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La Società di Massa: Il Ruolo delle Masse nella Storia Italiana, Sintesi del corso di Comunicazione Interculturale

Il concetto di società di massa in italia, dalla rivoluzione industriale alla dittatura fascista. Del ruolo delle masse nella società e come hanno influenzato la politica, la cultura e l'economia. Il testo illustra come le masse sono diventate un fattore cruciale nella storia italiana, dalla rivoluzione culturale durante la prima guerra mondiale alla lotta nazionalista e alla crisi dello stato liberale.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 12/11/2019

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Scarica La Società di Massa: Il Ruolo delle Masse nella Storia Italiana e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Interculturale solo su Docsity! INTRODUZIONE Rivoluzioni politiche e rivoluzioni culturali (1900-1945) 1. La rivoluzione industriale 29 luglio 1900, Monza: Umberto I, re d’Italia, venne ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci. L’assassinio era direttamente legato alla dura repressione dei moti di protesta per l’aumento del costo della vita del 1898. Nel 1892 a Genova si era costituito il Partito socialista, il principale promotore delle rivendicazioni dei lavoratori e delle classi più povere. In ritardo rispetto agli altri paesi, arrivò in Italia la rivoluzione industriale: l’era delle fabbriche con macchine e salariati. Fu nel ventennio che va dalla fine dell’Ottocento al 1920 che l’Italia entrò a far parte dell’area industrializzata mondiale. Alle precedenti industrie produttrici di beni di consumo nel campo tessile e alimentare, si aggiunsero fondamentali settori produttivi: l’industria idroelettrica, siderurgica, automobilistica, delle fibre tessiche artificiali e chimica. 1899, Torino: venne fondata la FIAT, la maggiore industria automobilistica italiana del Novecento. L’Italia divenne rapidamente un paese industriale grazie ad una serie di fattori nuovi, il primo dei quali fu la costituzione delle banche miste, come la Commerciale e il Credito italiano. Queste banche investirono risorse, tecnologie, uomini (in gran parte tedeschi) nello sviluppo dell’imprenditoria e dell’industria. L’investimento di un’economia forte (tedesca) in un’economia debole (italiana) non avrebbe però potuto avere succeso senza un sostegno politico. Alla fine dell’Ottocento si erano prodotte delle divergenze insanabili all’interno del raggruppamento liberale proprio sulla gestione delle tensioni sociali. La soluzione repressiva e autoritaria dei primi anni Novanta si era dimostrata fallimentare con i cannoni di Bava Beccaris. Un nuovo modello di gestione delle politiche sociali più democratico venne attuato dal liberale Giovanni Giolitti, alleato della Sinistra repubblicana e socialista, e con essa vincitore delle elezioni politiche del giugno 1900. Diventato primo ministro, Giolitti contribuì non poco alla crescita economica e industriale dell’Italia, che nel 1914 arrivò ad essere l’ottavo paese industrializzato del mondo. Giolitti concesse libertà d’azione ai movimenti operai, con il primo sciopero generale del 1904. Il suo motto “né reazione né rivoluzione” e la sua apertura alle istanze di maggiore giustizia sociale miravano a integrare nello stato i nuovi movimenti di massa, cosa che riuscì ad ottenere con l’ala riformista del socialismo italiano capeggiata da Filippo Turati. Nel 1913 si ebbe il primo suffragio universale maschile e il paventato crollo della maggioranza liberale non si realizzò, grazie all’alleanza tra candidati liberali e organizzazioni cattoliche. Come nei paesi più industrializzati, la contrapposizione tra industriali e operai divenne in Italia un elemento connaturato allo sviluppo economico. La società italiana dimostrò il suo avvicinamento agli altri paesi più industrializzati anche in questo campo, attraverso il crescente numero di scioperi e scioperanti. 