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Storia d'impresa (2024), Appunti di Teoria Dell'impresa

Riassunto delle spiegazioni della professoressa a lezione sulle slide da lei condivise. Ottimo per passare l'esame a pieni voti.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 02/07/2024

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Scarica Storia d'impresa (2024) e più Appunti in PDF di Teoria Dell'impresa solo su Docsity! 1 Obiettivo della prima parte del corso è quello di fornire un inquadramento teorico dell'evoluzione storica dell'impresa, consistente in una riflessione sull'imprenditore e sull'impresa. Le diverse teorie si sono sviluppate nel tempo secondo i diversi stili/culture economiche nazionali. In tal senso sono identificabili due grandi tradizioni di pensiero sull’impresa e sull’imprenditore. Una è pertinente • all'Europa continentale l'altra fa capo (Francese/Italiano) • al mondo anglosassone (Inghilterra -> canone ortodosso -> Adam Smith) L'impresa rappresenta l'istituzione centrale dello sviluppo economico. I concetti utili da tenere in considerazione per la comprensione della teoria dell’impresa sono 1. L’approccio macro-economico: relativo alla struttura e alle tipologie di industrializzazione di un paese, nonché alle sue performance; ciò in quanto l’esito/destino della grande impresa è correlato alla società e alla ricchezza complessiva della nazione da cui proviene. (Questa tipo di considerazioni storiografiche sono state prevalenti fino agli anni Settanta del XX sec.). 2. L’approccio micro-economico: riguardante le varie formule organizzative dell’impresa, nonché le strategie di alcune precise imprese (considerazioni prevalenti dopo gli anni Settanta del XX sec.) 3. Le rivoluzioni industriali e i cambiamenti dei regimi tecnologici (regimi tecnologici diversi segnano i cicli di lungo periodo) L’andamento del sistema economico internazionale è segnato da cicli di lungo periodo, caratterizzati da regimi tecnologici diversi. Le imprese della Prima rivoluzione industriale furono caratterizzate da forza lavoro non qualificata. Esse si mantennero di piccole dimensioni, cosicché - rimanendo sotto il controllo del proprietario - non necessitarono di ingenti capitali. (Ad eccezione del settore delle ferrovie che in alcuni paesi fu sostenuto dalla finanza pubblica). La Seconda rivoluzione industriale (1880-1970) si basò su innovazioni più complesse (elettricità, motore a scoppio, chimica organica) che richiesero livelli di cultura e di istruzione più complessi. Venne incrementata la dimensione media dell’impresa e risultò centrale l’organizzazione ‘fordista’ dell’impresa. 4. Lo Stato rappresenta la cornice giuridica al cui interno si svolge l'attività economica. Esso può essere -per definizione – “regolatore”, “imprenditore” (ovvero, partecipante alla competizione economica), ma anche “pianificatore” a livello centrale oppure per settori specifici. STORIA D’IMPRESA 2 5. Le forme d’impresa Le varie forme di impresa (unitaria, multidivisionale, conglomerata, holding) sono teoricamente neutre in rapporto alle performance economiche. L'importante è però chiarire come esse abbiano operato nel proprio contesto storico, se esse abbiano permesso o meno lo sviluppo del potenziale tecnico e organizzative dell'impresa. 6. I sistemi capitalistici Con sistema capitalistico si intende l'intersezione tra l'economia e le istituzioni. Il sistema capitalistico determina il modello di regolazione della competizione, le relazioni tra la finanza e le imprese, la natura delle relazioni industriali, il sistema di welfare di un paese. Esistono diversi modelli di capitalismo (es. finanziario, monopolistico, familiare) che connotano diverse forme di mercato (liberistico, coordinato, caratterizzato dall’impresa pubblica). In ogni sistema economico nazionale capitalistico opera una comunità di imprese con dimensioni e differenti strategie. La dimensione dell’impresa può rappresentare un aspetto essenziale della sua strategia di riduzione dei costi: un’attività che impone economie di scala richiede un’organizzazione della produzione e della vendita in grado di servire un mercato di massa e quindi un’impresa di grandi dimensioni. La piccola-media dimensione è di solito adatta alla produzione specializzata o di nicchia. Le 3 maggiori forme d’impresa sono: - Piccola: di solito l’impresa familiare (51% in mano al fondatore). Ha un numero inferiore a 50 dipendenti e non deve superare fatturato di 7 milioni - Media: numero dei dipendenti compreso tra i 50 e 250, fatturato annuo non superiore a 40 milioni. La piccola impresa può diventare media attraverso l’integrazione sia verticale sia orizzontale. - Grande: la proprietà è diversa dal management (es. S.p.A.). un’impresa può diventare grande sfruttando le economie di scala oppure nascere già come grande impresa. Tecnologia e cicli di sviluppo Joseph A. Schumpeter, all’inizio del Novecento (cfr. La teoria dello sviluppo economico, 1912), ci ha fatto comprendere il meccanismo delle innovazioni / invenzioni tecnologiche, dei cambiamenti socioeconomici, nei cicli di lungo sviluppo. Secondo la teoria di Schumpeter le invenzioni, che vengono a mano a mano prodotte tendono a raggrupparsi intorno ad alcune tecnologie di base, di cui sviluppano tutte le implicazioni, generando un potente ciclo di sviluppo che arriva infine a saturazione. Si veda l’esempio della nascita della grande impresa: 5 Cantillon si accorse per primo che il vero organizzatore di tutto quello che viene prodotto non è colui che detiene la proprietà di quanto è necessario per produrre, né è colui che mette a disposizione il proprio lavoro. Infatti, per Cantillon è l'imprenditore l'iniziatore, il creatore, il responsabile del processo economico. Cantillon impiegò nei suoi Essai sur la nature du commerce en général (1755) il termine entrepreneur per indicare quei commercianti che “comprano grandi quantità di prodotti della campagna, dati loro a un prezzo fissato, per rivenderli al dettaglio ad un prezzo incerto”. Cantillon non era caduto nell’errore di scambiare un mezzo materiale accidentale come il capitale per l'elemento dominante della scena economica. Egli introduce per la prima volta il termine “entrepreneur” con cui identifica colui che cerca di sfruttare le opportunità del mercato create dalla discrepanza tra domanda e offerta e reputandolo il vero organizzatore di tutto ciò che produce. Identifica 3 categorie di agenti economici: i salariati, i proprietari e gli imprenditori, questi ultimi sono gli unici ad essere caratterizzati da un rischio effettivo derivante dall’attività di arbitraggio. La figura di R. Cantillon è ormai entrata nel dibattito contemporaneo storiografico, ma all’epoca i suoi contemporanei - sia in Francia sia nel mondo anglosassone - ignorarono il suo innovativo apporto sull’imprenditore. La teoria economica anglosassone delle origini (XVIII-XIX sec.) si accontentava di distinguere la terra dal lavoro ed entrambi questi fattori dal capitale; in questo contesto l'imprenditore veniva trattato o come una particolare specie di capitalista oppure come una particolare specie di salariato. L’imprenditore è un soggetto difficile da analizzare in quanto continuamente mutevole nel corso del tempo e, proprio per questo, gli strumenti tradizionali risultano inadeguati. Lo specifico fraintendimento di Adam Smith e di David Ricardo fu quello di trattare l’interesse come una specie di profitto: non veniva infatti ritenuta indispensabile una distinzione fra il capitalista e l’imprenditore. Il concetto che gli economisti classici inglesi avevano dell’impresa era affine a quello di “capitale”, mentre il concetto che ne avevano gli economisti classici francesi, capofila Jean-Baptiste Say ed i suoi epigoni, era invece affine a quello di “lavoro”. Compare in Smith spesso il vocabolo manufacturer oltre a employer, e anche undertaker: tutti questi lemmi erano però per Smith sinonimi di proprietario dell'impresa ovvero di capitalista. La parola entrepreneur, in francese ed in inglese (imprenditore in italiano), come la consideriamo oggi, divenne d’uso generale per l’influenza esercitata da J.-B. Say sull’inglese J. Stuart Mill. 6 Si può ancora trovare - in una modesta diffusione fra le due guerre mondiali - anche il vocabolo undertaker nell’economista Edwin Cannan (oggi il termine ha però tutt’altro significato). Approfondimento della teoria classica dell’impresa (variante francese) Jean Baptiste Say (1767-1832) Opere: Trattato di economia politica (Traité d’economie politique, 1803) Corso completo di economia politica pratica (1828-29) J.-B. Say è uno dei pochi economisti classici che distingue con chiarezza l’imprenditore dal capitalista e sottolinea il ruolo manageriale dell’imprenditore, ovvero distingue la funzione di fornire capitale e quella di sovraintendere la produzione. Nel Traité vi è una netta distinzione tra la figura del capitalista e quella dell’imprenditore: il capitalista assume certamente il rischio economico in quanto investe il proprio capitale, ma è l’imprenditore che “crea ricchezza organizzando i fattori produttivi”. Per avere successo, scrive J.