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Storia economica del mondo -- Dalla preistoria a oggi, Sintesi del corso di Storia

Economia mondialeStoria delle finanzeStoria Economica ModernaIndustrializzazione

Riassunti completi e ben fatti del libro "Storia economica del mondo -- Dalla preistoria a oggi" di Larry Neal e Rondo Cameron dal capitolo 7 al capitolo 16 per poter sostenere l'esame di Storia dello Sviluppo presso l'Università di Siena.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 29/12/2020

lucrezia.soccio
lucrezia.soccio 🇮🇹

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Scarica Storia economica del mondo -- Dalla preistoria a oggi e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! STORIA ECONOMICA DEL MONDO Dalla preistoria a oggi Cap.7: L’alba dell’industria moderna All’inizio del Settecento diverse regioni europee avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale, in gran parte nel settore tessile. All’inizio degli anni settanta del secolo scorso è stato coniato un nuovo termine, “protoindustrializzazione”. Il primo esempio che autorizzi a parlare di “protoindustrializzazione” fu l’industria del lino nelle Fiandre. Si trattava di un’attività rurale che si svolgeva nelle case di campagna, organizzata da imprenditori di Gand e di altri centri commerciali che ne esportavano i prodotti verso mercati lontani. La forza lavoro era costituita da unità familiari composte da marito, moglie e figli. Lo stesso termine è stato successivamente ridefinito ed esteso sia geograficamente sia cronologicamente fino a comprendere altre industrie dalle caratteristiche analoghe. In alcuni casi esso è stato visto come preludio a un vero e proprio sistema di fabbrica. Le caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispersa, solitamente rurale, organizzata da imprenditori urbani che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. I lavoratori devono acquistare almeno una parte dei loro mezzi di sussistenza. La protoindustrializzazione e i termini a essa correlati fanno riferimento in primo luogo alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Ben prima dell’avvento del sistema di fabbrica nell’industria cotoniera, esistevano altre industrie di grandi dimensioni e ad alta concentrazione di capitale. Le manufactures royales francesi erano situate generalmente in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore. Analoghe “protofabbriche” furono organizzate da nobili proprietari terrieri. Grandi proprietari terrieri avevano assunto un ruolo imprenditoriale anche nell’industria del carbone, estraendo il minerale localizzato nei propri terreni. Le ferriere, situate solitamente in aree rurali ricche di legname e di materiali ferrosi, impiegavano stavolta centinaia, persino migliaia di operai. Anche le fabbriche di piombo, rame e vetro erano spesso organizzate su grande scala e lo stesso valeva per i cantieri navali. l’Arsenale di Venezia, fondato nel Medioevo, fu una delle più antiche imprese industriali di grosse dimensioni della storia. Per tutte queste realizzazioni furono eclissate nel XVIII secolo dalla nascita di nuove forme di attività industriale. 1. CARATTERISTICHE DELL’INDUSTRIA MODERNA Una delle differenze più ovvie tra la società preindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura. Nel periodo della vera e propria industrializzazione, che va grosso modo dall’inizio del XVIII secolo alla prima metà del XX secolo, la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario, riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata sia dei livelli di produzione. La trasformazione fu rilevata per la prima volta in Inghilterra, poi in Scozia, e la Gran Bretagna è stata giustamente definita “la prima nazione industriale”. Un’espressione più pittoresca ma meno utile, quella di “rivoluzione industriale”, è stata usata per indicare gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento; tale espressione è nello stesso tempo imprecisa e fuorviante. Il suo uso distoglie l’attenzione delle evoluzioni contemporanee ma differenti dei paesi dell’Europa continentale. Nel corso di questa trasformazione, chiamata più esattamente “nascita dell’industria moderna”, emersero gradualmente alcune caratteristiche che distinguono in modo netto l’industria “moderna” da quella “premoderna”. Esse sono: A) l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica; B) l’introduzione di nuove fonti di energia inanimata, in particolare i combustibili fossili; C) l’impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura. 1 I miglioramenti più significativi dal punto di vista tecnologico furono quelli che videro l’utilizzazione di macchine e dell’energia meccanica per l’esecuzione di compiti svolti in precedenza molto più lentamente e laboriosamente dal lavoro umano e degli animali, o che non erano stati svolti affatto. Nel XVIII secolo si verificò un notevole aumento dell’uso dell’energia idraulica in industrie quali quella della macinatura del grano, tessile e metallurgica; e in seguito abbiamo assistito alla proliferazione di una grande varietà di motori primi, dai piccoli motori azionati dall’energia elettrica domestica ai colossali reattori nucleari. Ma gli sviluppi più importanti nell’applicazione dell’energia nelle prime fasi dell’industrializzazione consistettero nella sostituzione della legna e del carbone di legna con il carbon fossile come combustibile e nell’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei trasporti. L’uso del carbone e del coke nei processi di fusione ridusse considerevolmente il costo dei metalli e ne moltiplicò gli usi, mentre l’applicazione della chimica creò una serie innumerevole di nuovi materiali “artificiali” o sintetici. 