2. La rivoluzione sociale La rivoluzione industriale produsse anche in Italia i suoi noti effetti di sconvolgimento sociale e ambientale: l’inurbamento e l’abbandono delle campagne, alcune città crebbero a dismisura di popolazione e fabbricati, con notevoli problemi relativi al sovraffollamento nelle abitazioni, scarsità di igiene, servizi pubblici inesistenti. Il principale effetto della rivoluzione industriale è però quello di aver dato avvio alla società di massa, intesa sia in senso quantitativo che qualitativo. - Quantitativo: riguarda la massificazione degli addetti alla produzione e al consumo di beni. - Qualitativo: riguarda il crescente ruolo che le masse hanno svolto nell’ambito politico, sociale e culturale. È tra fine Ottocento e inizio Novecento che in Italia si sviluppa quel processo in cui le masse, temute come oggetto estraneo e pericoloso, cominciarono ad assumere un ruolo fondamentale nella politica contemporanea. Nella lettura di José Ortega y Gasset, l’avvento della società di massa è legato proprio a un salto qualitativo della massificazione o addensamento di popolazione in una città oppure in un settore della vita sociale. Gli uomini condividono comportamenti e atteggiamenti volti ad usufruire dei beni e dei vantaggi che il progresso tecnologico mette a disposizione di tutti. Se, però, da una parte il benessere esteso è un segnale di progresso materiale, dall’altra si evidenziano nel fenomeno delle negatività, la principale delle quali è la sparizione, nella mediocrità delle masse, di quelle forti personalità che hanno creato quelle stesse condizioni di benessere di cui la massa gode. Per far riemergere forze nuove e figure protagoniste dall’appiattimento e dal conformismo generali, occorre un sistema politico liberale, fondato sulla mediazione, la scelta, il confronto delle idee, l’accettazione proprio di ciò che le masse non tollerano, essendo abituate alla conformità irriflessa di opinioni e comportamenti. Per lo stesso motivo, non è accettabile la dittatura, in quanto espressamente regime livellatore di massa. Neanche i regimi democratici o populisti, che si piegano alla pretesa di massa di avere tutto dallo Stato senza sforzo e merito personale, migliorano le cose. Anche nel pensiero politico rivoluzionario di socialisti, comunisti e anarchici, si ammette che difficilmente le masse, abituate a vivere nell’ordine e sottomesse ai governi, possano operare spontaneamente dei cambiamenti e arrivare alla rivoluzione senza la spinta e la guida di gruppi attivi. Marx, perciò, distinse le masse dal proletariato, il gruppo più sfruttato e povero dei lavoratori, che per difendere i propri interessi prende coscienza di sé e della propria missione di rovesciare il sistema borghese e capitalista. Grazie alla coscienza di classe, il proletariato finisce col rappresentare gli interessi delle masse popolari. Solo l’organizzazione e la guida dei movimenti e del proletariato riescono a trasformare l’energia negativa e distruttiva delle masse in forza costruttiva del nuovo ordine sociale. Per dare voce alle masse, manipolarle o combatterle, lo strumento fondamentale del primo Novecento italiano fu la stampa. Le principali testate erano sostenute dai più importanti gruppi industriali e bancari. Il modello politico educativo letterario della stampa postunitaria esasperò il lato politico per la propaganda dei movimenti socialisti, che trovarono nella pubblicazione del quotidiano l’Avanti! il loro araldo. Inoltre, la voce dei cattolici si fece sentire con la diffusione di un nutrito numero di quotidiani, settimanali, riviste e periodici. vedeva la rivoluzione come esito finale delle società capitaliste più avanzate. La Russia non era tra queste. Da questi fatti Gramsci dedusse che lo stato borghese e capitalista non controllava le masse solo attraverso leggi, esercito e polizia, ma anche attraverso l’ideologia. Gramsci vede lo stato capitalista come unione tra la “società politica” delle istituzioni e del controllo giuridico e la “società civile” appartenente alla sfera del privato o non-statale che sta in mezzo tra l’economia e la politica. Lo stato capitalista, in sostanza, si fonda sul binomio forza-consenso. La società politica è il regno della coercizione, quella civile è il regno del consenso. Nessuno stato, senza l’adesione interiore del soggetto (consenso), può reggersi sulla coercizione esteriore (forza). Da qui discende la necessità dello sviluppo dell’industria culturale e del coinvolgimento crescente di intellettuali, artisti, scrittori. La borghesia capitalista dell’Ottocento fondò la sua cultura egemonica sul nazionalismo e sul patriottismo. Una nazione è tale se unisce all’unità territoriale quella della