostra relazione con il vedere e il percepire il reale. Continuando nel suo discorso, sottolinea come il cinema sia emblema della modernità perché riassume la frenesia della modernità: è più breve, costa meno, ci vuole meno culturale e con gli stessi soldi si possono fare più cosa. Altra cosa che fa è quella di tendere a nobilitare le caratteristiche le cinema paragonandolo ad altre arti più importanti (come il teatro o il giornale), come fa ad esempio con l’idea di immersività (sala buia del cinema) che appartiene a Wagner  il paragone con il teatro è una costante e arriva a dire che per certi versi è migliore del teatro, mentre riconosce che per altri è inferiore. C’è una cosa fondamentale nel suo discorso: la potenza del cinema nel rendere la vastità dello spazio e la complessità del tempo  a teatro certe cose non si possono vedere perché mancano le condizioni fisiche, mentre al cinema sì. Idea del cinema bidimensionale che però crea l’illusione di realtà: se il teatro è migliore perché ce l’ha davvero, nel cinema la diamo per scontata perché è già passata la convenzione che ciò che vediamo è tridimensionale. Inoltre, idea che il cinema ci possa far vedere trucchi e trasformazione in modo più immediato rispetto al teatro e ad altre forme di spettacolo. Inoltre, idea del cinema come un’emozione fisica e sensoriale così forte da ricordare addirittura gli effetti di una droga e da tradurre in qualcosa di simile al sogno (qualcosa che avrà a che fare con surrealismo e teoria post-classica). Inoltre, paragona addirittura lo spettatore ad un’entità superiore. Enrico Thovez in “L’arte della celluloide” del 1908 (altro testo della stampa). “Se a dare un nome a un periodo di tempo è chiamata la creatura o l’idea che maggiore influenza ebbe sugli spiriti, che più profondamente dominò l’esistenza umana, si può anticipare fin da ora il giudizio: il secolo attuale […] sarà semplicemente il secolo del cinematografo. Poiché nessuna opera d’arte, invenzione scientifica, tendenza economica, speculazione ideale, forma di moda potrà contendere per vastità d’azione, profondità di penetrazione, universalità di consenso con l’umile cassetta di legno di cui un disgraziato, eretto su un trespolo nell’ombra di un retrobottega, gira la manovella e nella quale si svolge con un ronzio di arnia popolosa l’interminabile nastro di celluloide seminato di microscopiche immaginette» (La Stampa, 29 luglio1908)  all’inizio del 900, dunque, un intellettuale capiva che quello sarebbe stato il secolo del cinematografi, capisce che c’è veramente un cambiamento epistemico. Poi, verso la fine del primo decennio del 900 cominciano a nascere le prime riviste specializzate o meno, ad esempio Comoedia e Dramatic Mirror che sono riviste di teatro che cominciano a dedicare ampi spazi all’analisi del cinema. Ci sono anche riviste tecniche che si rivolgono a chi lavora nel cinema, oppure rivista di critica dei film, dei divi. Nell’ambito della stampa specializzata troviamo La Vita Cinematografica, 6 The Moving Picture World, Ciné-Journal. Bisogna considerare che in quegli anni, le riviste di cinema e il cinema stesso erano considerati beni di consumo, quindi non dovevano essere preservate o tramandate. Dunque, nascono queste riviste che parlano di cinema e di questioni tecniche, ma anche riviste dirette proprio agli spettatori: il senso è che il cinema era ormai diventato così tanto popolare che gli spettatori volevano saperne di più  il fenomeno del divismo cinematografico nasce attorno agli anni 10 perché comunque gli spettatori scrivevano alle case di produzione per avere informazioni sulle persone che interpretavano i ruoli, dunque quelle riviste svolgono il ruolo di mediazione tra un’esigenza del pubblico e l’assetto dell’industria (che capisce che deve puntare sui divi anche grazie alla mediazione delle riviste). Visione di 2 parti di un documentario presentato nel 2017 alla Mostra del cinema di Venezia, “Dawson city frozen time” di Bill Morrison  è realizzato con materiali di repertorio, found-footage, ossia cose e filmati trovati composti poi nel montaggio. Anche qui c’è metariflessione, in questo caso sulla materialità del cinema. In una cittadina conosciuta per i ricercatori di oro, mentre stanno costruendo un centro commerciale degli scavatori, negli anni 70, trovano una grandissima quantità di bobine di pellicole sottoterra, chiamano un conservatore che vede queste pellicole e ne recuperano una quantità enorme, da cui viene tratto questo documentario. La prima parte parla dell’arrivo del cinema come un’esplosione: concetto di cinema come esplosione. Nella seconda parte, invece, vi è un continuo cambiamento di immagini, da allegoriche/storiche a più didattiche tipo documentarie. Inoltre, la parte della fruizione è importante, ossia di funzionamento del pubblico: Morrison, tra le varie cose che mette in luce, usa immagini di pubblico per farci veder le persone che andavano al cinema. Ancora, da una parte c’è un valore di mediazione culturale del cinema fortissimo, dall’altra c’è il valore di indagine sul reale, dunque il cinema può servire anche agli scopi della scienza  questa cosa del cinema che vede con un occhio più approfondito e dettagliato di quello umano si trova nelle prime teorie del cinema in almeno 2 grandi teorici (cinema come microscopio o telescopio). Inoltre, ci fa vedere il cinema come qualcosa che racconta delle storie, testimonia avvenimenti importanti, ci racconta e fa vedere come siamo, mostrando anche cose che non potremmo mai vedere (cose molto piccole, cose infinitamente grandi, ecc). per ultimo, mette insieme una meditazione sulla storia del cinema con anche una storia di Dawson, dunque utilizza dei filmati trovati per raccontarci cos’era il cinema ma anche per raccontarci qual è stata la storia di quella città e come è stata trasformata dal cinema. Qui si apre la questione sull’uso documentale del cinema, cioè se sia possibile raccontare la storia attraverso il cinema e come. Lezione 2 – 23/09/2022 Subito dopo e nei primi anni dopo l’uscita e la nascita del cinematografo, ci si pone diverse questioni: Che cos’è? Cosa stiamo vedendo? Perché funziona così tanto? Qual è il segreto del suo successo? Come posso piazzare questo fenomeno all’interno di un’idea di cultura più canonizzata? Che cos’è la teoria? Bisogna partire dal presupposto che non è un insieme di assiomi, dunque di verità assolute, ma è un insieme di ipotesi e congetture molto spesso. • Una congettura con cui si cerca di cogliere il significato o il funzionamento di certi fenomeni (Karl Popper)  un’ipotesi, una congettura, che ci serve per cogliere senso e funzionamento dei fenomeni. • Un modo di vedere condiviso da una comunità di scienziati e considerato efficace (Thomas Kuhn)  affinché una teoria sia tale, non basta che ci sia un’ipotesi che cerca 7 di spiegare il fenomeno, ma questa ipotesi deve essere condivisa da una comunità ben precisa ed essere provata, considerata efficace. • Teoria (del cinema): «un insieme di assunti, più o meno organizzato, più o meno esplicito, più o meno vincolante, che serve da riferimento a un gruppo di studiosi per comprendere e spiegare in che cosa consiste il fenomeno in questione» (Francesco Casetti)  è un insieme di ipotesi, coerente, non per forza nascente da un chiaro impegno teorico, non per forza con un’influenza sul proprio tempo e sul futuro, che sia un riferimento per un gruppo e che serve per comprendere e spiegare il fenomeno in questione ossia il CINEMA. Dunque, crea una definizione che è al contempo precisissima e anche molto larga, in grado di contenere discorsi di diversissimo tipo. Dunque, Casetti scrive nel 1993 il libro “Teorie del cinema”, che si occupa prevalentemente di teorie dal 1945 (teorie post-classiche o moderne). La teoria si caratterizza perché si interessa ad un fenomeno complesso, nel nostro caso non si interessa dei singoli film ma del cinema nel suo complesso, delle sue strategie comunicative, dei suoi apparati, di come funziona il dispositivo, dei fenomeni di moda e di costume (come il divismo), delle ideologie e delle questioni politiche (come le teorie femministe)  ciò non significa che la teoria non si occupi di film (se ne occupa, a volta lo usa per esemplificare per un discorso più ampie, altre volte parte proprio dalla visione di un film), ma cerca di rispondere del perché e del come si determinano i fenomeni, perché di base si interessa a generare ipotesi complessive, cioè alla teoria non interessa capire perché un film piaccia o meno, come lavori un singolo autore, ma è interessata a definire un fenomeno complessivo spiegandone le ragioni e il funzionamento. Inoltre, la teoria può avere un approccio predittivo, ossia prevedere gli sviluppi sia del fenomeno che della teoria stessa: quando sviluppi un modello, questo, essendo un modello che spiega il fenomeno nella sua interezza, una volta che funziona ci può anche dire come il fenomeno si svilupperà e come la teoria stessa si svilupperà (diverso dalla critica). Però, una volta appurato che le teorie possono essere tutto ciò e avere quegli scopi, in realtà ci sono differenti atteggiamenti teorici (diversi atteggiamenti che un teorico può avere nei confronti dell’oggetto che studia):  Il cinema è… (indicazione di massima ed esemplificazione probante)  si cerca di dare un’indicazione di massima di che cosa sia il fenomeno e si trovano le prove di ciò che si pensa sia il cinema  Il cinema dovrebbe essere… (presa di posizione e l’auspicio motivato)  si cerca di dare un’indicazione di quello che dovrebbe essere il cinema, dunque si prende una posizione sul cinema e si auspica a cosa il cinema dovrebbe essere o a come si debba evolvere per diventare veramente quello che io penso che debba diventare)  Il cinema non può che essere… (proposta di tendenza e difesa d’ufficio)  approccio quasi di difesa del mezzo, andando ad evidenziare una caratteristica talmente forte da diventare lo specifico del cinema Questi 3 atteggiamenti sono quelli piuttosto comuni nelle teorie classiche. Poi, con lo sviluppo della teoria ci sono anche atteggiamenti un po’ più possibilisti e complesso  Il cinema appare essere… (indagine complessiva ed esplorazione sistematica)  le teorie moderne lavorano su ciò che il cinema sembra essere a seconda di come io lo interpreto: sistematicamente esploro il cinema e cerco di dire ciò che sembra 10 nei nomi che vengono dati alle cose qualcuno emerga come più giusto, importante e canonizzato. Il dibattito classico – sia che individui la peculiarità del cinema nel montaggio, nel ritmo, nella fotogenia, nel primo piano o nell’assenza di suono, dunque anche se si fissa sul singolo argomento – mira a cogliere l’essenza del cinema. Strettamente connessa a questo approccio essenzialista-ontologico è l’idea di specifico filmico, ossia quali sono quelle cose tipiche del cinema e solo di esso  tentativo di ricondurre il fenomeno cinema a un principio unico e peculiare, solo del cinema. Vi è una spiccata tendenza normativa: mentre le teorizzazioni moderne si limitano a cercare di descrivere il funzionamento del cinema, le teorizzazioni classiche pretendono di spiegare ai cineasti come dovrebbero operare (cfr. estetica, tendono di spiegare ai cineasti come deve funzionare il cinema e cosa devono fare per fare un buon cinema). Più che concentrarsi sulla metodologia come le teorie moderne (il punto di vista scelto per analizzare), i teorici classici alternano intuizioni personali, idee sulla nuova arte, asserzioni dal tono esclamativo (passionali sul cinema), volti lirici del tutto impressionistici e soggettivi: sono molto idiosincratiche, quindi vanno per illuminazione personale, per sensazioni ed emozioni. In queste teorie (e non più avanti), i soggetti responsabili di questi discorsi teorici sono anche e soprattutto cineasti, dunque soggetti che ruotano attorno al mondo del cinema (normale, in quanto non esistevano figure specializzate): carattere pratico, e non puramente speculativo, del periodo classico della teoria del cinema. VERSO LA TEORIA, ATTRAVERSO I FILM… Alcuni impulsi teorici nascono proprio dalla visione di alcuni particolari film, che cambiano la percezione di quello che è il cinema e dunque fanno porre nuove domande. Matilde Serao è stata una grande intellettuale, giornalista, scrittrice e la prima donna a dirigere un quotidiano nella storia d’Italia, con delle idee femministe (impegno per la valorizzazione del ruolo delle donne), di origini napoletane e cresciuta lì, che stava diventando insieme a Torino il fulcro del panorama cinematografico: crea un salotto culturale in una città che in quel momento era anche molto viva ed importante dal punto di vista cinematografico. Era una donna molto indipendente, con un atteggiamento molto critico nei confronti del fascismo. Nel 1908 scrive un testo che si chiama “Cinematografeide!”: «Come nasce un’epidemia? Come si sviluppa un morbo? Si ha un caso isolato, di quelli che i medici chiamano sporadici, e che impensieriscono pochissimi o nessuno: poi un altro, e due, e quattro, e a mano a mano il numero cresce, e l’allarme si propaga, finché il flagello impera, sovrano, finché il terrore vince gli animi di tutti e nessuno pensa più a sottrarvisi, e nessuno sa più mettersi in salvo… Così è avvenuto per tante cose, per tante manie […] Oggi, la suprema espressione della mania renzaiola di Napoli, il dernier cri del successo è dato dal cinematografo. […] E il cinematografo regna, e impera, e s’impone, e domina, e spadroneggia, e invade ogni cosa, la 11 mondanità, la beneficenza, l’arte, il teatro! […] E la macchina terribile, non contenta di aspettarvi in agguato nella sala semibuia, vien fuori alla luce del sole e vi colpisce in pieno movimento e vi coglie a tradimento, quando meno l’aspettate… Siete alla passeggiata della Dante? Ed ecco il cinematografo che vi sorprende a fare da cavalleresco cicerone ad una bella signora, e vi tramanda ai posteri mentre fate il farenella… Siete in villa, aspettando qualcuno? Ed ecco il cinematografo che ci piglia in pieno colloquio e immortala nei suoi films il vostro innocente flirt»  abbiamo un esempio di un testo non positivo nei confronti del cinema, che lo paragona ad un’epidemia che stava contagiando e danneggiando il corpo sociale. Vediamo un atteggiamento molto simile a quello di Papini, ma con una lettura completamente diversa; mentre per Papini era un fenomeno da indagare legato alla modernità, lei lo vede come qualcosa di potenzialmente pericoloso e fastidioso. Definisce il cinema come “macchina terribile”. Coglie un altro aspetto del cinema, ossia l’idea che ci sia non solo il rischio di essere colti alla sprovvista in questa sala semibuia ma anche di esserne colti fuori, dunque lei coglie la presenza del cinema nelle strade. Dunque, ci pone nuovamente il problema della rappresentazione dell’essere umano, della consapevolezza o meno di essere rappresentati: terrore di un mezzo che può riprenderci anche a nostra insaputa. Però, passano degli anni e siamo nel 1913, il cinema non è più lo stesso, non è più quella cosa che ti coglie alla sprovvista; cambia il cinema, si istituzionalizza, comincia a raccontare delle storie e si impone la forma del lungometraggio, quindi cambia anche l’atteggiamento di Matilde Serao, che sulla rivista che dirigeva scrive: «Orbene, niuna forma rappresentativa poteva mai dare una visione più palpitante, più completa, più vera, più bella di ciò che può essere il Quo vadis? vivente, se non quella, spinta sino al prodigio, della ricostruzione cinematografica. Lo spettacolo mirabile è stato compiuto. È stato compiuto dalla Cines, che da questo campo va rivoluzionando il mondo, ha conseguito risultati stupefacenti per non aver mai indietreggiato davanti ad alcuna difficoltà ed aver tenuto in alto conto la suprema bellezza dell’arte armonizzata nei grandi quadri viventi ch’essa lascia passare davanti agli sguardi estatici delle folle inebriate. […]. Ma, dopo un’organizzazione colossale, che sembra veramente una cosa fantastica nelle sue curiosità particolari; dopo una preparazione storica delle più scrupolose e una ricerca di luoghi adatti a raffigurare mirabilmente l’ambiente; e dopo aver fatto confezionare i costumi più ricchi e più fedeli e scelti gli elementi migliori fra artisti di ogni grado, anche fra i più celebri, e reclutata una massa di migliaia di persone, e spesa, come è facile comprendere, una somma enorme, il Quo vadis? ebbe la sua grandiosa e perfetta ricostruzione; e la vasta e impressionante tragedia neroniana passò dalla visione del libro all’evidenza reale e palpitante della sua azione e della sua vita. Tutta l’immensità del quadro magnifico, vario, pittoresco, sensazionale, tenebroso, sanguinario, spettacoloso, passa in una movimentazione fenomenica davanti allo spettatore. È uno spettacolo mai visto. La cinematografia non ha mai creato nulla di simile. Sì, è un mondo quello che la Cines ha ricostruito. […] Spettacolo nuovo, originale, sorprendente, d’una grandiosità non raggiunta mai, che noi vedremo presto al nostro Mercadante, ove tutte le cose sono prontamente reclutate. Napoli è una delle prime città che vedrà così il Quo vadis?. E che sarà la folla d’un tale avvenimento? E quale sarà mai il suo sconvolgimento e il suo delirio?»  cambia il cinema, si appoggia alla grande letteratura, cioè a qualcosa di più direttamente intellegibile - Quo vadis - ed arriva a dire che il cinema è la rappresentazione più perfetta di questo, è addirittura un prodigio. Intanto, lei conosce e spiega una situazione produttiva, ossia quella di Cines, ma poi ci dice tutte cose che ci comunicano che siamo già in una fase che tenta sempre di più di portare il cinema ai livelli dell’arte. La parola “colossale” ci riporta ai cosiddetti colossal dei nostri giorni: 12 il fatto che noi li chiamiamo così deriva dal fatto che questo termine era così usato per definire quei film che è entrato nel lessico comune, permettendo così la formalizzazione del genere colossal. Inoltre, questo brano è davvero di estetica più che di teoria; infatti, lei ci sta dicendo che affinché un film sia grande ed artistico serve preparazione storica, ricerca accurata, bei costumi, grandi investimenti economici e soprattutto la grandiosità. C’è nuovamente l’idea del cinema che crea dei mondi, attraverso un linguaggio istituzionale e lo sviluppo di una propensione narrativa. Inoltre, Serao dice anche qualcosa su Cabiria, ed è interessante perché il suo intervento inizia come una sorta di autoflagellazione, perché lei stessa poco prima parlava del cinema come morbo: «E tutti i più indifferenti, i più scettici, i più brontoloni, dovranno ammirare, ammireranno, quanta grandezza di poesia allarghi le misure di una comune proiezione e faccia di Cabiria qualche cosa di eccezionale, come sapiente unione come vasta unione di una graziosa e tenera storia di amor puro, di una possente istoria di passione, insieme agli avvenimenti più alti della lotta epica fra Roma e Cartagine […]. Tutti ammireranno tutti, anche quelli che non sanno la storia, giacché la rivedranno, in quadri vibranti di luce, di fiamma: ammireranno tutti coloro che sono ignoranti di cinematografia comprendendo che sia questo un tentativo sublime: e ammireranno, stupefatti, tutti coloro che conoscono il segreto del cinematografo e veggono e vedranno che tutti i segreti, in Cabiria, son stati sorpassati!»  innanzitutto, fin da subito si tenta di dare delle categorizzazioni dei film, e qui lei ci dice che cos’è effettivamente il colossal. Inoltre, torna di nuovo il valore di mediazione culturale del cinema, valore documentale. Ancora, interessante è il riferimento al fatto che esista un pubblico che già conosce il cinematografo, già scafato e che questo film è in grado di sorprendere perché supera gli altri. Questi 2 film sopra citati sono molto rilevanti tutt’oggi. “The Cheat”, invece, non è un film che per noi ha chissà che significato, ma nel momento della sua uscita a Parigi ha una rilevanza culturale incredibile. Colette, attivista e intellettuale, nel 1916 vede questo film e scrive: «A Parigi questa settimana, un cinematografo diventa una scuola d’arte. Un film e due fra gli interpreti principali ci insegnano come si possa arricchire il romanzo cinematografico di novità appassionante, emozione, luci naturali o artefatte. Ogni sera scrittori, pittori, compositori e autori drammatici tornano a sedersi, a contemplare sottovoce, come allievi. Un concorso di felici risultati, è questo che ci cattura e trattiene per tutta la durata del film? Oppure il piacere, più profondo e confuso, di vedere incamminarsi verso la perfezione, il “ciné” sprecato, il piacere di indovinare ciò che sarà il cinema futuro»  nuovamente, idea di equiparare le questioni artistiche al cinema, dandogli addirittura un valore di insegnamento rispetto all’arte. Siamo già in un momento in cui sappiamo che il cinema racconta delle storie, tant’è che chiama il cinema “romanzo cinematografico”. Qui abbiamo un discorso di estetica che diventa normativo e predittivo, cioè il cinema finora era un mezzo potentissimo che non veniva utilizzato nel suo pieno potenziale e dunque sprecato, ma se passa attraverso l’uso artistico del mezzo (uso fatto di recitazione, luci, ecc) finalmente non sarà più sprecato e ci farà vedere anche quello che sarà un giorno il cinema del futuro. Anche Louis Delluc ha visto questo film, e attraverso questa visione sviluppa quella che sarà poi la sua invenzione. Nel 1919 scrive: «Il cinema l’ho detestato. Ah, come l’ho detestato il cinema! Prima della guerra non ci andavo mai, se non perché costretto… Di tanto in tanto mi lasciavo trascinare in qualche sala di boulevard da attori che volevano vedersi. Per cui assistevo unicamente 15 però un teatro nuovo/moderno, sembrava di essere in un tempio: però, lo spirito delle facce che voleva vedere non era religioso  pubblico fatto da popolani rudi e piccoli borghesi, che però per lui in questo ambiente così circonfuso di ritualità sembrano degli artisti (visione molto positiva di questo nuovo rituale). Dice che queste persone non hanno più quella fede religiosa, ma cercano una forma nuova e profetica di spirito del tempio: per Canudo, il teatro era il luogo della partecipazione emotiva e del coinvolgimento, mentre il museo quello della contemplazione  per lui, il cinema è qualcosa che fa propria la dimensione duale che unisce lo spirito contemplativo alla partecipazione emotiva (superamento). Vi è spesso un’esaltazione del ruolo e della modernità di questa nuova forma espressiva (non ancora forma d’arte). Canudo si definisce un musicalista, dunque per lui la musica è la forma suprema dell’arte: dice che questo popolo sembrano artisti che aspettano la musica, dunque la forma estrema, ma lui non vuole parlare di questo ma di quello che il cinematografo dà a uomini nuovi. Idea della velocità come idea del moderno: cinema come tempio spirituale della dea della velocità. Dice che non possiamo saperlo, ma i nuovi santi saranno i creatori di armonie estetiche, gli eroi del ritmo. Per lui, la musica è ancora la forma più alta perché è simile alla conoscenza sintetica, che secondo Canudo è Dio (ha avuto periodi di forte crisi di spiritualismo, è un soggetto profondamente religioso in cui lo spirito religioso è tanto importante quanto quello artistico)  fa una storia delle religioni in cui dice che nell’era greco-romana la religione erano le statue, mentre per la religione cristiana cattolica è la pittura, mentre la musica sarà l’arte sacra della modernità. Per Canudo, la cosa essenziale è l’azione, la parossistica dell’azione, che è l’indizio dell’arte nuova: per lui, a questo stadio, il cinema non è ancora arte (è ancora cinema attrazionale) ma è l’indizio dell’arte nuova. Per lui, inoltre, è quasi incredibile come tutti i popoli, senza distinzione storica o geografica, abbiano sempre concepito l’arte in queste 5 forme, ossia la musica con il suo completamento che è la poesia e l’architettura con la pittura e la scultura  dice che è inconcepibile una sesta arte (sarà una conciliazione tra lo spazio ed il tempo), però non si nasconde e dice che non si può nascondere che ci fosse già stata un’arte in grado di farlo ossia il teatro: però, si ribatte da solo in queste espressione e dice che l’arte plastica in questione (teatro) dipende dal corpo degli attori e dunque è impossibile fissarla, non è come la scultura o la pittura che sono fissate in uno spazio. Ciò che dice è che in quel momento l’arte è favolosa e grottesca, riferendosi al cinema di quel tempo, però un genio potrebbe compiere questo passaggio e farla diventare un’arte plastica in movimento. Dice, inoltre, che il cinema ha due aspetti: uno simbolico e uno reale. Ripete più volte il concetto di cinema associato a quello di velocità  non è solo simbolica la velocità, ma è anche il simbolo istruttivo: per Canudo, quest’idea di mediazione del cinema non è solo di tipo culturale (cioè vedere qualcosa che non posso vedere) ma per lui il cinema è fisicamente qualcosa che riduce le distanza (idea delle velocità del cinema intesa come riduzione delle distanze tra spettatore e parti del mondo a cui non avrebbe accesso)  il cinema riduce le distanza come lo fanno i treni. L’aspetto reale riguarda il pubblico, ossessione di questo periodo, poiché si parla sempre delle reazioni che il pubblico ha di fronte al cinema. Lui ce l’ha con il teatro borghese, ottocentesco, molto scritto e da camere, in cui spesso le storie sono familiari, e dice che il pubblico è stanco di ciò dunque vorrebbe un teatro nuovo, una rinascita dell’istituzione tragica, il teatro dei poeti, ma non solo: Canudo coglie l’idea dannunziana del teatro all’aperto come rinascita della tragedia, lo vede come naturale evoluzione del teatro (cosa che non succederà, in quanto non possibile fare teatro fuori dal luogo stesso istituito a questo fine) e dunque, vedendo il pubblico stanco del teatro presente, cerca questa nuova forma espressiva che dà conto della vita e di tragedie più grandi nel cinematografo. Dunque, idea del cinema come forma di teatro più evoluta, che in qualche modo anticipa la forma del teatro scientifico: questo teatro 16 è scientifico, perché Canudo è molto interessato all’aspetto scientifico e tecnico del cinema, lontana dall’estetica pura e semplice del teatro. Il fatto di individuare in una forma espressiva dei generi, cioè delle forme particolari all’interno della stessa forma espressiva, è un atto teorico embrionale (oggi abbiamo un’idea dei generi come fondati su una ripetizione di elementi uniti da strutture che anch’esse si ripetono a livello narrativo): Canudo, così come gli altri, cercavano di capire in che generi fosse diviso questo nuovo oggetto, ossia il cinematografo  lui guarda da una parte il tipo di emozione che compare nei film e dell’altra il tono di questi film, e stabilisce due estremi che sono il comicissimo e l’emozionatissimo. L’arte non deve rappresentare la vita ma una stilizzazione della vita, e tanto più l’arte è arte, nella misura in cui stilizza, coglie degli aspetti essenziali: per lui l’arte è questa stilizzazione della vita, e le arti precedenti lo facevano ma avevano dell’immobilità nonostante ci sia sempre stato il tentativo di rappresentare il movimento, e solo il cinema riesce davvero a cogliere questo movimento  prospettiva teleologica (arte come pantomima), poiché non solo in cinema è una nuova forma migliore di teatro, ma anche una forma migliore di arte, non solo perché sintetizzi i ritmi del tempo e quelli dello spazio, ma anche perché riesce a fare quello che non era mai stato fatto, ossia rendere il movimento. Però, non è ancora arte ma potrà esserlo proprio per questo motivo. Inoltre, in modo ingenuo, fa una distinzione tra mente occidentale e quella orientale (poi superata). Lui dice che il cinema non è ancora arte, perché gli manca l’interpretazione: è ancora convinto che la fotografia sia semplicemente una copia (in realtà è un discorso ingenuo), dunque nel 1908 crede che non ci sia ancora quell’interpretazione della realtà che renderebbe il cinematografo arte  l’arte è semmai in ciò che c’è davanti, perché è solo luce che si fissa su un supporto, dunque il cinema non è arte ma la prima cosa di un’arte nuova. Dice che per ora c’è la volontà di organizzazione estetica, ma di fatto è documentazione. Fa anche delle intuizioni sul cinema, come ad esempio il futuro coinvolgimento di D’Annunzio nel cinema: questo tipo di coinvolgimento serviva sia a livello industriale, perché servivano persone che sapessero scrivere storia, sia a livello di mobilitazione dell’arte, dunque lui vede questo fenomeno ed essendo il cinema qualcosa che paga di più, saranno molti i geni dell’arte che vorranno approfittare di questa situazione. Dice che il fine del teatro, in qualche modo, era quello di rappresentare la vita, che da Shakespeare in poi si toglie la musica (cosa completamente sbagliata per lui, perché è l’arte suprema), che questa cosa rende il teatro un’arte degenerata: aggiunge che il cinema inteso come teatro senza musica non è più assurdo, se riproduce la vita effimera e ne copia, fissandoli, alcuni aspetti ossia l’anima profonda  da una parte c’è il teatro che cerca di rappresentare la vita e per farlo toglie la musica, facendolo però degenerare in una forma che non è più arte, dall’altra parte il cinema, pur essendo senza musica (in quanto in questi anni è muto), siccome riproduce la vita effimera, ne fissa alcuni aspetti e quindi è in grado di stilizzare la vita, non è più degenerata, ma è giusto che sia senza musica. “Ma il Cinematografo aggiunge l'elemento della rapidità assolutamente precisa e rileva però una gioia nuova, che proviene dalla sicurezza che ha lo spettatore, della massima precisione dello spettacolo. Difatti, nessuno degli attori che si muovono sulla scena illusoria mancherà alla sua parte, e mancherà di un solo attimo allo svolgimento di esse. Tutto è regolato con movimento di orologeria. Tutta la vita si rivela regolata da un ritmo di orologeria: è il trionfo del principio scientifico moderno, del nuovo dominio di Ahriman, sovrano, del pensiero manicheo, della meccanica de mondo. (...)”  