2. “RIVOLUZIONE INDUSTRIALE”: UN’ESPRESSIONE EQUIVOCA Nessuna espressione del lessico dello storico dell’economia ha riscosso maggior successo di quella di “rivoluzione industriale”. L’espressione non ha di per sé alcun valore scientifico, e trasmette un’idea grossolanamente fuorviante della natura del mutamento economico. Proprio questa espressione è stata usata per oltre un secolo a indicare quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione della macchina a vapore di James Watt e il “trionfo” del sistema di fabbrica nel processo di produzione. l’espressione è stata applicata altresì agli esordi dell’industrializzazione in altri paesi. Poiché la crescita economica moderna esordì solitamente negli altri paesi con l’industrializzazione, l’espressione “rivoluzione industriale” è conveniente per indicare il periodo in cui essa ebbe inizio. Secondo Thomas S. Ashton, il più famoso storico dell’economia britannica del XVIII secolo, “i cambiamenti non furono soltanto “industriali”, ma anche sociali e intellettuali. La parola “rivoluzione” implica una subitaneità di cambiamento che non è tipica dei processi economici”. 3. REQUISITI E FATTORI CONCOMITANTI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE I cambiamenti furono anche commerciali, agricoli e persino politici. Già nel Medioevo, singoli individui avevano cominciato a considerare la possibilità pratica di imbrigliare le forze della natura. Le scoperte scientifiche realizzate in seguito da Copernico, Galileo, Cartesio e Newton, rafforzarono queste idee. In Inghilterra l’influenza di Francesco Bacone, uno dei cui aforismi era “la scienza è potenza”, condusse alla fondazione nel 1660 della Royal Society “per l’approfondimento della conoscenza della natura”. Alcuni studiosi considerano l’applicazione della scienza all’industria il carattere distintivo dell’industria moderna. Per quanto affascinante, quest’idea ha i suoi punti deboli. All’alba dell’industria moderna, nel XVIII secolo, il corpus della conoscenza scientifica era troppo esile e gracile per poter essere direttamente applicato ai processi industriali, quali che fossero le intenzioni dei suoi sostenitori. Non fu che nella seconda metà del XIX secolo, con l’affermazione delle scienze della chimica e dell’elettricità, che le teorie scientifiche divennero il fondamento dei nuovi procedimenti e delle nuove industrie. Non si può tuttavia negare che già nel Seicento i metodi della scienza venissero applicati a scopi utilitaristici. Uno degli aspetti più notevoli del progresso tecnico del XVIII secolo e dell’inizio del XIX fu anzi la grande percentuale di grandi innovazioni realizzate da artigiani ingegnosi, meccanici e ingegneri autodidatti. In molti casi l’espressione “metodo sperimentale” può risultare troppo formale e specifica per definire tale processo; una più appropriata è “per tentativi”. Tuttavia una propensione a sperimentare e innovare si diffuse in tutti gli strati della società, compresa la popolazione agricola, tradizionalmente la più conservatrice e diffidente nei confronti dell’innovazione. L’Inghilterra fu una delle prime ad accrescere la propria produttività agricola. Alla fine del Seicento, l’Inghilterra era già avanti a gran parte dell’Europa continentale in quanto a produttività dell’agricoltura, con solo il 60% circa della forza lavoro impegnata nella produzione alimentare. Il 2 parrocchiali e di migliorare l’accesso ai mercati. Gli anni cinquanta e sessanta del XVIII secolo videro il culmine della loro costruzione. 4. TECNOLOGIA INDUSTRIALE E INNOVAZIONE Gli storici impressionati dalla natura rivoluzionaria del mutamento industriale sottolineano la rapida meccanizzazione e la crescita dell’industria cotoniera negli ultimi due decenni del XVIII secolo. Quasi un secolo prima, erano state realizzate altre due innovazioni che ebbero probabilmente un impatto anche più fondamentale sull’industrializzazione. Si tratta del procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke, che liberò l’industria siderurgica dalla dipendenza esclusiva dal carbone di legna, e l’invenzione della macchina a vapore atmosferica. Nel 1709, Abraham Darby, proprietario di una ferriera a Coalbrookdale nello Shropshire, sottopose il carbone a un processo molto simile a quello mediante il quale gli altri proprietari di ferriere ricavavano il carbone di legna dal legname: riscaldò il carbone in un contenitore chiuso per eliminarne le impurità in forma di gas, e dal processo ottenne come residuo il coke, una forma quasi pura di carbonio, che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per produrre ghisa grezza. Nonostante la grande scoperta tecnologica fatta da Darby, l’innovazione si diffuse