-B. Say, l’imprenditore deve possedere “giudizio, perseveranza, conoscenza del mondo e degli affari. Deve possedere l’arte del soprintendente e dell’amministratore”. Deve godere di buona reputazione e audacia nell’affrontare i rischi, in quanto sa di poter andare incontro a fallimento. Esso svolge uno specifico ruolo propulsivo nel sistema economico. “L’imprenditore è dunque il personaggio (individuo o società) che acquista materie prime da altri imprenditori; poi, pagando una rendita affitta la terra del proprietario fondiario, pagando un salario le facoltà personali del lavoratore, pagando un interesse il capitale del capitalista e, infine, dopo aver applicato i servizi produttivi alle materie prime, vende per proprio conto i prodotti ottenuti”. La via italiana all’analisi dell’imprenditore: il pensiero di Melchiorre Gioia Per l’economista e statistico lombardo Melchiorre Gioia (1767-1829) gli imprenditori sono degli intermediari fra i proprietari ed i capitalisti da una parte e gli operai dall'altro; essi sono figure centrali dell’assetto sociale. In Gioia si trova una vera e propria analisi della società italiana dell'epoca in cui la figura dell'imprenditore è ben stagliata. Nel suo libro Del Merito e delle ricompense (1817), allorché Gioia discute dell'estensione del diritto di voto, egli opera una distinzione fra le figure degli imprenditori, dei capitalisti, commercianti, banchieri, funzionari, militari e professionisti. Approfondimento della teoria classica dell’impresa nella sua variante anglosassone Nel paradigma teorico anglosassone non è dato trovare un vero ruolo per la figura dell’imprenditore. Esso infatti è basato su una ipotesi di equilibrio di lungo periodo e su rigide categorie distributive che fanno riferimento a specifiche classi sociali. Non 7 vi è spazio dunque per una specifica remunerazione dell’attività imprenditoriale considerata come assunzione del rischio. La remunerazione dell’attività svolta da chi esercitava l’attività imprenditoriale era vista come remunerazione del capitale piuttosto che della abilità imprenditoriale. In sintesi, nella visione dei classici di matrice anglosassone l'attività di guida del processo economico è un ruolo di scarsa importanza; infatti nel sistema di Smith la funzione dell'uomo d'affari è quella di fornire un capitale reale. Inoltre, non c’è bisogno di una guida per lo sviluppo economico in quanto la libertà economica stessa è colei che crea ordine (si veda la metafora della mano invisibile). MARGINALISTI: teoria neoclassica Per poter affrontare la teoria neoclassica sull’impresa, che fa seguito a quella c.d. della Scuola classica, occorre una premesse in termini di pensiero economico. Dopo la metà dell'Ottocento sono co-presenti in Europa economisti di diverso orientamento. Nell’ambito della storia del pensiero economico sopravvive 1) la lezione degli economisti della Scuola classica (A. Smith, D. Ricardo, K. Marx, J. Stuart Mill), secondo la quale i temi di interesse sono la crescita economica, la distribuzione del reddito, la determinazione dei prezzi basata sul lavoro e sui costi di produzione e prende avvio 2) il filone di pensiero della Scuola marginalista. La Scuola marginalista indica un preciso filone di pensiero che studia le questioni economiche focalizzando l'attenzione sugli incrementi al margine. Essa identifica una scuola di pensiero che si è sviluppata in Europa negli anni ‘70 dell’Ottocento. Che cosa cambia in sostanza rispetto alla teoria della Scuola classica, tanto da poterla definire una rivoluzione marginalista? Cambiano le questioni di cui si occupano gli economisti, i quali non si occupano più della crescita, non si occupano più della distribuzione del reddito, non si occupano più di aggregati, come sono le classi sociali, non basano più la spiegazione dei prezzi sul lavoro o sui costi di produzione, non danno più la priorità alla sfera della produzione cioè al lato dell'offerta. Le vecchie questioni vengono sostituite da altre problematiche. Gli economisti marginalisti si occupano di questioni diverse da quelle dei classici. Per esempio, anziché considerare la crescita delle risorse, si considerano delle risorse date e si studia qual è la ripartizione ottima di queste risorse tra usi alternativi. Non si trattano più le classi sociali ma ci si concentra su individui razionali, su singoli individui, su agenti economici razionali e calcolatori che effettuano delle scelte. Non si affronta più la teoria del valore-lavoro, ossia del valore basato sul lavoro, sui costi di produzione, ma si introduce la teoria del valore basata sull'utilità. Quindi non si dà più la priorità alla produzione ma si dà la priorità all'area del consumo, cioè al lato della domanda. Non solo cambiano le questioni ma cambia anche il metodo perché viene privilegiata la matematica. 10 All'epoca della seconda grande ondata di industrializzazione, quella conosciuta perché legata all'elettricità, alla catena di montaggio, ai grandi investimenti di capitali, all'economia di scala, la grande impresa iniziò ad attrarre l'attenzione degli scienziati sociali, cioè degli economisti. Essa iniziò ad occupare uno spazio crescente ma ancora minimo nell'ambito della cultura economica. In questa fase, dunque, ricomparve un po’ di interesse per la figura dell'imprenditore; purtroppo questo filone - che sembrava estremamente promettente - fu ben presto ridimensionato dalla rivoluzione manageriale e dall'attenzione che venne data alle grandi organizzazioni burocratiche come l’impresa fordista. Accentuazione delle differenze tra la teoria continentale e quella anglosassone All'inizio del Novecento una distanza ormai incolmabile separa l'analisi del ruolo imprenditoriale che si coltiva in Europa dalla prospettiva con cui si guarda alla trasformazione dell'impresa in America. La differenza è di tipo culturale e così imponente da imporsi immediatamente all'attenzione degli studiosi. In Europa l'enfasi cade sulle figure imprenditoriali che danno il via a tipologie e a modelli d'azioni esaltanti le qualità e le virtù dei protagonisti economici; in America - all'opposto - prevale un principio di completa spersonalizzazione. • Se nel Continente si cercò la cifra della personalità e la sua impronta nei processi economici, oltreoceano il successo di impresa venne fatto risalire alle regole organizzative, alla condotta amministrativa che tendeva alla soppressione di tutto quanto era individuale, tutto quanto era deviazione delle procedure e degli standard, tutto quanto era eccezione dalla norma codificata. • Negli USA l'innovazione apparve come un prodotto dell'organizzazione, anzi l'innovazione fondamentale fu proprio l'organizzazione che rendeva completamente superflua se non dannoso l'apporto individuale non incasellato, non determinato da un protocollo operativo. • F. Taylor - nel suo scritto più celebre nell'Introduzione dei Principi di organizzazione scientifica del lavoro (1911) affermò: «nel passato l'uomo veniva al primo posto, nel futuro sarà il sistema». Inoltre, Taylor annuncia l’arrivo di un «tempo in cui tutte le grandi imprese saranno realizzate attraverso quel tipo di cooperazione in cui ogni persona svolge la funzione per cui è più adatta». • L'innovazione portata dal taylorismo convinse molti imprenditori americani ad applicare un modello di organizzazione aziendale badato sulla divisione del lavoro e su migliori performance in termini di tempo. 11 • Alla metà del Novecento - dopo la Seconda guerra mondiale - si verificò l'ascesa irreversibile del capitalismo organizzato che tese definitivamente a smussare le punte dell'individualismo. • Il Novecento, il c.d. “secolo americano”, è stato sicuramente anche il secolo del management. IL PUNTO DI VISTA NEOCLASSICO Nella teoria neoclassica l’impresa è un agente massimizzante che svolge una funzione produttiva. Essa è dotata di un insieme di fattori organizzati per produrre e commercializzare un bene, ivi inclusa la capacità di organizzazione. La tecnologia è data. L’imprenditore è un funzionario-organizzatore che sceglie la funzione di produzione più adatta. Non c’è incertezza endogena. L’imprenditore è dotato di conoscenza perfetta sulle tecniche disponibili. Non vi sono particolari costi di organizzazione e di monitoraggio. Concetto di impresa rappresentativa nella teoria neoclassica Le imprese sono caratterizzate dalla stessa struttura dei loro costi e tutti gli imprenditori sono caratterizzati da uno stesso grado di abilità e di informazione. Viene dunque negata specificità alla funzione imprenditoriale: tutti possono essere imprenditori. E’ scarsa la valenza di questo modello per spiegare le ragioni alla base del sorgere dell’impresa. I marginalisti: Léon WALRAS (1834-1910) Fra i marginalisti, i quali esprimono la teoria neoclassica dell’impresa, emerge la peculiare posizione di L. Walras A differenza della maggior parte degli economisti classici, che tendevano ad identificare gli imprenditori con i capitalisti, il francese Léon Walras, seguendo in ciò l’impostazione di Say, ebbe il merito di sottolineare che gli imprenditori erano da considerarsi una categoria a sé stante: La loro funzione era quella di acquistare sul mercato i fattori della produzione (servizi dei capitali o beni intermedi), di combinarli sulla base di una tecnologia data e di ottenere beni di consumo, beni intermedi e capitali durevoli. Essi erano dunque i coordinatori dell’attività produttiva. Come si avrà modo di constatare, peraltro, la trattazione dell’economista francese è tutt’altro che soddisfacente, in quanto nel suo modello non è dato trovare una specifica categoria retributiva che valga a remunerare l’attività imprenditoriale in quanto tale. «L’imprenditore è dunque il personaggio (individuo o società) che acquista materie prime da altri imprenditori; poi, pagando una rendita affitta la terra del proprietario fondiario, pagando un salario le facoltà personali del lavoratore, pagando un 12 interesse il capitale del capitalista e, infine, dopo aver applicato i servizi produttivi alle materie prime, vende per proprio conto i prodotti ottenuti». Infatti in concorrenza perfetta i profitti, nel lungo periodo, sono pari a zero. L’ipotesi, poco realistica, adottata da Walras è, dunque, quella che «in uno stato di equilibrio gli imprenditori non realizzano né profitti né perdite». Ne discendeva, sempre secondo Walras, che l’imprenditore, per ottenere un reddito, doveva svolgere anche funzioni lavorative nella propria azienda, sia pure a livello dirigenziale, oppure avere investito in essa dei capitali propri. Si trattava di una visione poco soddisfacente, che trascurava aspetti centrali del funzionamento delle economie di mercato. Sarà solo con Joseph A. Schumpeter (Teoria dello sviluppo economico, 1912) e, più di recente, con la Scuola neo-austriaca che si perverrà ad una rappresentazione più realistica ed analiticamente coerente della funzione imprenditoriale. Frank H. KNIGHT: il fondatore della Scuola del pensiero economico di Chicago Autore del celebre volume Risk, Uncertainty and Profit (1921), Knight traccia una distinzione tra “rischio” e “incertezza”. Il rischio è qualcosa di misurabile e valutabile sin dall’inizio da parte dell’operatore economico e può essere trasferito ad altri. Knight fa riferimento alla passata esperienza, ovvero presuppone che il soggetto abbia la possibilità di ripetere più volte la scelta ottimale (caso delle compagnie di assicurazione: assicurazione sulla vita ecc.). L’incertezza invece è qualcosa che non è quantificabile perché implica situazioni sconosciute. Si fa riferimento ad eventi unici o rari (l’evoluzione di una specifica crisi internazionale, lo scoppio di una guerra). Secondo Knight l’attività economica è dominata dall’incertezza (l’imprenditore dunque opera nell’incertezza). Il profitto in questo contesto è il risultato del rischio non misurabile. Il profitto è dunque la retribuzione che l’imprenditore ottiene nel portare a termine compiti di decisione e controllo in presenza d’incertezza, e la sua funzione si spiega in presenza di concorrenza perfetta e in equilibrio di lungo periodo. Imprenditore è il soggetto che, sulla base delle proprie propensioni, accetta di assumere decisioni in condizioni di incertezza e si assume la responsabilità del risultato delle proprie azioni. Il carattere dominante dell’attività economica è l’incertezza: le valutazioni imprenditoriali vengono condotte su dati di fatto estremamente precari. J.M. KEYNES Secondo J.M. Keynes, invece, il fattore determinante per le decisioni imprenditoriali (= investimenti) non è costituito da considerazioni razionali basate sul calcolo attuariale, quanto dagli animal spirits, intesi come «impulso spontaneo all’azione piuttosto che all’inazione». 