lingua, del sistema economico-amministrativo e militare, della religione e dei costumi. Salvo la religione, nessuna delle altre caratteristiche apparteneva all’Italia. L’Italia non aveva neppure una lingua comune: l’italiano era una lingua letteraria delle classi colte, ma la stragrande maggioranza della popolazione parlava il dialetto. Fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. La cultura degli italiani, osservava Gramsci, è cosmopolita e sciovinista, non popolare, cioè delle masse, e non nazionale, cioè con un unico progetto etico e politico. L’unità italiana è solo d’ordine culturale, non di tipo linguistico, ma performativo: il teatro, il melodramma, la musica, le arti visive sono la cultura popolare italiana. La borghesia riesce ad essere egemone, riesce a presentare i suoi valori e le sue regole come “naturali” e “normali”. Creatori della cultura sono gli intellettuali. Per Gramsci, tutti gli uomini sono degli intellettuali, in quanto tutti possiedono facoltà razionali. Tuttavia, non tutti gli uomini svolgono il ruolo di intellettuali. Costoro creano l’egemonia culturale attraverso apparati ideologici come i media, gli spettacoli, l’educazione scolastica. Gramsci distingue tra: • Intellettuali tradizionali: vedono se stessi come separati e come qualcosa di estraneo alla società. • Intellettuali organici: sono prodotti da ogni classe sociale, che li prende dai propri ranghi. L’intellettuale organico articola culturalmente i sentimenti e le esperienze che le masse non riescono ad esprimere. Gli italiani del tempo erano tradizionali, lontani dal popolo. Il problema irrisolto della cultura nazionalpopolare è lampante nell’industria editoriale italiana del periodo. - Nel romanzo dominano l’esterofilia, l’esotismo salgariano, il sentimentalismo rosa. - Nei libri e nei periodici di larga tiratura, soprattutto nei rotocalchi, dominano l’illustrazione e la fotografia. Stenta a trovare organicità tutta l’industria culturale italiana, soggetta alle quattro strategie di comunicazione messe in luce da Fausto Colombo: 1. Grillo: pedagogizzante e moralizzante 2. Corvo: ideologica, propagandistica e omogeneizzante 3. Topo: ad alto contenuto carnevalesco e comico indigeno 4. Gatto: la serializzazione di prodotti popolari è al servizio di una omologazione estera e globale 5. La rivoluzione fascista Gramsci ritiene che nel capitalismo avanzato la borghesia riesca a mantenere il controllo dell’economia e dei suoi interessi, lasciando che alcune istanze dei sindacati e dei movimenti di protesta della società civile vengano soddisfatte dalla società politica. A tal fine, la borghesia si impegna in rivoluzioni “passive” che vanno oltre i suoi immediati interessi. Lasciando che le forme della sua egemonia culturale cambino, il capitalismo non perde il controllo dell’economia e rafforza anzi il suo potere. Esempi di tale strategia furono il riformismo giolittiano e il fascismo. 
 Arrivato al potere con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini si accorse ben presto che la forza non poteva bastare per imporre il totalitarismo fascista, ma che occorreva soprattutto guadagnare il consenso delle folle. Occorreva imporre nella sfera politica il primato della cultura. Questa idea del ruolo immediatamente politico della cultura, di una egemonia della cultura sulla politica è comune al fascismo come al prefascismo e a molte componenti dell’antifascismo. L’idea di una cultura in presa diretta rappresenterà l’eredità più significativa trasmessa dal fascismo all’antifascismo. La rivoluzione fascista si presentò come un nuovo modello o terza via tra totalitarismo comunista e democrazia rappresentativa liberale. Il totalitarismo fascista non sottopose lo Stato al Partito, ma progressivamente emarginò il Partito per fascistizzare lo Stato. Gramsci riteneva che nonostante i molti intrecci, le due società, quella politica e quella civile, non dovessero identificarsi, dando luogo alla statolotria, come successe al fascismo. Il fascismo al potere istituì e diffuse una religione laica attraverso la sacralizzazione dello Stato e della nazione italiana e un culto politico di massa, il culto del littorio, mirante a realizzare l’ideale del cittadino virile e virtuoso, dedito anima e corpo alla nazione. Ai riti periodici delle feste dell’unità, della monarchia e della Grande