lentamente. I proprietari delle ferriere ottennero delle economie di scala concentrando tutte queste operazioni in un unico luogo, di solito in corrispondenza o nelle vicinanze di giacimenti di carbon fossile, e sia la produzione totale di ferro sia la percentuale di esso ottenuta con l’impiego di combustibile fossile crebbero in maniera spettacolare. Alla fine del secolo, la produzione di ferro aveva superato le 200.000 tonnellate, quasi tutte ottenute per fusione con il coke, e la Gran Bretagna era divenuta un esportatore netto di ferro e di prodotti ferrosi. Il vapore fu utilizzato per la prima volta nell’industria mineraria. Nel 1698, l’ingegnere Thomas Savery ottenne il brevetto per una pompa a vapore, che chiamò appropriatamente “l’amico del minatore”. Alcune pompe di Savery furono installate nel decennio seguente, soprattutto nelle miniere di stagno della Cornovaglia, ma l’apparecchio aveva diversi difetti pratici, tra i quali una tendenza a esplodere. Thomas Newcomen decise di porre rimedio a questi difetti e nel 1712 riuscì a costruire la sua prima pompa a vapore atmosferica in una miniera di carbone nello Staffordshire. La macchina di Newcomen spingeva il vapore proveniente da una caldaia in un cilindro contenente uno stantuffo collegato a una pompa per mezzo di una trave a T oscillante. Dopo che il vapore aveva spinto lo stantuffo alla sommità del cilindro, un getto d’acqua fredda al suo interno faceva condensare il vapore creando un vuoto che permetteva al peso dell’aria di spingere in basso lo stantuffo e di azionare così la pompa. La macchina di Newcomen era molto grande, ingombrante e costosa; era però efficace. Alla fine del secolo ne erano state costruite a centinaia in Gran Bretagna. Erano impiegate per lo più nelle miniere di carbone, dove il combustibile era a buon mercato, ma anche in altre industrie estrattive. Erano usate inoltre per azionare ruote idrauliche là dove la caduta dell’acqua era insufficiente, e per l’approvvigionamento idrico pubblico. Il maggior difetto della macchina di Newcomen era il suo elevato consumo di combustibile in rapporto al lavoro prodotto. Negli anni sessanta a James Watt venne chiesto di riparare un piccolo modello funzionante della macchina di Newcomen. Incuriosito, Watt cominciò a fare esperimenti con l’apparecchio; nel 1769 brevettò un condensatore separato, che eliminava la necessità di ricorrere al riscaldamento e raffreddamento alternato del cilindro. Nel frattempo, Watt formò una società con Matthew Boulton, prospero fabbricante di articoli di ferramenta dei dintorni di Birmingham, che concesse a Watt tempo e mezzi per ulteriori esperimenti. Nel 1774, John Wilkinson, padrone di una vicina ferriera, brevettò una nuova macchina fresatrice per la fabbricazione di affusti di cannone, adatta però anche alla fabbricazione dei cilindri della macchina di Watt. L’anno seguente questi ottenne il prolungamento di 25 anni del suo brevetto, e la ditta di Boulton e Watt cominciò la produzione commerciale di macchine a vapore. Uno dei loro 5 primi clienti fu John Wilkinson, che impiegava queste macchine per azionare i mantici del suo altoforno. La maggior parte delle prime macchine realizzate da Boulton e Watt venne impiegata per pompare via l’acqua dalle miniere. Watt realizzò però parecchi altri miglioramenti, quali un regolatore della velocità del motore e uno strumento che trasformava il movimento alternativo del pistone in moto rotatorio. La prima filanda a essere azionata direttamente da una macchina a vapore cominciò la produzione nel 1785, accelerando in modo spettacolare un processo di cambiamento già in atto. Le industrie tessili erano già giunte alla ribalta nell’era “preindustriale” britannica con il sistema della produzione a domicilio. La manifattura di articoli di lana, e di lana pettinata, era di gran lunga il settore più importante, sebbene in Scozia e in Irlanda il lino avesse un ruolo maggiore che non in Inghilterra e nel Galles. L’industria della seta vantava fabbriche e macchine mosse dall’energia idraulica a imitazione di quelle italiane. La manifattura dei tessuti di cotone, come quella della seta, era per la Gran Bretagna un’industria relativamente nuova. Già negli anni trenta del XVIII secolo si tentò deliberatamente di inventare macchine che permettessero di risparmiare manodopera, sia nella filatura sia nella tessitura. Le prime macchine filatrici non ebbero successo, ma nel 1733 un meccanico del Lancashire, John Kay, inventò la navetta volante, che permetteva a un singolo tessitore di svolgere il lavoro di due, con una crescita conseguente della domanda di filato. Nell’arco di pochi anni furono inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica. Il primo di essi, inventato nel 1764 ma non brevettato fino al 1770, fu la “jenny” on riannetta di James Hargreaves. Si trattava di una macchina relativamente semplice; in pratica, non era molto più che una ruota per filare con una batteria di fusi invece che uno solo. Il filatoio idraulico, una macchina filatrice brevettata nel 1769 da Richard Arkwright, ebbe un significato più generale. Arkwright non fu probabilmente il vero inventore del filatoio idraulico, e il suo brevetto fu in seguito