15 Nuove combinazioni produttive possono essere attuate sulla base di conoscenze già disponibili. La condotta dell’imprenditore non è guidata dal movente edonistico, nel senso che non è guidata prevalentemente dall’esigenza di soddisfare bisogni mediante il consumo di beni. Le motivazioni dell’azione dell’imprenditore sono solo in parte razionali: 1. Volontà di fondare una dinastia o un impero privato; 2. Volontà di lottare e ottenere successo in quanto tale; 3. Gioia di creare. Osserva Schumpeter come solo nel primo di questi moventi la proprietà privata sia da considerarsi essenziale. Gli altri due moventi possono essere soddisfatti anche in altri sistemi sociali. In sintesi, la funzione imprenditoriale non implica necessariamente la proprietà dell’impresa. Secondo Schumpeter l’impresa privata deve essere considerata superiore all’impresa pubblica, in quanto i suoi dirigenti: 1. Sono stati selezionati dalla concorrenza e ne conservano i valori; 2. Sono guidati dal criterio di responsabilità. L’imprenditore innovatore si trova a fronteggiare un ambiente ostile che tende a contrastare in vari modi la sua attività. Egli deve possedere delle doti caratteriali che sono proprie solo di una piccola frazione della popolazione. Introdurre una nuova combinazione richiede un diverso impiego delle disponibilità esistenti nel sistema economico (si ipotizza che nel “flusso circolare” vi sia un pieno impiego delle risorse). Le banche hanno un ruolo centrale in rapporto all’imprenditore: il banchiere deve avere capacità e lungimiranza nel selezionare le imprese valide da quelle che non lo sono. Concetto fondamentale Lo sviluppo economico viene definito da Schumpeter come un processo di «distruzione creatrice»: è un processo che modifica la struttura economica dal suo interno, distruggendo il vecchio e creando il nuovo. Sintesi del pensiero di Schumpeter Partendo dall’analisi della Teoria dello sviluppo economico (1912) constatiamo come essa sia un’opera molto originale sulla cultura imprenditoriale. La Teoria fu scritta dapprima in tedesco e pubblicata in Germania, ma divenne nota soltanto con la traduzione inglese del 1934, e soprattutto negli USA dopo la Seconda Guerra mondiale. Nella Teoria, Schumpeter indicò l’esistenza di una minoranza creativa, protagonista dello sviluppo economico. Si deve proprio a quest’opera la fortuna della parola entrepreneur. 16 Il termine era già noto e usato in Francia, ma Schumpeter gli attribuì caratteristiche nuove. Schumpeter sosteneva che lo stato naturale di un’economia fosse di equilibrio stabile (flusso circolare), con dei guadagni normali e con decisioni manageriali di tipo routinario, che tendevano a riprodurre lo status quo. Gli imprenditori andavano a interrompere questo equilibrio, introducendo delle innovazioni e accettando di correre i rischi insiti nella ricerca di rendite monopolistiche (assicurate a chi arriva prima della concorrenza in una innovazione). Gli imprenditori creavano così un effetto creativo-distruttivo. Gli imprenditori – secondo questa visione - sono uomini economici il cui obiettivo è quello di massimizzare gli utili attraverso il ricorso all’innovazione. Capitalismo, socialismo, democrazia (1942) • La caratteristica essenziale del capitalismo, scrive Schumpeter, è quella di essere in perpetuo mutamento. • Il capitalismo presuppone per sua natura il cambiamento economico. Esso non può essere stazionario. Ci sono punti di contatto con Marx? Dove Schumpeter afferma che l’innovazione distrugge un precedente equilibrio. In Marx, tuttavia, l’evoluzione è data dal processo di continuo mutamento delle “forze della produzione”, non dall’innovazione. Per Schumpeter la funzione imprenditoriale è importante soprattutto nelle prime fasi della industrializzazione di un paese; successivamente la tendenza è quella di concentrare l’attività di produzione in poche grandi imprese. All’interno di queste grandi imprese l’imprenditore viene infine sostituito da un gruppo di “amministratori stipendiati”, si tende, insomma, ad un processo di burocratizzazione. L’eredità di Schumpeter La linea di pensiero dell’organizzazione aziendale americana trovò il suo contraltare nell’austriaco Schumpeter, il quale si trasferì ad insegnare in USA e da lì a diffuse la categoria dell’imprenditore/innovatore e l’immagine della distruzione/creatrice (più volte impiegata e riscoperta dopo la crisi del 2008). Sulla scia degli studi di Schumpeter, uscirono fra gli anni Venti e i Cinquanta del Novecento, alcuni lavori sugli imprenditori che esprimevano il fascino di individui eroici, per lo più uomini, i quali da soli portavano avanti idee innovative, assumevano rischi e si sforzavano di aumentare la ricchezza. Esempi di figure come Andrew Carnegie, Benjamin Franklin e John D. Rockefeller hanno incarnato il tipo ideale di imprenditore nel pensiero di J.A. Schumpeter, Max Weber e Israel Kirzner. Nonostante le differenze nei loro approcci, questi economisti condividono una comprensione dell'imprenditore come una persona fisica dotata di particolari 17 competenze cognitive e che hanno interiorizzato valori meritocratici e capitalistici e hanno la capacità di mobilitare le risorse. L'imprenditore è colui che vede opportunità dove altri vedono ostacoli. Questa tendenza a una così forte individualizzazione dell'imprenditorialità, questa estremizzazione non è però consona alla visione di Schumpeter. Infatti, egli suggerisce (nel lavoro Capitalismo, Socialismo e Democrazia) che essere un imprenditore è solo un episodio nel corso della vita e che gli imprenditori possono essere distinti solo temporaneamente dai manager o dai capitalisti. Di conseguenza, egli si rivolge allo studio di blocchi di attività che costituiscono l'imprenditorialità e arriva alla sua famosa definizione che l'imprenditorialità è una ricombinazione di fattori produttivi. Perché la forza della visione schumpeteriana riesce ad imporsi sulle teorie dell’organizzazione del lavoro in tempi recenti? Perché essa ha la capacità di evocare la dinamica della trasformazione, richiamata da un capitalismo intrinsecamente instabile. DINAMICA ECONOMICA In contrasto con il tipo di impostazione teorica neoclassica, che è statica, la storia di impresa può riguardare due specifiche analisi 1) La comparativa: sebbene le imprese operino in paesi diversi, con distinte strutture proprietarie e organizzative, quelle che appartengono a uno stesso settore, di solito, condividono alcune caratteristiche di rilievo e queste sono: l'intensità di capitale e il lavoro 2) La dinamica: le imprese che suscitano il maggiore interesse degli storici sono quelle che mostrano la tendenza alla crescita dimensionale. Nell’ambito di analisi del dinamismo delle imprese esiste un aspetto specifico che indicheremo come complessità relazionale. Significa che le imprese reagiscono in modo differente ai cambiamenti tecnologici esogeni ed endogeni. Si tratta di variabili importanti che contribuiscono però a definire l'intensità e la direzione dell'espansione e ci aiutano a spiegare la continuità e il successo delle imprese. Ulteriori elementi significativi, capaci di determinare l'espansione e quindi il dinamismo dell'impresa sono: • l'efficienza dei suoi mercati finanziari • I modelli culturali Tutti questi fattori di sviluppo interagiscono fra di loro. MILL e KARL MARX Appartengono ancora alla Scuola classica d’economia britannica due grandi personalità dell'età vittoriana (1837-1901), John Stuart Mill e Karl Marx; entrambi perseguono entrambi le radici del liberalismo classico, sebbene ne siano gli ultimi epigoni. 20 Sombart cerca di identificare il momento in cui si afferma lo spirito capitalistico; questo momento è il risultato di un lungo processo evolutivo che vede affermarsi lo spirito dell’impresa. Per compiere tale viaggio storiografico, Sombart utilizza una figura letteraria, universalmente conosciuta nella cultura europea: Faust (uno studioso di origine tedesca che, per ambizione di emergere nella società, si fa aiutare da Mefistofele – incarnazione del male - in cambio della cessione della sua anima). Un’ulteriore modellazione del carattere dell’imprenditore è l’aggiunta che fa Sombart dello spirito dell’uomo borghese, dedito all’ordine e alla conservazione; a questo punto l’imprenditore, assunta anche la caratterizzazione del borghese, può edificare l’ordine dell’economia moderna del capitalismo maturo. In sintesi, Sombart costruisce l’identità dell’imprenditore costruendo la sua rappresentazione attraverso i caratteri culturali della civiltà europea. Per Sombart, l’imprenditore capitalista è la forza motrice dell’economia. Per Sombart i fattori della produzione, intesi come capitale e lavoro, si trasformano in capacità produttiva solo a contatto con l’azione creatrice dell’imprenditore. In tal senso l’imprenditore è un eroe solitario che esercita una leadership carismatica (carisma = dono divino). L’impresa capitalistica costituisce un’unità astratta, l’azienda, che può assumere forme diverse. Lo scopo dell’azienda è il conseguimento del profitto attraverso la stipulazione di contratti per prestazioni e controprestazioni espresse in denaro. Al suo interno, l’imprenditore capitalista assume un ruolo fondamentale poiché svolge funzioni organizzative, commerciali e contabili/amministrative. Lo scopo è quello di valorizzazione del capitale investito nell’impresa. Sombart nota inoltre una evoluzione – in virtù dei cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo economico e nel capitalismo del XX secolo – tra l’imprenditore tradizionale dell’età liberale e questo di un sistema capitalistico maturo, dove sempre più si verificava: 1) Divisione tra proprietà e gestione; 2) Specializzazione dell’attività produttiva (che porta ad una paralizzazione delle imprese); 3) Integrazione fra attività produttive e finanziarie (reinvestimento dei capitali in prodotti finanziari). Il contributo di Max Weber sulla burocrazia Max Weber (1864-1920), fu autore di numerosi studi fondamentali in campo sociologico ed economico. Weber è particolarmente conosciuto per la sua teoria che collega lo sviluppo del capitalismo allo spirito protestante (L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904). Per l’aspetto che ci riguarda, Weber è importante soprattutto per la sua riflessione sulla genesi degli apparati burocratici nello Stato moderno. 