All’occhio fotografico realizzato dal cinematografo si aggiunge la rapidità. Elemento della precisione del cinema, non c’è un attore che può cambiare. Ahriman è il dio della religione persiana, dio del male, che però teneva in mano la meccanica celeste (anticipazione dello sviluppo del pensiero di Canudo). Però, negli anni 10 cambiano le cose: comincia a cambiare il cinema, si passa dal modo di rappresentazione primitivo a quello istituzionale, il cinema diventa narrativo e finzionale, dunque diventa sempre più importante anche per i commentatori cercare di 17 capire come funziona. Nascono le riviste “indipendenti” orientate alla riflessione estetico-teorica: non più solo riviste che parlano di gossip o divi, di tecnica, di teatro, ecc, ma proprio riviste specifiche, ad es. «Le Film» in Francia, «Apollon» in Italia. Inoltre, da questo momento vi è un ampio spazio al cinema su stampa quotidiana e periodici letterari e culturali; la presenza del cinema su stampa e periodici non è più effimera ed occasionale, ma diventa massiccia, come una presenza fissa. È anche il periodo in cui nascono i primi libri di tipo speculativo, soprattutto negli USA, che hanno proprio un istinto teorico rispetto al cinema: l’America del nord è molto attiva in questi anni a livello di produzione teorica, ma poi scompare dal dibattitto per quasi 40 anni (si sposta in Francia, Unione Sovietica e Germania). Questi tipi di testi sono molti, nessuno di questi ha immediato riscontro nei decenni successivi (non hanno eredità successivamente) tranne un libro di Münsterberg che verrà ripubblicato negli anni 70, ripreso e considerato anticipatore delle teorie nuove degli anni 70. Dunque, questi discorsi si fanno sempre più complessi e approfonditi: non sono più basati su impressioni personali o idiosincratici (quindi non più come quelli di Canudo). Ovviamente, in questa fase c’è un primato della dimensione estetica del cinema, cioè siamo in una fase in cui dobbiamo ancora dimostrare che il cinema è arte, dunque dobbiamo parlare di come funziona a livello estetico. Inoltre, essendo un arte nuova che non ha termini per essere descritta, accade che viene spesso usato il metodo comparativo e la prima forma di comparazione è con il teatro. Di questi testi, uno dei più famosi è quello di VACHEL LINDSAY (1879-1931), “The Art Of The Moving Picture” (1915)  è molto simile a Canudo, ma molto più triste. È un poeta visionario che performava le proprie poesia, le cantava in giro per l’America, definiva la sua poesia una singing poetry con commistione di poesia e canzone, aveva un interesse per le arti figurative. Il suo interesse per il cinema nasce proprio dagli studi di pittura a Chicago, infatti ha scritto questo libro che è l’unico sul cinema. La sua vita è sempre dominata da questioni di riconoscimento, non era mai soddisfatto del suo riconoscimento come arista, con molti problemi di soldi. Si suicida per le difficoltà della vita, dunque è un personaggio anche molto tragica. Criticato per la sua visione su determinati temi, soprattutto sui popoli africani. Scrive questo libro sul cinema che, come spesso accade nei testi di questo periodo, è un mix tra storia di vita personale, aneddoti, speculazioni su letteratura e cinema, dunque con carattere impressionistico (basato su impressioni e obiezioni, senza un lavoro adeguato dal punto di vista analitico o storico) e poco sistematico: è però interessante ciò che fa, perché finalmente in un testo compiuto, nonostante sia un testo bizzarro, promuove l’indagine del cinema aldilà delle polemiche di tipo giornalistico (sulle funzioni o correttezza), gettando le fondamenta di gran parte della riflessione estetica americana, determinandone i presupposti di partenza. Inizia con un appello ai letterati (cfr. Papini) e difende il carattere popolare del cinema come “arte democratica”, per tutti, definendola il nuovo “geroglifico americano”, una sorta di rappresentazione tangibile dello spirito del suo tempo (proprio per il suo carattere popolare, per la capacità di intercettare ampie fasce della compagine sociale. Come Canudo, in maniera più approfondita, fa un’elaborazione sui generi del cinema, in base non alla struttura ma ai contenuti e al tono  divide il cinema in 3 macrogeneri: cinema d’azione, di intimità e di splendore. Il libro è stato tradotto e ripubblicato. Il cinema d’azione, da lui chiamato action photoplay, è un cinema fondamentalmente dell’inseguimento: “il photoplay […] può riprodurre una corsa più gioiosamente del palcoscenico. Su questo fatto si basa l'opportunità di questa forma (assolutamente contemporanea, 20 un libro molto complesso, incentrato su du assi: 1) rapporti tra funzionamento del cinema e l’attività della mente umana; 2) requisiti estetici della rappresentazione cinematografica (estetica sempre uno dei perni della teoria). Avrà influenza quasi nulla nella sua epoca, anticipa però molti temi sviluppati successivamente (dopo gli anni 70). Aveva un base filosofica neokantiana e lavorava sulla psicologia percettiva, e attraverso queste due impostazioni teoriche affronta il cinema. Un aspetto interessante, che lo differenzia dai suoi contemporanei, è che ha un corpus relativamente piccolo di film perché non andava al cinema, ma fa un lavoro molto astratto sulle rappresentazioni cinematografiche e non sui film  capisce una cosa a cui nessuno era ancora arrivato in quegli anni, dunque capisce che il cinema è “arte della soggettività”, imita i modi in cui la conoscenza dà forma al mondo fenomenico; scopre che la relazione può non essere tra cinema e realtà, ma tra cinema e forme della mente, forme attraverso cui la mente umana dà forma alla realtà. Nell’introduzione a Photoplay fa anche un minimo di storia del cinema, dove individua gli “sviluppi esterni” del cinema (progressione tecnologica dai macchinari del pre- cinema ai veri film) e “crescita interna” (piano estetico e tematico)  nel suo caso, a differenza di Canudo, non si tratta di teleologia, ma semplicemente (per quanto riguarda gli sviluppi esterni) registra gli sviluppi tecnologici in senso storico, e inoltre parallelamente agli sviluppi tecnologici, il cinema si sviluppa anche dal punto di vista estetico e dei temi trattati. A lui interessa soprattutto la crescita interna, i progressi del linguaggio: all’inizio della storia del cinema, il pubblico è interessato alla precisione con cui la macchina da presa rendeva reale il movimento (pieno momento del cinema delle attrazioni, quindi pubblico interessato allo stupore della resa del movimento). Poi, è attratto dalla realtà registrata (documentari, attualità): il pubblico non è più abituato alla novità tecnologica, ma al valore documentale (visione della realtà registrata). In seguito, la “crescita interna” del cinema lo ha convertito alla finzione (siamo nel 1916): al pubblico interessa l’aspetto narrativo e finzionale e dunque ciò fa del cinema un reale sostituto del teatro. Ma, in realtà, vi è un impiego di spazio e tempo che trascende la drammaturgia teatrale, grazie a mezzi specifici (primo piano, montaggio, effetti speciali, …)  abbiamo per la prima volta un teorico che si occupa dello specifico cinematografico, utilizzando però l’analisi del mezzo (queste sono le cose che differenziano il cinema dalle altre arti) e abbiamo un’analisi non basata su idee astratte o fislofiche, ma che hanno davvero a che fare con specifiche tecniche e linguistiche del mezzo. Nella seconda parte, poi, lavora sulla questione delle differenze tra cinema e teatro: i fattori che differenziano (in senso negativo) il cinema dal teatro sono l’assenza della parola, l’assenza della REALE profondità (il cinema lavora sulla dimensione), l’assenza del colore  questi non sono proprio limiti per lui, ma delle opportunità, anche perché comunque ha delle caratteristiche specifiche che non hanno similarità con il teatro: rendere interamente l’azione in ambienti reali, rappresentazione di eventi “impossibili” attraverso i trucchi cinematografici, svincolarsi dal tempo reale (lavoro sulla velocità di scorrimento della pellicola), facilità e rapidità dei cambi di scena, alternare azioni che si svolgono in luoghi diversi, legare movimenti interrotti (un movimento che inizia in un’inquadratura si può legare in modo indissolubile ad un movimento dell’inquadratura dopo), ingrandire i dettagli (primo piano). Qui si nota l’importanza del MONTAGGIO, come si evince soprattutto dagli ultimi 4 punti, che tuttavia non è ancora riconosciuto all’epoca come procedimento specifico (quindi non ne parla ancora in modo così chiaro): dunque, identifica già nel montaggio lo specifico del cinema. Questi sette fattori rendono il cinema una nuova arte «che da lungo tempo ha superato la semplice riproduzione filmica del teatro e che deve essere riconosciuta nella sua indipendenza estetica»; arte che è già tale, che non è più teatro filmato e 21 proprio per questo deve essere riconosciuta come indipendente dal punto di vista estetico. Inoltre, per lui il cinema è un’arte essenzialmente visiva: la chiave della differenzialità del cinema rispetto alle altre arti, è la sua natura essenzialmente visiva, quindi l’idea della purezza della visione cinematografica  contro le didascalie che privano il cinema della sua vera natura di rendere tutto a livello visivo, contro effetti sonori puntuali del rumorista, contro il sonoro sincronizzato (allora troppo simile al vero teatro). «I limiti di un’arte sono in realtà anche la sua forza e oltrepassarli significa indebolirla», cioè il limite dell’arte (non avere parola, profondità) è anche la forza del cinema, quindi trovare espedienti per superarlo è anche indebolire la purezza di quell’arte. Contro il colore, che disturba quella «noncuranza della realtà», quella consapevolezza della irrealtà di paesaggi e persone, che è centro del «gusto singolare dell’arte cinematografica»  ciò che per lui è importante è che quando vediamo il film, ci disinteressiamo della realtà, dunque in qualche modo anticipa la riflessione di Arnheim per cui le forme artistiche devono avere una sola forma espressiva, devono semplificare l’esperienza percettiva reale. Diversamente dal teatro, il cinema genera piacere trionfando CONTRO i principi materiali: non è la materialità la cosa importante, ma siccome il cinema è un’arte che deve astrarre, non curarsi della realtà e semplificare la visione, questa distanza dalla realtà FISICA colloca il cinema nella sfera del mentale, quindi abbiamo un passaggio molto importante (vicino all’idealismo filosofico)  il cinema rielabora la realtà tridimensionale in base alle “leggi del pensiero”, quindi «Il mondo oggettivo è plasmato dagli interessi della mente». Nella prima parte del libro, che si chiama “La psicologia del film”, vede quali sono i mezzi attraverso cui il FILM (oggetto film) influenza la mente dello spettatore, ponendo attenzione sui processi mentali attivati nel pubblico dalla visione di un film, poiché quando il pubblico vede un film si attivano dei processi mentali. Vi sono diverse questioni fondamentali. 1. Questione della profondità dell’immagine cinematografica (assenza di reale tridimensionalità)  lo spettatore è consapevole della bidimensionalità, ma il cinema produce ILLUSIONE di profondità, dunque vi è una relazione conflittuale dello spettatore con questa illusione poiché non si dimentica mai di star vedendo qualcosa di bidimensionale, eppure accetta che ciò sta vedendo sia tridimensionale 2. Questione del movimento  l’illusione del movimento deriva NON SOLO dalla persistenza retinica (cioè dal fatto che le immagini persistono per qualche decimo di secondo nella retina e quindi vediamo il movimento), ma dalla necessità di una complessa elaborazione psicologica, un «atto mentale superiore» (fenomeno PHI). Lo spettatore mette in atto un atto mentale superiore che permette di concepire il movimento, di vedere da delle foto unite e velocizzate un movimento 3. Problema dell’attenzione  esistono due attenzioni per lui, volontaria (lo spettatore volontariamente sta attento a ciò che vede sullo schermo) vs. involontaria (meccanismi tecno-linguistici attraverso cui il cinema dirotta e guida l’attenzione dello spettatore). In questo senso, per lui ha molta importanza il primo piano, attraverso cui si orienta l’attenzione su qualcosa/qualcuno, e parla anche di funzione informativa del primo piano (può sostituire le didascalie). 4. Questione della memoria  per la prima volta descrive il flashback (da lui chiamato cut-back), come «oggettivazione delle funzioni della memoria», dunque se il primo piano oggettiva le funzioni dell’attenzione, il flashback è il ricordo, cioè rende possibile nel cinema la resa visiva del ricordo così come avviene nella mente umana. Descrive una serie di artifici retorici (dissolvenze 22 incrociate, personaggio che parla che ci fa capire che sarà un ricordo) e due varietà “narrative” per ottenere il flashback e dunque ottenere il ricordo: da una parte il flashback che compare senza mediazioni nella narrazione, nel film, solo con mediazioni visive (es. dissolvenza) oppure un flashback raccontato, dunque il personaggio che racconta e vediamo il suo ricordo. Per lui è più interessante quello diretto, perché è proprio il modo in cui funziona la mente umana (pensiamo a qualcosa e alla nostra mente arriva un ricordo). Per lui, inoltre, il flashback è in grado di rappresentare immagini oniriche, del sonno, e fantasie mentali del personaggio 5. Questione delle emozioni  esistono due tipi di emozioni per lui, quella dei personaggi (veicolata da recitazione+tecnica) e quella degli spettatori (partecipazione, proiezione, identificazione con personaggi e storia). Per lui le emozioni sono suscitate SOLO dalla tecnica (es. ralenti, movimenti, ecc. sono quello che muove davvero le emozioni nello spettatore) Dunque, ciò che egli fa davvero è porre l’enfasi sullo SPETTATORE ATTIVO, che percepisce la bidimensionalità ma legge la tridimensionalità, quindi compensa le lacune del film utilizzando le proprie risorse intellettive ed emotive  lo spettatore accetta le impressioni della profondità dell’immagine cinematografica (anticipa ILLUSIONE REFERENZIALE di Barthes), perché mette in atto un meccanismo mentale che gli fa leggere la tridimensionalità laddove invece non c’è. Inoltre, alcuni interpreti di Münsterberg, portano all’estremo la sua teoria, dicendo che per lui il film esiste non esiste sulla celluloide (quindi non esiste sulla nessuna parte, esistono solo i fotogrammi) ma nella mente dello spettatore  negli anni 80, viene ripresa dalle teorie dell’accoglienza che dicono che i testi non esistono davvero se non c’è uno spettatore che li capisce e più avanti anche gli studi culturali, per cui non esiste uno spettatore creato dal testo. Ancora, lui anticipa il cognitivismo, perché si preoccupa di porre attenzione al processo per cui la mente dà senso cinetico a immagini statiche (fenomeno PHI). Questo però fa sì anche che vi sia una contraddizione interna: lo spettatore è attivo (produce in qualche modo il testo, partecipa del processo di significazione del testo, ci mette del suo, produce atti mentali per dare senso al fil,) o interamente costruito dal film (che simula i suoi processi mentali e quindi si sostituisce a esso)? Nella seconda parte del libro c’è l’analisi estetica che, sulla base del fatto che il cinema deve essere pura visione e semplificare la realtà ad una sola forma espressiva, si preoccupa di vedere quali sono le questioni estetiche che fanno del film un’opera d’arte. Fondata sull’assunto che i mezzi del cinema ricalcano il funzionamento della nostra mente e questa caratteristica è peculiare del cinema e lo differenzia dal teatro. Scopo del cinema è offrire una rappresentazione drammatica che si articoli non secondo i parametri della realtà esterna: «Il film racconta la storia umana superando le forme della realtà, cioè lo spazio, il tempo e la causalità, adattando quindi gli avvenimenti alle forme della sua realtà, cioè l’attenzione, la memoria, la fantasia e l’emozione»  causalità significa per lui causalità reale, il movimento causale, e per lui il cinema la supera perché può spezzettare il movimento in inquadrature (quel movimento non sarà mai vero in quella causalità, ma sarà sempre spezzato). I suoi mezzi specifici sono primo piano, flashback, flashforward, immagini mentali, montaggio alternato, ecc. Quindi, l’immagine da cinema che ci viene data da lui è un po' in tensione estetica, come se guardasse due mondi completamente diversi: da un lato aspira ad un’unità di storia e rappresentazione pittorica, isolata dal mondo tangibile (Hollywood, un mondo a sé), dall’altro aspira alla libera rappresentazione delle esperienze mentali (film artistici, già perfettamente sviluppati in quel periodo). 25 prevalentemente alla relazione tra cinema e realtà (Delluc, Moussinac), mentre dall’altra vi sono autori che sono convinti che il cinema debba distaccarsi del tutto dalla realtà ed essere legato ad esempio alla resa dell’immaginario, dunque con una tendenza impressionista (Canudo, Dulac). Inoltre, in Francia, vi è un uso frequente del termine cinégraphie, ossia cinegrafia, e quasi tutti gli autori hanno la tendenza a considerare il cinema come una forma di scrittura, in primis Canudo (anticipano la cine-lingua dei sovietici) La seconda fase, invece, va dal 1925 al 1929. Le opposizioni della prima fase, in questa seconda fase degli anni 20 rimangono praticamente le stesse, ma si polarizzano molto, dunque vi è una maggiore polarizzazione del discorso estetico- teorico, mantenendo temi simili a quelli della fase precedente  diventa fondamentale questa opposizione tra realismo e impressionismo, sia nella teoria che nella produzione cinematografica, e nasce/si rafforza l’opposizione tra cinema narrativo e cinema puro Dunque, questi anni Venti in Francia vedono un dibattito estremamente complesso e articolato (scuola nazionale non vuol dire che tutti vedano la stessa cosa, anzi c’è un dibattito molto forte). Vi sono, però, due momenti particolarmente significativi: la nozione di “fotogenia” (i due interpreti principali sono Delluc, Epstein), nella prima metà, e la diffusione della moda della comparazione cinema e musica (non più tra cinema e teatro). Tutto questo è un dibattito molto complesso che non si limita ad un discorso teorico, in quanto in questi anni in Francia si scrive e parla molto di cinema  accanto ai teorici, vi sono discorsi sviluppati attorno e all’interno dei movimenti d’avanguardia (in particolare Surrealismo, con scritti di poetica, in quanto i registi ci dicono cosa vogliono farne con il cinema e cosa secondo loro deve essere), che non hanno l’ambizione di fare della teoria ma sono manifesti, dunque indicazioni di poetica, di ciò che i registi vogliono fare. FOTOGENIA  termine coniato a metà del XIX sec. in ambito fotografico, utilizzato per indicare una qualità (non definita e non ben definibile) che rende alcuni oggetti o soggetti più predisposti di altri alla riproduzione fotografica. La prima volta che viene usato in ambito cinematografico è con Colette nel 1917 su «Le Film», lo utilizza però in modo molto vago. È con Louis Delluc che il termine fotogenia cambia, prende una sfumatura diversa da quella di uso corrente: scrive vari testi sulla fotogenia, quello di fondazione è Photogénie del 1920. Ma che cos’è la fotogenia? Per noi è importante perché è il primo momento in cui la teoria delle origini fa i conti con il problema del referente, cioè se fino ad ora la teoria vedeva gli effetti del cinema, l’arte o meno del cinema, lo specifico, le prime indicazioni, ecc, nessuno si era occupato di che cosa stesse davanti alla macchina da presa, dunque del fatto che non esiste cinema se non vi è una relazione tra un oggetto che riprende, uno che è ripreso e una soggettività  per la prima volta la teoria si occupa del referente, cioè di quello che è l’oggetto del cinema, andando a capire che relazione c’è tra l’uno e l’altro termine della relazione cinematografica. La fotogenia, dice Pescatore nel 1992, per Delluc e la scuola francese è essenzialmente un «accordo tra un soggetto e un oggetto della visione». LOUIS DELLUC (1890-1924) è un personaggio incredibile, grande teorico ed animatore della vita culturale e cinematografica francese dei primi anni 20, anche regista (ma morte prematura). Nasce come polemico (come visto), propugna l’idea che il cinema debba avere una natura artistica e innovativa del cinema, potenzialità ancora inesplorate dal cinema francese della sua epoca, dunque fortemente polemico con i produttori e i serial che non avevano coraggio (si basavano su questo cinema 26 narrativo che raccontava storie, senza esplorare le vere potenzialità del mezzo). La sua opera principale, prima di diventare regista, è di divulgazione culturale: è il primo autore che ha una rubrica fissa su un quotidiano, chiamata “Cinéma et Cie” pubblicata su «Paris Midi» (1918-1922). È un grande promotore dell’attività dei ciné-club, in quanto promuove la produzione di qualità. Nel 1921 fonda «Cinéa», un settimanale di cinema molto importante. Anche lui rientra in questa tendenza alla nomenclatura, cioè inventare termini per qualcosa che non è ancora stato nominato, dunque conia il termine cineasta: «tutti coloro – animatori, realizzatori, artisti, industriali – che hanno fatto qualcosa per l’industria artistica del cinema» (1922), quindi per lui era chiunque avesse a che vedere con l’industria artistica. La sua scrittura non è sistematica: scrive molto, tante cose diverse, non dà mai una definizione di fotogenia, ma lo capiamo secondo varie interpretazioni. Ha una concezione di cinema che, pur riconoscendo importanza all’autore-regista, dà rilievo al potere rivelatore della macchina da presa e all’apporto della realtà stessa al cinema: per lui, il cinema è un’arte figlia della macchina, dunque moderna, ma anche un’industria (in contrasto con Canudo) perché per lui non c’è distinzione tra arte e commercio. È anche un fautore dell’idea di cinematografia nazionale, dunque è convinto che ogni nazione debba esprimere una propria idea di cinema che abbia a che vedere con lo spirito della nazione stessa e dunque vi è il tentativo di rinnovamento del cinema francese  inventa la nuova arte impressionista (infatti è uno dei fondatore della prima avanguardia), che sia fondata appunto sulla fotogenia. Lui non dà mai una definizione esatta di fotogenia, semmai usa degli esempi per spiegarcela: «La bellezza di linea di un canapé o di una statuetta è sviluppata dalla fotogenia e non creata di sana pianta. Lo stesso vale per gli esseri umani e le bestie. Una tigre e un cavallo saranno bellissimi nella luce dello schermo perché sono naturalmente belli e la loro bellezza è, per così dire, dispiegata. Un individuo, bello o brutto, ma espressivo, conserverà la sua espressione intensificata dalla fotografia, se è questo che si vuole» (1920)  la fotogenia è qualcosa che c’è dentro (nella cose, nelle persone, nelle anime), ma che viene dispiegato o intensificato dal mezzo (il cinema) se è questo che si vuole (dunque tramite la mediazione di una soggettività, che è quella dell’autore/regista). Se è vero che le cose possono essere o meno già belle ed espressive naturalmente, ed è la macchina che intensifica ciò, per svelare «la bellezza del caso» servono lo sguardo e la decisione di un soggetto capace di orientare la macchina da presa e di riconoscere l’aspetto fotogenico delle cose: abbiamo una relazione a 3 poli, per cui i principali sono la realtà e il mezzo, ma ci deve essere sempre un’intenzionalità in grado di svelare, attraverso il mezzo, la bellezza del caso. Ha un’idea di cinema come strumento di rivelazione del reale, per cui solo l’occhio meccanico rivela la fotogenia, ma anche idea di cinema come fortemente autoriale, cioè l’occhio dell’autore è importante perché è in grado con il mezzo di svelare la fotogenia. Nonostante tutto ciò, Delluc loda l’assenza di una intenzione artistica troppo consapevole e visibile nei film: «Lo schermo chiede, invoca, esige tutte le raffinatezze dell’idea e della tecnica, ma lo spettatore non deve sapere il prezzo di tale sforzo, deve soltanto osservare l’espressione e riceverla completamente nuda o sembrargli tale» (1920)  cinema fortemente autoriale ma che non deve fare esibizione di artisticità/intenzione artistica. Infatti, apprezza moltissimo il documentario e il cinegiornale, in quanto mezzi che svelano la fotogenia delle cose e delle persone ma senza far vedere l’intenzione dell’autore, ma è anche contro il documentarismo nel cinema di finzione e il teatro filmato, dunque è contro le nozioni di cinema come PURA RIPRODUZIONE. Bisogna però far attenzione a non confondere fotogenia con fotografia: non basta l’idea di fotografare o cine-fotografare il reale per tirare furi la fotogenia, ma la fotogenia per Delluc è «l’accordo tra il cinema e la fotografia» (1920), tra alcune peculiarità dell’espressione cinematografica e il fatto di riprendere fotograficamente il reale, cioè «la capacità del cinema di distillare dalla 27 realtà la sua verità lirica attraverso tutti gli elementi espressivi di cui dispone, che non sono soltanto fotografici» (Barbera, Turigliatto 1978)  dunque fotogenia non è equivalente a fotografia, ma il cinema usa molti elementi propri che sono oltre la fotografia. L’arte fotogenica, per Delluc, è basata su quattro elementi:  Scenografia (décor), cioè la scelta del profilmico che può avere un’influenza sulla resa della fotogenia  Luce (lumière), che aiuta il lirismo della realtà ad emergere  Costruzione del montaggio (cadence), che può potenziare la resa fotogenica della realtà  Attore come elemento creativo, vera e propria maschera (masque), inteso non come performance recitativa, ma proprio la maschera fisica dell’attore, che a seconda del tipo renderà più o meno intensa la fotogenia Ha una carriera da regista non molto intensa in quanto muore giovane. Il suo film più famoso è “La femme de nulle part”  qui è molto interessante l’importanza della casa, che nel film è altrettanto importante come i personaggi in carne ed ossa, quindi un cinema che cerca la fotogenia non si concentra solo sull’essere umano ma su tutto, anche sugli oggetti (una teoria del cinema come la sua non privilegia l’essere umano, se non a livello narrativo ma non a livello espressivo). La sua carriera è molto complessa: avrà diversi problemi con i produttori, con la censura, dunque carriera tormentata perché l’industria cinematografica francese di quel periodo non era propensa a questo tipo di cinema. JEAN EPSTEIN (1897-1953) è un esponente fondamentale dell’avanguardia dell’impressionismo (prima avanguardia). Si definisce un “filosofo del cinema” (La Lyrosophie, 1923, una sorta di teoria dell’arte che invita ad eliminare gli elementi tecnico- scientifici dell’arte e a concentrarsi sulle emozioni), che propaganda l’idea di cinema come arte pura, è il primo che dice davvero che il cinema non deve avere nessuna contaminazione con le altre arti, dunque non deve usare nessun mezzo espressivo che derivi dalle altre arti. Per lui il cinema non è spettacolo, ma una lingua poetica di immagini (le cose hanno un anima, e la lingua del cinema è quella che rivela per immagini quest’anima delle cose) e un mezzo di conoscenza che supera i sensi e coglie il lirismo permanente della natura: idea del cinema che coglie degli aspetti che l’occhio umano non può vedere  non è la scelta di porre il cine-occhio in una posizione non pensabile per la vista umana, ma è proprio il mezzo in sé che ha intrinsecamente delle caratteristiche che ci permettono di cogliere delle qualità impensabili per l’occhio umano (natura stessa dell’occhio cinematografico). Ha un’ampia produzione come regista, lavora fino agli anni 40. La sua produzione si fonda su varie idee di poetica, ma a livello tecnico sulla deformazione dell’immagine e del suono (potrà lavorare anche con il cinema sonoro), trucchi, ralenti. Fa un uso complesso del montaggio: per lui, il montaggio è la “fotogenia del movimento”. Anche lui non dà mai una definizione univoca di fotogenia, ma è l’autore che più ha sviluppato il concetto di fotogenia: dà una serie di definizioni successive, sulle quali tornerà, sviluppando molto il concetto e tornandoci continuamente, aggiungendo sempre dei tasselli. Nel testo “Alcune condizioni della fotogenia” (1923) riconosce la primogenitura di Delluc nell’uso del termine (era anche stato assistente alla regia di Delluc) e scrive: «L’arte cinematografica è stata chiamata da Louis Delluc “fotogenia”. L’espressione è felice, bisogna ammetterlo. Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua 30 storia del cinema, sia nella pratica registica di Epstein. È come se fosse un tentativo di oltrepassare i limiti stessi delle sue sperimentazioni precedenti, quindi c’è un lavoro molto sperimentale sulla parte visiva. Non è adattamento di un solo testo (ma anche The Oval Portrait, Ligeia, Morella, The Man of the Crowd), dunque è una sorta di macro Edgar Allan Poe che viene fuori da questo film. Lavora molto sui passaggi che investono la relazione vita-morte, che lavora su questa relazione sul fatto che non ci sia un vero e proprio stacco tra i due stati (passaggi dalla vita a non-vita, da non-vita a morte, da morte a non-morte, non-morte a vita): rappresenta la relazione vita-morte in modo fluido, come un continuo passaggio di stato e non una divaricazione. È gotico? È un film dell’orrore? È classificato come film dell’orrore e gotico, ma in realtà non si può davvero definire così, a causa appunto della relazione vita-morte, anche se ci sono sequenze tradizionalmente ascrivibili al genere gotico (ad esempio l’inizio che ci ricorda Dracula). È un film ASTRATTO, cioè sebbene abbia una trama di derivazione letteraria, le qualità importanti non sono certamente nello svolgimento della trama ed è un esempio perfetto di cinema puro, che non si appoggia a nient’altro che non sia strettamente cinematografico. Lezione 5 – 06/10/2022 È importante vedere i film assegnati per l’esame e all’esame farà domande specifiche sui film su cui lei a lezione ha parlato in maniera specifica (il film “Rebecca” chiederà meno nello specifico). - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - “La caduta della casa di Usher” di Chiara Tognolotti è un piccolo libro dedicato interamente al film, che tiene al centro questa relazione tra teoria e pratica registica che in Epstein è molto forte. La lezione è in parte tratta da questo libro  un buon testo per approfondimenti. Negli anni 20, in Francia, stavano nascendo le scuole nazionali, e finalmente la teoria si istituzionalizza anche perché il cinema si è istituzionalizzato, sia in termini di linguaggio che in termini di pratiche di fruizione. In Francia c’è quello che viene definito un sistema di pratiche in quel momento, legate al cinema; è un sistema di pratiche che ha la funzione di creare un clima in cui il cinema è veramente una forma espressiva molto importante, al centro di una serie di pratiche discorsive e pratiche di fruizione. La chute de la maison Usher (1928) di Epstein: Un sistema di pratiche; Innanzitutto, in questo periodo in particolare c’è veramente un fiorire di riviste: “Le Film”, “Cinéa”, “Cinema et Cie” su «Paris Midi», ecc.  in queste riviste c’è un dibattitto molto acceso sul cinema. Nascono anche una serie di pubblicazioni di taglio teorico, anche nella forma della monografia: Photogénie, Bonjour Cinéma, Naissance du Cinema. Quindi, nascono pubblicazione di ampio respiro, ma soprattutto, in Francia, si formano una serie di produzioni indipendenti: usare la parola indipendente negli anni 20 in Francia è un po’ una forzatura, perché di solito queste sono idee che associamo al cinema americano, però è per specificare che l’industria cinematografica in quegli anni in Francia è al massimo e ci sono delle grandi case di produzione, ma nascono anche delle piccole case produttrici che hanno un interesse verso il cinema di qualità, di sperimentazione, artistico, e queste produzioni indipendenti sono Albatros di Alexandre Kamenka (emigrato russo, scappato durante la rivoluzione di ottobre che 31 fonda questa casa di produzione Albatros, inizialmente dedicata esclusivamente alla produzione di film da parte di autori russi in Francia e poi si aprirà al cinema francese diventando produttore di Epstein stesso e Delluc), Cinégraphie di Marcel L’Herbier (importantissimo regista all’avanguardia, che ad un certo punto apre anche esso la sua casa di produzione)  Quindi, più il cinema si sgancia dalle dinamiche commerciali e più è legato anche alle questioni teoriche, perché ovviamente si tratta di un cinema più complesso, più artistico, articolato, che permette anche di sviluppare delle riflessioni teoriche più approfondite soprattutto in quegli anni. Un’altra cosa importantissima che succede in quegli anni è la creazione di circuiti di sale come Vieux Colombier e Studio des Ursulines (fondamentale per la diffusione alla fine degli anni 20 dell’avanguardia surrealista)  sale in cui si faceva più attenzione al cinema d’arte, di qualità, un cinema più di nicchia (termini molto contemporanei) all’epoca definito “cinema di qualità”. Tutte queste pratiche, all’inizio degli anni 20 in Francia, fanno sì che si venga a creare un tipo di pubblico attento e preparato e interessato alle questioni artistiche del cinema (non solo pubblico popolare, ma anche questa forma di pubblico). Ma, soprattutto, all’interno di questi spazi di discorso (cineclub, riviste) si sviluppa sempre di più l’idea del film come arte e questo è importante per la teoria, perché essa si nutre del cinema ma anche del dibattitto, di un clima che si può respirare in un determinato periodo. Non è un caso che l’Italia invece negli anni 20 non è famosa a livello teorico, perché c’è crisi anche a livello cinematografico. Inoltre, questo tipo di circuito/magma discorsivo di pratiche è anche un sostegno alle produzioni vere e proprie d’avanguardia, dove è più facile che ci sia un’intersezione tra riflessione teorica e pratica (gli anni 20 sono gli anni delle avanguardie in Francia, qui parliamo di première avanguarde o avanguardia impressionista). Avanguardia impressionista (formata da Delluc, Dulac ed Epstein). Di questa avanguardia, Dulac nel 1927 scrive che essa si basa su modalità espressiva volte verso “un territorio delle emozioni più vasto perché non più prigioniero di un confine di fatti precisi” (1927)  per l’avanguardia impressionista quello che conta non sono le storie o i fatti, ma è la dimensione emozionale/affettiva che il cinema può creare, e il cinema lo fa attraverso la fotogenia. Questa idea di cinema su cui si fonda l’avanguardia impressionista è cinema come “sinfonia visiva, ritmo di movimento combinati e senza personaggi, nei quali lo spostarsi di una linea di un volume con una cadenza mutevole crea l’emozione” (Dulac 1927)  cinema paragonato alla musica, il cinema non è un racconto di finzione con dei personaggi (può anche averli, ma non è questa la cosa importante), ma la cosa importante è lo spostarsi di una linea di volume, cioè sono le forme che creano le emozioni senza personaggi, ma non senza umani, perché il volto umano è importantissimo. Tornando ad Epstein, come già accennato, ha avuto una vita piuttosto movimentata. Nel 1921 scrive “Bonjour Cinèma”, in realtà inizialmente ha una vocazione da medico ma ad un certo punto inizia a scrivere poesie e conosce un famoso scrittore dell’epoca che gli fa pubblicare questo primo libro di poesie nel 21 appunto, e scrive “Bonjour Cinema”. Però, si avvicinerà in maniera pratica al cinema solo nel 22 con questo primo film che si chiama “Pasteur” (1922), documentario su Pasteur finanziato proprio dall’istituto Pasteur: in realtà, questo film pur essendo un documentario contiene già in luce una serie di ossessioni dell’Epstein regista e dell’Epstein teorico, cioè per esempio l’importanza delle cose  c’è un’ossessione visiva per tutta l’oggettistica del laboratorio di Pasteur, più che sulla figura dello scienziato in sé. Questo film ha un buon riscontro, piace molto all’istituto Pasteur, buon riscontro nelle sale, e quindi lo porta in contatto con la più grossa casa di produzione dell’epoca cioè la “Pathé” che gli fa un contratto decennale: lui in questi anni gira una serie di film come “l’Auberge 32 rouge”, “Coeur fidèle” e “la belle Nirvenaise” (1923), tutti film che si basano sui melodrammi familiari a cui si inizia ad accoppiare una grande sperimentazione formale (è importante tenere presente che il melodramma come forma è un genere di film che piaceva molto alle avanguardie, perché era eccessivo). Melodramma: grandi passioni, personaggi e storie estreme e molto spesso le avanguardie nei loro film incamerano degli aspetti di esso e sicuramente il melodramma stesso come genere ha delle forme di sperimentazione all’interno. Ad un certo punto, mentre gira nel 24 “La Goutte de Sang”, entra in conflitto con la Pathé e l’abbandona. Tra il 24-25 entra in contatto con l’Albatros (casa di produzione di Kamenka) e con questa casa di produzione produce “Le lion des mogols”, “L’affliche, “Le double amour”, “Les aventures de Robert Macaire”, che sono di base o film in costume o basati sull’esotismo  in questi film comincia a spezzettare di meno (prima molta più sperimentazione formale e montaggio più ferrato), inizia a lavorare molto sui campi lunghi, sperimentando sulle inquadrature nella durata, e non contento di aver raggiunto un livello di libertà formale e indipendenza produttiva maggiore rispetto a quella che aveva con la Pathè, decide di aprire una sua casa di produzione per avere il massimo della libertà e gira “Mauprat” (1926), “La glace a trois faces” (1927, molto famosa), “Six et demi onze” ma soprattutto gira “La chute de la maison Usher” (1928)  quest’ultimo è un film che ha un riscontro di critica nei circoli del cinema di qualità, ha grande successo, ma purtroppo non in termini economici tanto è che è costretto a chiudere la casa di produzione poco dopo. Successivamente avrà molte difficoltà a girare di nuovo dei film, anche per la malattia fisica, passerà la vita con la sorella Marie (molto intellettuale come figura) in posti diversi della Francia, ad un certo punto si ammala e muore all’inizio degli anni 50. Riuscì a girare qualche ultimo film negli anni 40, e in quel periodo si intensifica l’attività teorica, cioè ricomincia a scrivere tantissimo alla fine della carriera (come al principio). La Chute de la maison Usher (film) Questo film, a partire dal titolo, ha una forte relazione con il racconto di Edgar Allan Poe, ma in realtà lo stesso Epstein scrive che questo film è una sorta di raccolta di “impressioni generali su Poe”, quindi non è una trasposizione diretta ma è una sorta di lavoro su Poe in generale; è soprattutto un lavoro che cerca di scavare dentro Poe e di purificarlo della vena macabra a quest’ultimo appiccicata a causa della traduzione fatta dall’inglese al francese da Baudelaire  secondo Epstein, nelle traduzioni Baudelaire aveva ecceduto a mettere in evidenza l’aspetto macabro, trasferendo in realtà delle proprie ossessioni e il suo marciume. Tognolotti scrive per esempio: “il film abbandona dunque la figuratività gotica sulla quale giocano sovente gli adattamenti da Poe per soffermarsi sui motivi, più malinconici che macabri, dell’aprirsi dei confini del reale verso il mutare continuo di organico inorganico e la contiguità tra la vitalità e morte – da qui la nota positiva del finale, mutato rispetto al racconto”  quindi, si allontana dai toni macabri e cerca toni malinconici di Poe. Inoltre, le questioni dell’organico inorganico e vita morte sono le questioni centrali del libro e da cui deriva questo finale positivo (i due protagonisti si salvano, cioè rinascono in una nuova vita). Inoltre, ci sono molte rivisitazioni sui personaggi e sul testo in generale. Ci sono delle cose che ricordano un film dell’orrore, per esempio; - La sequenza iniziale  qualche accenno alle atmosfere classiche del film dell’orrore (personaggio esterno che arriva e si trova catapultato in un mondo potenzialmente pericoloso e spaventoso che ricorda il Dracula), ma c’è soprattutto frammentazione visiva (dettagli ripresi, gambe) che ci disorienta, ci dà una sorta di incoerenza narrativa, oltre il provocare la paura, con un disorientamento di chi guarda. 35 emozionante dell’immagine rallentata di un volto che si abbandona a un’espressione. C’è prima tutta una preparazione, una febbre lenta che non si sa se paragonare a un’incubazione morbosa, a una maturazione progressiva o, più grossamente, a una gravidanza. Alla fine, tutto questo sforzo deborda, rompe la rigidità di un muscolo. Un contagio di movimenti anima il volto. L’ala delle ciglia e il ciuffo del mento battono insieme. E quando infine le labbra si separano per indicare il grido, abbiamo assistito a tutta la sua lunga e magnifica aurora. Un tale potere di separazione del super-occhio meccanico e ottico fa apparire chiaramente la relatività del tempo. È dunque vero che i secondi durano ore! Il dramma è situato al di fuori del tempo comune. […] Un giorno il cinematografo fotograferà per primo l’angelo umano”  quest’idea che, innanzitutto il primo piano sia importante perché ci restituisce l’anima, ma soprattutto la cosa bella del primo piano a rallentatore è che ci fa vedere la preparazione, come un’aurora, un processo che sfocia in un evento (costruzione del gesto e del volto). C’è l’idea del super-occhio meccanico, cioè questa idea che per vedere l’aurora del gesto serva l’occhio della macchina da presa e che sia impossibile da vedere ad occhio nudo (questa parte si vede molto bene nella sequenza della sepoltura di Madeline, sequenza in cui portano la bara e ci sono molte sovraimpressioni). Tognolotti scrive: “generata dalla morte di Madeline, la sequenza muove verso un’indagine nella psiche del personaggio e distilla dunque una cronologia del sentire che si affranca dal ritmo delle azioni da cui aveva preso avvio, in una forma di cinestasi dalla forte suggestione che lavora sulla fotogenia del volto come strumento rivelatore di aspetti del reale altrimenti invisibili, giacché inaugurano una cronologia inedita e disegnano uno spazio degli affetti” (2020)  dopo la morte di Madeline, tutta la sequenza indaga la psiche del personaggio e non ci interessa a quel punto cosa succede dopo la morte in termini cronologici, ma è una cronologia del sentire, degli affetti e delle emozioni che prova Roderick, quindi si affranca dal ritmo delle azioni (la sequenza si distacca dalle azioni, anche se prende avvio dalle stesse azioni). Lavora sulla fotogenia del volto perché il cinema, attraverso la fotogenia, ci fa vedere cose altrimenti invisibili: quindi, la pelle del viso è come linee di un paesaggio per Epstein, quindi c’è uno scavo proprio nelle rughe e nelle espressioni. Tognolotti scrive: “Nel pensiero del regista l’immagine fotogenica incide sulla pellicola la realtà e la rende superficie capace di chiamare a sé e rimandare verso l’esterno gli affetti, in un moto incessante del sentire che connette il film a chi lo osserva. [...] Per dirla altrimenti, nel passaggio da pelle a pellicola il regista intravede il farsi della fotogenia intesa come momento di rivelazione della natura metamorfica del reale, intessuto di stati d’animo che trascorrono da una superficie all’altra”  ci dice che la fotogenia incide la realtà sulla pellicola, cioè la realtà è partecipe della pellicola (proprio per la qualità fotogenica del cinema) e la pellicola diventa una superficie chiama verso di sé degli affetti che sono presenti nella realtà e che, attraverso la pellicola, sono connessi a chi guarda. Dunque, è qualcosa di più della relazione tra referente e macchina (Delluc), ma è una relazione tra realtà, pellicola e spettatore, che è come se fossero parte di una stessa sostanza (vi è un reale pieno di stati d’animo e di emozioni, che passano da una superficie all’altra - della realtà, della pellicola e dello spettatore). Visione aptica. Ci sono due temi fondamentali nel film: il tema della morte Tema della morte Epstein scrive: «[Poe] scrive che esistono, senza alcun dubbio, delle combinazioni di oggetti molto semplici e naturali che possiedono la forza di commuoverci. Ma quali oggetti? Soprattutto nulla di macabro. L’orrore, in Poe, è dovuto più ai vivi che ai morti, e la morte stessa è in questo senso una sorta di incantesimo. Anche la vita è un incantesimo. Vita e morte condividono la medesima sostanza, la medesima fragilità. Come la vita si spezza all’improvviso, così la morte si dissolve. Tutti coloro che sono 36 morti, lo sono solo leggermente. Madeline e Roderick sentono che stanno per morire come noi sentiamo il sonno conquistarci. Poi Roderick spia i rumori sulla soglia della tomba, come noi spiamo dalla porta di una stanza il risveglio di un ospite notturno e stanco. Il mistero sta nell’origine dell’equilibrio di un’anima tra la vita e la morte» (Epstein 1928)  Per Epstein (anche se die “per Poe”, in realtà è principalmente per sé stesso, per il suo lavoro di regista e teorico) vita e morte non sono altro che un continuo, una cosa unica, i morti sono morti solo leggermente, non è mai qualcosa di veramente definitivo, e nel film si vede benissimo: è un continuo passaggio da vita (passeggero che arriva) a non vita (quando arriva a casa di Roderick e sono in questo momento di forte stasi in cui l’uomo è preoccupato per la moglie), a morte (la non vita diventa la morte, che è quella di Madeline) a non vita (momento di stasi), a non morte (quando Madeline si risveglia) a vita (lei è viva)  è una sorta di unico flusso vita- morte, sono la stessa cosa. Questo equilibrio dinamico del trascorrere della vita e della morte, si vede benissimo nella sequenza del funerale; Abbiamo queste sovraimpressioni tra le candele, usate nel senso dell’idea della durata e del bruciarsi del tempo, e le immagini della natura e il volto di Roderick, poi lo scorrere dell’acqua, e soprattutto l’alternanza di queste immagini dei rami secchi, che sembrano una gabbia, che ci rimandano all’idea di morte e immagini della natura che sono addirittura di accoppiamento, le rane che si accoppiano e il gufo bianco che si risveglia, dunque vita  dunque, vita e morte per tutto il film sono la stessa cosa, parte di un unico flusso, trascorrono l’una nell’altra. Questo è reso ancora più forte dalla relazione tra eros e thanatos, cioè amore e morte  nel finale le immagini di accoppiamento animale, durante la scena del funerale il velo da sposa di Madeline (che rimanda all’amore, sesso): c’è l’idea di alchimia della natura che mescola amore e morte, vita e morte, in una sostanza unica che trascorre di continuo da uno stadio all’altro e che può essere rilevata solo dal cinema. Per lui il cinema ci rivela la verità di un’esistenza, idea di «cinema rivelatore», ossia rivelare quest’alchimia nascosta della natura e del reale. Quindi, dentro le immagini sembra apparire una realtà dall’essenza fluida e cangiante, portata alla luce e definita proprio dalla natura riproduttiva del film  ralenti, cinema e fotogenia rendono percepibile il mutare da uno stato all’altro dell’esistente (non c’è mai uno stato definitivo ma è sempre una mutazione). Epstein, dichiarazione pubblicata post morte (muore nel 53): «Rallentata otto volte, distesa nella durata, un’onda emana l’atmosfera di un sortilegio. Il mare muta di forma e sostanza. Tra acqua e ghiaccio, tra liquido e solido, si crea una materia nuova, un oceano di movimenti vischiosi, un universo impantanato in se stesso. [...] La visione cinematografica ci fa scorgere insospettate profondità di fiaba in una natura che abbiamo esaurito a forza di guardarla sempre con gli stessi occhi, e che abbiamo smesso di vedere per volerla spiegare del tutto. Sottraendoci alla routine della nostra visione il cinema ci insegna di nuovo a stupirci davanti a una realtà della quale forse niente è stato compreso finora, della quale forse niente è comprensibile» (Epstein 1955, postumo)  Ci dice inoltre che il tentativo di spiegare il moto delle onde attraverso la scienza, dunque guardare sempre con lo stesso occhio con cui siamo abituati a vederla, da una parte non ci fa veramente capire e dall’altra ci fa smettere di vedere, perché tentando di spiegare smettiamo di vedere; invece, la visione cinematografica, in particolare il rallenti (rallentato di 8 volte) ci crea l’atmosfera di un 37 sortilegio, ci fa vedere delle cose della realtà che non ci saremmo mai aspettati di vedere, qualcosa di molto profondo, e ci fa capire che la realtà è qualcosa che davvero non possiamo capire, che semplicemente deve essere fonte continua di stupore. Si può notare che nel film l’acqua è molto importante, non solo perché figurativamente ci rimanda ai sentimenti di Roderick, ma anche perché è una vera e propria alchimia della materia, fluida e metamorfica, quindi il fatto che la superficie liquida sia perfetta per la resa fotogenica è per Epstein uno dei nodi teorici più importanti. Il cinema è uno strumento atto a rintracciare il nucleo essenziale della realtà perché rappresenta il movimento, «ovvero la variabilità di tutte le relazioni nello spazio e nel tempo, della relatività di ogni misura, dell’instabilità di qualsiasi punto di riferimento, della fluidità dell’universo» (1955 - Epstein)  in questo senso, il film fotogenico (che si fonda sulle qualità della fotogenia) finirebbe per rivelare anche le identità polimorfe di chi lo osserva (dice qualcosa anche su noi stessi, sul fatto che in quanto parte di questo reale polimorfico, siamo anche noi identità polimorfiche e abbiamo dentro questa moltitudine, questo coacervo e questa ambiguità che è insita nel reale). Questo fatto del passaggio di sostanza dal reale alla pellicola e dalla pellicola allo spettatore per Epstein fondamentalmente è un’idea di cinema di visione come qualcosa che non è solo visiva ma sviluppa altri sensi, oggi diremmo visione aptica (legato al tatto): macchina da presa come occhio tattile, qualcosa che tocca le cose. Per questa qualità anche tattile dell’immagine fitogenica del cinema e questo passaggio di sostanza, se il cinema ci rivela la natura polimorfica del reale, ci rivela la natura polimorfica anche di noi stessi (questa idea subisce l’influenza di quegli anni, come ad esempio psicanalisi, mente non come unicum, soggettività non intera ma spezzettata). Qualità morale «Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle anime che accresce la propria qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica»  la qualità morale è proprio questo, cioè è l’arrivare a cogliere la verità intima delle cose che è anche la verità intima di noi stessi. Epstein scrive, in un suo testo molto famoso del 26: «Quell’immensa spirale di scalini dava le vertigini. Tutte le pareti erano ricoperte di specchi. Scendevo circondato da tanti me stesso, da riflessi, dalle immagini dei miei gesti, da proiezioni cinematografiche. Ogni curva mi sorprendeva da un punto di vista differente. [...] Ognuna di quelle immagini viveva un solo istante, appena il tempo di vederla e si era persa di vista, già̀ diversa. La mia memoria ne fissava solo una nel loro numero infinito, perdendone poi due su tre. E c’erano le immagini delle immagini. Le immagini terze nascevano dalle immagini seconde. [...] Prospettive parallele si rispondevano esattamente, si ripercuotevano, si rinforzavano, si spegnevano come un’eco, a una velocità molto superiore rispetto ai fenomeni acustici. [...] Scendevo come attraverso le sfaccettature dell’occhio di un insetto immenso. Perché è l’effetto morale di un tale spettacolo ad essere straordinario. Ogni prospettiva è una sorpresa sconcertante che offende. Non mi ero mai visto tanto e mi guardavo con terrore. Capivo i cani che abbaiano e le scimmie che sbavano di rabbia davanti a uno specchio. Mi credevo in un modo e mi vedevo in un altro; quello spettacolo distruggeva tutte le menzogne abituali che avevo costruito intorno a me stesso. [...] Mi vedevo privo di illusioni, sorpreso, denudato, sradicato, arido, vero, peso netto. Sarei voluto fuggir via da quel movimento a spirale in cui sembravo sprofondare verso un terribile centro di me stesso» (Epstein 1926)  qui torna la parola morale: questa qualità morale è andare al 40 quello che viene fatto dopo è un’aggiunta, una smanceria: la cosa veramente nuova è la varietà, caratteristica di quest’arte nuova nata dal mistero. Il cinema, appena nasce, non si capisce se sia arte o scienza: a un certo punto prevale l’idea che sia arte e quindi si cerca di capirlo, perché c’è un’arte nuova ed imprevista che bisogna capire, ma non si capisce nulla perché non ci sono dei maestri del passato da cui cercare informazioni su ciò. All’inizio il cinema era solo un luogo d’appuntamenti buio, un’uscita per collegiali, quindi il pubblico era attratto dalla natura di distrazione e di novità del cinema, però questa cosa non ci permetteva di capirne l’importanza: dunque, gli intellettuali furono ingannati, perché non capirono che anche queste forme così popolari e stupide erano importanti, erano un’epoca, uno stile e una cultura illuminate con la luce elettrica e non più a gas (comparazione tra avvento del cinema e avvento della modernità). “Les mystères de New York” (1914-15)  serial poi importato dalla Pathè, ha una base di crime. È la storia di Helen che cerca di scoprire chi ha ucciso suo padre (serial che dura due anni). “La donna più assassinata del mondo” è Paula Maxa, amava lei stessa definirsi in questo modo (uno scrittore l’aveva definita così). Vi erano anche altri due grandi serial: “Fantomas” era un super criminale, mentre “Les vampires” parlava di una donna vampiro (presa d’ispirazione anche di una serie tv recente). Tutto ciò era il famoso cinema commerciale, che circolava all’epoca di Epstein ed attirava le masse al cinema. Epstein, nel testo, dice che il primo aspetto del cinema che colpisce gli intellettuali è l’aspetto documentaristico, per il suo valore di conoscenza. Ad un certo punto comincia ad essere teatro fotografato. Dice che di quest’arte abbiamo solo il presentimento, mancano le parole per descriverla perché usiamo le categorie che si usavano per altre forme d’arte e non adatte alla comprensione di questa, ma bisogna spogliarsi delle categorie precedenti, avere il coraggio di farlo per costruire ingenuamente. Dice che le parole per capire davvero questa nuova arte non solo la trama, l’azione drammatica, l’intreccio o le qualità della rappresentazione come per lo spettacolo teatrale, ma la vera tragedia sta dentro nelle cose (nei volti, nel sigaro, nella poltrona, ecc)  per capire il cinema non bisogna utilizzare categorie che derivano dal teatro o dalla letteratura, ma bisogna avere il coraggio di pensare in modo diverso e soprattutto il punto di tutto è che il cinema è qualcosa di vero, mentre le storie sono delle menzogne. Da una parte se la prende con le convenzioni, cioè dice che se in teatro le convenzioni servono perché il teatro deve farci capire a una certa distanza, nel cinema le convenzioni sono sbagliate così come lo è l’idea di tentare di rendere la vita come se essa fosse una scatola cinese, per cui il passaggio successivo è sempre contenuto perfettamente in quello precedente  la vita non è così e il così non deve essere il cinema: il cinema non è fatto di storie (inizio, svolgimento, fine) ma di situazioni (emozioni, affetti). Dunque, la vita non funziona così, non funziona per passaggi logici, e quindi il cinema non deve fare lo stesso. 