Guerra, il 21 aprile, festa del lavoro in sostituzione del Primo maggio, di volta in volta si aggiungevano altre manifestazioni di massa, come le manifestazioni per la campagna di Etiopia. Insieme alla fascistizzazione dello stato, il regime portò avanti la fascistizzazione della cultura, delle arti, dell’economia e perfino del tempo libero. Il popolo italiano doveva essere indirizzato e indottrinato attraverso tutti i mezzi di comunicazione, in primis i giornali, e attraverso tutte le attività festive, sportive, ricreative. A partire dal delitto Matteotti, la stampa fu sottoposta ad un crescente controllo e ad un processo di progressiva fascistizzazione. Il Ministero per la Stampa e la propaganda, dal 1935 pensò di affiancare alle due direzioni per la stampa quelle per la propaganda, il cinema, il turismo e il teatro. Ovviamente anche l’editoria e soprattutto la radio erano sotto stretto controllo. Nel 1937 il ministero assunse il nuovo nome di Ministero per la Cultura Popolare (Minculpop). Con il termine popolare si vuole sottolineare un’attenzione e un impegno rivolti alle masse per una vera rivoluzione culturale. Radio, cinema e arte diventano gli strumenti di questa rivoluzione. Le opere del regime sono esaltate e propagandate con ossessiva insistenza dai notiziari dell’Istituto Luce. 6. La rivoluzione dei costumi Il disegno totalitario della religione fascista non ebbe pieno successo per una serie di contropoteri culturali. Lo spirito guerriero e virile del fascismo mal si conciliava con la visione pacifista e spirituale delle masse cattoliche. Ugualmente importante in Italia era il culto della propria piccola patria: costumi, feste, dialetti, tradizioni. Le culture locali si opponevano di fatto alla potente spinta verso l’italianità, la romanità imperiale e il nazionalismo fascisti. Nella stessa gerarchia del regime, le correnti di pensiero e di azione erano anche radicalmente differenti. Quello che, soprattutto, il fascismo non poté intaccare più di tanto furono i processi di modernizzazione frutto dei progressi scientifici, tecnologici e sociali che riguardano non l’ambito politico e quello sociale, ma quello privato delle persone: casa, salute, affetti, stili di vita. Al di là delle differenze di reddito tra le diverse classi sociali, la rivoluzione industriale aveva infatti prodotto due conseguenze fondamentali nella vita privata delle persone: 1. La produzione di merci a buon mercato permette l’accesso e il consumo di tali beni a una vasta e crescente parte della popolazione. 2. Si sviluppa irresistibilmente il tempo libero, il tempo da dedicare ai propri interessi, alle proprie passioni. La società di massa si caratterizza non solo per i consumi, ma anche per le attività di massa. Per i consumi di massa, i nuovi templi sono i grandi magazzini. I nuovi predicatori si avvalgono delle nuove tecniche pubblicitarie, in cui la cartellonistica la fa da padrone e in cui l’arte grafica evolve dallo stile liberty del primo Novecento al disegno essenziale di matrice futurista del ventennio fascista. L’alba del Novecento italiano sorge all’insegna della Belle Époque. Le migliori condizioni di vita non toccano solo la borghesia, ma anche le classi popolari. Il traino però è delle classi aristocratiche e alto borghesi. Qui avvengono i principali cambiamenti di stile di vita che poi raggiungono gradualmente tutte le altre classi: - Alle donne si aprono le porte di circoli, salotti, attività (es. sportive), fino ad allora esclusivamente maschili. - Si diffondono le smanie della villeggiatura, dei viaggi, del turismo, incentivate da una miriade di pubblicazioni, cartoline, libri, periodici, film. - Si moltiplicano le occasioni mondale e la vita pubblica, inclusa la vita in spiaggia e sulla neve. Ciò determina uno sviluppo della moda e dell’abbigliamento adeguato alle diverse circostanze e ai diversi ambienti. - Nelle serate danzanti furoreggia il tango, l’espressione più erotica del movimento di reinvenzione del corpo. - Vanno a ruba le cronache mondane che raccontano gli amori, le passioni travolgenti, le stravaganze, i successi delle attrici del teatro e dello spettacolo. - L’alta borghesia divide la sua vita notturna tra le luci soffuse del café-chantant e lo sfolgorio sfarzoso dei foyer e dei palchi dei teatri. Qui domina il melodramma, dove si afferma