21 Nello sviluppo capitalistico un ruolo fondamentale era stato svolto da un processo che Weber definì di «razionalizzazione» che si era espanso a tutti gli aspetti della società contemporanea. La razionalizzazione aveva trasformato il concetto stesso di autorità: da autorità di tipo ‘carismatico’ (ad esempio: il re, l’imperatore, il capo militare) si era progressivamente trasformata in un’autorità di tipo ‘razionale’, fondata sulla competenza di chi la esercita (il dirigente). La razionalizzazione dello sviluppo economico ha selezionato una struttura per l’esercizio di quel... tipo di autorità (razionale): la burocrazia. I caratteri fondamentali della struttura burocratica sono: 1. La non trasmissibilità dell’autorità; 2. Le regole del funzionamento burocratico sono stabilite in modo tale che si eviti di trattare i singoli casi in maniera diversa (uniformità dell’azione); 3. La struttura burocratica è organizzata per gerarchia e per competenza; 4. L’apparato burocratico impiega funzionari e specialisti a tempo pieno e che svolgano la propria carriera all’interno dell’apparato stesso. COASE: IL NEOISTITUZIONALISMO La prospettiva neoclassica Nella teoria dell’impresa neoclassica, l’impresa è un agente massimizzante che svolge una funzione produttiva. L’impresa è dotata di un insieme di fattori organizzati per produrre e commercializzare un bene, ivi inclusa la capacità di organizzazione. L’imprenditore è un funzionario-organizzatore che sceglie la funzione di produzione più adatta. L’imprenditore è dotato di una conoscenza perfetta sulle tecniche disponibili. Non vi sono particolari costi di organizzazione e di monitoraggio. La tecnologia è data. Non c’è incertezza endogena. Le imprese sono caratterizzate dalla stessa struttura dei costi e gli imprenditori sono caratterizzati da uno stesso grado di abilità e di informazione. Viene dunque negata specificità alla funzione imprenditoriale: tutti possono essere imprenditori. Questo modello ha una scarsa valenza per interpretare le ragioni alla base del sorgere dell’impresa. New Institutional Economics: il contributo pionieristico di Ronald Harry Coase (1910-2013) Profilo biografico dell’economista inglese R.H. Coase • Insegna presso la London School of Economics (LSE) e, dal 1964, si trasferisce presso la Law School dell’Università di Chicago. • Editor del «Journal of Law and Economics». • Premio Nobel per l’economia nel 1991. L’approccio di Coase era finalizzato a far emergere il concetto d’impresa in modo da fornire un fondamento logico all’azienda e da indicare cosa determinasse il suo raggio d’azione: separazione tra proprietà e controllo. 22 Il contributo di Coase si inserisce nel filone neo-istituzionalista: una corrente di pensiero che si propone di analizzare il ruolo delle istituzioni mantenendo i postulati del modello neoclassico; In particolare, il neo-istituzionalismo si concentra sui principi della massimizzazione dell’utilità. Nel 1937 R.H. Coase pubblica un articolo destinato ad avere una fortuna immensa, The Nature of the Firm, tanto da costituire la base per le più diffuse teorie contemporanee sull’impresa. L’intuizione alla base del ragionamento di Coase è che l’impresa e il mercato non siano forme complementari ma opposte. Nel mercato l’allocazione (è) delle risorse avviene attraverso il meccanismo dei prezzi, ma non è così all’interno dell’impresa: «Se un lavoratore si sposta dal settore X a quello Y, non lo fa per un cambio nei prezzi relativi, ma perché gli viene ordinato» (Coase, 1937, p. 387). Dunque all’interno dell’impresa il meccanismo dei prezzi, fondamentale per il funzionamento del mercato, viene sostituito dal meccanismo della organizzazione. Da questo concetto si dipana il ragionamento di Coase, per seguire il quale dobbiamo abbandonare il concetto tradizionale di impresa, intesa come frutto della divisione del lavoro e dello sviluppo tecnologico, che è stato seguito fin qui. Per Coase l’impresa è come un’istituzione: - Da un lato, l’impresa opera sul mercato, in base ai principi della libertà di iniziativa economica, - Dall’altro, è una struttura organizzata in modo centralizzato e gerarchico. Punto di partenza dell’analisi di Coase è che sul mercato il meccanismo dei prezzi è in grado di per sé di coordinare e di indirizzare l’attività dei produttori. Per quale motivo, dunque, è necessaria la figura di un imprenditore-coordinatore che sostituisca la “complicata struttura delle transazioni sul mercato?” In altri termini: perché in alcuni casi il lavoro di coordinamento è operato dal meccanismo dei prezzi, mentre in altri casi esso è svolto dall’imprenditore? Ricorrere al mercato significa stabilire un contratto (qualsiasi attività di compravendita lo è…) e questa attività ha un costo ben preciso: in alcuni casi, il costo dell’attività contrattuale è superiore a quello che si avrebbe nel trasferire tale contratto all’interno dell’impresa. In sostanza, siamo nell’ambito del solito dilemma di cui si fa carico l’azienda: to make or to buy? Le ragioni che possono portare alla scelta di passare da una transazione di mercato alla produzione di beni o servizi all’interno dell’impresa possono essere molteplici. Le ragioni che possono indurre a questo passaggio sono: • L’incertezza di contratti di lungo periodo • Il trattamento fiscale 25 - I limiti informativi e le capacità cognitive degli individui; - La presenza di atteggiamenti “opportunistici”: gli individui possono essere indotti a violare gli accordi; - La specificità o meno delle risorse destinate ad attuare le transazioni. Assume un ruolo rilevante l’incertezza, in riferimento sia agli “stati del mondo” (eventi esogeni) che al comportamento degli individui. Una specifica riflessione, Williamson la dedica al caso dell’integrazione verticale in un’impresa. N.B. La spiegazione tradizionale del fenomeno dell’integrazione verticale fa riferimento a considerazioni di natura tecnologica (ossia, il processo di integrazione verticale viene giustificato in genere con motivazioni di carattere tecnico; ad esempio il risparmio di combustibile nel caso di produzioni congiunte, ferro e acciaio). Nell’analisi di Williamson, al contrario, lo scopo principale dell’integrazione verticale è quello di economizzare sui costi di transazione. È questo soprattutto il caso di tecnologie che richiedono investimenti specifici. Poniamo il caso di 2 operazioni industriali scindibili: il prodotto di un determinato stadio (I) alimenta quello successivo (II). L’imprenditore che entra nello stadio II può: - Invitare i produttori dello stadio I a formulare offerte di fornitura; - Integrare la propria attività “a monte”, producendo in proprio i prodotti dello stadio I. Williamson dimostra che l’integrazione verticale viene preferita ai rapporti contrattuali se la produzione dello stadio I richiede rilevanti investimenti specifici che non possono essere trasferiti ad altro uso o in altra località senza costi rilevanti. Bibliografia di riferimento O.E. Williamson (1970), Corporate Control and Business Behavior, New Jersey, Prentice Hall. O.E. Williamson (1975), Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications. A study in the Economics of Internal Organizations, New York, Free Press. O.E. Williamson (1986), Economic Organization: Firms, Markets, and Policy Control, New York, New York University Press; Id., L'organizzazione economica. Imprese, mercati e controllo politico, Bologna, il Mulino, 1991. O.E. Williamson (1987), Le istituzioni economiche del capitalismo. Imprese, mercati, rapporti contrattuali, Milano, FrancoAngeli. Edith T. Penrose Il mercato non è solo caratterizzato da una notevole capacità di inviare segnali attraverso la struttura dei prezzi, esso è anche in grado di esprimere “incentivi ad alto potenziale”. 26 In un mondo dominato, in questo specifico settore di studi, dagli uomini, emerge il contributo di Edith T. Penrose (1914-1996), economista angloamericana. Il contributo di E.T. Penrose si propone di elaborare una teoria generale dell’espansione delle imprese. Penrose sottolinea la natura dell’impresa come organizzazione amministrativa e come insieme di risorse produttive: la sua funzione principale è quella di utilizzare le risorse produttive per fornire beni e servizi al sistema economico sulla base di piani preparati e attuati nell’ambito dell’impresa. Ogni impresa è unica e ciò che la rende tale è la modalità con cui essa coglie e sviluppa delle potenzialità che derivano dalla sua esperienza, dai suoi programmi e dal suo capitale umano. Ma Penrose è soprattutto nota per aver sviluppato la Teoria delle competenze: «L’impresa è un tutt’uno di risorse umane, materiali e immateriali produttive. Sono le competenze distintive che utilizzando queste risorse procurano all’impresa un vantaggio concorrenziale che determina i suoi risultati». IMPRESA = organizzazione amministrativa + insieme di risorse produttive La teoria sulla crescita dell’impresa può riassumersi in un’indagine dell’evolversi delle opportunità di produzione dell’impresa che svanisce se non si rende conto delle possibilità di espansione o non è in grado di utilizzarla. L’interazione dinamica tra ambiente esterno e risorse interne crea le occasioni per la diversificazione, tuttavia possono anche emergere dei limiti alla crescita dell’impresa. Nella prospettiva di Penrose, quindi, l’impresa appare una realtà dinamica, dotata di spirito imprenditoriale che influisce strategicamente su di esso ma all’interno di un contesto mobile e storicamente contingente. Bibliografia di riferimento E.T. Penrose (1959), The Theory of the Growth of the Firm, Oxford, Basil Blackwell; trad. it. La teoria dell’espansione dell’impresa, Milano, F. Angeli, 1973, capp. 2, 3, 4, 6. E.T. Penrose (1996), The Growth of the Firm and Networking. In International Encyclopaedia of Business and Management, London, Routledge. Modelli con asimmetrie informative Gli studi più recenti (sempre in ambito neoclassico) si sono posti l’obiettivo di studiare il comportamento delle imprese in un contesto di: - Informazione imperfetta, - Asimmetrie informative, - Contratti incompleti. In questi modelli viene superata la finzione della omogeneità degli agenti e si perviene a risultati più “realistici”. L’impresa come team: premessa 27 Il segno distintivo di una società capitalistica è il fatto che le risorse sono possedute e allocate da organizzazioni non politiche, come le aziende, le famiglie e i mercati. I proprietari delle risorse aumentano la produttività tramite la specializzazione cooperativa e questo porta a una domanda di organizzazione