41 Sospetto tragico (The Honor of His House, William C. DeMille, 1918) Hayakawa. Epstein dice che questo film ha una trama, però la presenza di lui fa piazza pulita della sceneggiatura perché la cosa importante è il suo muoversi, le cose che fa in scena che sono fotogenia pura (mobilità scandita). Ad Epstein non interessano le trame complesse, ciò non significa che non debba accadere nulla ma niente di importante: non è importante lo svolgimento dell’azione, quanto il paesaggio degli affetti che già vedeva nelle potenzialità del cinema grazie alla fotogenia. Dunque, cos’è importante? La fisicità di Hayakawa per Epstein è più importante della trama. Non si parla né di simboli né di naturalismo, ma semplicemente il cinema astrae: idea del cinema come grande astrazione e generalizzazione della realtà  cinema alchemico, come qualcosa che ci mostra l’alchimia segreta della natura. Inoltre, ci dice che la fotogenia non è solo una parola alla moda, che è difficile definirla e anche che la fotogenia per lui è quella cosa che, in maniera quasi alchemica come Paracelso estraeva le sostanze dagli elementi della natura, il cinema trova come si trovano i minerali in una miniera, con uno scavo non possibile a mani nude, dunque il cinema ci permette di estrarre la fotogenia dal reale in un modo impossibile con la sola forza della percezione umana. Dice che anche quando guardiamo un film, noi cerchiamo di dare delle parole a ciò che vediamo, ma sostanzialmente stiamo vedendo solo il movimento, la fluidità del reale. Ci dice che tutta l’arte ha cercato di introdurre il movimento, però adesso esiste qualcosa che davvero può farlo, ossia l’occhio della macchina, che funziona meccanicamente e vede cose impercettibili. Aggiunge che “l’amore sullo schermo contiene quello che nessuno aveva visto fino ad ora”, ossia la luce, quella parte del movimento che non era mai stata contenuta in nessun’altra forma d’arte. E ancora, dice che sostanzialmente l’immagine cinematografica è già una selezione delle selezione, perché nella percezione del reale noi selezioniamo; questa selezione della selezione ci fa vedere la realtà in maniera diversa da come la percepiamo. Il cinema è un’idea di un’idea, qualcosa di veramente complesso, alchemico. Dice “la Bell-Howell è un cervello di metallo”: la bell howell è una delle prime macchine da presa, l’artista/regista sono dietro questo occhio ovvero (macchina da presa), il vero artista è dentro la bell & howell (il vero cervello). Ad un certo punto scrive una frase latina di un medico, Ehrlich Paul, un patologo, e significa che i corpi non agiscono se non sono uniti e non lavorano insieme: è un modo di Epstein per parlare di fotogenia, di come la realtà e la macchina lavorano insieme per crearla. Lezione 6 – 07/10/2022 (All’esame può chiedere di cosa parlano i testi in modo generale, dunque domande anche su questi) I TEORICI SOVIETICI DEL MONTAGGIO: KULESOV E PUDOVKIN Nascita delle “scuole nazionali” Negli anni 20, quindi, c’è un’intensificazione, consolidamento e istituzionalizzazione della riflessione teorica: si differenzia in scuole nazionali, a livello geografico, e i registi per la prima volta cominciano ad appropriarsi davvero sui discorsi sul cinema (Francia e URSS). Per quanto riguarda la figura del cineasta teorico, i sovietici rientrano 42 completamente nella categoria del cineasta teorico stile Epstein, cioè non sono né registi che si pronunciano sul loro cinema (come poteva essere il surrealista o Méliès), non sono teorici che passano alla regia, ma sono davvero cineasti teorici come lo era Epstein  quindi, il loro lavoro era sempre quel mix strano tra poetica ed estetica (la teoria si differenzia da poetica ed estetica perché cerca la spiegazione dei fenomeni, mentre la poetica ci dice la volontà del regista e l’idea che il regista ha del proprio cinema, l’estetica è una sorta di precettistica che ci fa capire cos’è un’opera d’arte). Nel caso dei cineasti teorici sovietici, i loro discorsi non sono mai disgiunti dalla loro idea di cinema, dalla loro idea del loro cinema, però a differenza di altri cineasti che semplicemente scrivono i loro manifesti c’è sempre un tentativo di spiegare il cinema in quanto fenomeno (nell’ambito delle teorie ontologiche che si differenziano da quelle moderne).  dunque, ora: studiosi “puri” (Balázs); teorici passati alla regia (Delluc); registi che si pronunciano sul cinema; NUOVA FIGURA DEL CINEASTA TEORICO (Epstein, Ejzenštejn) Prima della rivoluzione  si fa sempre risalire la produzione teorica e quella cinematografica alla Rivoluzione, ma in realtà c’è una produzione soprattutto teorica, ma anche cinematografica, anteriore alla Rivoluzione ed ingiustamente ignorata: «negli anni 1910-1920 (e anche prima, negli anni 1900-1910) furono pubblicati un numero sufficiente di articoli e libri nei quali si possono trovare opinioni non banali sul cinema. Le teorie del cinema degli anni Venti furono precedute da una riflessione cinematografica anteriore che immeritatamente siamo inclini a ignorare» (Jurij Tsivian, in Montani 1991)  dice che le teorie degli anni 20 che noi conosciamo, furono in realtà precedute da una riflessione cinematografica che ignoriamo e non è giusto ignorare (perché c’era già il discorso sul cinema in Russia). Per quanto riguarda il cinema, succede in quegli anni che alcuni registi e attori scappano durante la Rivoluzione d’ottobre, e vanno in Francia (in quanto non condividevano i valori della Rivoluzione): effettivamente c’è un grande cambiamento, un cosiddetto “diluvio” di cui parla Sklovskij  diluvio sia nel senso di passaggio da regime zarista a governo socialista, sia di cambiamento culturale, in quanto la Rivoluzione crea una grande mobilitazione di intellettuali e artisti d’avanguardia che vogliono portare il proprio contributo in favore del nuovo stato socialista e dei suoi valori. Dunque, in realtà il cinema precedente viene un po’ cancellato anche dal fatto che c’è proprio un cambiamento delle maestranze, degli artisti e degli attori che sono nuovi e spesso vengono anche da altre esperienze cinematografiche. La dirigenza del nuovo stato socialista, nei primi anni, non supporterà sempre la sperimentazione, ma inizialmente dà estrema libertà alla sperimentazione formale: spesso chiamata l’ottobre delle arti, perché sono anni in cui dal punto di vista delle arti figurative, teatro, pittura, letteratura, cinema, si crea un’avanguardia che sperimenta moltissimo. Perciò tabula rasa delle teorizzazioni sul cinema sviluppate in precedenza, e Sklovskij scrive: «Si era dell’opinione che la rivoluzione fosse il diluvio. Tutto quello che era esistito “prima del diluvio” era considerato menzogna. Tutto si doveva ricominciare daccapo» (Viktor Šklovskij 1974)  idea che sta dentro tutte le rivoluzioni. Quindi l’AVANGUARDIA SOVIETICA è in realtà un insieme dei movimenti artistici che si riconobbero nei valori della rivoluzione russo- bolscevica dell'ottobre 1917  c’è una mobilitazione ampia di sperimentazione in supporto di questo nuovo stato. In realtà questo momento di grande spinta avanguardistica dura molto poco, poco più di un decennio, perché come tutti i regimi anche quello sovietico-bolscevico ad un certo punto diventa più restrittivo dal punto di vista della sperimentazione con il mezzo: infatti, l’avanguardia si ferma quando viene introdotto il concetto di “realismo socialista”, espressione inventata nel 1934 da Gor′kij, che conia l’espressione al primo congresso degli scrittori sovietici. Il realismo socialista, di fatto, è un atteggiamento 45 - Kulešov  L’arte del cinema (1929) LEV KULEŠOV (1899-1970) Lev Kulešov, Cinematografia da camera; Il montaggio, in A. Barbera, R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori 1978. Kulesov è una sorta di nome tutelare della teorizzazione sul montaggio. Egli viene da una famiglia benestante e come il padre frequenta una scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca (viene dalle arti figurative). Dal 1916 abbandona le arti figurati ed è attivo nel cinema (allievo di Vladimir Gardin e lavora con lui fino a prima della rivoluzione). Inoltre, fa lo scenografo per Evgenij F. Baue ̇r (regista che scappa in Francia), nel 1918 fa il volontario come operatore cinematografico di guerra. Nel 1919 tiene il primo corso all’Istituto Statale di Cinematografia di Mosca, più longeva e prima scuola di cinema del mondo e nel 1920 diventa direttore della Scuola. Nel caso di Kulešov, l’esercizio teorico e quello di cineasta non sono mai separati dall’insegnamento; sarà sempre attivo nella scuola come insegnante. Egli dirige diversi film, tra i più famosi: Le straordinarie avventure di Mister West nel paese dei bolscevichi (film comico e d’azione del 1924), Dura Lex (1926), Il Grande Consolatore (1933) A lui viene attribuita la paternità simbolica delle teorie del montaggio, cioè noi lo studiamo come quello che ha inventato la teoria sul montaggio, il padre. Nel 1917, prima dell’avanguardia sovietica, scrive in un suo articolo «Per fare un film il regista deve unire frammenti di pellicola disordinati e disgiunti in un unico insieme coerente e giustapporre questi momenti separati in una più vantaggiosa sequenza ritmica, così come un bambino compone parole o intere frasi con singole lettere impresse su cubi sparpagliati»  frase un po’ ancora legata all’idea precedente del ritmo visivo, ma in realtà c’è già tutto, perché il bambino che prende i cubi e forma le parole ci spiega già quale è l’idea di montaggio di Kulešov, ossia dei cubi che presi da soli non hanno valore ma che messi insieme formano una parola e quindi qualcosa dotato di senso. Nel 1918 la teoria si sviluppa un po’ di più e scrive «Ogni creazione artistica individuale possiede un proprio metodo basilare di espressione. Pochissimi cineasti (eccetto gli americani) hanno compreso che nel cinema il metodo per esprimere un’idea artistica è costruito dalla successione ritmica di singoli fotogrammi fissi o brevi segmenti veicolanti il movimento, ovvero da ciò che è tecnicamente chiamato montaggio. Il montaggio cinematografico corrisponde all’organizzazione dei colori in pittura o alla successione armonica dei suoni in musica»  unisce l’idea di specifico cinematografico: così come ogni arte ha il suo specifico, quello del cinema è proprio il montaggio. Dice che pochissimi l’hanno capito, tranne gli americani, che questa è la specifica, cioè la forma specifica del cinema. Nel 1922 chiarisce ancora di più dicendo «Il segreto per padroneggiare il materiale cinematografico – l’essenza della cinematografia – risiede nella sua composizione, nel succedersi dei pezzi filmati. La cosa più importante, per organizzare le impressioni, non è ciò che appare in un singolo pezzo, bensì come i pezzi si collegano l’uno all’altro, il modo in cui sono strutturati. Non dobbiamo cercare l’organizzazione della cinematografia entro i limiti dell’inquadratura impressionata, ma nella successione delle inquadrature. [...] L’essenza del cinema, il metodo con cui esso raggiunge il suo massimo effetto è il montaggio»  l’idea di Kulešov in questi anni è veramente estrema, cioè per lui l’inquadratura non conta nulla, ma l’essenza del cinema deriva proprio dal fatto che queste inquadrature si devono mettere insieme ed è da lì che nasce il senso narrativo. 46 L’arte del cinema (1929) è un testo più maturo di K del 29, in cui arriva ad una formulazione che partendo da queste basi diventa ancora più complessa e compiuta. Nel primo capitolo, “Il montaggio quale fondamento della cinematografia”, ripercorre le prime tappe delle sue ricerche negli anni 10 e dice: «Eravamo soprattutto consapevoli che per stabilire cosa fosse esattamente la cinematografia era necessario individuare quelle caratteristiche e quei mezzi specifici per colpire lo spettatore presenti soltanto nel cinema e in nessun’altra arte»  dice che bisognava cercare di stabilire cosa fosse esattamente la cinematografia e per farlo, per lui, è importante non solo capire lo specifico ma anche capire quali sono i mezzi che servono al cinema per colpire lo spettatore: dunque, per lui la ricerca dello specifico è sempre nella relazione tra film e pubblico/spettatore. Ma il compito è difficile, dunque è difficile trovare il mezzo specifico che colpisce davvero lo spettatore ed è proprio del cinema: né intreccio, né fotografia, né scenografia, né recitazione potevano essere considerati di per sé elementi specifici del cinema. Però, lui frequenta le sale e cerca di capire cos’è che ha realmente impatto a livello emotivo sullo spettatore e si rende conto che lo spettatore medio del cinema in quegli anni ha una preferenza dei film americani a quelli sovietici. Perché? Scrive: «Divenne palese che il film russo era composto da inquadrature molto lunghe riprese da una sola posizione. Il film americano, al contrario, comprendeva un grande numero di inquadrature girate da diverse posizioni [...] ci convincemmo che la fonte fondamentale dell’impatto del film sul pubblico – una fonte presente soltanto nel cinema – non era semplicemente il contenuto di certe inquadrature, ma la loro organizzazione, combinazione e costruzione»  un film dove le inquadrature sono tante e più brevi, si vedono le scene e il mondo da diverse angolazioni, non si indugia su elementi superflui, ma si elimina il superfluo e il banale con il montaggio. Dunque, i film hollywoodiani sono caratterizzati da economia e sintesi, ottenute soprattutto attraverso un uso sistematico di primi piani e dettagli (eliminazione del superfluo): ciò colpisce davvero emotivamente lo spettatore. Quindi scrive: «Chiamammo questo metodo di mostrare solo il momento o il movimento essenziale di una data sequenza [...] “metodo americano”, e lo ponemmo tra i fondamenti del nuovo cinema che stavamo cominciando a creare»  c’è questo misto tra estetica, teoria e poetica, perché lui è teorico nella misura in cui osservando il pubblico capisce delle cose sul cinema, però c’è un elemento di poetica ed estetica perché dice anche che quel metodo deve essere base per la fondazione del nuovo cinema che si sta cominciando a creare. Sono famosissimi i suoi esperimenti sul montaggio, ma il più famoso di tutti è l’effetto Kulešov. Effetto Kulešov  Sono tre primi piani inespressivi di Ivan Mozžuchin, tratti da un film di Bauer, montati con tre diverse inquadrature. I fotogrammi originali sono andati persi, dunque vi sono discordanze su quali fossero effettivamente le inquadrature e su quando venne realizzato l’esperimento. Sulla base dell’accoppiamento di questo primo piano dell’attore con 3 diverse immagini, il pubblico è convinto di vedere nello stesso primo piano tre emozioni diverse (fame, erotismo, tenerezza o tristezza), che però non ci sono in quanto non c’è recitazione sul suo volto. Il fatto che questo effetto sia diventato così importante ed incerto fa sì che spesso viene utilizzato più come aneddotica storiografica che per capire davvero a cosa fosse servito e quindi c’è spesso misinterpretazione. È un esperimento che manifesta una peculiare concezione del cinema, come cinema basato su un’unione sintagmatica: non esiste il singolo elemento ma soltanto un unione di più elementi per formare quello che è davvero lo specifico del cinema. Dunque, il senso dell’esperimento è solo in apparenza di facile e di univoca interpretazione, ma ci sono diverse interpretazioni: Jacques Aumont (1986) dice che «l’effetto Kulešov assume almeno due significati (praticamente opposti): o lo si legge come asserzione e dimostrazione dei poteri sintagmatici del film, del riassorbimento obbligatorio, in un’unica logica diegetica, della frammentazione del 47 montaggio, o vi si vedono piuttosto evidenziati i poteri metamorfici del montaggio e della discontinuità»  o lo si legge come una spiegazione del fatto che la produzione di senso nel cinema può avvenire solo se la pima inquadratura è riassorbita a livello di senso dalla seconda, oppure si può leggere l’effetto come un’evidenza del fatto che il montaggio trasforma di fatto le singole parti che mette insieme, facendole significare qualcosa di più. Seconda interpretazione  valore connotativo o Pudovkin, che prende da Kulešov, con l’idea di “montaggio costruttivo”  secondo lui, l’effetto Kulešov serve perché da due immagini giustapposte nasce un significato altro più alto che non è presente in nessuna delle due: spesse volte è un montaggio che dà senso altro (montaggio intellettuale di Ejzenštejn). o Secondo Bazin, per i sovietici «La materia del racconto, quale che sia il realismo particolare dell’immagine, nasce essenzialmente da questi rapporti (Mozžuchin + bambino morto = pietà), è cioè̀ un risultato astratto le cui premesse non sono comportate da alcuno degli elementi concreti» (1958)  anche lui lo legge in modo simile a quello che sarà il montaggio intellettuale, cioè dall’unione di due elementi nasce un terzo significato che non è presente in nessuno dei due. o Mitry  «È unicamente il rapporto Uomo che guarda-Donna guardata a evocare e a significare l’idea del desiderio, di modo che, prima di essere commosso e per esserlo, lo spettatore riceve un concetto, quello del desiderio per esempio» (1963); elementi della denotazione che costruiscono con i loro rapporti delle connotazioni.  viene posta enfasi su valore connotativo del montaggio e quindi non siamo molto lontani dal “montaggio intellettuale” einsteiniano Prima interpretazione  valore denotativo/sintagmatico Probabilmente è la più corretta e vicina all’intento di Kulešov quanto ha fatto quell’esperimento. o Burch dice che vede Kulešov come teorico della continuità narrativa dello stile hollywoodiano, adattato alle esigenze del nuovo Stato Socialista  secondo lui, proprio guardando il cinema hollywoodiano lui impara quest’idea di continuità narrativa, quindi l’effetto Kulešov non è altro se non un modo per spiegare la continuità narrativa, che ritiene essere la cosa più importante del cinema: vuole mettere questa continuità narrativa a servizio del nuovo cinema dello stato socialista o Tsivjan parla di “fraintendimento” da parte dello spettatore, cioè del fatto che il montaggio funziona perché lo spettatore fraintende le immagini e la relazione tra esse  proprio questo fraintendimento fa sì che il montaggio funzioni in senso narrativo, cioè ci aiuti a far progredire la narrazione e a costruire un’idea di spazio-tempo coerente. Il fraintendimento da parte dello spettatore presuppone una conoscenza delle regole elementari della sintassi cinematografica. «Evidentemente poteva ingannarsi circa l’espressione del volto dell’attore soltanto lo spettatore abituato alla lettura sintagmatica del film, poiché una persona senza alcuna esperienza della visione cinematografica non avrebbe potuto identificare in un’inquadratura l’oggetto guardato dall’attore con una scodella, e in un’altra con un feretro o con un bambino intento a giocare. Utilizzando una similitudine tratta dalla fonetica, si può dire che grazie all’effetto di assimilazione reciproca, la prima inquadratura di ogni coppia si sottomette a un’interpretazione retrospettiva nel contesto della seconda. Il meccanismo ha funzionato obbligando a leggere due testi giustapposti come uno solo» (1986)  questo fraintendimento, che è alla base del funzionamento 50 Ejzenštejn, visto come troppo oscuro). Antonio Costa (1986), importante studioso di studioso del cinema in Italia, parla della necessità di un ridimensionamento del Pudovkin teorico e dargli meno importante, anche per comprenderlo meglio e per riconoscere le influenze che ne hanno informato il pensiero: Innanzitutto, lui prende l’idea di Costruttivismo di Kulešov, dunque lo legge e guarda i suoi lavori. È molto influenzato dal Formalismo (corrente di studi più o meno contemporanea) che si dedicava soprattutto alla letteratura e poi al cinema, da cui prende l’idea di materiale e di procedimento e soprattutto prende molto spunto sul montaggio intellettuale di Ejzenštejn, ma c’è una sostanziale differenza ossia che per Pudovkin è formulato però in termini compatibili con un modello di cinema essenzialmente narrativo (era quello che aveva maggiormente introiettato gli sviluppi sul cinema come narrazione che c’erano stati in America in quegli anni, proprio per questo chiamato il Griffith sovietico)  mentre Ejzenštejn parla di abolire la sceneggiatura, di un cinema antinarrativo, invece Pudovkin fa film molti narrativi, simili a quelli americani. Per Pudovkin c’è un potere del montaggio tanto nella creazione di eventi e spazi che non esistono nel profilmico (ossia davanti alla macchina da presa), quanto nella selezione dei dettagli più significativi e funzionali di un’azione (montaggio analitico). Lui dice «Lo scopo del montaggio è quello di mostrare lo sviluppo della scena portando rapidamente l’attenzione dell’osservatore ora sull’uno ora sull’altro particolare. L’obiettivo sostituisce gli occhi dello spettatore. I movimenti della camera, che si dirige sui personaggi e sui particolari dell’azione, sottostanno agli stessi richiami cui obbediscono gli occhi dell’osservatore. Il regista, se vuole ottenere la massima chiarezza, la necessaria accentuazione dei particolari e l’evidenza, deve riprendere la scena in brani singoli, dirigendo l’attenzione del pubblico sui momenti più importanti di essa, deve costringerlo a vedere così come vedrebbe un attento osservatore»  quindi, dice che il cinema fa vedere al pubblico quello che vedrebbe un attento osservatore perché il cinema è in grado di selezionare e analizzare la scena prendendo gli elementi più importanti e montarli in un tutt’uno coerente. Questa omologia tra procedimento del montaggio e selezione operata dall’occhio nel campo visivo ci ricorda Münsterberg (ed Ejzenštejn), ma con una gran differenza poiché per quest’ultimo il cinema riproduce il funzionamento della mente umana (il primo piano ci ricorda l’attenzione mentre in flashback ci ricorda la memoria) mentre per Pudovkin il cinema è in grado di sezionare e organizzare la realtà in un modo più semplice - a livello di lettura (perché ci direziona l’immagine su ciò che è davvero importante) - e più articolato, cioè quello che vedrebbe un attento osservatore. Allora, per spiegare l’importanza del montaggio, equipara il cinema al linguaggio e dice che come le parole acquistano significato stabile solo quando sono in una posizione fissa dentro una frase, le singole inquadrature di un film prendono senso compiuto solo in rapporto ad altre inquadrature  per lui, se io dico “cane” la parola può significare qualsiasi cosa, se io dico “il mio cane si chiama Ernesto” il significato stabile di quella parola “cane” è acquisito solo dall’essere messo all’interno di una frase, e questo succede alle inquadrature. Brano tratto da Il montaggio del film (1928)  per il motivo sopra elencato, egli è contro l’espressione “girare” un film, lui pensa che l’espressione “girare un film” sia completamente falsa: «L’espressione “girare” un film è completamente falsa e deve scomparire dall’uso: un’opera cinematografica non viene girata, ma costruita impiegando i singoli fotogrammi e le scene che ne costituiscono il materiale grezzo. Se uno scrittore impiega una parola, [...] questa non è, per così dire, che il protocollo di un dato oggetto, ed è priva di un proprio valore spirituale: solo in rapporto con altre parole, nella cornice di una forma elaborata, acquista vita e realtà̀ artistica. [...] Io sostengo dunque che un oggetto, ripreso da 51 determinati punti di vista e proiettato davanti allo spettatore, è solo cosa morta anche se era animata dinnanzi alla camera. Il muoversi di un oggetto o di una persona dinnanzi alla macchina da presa non è ancora un movimento sullo schermo, ma soltanto materiale grezzo per la futura composizione, il montaggio. Solo quando l’oggetto è colto in una moltitudine di singoli fotogrammi e risulta da diverse forme particolari, l’immagine vive in forma cinematografica. [...] Il montaggio è il momento creativo per cui, da una fotografia inanimata, nasce la viva forma cinematografica»  lui dice che il girare è un procedimento relativo, l’importante è montare: una cosa si muove davanti alla macchina da presa, ma fino a che non è inserita in una forma compiuta ed elaborata non avremo un vero movimento a livello cinematografico. L’altra maggiore differenza con gli altri teorici è che non solo è meno originale e più semplice, ma è anche il fatto che sia il primo che fa una classificazione delle principali figure di montaggio. Individua diverse figure: • Antitesi «Quando si vuol rappresentare la condizione miserevole di un uomo affamato, la descrizione riuscirà maggiormente efficace se sarà̀ posta in contrasto con immagini di ricchezza spensierata» (La sceneggiatura cinematografica 1926)  per lui il montaggio è qualcosa di più di un semplice sviluppo del senso narrativo, ma fa nascere il senso più altro. Antitesi, dunque, è inserire un’immagine apparentemente antitetica per dare più significato all’immagine che vogliamo enfatizzare (se voglio far vedere un uomo affamato, lo metterò maggiormente in risalto effettuando un montaggio con vicino un’immagine di ricchezza) • Parallelismo «rappresenta alternativamente due azioni