l’astro nascente di Giacomo Puccini. - L’invenzione del fonografo e del disco ha un clamoroso riverbero internazionale con le registrazioni del tenore Enrico Caruso, che fa conoscere al mondo la grande canzone napoletana. - La produzione discografica con l’avvento del cinema sonoro e della radio non conoscerà soste, soprattutto nella diffusione della più tipica espressione popolare musicale italiana: la canzone. - L’originaria industria del settore, l’editoria musicale, amplia il proprio fatturato, facendo la fortuna di compositori di musica leggera quali Andrea Cesare Bixio. - Gabriele D’Annunzio domina un po’ tutta la scena mediatica e le cronache politiche, artistiche e mondane del primo trentennio. Con Eleonora Duse signoreggia nel teatro di prosa. Si distingue anche nella nuova arte cinematografica, collaborando a uno dei maggiori successi internazionali del cinema muto, Cabiria (1914). In Italia, durante l’età giolittiana, l’estensione dell’approccio liberale a un panorama sociale profondamente trasformato dall’industrializzazione ha portato a una riduzione dell’intervento dello Stato nei conflitti di lavoro. Una dialettica più aperta delle forze sociali e politiche ha poi innescato una reazione autoritaria, incentrata sulla forza dello Stato per contrastare l’indebolimento degli equilibri economico-sociali tradizionali. Questo processo fu più convulso e conflittuale rispetto ad altri paesi europei: questo a causa dell’origine recente della costruzione istituzionale e amministrativa, della fragilità della struttura economica e dell’industrializzazione tardiva. Le trasformazioni hanno avuto un forte impatto su istituzioni liberali immaginate e realizzate in funzione di élites dirigenti molto ristrette e inadeguate ad assorbire il progressivo inserimento delle masse nella vita economica, civile e politica. L’avvento della dittatura fascista dopo la prima guerra mondiale ha trasformato censura e propaganda in strumenti cruciali per sopprimere ogni forma di libertà e pluralismo. Importante a riguardo è stata l’azione di schedatura, controllo e ricatto nei confronti di soggetti considerati pericolosi. L’opera censorio-propagandistica si è concentrata soprattutto sull’ideologia fascista e sull’immagine della nazione. Suo scopo principale è stato diffondere un’immagine vincente del regime. Nel campo della censura e della propaganda, il fascismo è stato precursore di altri regimi di massa novecenteschi, in particolare del nazismo, per quanto riguarda l’uso sistematico di stampa, radio, editoria, cinema, teatro e, soprattutto, forme di socializzazione autoritaria a livello giovanile. Il regime ha mostrato in questo modo una moderna capacità di coinvolgimento nell’azione di disinformazione di masse e individui che ne furono al tempo stesso vittime e collaboratori. Quest’azione si incrocia con il problema del consenso goduto dal fascismo. A lungo la storiografia antifascista ha negato o minimizzato l’esistenza di tale consenso oppure l’ha ammessa solo come conseguenza diretta della violenza fascista. I regimi illiberali novecenteschi, tuttavia, hanno avuto una natura complessa. Le folle che accorrevano a piazza Venezia a Roma per ascoltare i discorsi di Mussolini e quelle che riempivano lo stadio di Norimberga per i grandi riti collettivi del Führerprinzip non erano costrette con la forza, ma venivano spinte a farlo da molti elementi diversi. Il tema del consenso al fascismo e al nazismo è particolarmente importante per comprendere che la libertà non è un monolite e non è mai presente in forma piena, come pure non è mai totalmente assente. L’esperienza dei totalitarismi ha indotto a rovesciare l’approccio alla questione della libertà da un’ottica negativa ad un’ottica positiva. La libertà è stata definita soprattutto in rapporto ad un’evoluzione delle istituzioni, che ha portato ad una riduzione del potere sovrano. In concreto, il potere assoluto di cui godeva il sovrano dell’età moderna è stato gradualmente limitato. Con il progressivo trasferimento della sovranità al popolo sono venuti i maggiori pericoli per la libertà degli individui e delle collettività. Nel Novecento, il potere si è affermato sia attraverso una trasformazione dello Stato librale in nuove forme di Stati assoluti, sia attraverso nuove fome di mobilitazione sociale e politica aggressive e