economica che renda facile la cooperazione. Due sono i problemi importanti che una teoria dell'organizzazione economica deve affrontare: 1. Spiegare le condizioni che determinano se i guadagni dalla specializzazione e dalla produzione cooperativa possano essere ottenuti meglio con un'organizzazione, come azienda oppure attraverso i mercati, 2. E spiegare la struttura dell'organizzazione. È comune credere che l'impresa sia caratterizzata dal potere di risolvere le questioni per decisione, autorità o per un’azione disciplinare superiore a quelle disponibili nel mercato convenzionale. Questa è un’illusione. L'azienda non possiede tutti i suoi input. Non ha alcun potere di decisione, nessuna autorità, nessuna azione disciplinare in alcun modo diversa dal normale contratto di mercato tra due persone. Posso "punirti" solo impedendoti gli affari futuri. Questo è esattamente tutto ciò che qualsiasi datore di lavoro può fare. Lui può colpirmi e io posso colpire il mio droghiere fermando gli acquisti da lui. Non c'è differenza. Qual è quindi il contenuto del presunto potere di gestire e assegnare ai lavoratori vari compiti? Esattamente come il potere di un piccolo consumatore di gestire e assegnare al suo droghiere vari compiti. Il singolo consumatore può assegnare il compito al suo droghiere di avere qualunque cosa il cliente voglia a un prezzo accettabile per entrambe le parti. Dire a un dipendente di scrivere una mail, anziché archiviare quel documento, è come se dicessi a un droghiere di vendermi questa marca di tonno anziché quella marca di pane. Non ho un contratto per continuare ad acquistare dal droghiere e né il datore di lavoro, né il dipendente sono vincolati da alcun obbligo contrattuale a proseguire il loro rapporto. In che modo il rapporto tra un droghiere e i suoi clienti è diverso da quello tra un droghiere e i suoi dipendenti? Non rientra in alcuna autorità, gestione, durata o forma del rapporto contrattuale. Piuttosto è nell'utilizzo complessivo degli input e nella posizione centralizzata dei contratti di tutti gli input complessivi. È l'agente contrattuale centralizzato, non una direttiva autoritaria superiore o un potere disciplinare. Ma esattamente cosa è un’azienda e perché esiste? 30 Questo effetto si manifesta grazie ad un mix tra il grado di competizione e quello di collaborazione fra PMI. Di fronte allo scenario internazionale l’ipotetico vantaggio competitivo conferisce alle PMI dei distretti maggiori performance in termini di redditività rispetto alle imprese non aggregate. La maggior parte delle PMI che dichiarano di appartenere a un distretto (esse sono il 19%) appartengono all’area nordoccidentale (23%), mentre poche sono quelle del Mezzogiorno (11%). Inoltre, l’appartenere ad un distretto sembra generare ulteriori impulsi a trovare altre forme di aggregazione (gruppi aziendali). Superamento dei vincoli dimensionali e miglioramento delle capacità competitive Le PMI dei distretti sono più propense all’internazionalizzazione, rispetto a quelle non distrettuali: • L’incidenza del fatturato realizzato all’estero (area europea a 27 paesi, più Nord America) sul totale delle vendite è maggiore. • Maggiore la quota delle aziende esportatrici. • Le PMI dei distretti tendono ad essere più grandi per numero di addetti (tra 10 e 49 addetti) Family Business: un modello di capitalismo Qualche dato sulle imprese familiari: Nell’UE esse rappresentano il 75% delle imprese In Italia sono il 95% La maggior parte delle imprese familiari sono piccole e medie, ma non dimentichiamo che 25 delle 100 maggiori imprese in Italia sono guidate da una famiglia. L’Italia ha aziende familiare di medio/grandi dimensioni (Benetton, Luxottica, Ferrero, Natuzzi) fortemente internazionalizzate. Qualche dato sugli studi circa le imprese familiari: fino agli anni Ottanta del Novecento le imprese familiari sono state scarsamente prese in considerazione: infatti, esse venivano considerate – in un’ottica evolutiva e di sviluppo – il primo anello fondante dell’impresa. In cerca di una definizione per quantità e qualità del modello di Family Business Contrariamente alla assai facile definizione di grande impresa, La definizione di impresa di famiglia è molto elusiva. Essa è una forma di organizzazione produttiva la cui nascita è impossibile da posizionare precisamente in un posto e in un tempo. Sappiamo che l’impresa familiare fu la più diffusa forma di impresa nel XV sec., e di quanto fosse diffusa a Londra all’epoca della prima rivoluzione industriale. La rilevanza delle imprese familiari Le imprese familiari rappresentano una forma organizzativa molto diffusa nel panorama economico mondiale. 31 Nello specifico caso italiano le imprese familiari costituiscono un elemento di continuità nel contesto del capitalismo dell’ultimo ventennio. E’ noto che il tessuto imprenditoriale italiano è caratterizzato dalla presenza di piccole e piccolissime aziende. Nel 2012 le imprese con meno di 10 addetti rappresentavano il 95% del totale e il 47% dell’occupazione complessiva. Considerando l’assetto proprietario delle imprese italiane, è possibile affermare che l’83,2% delle imprese con meno di 50 addetti è rappresentato da un controllo assoluto o di tipo familiare. Se prendiamo in considerazione livelli dimensionali medio-grandi delle imprese, il peso di quelle familiari è ancora più grande: esso rappresenta il 92% nelle imprese manifatturiere. Una delle motivazioni per cui questo modello d’impresa capitalistico è così presente nel nostro Paese, risiede nel tipo di economia che caratterizza l’Italia. L’economia italiana è prevalentemente artigiana. E’ una economia focalizzata su piccoli segmenti della filiera produttiva, quella che ha permesso il contenimento delle dimensioni aziendali e, di conseguenza, la diffusione di imprese medio-piccole che sono principalmente a carattere familiare. Definizione di impresa familiare / family business Definizione ‘ampia’ «E’ Family Business quell’impresa che è stata costituita per rimanere nelle mani della famiglia, responsabile della sua gestione strategica». Ciò vuol dire che può bastare - per fare scattare siffatta definizione - anche la presenza di un solo membro della famiglia nel CdA dell’azienda oppure un consistente numero di azioni. Definizione ‘intermedia’ Oltre a quello indicato nella definizione ‘ampia’, per dirsi impresa familiare un’azienda deve avere alla sua guida il fondatore o un suo discendente. Definizione ‘ristretta’ E’ familiare l’impresa nella quale più di una generazione opera al suo interno, e più di un componente ricopre ruoli di responsabilità. Tipologie di imprese familiari 1. Impresa familiare di lavoro I componenti della famiglia, non solo mantengono la proprietà, ma prestano anche la propria opera in azienda (pur assecondando la volontà di alcuni membri di seguire altre strade; non inserendo individui incapaci). 2. Impresa familiare congiunturale La famiglia persegue l’impresa più per motivi ‘storici’ che per motivi economici. Nell’eventualità di sfruttare una congiuntura favorevole, la famiglia venderebbe l’impresa. Dunque non ci sono vincoli fra impresa e famiglia. 3. Impresa familiare di direzione 32 L’ingresso dei membri in azienda è limitato a quelli più capaci, i quali occupano i posti direttivi. 4. Impresa familiare di investimento I membri della famiglia si interessano degli investimenti in attività imprenditoriali (attuazione e controllo) piuttosto che della direzione. L’impresa familiare come intersezione di tre sottosistemi L’impresa familiare è un sistema complesso nell’ambito del quale si intersecano – sovrapponendosi – 3 distinti sottosistemi: 1. La famiglia 2. La proprietà 3. L’impresa Ciascun sottosistema sociale risponde a logiche ed esigenze diverse, rimanendo tuttavia interdipendente dagli altri due. La peculiarità di questa configurazione sta nel fatto che – diversamente da altri modelli – i membri della famiglia proprietaria possono impersonare simultaneamente vari ruoli all’interno della loro azienda. Nello specifico, nell’area in cui i tre sistemi (Proprietà, Famiglia, Impresa) si intersecano, si osserva la situazione in cui il fondatore o l’imprenditore proprietario è membro della famiglia e, al tempo stesso, il principale responsabile di tutte le attività di gestione dell’impresa. Le PMI familiari: i punti di forza del «capitalismo familiare» In sintesi, rispetto a numerosi studi possiamo elencare i suddetti vantaggi: I. Orientamento decisionale rivolto al lungo periodo, per effetto della 1) Capacità di attesa per la remunerazione del capitale; 2) L’intenzione di tramandare un’azienda e competitiva agli eredi; 3) Le conseguenze patrimoniali e reputazionali che deriverebbero da un eventuale dissesto aziendale. II. La maggiore indipendenza e autonomia decisionale: dovuta alla scarsa apertura al capitale di terzi e alla tendenza all’autofinanziamento. III. Il clima aziendale: la forza lavoro ha un elevato senso di appartenenza e lealtà nei confronti dell’imprenditore. IV. L’elevata produttività del lavoro familiare e lo spirito di sacrificio presente in tutti (o quasi) i membri della famiglia. V. La capacità di adattarsi ai cambiamenti (del mercato, della forza lavoro, della tecnologia, degli interventi dello Stato). VI. Una formazione precoce degli eredi che entrano in azienda a ricoprire ruoli importanti già in giovane età, da cui ne consegue maggior facilità di acquisizione di capacità di leadership. Le PMI familiari: punti di debolezza del «capitalismo familistico» L’impresa familiare, quando è letta nelle sue accezioni negative, si trasforma in un «capitalismo familistico». 