revocato; egli fu, però, il più fortunato come uomo d’affari. Azionato com’era dall’energia idraulica, pesante e costoso, il filatoio idraulico condusse direttamente al sistema di fabbrica sul modello dell’industria della seta. Le fabbriche furono costruite per lo più in vicinanza di corsi d’acqua, nelle campagne o in piccoli villaggi, non provocando di conseguenza una concentrazione di lavoratori nelle città. La più importante delle invenzioni nel campo della filatura fu la “mula” di Samuel Crompton. La mula era in grado di produrre un filato più sottile e più resistente di qualunque altra macchina o filatore manuale. Dopo essere stata adattata al vapore, intorno al 1790, divenne lo strumento favorito nella filatura del cotone. Le innovazioni tecniche furono accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone. Poiché la Gran Bretagna non aveva cotone proprio, le cifre relative all’importazione di cotone grezzo forniscono una buona indicazione del ritmo al quale si sviluppò l’industria. Dalle 500 tonnellate scarse d’inizio secolo, le importazioni salirono a circa 2.500 tonnellate verso il 1770, alla vigilia delle maggiori innovazioni, per raggiungere le 25.000 nel 1800. Inizialmente le maggiori fonti di approvvigionamento furono l’India e il Levante, ma la loro produzione non aumentò in modo sufficientemente rapido da soddisfare la domanda crescente. Si cominciò allora a produrre cotone nelle isole caraibiche britanniche e negli stati americani del Sud, ma l’alto costo della separazione manuale dei semi dalla fibra corta del cotone americano, anche là dove ci si avvaleva del lavoro degli schiavi, scoraggiò la produzione di cotone fino a quando Eli Whitney non inventò una sgranatrice meccanica. Questa macchina rispose talmente bene alla bisogna che gli Stati Uniti del Sud divennero ben presto il maggior fornitore di materia prima per quella che divenne rapidamente la più importante industria britannica. Nel 1860, la Gran Bretagna importava più di mezzo milione di tonnellate di cotone grezzo. Le innovazioni nella filatura e nella tessitura furono le più importanti ma non le uniche innovazioni nell’industria cotoniera. Fu introdotta una serie di perfezionamenti in tutte le fasi della produzione. Con la caduta dei costi di produzione e l’aumento della produzione, una notevole e crescente 6 percentuale del prodotto fu esportata; nel 1803 il valore delle esportazioni di cotone superò quello della lana. I drastici ribassi del prezzo dei prodotti di cotone ebbero riflessi sulla domanda di tessuti di lana e lino. Le innovazioni tecniche concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della forza a vapore costituiscono il nocciolo della prima industrializzazione britannica. Proprio mentre James Watt stava perfezionando la sua macchina a vapore, il suo illustre connazionale Adam Smith scriveva nella “Ricchezza delle nazioni” dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di spilli semplicemente attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro. Un’altra industria rappresentativa fu la manifattura delle stoviglie. L’introduzione della porcellana fine dalla Cina diffuse tra i ricchi la moda di sostituire con essa il vasellame d’oro e d’argento, e nello stesso tempo fornì un modello per articoli di utilità più immediata. Come nell’industria siderurgica, il prezzo crescente del carbone di legna spinse l’industria del vasellame a spostarsi in aree ricche di carbon fossile. Lo Staffordshire, dove centinaia di piccoli proprietari producevano per il mercato nazionale, divenne il luogo di maggiore concentrazione dell’industria. Un significativo processo di espansione e diversificazione ebbe luogo anche nell’industria chimica. Alcuni dei miglioramenti furono una conseguenza dei progressi della chimica, in particolare quelli collegati al nome del chimico francese Antoine Lavoisier. Un esempio è l’acido solforico, una delle sostanze chimiche più versatili e più largamente usate. Per quanto fosse già noto agli alchimisti, la sua produzione era nello stesso tempo costosa e pericolosa a causa delle sue proprietà corrosive. Nel 1746, John Roebuck inventò un procedimento economico di produzione dell’acido solforico per mezzo di camere di piombo. Tra i vari usi immediati, il loro prodotto veniva impiegato come sbiancante nelle industrie tessili al posto del latte acido, del siero di latte, dell’urina e di altre sostanze naturali. L’acido solforico fu a sua volta rimpiazzato nell’ultimo decennio del Settecento, quando alcune industrie scozzesi introdussero come sbiancanti il cloro e i suoi derivati, una scoperta del chimico francese Claude Berthollet. Un altro gruppo di composti chimici largamente usati nei processi industriali erano gli alcali, in particolare la soda caustica e la potassa. Alle miniere di carbone va altresì la responsabilità delle prime ferrovie britanniche. Negli anni sessanta del XVIII secolo in alcune miniere vennero introdotti i ponies, che ben presto furono adibiti al traino di vagoni muniti di ruote su binari fatti di lamine metalliche, e in seguito su binari di ghisa o ferro battuto. Già prima, nel XVII secolo, lamine metalliche e binari erano stati usati in superficie nelle vicinanze delle miniere per facilitare il traino, solitamente effettuate a mezzo di cavalli. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo complesso che ebbe parecchi stadi preparatori. La progettazione e la costruzione di un motore per locomotiva richiedeva lo sviluppo di macchine utensili precise e potenti. Uno dei molti bravi ingegneri e costruttori di macchine fu John Wilkinson, la cui fresatrice aveva permesso a Watt di sviluppare la sua macchina. Altri furono John Smeaton, fondatore dell’ingegneria civile come professione e Henry Maudsley, inventore introno al 1797 di un tornio a lunetta mobile per fare le viti, che rese possibile la fabbricazione di componenti metallici di precisione. A Richard Trevithick va il merito della costruzione della prima locomotiva funzionante nel 1801. Trevithick si avvalse di una macchina ad alta pressione, e progettò una locomotiva che poteva percorrere le strade ordinarie. Per quanto tecnicamente guidabile, la locomotiva non fu un grande successo dal punto di vista economico perché le strade non ne potevano sopportare il peso. Molti altri ingegneri, come John Blenkinshop, contribuirono allo sviluppo della locomotiva; tra tutti il successo più evidente arrise però all’autodidatta George Stephenson che costruì, nel 1813, una caldaia a vapore fissa in grado di trascinare per mezzo di cavi i vagoni di carbone che tornavano alla miniera dalle banchine di carico. Nel 1822, persuase i promotori del progetto di una linea ferroviaria tra le miniere di Stockton e Darlington ad avvalersi del vapore invece che della trazione 7 Cap.8: L’economia globale a confronto con il capitalismo britannico Una delle ragioni per cui gli storici amano chiamare “rivoluzione industriale” la transizione britannica all’industria moderna è quella di volerla contrapporre e paragonare alla Rivoluzione francese del 1789. Il periodo che abbracciò la Rivoluzione francese e le Guerre napoleoniche (1793-1815) vide la Gran Bretagna continuare con il suo processo di industrializzazione sempre più in direzione dei prodotti del ferro e dell’acciaio anziché dei tessili e dei ceramici i. 1. DIVERGENZA INIZIALE GLOBALE E SUCCESSIVA CONVERGENZA Angus Maddison, impressionato dalla rapida e regolare crescita economica dei paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, si mise a capo di un movimento internazionale per la misurazione degli episodi storici di crescita del reddito pro capite, paese per paese o regione per regione in tutto il mondo. Il suo lavoro, denominato “Maddison Project”, è oggetto di continuo aggiornamento ma i suoi risultati principali sono chiari se paragoniamo i livelli di crescita del reddito pro capite nel periodo 1820-1914 per le prime quattro nazioni industriali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Germania). Tutti e quattro i paesi detenevano redditi pro capite tra i più elevati al mondo, persino nel 1820 dopo decenni di guerre, ma la Gran Bretagna aveva raggiunto livelli di benessere economico senza precedenti fino al 1850. La carestia che devastò l’Irlanda nel corso degli anni quaranta non compare nei dati di Maddison fino al 1850, quando la nazione studiata cambia dalla Gran Bretagna al Regno Unito. Dopo il 1850 a ogni modo, il reddito pro capite del Regno Unito continuò a crescere più che raddoppiandosi alla vigilia della Prima guerra mondiale. Benché anche in Francia e in Germania il reddito pro capite cominciasse a crescere regolarmente dopo il 1850, lo scarto rispetto al Regno Unito in realtà si allargò. Nel frattempo, la progressiva espansione degli Stati Uniti nella parte centrale del nord America, che diffondeva nel suo cammino l’industrializzazione e un’agricoltura a elevata efficienza, permise al reddito pro capite statunitense di eguagliare il livello britannico nei primi anni del XX secolo. Era chiaramente arrivata l’era delle crescita economica moderna. Il successo dell’economia dei paesi del Nord Atlantico nel suo complesso è ancor più notevole se lo si paragona al resto del mondo. La crescita economica moderna sembrava confinata a queste regioni che un tempo erano state nelle retrovie della civiltà umana. Nel periodo in cui i Paesi Bassi (in realtà la sola Olanda) godettero del reddito pro capite più elevato al mondo, tra il 1650 e il 1750, i grandi imperi asiatici erano a malapena riusciti a mantenere i rispettivi livelli, ,entro pativano gli effetti del cambiamento climatico, di conflitti diffusi e, nel caso indiano, di una decrescita demografica. Tutte le economie asiatiche cominciarono l’era moderna con redditi pro capite pari a circa la metà di quelli conseguiti dalle aree più urbanizzate d’Europa. 