permanenti, come il totalitarismo nazista. Il popolo non sempre cerca e vuole la libertà. Ciò significa, però, che il problema della libertà coincide con l’avvento della società di massa in quanto tale, secondo una convinzione legata alla cultura borghese. Non è possibile, infatti, sovrappore meccanicamente i binomi massa-individuo e illibertà-libertà. Non è automaticamente vero che là dove le masse hanno plasmato la società sia prevalsa l’illibertà, mentre laddove ciò non è avvenuto la libertà sia stata meglio presidiata. Nel XX secolo, infatti, le battaglie decisive per la libertà sono state condotte dalle stesse masse che, in altri momenti e in altre circostanze, hanno favorito l’avvento di regimi totalitari. Nelle società avanzate, individui e masse non sono separabili gli uni dalle altre, sono due modalità diverse in cui si configura l’esistenza di milioni di uomini e di donne presenti nello stesso contesto storico, ed è alla cultura, alle idee e ai comportamenti di entrambi che bisogna guardare per capire come si sono sviluppate nel Novecento libertà e illibertà. La battaglia per la libertà è stata vincente quando ha portato alla formazione di istituzioni in grado di impedire “dittature della maggioranza”. Se il popolo limita se stesso e il suo potere, ponendo viceversa la sua forza a garanzia di libertà, quest’ultima diviene ancora più solida e profonda che nello Stato liberale. Più volte, nel corso del Novecento, il coinvolgimento delle masse in battaglie contro la libertà è avvenuto sul terreno del nazionalismo. Censura e propaganda, in particolare, sono state legate a questa tematica. Nel XX secolo l’auto-inganno delle folle ha ruotato spesso intorno al mito della nazione. Il mito novecentesco della nazione si è sviluppato in relazione-contrapposizione a quello ottocentesco di popolo, un mito emerso in stretta correlazione con la costruzione dello Stato nazionale. Nel linguaggio del XIX secolo, il riferimento al popolo ha rappresentato un elemento cruciale utilizzato dalle élites per l’affermazione di questa forma politico-istituzionale che ha avuto tanto successo in Europa. Nella cultura ottocentesta il termine popolo ha avuto soprattutto risonanze storiche e culturali piuttosto che sociologiche e concrete. Il nazionalismo romantico del XIX secolo non contrapponeva le nazioni tra di loro: italiani e polacchi, greci e serbi erano affratellati da una comune aspirazione (l’indipendenza nazionale) all’interno di una più ampia famiglia di popoli. Molte cose sono però cambiate con l’avvento della società di massa. L’Unità d’Italia è stata realizzata da élites urbane, mentre le campagne restavano ai margini: è stato il Risorgimento senza le masse contadine di cui ha parlato Gramsci. La nascita di uno Stato nazionale, tuttavia, ha posto le premesse per costruire davvero un popolo italiano. Nell’Italia post-unitaria, le classi dirigenti liberali hanno compiuto un’opera importante di unificazione nazionale. Con l’industrializzazione, però, è iniziata la “nazionalizzazione delle masse”. Prima e dopo l’unificazione politica, in Italia l’unitò di un tessuto sociale prevalentemente rurale è stata garantita soprattutto da una fitta articolazione di corpi intermedi, dalla famiglia alla parrocchia, dal borgo di campagna al piccolo comune, con solo poche città di dimensioni medio-grandi. Successivamente, invece, un ruolo sempre più rilevante hanno assunto borghesia imprenditrice e classe operaia. Solo con l’avvento della società di massa, gli italiani hanno cominciato a diventare veramente italiani e i francesi veramente francesi. È su questo terreno che si è sviluppato un nuovo nazionalismo aggressivo. Nella crisi dello Stato liberale si sono sviluppate un’ideologia nazionalista funzionale alle concentrazioni economico-finanziarie, una forte spinta verso l’espansione coloniale, una corsa sempre più accelerata per uscire dal sistema liberale. Il nazionalismo ha ottenuto un grande successo in Italia con la decisione del 1915 di entrare nella prima guerra mondiale. Propaganda e censura hanno avuto in tale esperienza un ruolo cruciale. La crisi dello Stato liberale ha poi aperto la strada al primo tentativo di realizzare un sistema politico democratico, imperniato sulla società di massa. Questo tentativo, tuttavia, è stato ostacolato dalla forte ostilità di una classe