35 A metà anni Cinquanta, Miroglio comprese che in Italia c’era spazio per la vendita di abiti femminili confezionati. Contribuì dunque alla modernizzazione dei consumi nel comparto dell’abbigliamento. Creò allora Vestebene: confezioni femminili che furono il primo passo per trasformare l’azienda in uno dei principali gruppi industriali del settore negli anni Ottanta del Novecento. La Miroglio costituisce un caso di successo del capitalismo familiare italiano. Accanto al fondatore, lavorarono sin dagli anni Cinquanta: i giovani figli, Francesco e Carlo. In particolare, alla guida di Francesco va attribuita l’espansione dell’azienda fra gli anni ‘70 e ‘80, con il completamento del ciclo produttivo della filiera tessile e l’apertura di nuovi stabilimenti in Italia e all’estero. Nella seconda metà degli anni Ottanta venne avviata la strategia di internazionalizzazione con l’acquisizione di aziende già esistenti sul mercato. Al successo di questo tipo di esperienza imprenditoriale contribuì il mondo delle campagne con la sua abbondante manodopera femminile e di lavoranti a domicilio. LE PMI FAMILIARI STRATEGIA DI CRESCITA AZIENDALE DELLE IMPRESE FAMILIARI (FAMILY BUSINESS= FB) Nelle precedenti slides ci siamo concentrati su diversi punti relativi alle PMI: 1. Definizioni dell’impresa familiare 2. Complessità delle imprese familiari 3. Loro rilevanza e impatto economico 4. Vantaggio competitivo delle imprese familiari Per molto tempo si è data poca importanza alle imprese familiari; considerando che i motori del capitalismo moderno fossero i lavoratori professionisti della conoscenza e non i patriarchi del business e le loro famiglie; infatti Alfred Chandler afferma: «Le aziende familiari sono come reliquie di un’epoca precedente – le aziende pubbliche spingeranno le aziende familiari ai margini dell’economia». L’impresa familiare viene considerata come il primo stadio del ciclo di vita delle imprese, esso si caratterizza sia per la dimensione ridotta che per il lento tasso di crescita, a causa di una strategia di distribuzione dei dividenti, con una preferenza all’autofinanziamento. L’impresa familiare sembra adattarsi meglio a condizioni di elevata incertezza del mercato e scarsa efficacia del sistema normativo, consentendo di ridurre i costi di transazione ed evitare i problemi di asimmetria informativa. Questo tipo di imprese tendono ad affermarsi maggiormente in quei settori che implica ridotte economie di scala e che richiedono il mantenimento di competenze artigianali e forme organizzative semplici. ANNI ’80 del Novecento 36 • Consapevolezza limitata delle imprese familiari, spesso associate a piccole e «semplici» imprese. • Attenzione limitata da parte dei fornitori di servizi. • L’impresa familiare non era una disciplina accademica. • Non veniva offerta nessuna istruzione superiore al riguardo. OGGI • Le imprese familiari sono ampiamente riconosciute. • Nelle principali società di consulenza, esiste un ufficio dedicato alle imprese familiari (pwc, EY, FFI, F.B.N.). • Ricerche sulle imprese familiari compaiono nelle principali riviste scientifiche internazionali (Harvard Business Review, The Economist). • I programmi di family business sono diventati centrali nelle Business School di tutto il mondo (Harvard Business School, Imperial College London, INSEAD, London Business School, Bocconi, Politecnico di Milano). Le FB giocano un ruolo cruciale nelle economie del mondo per forza lavoro. TRADIZIONALE FULCRO DELLA RICERCA SCIENTIFICA • Governo delle imprese familiari • Pianificazione della successione NUOVO FULCRO DELLA RICERCA SCIENTIFICA • Valori delle imprese familiari e creazione di ricchezza socio-emotiva • Innovazione, rinnovamento strategico e imprenditorialità aziendale attraverso le generazioni • Vantaggio competitivo sostenibile e performance a lungo termine 37 IL PATTO DI FAMIGLIA I patti di famiglia sono accordi formali e vincolanti che regolano una famiglia imprenditoriale in relazione a diversi aspetti (successione, conflitti, filosofie e pratiche manageriali, shareholder policy, decision making e potere). Essi prevengono e risolvono problemi nel presente e nel futuro. Essi possono avere focus diversi: • Patrimoniale – policy e regole che riguardano il patrimonio della famiglia imprenditoriale • Gestionale – livello e tipo di professionalizzazione • Futuro – Pianificazione delle successioni Il patto di famiglia è particolarmente appropriato ed efficace per le famiglie imprenditoriali di grandi dimensioni, dove il livello di formalizzazione della governance familiare è alto; esso serve per massimizzare le opportunità e le sinergie tra impresa e famiglia; per minimizzare le minacce e i rischi che la famiglia può creare con i business. Il modello di Chandler Lo storico Alfred D. Chandler Jr. (1918-2007) è il maggior storico della grande impresa americana del XX secolo; egli gli ha dato un vero status accademico e scientifico alla Business History. Nasce con Chandler un filone di studi su uno degli aspetti di maggiore rilevanza nel quadro della teoria dell’impresa: la relazione tra strategia e l’organizational synthesis di una grande impresa. Si laureò alla Harvard Business School, formandosi come storico dell’impresa presso il Research Center in Entrepreneurial History fondato nel 1949 da Arthur Cole e Schumpeter; nel lavoro di Chandler confluiscono elementi presi da Schumpeter e dalla sociologia d’ispirazione weberiana. Chandler insegnò tutta la vita Storia negli Stati Uniti. L’attuale fase della storia d’impresa è definita come “post-chandleriana”. In sintesi, il suo schema concettuale: 1. Centralità della grande impresa industriale quale forma organizzativa trainante dello sviluppo economico. L’impresa è vista come un pool di risorse tecniche e manageriali. Nel quadro chandleriano le imprese si lanciano alla conquista dei mercati esteri, ma solo dopo aver conquistato il mercato 40 Il potere d'acquisto era concentrato quasi esclusivamente nelle mani di un’esigua quota della popolazione totale, cioè coloro che possedevano e controllavano l’attività economica, agricola e industriale. L’assetto economico e politico era fondato sulla diseguaglianza e sulla scarsa mobilità, che condizionavano negativamente l’andamento della domanda aggregata; solamente nei tre secoli che precedono la rivoluzione industriale questo contesto presenta i primi segni di cambiamento: - l'economia diventa progressivamente più dinamica - innovazioni importanti in agricoltura (la cosiddetta “rivoluzione agraria”) - l’espansione della domanda stimola lo sviluppo del commercio - migliorano le tecniche di navigazione e di costruzione delle navi - maggiore efficienza dei mercati finanziari. In uno scenario rurale caratterizzato dalla prevalenza di strutture economiche autarchiche, l’attività manifatturiera assumeva forme organizzative diverse, a seconda: 1. Della localizzazione 2. Del settore 3. Della specializzazione della forza lavoro La prima distinzione rilevante è quella fra le attività svolte nelle campagne e quelle svolte in aree urbane. Le caratteristiche dell’economia rurale, che influenzavano anche la forma e la struttura delle imprese erano: 1. Piccole unità produttive a conduzione familiare 2. Sporadici contatti con l’esterno 3. Sistemi economici chiusi 4. Quasi totale assenza di transazioni di mercato e specializzazione. La presenza di una manodopera poco costosa nelle campagne incoraggiò quindi gli imprenditori a trasferirvi alcune fasi produttive della manifattura, sviluppando il putting-out system, basato su un'architettura organizzativa gerarchica ma flessibile: 1. Al vertice dell'organizzazione era il mercante-imprenditore, proprietario delle materie prime, che coordinava l’attività di una rete di lavoratori a domicilio. 2. II mercante-imprenditore controllava direttamente le fasi di lavorazione ad alta intensità di capitale e quelle che consentivano più elevate economie di scala. 3. Applicato in svariati comparti produttivi, il putting-out system era diffuso soprattutto nelle lavorazioni tessili, dove il processo produttivo poteva essere facilmente segmentato in fasi da svolgere separatamente. L'efficienza del putting-out system derivava da: 1. ampia disponibilità di manodopera rurale a basso costo. 2. elevata flessibilità del sistema, infatti la rete di lavoranti coordinata dal mercante-imprenditore poteva essere velocemente estesa o ridimensionata a 41 seconda delle fluttuazioni della domanda, senza aggravio di costi per lo stesso imprenditore: l’unità produttiva coincideva infatti con la famiglia contadina, proprietaria di un capitale fisso poco costoso e di semplice manutenzione. L'artigianato aveva un ruolo importante e presentava le seguenti caratteristiche: - Maggiore livello di complessità organizzativa - Tecniche sofisticate - Presenza di lavoratori specializzati, come fabbri, ciabattini, armaioli, conciatori - Elevata intensità di capitale - Lavorazioni in cui maggiore era il valore aggiunto del prodotto finale. La localizzazione dell’attività artigianale dipendeva dalla disponibilità di:  Materie prime  Vicinanza alle fonti di energia a basso costo: acqua, vento, legna o carbone. Le lavorazioni a valore aggiunto più elevato tendevano a concentrarsi all’interno delle città e dei villaggi. L'artigianato contribuiva a generare una porzione consistente del reddito e della produzione della società urbana. L'organizzazione interna di un'unità produttiva artigiana era semplice e fondata su una rigida gerarchia: 1. Maestro: proprietario della bottega, del capitale fisso e delle materie prime, gestiva l’intero processo produttivo. Era anche l’unico responsabile della commercializzazione dei prodotti e di tutte le attività collegate. 2. Apprendisti: questi erano retribuiti a cottimo e imparavano i segreti della professione. Dopo un lungo apprendistato, erano pronti a diventare maestri a loro volta. Il sistema artigianale urbano era limitato alla produzione di articoli ad alto valore aggiunto: oggetti d’oro, gioielli, cappelli, pellami, calzature e altri beni durevoli destinati al mercato cittadino o fabbricati su commessa per clienti prestigiosi come i sovrani, i governi, gli aristocratici o l’esercito. Nelle aree urbane maggiori, quelle che esprimevano una domanda cospicua, alcune botteghe artigiane arrivavano a impiegare numerosi lavoratori e adottare strutture organizzative complesse. Il maestro e la sua bottega erano parte integrante di un sistema organizzato più ampio: la corporazione. La struttura corporativa era rigida e riguardava: - La regolazione scritta relativa alla quantità, alla qualità e al prezzo delle merci. - La composizione dei conflitti fra i membri. - Il controllo dell’osservanza degli standard qualitativi. - La formazione e promozione degli apprendisti. - Il monitoraggio dei costi di produzione. 