2. POPOLAZIONE Dopo la diminuzione da un massimo di circa 110 milioni di abitanti nel 1620 a un minimo di 105 milioni nel 1650, la popolazione europea ricominciò a crescere dapprima con lentezza, poi con una velocità crescente fino al XX secolo. Nel 1800, essa era arrivata a 188 milioni di abitanti. Nel XIX secolo, la crescita demografica europea accelerò, tanto che nel 1900 l’Europa aveva raggiunto un totale di 400 milioni di abitanti. La popolazione continuò ad aumentare nel XX secolo, ma il tasso di crescita europeo conobbe una leggera diminuzione, mentre quello del resto del mondo aumentò. Nel 2000, la popolazione europea era salita a 729 milioni contro un totale mondiale di 6.127 milioni di persone. Simili tassi di crescita, sia in Europa sia nel resto del mondo, non avevano precedenti. Nel XIX secolo, la popolazione europea raddoppiò in meno di 100 anni, e nel XX il mondo nel suo complesso ha superato anche questo elevato ritmo di crescita. Nel XIX secolo, la Gran Bretagna e la Germania, i due più importanti paesi industriali d’Europa, ebbero tassi d’incremento superiori all’1% annuo. La Russia, uno dei paesi meno industrializzati d’Europa, ebbe il tasso d’incremento più elevato tra i grandi paesi europei: una media di circa il 2% per tutto il secolo. La Francia, che all’inizio dell’Ottocento aveva la popolazione più numerosa di tutta l’Europa occidentale, fu invece il fanalino di coda, in particolare nella seconda metà del secolo; nell’intero secolo il suo tasso d’incremento fu in media di appena lo 0,4% annuo. 10 È evidente che non esiste una chiara correlazione tra industrializzazione e crescita demografica. Prima dei miglioramenti dei trasporti che permisero l’importazione su larga scala di generi alimentari dagli altri continenti nell’ultimo quarto del XIX secolo, uno dei maggiori limiti alla crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola crebbe enormemente nel corso del secolo per due ragioni. In primo luogo, fu estesa la superficie di terra coltivata. Questo fenomeno fu importante nel caso della Russia, che disponeva di vaste distesa di terra disabitata, ma anche in altre regioni dell’Europa orientale e in Svezia. Nella stessa Europa occidentale, l’abolizione del maggese e la coltivazione di terreni una volta marginali o incolti aumentò la disponibilità di terra. In secondo luogo, la produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche più scientifiche. Una migliore conoscenza della chimica del suolo e un uso più intenso dei fertilizzanti naturali e artificiali, fece salire la resa dei terreni comuni e rese possibile la coltivazione di terreni poco fertili. La diminuzione del prezzo favorì l’uso di attrezzi e strumenti migliori e più efficienti. Nella seconda metà del secolo fecero il loro debutto macchine agricole come trebbiatrici a vapore e mietitrici meccaniche. Il basso prezzo dei trasporti facilitò i movimenti migratori della popolazione. Come in Gran Bretagna, l’emigrazione era di due tipi: interna e internazionale. In totale, circa 60 milioni di persone abbandonarono l’Europa tra il 1815 e il 1914. Di queste, quasi 35 milioni si diressero verso gli Stati Uniti, e altri 5 milioni verso il Canada. 12 o 15 milioni si trasferirono in America Latina, soprattutto Argentina e Brasile. Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa assorbirono gran parte del resto. Le Isole britanniche (Irlanda compresa) fornirono il numero maggiore di emigranti, circa 18 milioni. Queste furono molto numerosi anche dalla Germania, dai paesi scandinavi, dall’Italia dall’Austria-Ungheria e dall’Impero Russo. Cospicua fu anche l’emigrazione interna europea, ancorché in alcuni casi di carattere esclusivamente temporaneo. Furono molti, tra i polacchi e le altre popolazioni slave ed ebraiche, coloro che si diressero a ovest verso la Germania, la Francia e altri paesi. La Francia attirò gli italiani, gli spagnoli, gli svizzeri e i belgi, mentre l’Inghilterra ricevette immigrati da tutta Europa. A oriente, lo zar trasferì 1 milione e 500.000 famiglie contadine in Siberia tra il 1861 e il 1914, senza contare i numerosi delinquenti e i deportati politici. Le migrazioni furono per la maggior parte volontarie. Talvolta gli emigranti cercavano di sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita migliore all’estero. Negli otto anni che seguirono la grande carestia del 1845, più di 1 milione e 200.000 persone lasciarono l’Irlanda per gli Stati Uniti. Paesi d’oltreoceano come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, attirarono un flusso ininterrotto di immigranti, in special modo dalle Isole britanniche. Un numero relativamente elevato di italiani e tedeschi emigrò in quelli che divennero i paesi economicamente più progrediti del Sud America. L’emigrazione interna fu ancor più fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. In tutti i paesi si verificarono importanti variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, ma il mutamento più fondamentale fu la crescita della popolazione urbana, sia in assoluto sia come percentuale della popolazione totale. All’inizio del XIX secolo, l’Inghilterra era già la nazione più urbanizzata. I Paesi Bassi avevano una percentuale molto simile. L’Italia aveva assistito allo spopolamento delle maggiori città all’inizio dell’era moderna, e nei primi decenni del XIX secolo la popolazione urbana ammontava probabilmente a non oltre un quarto o un quinto del totale. Percentuali analoghe si registravano in Francia e nella Germania occidentale. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette a un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Anche in questo la nazione guida fu la Gran Bretagna. Nel 1850, oltre la metà della popolazione britannica viveva in città e cittadine con oltre 2.000 abitanti. Nell’Impero russo, Mosca e San Pietroburgo potevano vantare almeno 1 milione di abitanti. La popolazione dei paesi instilli non solo viveva nelle città, ma preferiva quelle più grandi. In Inghilterra e nel Galles, la percentuale della popolazione residente nelle piccole città è rimasta pressoché costante, mentre la percentuale relativa alle grandi città è cresciuta dal 27 a oltre il 70%. Nel 1800, le città europee con una popolazione di almeno 100.000 abitanti non erano più di 20. 11 Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Nelle società preindustriali gran parte della popolazione anche non impegnata in occupazioni agricole viveva in aree rurali. Era più conveniente trasportare i prodotti finiti dell’industria, come i tessili e il ferro, a mercati lontani che non portare il cibo e le materie prime a concentrazioni di lavoratori. A causa della nuova importanza del carbon fossile, alcuni dei maggiori centri industriali sorsero in corrispondenza o in prossimità dei giacimenti di carbone: la Black Country in Inghilterra, la Ruhr in Germania, l’area attorno a Lille in Francia, la regione di Pittsburgh in America. 3. AGRICOLTURA Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatisi ne XIX secolo fu la diminuzione del peso relativo del settore agricolo. Ciò non vuol dire che l’agricoltura cessò di essere importante; è vero anzi il contrario. Presupposto di tale declino relativo furono i progressi nella produttività agricola. In altri termini, la capacità di una società di elevare i propri standard di consumo al di sopra di un mero livello di sussistenza e di trasferire una parte significativa della forza lavoro in altre attività potenzialmente più produttive dipende da un preliminare aumento della produttività agricola. Un incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in cinque modi potenziali: 1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione in grado di dedicarsi a occupazioni non agricole. 2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostenere la popolazione non agricola. 3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie manifatturiere e dei servizi. 4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura. 5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. All’inizio dell’Ottocento, l’agricoltura britannica era già la più produttiva d’Europa. Questo dato di fatto ebbe uno stretto rapporto con la posizione di avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema industriale. La popolazione agricola offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e di alcune materie prime, come la lana o l’orzo e il luppolo per l’industria della birra. Nella prima metà del XVIII secolo, essa aveva prodotto persino un surplus di cereali per l’esportazione. Quello tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu anzi il grande periodo dell’agricoltura, allorché l’agricoltura britannica raggiunse il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso sempre più massiccio di grano americano basso prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento, mentre molti si volsero alla produzione di carne e latticini. Il prospero settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. Prima della metà dell’Ottocento, la popolazione rurale del paese rappresentò per gran parte delle industrie un mercato migliore di quello dei paesi esteri. La ricchezza prodotta dalla terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. L’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu diverso da quello che essa ebbe in Gran Bretagna e variò da regione a regione. vi fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Una riforma agraria implica un mutamento del sistema di possesso fondiario. Il movimento delle recinzioni in Inghilterra può essere considerato un tipo di riforma agraria. 12 4. RISORSE L’Europa industriale non beneficiò di un magico aumento della quantità o qualità delle risorse naturali. Fu in particolare il caso del carbon fossile, e le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbone divennero nel XIX secolo i siti primari dell’industria pesante. Le regioni prive di riserve indigene di carbone dovettero importarlo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste di acqua, come la Svizzera e alcune aree della Francia, dell’Italia e della Svezia-Norvegia, ottennero da questa fonte un nuovo vantaggio relativo. L’Europa era nel complesso relativamente ben provvista di risorse minerarie convenzionali, quali ferro, altri metalli, sale e zolfo. Alcune di queste, come lo stagno della Cornovaglia, erano in uso fin dall’antichità. Il risultato fu da un lato una caccia sistematica a fonti di energia ancora sconosciute, dall’altro una ricerca scientifica e tecnologica dei migliori metodi di sfruttamento. Con l’esaurirsi delle risorse domestiche, la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento si estese oltreoceano. Nel corso del XIX secolo, la ricerca di materie prime spinse sempre più le nazioni europee a estendere il controllo politico sulle regioni africane e asiatiche scarsamente organizzate o prive di un governo forte. 