in sé non collegate e contrapposte in un unico montaggio, così da unirle e farle procedere insieme»  è un’estensione dell’antitesi: questa stessa idea di mettere insieme due cose opposte per dare valore all’immagine, può essere prolungata con delle azioni in sé non collegate contrapposte in un unico montaggio, così da unirle e farle procedere insieme, quindi posso prolungare l’antitesi con delle serie di immagini • Analogia (molto simile al montaggio intellettuale di Ejzenštejn) è il principio su cui si fondano le similitudini visive ottenute attraverso il montaggio, che permette di comunicare agli spettatori un concetto astratto comparando due immagini (o due serie) non interrelate dal punto di vista diegetico [es. famosa sequenza della rivolta operaia messa in serie parallela con i buoi al macello in Sciopero]  due immagini che non hanno alcune relazione dal punto di vista della diegesi, che però crea una metafora visiva/similitudine per cui serve allo spettatore per comprendere più profondamente. • Simultaneità è il montaggio alternato stile Griffith, «costruito sul rapido e simultaneo svolgersi di due azioni, la cui conclusione è condizionata reciprocamente»  inserisce il concetto di montaggio alternato e lo inserisce tra le principali figure del montaggio • Leitmotiv, presa da Wagner, è la ripetizione di una stessa immagine per tutta la durata del film, con valore metaforico  qualcosa che ritorna durante il film. NB: le figure individuate da Pudovkin non sono riconducibili a una grammatica del cinema, piuttosto a una retorica o a una stilistica del montaggio  quelle sono le forme giuste del montaggio, c’è un intento quasi normativo, è lo stile che il montaggio deve avere, dunque per lui il montaggio non è qualcosa che ci spiega come funziona narrativamente il film, ma è interessante la connotazione (parleremo più avanti della 52 grande sintagmatica della colonna visiva, che è un modo attraverso il quale Matts cerca di sviluppare una sorta di grammatica di come funziona la colonna visiva dei film narrativi e dice che esistono i sintagmi, che sono delle unità di senso costituite da almeno 2 inquadrature che hanno delle forme fisse che sono una grammatica che poi compare nei film). Quindi, Pudovkin si interessa non alla denotazione (come Kulešov) ma alla connotazione, cioè il montaggio è sempre qualcosa che aggiunge un senso in più. Mitry, invece, scrive che per lui il montaggio è un «montaggio lirico, che, pur assicurando la continuità narrativa o descrittiva, si serve di questa continuità per esprimere delle idee o dei sentimenti che trascendono il dramma» (1971)  fa film narrativi dove si capisce tutto, con montaggio analitico, ma per lui la continuità che il montaggio costruisce serve per esprimere idee o sentimenti che in realtà trascendono la storia che semplicemente viene raccontata. Lettura testo in classe di Vsevolod Pudovkin, Il regista e il materiale cinematografico, in A. Barbera, R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori 1978. Questo testo ci spiega meglio la questione della dialettica materiale-procedimento che deriva dai formalisti. Per l’inquadratura è come materiale grezzo e naturale che deriva dall’analisi della realtà e che ha in sé poco di formativo e creativo  si ripete che l’inquadratura in sé non è qualcosa di creativo e formativo, ma si deve analizzare la realtà e all’analisi deve fare seguito la ricreazione e la ricomposizione delle singole parti che è il montaggio, vero procedimento creativo del film (no inquadratura, ma montaggio come vero procedimento creativo). La madre (1926), sequenze: nella madre è molto chiaro come il montaggio per Pudovkin garantisce innanzitutto continuità narrativa, ma c’è sempre qualcosa di più, c’è sempre un elemento simbolico. La prima scena che vediamo è il momento in cui il figlio (protagonista) della madre scappa di prigione e cerca di raggiungere la folla che intanto ha cominciato l’insurrezione, per farlo deve passare per un fiume ghiacciato che si sta sgretolando. C’è un montaggio narrativo, però c’è anche un simbolo, poiché la contrapposizione tra folla che avanza e il fiume che avanza con queste lastre di ghiaccio è un simbolo della folla che, come un fiume in piena, sta arrivando per fare la rivoluzione (in lui c’è, oltre al montaggio narrativo, sempre anche qualcosa che dà un significato altro). Testo di Pudovkin  anche se qui siamo in un livello molto avanzato ormai della teoria, comunque il paragone con il teatro spesso succede di doverlo fare. C’è un abisso tra la concezione di cinema che ha Pudovkin e quella di Epstein: per Epstein il cinema è fatto della realtà, che la fotogenia porta alla luce la verità intima della realtà, e qui Pudovkin invece dice che il regista lavora con pezzi di pellicola e non lavora con la realtà  pure nella considerazione di un cinema che vede sempre qualcosa di più, da una parte c’è la realtà che arriva allo spettatore tramite la pellicola per transustanziazione, mentre dall’altra c’è proprio la concezione di pellicola da prendere, tagliare e mettere insieme in modo ordinato. C’è l’idea in questo testo di eliminare il superfluo che c’era già in Kulesov. Parla poi di meccanismi percettivi, e dice che quando si guarda un oggetto, in realtà ci si focalizza su certi aspetti ed è solo grazie a quello che ricostruiamo nella nostra testa che si ha un’immagine compiuta dell’oggetto (piuttosto che dallo sguardo generale). Dice poi che il reale non è ambiguo, e il cinema aiuta a focalizzare gli elementi importanti del reale. Si parla poi di montaggio analitico e di selezione (decoupage classico). Ciò che dice è che anche il regista teatrale può cercare di dare un valore a qualcosa, ma lo spettatore avrà comunque una visione d’insieme che non gli permetterà di eliminare completamente le altre cose, mentre il cinema ci permette di farlo tramite il montaggio analitico  C’è 55 montaggio funziona per creare unità che funziona per creare emozioni ma soprattutto che da queste emozioni lo spettatore deve sviluppare una comprensione del lato ideale. Le Attrazioni sono: «qualsiasi momento aggressivo del teatro, cioè qualsiasi suo elemento che eserciti sullo spettatore un effetto sensoriale o psicologico, verificato sperimentalmente e calcolato matematicamente, tale da produrre determinate scosse emotive le quali, a loro volta, tutte insieme, determinano in chi percepisce la condizione per recepire il lato ideale e la finale conclusione ideologica dello spettacolo» (Ejzenstejn)  “momento aggressivo del teatro” ovvero un momento che emerge nello spettacolo perché è particolarmente forte, forte nel senso che deve creare un effetto sensoriale oppure scuotere a livello psicologico lo spettatore. Inoltre, circolava l’idea che la psiche del corpo umano risponde sempre nello stesso modo calcolabile e verificabile a determinati stimoli sensoriali, e quindi secondo lui con questi momenti aggressivi si possono provocare a livello sensoriale e psichico una reazione sullo spettatore, e questa reazione la si può sia controllare ma anche prevedere a seconda del tipo di stimolo che fornisco e, dalla risposta emotiva, lo spettatore capisce il lato ideale che sta dietro lo spettacolo e quindi aderisce al lato ideologico dello spettacolo. La base è sempre questa (siamo nel 1923, anche se poi la elaborerà più volte), cioè stimolare, creare attraverso gli stimoli delle reazioni, attraverso le reazioni delle emozioni e attraverso le emozioni creare una comprensione dello spettacolo che si sta vedendo che è anche un’adesione ideologica ai temi proposti dallo spettacolo. Una cosa da notare sul montaggio delle attrazioni per Ejzenstejn è che la messa in scena teatrale, proprio in quanto fondata su elementi indipendenti e sulle attrazioni, è completamente di carattere ANTINARRATIVO: la narrazione non è più la cosa principale, ma ciò non significa che la traccia narrativa si debba completamente dimenticare. Lui scrive: «Il nostro metodo modifica radicalmente i principi di costruzione della “struttura efficiente” (lo spettacolo nel suo complesso): al posto del “riflesso” statico dell’evento dato, richiesto dal tema, e della possibilità di risolverlo unicamente attraverso le azioni logicamente legate a quell’evento, si avanza un nuovo procedimento: il libero montaggio di azioni (attrazioni) arbitrariamente scelte e autonome (anche al di fuori della composizione data e dell’ambientazione narrativa della scena e dei personaggi) ma dotate di un preciso orientamento verso un determinato effetto tematico finale: ecco il montaggio delle attrazioni»  lui dice che il riflesso statico non ci interessa, non ci interessa che le azioni si svolgano in modo coerente a livello logico. Quindi, lui dice che gli elementi del teatro sono scelti arbitrariamente, sono autonomi, possono anche non avere a che fare con la composizione data, con l’ambientazione narrativa e con i personaggi, ma servono per creare un’unità di tipo tematico finale. Nel 1923-1924 prosegue la sua attività teatrale, con lo spettacolo “Maschere antigas” (spettacolo sperimentale, esce dai teatri e va in una fabbrica) e dopo averlo fatto si convince che la forma teatrale non è abbastanza, anche portandola fuori dal teatro, e che solo il cinema può esprimere le esigenze di senso della nuova realtà in trasformazione dello stato sovietico, non a livello di contenuto (il teatro può raccontare la condizione dello stato sovietico), ma di FORMA, cioè il teatro non è abbastanza duttile per poter incarnare dal punto di vista formale la realtà trasformativa che l’avanguardia sovietica vuole raccontare, ossia quella del nuovo stato sovietico). Quindi lui nel 1924 scrive quest’altro articolo; “Il montaggio delle attrazioni cinematografiche” (dove finalmente parla di cinema) e le riflessioni che porta avanti in questo articolo confluiscono nel suo “vero e proprio” film del 1925 “Sciopero” 56 Il montaggio delle attrazioni cinematografiche (1925) Innanzitutto, vede una comunanza tra teatro e cinema, nel senso che in lui non c’è una separazione netta o una ricerca dello specifico: il teatro è «connesso al cinema dalla comunanza (omogeneità) del materiale di base, cioè lo spettatore, e da uno stesso fine, il “modellare” questo spettatore nel senso voluto attraverso una serie di pressioni, calcolate con precisione, sulla psiche. [...] Se i loro mezzi sono diversi, il procedimento fondamentale è comune: il montaggio delle attrazioni, che ha avuto conferma pratica nei miei lavori teatrali, al Proletkul’t, e che ora applico al campo cinematografico. È questo il procedimento che libera l’oggetto cinematografico dalla sceneggiatura narrativa»  sono uguali per l’omogeneità del materiale di base, cioè lo spettatore, poiché in entrambi è su di esso che si tenta di agire e il fine è lo stesso. Quindi, per lui teatro e cinema hanno in comune almeno queste tre cose; il materiale, cioè lo spettatore, il procedimento, cioè il montaggio delle attrazioni, e anche l’anti- narratività dell’operazione nel suo complesso, quindi questo procedimento dell’utilizzare delle pressioni per modellare la psiche dello spettatore è un procedimento che libera l’oggetto cinematografico e anche teatrale dalla sceneggiatura narrativa. Quindi, per Ejzenstejn, quello che emerge in questo articolo del 25, è che il cinema essendo un’arte delle combinazioni (del montaggio), si presta meglio del teatro al metodo delle attrazioni (combinazione-comparazione di fatti), perché manipola NON fatti reali ma immagini fotografiche (riflessi convenzionali del mondo)  nel teatro si manipola un evento che avviene realmente davanti allo spettatore, mentre i fatti del cinema sono solo convenzionalmente reali, cioè sono riflessi convenzionali del mondo (la combinazione è insita nella sua forma, connaturata alla forma del cinema): «Il montaggio dunque (nell’accezione tecnica cinematografica di questo termine) è una condizione essenziale del cinema, sul cui carattere convenzionale esso si fonda, adattandosi anche alle corrispondenti peculiarità della percezione. Se a teatro l’azione influenzante si ottiene soprattutto tramite la ricezione fisiologica di un fatto che si svolge realmente, [...] nel campo cinematografico, invece, essa si forma combinando e accumulando nella psiche dello spettatore le associazioni necessarie al fine perseguito, facendole nascere dai singoli elementi di un fatto scomposto (praticamente in “pezzi di montaggio”). Nel loro insieme, indirettamente, queste associazioni provocano un effetto analogo a quello del fatto reale (spesso anche piú intenso)»  lui ci vuole dire che a teatro la ricezione è fisiologica, cioè noi siamo presenti e siamo partecipi, vediamo un fatto che succede, partecipiamo della stessa ria degli attori, mentre il cinema, proprio perché basato su convenzioni, fatto di pezzi di montaggio e pezzi di pellicola impressionata montati tra di loro, lavora direttamente sulla psiche dello spettatore e fa già creare nella psiche le associazioni necessarie al fine perseguito (la psiche dello spettatore coglie l’unità dal montaggio). Quindi, il montaggio delle attrazioni cinematografiche è un libero montaggio di azioni arbitrariamente scelte (attrazioni), indipendenti (anche al di fuori della composizione data e del legame col soggetto dei personaggi), ma con un preciso orientamento verso un determinato effetto tematico finale, che si realizza meglio nel cinema che nel teatro proprio per la natura convenzionale e già combinatoria di esso stesso. Jacques Aumont (1979), grande studioso del cinema e che si è occupato anche di Ejzenstejn, nel 79 chiarifica che in realtà Ėjzenštejn usa la parola “attrazione” in tre accezioni diverse, che tra loro sono interdipendenti: 57 - Per la maggior parte, quando parla di attrazioni, intende un numero sensazionale, qualcosa di sensazionale che attira il pubblico, un momento forte e autonomo che si basa su tecniche diverse dall’illusione drammatica (ispirandosi allo spettacolo popolare, circo, music-hall) - Nel senso di un procedimento che provoca nella mente dello spettatore delle associazioni di idee che si collegano al soggetto del film, dunque idee che si attraggono tra di loro  idea di “combinazione-comparazione di fatti” che preannuncia montaggio intellettuale - Qualcosa che viene escogitato appositamente per convogliare attenzione dello spettatore (influenza della “riflessologia” e del pavlovismo) Dunque, se il montaggio delle attrazioni per Ėjzenštejn è in grado di produrre associazioni di idee, il suo scopo di queste associazioni è influenzare lo spettatore, modellando la sua psiche “nel senso voluto” ovvero quello della propaganda politica per Ėjzenštejn (ancora di più che per Kulešov e Pudovkin)  lo spettatore deve aderire ideologicamente al tema proposto dal film (in modo volontario). Ėjzenštejn scrive: «Al di fuori dell’“agitazione” non esiste, o meglio, non deve esistere nessun cinema»  quindi per lui, soprattutto in questo momento della sua carriera (pieno ottobre delle arti), non esiste alcun cinema se non è per supportare a livello ideologico lo stato sovietico. Per Ėjzenštejn il montaggio NON è il procedimento specifico del cinema (teatro, romanzi di Dickens, quadri di El Greco, teatro kabuki, ideogrammi, ecc.)  lui vede il montaggio dappertutto. Il film deve essere anti-narrativo, totalmente diverso dal tipo di montaggio essenzialmente narrativo di Kulešov e Pudovkin (anche se ammette uso della sceneggiatura scritta o di uno «schema basilare di orientamento» e anche se alle attrazioni per essere efficaci serve la presenza di normali episodi narrativi): «Sono convinto che il futuro appartiene alle forme senza intreccio narrativo e senza attori» Anche Ėjzenštejn come Kulešov e Pudovkin usa la distinzione formalista tra “materiale” e “procedimento” usata in modo originale: il procedimento è sempre il montaggio, ma il materiale non è più la pellicola impressionata ma è lo SPETTATORE (attraverso scosse e stimoli il montaggio è in grado di plasmare la coscienza dello spettatore). Inoltre, un’altra distinzione tra Ėjzenštejn, Kulešov e Pudovkin è il grande rilievo alla dimensione CONCETTUALE delle associazioni fra i piani/inquadrature create dal montaggio, è già presente dall’inizio la nozione di “montaggio intellettuale”. Scrive: «nel cinema, al contrario di quanto avviene nel teatro, il centro di gravità delle azioni influenzanti non consiste nell’esercitare direttamente un influsso di carattere puramente fisiologico, benché un contagio puramente fisico possa essere talvolta raggiunto»  per lui l’effetto del cinema è più mediato, cioè non arriva al corpo, ma direttamente alle facoltà intellettuali dello spettatore in modo diverso dagli altri, perché il montaggio secondo lui serve per creare concetti astratti. Il montaggio delle attrazioni, quindi, «consiste nel comparare i soggetti mirando a un effetto tematico» e attraverso di esso «si combinino non dei fenomeni (come poteva succede nel teatro), ma delle serie di associazioni collegate nella mente di un determinato spettatore con un determinato fenomeno»  fondamentalmente, il montaggio della attrazioni avviene prevalentemente nella testa dello spettatore (per quanto sia possibile un coinvolgimento fisiologico). Sciopero (1925) La prima sequenza è molto famosa, che lo stesso Pudovkin usa per spiegare il concetto di analogia, e ci sono due serie diverse di cui una non fa parte dello stesso 60 montaggio  per lui, questi strumenti di riproduzione meccanica del reale non solo sono autonomi, non solo ci fanno vedere la vita, ma di fatto costruiscono la vita, perché attraverso il montaggio (ricostruzione a posteriori) si dà forma alla realtà. Nel 1918 diventa montatore della “Kinonedelja” (Cinesettimana), cinegiornale ufficiale dello stato sovietico. Nel 1919-1921 prende parte alla guerra civile Russa e anche lui fa parte del treno di propaganda, però nella sezione cinematografica del treno del Comitato esecutivo centrale. Poi fonda il “Kinoki”, collettivo politico-artistico che fonda insieme al fratello Michail e alla compagna Elisaveta Svilova, e scrive: «Ecco il punto di partenza: utilizzare la cinepresa come un cineocchio molto piú̀ perfetto di quello umano, per esplorare il caos dei fenomeni visivi che riempiono lo spazio» (1923)  idea di usare la macchina da presa per indagare il reale, la vita, in modo più perfetto di come lo faccia l’occhio umano e attraverso il montaggio si può dare una forma al caos del reale (è l’unico di questi registi che in qualche modo si interessa al problema del referente, cioè di quello che la macchina vede o può vedere). Per lui questa esplorazione che il cineocchio deve fare non deve avvenire nel film narrativo, ma nella cine-cronaca (meglio), che usa solo le risorse della macchina da presa e del montaggio e prende come oggetto la vita autentica. Nel 1922, insieme ai Kinoki, mette a punto la Kino-Pravda (significa cine-verità), un cinegiornale autonomo (23 numeri, fino al 1925): si voleva fare una “cinematizzazione” delle masse, quindi attraverso la diffusione, oltre a informare gli spettatori di ciò che accadeva nella società, si voleva fornire loro degli strumenti linguistici sul cinema, una sorta di alfabetizzazione cinematografica in modo che, una volta compreso questo linguaggio, le masse potessero usare il cinema per partecipare direttamente alle scelte operate in Unione Sovietica  Cinema come strumento per la partecipazione diretta delle masse alle scelte culturali, economiche, politiche operate in URSS. «Il fatto che il cinegiornale Kino-Pravda, come il quotidiano Pravda, riguardasse meno le notizie e più le dichiarazioni, ha reso il compito di Vertov particolarmente difficile. Sentiva di aver bisogno di legare i fatti in sequenze e far sì che le sequenze fossero lette come affermazioni, qualcosa che ha continuato a cercare di ottenere sin dal primo numero. Kino-Pravda n.1 è un buon esempio. Inizia con immagini strazianti di bambini affamati (il 1922 vide una terribile carestia in Russia). È ciò che la teoria di Vertov chiama un "fatto". La sequenza dei bambini affamati è composta da 16 inquadrature. Poi Vertov passa a un altro "fatto" della vita politica russa nel 1922: la requisizione degli oggetti di valore posseduti dalla Chiesa ortodossa russa. Altri 15 scatti mostrano le autorità sovietiche che raccolgono perle e gioielli da icone in presenza di un clero depresso e irresistibile. Poi un titolo mette insieme i due argomenti: "Ogni perla salva un bambino". E così via. Il trucco potrebbe non sembrare terribilmente ingegnoso per gli standard odierni, ma deve essere stato nel 1922. Editing dialettico: tesi – antitesi – sintesi. Kino-Pravda non solo mostra – spiega!» (Tsivian 2004)  questa cosa oggi non sembra molto ingegnosa, ma nel 22 lo era questo montaggio dialettico (tesi-antitesi-sintesi). La Kino-Pravda non solo mostra, ma spiega, dà una chiave di interpretazione. Kinopravda N. 1 (5 giugno 1922) Dopo la sequenza delle autorità che staccano le perle, c’è una manifestazione aerea di beneficienza creata per raccogliere fondi per i bisognosi: qui, nelle inquadrature c’è già quell’ossessione di Vertov per i punti di vista particolari, impossibili, quasi astratte. Nell’ultima parte, invece, c’è il processo ai socialisti rivoluzionari ed è un tema che ritorna in diversi episodi in quanto importante e pubblica: è uno dei momenti in cui si crea una sorta di cortocircuito tra l’idea di rappresentare la vita e quella di messa in scena della vita stessa. C’è molta sperimentazione. 61 Commento sulla scenetta: «Ci sono tocchi di sperimentazione nei primi 8 numeri di Kino-Pravda, che diventano solo più audaci nei numeri successivi [...]. Forse il più interessante di questi sono i giochi di Vertov con il titolo del film. Kino-Pravda n. 5 inizia con la vista di un uomo il cui volto è nascosto dietro il giornale che sta leggendo. Il titolo di questo giornale fasullo è "Kino-Pravda n. 5. 7 luglio 1922". In altre parole, l'uomo che legge il giornale rappresenta noi, gli spettatori, e il foglio che sta leggendo rappresenta il film che stiamo guardando. Nel numero successivo, Kino-Pravda n. 6, Vertov prova un altro trucco, del genere che proverà ancora, 7 anni dopo, in L'uomo con la cinepresa. Inizia con un primo piano di una scatola, su cui leggiamo le parole "Kino-Pravda n. 6. 14 luglio 1922". Un uomo arriva e apre la scatola, che risulta contenere una bobina di pellicola. L'uomo infila il film – lo stesso film che stiamo guardando – in un proiettore e inizia il cinegiornale Kino-Pravda n. 6. Dai un'occhiata attenta al proiezionista al lavoro. Non potevo credere ai miei occhi, ma sembra che stia fumando mentre apre la scatola ed estrae la pellicola di nitrato! In verità, il tempo di Vertov non era per i nervosi» (Tsivian 2004)  la cosa più interessante sono i giochi di Vertov con i titoli. Dunque, la cosa interessante è vedere il lavoro metariflessivo che Vertov fa già in questi suoi primi esperimenti: idea del mezzo che riflette sé stesso. Montani, studioso di estetica che ha studiato molto i sovietici, nella sua introduzione ai suoi scritti mette in relazione la Kino-Pravda con la cinematizzazione delle masse, e scrive: «Il presupposto rivoluzionario della Kino pravda consisteva in ciò che Vertov definì “cinematizzazione (kinofikacija) dell’URSS operaia e contadina”: una vera e propria “alfabetizzazione” cinematografica, volta a consentire, in prospettiva, un effettivo confronto dialogico, ampio e capillare, tra una pluralità̀ di interlocutori attivi e competenti (dotati, cioè̀, della competenza tecnica necessaria a “prendere la parola” in qualità̀ di veri e propri produttori di testi audiovisivi). La Kinopravda intendeva solo muovere un primo passo in questa direzione, ma lo faceva inaugurando una modalità̀ procedurale di tipo riflessivo – quella di un linguaggio che produce enunciati e insieme esplicita il suo quadro enunciativo – destinata [...] a uno sviluppo originale e assai fecondo. Il numero 6 del 1922, per esempio, si apre mostrando una piazzetta in cui qualcuno sta montando un proiettore e uno schermo portatile mentre da un furgone vengono scaricate alcune bobine della Kinopravda per una proiezione volante rivolta a un pubblico cittadino improvvisato. Il cinegiornale di Vertov, dunque, denunciava uno sguardo tecnico consapevolmente interno all’arredo urbano: la prestazione di un occhio meccanico che agisce in mezzo alla contingenza, all’impersonalità̀ e alla casualità della vita quotidiana e che, soggetto e insieme oggetto di visione, dichiara questa sua natura duplice e la fa lavorare in modo esplicito e tematico» (Montani 2011)  l’uso metariflessivo del linguaggio, cioè il rendere consapevole lo spettatore di star vedendo il film, era un modo di Vertov per sensibilizzare lo spettatore al linguaggio cinematografico, quindi era un passaggio che doveva rientrare nel progetto dell’alfabetizzazione cinematografica delle masse. Kinopravda N. 6 (14 luglio 1922) Vediamo punti di vista sempre inaspettati, inusuali, che già dai primi esperimenti con il cinema Vertov cerca di darci (sempre un punto di vista che non fosse quello dell’occhio umano). Attenzione sul lavoro, nella scena, che ritorna molto (mani che lavorano). Vediamo l’esercitazione dell’Armata rossa. Non c’è una linea narrativa, immagini molto casuali, modo di portare avanti l’ideologia molto basato sulla relazione tra le immagini. «La Kino pravda è fatta con frammenti di realtà organizzati in soggetto, e non viceversa» (Vertov 1924)  Attenzione, però: il mezzo cinematografico NON è mero strumento di registrazione del reale o semplice simulacro dell’occhio umano, non cerca di darci una lettura narrativizza del reale, ma soprattutto non si può attaccare una sceneggiatura al reale. Lui scrive: «Sino a oggi abbiamo 62 violentato la cinepresa e l’abbiamo costretta a copiare il lavoro del nostro occhio. E quanto meglio veniva copiato, tanto migliore era considerata la ripresa. Da oggi liberiamo la cinepresa e la facciamo funzionare nella direzione opposta, lontano dalla copiatura. Le debolezze dell’occhio umano sono tutte allo scoperto. Noi affermiamo il cineocchio che cerca, sondando il caos dei movimenti, la risultante del proprio movimento. Affermiamo il cineocchio con le sue misure spaziali e temporali che crescono in forza e in possibilità fino all’auto affermazione» (1923)  secondo lui, il tentare di riprodurre la visione umana è fare violenza al cineocchio, che deve sondare il caos ma cercando il proprio movimento (non un movimento imposto dall’alto, non un movimento che scimmiotti la nostra esperienza sensoriale e percettiva quotidiana). «Io sono il cineocchio. Io sono l’occhio meccanico. Io, macchina, vi illustro il mondo come io solo posso vederlo. Io mi libero, da oggi e per sempre, dall’immobilità umana, io sono in continuo movimento, io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra, io mi muovo fianco a fianco col muso di un cavallo in corsa, io irrompo, a piena velocità, nella folla, io corro davanti ai soldati in corsa, io mi lascio cadere sul dorso, io mi levo in volo con gli aeroplani, precipito e risalgo, in volo, con corpi che precipitano e risalgono. [...] La mia vita è diretta verso la creazione di una nuova percezione del mondo. Così io decifro in modo nuovo un mondo che vi è già̀ conosciuto» (1923). Questo paragonato a Jean Epstein: «La Bell-Howell è un cervello di metallo [...]che trasforma il mondo esterno in arte» (1921) occhio cinematografico come «occhio fuori dall’occhio» (1926)  idea che la cinepresa sia più potente dell’occhio umano e del cervello umano, dunque la cinepresa per Epstein è il vero artista, un occhio fuori dalla normale percezione (ovviamente per lui è una questione di fotogenia). Qui, per Vertov, il cineocchio raccoglie la realtà perché non scimmiotta la visione normale dell’occhio, ma soprattutto lui decifra il mondo attraverso il montaggio in un modo che non scimmiotta la nostra esperienza umana e quotidiana del reale (idea, in questi anni, di occhio meccanico che è più potente di quello umano). «La Kino pravda ebbe tuttavia per V. una funzione propedeutica, un compromesso con le forme usuali della cronaca cinematografica. Con il progetto intitolato Kinoglaz egli si spinse invece oltre ogni ancoraggio meramente documentario inaugurando il primo vero tentativo di cinematografia non recitata» (Montani 2004)  il progetto con cui in realtà Vertov tentava di realizzare l’idea dell’occhio meccanico che irrompe nel caos del reale e raccoglie la forma interna del caos del reale è il Kinoglaz, che dovevano essere 6 serie di cineoggetti (non li chiama nemmeno film, perché non devono essere opere concluse) di cui lui realizza solo la prima a causa di molti problemi dal punto di vista produttivo, in quanto queste forme erano un po' troppo estreme anche per lo stato socialista, dunque vengono tolti i finanziamenti. Questo che ci rimane, solo una serie, è davvero un tentativo di fare quello che per Vertov era il vero cinema, non recitato, un cinema senza attori e senza sceneggiature il cui oggetto è costituito dal mondo della vita e dagli eventi che vi accadono. Articolo di Vertov, “L’importanza del cinema non recitato” (1923): «Il cine-oggetto è il risultato compiuto dell’esercizio di una vista perfetta, resa piú precisa e penetrante da tutti gli strumenti ottici disponibili e in primo luogo dalla cinepresa che sperimenta nel tempo e nello spazio. Il campo visivo: la vita; il materiale per la costruzione del mondo: la vita; le scene: la vita; gli attori: la vita»  questo cinema non recitato. La prima serie del Kinoglaz si chiama La vita colta in flagrante, 1924. Secondo Vertov, dunque, il cinema attraverso il cineocchio deve rivoluzionare la percezione e la lettura del mondo visibile, a condizione di saper usare in modo indipendente la sua “naturale” capacità di cogliere e 65 Ejzenstejn e vede come questi temi sono sviluppati dal film (rapporto tra vita e morte, il rapporto tra umano e animale ecc.)  