dirigente liberale sordamente ancorata ai propri interessi immediati. Contribuì in tal senso anche la Chiesa, legata ad un organicismo sociale che la società di massa stava scardinando. Si è aperta così la strada al fascismo, forma di totalitarismo incompiuto, basato sull’innesto di un partito di massa in istituzioni indebolite dalle trasformazioni della società. Come in altri paesi europei, anche in Italia il nazionalismo, vincente grazie ad una guerra, ha preparato la strada ad una nuova guerra. Il fascismo ha ripreso e sviluppato l’ideologia nazionalista per affermare il suo potere. Intorno a tale costruzione, l’azione dall’alto si è strettamente intrecciata con il coinvolgimento dal basso. Il fascismo ha raggiunto l’acme del consenso con la guerra d’Etiopia e cioè con l’aggressione di un popolo da sempre indipendente. Non fu un’operazione vantaggiosa per gli italiani, ma andò incontro al loro senso di inferiorità nei confronti di paesi occidentali più avanzati. Mussolini fece della militarizzazione degli italiani un programma politico e pedagogico in vista di una trasformazione antropologica degli italiani a soldati. Dal saluto romano all’adozione del voi, il duce sviluppò il suo programma di educazione nazional-militare. La lotta contro il nemico ha rappresentato il cardine di tale programma che ha preceduto l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Razzismo e antisemitismo si sono sviluppati su questo terreno. Le resistenze della Chiesa e della famiglia, tuttavia, ostacolarono in modo decisivo gli obiettivi “pedagogici” mussoliniani. 9. La rivoluzione futurista Il futurismo costituisce la più compiuta esperienza d’avanguardia promossa dalla cultura italiana della prima metà del Novecento. La sua azione è stata in grado di incidere su tutti i profili dell’arte e della comunicazione, interessando direttamente ogni aspetto della realtà. Il futurismo si distingue da molte delle principali esperienze artistiche della prima metà del secolo, per avere fin dai suoi esordi orientato il proprio intervento ad una trasformazione radicale. Questo ha sorretto, contraddistinto e favorito la sua azione nell’ambito della promozione di un’idea, valida a costituire un esercizio di interpretazione del proprio tempo. Il manifesto programmatico di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 20 febbraio 1909 sul Figaro, è l’atto fondativo di una visione delle cose in cui la percezione del mutamento epocale prodotto dai mezzi di trasporto e di comunicazione genera un’accelerazione vitale e vitalista. La spinta al rinnovamento del linguaggio costituisce la linea portante della rivoluzione. Prioritario è risultato l’ambito visivo, che ha costituito il laboratorio preferenziale e il punto di convergenza di molti degli sforzi impiegati. L’adesione di alcuni artisti operanti a Milano (Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo) alle idee di Marinetti produce il risultato esposto nei due manifesti che delineano, nei primi mesi del 1910, la proposta di una pittura futurista. Nel corso di alcuni mesi, l’esito delle loro intenzioni di rinnovamento della pittura viene qualificato all’insegna di un complementarismo congenito, nel quale è da intendersi il superamento delle formule divisioniste in vista di una ridefinizione del carattere compositivo fondato sulla fusione tra i diversi elementi della rappresentazione, per effetto della necessità di rappresentare il movimento, sia come spostamento nello spazio sia nei termini di un dinamismo implicito ad una nuova condizione di vita e visione antropologica. L’intervento futurista mira a esplorare molteplici aspetti della creazione e della realtà. I fattori fondanti di questo intervento sono il riconoscimento della bellezza della velocità, il superamento della separazione tra spazio e tempo, l’incontro e il confronto con la società moderna. Tutto questo, tradotto nella dimensione pittorica, produce una ricerca di rinnovamento dei soggetti e di elaborazione di nuove ipotesi costruttive, che vedono il necessario confronto con le novità proposte in particolare dal cubismo francese, ma anche la rapida definizione di ipotesi autonome nel creare una pittura dove emozioni, stati d’animo, compenetrazioni e sintesi del vissuto e dell’immaginato trovano forma.
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