42 I vantaggi della regolazione dell'attività artigianale erano: - L’organizzazione degli input produttivi - La gestione della formazione del capitale umano - Il severo controllo degli standard qualitativi del settore. Un lungo dibattito storiografico ha evidenziato i seguenti svantaggi del sistema corporativo: - La posizione di monopolio di cui godeva, che consentiva di mantenere prezzi relativamente alti restringendo la produzione e limitando la domanda. - Si trattava di un sistema conservatore, pertanto veniva scoraggiata l’introduzione e la diffusione dell'innovazione tecnologica. Le corporazioni urbane raggiungevano talvolta un numero ragguardevole di membri - centinaia e addirittura migliaia, ma, nonostante ciò, le singole unità produttive erano destinate a rimanere piccole. Rispetto al putting-out system, le corporazioni mostravano una maggiore rigidità dal lato dell'offerta. Teoricamente, volumi di produzione più consistenti potevano essere raggiunti nelle singole botteghe semplicemente aumentando il numero dei lavoranti. In pratica, tuttavia, questo obiettivo si dimostrava irrealizzabile proprio a causa delle regole costitutive delle corporazioni, che imponevano a un singolo maestro di occuparsi dell'addestramento di un numero limitato di apprendisti. A livello aggregato un incremento produttivo era possibile ammettendo nuovi membri nella corporazione, ma questa pratica era avversata perché potenzialmente portatrice di competizione fra i membri. Il sistema corporativo è quindi sopravvissuto in una sorta di isolamento, al riparo dalle fluttuazioni della domanda che hanno segnato l’evoluzione generale della società europea. Imprese di grandi dimensioni, con un elevato numero di lavoratori e un'alta intensità di capitale erano presenti anche prima della rivoluzione industriale. La concentrazione di lavoratori attivi nello stesso luogo era definita “manifattura”. Alcuni studiosi si sono domandati se fosse corretto comparare la “manifattura” con la grande impresa che si sarebbe affermata secoli dopo: - Sono concordi sul fatto che molti grandi impianti preindustriali (“manifatture”) erano in grado di sviluppare metodi sofisticati di amministrazione e contabilità per gestire i processi produttivi complessi. - Risulta invece molto discussa l’idea secondo la quale si possa far derivare il sistema di fabbrica dai grandi impianti preindustriali; per il sistema di fabbrica infatti sarebbero state necessarie le trasformazioni tecnologiche della prima rivoluzione industriale. Infatti, i grandi opifici preindustriali, spesso protetti da patenti regie e operanti in regime di monopolio, costituivano l’eccezione e non la regola; inoltre, in molti di essi, solo una piccola porzione dei dipendenti lavorava esclusivamente "dentro” 45 • Si assistette alla netta separazione tra la unità di produzione e di consumo • Sì specializzava quel lavoro che definiva l’attività delle unità produttive su singole fasi • Sì meccanizzavano alcune fasi del processo di produzione. I risultati a livello macroeconomico prodotti da tali cambiamenti furono: • Il ritmo di crescita (sia negli indici aggregati, sia per i singoli Paesi). • La quantità e la qualità dei flussi di commercio internazionale. • Il contributo dell'agricoltura e dell'industria alla formazione della ricchezza nazionale (PIL) e all'occupazione. Le trasformazioni a livello “micro” furono un grande impatto a livello sociale (inserimento dei lavoratori nel processo continuo dei turni diurni e notturni scanditi da orari fissi e dal ritmo delle macchine) e l’introduzione progressiva di gerarchie e ruoli definiti. Esperienze di paternalismo Lo sgretolamento delle strutture sociali tradizionali indusse gli imprenditori a gestire il cambiamento, sperimentando delle soluzioni per controllare il cambiamento (alloggi e dormitori, scuole, spacci per l’acquisto di generi alimentari, villaggi operai). Si veda – ad esempio - il villaggio operaio edificato in Lombardia a Crespi d'Adda intorno al cotonificio (fine 1870), che prese il nome dalla famiglia Crespi, proprietaria del cotonificio (esso includeva le case degli operai, le ville dei dirigenti, la chiesa, il cimitero, lo spaccio, l’ospedale, i bagni pubblici). Tali relazioni paternalistiche apparvero con maggior forza in quei luoghi dove le istituzioni locali si mostravano più deboli a governare il cambiamento in atto, ma nemmeno gli imprenditori più attenti ai risvolti sociali del sistema di fabbrica seppero prevenire o sanare tutti i problemi sorti con l’industrializzazione. La determinazione di gruppi di operai nel combattere l’alto livello di controllo introdotto dal nuovo sistema mise in moto lotte sindacali e movimenti politici. Colui che studiò questi conflitti fu J.A. Schumpeter, secondo il quale - sebbene gli imprenditori innovatori fossero coloro che avevano tratto immediato vantaggio dalle nuove forme organizzative – in definitiva la maggior efficienza del sistema economico aveva portato grandi benefici a tutta la società. Secondo Schumpeter il sistema di fabbrica costituiva una innovazione positiva che generava profitto imprenditoriale e incoraggiava l’imitazione. LA CRESCITA ECONOMICA L'Europa continentale seguì l’esempio britannico, ma con ritmi di crescita diversi da Paese a Paese. Alla fine dell’800 la quota di occupati nel settore primario era scesa sotto il 50% in Belgio, Germania, Danimarca, Paesi Bassi, 46 Svizzera e Francia, mentre nei Paesi periferici - quelli dell'area mediterranea e scandinava - l'agricoltura restava ancora la fonte primaria di impiego della forza lavoro disponibile. Consideriamo – pertanto – gli effetti della Prima rivoluzione industriali in quanto, come sostenne sempre Schumpeter (1934), fu proprio il cambiamento tecnologico a determinare i processi di crescita economica. La transizione dalla produzione artigianale - lavoratori specializzati e generici in ambiente domestico - alla fabbrica comportò una radicale trasformazione dello status giuridico dell’unità produttiva. Di conseguenza, company o corporation divennero termini associati a nuove strutture organizzative portatrici di un proprio status legale indipendente da quello dei singoli individui coinvolti nel processo produttivo. Fra l’800 e il ‘900 la crescita delle imprese si accompagnò ad una loro trasformazione e all’affermarsi di nuove forme giuridiche e organizzative che dovevano sostenere la nuova complessità delle attività aziendali. Gli individui e i gruppi all’interno di queste “realtà” complesse sia cooperavano strategicamente sia erano in competizione per - l'allocazione delle risorse - la distribuzione dei profitti LA PROSPETTIVA NEOCLASSICA INTERPRETATIVA DEL FENOMENO DELLA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE La prospettiva neoclassica ha una particolare rilevanza per interpretare la storia dell’impresa della Prima rivoluzione industriale, quando non era presente la grande impresa integrata ad alta intensità di capitale. Le tecnologie erano allora a vasto raggio di applicazione, poco costose e di facile appropriabilità. Alcune si diffusero velocemente attraverso un processo che è stato definito di “invenzione collettiva” (simile all’odierno sistema open source). Secondo la prospettiva neoclassica della teoria dell’impresa l’unità produttiva (= fabbrica/impresa) era analizzata in un segmento temporale definito, per questo definiamo tale teoria “statica”. Secondo la teoria neoclassica: - la tecnologia è esogena (nota 1) - il contributo degli attori economici che agiscono all’interno dell’impresa è irrilevante. - l’impresa rappresentativa è di dimensioni medio-piccole, e svolge un numero limitato di funzioni. - l’impresa, nella descrizione neoclassica: 1) opera all’interno di un sistema price-oriented, altamente competitivo, caratterizzato dalla presenza di numerose produttive nello stesso settore 2) il sistema è caratterizzato da una minima integrazione funzionale 47 3) il sistema è caratterizzato dall’assenza di tecnologie esclusive L’oggetto della teoria neoclassica fu la concorrenza perfetta e il monopolio, mentre la struttura interna dell’impresa fu estranea all’analisi. Nota 1: La teoria neoclassica di crescita economica (introdotto da R.M. Solow nel 1956) considerava la tecnologia come un fattore esogeno della crescita: tale modello relegava la tecnologia all’interno della quota residuale dei fattori tradizionalmente attribuibili all’incremento della crescita, ossia capitale e lavoro. L’eccezione britannica A rendere eccezionale il risultato economico della Gran Bretagna non fu solo il tasso di crescita, ma soprattutto il modo in cui esso si andò realizzando, seguendo un percorso differente rispetto ai paesi europei. Per la prima volta nella storia, la “ricchezza della nazione” (intesa come formazione del prodotto nazionale lordo, del valore aggiunto e come redistribuzione della forza lavoro) non era più soltanto riconducibile al settore primario e al commercio dei prodotti agricoli: il cuore dell’economia era diventata l’industria. L’Europa continentale seguì l’esempio britannico con ritmi di crescita diversi da paese a paese, e talvolta con notevole ritardo. Proprietà, controllo e gestione dell’impresa durante la Prima rivoluzione industriale Le iniziali dimensioni ridotte o medie della fabbrica comportarono agli inizi delle necessità finanziarie contenute: la modalità di reperimento dei capitali riguardava investitori di modeste ricchezze, spesso erano nella cerchia dei familiari; in tal modo la proprietà e il controllo delle aziende restavano nelle mani del fondatore e della sua famiglia. Lo strumento legale dell’epoca era quello della partnership che permetteva di associare al proprietario/fondatore dell’impresa dei soci che portavano capitali aggiuntivi. G.B. – U.S.A.: Rivoluzione L’eccezione britannica A rendere eccezionale il risultato economico della Gran Bretagna non fu solo il tasso di crescita, ma soprattutto il modo in cui esso si andò realizzando, seguendo un percorso differente rispetto ai paesi europei. Per la prima volta nella storia, la “ricchezza della nazione” (intesa come formazione del prodotto nazionale lordo, del valore aggiunto e come redistribuzione della forza lavoro) non era più soltanto riconducibile al settore primario e al commercio dei prodotti agricoli: il cuore dell’economia era diventata l’industria. L’Europa continentale seguì l’esempio britannico con ritmi di crescita diversi da paese a paese, e talvolta con notevole ritardo. Proprietà, controllo e gestione dell’impresa durante la rivoluzione industriale Le iniziali dimensioni ridotte o medie della fabbrica comportarono agli inizi delle necessità finanziarie contenute: la modalità di reperimento dei capitali riguardava 50 • La finanza americana elaborò così dopo il 1850 i moderni metodi compravendita dei titoli e le tecniche della speculazione di Borsa (opzione doppia, vendita allo scoperto, e acquisto al margine). L’efficiente «modello americano» delle ferrovie per la moderna organizzazione dell’impresa Si deve all’esperienza accumulata dalle società ferrovie la comparsa di nuove strutture di governo aziendale. La caratteristica delle società ferroviarie era, infatti, quella di dover gestire enormi investimenti e coordinare numerosi dipendenti. La diversità e la mole dei compiti aveva dato vita a un sistema così strutturato: • Frammentazione della proprietà aziendale • Azionisti • Sistematica divisione dei ruoli dirigenziali • Manager salariati a tempo pineo per coordinare, controllare, valutare le diverse unità operative delle compagnie. Gli Stati Uniti fecero da apripista a un nuovo modello di gestione della forza lavoro e della finanza aziendale, inaugurando l’organizzazione manageriale