Il cinema ritrovato (presentazione del DVD Edizioni Cineteca di Bologna, che si occupa di restauri).  Alessia Cervini, La corazzata Potemkin, in F. Pierotti, F. Vitella (a cura di), Il cinema dello sguardo. Dai Lumière a Matrix, Marsilio 2019  Cervini si occupa prevalentemente delle questioni politiche relative al film, quindi di Potemkin come un film rivoluzionario. In questa introduzione, avremo una presentazione generale del film ma soprattutto puntualizzare quali sono gli elementi sui quali dovremo focalizzare l’attenzione nella nostra visione. Ėjzenštejn stesso definisce un film “un dramma in 5 atti” e gli atti sono: 1. Uomini e vermi 2. Il dramma nella baia di Tendra 3. Il morto invoca vendetta 4. La scalinata di Odessa 5. L’incontro con la flotta zarista Il film è una storia collettiva, cioè non ci sono eroi individuali e nemmeno nemici singolari, ma ogni personaggio rappresenta una classe di personaggi  anche l’unico eroe, Vakulinchuk, che è il protagonista dei primi due atti, in realtà è un personaggio che rimanda all’intera classe dei marinai che rappresenta. Quindi è un dramma collettivo raccontato da personaggi che NON sono degli individui, ma rappresentano delle condizioni di vita, sociali, emotive, e questo si lega alla scelta che Ėjzenštejn ha fatto rispetto agli attori: in questo film, come in altri, la scelta degli attori è avvenuta cercando un po’ nelle compagnie locali dei posti dove girava, ma soprattutto sulla base di caratteristiche fisiognomiche (viso e corpo) e quindi prendendo persone anche così dette dalla “strada”, non professionisti, questo perché voleva creare dei tipi  per Ėjzenštejn l’attore non doveva esprimere un’individualità, ma doveva essere referenziale, cioè esprimere un’idea/classe, rimandare sempre a qualcos’altro, quindi questi attori sono appunto referenziali non individualizzati proprio perché il dramma si svolge in maniera collettiva e tutti i personaggi sono rappresentativi di qualcos’altro. Ognuno di questi atti si svolge al suo interno in un’unità di tempo, luogo e azione, quasi come se fosse una tragedia antica (le tragedie greche che si svolgevano in unico arco temporale definito, unico luogo e azione continua) ed è in base a queste unità tempo, luogo e azione che Ėjzenštejn ha separato i 5 episodi. In ognuna delle singole sequenze (caratterizzate da unità di tempo luogo e azione) in realtà però avvengono dei passaggi di stato, che riguardano l’atteggiamento dei personaggi ma riguardano anche il tenore del film: in ognuno di questi episodi si passa da una posizione negativa, dove c’è rassegnazione, tristezza, panico, ecc, a una posizione di ribellione, difesa della dignità umana, e nel finale anche di trionfo  Questi passaggi di stato non avvengono per mere evoluzioni narrative, per esempio dei personaggi, o non avvengono perché c’è un cambiamento nella recitazione degli attori, ma avvengono soprattutto e sono soprattutto sostanziate questioni di tipo tecnico e linguistico, cioè sono passaggi di cui noi ci rendiamo conto e che ci creano anche un diverso sentimento come spettatori sulla base ad esempio di cambiamenti del montaggio, scelte delle angolazioni di ripresa, ecc. Quindi, la tecnica (dove per tecnica si intende anche il linguaggio cinematografico) è fondamentale nel sostenere questi passaggi di stato che sono alla base di tutti questi atti, che non avvengono per evoluzione 66 narrativa dei personaggi (in modi più tradizionali) ma avvengono attraverso lo stile, la forma. LÉON MOUSSINAC (1926) Léon Moussinac è l’autore di “Naissance du Cinèma”, uno degli autori della prima avanguardia francese, quindi uno dei fautori della fotogenia. Moussinac era un personaggio molto inserito nell’ambiente culturale della Parigi degli anni 20, sodale di Canudo, collaboratore di Delluc ed Epstein, ma aveva però una particolarità poiché era comunista e quindi la sua teorizzazione legata alla fotogenia, allo specifico cinematografico e all’arte cinematografica non era mai disgiunta da rivendicazioni di tipo politico. Inoltre, è stato un grande importatore del cinema sovietico in Francia, grande divulgatore rispetto al cinema sovietico, per cui è interessante leggere questa sua testimonianza, che ci dà l’idea di come la sensibilità di Moussinac imbevuta dell’avanguardia francese degli anni 20, filtrava la visione di questo film che invece apparteneva a quella che noi sappiamo essere una diversa scuola sia cinematografica che teorica. Questo ci racconta anche che le scuole famose nazionali, formate negli anni 20, in realtà avevano una comunicazione tra loro perché il cinema comunque è sempre stato e lo era soprattutto nell’epoca del muto un fenomeno transnazionale, perché circolava nelle nazioni e con esso circolavano anche le idee. Moussinac dice: «L’opera più forte e più alta che il cinema abbia prodotto. Mai prima d’ora “un film” (sottolineo la parola perché La corazzata Potëmkin è essenzialmente, magnificamente un film) aveva raggiunto un tale dinamismo, aveva messo in risalto una verità con altrettanto pathos. Di questo capolavoro si può dire che è la prima forma epica che il cinema abbia realizzato. Esalta i più profondi sentimenti umani e la loro assoluta grandezza morale entro un ordine rivoluzionario. Una sintesi sociale.  innanzitutto, specifica che questo film “è essenzialmente e magnificamente un film”, cioè non copia le altre forme d’arte in nessun modo (grande preoccupazione in quegli anni) e in questo senso apprezza il film anche perché è un FILM, cioè non tenta di copiare teatro o un romanzo o un quadro ecc. Qui si sofferma sul Pathos, che oggi non tratteremo, però è una questione molto importante per Ėjzenštejn e questo film in particolare, ma ovviamente il modo in cui Moussinac qui intende pathos è più generale, nel senso di grande partecipazione emotiva dello spettatore, mentre per Ėjzenštejn è molto più complesso. …Dramma dominato nella sua architettura, nei suoi sviluppi, nei suoi dettagli, in ogni sua intima espressione dall’autorità del regista e servito dall’ammirevole disciplina degli attori, La corazzata Potëmkin è una flagrante dimostrazione della legge del cinema, ovvero del fatto che in un film descrittivo il sentimento della realtà è indispensabile affinché si produca l’emozione.  qui c’è un momento in cui Moussinac in qualche modo sovrappone i propri interessi e le proprie ossessioni teoriche al film di Ejzenstejn, cioè ci sta dicendo che in un film come questo è la realtà che è indispensabile perché si produca l’emozione e questo pathos, quindi sovrappone sia alla pratica registica che a quella teorica di Ejzenstejn una cosa che lo riguardava più da vicino: in questi anni in Francia una delle ossessioni teoriche di chi scriveva del cinema era quella di cinema come occhio che vede la realtà nel suo profondo e Moussinac vede questo nel film di Ėjzenštejn, una preoccupazione che per Ėjzenštejn era relativa (non era quella la sua preoccupazione principale della resa della realtà, ma erano altre). Dimostra quanto sia falso il sistema delle vedettes, sempre usate in modo di farle diventare il centro di tutto.  Rientriamo in quella polemica del cinema commerciale che interessava Delluc che lo stesso Epstein. 67 Lo schermo non ha mai conosciuto nulla di più potente e fotogenicamente puro: i volti mostrano i caratteri, esprimono ciò e nulla più di ciò che deve essere espresso, nel momento in cui deve essere espresso. Volti di marinai in rivolta, di operai, di piccolo borghesi, di intellettuali, il volto commovente di una folla che vive la terribile tragedia. E volti di madri, che i soldati, macchine programmate per uccidere, certo non risparmiano.  Notare la parola “fotogenicamente puro”, di nuovo Moussinac applica delle categorie che sono proprie del suo lavoro teorico e del lavoro teorico dei suoi colleghi francesi di quegli anni ad un cinema che invece non si preoccupa di questioni legate all’immagine in quanto tale, alla fotogenia dell’immagine cinematografica, ma come abbiamo visto si preoccupa di ragionare per esempio su come le immagini vanno messe in sequenza, sulla relazione tra immagini. Però, allo stesso tempo coglie di nuovo quell’universalità dei volti dei personaggi che vengono visto, che era esattamente quello che Ejzenstejn aveva cercato attraverso la scelta di tipi e non di attori individualizzati (quindi volti che fossero generalizzanti e referenziali). Queste immagini si impadroniscono di voi, vi inseguono dalle scene della rivolta fin oltre la grigia città di Odessa che insorge intorno ai marinai martiri – l’assetto di combattimento sulla Potëmkin, seguito dall’immagine dello spiegamento militare zarista. La semplice grandezza della scena dei marinai, che lanciano l’appello ai loro compagni: “Fratelli! Fratelli!” e, infine, l’immagine indimenticabile dell’ombra della Potëmkin che passa davanti all’esercito schierato, i cui cannoni non hanno sparato! La ricchezza e la precisione dei dettagli, il ritmo spesso implacabile nella sua perfezione drammatica, tutto esalta una bellezza e una verità dirette e profonde.  Anche qui non è che Moussinac non noti la questione del ritmo e la precisione dei dettagli (il film è molto montato, il dettaglio è molto importante), però per lui tutto questo serve per esaltare una bellezza e una verità dirette e profonde (di nuovo con quell’idea che il cinema in qualche modo fa vedere la bellezza interiore del caso, della realtà, la verità intima delle cose). Quindi non è che non noti che è il montaggio e che è il ritmo la cosa importante nel film, però lo vede di nuovo al servizio di un tema che è per Moussinac importante. Rivincita del cinema operaio sul cinema borghese, che finora ha saputo solo assecondare le folle e il loro gusto del mediocre, e addormentarle con le ninna nanne sentimentali dei film franco-americani.  Quindi di nuovo la polemica contro i film franco-americani, poi però effettivamente in realtà parte delle teorie sul montaggio nate in Unione Sovietica sono nate dall’osservazione del grande cinema americano (lo stesso Delluc aveva affermato di avere cominciato a pensare alla fotogenia vedendo film americani). Finalmente un accento chiaro e potente. Finalmente un omaggio a ciò che c’è di più puro nello spirito e nel cuore degli uomini. Finalmente un film dalla tecnica impareggiabile, che fa dimenticare se stessa sotto la forza dell’emozione!  Di solito quando pensiamo alla tecnica che fa dimenticare se stessa ci viene in mente il film Hollywoodiano classico, dove tutti gli espedienti tecnici sono fatti in modo da rendere la rappresentazione trasparente, cioè da non farci accorgere che c’è una tecnica dietro alla storia che stiamo vedendo, che sembra svolgersi senza l’intervento di nessuno. Però, Moussinac ci dice che la tecnica è impareggiabile, è una tecnica visibile che però è talmente efficacie nel provocare emozione che fa anche dimenticare se stessa, quindi nonostante la tecnica sia un elemento molto pressante in questo film e non trasparente, è talmente efficacie nel produrre emozioni che ci fa dimenticare se stessa. Critica: Si sarebbero potute eliminare un buon numero di inutili didascalie, e qualche effetto letterario che nulla aggiunge a un’opera di incomparabile unità.  La questione 70 della carrozzina da bambino che rotola giù per la scalinata del porto, intercalato da squarci di gambe, di scalini e di pozze di sangue (il tutto in ironico contrasto con l’inizio dell’episodio) fanno di questa sequenza una delle più potenti di tutta la storia del cinema.  è difficile leggerla perché per cercare di dare l’idea delle diverse tipologie di inquadrature, della grande movimentazione del montaggio di questa scena, ha cercato di fare queste immagini messe paratatticamente che rendono anche difficile leggere questa frase. Lui vede nell’alternanza di questi primi piani e particolari degli squarci, degli scalini, delle gambe, posti anche in ironico contrasto con l’inizio dell’episodio e la rendono una delle sequenze più potenti della storia del cinema. Ejzenštejn opera in modo che in tutto l’episodio la tensione non si allenta un istante, ma aumenta, piuttosto, e termina l’episodio non risolvendolo, ma interrompendolo di colpo. In tal maniera l’orrore della scena non solo afferra con maggior forza gli spettatori, ma li lascia altresì ansiosi per ciò che seguirà.  Questa è una descrizione di nuovo molto ben fatta di quella che è la dinamica manipolatoria del montaggio di Ejzenstejn, cioè che crea la tensione, la interrompe di colpo e in questo modo l’orrore della scena afferra in maniera più forte/colpisce gli spettatori e li lascia in tensione per quello che succederà dopo (manipolazione sensoriale ed emotiva degli spettatori). Nella terza parte la tensione è creata fin dal primo momento. Si inizia con un movimento lento: l’equipaggio che attende l’attacco della flotta zarista. Qui il montaggio ha un ritmo moderato. Alla notizia che la flotta zarista si sta avvicinando, i marinai cominciano ad agire più rapidamente; la loro preparazione per la difesa si svolge con crescente intensità, resa con un montaggio piú rapido e l’uso di angolazioni.  già nel 39 Jacobs si rendeva conto di come la tecnica sia fondamentale in questo film e come la questione dell’intensità delle azioni è resa non dalla recitazione, non da elementi esteriori, ma è resa dal montaggio e dall’utilizzo di angolazioni estreme che hanno un forte impatto emotivo. All’apparire della flotta zarista, il contrasto viene intensificato al massimo. L’alternarsi rapido di inquadrature che mostrano ora i marinai del Potëmkin, ora le navi imperiali che si avvicinano, gli enormi primi piani delle macchine delle navi in moto, gli uomini che caricano i cannoni, i proiettili che vengono portati presso i pezzi, le bocche di cannone che si alzano sempre più a invadere l’inquadratura creano, in un ritmo rapidissimo, una tensione tremenda. A queste inquadrature segue non una risoluzione, ma una attesa insopportabile.  La resa di come queste meraviglie tecniche abbiano una funzione di manipolazione emotiva dello spettatore. Mentre le navi si accostano l’una all’altra con i cannoni pronti in posizione di sparo, il montaggio rallenta improvvisamente a un’andatura quasi strascicata, e mentre i marinai del Potëmkin attendono i primi spari dell’avversario, ogni movimento cessa del tutto. La pausa prolungata tiene senza fiato gli spettatori che si identificano con i marinai della corazzata che attendono immobili.  Di nuovo non è solo la concitazione che si può rendere attraverso la forma del film, ma anche l’attesa, questa pausa in cui si decidono i destini della corazzata Potemkin, il momento in cui attendono i primi spari, e qui questo tipo di emozione viene resa attraverso l’andatura che Jacobs definisce strascicata, quindi non più angolazioni e montaggio rapidissimo ma una pausa che alla fine fa identificare lo spettatore con il marinaio: quindi, dà il tempo allo spettatore di identificarsi con i personaggi, proprio perché pone anche lo spettatore percettivamente in uno stato di pausa, cioè mentre prima era posto percettivamente in uno stato di velocità/confusione qui è posto percettivamente in uno stato di pausa, sta vivendo il momento di pausa che vivono i marinai mentre aspettano di essere attaccati. 71 Quando finalmente si giunge alla risoluzione, allorché́ la flotta zarista inalbera il segnale di pace e sfila dinanzi al Potëmkin senza sparare un colpo, l’improvvisa esagitazione dei marinai ribelli trova espressione in una sequenza di montaggio quasi furioso che libera gli spettatori dalla pressione emotiva cui erano stati sottoposti.  c’è sempre una relazione tra la forma e le reazioni degli spettatori. Il rapido succedersi di queste inquadrature dà all’ultimo momento del dramma una specie di violenza. Il film è terminato; una ulteriore reazione da parte del pubblico sarebbe impossibile. Ma la nota sulla quale è terminato il film lascia nello spettatore un senso di profonda esultanza».  Di nuovo idea del cine-pugno, ovvero della manipolazione emotiva dello spettatore per fargli avere sensazioni profonde di esultanza come se avesse anche lui partecipato a questo momento di ribellione contro l’oppressione dei deboli. Quello che ci interessa è il riflesso della teoria di Ėjzenštejn nella prassi filmica, quindi ciò che si deve guardare nel film è come il film in qualche modo rende visivamente alcuni momenti importanti della teoria di Ėjzenštejn: - Montaggio delle attrazioni - Montaggio intellettuale - Cinepugno - Estasi e pathos (che vedremo più avanti) Montaggio delle attrazioni: libero montaggio di azioni arbitrariamente scelte (attrazioni), indipendenti (anche al di fuori della composizione data e del legame col soggetto dei personaggi), ma con un preciso orientamento verso un determinato effetto tematico finale. Ejzenstejn scriveva sulle attrazioni  «qualsiasi momento aggressivo del teatro, cioè qualsiasi suo elemento che eserciti sullo spettatore un effetto sensoriale o psicologico, verificato sperimentalmente e calcolato matematicamente, tale da produrre determinate scosse emotive le quali, a loro volta, tutte insieme, determinano in chi percepisce la condizione per recepire il lato ideale e la finale conclusione ideologica dello spettacolo»  idea di come, attraverso il montaggio di questi momenti forti in grado di colpire lo spettatore a livello sensoriale e psicologico (ad esempio la scena della carne con i vermi), il modo in cui è montata è un modo di colpire e dare questo pugno allo spettatore, in modo da determinare nello spettatore una reazione, in questo caso di repulsione, che si sviluppa attraverso il montaggio, con le inquadrature che seguono, in una sensazione anche di voglia di rivalsa: è un meccanismo che dallo stimolo sensoriale passa attraverso quello emotivo e arriva fino allo stimolo intellettuale, e quindi all’adesione ideologica in generale all’ideologia del nuovo stato sovietico. Per quanto riguarda la dimensione concettuale del montaggio, per Ejzenstejn a differenza che per Kulesov il montaggio non è semplicemente uno strumento in grado di dare informazioni di tipo narrativo, ma in generale il montaggio è concettuale, cioè dall’unione di più inquadrature si possono generare dei significati che non sono interni a nessuna delle due e nemmeno alla loro unione e quindi sono superiori (con metafore e retoriche). Di questi momenti concettuali del montaggio il film è pieno, soprattutto la parte della scalinata di Odessa (notare le statue del leone in tre posizioni differenti e viste in successione sembra che il leone si alzi, un elemento molto metaforico, momento in cui il popolo si deve alzare). Un’altra idea, legata sempre a quella di cinepugno, è anche l’idea che mentre per autori come Kulesov e Pudovkin la cosa importante era l’armonia tra le inquadrature per Ejzenstejn l’unico modo di produrre senso è la collisione tra elementi, la lotta di ogni elemento, a partire dalla singola inquadratura (unico modo di produrre il senso). 72 L’estasi della creazione La questione dell’estasi e del pathos è centrale. Però c’è anche un'altra estasi che Ejzenstejn prova, che è quella della creazione, cioè questo film per lui ha un significato importantissimo, infatti ne parla molto in una delle sue memoire/autobiografie: «Il Lef (rivista in cui avevano scritto i registi teorici) ispirò a gente diversa per origine, livello mentale e finalità, una base comune di odio attivo verso l’arte. Ma che cosa poteva fare per quanto strillasse forte, un semplice ragazzo privo di esperienza artistica contro un’istituzione pubblica con secoli di storia? Poi mi venne un’idea: prima, dominare l’arte, quindi distruggerla. Penetrare entro i misteri dell’arte, diventarne padrone, svelarli, quindi strappare via la maschera, esporla, distruggerla! Tutto questo preluse a una nuova fase dei miei rapporti con l’arte.  L’idea di distruggere l’arte è un’idea comune ai momenti di avanguardia (dadaismo e Duchamp, urinatoio come opera d’arte, quello che decido che è arte lo è). Il futuro assassino (lui stesso) cominciò a giocare con la sua vittima, cercò d’ingraziarsela, la studiò con grande attenzione. Proprio come un criminale spia la sua vittima notando dove va e cosa fa. Segue le sue abitudini, tiene a mente i luoghi che frequenta, gli indirizzi e, infine, avvicinandola, ne fa conoscenza e ne diviene perfino amico.  Ejzenstejn è un grandissimo studioso di tutte le forme d’arte, quindi questo è il racconto della sua relazione, cioè lui vuole distruggere l’arte ma allo stesso tempo è un grandissimo studioso dell’arte, grande conoscitore. E intanto tiene nascosta tra le dita la lama del suo stiletto, con la speranza che il freddo acciaio gli ricordi la sua intenzione, lo rassicuri che la sua amicizia non è sincera.  Cioè in questo suo studio e frequentazione dell’arte cerca di ricordarsi che la sua vera intenzione non è quella di innamorarsi dell’arte ma quella di distruggerla. È così che l’arte e io ci girammo intorno per un bel po’. Mi circondava e mi conquistava col suo fascino invincibile, mentre io tenevo tra le dita il mio stiletto. Soltanto che nel mio caso non era un vero stiletto: era un’arma di analisi. Nel periodo di transizione, che doveva precedere “l’atto finale” decisi, non appena la conobbi meglio, che la dea, detronizzata, avrebbe potuto essere utile alla causa comune. Non era degna di portare la corona; perché non avrebbe dovuto strofinare i pavimenti per un po’, allora?  Dopo aver conosciuto l’arte la detronizza, però perché non farmi aiutare da essa per la causa comune (idea della regina che lava i pavimenti, che è un po’ idea alla base della rivoluzione bolscevica, no distinzione tra classi). Idea dell’arte filtrata dalle sue idee politiche. Influenzare le menti attraverso l’arte rappresentava qualcosa, dopo tutto. E se il giovane Stato proletario voleva assolvere gli importanti compiti cui era chiamato, doveva esercitare una grande influenza sul cuore e sulla mente delle persone. [...]  l’arte è al servizio dello stato proletario, che siccome ha bisogno di influenzare e manipolare le menti delle persone può farsi aiutare dall’arte per il valore persuasivo di essa sul cuore e sulla mente della gente. Che cosa ne fu delle mie intenzioni criminali? La vittima designata si rivelò più astuta del suo assassino. Egli pensava di circuire la sua vittima. In realtà fu lui stesso a essere vittima. Fu circuito, affascinato, fatto schiavo e tenuto prigioniero per lungo tempo. Volendo essere artista una volta sola, m’immersi nella creazione artistica, e l’arte, non più regina da me sedotta, ma mia spietata padrona, mia despota, a stento mi lascia un giorno o due alla scrivania per annotare qualche idea riguardante i suoi misteri.  Quindi, alla fine lui capisce che dietro tutto questo c’è il rapimento da parte dell’arte. 75 immagini durante le riprese. Quindi, usando questa e altre tecnologie, sono stato parte del passato nonostante le immagini fossero collegate al presente» (Zbigniew Rybczynski, dal documentario Zbigniew Rybczynski: Notes For an Electronic Cinema, dir. Paola Hilda Melcher, Sara Petri, Gianluca Paoletti, 1999)  in questa sua dichiarazione c’è l’idea che lui l’ha scelta non solo perché fosse famosa, ma anche perché proprio per il fatto di avere in questa sequenza linee geometriche così chiare, è più aperta la creatività e l’inserimento di questi personaggi che trovano posizione in queste forme geometriche. Inoltre, c’è l’idea di un inizio e una fine, i vari episodi sono sempre dotati di unità tempo-luogo-azione in questo film. Inoltre, è molto interessante capire come è stato realizzato, cioè lui faceva effettivamente il lavoro con il chroma- key durante la ripresa, senza post-produzione. Lezione 9 – 20/10/2022 Le concezioni di montaggio che vengono fuori da Ėjzenštejn e Vertov sono abbastanza differenti: queste loro concezioni avevano dato anche alito proprio ad una polemica aperta tra i due avvenuta sulle pagine di alcune riviste. La polemica CINE-PUGNO vs CINE-OCCHIO Nel 1924 Vertov scrive un articolo sulla «Pravda» (19 luglio 1924) dove accusa “Sciopero” di Ėjzenštejn di aver scimmiottato il cine-occhio, cioè accusa Ėjzenštejn di aver fatto, con questo suo film, una versione meno evoluta e più semplice del cine- occhio. La replica di Ejzenštejn avviene in un articolo che si chiama «L’atteggiamento materialistico verso la forma» (1925) dove non solo difende il proprio operato ma a sua volta accusa Vertov di eccessivo formalismo e lo accusa anche di essere un’impressionista, cioè di fare questi film basandosi esclusivamente sulle impressioni. Da questi due articoli emergono due versioni molto differenti di cosa sia il montaggio (che poi sono anche incarnate dalle grandi differenze che ci sono nelle cinematografie dei due registi). Ejzenstejn in questo articolo accusa Vertov di essere scarsamente rivoluzionario per il modo in cui usa il montaggio, e scrive: «il cine-occhio non è solo il simbolo di un modo di vedere, ma anche un modo di contemplare. Ma noi non dobbiamo contemplare, dobbiamo fare. Non abbiamo bisogno di un cine-occhio, ma di un cine- pugno. Il cinema sovietico deve penetrare nei crani!»; «impressionismo primitivo» (Ejzenštejn 1925)  per lui il cinema sovietico deve penetrare nei crani, attraverso il cine pugno e non la contemplazione e accusa Vertov di avere un atteggiamento impressionistico, ovvero di un cinema fatto solo di impressioni dove non c’è una vera elaborazione politica. In realtà, l’idea di cine-occhio per Vertov è molto diversa, ma il cine occhio per lui è porre la vita stessa al centro del lavoro e della ricerca, e quindi dice: «è la vita stessa che noi poniamo al centro della ricerca e del lavoro [...]. Al posto dei doppioni della vita (rappresentazioni teatrali, cinedrammi) noi introduciamo nella coscienza dei lavoratori, i fatti: grandi o piccoli, selezionati accuratamente, fissati e organizzati. Fatti presi dalla vita dei lavoratori stessi e quella dei loro nemici di classe» (Vertov 1923)  spiegazione del cine occhio per Vertov è il fatto che viene selezionato, sull’analisi del reale e l’organizzazione del reale. Quindi ci sono queste due diverse concezioni:  CINE-PUGNO: per Ėjzenštejn, il cinema deve risvegliare la COSCIENZA negli spettatori, tramite la collisione, la lotta, di OGNI ELEMENTO, a partire dalla singola INQUADRATURA  cinema che attraverso il montaggio, che è un montaggio di scontri e lotta di ogni elemento a partire dalla singola inquadratura (a sua volta espressione di contrasti), deve risvegliare la coscienza degli spettatori, attraverso quel procedimento che dai sensi passa alle emozioni per poi arrivare alla psiche. 76  CINE-OCCHIO: di Vertov, che è contro la RAPPRESENTAZIONE filtrata della realtà: il montaggio è un ATTO CRITICO E SCIENTIFICO, un principio COSTRUTTIVO di ORGANIZZAZIONE del mondo visibile lontano però dall’esigenza narrativa “classica” [«Composizione e concentrazione dei fenomeni visivi», Vertov, I Kinoki. Un rivolgimento, 1923]. Quindi il montaggio per Vertov aiuta a “vedere meglio”, scomporre e analizzare i fenomeni e riorganizzandoli in modo diverso, secondo principi formali o “plastici”. Boschi, nel suo libro sulle teorie classiche del cinema, scrive: «Il montaggio vertoviano, diversamente da quello eisensteiniano, realizza comparazioni fra movimenti, oggetti o eventi, la cui interpretazione – almeno nei casi più felici – non è mai univoca e imposta a priori» (Boschi 1998)  In realtà Vertov dà delle indicazioni di decodifica, dei codici/soluzioni linguistiche che adotta, però l’interpretazione (dei suoi film) non è mai un dato definitivo, e a volte alcuni suoi interpreti (per esempio Montani) considerano il suo cinema come addirittura un’anticipazione dell’ipertesto partecipativo a cui siamo abituati nel nostro sistema mediale, dunque un testo infinito che continuamente può essere implementato, cambiato, ecc. Quindi c’è proprio una diversa concezione del “politico” tra i due, un’idea differente della politica. Montani scrive nel 75: «nella scandalosa semplicità della sua scelta di classe, Vertov aveva precisamente prospettato il rovesciamento di una intera logica culturale. Aveva pensato cioè che il cinema fosse un linguaggio da usare, non da subire, un dispositivo in tutto e per tutto analogo alla capacità di leggere e di scrivere. [Aveva inoltre pensato] che la classe operaia doveva imparare questo linguaggio e usarlo per appropriarsi del settore di realtà a esso pertinente [...], che come tutti i linguaggi anche cinema si prestava sia alla conoscenza che alla mistificazione e che, pertanto, l’apprendimento di questa nuova lingua doveva procedere di pari passo con l’esplicitazione e la verifica delle sue forme, delle sue regole, della sua adeguatezza»  di nuovo questa idea di alfabetizzazione, dunque lui sovverte la logica culturale del cinema sovietico perché pensa che il cinema non sia qualcosa che lo spettatore deve subire ma un linguaggio di cui deve appropriarsi. Quindi, per Vertov l’attività politica non era quella per cui si doveva abbracciare il progetto dello stato socialista (come per Ėjzenštejn), ma era dare l’opportunità alle masse di avere uno strumento interpretativo che le aiutasse a comprendere la loro realtà. «La linea spregiudicata e oggettivamente pluralista di Vertov – alfabetizzare una massa di individui significa garantire a ciascuno di essi il diritto alla parola – risultava infatti incompatibile con la politica culturale centralistica dello stato sovietico, già in quegli anni orientata verso un uso strumentale e propagandistico del cinema» (Montani 2011). Ejzenstejn, a differenza di tutti gli altri, cambia molto le proprie idee sul montaggio adeguandosi anche molto alle evoluzioni del mezzo cinematografico. GLI ANNI TRENTA E L’AVVENTO DEL SONORO Nel 27 entra il sonoro nella storia del cinema e chiaramente il sonoro accende un dibattitto. Il sonoro, quindi, ha un impatto sul dibattito teorico, però molto meno esplosivo di quello che si potrebbe pensare, cioè il sonoro è una delle questioni più dibattute nei primi anni della teoria del cinema perché la mancanza del suono sincronizzato è uno dei limiti del cinema su cui diversi teorici costruiscono le proprie interpretazioni. Il dibattito sul sonoro avviene nel 1929-1930: non c’è un vero “cambio di paradigma”, ma nella teoria c’è uno spostamento del centro di interesse, non si cerca di adattare la 77 teoria al nuovo assetto tecno-linguistico del cinema, ma si cerca di integrare la novità del cinema all’interno di paradigmi teorici precedenti. Uno dei primi interventi organici sul sonoro è il cosiddetto “Manifesto dell’asincronismo” inaugurato nel 1928, che avrà una grande influenza anche nell’Europa continentale. Ovviamente, si accende una discussione, ma non porta davvero un cambio di paradigma come già spiegato, ma solo il problema dell’essere contro o a favore. Ci sono molti detrattori del sonoro, contro esso, come Luigi Pirandello, poiché per lui il sonoro era una sorta di maledizione del cinema  metteva in guardia i cineasti sul tentativo di imitare il teatro, poiché per lui era impossibile soprattutto perché il sonoro del cinema non può mai essere pieno e profondo come il sonoro della vita reale, ma solo una pallida imitazione della profondità del suono. Altri detrattori sono Anton Giulio Bragaglia, che parte dal discorso di Pirandello e aggiunge che la cultura della voce e del parlato è una cultura vecchia (dell’800) che con il sonoro rischia di tornare. Pochi sono favorevoli del sonoro, come Marcel Pagnol, perché in questo modo si poteva riprendere finalmente il teatro e farlo anche meglio, quindi per lui è molto importante questo momento nell’evoluzione del cinema. In generale, prevale una posizione intermedia, cioè a livello teorico piano piano si riconoscono i potenziali vantaggi della parola (vs didascalie)  potendo eliminare le didascalie avendo la parola che ci aiuta a capire al progressione narrativa di un film ci permette di non interrompere il flusso delle immagini. In realtà, però, sia la teoria che la pratica registica non vedono di buon occhio l’uso eccessivo del dialogo, a cui si preferisce l’uso dei suoni e della musica. E, soprattutto, nei primi anni sia a livello teorico che a livello di pratica si cercano di esplorare soprattutto le potenzialità espressive del suono non verbale e l’uso del microfono: quest’ultimo era visto da alcuni teorici, ad esempio da Epstein, come una specie di corrispettivo audio della macchina da presa, cioè come uno strumento scientifico capace di investigare il reale in modo più profondo dei sensi umani (dell’orecchio). Però, in questa teoria/dibattito si continua a dare comunque supremazia all’immagine e alle acquisizioni tecnico- stilistiche dell’ultimo decennio (nel dibattitto sul sonoro)  si cerca di capire come integrare il sonoro all’interno del paradigma che vede l’autonomia dell’immagine come elemento principale del cinema. Infatti, i film parlati al 100% venivano etichettati in modo dispregiativo come “teatro filmato”, quindi erano visti come qualcosa che riportava indietro di 20 anni la tecnica cinematografica. In questo periodo i temi principali, quindi, sono: - l’opposizione tra film “sonoro”, che fa uso corretto del suono (con un microfono e suoni non verbali) e film “parlato”, che usa il dialogo in maniera eccessiva - il rapporto cinema-arti drammatiche (teatro) - il rapporto tra immagine e suono  spesso questa relazione viene investigata pensando al suono come qualcosa che impedisce il corretto sfruttamento delle potenzialità dell’immagine. L’avvento del sonoro, di fatto, impoverisce la riflessione teorica, con alcune eccezioni importanti, ad es. Ejzenštejn, che scrive il suo testo più importante sul montaggio, Teoria generale del montaggio, nel 1937  La teoria si impoverisce perché si rielaborano le teorie del cinema muto adattandole al sonoro (si cerca di far rientrare il sonoro nelle teorie vecchie e non si cerca di cambiare le teorie per capire il nuovo mezzo). Con l’avvento del sonoro vanno in crisi le avanguardie, anche perché con il sonoro fare film e proiettarli è più costoso (macchine più costose, sale di produzione 80 da fornire una chiave interpretativa non diretta di quello che stiamo vedendo nel visivo. Es. brano di Jurij Šaporin per la sequenza finale di “Il disertore”  è una sequenza in cui una rivolta viene repressa ma il brano è un brano trionfale, che da una parte potenzia l’idea della repressione per contrasto ma soprattutto perché nel finale della sequenza preannuncia questo trionfo. C’è un doppio uso della musica, da una parte per sottolineare l’idea che “comunque vinciamo noi” e dall’altra l’enfasi della marcia trionfale sulle scene di violenza che aumenta il senso della violenza che stiamo vedendo per contrasto/antifrastico, musica in contrasto con le immagini che vediamo (ad esempio musica horror con immagini che fanno ridere). Es. di uso antifrastico della musica d’accompagnamento è “Le iene” (Quentin Tarantino, 1992), in cui la musica oltre che antifrastica è anche diegetica perché il personaggio aderisce ad essa, la musica rappresenta la schizofrenia fisica del personaggio che sta ballando per torturare una persona (la musica usata in modo antifrastico ci dà quindi anche un’indicazione sulla lettura del personaggio, informazioni sul personaggio e sul suo stato mentale). Pudovkin è polemico contro chi sostiene che la costruzione del film parlato dipenda solo dal susseguirsi dei dialoghi e non più dall’articolazione delle inquadrature, cioè anche nel film parlato non dobbiamo tenere solo conto dell’andamento del parlato e adeguare le inquadrature a questo, ma possiamo fare diversamente perché se noi facciamo questo in qualche modo avviene la regressione del cinema alla semplice riproduzione meccanica del teatro (la macchina da presa ritorna alla fissità). Si devono invece applicare i metodi del montaggio anche alla colonna sonora, che deve al tempo stesso svilupparsi secondo un ritmo indipendente da quello dell’immagine  es. sonoro continuo + immagini montate in rapida successione, oppure sonoro frammentato + colonna visiva più “lineare”. Cioè lui dice che bisogna montare, come si faceva nel muto, anche la colonna sonora. Pudovkin parla di una scena iniziale de “Il disertore” dove parla di un comizio in cui i 3 personaggi prendono la parola: «Nel primo rullo del mio Disertore c’è un comizio in cui tre personaggi prendono la parola uno dopo l’altro producendo una complessa serie di reazioni nel pubblico. Ciascuno è contro gli altri due e, tra la folla, ora qualcuno interrompe l’oratore di turno, ora due o tre ascoltatori discutono brevemente tra loro. Si doveva rendere la scena in tutta la sua complessità e per raggiungere questo scopo ho tagliato il suono esattamente con la stessa libertà con cui taglio l’immagine. Ho impiegato tre distinti elementi: in primo luogo il parlato, poi i primi piani sonori delle interruzioni – parole, frammenti di frasi dei membri della folla – e infine il rumore di fondo di tale folla, variato di volume e indipendente dai tagli dell’immagine. Infine, ho riunito questi elementi secondo i principi del montaggio. Per esempio, ho spezzato a metà una parola di un oratore mediante un’interruzione, l’interruzione con il crescente rumoreggiare della folla e così via. Ogni suono era tagliato individualmente e le immagini erano talora più brevi dei suoni a esse associati, talora invece lunghe il doppio – è il caso di quelle dell’oratore e dei disturbatori – poiché mostravo una serie di reazioni individuali nel pubblico. Ho diviso il rumore generale in singole frasi e trovo che combinare i vari suoni tagliandoli in questo modo renda possibile la creazione di un ritmo definito e quasi musicale»  (da notare che scrive facile rispetto ad altri). Fondamentalmente lui crea due linee differenti, le monta secondo i principi del montaggio e fa questo, cioè lui vede la possibilità di creare in questo modo un ritmo quasi musicale (non banalmente riproduttivo del realismo del sonoro). Pudovkin tenta di spezzare un po’ le frasi, di mettere dei piani di ascolto. Quindi: il continuum sonoro per Pudovkin può e deve essere FRAMMENTATO in sede di montaggio senza paura di interrompere il flusso di parole, suoni e musica perché il montaggio è, infatti, l’unico procedimento che può rendere “artistica” la nuova forma 81 d’espressione audiovisiva  abbiamo un esempio di come non ci si stacca dalle teorizzazioni fatte rispetto al montaggio nel periodo del muto più maturo, ma si cerca di inserire il sonoro all’interno di queste idee. In realtà, il modello che si afferma nel film sonoro, già a partire dagli anni Trenta, è quello della dissimulazione dei tagli di montaggio e della continuità anche per le caratteristiche intrinseche del montaggio sonoro. Limiti dell’approccio di Pudovkin: 1. Asincronismo visto come obbligatorio e non come una possibilità. 2. La dissociazione sistematica parola-immagine non verrà mai applicata alla lettera (nemmeno dallo stesso Pudovkin). 3. Invece di indagare i modi specifici che i suoni hanno per relazionarsi tra loro o con le immagini, si applica al suono il modello del montaggio visivo (a differenza di Ėjzenštejn). 4. Invece di aggiornare i propri principi teorici per renderli adeguati a capire il nuovo oggetto di indagine, si cerca di conformare il film sonoro ai principi estetici e teorici elaborati in precedenza. Montaggio e sonoro per EJZENŠTEJN La questione del sonoro in Ejzenstejn è molto più complicata di come la fa Pudovkin, perché è un pensatore molto più complesso, scrive in modo spesso scuro e intricato, motivo per cui non era piaciuto molto ai critici del neo-realismo. Ha una produzione teorica consistente. Nel 1937 scrive “Teoria generale del montaggio”, scritto poco prima del primo esperimento con il sonoro di Ejzenstejn, inedito fino agli anni Sessanta. Ejzenstejn ha una produzione teorica consistente, una produzione di tipo evolutivo: nella sua produzione ci sono una serie di tappe evolutive che corrispondono ad altrettante parole d’ordine. Vi sono 5 tappe del suo itinerario teorico: 1) 1923-24  “montaggio delle attrazioni” 2) 1928-29  “montaggio intellettuale”, che è un’evoluzione del montaggio delle attrazioni 3) 1932-35 “monologo interiore”. Ad un certo punto è convinto che il cinema, soprattutto quello sonoro, è l’unico modo di rendere il monologo interiore, quindi rendere l’afflusso di pensieri interni all’essere umano che è completamente disorganizzato e si apre a delle digressioni. Il monologo interiore, secondo lui, si può rendere soltanto attraverso il cinema sonoro creando anche contrapposizioni tra quello che si vede e quello che si sente. 4) 1937-40  “montaggio verticale” 5) 1945-48  “organicità”, “pathos”, questione del colore Il fatto che sia un pensatore così contraddittorio e in grado di cambiare le proprie idee ha dato vita a diverse interpretazioni: - Bordwell (1974-75): parla di “molti Ejzenštejn”, dice che esistono tanti Ejzenstejn, che molto spesso il suo pensiero è talmente contradditorio da far sì che non ci sia un’unica linea di pensiero e vede una svolta radicale nel 1937. - Aumont (1979) la vede diversamente: secondo lui, tutte le fasi sono unite da un’unità di pensiero, dunque le fasi sono sostanziale unità di pensiero, sebbene in senso evolutivo e il momento di svolta è proprio l’avvento del sonoro. 82 Gli scritti di Ėjzenštejn degli anni Trenta sono anche condizionati dall’evoluzione del cinema e poi si adattano all’estetica dominante (per il realismo, contro l’arte astratta). Ejzenstejn fa una sorta di doppio gioco: se da una parte sembra rinunciare alla sovranità del montaggio, in quanto vuole far prevalere il realismo rispetto alla sperimentazione formale, dall’altra parte è come se vedesse il montaggio in tutto (in un senso allargato, lo vede come principio centrale in tutti i fenomeni di articolazione e significazione): «nel momento stesso in cui nega che il montaggio sia “tutto” e fa effettivamente posto, nella sua teoria, a problemi per lui inediti (l’inquadratura, l’attore...), si adopera perché in fin dei conti il montaggio, al prezzo certamente di una ridefinizione, appaia come il principio veramente centrale di tutti i fenomeni di articolazione e di significazione» (Aumont 1979). Quindi, quello che succede con il testo del 37 e negli anni successivi è che c’è una sorta di processo duplice: da una parte vede il montaggio come principio fondamentale di ogni creazione artistica, però montaggio (nel cinema) inteso in senso “allargato”, non solo come assemblaggio di inquadrature  in questo modo mette a punto nuovi strumenti teorici che gli permettono di affrontare il diverso assetto tecnologico ed estetico, senza rinunciare alla centralità del montaggio stesso. Lui comincia a lavorare sul problema del suono anche nel cinema muto: alcuni teorici avevano parlato di come il cinema muto possa riprodurre degli stimoli di tipo sonoro, cioè il fatto che il cinema muto evoluto della fine degli anni 20 è un cinema talmente ricercato dal punto di vista espressivo che riesce a rendere solo con mezzi puramente visivi i fenomeni acustici  in questa riflessione sul cinema muto e su come renda la sensazione dell’udito e il fenomeno acustico, c’era già una prefigurazione del montaggio verticale (principio fondamentale del nuovo mezzo audiovisivo). Lui dedica alcune riflessioni nel testo del 37 a una sequenza in particolare di Sciopero: «Ai tempi mi entusiasmava in generale la doppia esposizione (pezzo di pellicola impressionato due volte). E in particolare la doppia esposizione di oggetti nettamente differenziati per la grandezza. Forse ciò dipendeva dalla mia ancora persistente simpatia per la molteplicità dei piani del cubismo, di cui le doppie esposizioni costituivano, almeno fino a un certo punto, un trapianto nel cinema. Ma ora sospetto che in realtà si trattasse di una passione, forse ancora confusa, per quella molteplicità e dualità di piani che ormai non si manifesta più come un gioco di trucchi, ma come una profonda comprensione dell’indissolubile unità dei due piani con cui si presenta ogni fenomeno: la rappresentazione, cioè, dello stesso fenomeno, attraverso cui, quasi come una seconda esposizione, si palesa la generalizzazione del suo contenuto»  per lui, in questo testo del 37, un elemento centrale è proprio che ogni immagine deve contenere in sé sia la rappresentazione oggettiva di un fenomeno sia, attraverso particolari procedimenti, la sua generalizzazione e comprensione di una sua essenza profonda drammatica, psicologica o simbolica: lui vedeva nelle doppie esposizioni un modo per creare questa generalizzazione. In questa sequenza vi è un piano “oggettivo” (gruppo di operai) che è la rappresentazione visiva: l’immagine della fisarmonica e quindi la rappresentazione del suono in qualche modo, secondo Ejzenstejn, generalizza la scena, «il suono ottenuto mediante questa convenzione plastica era come se afferrasse e abbracciasse il paesaggio nella canzone, generalizzando tutta la scena». Questo concetto di generalizzazione diventa cardine in questo testo, e per cui in un’opera veramente realistica (cambio della parola chiave, non più cinepugno, ma opera realistica), il fenomeno è organizzato in due componenti integrate: la rappresentazione [izobraženie] del fenomeno e la sua immagine [obraz], dove quest’ultima è intesa come generalizzazione [obobščenie] dello stesso fenomeno nella sua essenza (che può essere psicologica, drammatica o simbolica)  secondo lui, questo deve essere presente in tutte le immagini, che devono sempre essere sé stesse, quindi rappresentazione, ma anche qualcos’altro. «In poche parole, il cinema – 85 trovare un criterio di comparabilità che permetta di porre in relazione la musica e la rappresentazione. Lui dice che questo criterio è proprio la verticalità: «Questa comparabilità deve permetterci di combinare “in verticale”, cioè simultaneamente, ciascuna frase musicale con ciascuna fase plastico-rappresentativa corrispondente nel rispetto di quello stesso rigore di scrittura con il quale noi siamo in grado di combinare “in orizzontale”, cioè nella successione, i diversi pezzi della rappresentazione visiva nel montaggio muto oppure le diverse fasi dello svolgimento di un tema musicale» (1940-41)  lui dice che ci deve essere rigore, sia nel montaggio del tema musicale o della colonna sonora, sia in quello orizzontale, ma la cosa fondamentale è che questi 2 elementi messi in successione e montati rigorosamente corrispondano (ad ogni fase musicale corrisponde una fase plastico-rappresentativa, con una linea di tipo verticale). Quindi:  Cinema delle origini  montaggio interno all’inquadratura, perché è interno alla composizione plastica di quello che vediamo nel profilmico.  Muto maturo  montaggio orizzontale  Cinema sonoro  montaggio verticale, torna di nuovo la simultaneità presente anche nel cinema delle origini però includendo anche la successione, e in qualche modo superando entrambe le due fasi: il principio del montaggio non è estromesso dal cinema, ma semplicemente si trasferisce dalla successione delle inquadrature alla composizione audiovisiva . Ciò sarebbe a dire:  Cinema delle origini  simultaneità  Muto maturo  successione  Cinema sonoro  una nuova simultaneità, che supera e comprende le precedenti  Dunque, il principio del montaggio NON è estromesso dal cinema MA si trasferisce dalla successione delle inquadrature alla composizione audiovisiva. Ejzenstejn fa un ulteriore passaggio in un articolo di un libro; La musica del paesaggio e il futuro del contrappunto di montaggio nella nuova fase (1945) in “La natura non indifferente” (libro 1945-47). Qui fa una nuova tripartizione della storia del cinema: o Cinema muto in generale o Primo cinema sonoro  quello del sonoro sincronizzato puro e semplice, quindi con una «compresenza non organica di suono e immagine», e con «predominanza di un suono di tipo [...] verbale- discorsivo» o Cinema audiovisivo  fusione organica tra suono e immagine, non più disorganicità. In questa nuova tripartizione vede anche che le fasi più importanti della lavorazione del film cambiano, a seconda degli strumenti tecno-linguistici che il cinema ha a diposizione nelle singole epoche: o Muto  montaggio come parte più importante della lavorazione del film o Sonoro  sonorizzazione come parte più importante del cinema sonoro, capacità di far uscire in contemporanea le parole quando vediamo il personaggio parlare o contemporanea del rumore e movimento/immagine o Audiovisivo  montaggio verticale (mixaggio), con l’audiovisivo secondo Ejzenstejn la parte più importante non è più il montaggio o montaggio sonoro 86 ma il mixaggio, cioè la capacità di comprendere in un tutto organico immagine e musica. Tutte queste fasi per lui sono sempre parte di un unico ciclo evolutivo, in cui il montaggio è sempre centrale, ma da un certo punto in poi l’idea di montaggio si sposta dall’unire due inquadrature diverse al dentro l’inquadratura e quando arriva l’audiovisivo il dentro l’inquadratura non è più solo una composizione plastica di quello che vediamo ma è una composizione organica tra quello che vediamo e quello che sentiamo. Da questo punto rivede tutta la sua teoria, partendo dal cinema muto vede una seconda linea, infatti: «Nel suo sviluppo il montaggio verticale ha notevolmente modificato alcuni principi del montaggio “lineare”. [...] Ciò deriva dal fatto che il montaggio muto doveva produrre non solo il movimento dell’immagine, ma anche il suo disegno ritmico e il suo reale battito fisico, ciò che oggi il cinema sonoro realizza interamente con la colonna sonora. Il montaggio del cinema muto fu così costretto a mettere in particolare rilievo, all’interno del sistema delle inquadrature, l’elemento più efficace dal punto di vista fisiologico. Vale a dire il momento dello scontro tra i frammenti di immagine. [...] Il complesso di tali collisioni tra i pezzi e la successione delle spinte generavano, attraverso l’ininterrotta fluidità delle immagini, una sorta di seconda linea che, in un’altra dimensione, articolava lo stesso tema. [...] Nella corsa delle immagini mute si otteneva così quel movimento duplice, proprio di qualsiasi composizione musicale, anche la più primitiva, che elabora contemporaneamente due linee principali: la melodia e l’accompagnamento»  nel cinema muto, vede le due linee diverse in quanto nello scontro tra immagini vede la seconda linea che è la linea generalizzante, quella della melodia. Con il sonoro, però, questa funzione di accompagnamento (che nel cinema muto era svolta dai momenti in cui le immagini si scontrano in maniera espressiva e ci danno la chiave di lettura di ciò che stiamo vedendo) è delegata alla sfera del suono: «[il sonoro] infatti è in grado di realizzare una perfetta scansione degli eventi che si svolgono sullo schermo anche nel caso di un’assoluta continuità di ripresa e di una completa fissità dell’immagine» (Boschi 1998)  dalla teorizzazione per cui la singola immagine quasi non aveva importanza in quanto ciò che contava realmente era il pugno ossia lo scontro da cui si crea senso, adeguando il proprio pensiero all’avvento del sonoro arriva a cambiare la sua prospettiva: mantiene al centro il montaggio ma lo inserisce nella stessa inquadratura, dando la funzione di scansione alla colonna sonora, che diventa principio compositivo dell’immagine anche in presenza di un’immagine fissa, di un’unica inquadratura. Dunque, trasformazione dei principi su cui si basava il montaggio lineare: nel montaggio visivo (cinema muto) il baricentro visivo era nella GIUNTURA fra i singoli piani, l’accoppiamento delle immagini, nel montaggio AUDIOVISIVO è dentro l’immagine, negli «accenti disseminati all’interno dell’inquadratura» (Boschi 1998). Questi accenti, per Ėjzenštejn, sono un qualsiasi elemento espressivo che «rompendo la forza d’inerzia che l’andamento della sequenza tende a stabilire, attiri con un nuovo slancio l’attenzione dello spettatore, imponendogli una nuova scansione» (Ejzenštejn 1945)  questi accenti possono essere visivi ma possono essere anche sonori. Conclusioni Quello di Ejzenstejn è un modello diacronico, cioè un modello che tiene conto (come non aveva fatto nessuno) degli sviluppi tecnologici, estetici e linguistici del cinema. In questo quadro, il sonoro è una tappa fondamentale e non più un incidente di percorso, dunque un passo avanti rispetto al “Manifesto dell’asincronismo” ma addirittura il sonoro apporta un’evoluzione sia al concetto di montaggio stesso, sia alla teoria sul montaggio, sia alla pratica filmica. In “Teoria generale del montaggio” (1937) vediamo che il montaggio audiovisivo non è più una concatenazione lineare ma una 87 sovrapposizione di elementi concomitanti. In La natura non indifferente dà una definizione «allargata» di montaggio, «teorizzando un tipo di scansione interna all’inquadratura che si sovrappone al montaggio vero e proprio e in certi casi lo sostituisce del tutto» (Boschi 1998). Qualcuno ha voluto vedere in queste evoluzioni di Ejzenštejn, una sorta di prefigurazione di quella che poi sarà la teoria sul montaggio proibito di Bazin  Quest’ultimo, ad un certo punto, valorizza alcuni registi come Welles perché usano la ripresa in profondità, in