della grande impresa. Si ipotizza che il sistema organizzativo distinto fra line and staff – utile per rendere efficienti le complesse organizzazioni delle compagnie ferroviarie – sia stato probabilmente mutuato dall’organizzazione militare. IMPRESA e ISTITUZIONI Il mercato e l’impresa non sono le uniche organizzazioni che regolano lo scambio, ma ad esempio anche le politiche o gli scambi tra i privati hanno influenza (e necessario indagare il contesto storico, ovvero il path dependence, in cui si trova l’impresa per arrivare a conclusioni più realistiche). Le “istituzioni” sono contenitori di modelli di comportamento presenti in una determinata società e dettano quindi le regole per chi ne fa parte. Esse possono formarsi e modificarsi o venire meno, oppure possono essere rese più forti dalle leggi e dalle relative sanzioni. Le istituzioni possono essere benigne (implicano cooperazione tra i membri) o perverse (creano eccessiva competizione). Il ruolo del potere pubblico è vitale per la creazione di un’efficienza di mercato e nello svecchiamento delle istituzioni. Il potere pubblico ha una gran parte nel discorso pratico della storia d’impresa. Con la definizione di “potere pubblico” dobbiamo intendere quelle che sono le attività dello Stato (un’autorità superiore). Qui non stiamo trattando di un intervento del governo come la Politica economica, ma di un intervento di politica legislativa e istituzionale ben più duraturo. Lo Stato produce infatti un insieme di azioni che formano un efficiente mercato dei fattori della produzione, dei beni e servizi. Le azioni dello Stato possono ripartirsi in due grandi tipologie: 51 • la riduzione dei costi di transazione per il funzionamento del mercato; • la creazione di istituzioni che garantiscono i diritti di proprietà (ad esempio, si vedano, in età moderna, gli atti vòlti a tutelare la sicurezza di navigazione dagli atti di pirateria). Qualora lo Stato non presupponga i fondamentali diritti di proprietà nei confronti dell’impresa capitalistica, significa che ha assunto la forma: - Dirigistica: imponendosi sulla impresa privata - Collettivistica: sostituendosi del tutto alla impresa privata L’attività istituzionale dello Stato dipende dalle sue tradizioni normative. Alcuni paesi, in prevalenza gli anglosassoni, si rifanno alla tradizione della common law che è più favorevole all’impresa rispetto alla civil law, derivante dal Diritto romano e diffusa da Napoleone nel continente europeo (tra la fine del ‘700 e l’inizio ‘800), gravata da un eccessivo formalismo giuridico e da una eccessiva ingerenza dello Stato. Il presente tema di “contesto” istituzionale ci aiuta a comprendere sia la crescita che le varietà di capitalismo nei diversi paesi. L’economista Joel Mokyr (Entrepreneurship and the industrial Revolution in Great Britain, 2010) ci aiuta a comprendere perché alcuni paesi hanno delle istituzioni che stimolano il processo di crescita e altre no. Osserviamo quali siano le questioni da prendere in considerazione per analizzare l’influenza delle istituzioni sullo sviluppo industriale di un paese: A) Le istituzioni sono poco sensibili ad adattarsi al cambiamento della società (inerzia storica); B) Nel caso di interrelazione con la visione ideologica, le istituzioni diventano più suscettibili al cambiamento; C) Oltre alle istituzioni dello Stato, è necessario prendere in considerazione anche le istituzioni informali (mediatrici tra i comportamenti individuali e le istituzioni) come i distretti industriali. Seguendo queste riflessioni, torniamo sul perché del precoce sviluppo industriale della Gran Bretagna. 1. Il paese poté godere con anticipo rispetto al resto d’Europa di un sistema fiscale, commerciale e monetario unificato. 2. Grande peso vi ebbe la common law, cui anche il monarca doveva sottostare. 3. La pratica delle enclosures (recinzioni di terreni comuni non coltivati) da parte dei grandi proprietari per applicarvi le innovazioni tecnologiche. Il contesto in cui operano le aziende è il risultato di un processo di elaborazioni culturali. L’approccio americano è analitico e incentrato sull’impresa e vige un principio di anonimato. L’impresa europea, invece, nasce come familiare e la gestione del personale è più paternalistica. In Giappone è più incentrato sul senso del dover e di obblighi collettivi. Aspetti etico-religiosi e sistemi di famiglia hanno 52 avuto un impatto culturale importante sulla spiegazione delle differenze dei sistemi di imprese nei contesti nazionali del mondo occidentale. L’Europa continentale dovette invece attendere molto (la fine del ‘700) per arrivare a smantellare le strutture feudali, le corporazioni ed emancipare i contadini. I cambiamenti introdotti dalla Rivoluzione francese rimossero gli ostacoli che impedivano lo sviluppo industriale e contribuirono alla creazione di una classe borghese. Le riforme prodotte dalla Rivoluzione francese si sommarono a quelle imposte ai paesi conquistati dal regime napoleonico (Belgio, Italia, Svizzera, Germania e Paesi Bassi). Un impatto positivo per l’attività imprenditoriale fu soprattutto creato dalla legislazione napoleonica, tramite la protezione dei diritti di proprietà e dall’emanazione del Codice di commercio (1807) che introdusse la distinzione tra le 3 principali forme di società: società semplice, in accomandita e la società anonima. Stati Uniti Gli Stati Uniti svilupparono una legislazione in materia d’impresa molto precoce rispetto ai paesi europei; il diritto d’impresa ebbe il merito di favorire un ambiente istituzionale consono allo sviluppo economico del paese. Il ruolo del potere pubblico, federale e statale, ebbe però un forte impatto anche negli Stati Uniti che nell’Ottocento era fra i paesi last comers in rincorsa per eguagliare i paesi più industrializzati. Negli Stati federali le principali azioni istituzionali riguardarono: i provvedimenti di assegnazione delle terre, le azioni di colonizzazione e quelle di difesa militare dei coloni. Soprattutto il potere pubblico agevolò la raccolta di capitali e la formazione di società anonime. In un primo momento, gli Stati dell’Unione parteciparono a società e compagnie privilegiate che agivano a livello monopolistico nel settore del credito, delle ferrovie e delle assicurazioni comprando le loro quote azionarie. Queste tipologie di società, risalenti all’epoca coloniale, erano chiamate chartered corporations, mentre le incorporations (inc.) divennero il sistema più comune per riconoscere legalmente le associazioni pubbliche o semipubbliche. Il fenomeno di mischiare il pubblico con il privato diminuì però già alla metà dell’Ottocento. Le Società per azioni I paesi europei furono in ritardo, rispetto agli Stati Uniti, nell’atto di liberalizzare le procedure di costituzione delle società per azioni (si veda il raggiungimento di questa conquista in Inghilterra nel 1856, in Francia nel 1863, in Prussia nel 1870, e in Italia nel 1882). Nel corso del ‘700, infatti, erano entrate in vigore delle severe limitazioni (specifiche autorizzazioni parlamentari) alle iniziative di associazione del capitale. 55 I settori in maggior fermento furono il petrolio, la gomma, l’automobilistico, l’elettrico e la produzione di alluminio che la resero vicina ai paesi first mover, favorendo la grande impresa e il capitalismo manageriale. Ma fino allora le caratteristiche del paese erano state le seguenti: 1. Concentrazione delle società in settori non manifatturieri (minerario, elettrico, trasporti e banche) 2. Controllo delle maggiori società da parte delle famiglie (direzione familiare) 3. Dimensione media delle imprese inferiore agli USA e alla Germania 4. Problemi di finanziamento all’industria. RUSSIA Si tratta di un paese latecomer (paese industriale ritardatario), così come la Francia e l’Italia, ma con caratteristiche peculiari. L’avvio della sua industrializzazione, precedendo la Rivoluzione dell’ottobre 1917, si colloca nel periodo dell’Impero zarista. Protagonista fu lo Stato che, in assenza di capitali utili per lo sviluppo del paese, 1. praticò il protezionismo in difesa del mercato nazionale 2. attrasse investimenti esteri 3. provvide – tra 1892 e 1903 - alla costruzione di quelle infrastrutture (ferrovie) così tanto necessarie per l’industrializzazione di un paese vasto. Il ramo d’industria più sviluppato all’inizio del Novecento divenne la produzione di acciaio nell’area attorno al fiume Don. La tendenza ad un mercato oligopolistico non venne ostacolata dal governo, così come non fu ostacolata in Germania e in Gran Bretagna; il governo russo avallò la formazione di cartelli fra produttori di petrolio e imprese per la raffinazione dello zucchero. GIAPPONE È stato il primo paese non occidentale a raggiungere un grado primario di industrializzazione nel panorama internazionale. La sua industrializzazione fu promossa attivamente dal governo fin dal 1868. Il ruolo del governo fu quello di promuovere e di gestire imprese in diversi settori (minerario, cotoniero, cemento, vetro, cantieristica), impiegando anche molti tecnici stranieri nella funzione di consulenti delle aziende. Al tempo stesso, il gruppo industriale privato (zaibatsu), costituito e controllato da ricche famiglie giapponesi (come i Mitsubishi), tendeva a sostituirsi al governo quando le imprese cominciavano ad assumere grandi dimensioni. Lo zaibatsu era caratterizzato dal controllo di imprese in diversi settori industriali, correlati fra loro, e particolarmente concentrati nella finanza, nella navigazione e nel commercio con l’estero. Il Giappone era comunque penalizzato da: 1. Un mercato nazionale ristretto 2. Dall’incapacità di stare al passo con le nazioni tecnologicamente più avanzate. 56 ITALIA La fine dell’Ottocento vide l’avvio per l’Italia di un vigoroso processo di industrializzazione. In questo periodo assistiamo alla combinazione di Prima e Seconda rivoluzione industriale. Infatti, coesistettero e furono molto diffuse le piccole imprese dedite a settori tradizionali insieme a strutture oligopolistiche (industria siderurgica, meccanica ed elettrica). Caratteristiche economiche del paese: 1. Scarse risorse naturali 2. Difficoltà di stare al passo con i paesi tecnologicamente più avanzati, ciò produsse un intreccio tra la grande impresa e lo Stato. L’intervento pubblicò si estrinsecò quindi attraverso il 1. Protezionismo 2. Commesse 3. Favori e sussidi 4. Salvataggi industriali reiterati. La grande impresa privata italiana - Fiat, Pirelli (gomma), Falck (siderurgia) – sebbene non potesse misurarsi con le large corporation dei paesi più avanzati – presentava però il grado di industrializzazione più sviluppato nell’Europa meridionale.
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