quanto vede in queste riprese una riproposizione più fedele della realtà: sono riprese che, non avendo una scansione obbligata di montaggio, e lasciando libero l’occhio dello spettatore di scegliere cosa guardare di una sequenza, implicano una difficoltà di interpretazione che è esattamente quella che ha lo spettatore quando vede il reale (ambiguità connaturata al reale). In realtà, però, non è una prefigurazione, perché Ejzenštejn monta sempre con l’idea di dare un significato preciso, non c’è ambiguità: semplicemente non lo fa più come prima, accoppiando diverse immagini (come nella corazzata, in sciopero o ottobre), ma lo fa dentro la stessa inquadratura. Sicuramente c’è però una questione che accomuna la teoria di Ejzenštejn e Bazin, ossia l’idea che una volta arrivato il sonoro diventa più interessante la ripresa in continuità rispetto al montaggio: entrambi, in qualche modo, legano l’importanza della ripresa in continuità all’evoluzione linguistica dell’arrivo del sonoro (anche se 2 letture molto diverse). Es. Ivan il Terribile (1944)  un film di Ejzenstejn, è un esempio di realismo socialista (si crea un eroe nella storia della Russia), qui la sperimentazione formale e audiovisiva raggiunge vette altissime, i suoi film non avranno vita facile a causa di controlli censori. Ha tre parti questo film (di cui la prima esce, la seconda viene girata e non esce mai se non dopo 10 anni dalla morte di Ejzenštejn per problemi censori, la terza nemmeno mai girata) ed è la storia di Ivan che viene investito della carica di zar, ha una serie di nemici che sono i boiardi, che per Ejzenstejn sono la borghesia (mentre per il potere stalinista erano i quadri del partito, per cui la questione è stata censurata), ha una zia in famiglia che cospira contro di lui e vorrebbe che suo figlio prendesse il posto di Ivan, ad un certo punto la zia avvelena la moglie di Ivan e proprio nel momento del funerale della moglie scopre che tutti lo stanno abbandonando e quindi su consiglio dell’unico amico che gli rimane decide di abdicare in modo che il popolo terrorizzato dalla possibilità che i boiardi prendano il potere chiederanno ad Ivan di tornare: il primo film si chiude con questo popolo che arriva in processione a chiedergli di tornare. Scena vista in classe di Ivan il terribile, funerale della moglie  c’è una frase del salmo che non c’entra niente, ma esprime lo stato d’animo di Ivan: il senso non deriva dal montaggio, ma lo fa dire al religioso, noi vediamo e sentiamo le parole, vediamo Ivan, quindi il dato fenomeno è Ivan piegato, mentre la generalizzazione è la sofferenza, il dramma intimo. Poi c’è il momento in cui fa l’elenco delle persone che lo hanno abbandonato, Ivan prostrato dal dolore, la frase che viene dal salmo è legata: è tutta una triangolazione di significati tra suono e immagini, tra 3 diversi piani dentro una stessa inquadratura. Ivan risponde al salmo e quindi la sua evoluzione avviene in risposta allo stimolo sonoro. Lezione 10 – 21/10/2022 L’uomo con la macchina da presa Film del 29 di Dziga Vertov, film importante per varie ragioni che interessa diverse tradizioni teoriche, almeno 3: una è quella della storia del cinema  per quanto girato dopo l’avvento del sonoro, però, è comunque un film muto ed è uno degli esempi, insieme ai film di Ejzenstejn e dei sovietici in generale, di massima formalizzazione del 90 dunque doveva essere una sorta di filmato promozionale rispetto al lato industriale e delle risorse dell’URSS da far vedere in occidente. Vertov scrive un progetto ambizioso, sia dal punto di vista della struttura del progetto che della struttura tecnica proprio, però il potere contrattuale che aveva ottenuto con Avanti, soviet! fa sì che l’ente statale non solo approvi il progetto (abbastanza sperimentale) ma approva anche le richieste di tipo tecnico-economico, e permette a Vertov di realizzare delle riprese all’estero: garantisce una troupe molto più vasta, la possibilità di fare 10 riprese in location in 10 diverse regioni dell’URSS, e riprese all’estero. È un film che ha una produzione piuttosto complessa, ma nonostante questo riescono a lavorarlo nel giro di un anno e nel 26 esce il film. Il progetto è ambizioso poiché Vertov stesso lo definisce «cine- poema lirico», per cui la questione della ricostruzione e dell’industrializzazione viene sì toccata, ma non in maniera didascalica: è un film che invita a leggere, negli accostamenti tra le inquadrature, qualcosa che vada oltre il semplice valore informativo e si comincia a rovesciare la relazione tra immagine e didascalia (le didascalie sono sempre meno e le immagini esprimono significati che vanno oltre quanto scritto nelle didascalie). Inizia con una parte ambientata in occidente, dove l’occidente viene rappresentato innanzitutto come un mondo schiavo delle merci (donne molto truccate, uomini alle feste, mondo sovraccarico di cose)  immagini di un capitalismo degradato, imbruttito, borghesia inquietante e grottesca, immagini giustapposte a immagini delle colonie, e attraverso degli espedienti di angolazioni delle inquadrature, le immagini delle colonie non sembrano solo giustapposte ma messe in simultanea con le immagini di questa borghesia così degradata, tanto che l’idea non è solo di contrapposizione/antitesi (guarda la borghesia e le condizioni di povertà delle colonie), ma è qualcosa di più: Vertov voleva comunicare l’integrazione di queste 2 realtà, dunque le condizioni di povertà nelle colonie non sono solo contrapposte alla vita delle grandi città borghesi dell’occidente, ma sono causa ed effetto, sono due cose interrelate, una è integrata all’altra. Si sposta poi sull’URSS, con le riprese in URSS, su tutto il vasto territorio: sono riprese, però, che raccontano l’industrializzazione ma di fatto sono un grande inno al lavoro, e soprattutto al lavoro liberato dal capitale  grande fiducia nelle masse lavoratrici in un contesto che ha liberato il lavoro dal capitalismo. Questo film ha una buona accoglienza della critica, ma viene bloccato subito dal committente, perché un film che doveva essere uno spot per l’URSS in occidente iniziava in realtà con una messa in luce dell’orrore del capitalismo occidentale e soprattutto diventa un inno al lavoro, ma dove non c’è di fatto un’informazione vera e propria; quindi, non solo il film viene bloccato ma c’è anche il licenziamento di Vertov dal Sovkino. Vertov, in un suo memoire scrive: «Rimasi senza lavoro per qualche mese. Non sapevo cosa fare e mi decisi, infine, a partire per l’Ucraina. Quando proposi la realizzazione dell’Uomo con la macchina da presa mi risposero che prima avrei dovuto fare un film per l’anniversario della Rivoluzione e che, dopo, avrei avuto la possibilità di realizzare l’altro. Fu così che nacque L’undicesimo»  a questo punto si trova alle dipendenze di VUFKU, che è il comitato panucraino per il cinema e la fotografia a cui propone la realizzazione di quello che poi sarà “L’uomo con la macchina da presa”. VUFKU risponde che avrebbe accettato quel progetto, però che prima avrebbe dovuto realizzare un film di propaganda per l’undicesimo anniversario della Rivoluzione in Ucraina. Quindi, nasce “L’undicesimo” ovvero un film di commemorazione dell’undicesimo anno della rivoluzione in Ucraina: film interamente dedicato alla costruzione della centrale idroelettrica più grande in Europa e in questo caso, segnato dagli avvenimenti passati, Vertov rispetta completamente il patto ideologico 91 attendendosi all’intento celebrativo  però, diventa un’occasione per la sperimentazione linguistica, dove viene rovesciata la relazione tra immagine e didascalie: le didascalie diventano delle citazioni, che non intaccano la coerenza comunicativa e formale del film. Questo film, secondo Vertov, doveva essere letto come «puro linguaggio cinematografico» la cui chiave di lettura doveva essere «percezione visiva», «pensiero visivo»  Riduzione dell’importanza delle didascalie, divenute mere “citazioni”. «Questa neutralizzazione dei sistemi semiotici di riferimento o dei supporti linguistici espliciti era proprio il fine che Vertov si era proposto di raggiungere con la Kinopravda e di verificare con il Kinoglaz» (Montani 2013)  nel cinema muto manca la parola e molto spesso si ha davvero bisogno di avere un sostegno della parola scritta (didascalie) per garantire, per esempio, continuità narrativa o per rendere esplicite delle questioni simboliche o di significato. Già con Kinopravda e Kinoglaz, egli aveva tentato di neutralizzare questi sistemi di riferimento semiotici ed eliminarli: però, in questo film sembra che Vertov non persegua più quel sogno di alfabetizzazione delle masse, cioè il fatto di poter eliminare le didascalie (sistema semiotico in grado di spiegare le immagini) era qualcosa che aveva a che fare con l’obiettivo di arrivare ad un metodo di elaborazione delle immagini tale da far sì che esse stesse fossero in grado di comunicare senza aver bisogno della parola, ma c’era il bisogno di una comunità che sapesse leggere questa nuova forma di comunicazione, questo nuovo pensiero visivo  era l’idea dell’alfabetizzazione, per cui ad un certo punto, nel progetto di Vertov, le masse proletarie sarebbero state in grado di leggere perfettamente il linguaggio cinematografico e di fare in modo che non sarebbero più servite le parole, ma questa cosa non avviene e dunque diventa una sorta di utopia. Però, nel 1928-29, Vertov gira L’uomo con la macchina da presa, un film che effettivamente elimina del tutto o quasi del tutto le didascalie, quindi in qualche modo realizza questo sogno che era già partito dalla Kinopravda che era quello di eliminare il supporto linguistico alle immagini cinematografiche  non più, però, con l’idea di un progetto politico di alfabetizzazione, ma quasi con un auspicio che ciò possa avvenire, progetto quasi utopico (desiderio). Una premessa  «L’uomo con la macchina da presa, registrazione su 6 rulli. Si fa presente agli spettatori che questo film è un esperimento di trascrizione cinematografica dei fenomeni visibili, senza didascalie, scenari e teatri di posa. Questo lavoro sperimentale ha per fine la creazione di un linguaggio cinematografico assoluto, autenticamente internazionale, sulla base di una piena separazione dal linguaggio della letteratura e del teatro»  traduzione dell’unica didascalia che si trova nel film, compare all’inizio. Vertov spiega ai potenziali spettatori il senso di quello che stanno per vedere, quindi; trascrizione cinematografica dei fenomeni visibili, lavoro sperimentale che ha come fine la creazione di un linguaggio assoluto autenticamente internazionale e piena separazione dal linguaggio della letteratura e del teatro, quindi linguaggio cinematografico puro. L’idea di un film sul linguaggio del cinema era qualcosa che Vertov aveva fin dall’inizio degli anni Venti, e questo va di pari passo con la messa a punto, già negli anni 20, delle capacità della camera di leggere il reale e incidere su di esso: è come se fossero due strade molto interdipendenti nel progetto di Vertov di fare un film in cui la camera fosse in grado di leggere il reale, ma anche che fosse in grado di parlare di sé stesso e quindi del cinema. “L’uomo con la macchina da presa sviluppa e amplia il progetto avviato in Kinoglaz esplorando la capacità del film come strumento di cognizione, mezzo per comprendere il mondo. Yuri Tsivian commenta la sequenza in cui vediamo un ciminiera, seguito da 92 inquadrature dell'estrazione del carbone, che questa è una lezione di economia marxista, che ci mostra l'origine dell'energia nel lavoro del minatore. La sequenza ci mostra anche le varie macchine messe in moto da questo potere [...] Eppure Kinoglaz ha aperto la strada anche a questo approccio, rivelando le varie forme di lavoro che producono magicamente il pane apparentemente prosaico del prestigiatore. Tuttavia, il più grande risultato di Man with a Movie Camera è stato quello di portare questo processo alla sua logica conclusione, svelando non solo i misteri della produzione del pane o dell'elettricità, ma rivelando il processo stesso di rivelazione, i segreti della produzione cinematografica. Un'indagine sul modo in cui diamo un senso al mondo visibile, questo è un film sul cinema” (Hicks 2007)  secondo Hicks il cinema ci può anche dare lezioni di economia marxista, facendoci vedere ciò che c’è dietro una ciminiera. Quindi, questo film è sia un’investigazione del modo in cui noi diamo senso al mondo visibile attraverso il cinema, ma è anche un film sul cinema, su come il cinema è in grado di parlare di se stesso. In questo insieme di soluzioni linguistiche adottate, sono forniti allo spettatore i codici per la loro interpretazione. «È interessante, a questo proposito, osservare come il rapporto tra l’organizzazione delle immagini e il “pensiero visivo” dello spettatore si realizzi, nell’Uomo con la macchina da presa, attraverso la costante e intenzionale mediazione di un modello di lettura di tipo linguistico-verbale, per cui i passaggi del film risultano perfettamente espliciti proprio in quanto riconducibili di volta in volta, a tutta una serie di motivazioni che si possono formulare verbalmente. Il “pensiero visivo”, in altri termini, si esercita, sì, produttivamente nell’ambito del sistema di immagini che gli viene proposto, ma solo a patto di rinunciare a ogni pretesa purezza e di fondare, invece, la sua competenza (la sua capacità di leggere correttamente) sulla stimolazione delle sue componenti propriamente linguistico-verbali» (Montani 2013)  cioè, in questo film la camera da presa diventa uno strumento di comprensione del reale e del cinema stesso, lo fa attraverso soluzioni linguistiche che però, per quanto ardite, possono sempre essere tradotte nella mente dello spettatore attraverso un modello di lettura linguistico-verbale, cioè pensieri che lo spettatore può formulare verbalmente in modo coerente. È chiaro che il pensiero visivo viene prodotto dal sistema di immagini proposto allo spettatore, ma in realtà questo pensiero visivo funziona solo a patto che riesca a stimolare le componenti propriamente linguistiche e verbali dello spettatore, facendo leggere correttamente queste immagini. Questo film ha diversi livelli di lettura, per quanto sia la realizzazione dell’idea di Vertov di fare un film senza attori, senza teatri di posa, senza sceneggiatura, ecc. Vi sono diversi livelli di lettura, dati dalla differenziazione delle tipologie di immagini:  Primo livello di lettura : corrisponde a una precisa linea narrativa, per cui questo film è la giornata di un operatore, interpretato dal fratello di Vertov, Mikhail Kaufman: è di fatto un film sul FARE cinema, cioè questo operatore che si sveglia la mattina e gira per una città immaginaria cercando eventi, oggetti, situazioni da riprendere  quindi il primo livello sono le immagini che LUI riprende.  Secondo livello : le immagini di Mikhail Kaufman sono pur sempre immagini cinematografiche, quindi c’è una seconda camera, la cui presenza è esplicita (seconda camera che riprende Kaufman, che di conseguenza riprende altro), non è denegata la presenza di questa seconda macchina da presa  abbiamo la macchina da presa di Mikhail Kaufman che riprende il reale e una seconda macchina da presa esplicita che riprende Mikhail Kaufman. 95 Critica sociale «giustapposizione lungo tutto il film di diversi strati sociali attraverso primi piani e medie inquadrature di cittadini in varie situazioni e contesti. Queste immagini del popolo sovietico “colse alla sprovvista” riflettono condizioni contraddittorie in una società all'interno della quale, ovviamente, l'idea di uguaglianza sociale non è messa in pratica. I lavoratori sono visti in situazioni che caratterizzano le peggiori condizioni possibili in un paese capitalista. Relitti e barboni vagano per l'ambiente urbano, mentre signore e signori ben vestiti si intrattengono in modi che non sono diversi da quelli attaccati come "borghesi" dalla stampa comunista. Collegando queste immagini tra loro e, del resto, con immagini simili negli altri film di Vertov, gli spettatori sono spinti a chiedersi come queste disuguaglianze possano ancora esistere in una società comunista » (Lawton 1992, 91-92) [scena della carrozza] [scena del salone di bellezza]  Vertov era molto critico nei confronti della NEP, la nuova politica economica che era una soluzione economica proposta da Lenin che lasciava un minimo margine di proprietà privata e iniziativa imprenditoriale personale a una certa borghesia della NEP, quindi il NEP man è il nemico di Vertov, perché lui vede in questa cosa la persistenza di un’ideale borghese che doveva essere distrutto veramente dalla rivoluzione. Questa questione della critica sociale, che è presente nel manifesto e in generale nell’opera di Vertov, è molto forte in questo film: secondo Anna Loton tutto il film è una giustapposizione attraverso il film di diversi strati sociali, di cittadini in diverse situazioni e contesti, e queste immagini di persone sovietiche riprese senza che se ne rendano conto, riflettono le condizioni contraddittorie di una società in cui l’idea di equalità sociale non è di fatto del tutto realizzata. Si vedono barboni che girano per la città mentre delle belle signore e gentleman si divertono in modi borghesi, quindi attraverso queste immagini di Vertov gli spettatori sono portati a chiedersi come mai questo tipo di diseguaglianze continuino ad esistere in una società comunista  questo film ha molta critica sociale, anche al progetto rivoluzionario dello stato sovietico. In particolare, questo si vede in una scena con la carrozza, dove la carrozza ha delle donne sopra ricche, scena contrapposta a immagini della loro donna di servizio scalza e che porta dei carichi pesanti sulle proprie spalle: queste donne ricche guardano quasi la camera, si sentono protagoniste, mentre la donna di servizio non guarda perché deve lavorare: alla fine vediamo Mikhail Kaufman che mette la propria macchina da presa in una posizione simile a quella della donna di servizio, tematizzando il fatto che il cineasta deve integrarsi con quel tipo di popolazione e non con la nobiltà o borghesia della NEP. Anche nella scena del salone di bellezza vediamo persone che si curano contrapposte a immagini del lavoro, dunque contrapposizione tra ricchi della NEP e lavoratore che è il vero protagonista. La città del film non è un città vera, è un misto tra Mosca, Kiev e Odessa, e questo film lavora su una città immaginaria che viene costruita unicamente con i mezzi del cinema, attualizzando con soluzioni esplosive dal punto di vista del montaggio quello che avevamo visto in Kulešov (che voleva costruire una scena in diverse città, mettendoci dentro addirittura la Casa Bianca). Lezione 11 – 27/10/2022 EJZENŠTEJN Lettura di Sergej M. Ėjzenštejn, Teoria generale del montaggio (1937), pubblicato solo negli anni 60, e un estratto di La natura non indifferente (1930-40) in D. Angelucci (a cura di), Estetica e cinema, Il Mulino, Bologna 2009 Teoria generale del montaggio 96 È una sorta di sintesi delle varie idee che aveva sviluppato sul montaggio a partire dagli anni 20. Avviene già dopo l’avvento del sonoro, dunque tiene conto di una serie di evoluzioni del mezzo, e si focalizza sull’idea di cinema come qualcosa di polifonico, per cui non è tanto la semplice giuntura di parti ad essere importante (come nelle sue prime teorie del montaggio) ma l’unità sintetica di piani diversi con questa nozione di montaggio verticale che poi svilupperà in un articolo del 40-41 (ma che già è anticipata in questo testo). Nelle pagine introduttive si cerca di chiarire la questione delle relazione tra rappresentazione del fenomeno e immagine generalizzante, e il ruolo del montaggio come processo di interpretazione, unità sintetica di rappresentazione e immagine (Hegel)  leggiamo la parte in cui Ėjzenštejn si occupa del muto avanzato, e vedremo come secondo lui, in quella particolare fase del cinema, si crea dalla rappresentazione l’immagine generalizzante attraverso i procedimenti di montaggio. Inizia con una citazione tratta da Puškin e ci dice che vuole rivedere l’evoluzione del montaggio sia esaminando l’evoluzione in senso storico/diacronico, sia con uno sguardo complessivo sincronico, un panorama  sguardo prospettivo e panorama, quindi dove siamo oggi (ai suoi tempi). Nel 37 torna sulle sue precedenti teorie, in qualche modo per fare un doppio gioco: da una parte dice che rivedendo il passato capisce che forse nelle sue prime teorie il montaggio usurpava le altre componenti nella realizzazione cinematografica, dall’altra dice che però non può capire ciò che è ad oggi il montaggio senza vedere quelle precedenti teorie che mettevano il montaggio come specifico cinematografico  da una parte rinuncia alla sovranità del montaggio, dall’altra ritrova il montaggio nelle altre componenti, come l’inquadratura o la relazione tra inquadratura e colonna sonora. Dunque, ci dice apertamente che lui ha cambiato idea rispetto alle sue teorie degli anni 20. Però, ci dice anche che sbaglia chi dice che il montaggio non è più importante solo perché nel sonoro ci sono meno tagli (per motivazioni tecniche), perché queste persone in questo modo seppelliscono un’idea anche invecchiata di montaggio: il montaggio non è da seppellire, ma semmai quell’idea. C’è una sottile venatura polemica per coloro i quali non recepiscono l’avvento del sonoro se non come una sorta di incidente di percorso che poi, a livello teorico, deve essere riassorbito nelle teorie sviluppate durante il muto evoluto: né dire che il montaggio va seppellito né tentare di riassorbire il sonoro nelle vecchie teorie del montaggio. Riprende poi il concetto delle 3 fasi: ripresa da un solo punto, spezzettatura e fase del film che si produce da più inquadrature attraverso il montaggio e infine unica inquadratura del film sonoro che riassorbe n sé le 2 precedenti  ci dice che sembrerebbe, visto che si monta di meno con il sonoro, che si torni alla ripresa da un solo punto, ma in realtà non è così (infatti, lui nella ripresa sonora vede la sintesi e il superamento delle due fasi precedenti attraverso il concetto di montaggio verticale). Fa poi una dichiarazione programmatica, dicendo che questo libro ha lo scopo di esporre delle tesi specifiche: parla di realismo (siamo nel 37, sono cambiate molte cose nel percorso), tornato in voga per diversi fattori, quindi si appropria di questa parola d’ordine anche perché con il film sonoro si aggiunge una di quelle componenti considerate mancanti al muto per essere realistico, però lo fa mettendoci dentro le sue parole d’ordine, dunque ci dice che per essere davvero realistica un’opera d’arte deve contemplare l’unità delle rappresentazione del fenomeno e della sua immagine generalizzante, cioè di una fase di rielaborazione della rappresentazione in cui vediamo l’essenza del fenomeno stesso  dice che non solo queste 2 unità sono inseparabili e che quindi in ogni rappresentazione del fenomeno che vediamo c’è sempre anche la sua generalizzazione, ma che queste 2 fasi in realtà, nel cinema, si convertono continuamente l’una nell’altra. Lui, nell’arte cinematografica sua contemporanea, vede che questa conversione di rappresentazione in immagine è andata perduta nel modo in cui viene elaborata l’immagine cinematografica dai 97 cineasti suoi contemporanei. Ci spiega come dalla rappresentazione si passa all’immagine generalizzante in tutte e 3 le fasi: il passaggio dalla rappresentazione all’immagine generalizzante avviene attraverso la composizione plastica nel film muto delle origini fatto con un’unica ripresa, con il montaggio nel cinema muto avanzato, e nel film sonoro con la composizione musicale che poi evolverà verso il montaggio verticale (capacità di creare una relazione verticale tra 2 linee, quella dell’immagine e quella della colonna sonora che lui chiama musica). VERO CAMBIAMENTO TEORICO DI EJSENSTEIN: ci dice che il montaggio ha origine nella composizione plastica dell’inquadratura e si trova anche nella composizione musicale dell’inquadratura sonora, quindi questo montaggio che non è più sovrano in realtà si trova dappertutto, non solo nella seconda fase della storia del cinema (film muto avanzato), ma nel modo in cui l’inquadratura del film muto delle origini era composta quindi plasticamente, e nel modo in cui si crea questa relazione verticale tra immagine e colonna sonora nel film sonoro  non è più sovrano ma in realtà si trova dappertutto, anche nelle altre componenti (profilo, ad esempio scelta dell’altezza dell’inquadratura o dell’angolazione, mentre la distribuzione è la composizione plastica). Il fenomeno viene generalizzato perché equiparato a serie che sono uguali per classe, appartengono alla stessa classe, per esempio a livello simbolico (Lo sciopero) o perché uniscono delle stesse immagini di volenza (Corazzata Potemkin): dunque, nel montaggio è l’equiparazione tra immagini simili di classe/tipologia che dà la generalizzazione. Il ruolo del montaggio, nel film sonoro, consiste principalmente nella sincronizzazione interna della rappresentazione del suono (Ivan Il terribile), cioè sincronizzare internamente una parte e l’altra. Nel cinema sonoro, la parte della colonna sonora generalizza l’immagine generalizzata del cinema delle origini, cioè abbiamo già un’inquadratura composta secondo una composizione plastica che nello stadio del cinema delle origini rappresentava già la generalizzazione, ma nel cinema sonoro si parte da questo che viene generalizzato attraverso la colonna sonora. Lui è consapevole che il cinema sonoro è ancora in corso, quindi non si possono trarre conclusioni sicure, ma si pone una serie di problemi che è importante porsi già in questa fase iniziale di elaborazione teorica del sonoro, e questi problemi si pongono sulla base di uno studio di quello che è stato nel passato (cioè il muto evoluto) e nel passato remoto (ossia il cinema delle origini): lui parla di compiti, perché queste teorie sono anche delle estetiche e delle poetiche, dunque ci dice quali sono i compiti del regista, ciò che egli deve sapere per poter fare un cinema che sia veramente arte (anche un’arte realista in questa fase). Afferma che non è un libro sul montaggio, ma è un libro che dice che nell’opera in generale ci deve sempre essere la rappresentazione e la sua immagine generalizzante e questi due elementi devono sempre essere compenetrati l’uno nell’altro perché abbiamo una vera opera. Qui, a differenza di quanto diceva nel passato, afferma che l’inquadratura è strettamente connessa al montaggio. Dice che è importante ragionare sulla questione della generalizzazione, in quanto è stata persa sia dal cinema che dalle arti limitrofe. Nel sonoro degli anni 30 non vede un’evoluzione tale da raggiungere la compenetrazione tra rappresentazione e immagine che secondo lui deve essere alla base dell’opera d’arte realistica. Fa poi un salto e inizia a parlare della seconda fase, ossia del cinema di montaggio che lui chiama ripresa da più punti  dire che il cinema della ripresa da più inquadrature è cinema di montaggio è sbagliato, perché il cinema è tutto di montaggio, perché secondo lui i fotogrammi messi nella ripresa uno accanto all’altro e fatti scorrere ad una certa velocità ci danno quello che lui chiama movimento della fotografia, ossia l’illusione del movimento del cinema, dunque è per lui una sorta di micromontaggio: il montaggio che mira ad accelerare il ritmo attraverso l’accoppiamento di inquadrature o a creare una più complessa elaborazione, non è altro che un evoluzione, a livelli più alti, di sviluppo di questo micromontaggio che è insito nell’immagine cinematografica
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