4.1. SVILUPPO E DIFFUSIONE DELLA TECNOLOGIA Simon Kuznets, premio Nobel per l’economia, definì il periodo in cui viviamo “epoca economica moderna”. A suo parere, un’epoca economica viene determinata e foggiata dalle applicazioni e ramificazioni di un’ “innovazione epocale”. Egli vedeva l’innovazione epocale della prima età moderna europea nello sviluppo delle tecniche di navigazione e di altre a queste correlate, che resero possibile la scoperta dell’America e della rotta tutta marittima verso l’Oriente. Secondo Kuznets, una buona parte della storia economica del periodo compreso tra il 1492 e il 1776 può essere spiegata facendo riferimento al progresso delle esplorazioni e delle scoperte, al commercio marittimo, alla crescita delle flotte e ai fenomeni a essi correlati. L’attuale epoca economica (moderna), secondo la terminologia di Kuznets, ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e l’innovazione epocale a essa associata fu “l’applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione economica”. Il periodo della storia della tecnologia che va dall’inizio del Settecento a circa il 1860 o il 1870 è piuttosto l’era dell’artigiano-inventore. Dopo di allora, le teorie scientifiche divennero sempre più fondamentali per i processi produttivi, in particolare in industrie nuove quali quella dell’elettricità, dell’ottica e dei prodotti chimici organici. Nell’analizzare il processo di cambiamento tecnologico in un qualsiasi periodo storico, è opportuno non dimenticare le differenze esistenti tre tre termini strettamente correlati ma concettualmente differenti: “invenzione”, “innovazione” e “diffusione” delle nuove tecnologie. L’invenzione definisce una novità brevettabile di natura meccanica, chimica o elettrica. L’invenzione non ha un particolare significato economico. Lo assume solo quando è inserita in un processo economico — quando cioè diventa innovazione. Ad esempio, l’invenzione di James Watt del condensatore separato per la macchina di Newcomen, brevettato nel 1769, ebbe un ruolo trascurabile nell’economia fino al momento in cui, in società con Matthew Boulton, egli non iniziò a produrre e a porre in commercio macchine a vapore, nel 1776. Con “diffusione” si intende un processo attraverso il quale un’innovazione si propaga in un’industria all’altra e a livello internazionale superando le frontiere geografiche. La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese dai progressi tecnologici verificatisi in due industrie fondamentali, l’industria cotoniera e quella del ferro, sostenuti da un uso generalizzato del carbon fossile come combustibile industriale e dall’impiego crescente della macchina a vapore come fonte di energia meccanica. La meccanizzazione della filatura del cotone si era pressoché completata nel 1820, facendone la prima industria moderna fondata sul sistema di fabbrica. L’industria siderurgica aveva completato la transizione all’uso del coke per la fusione del minerale ferroso e dei processi di puddellaggio e di laminatura per la raffinazione del ferro prodotto dall’altoforno. Il carbon fossile era molto usato non solo per alimentare le macchine a vapore, gli altiforni e i forni di puddellaggio, ma anche come combustibile in parecchie altre attività industriali. Le macchine a 15 vapore fornivano l’energia necessaria alle fabbriche tessili, alle fonderie e al funzionamento delle pompe nelle miniere di carbone e stagno. Nei cinquant’anni successivi — fino al 1870 circa — gli sforzi di molti industriali dell’Europa continentale furono tesi all’acquisizione e all’adattamento dei successi tecnologici dell’industria britannica. Le industrie tessili subirono diversi piccoli miglioramenti tecnici in un periodo che vide un’enorme espansione della produzione. Molte innovazioni furono opera di industriali continentali e americani, desiderosi di eguagliare o superare l’efficienza tecnica dei concorrenti britannici. 4.2. MOTORI PRIMI E PRODUZIONE DI ENERGIA Alla scadenza del brevetto di base di Watt, nel 1800, meno di 500 delle sue macchine erano in funzione in Gran Bretagna e poche decine sul continente. Nonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue macchine avevano parecchie limitazioni. La loro efficienza termica era piuttosto bassa. Erano inoltre pesanti, ingombranti e soggette a frequenti rotture. Lavoravano a pressioni relativamente basse e ciò limitava notevolmente la loro efficacia. I successivi cinquant’anni videro molti importanti sviluppi nella tecnologia della macchina a vapore. I primi progressi furono realizzati da meccanici e ingegneri come Richard Trevithick, della Cornovaglia, e Oliver Evans, americano che costruirono e sperimentarono macchine ad alta pressione, considerate da Watt pericolose e di scarsa utilità. Questi e altri esperimenti condussero all’utilizzazione di macchine a vapore per la propulsione di battelli e locomotive, con profonde conseguenze per l’industria dei trasporti. Anche la potenza e l’efficienza delle macchine era nel frattempo notevolmente cresciuta. L’efficienza termica era tre volte superiore a quella delle migliori macchine di Watt. Furono introdotte macchine “compound”, a doppia o tripla azione. Il progresso tecnologico toccò anche il maggiore rivale della macchina a vapore, la ruota idraulica. A partire dal 1760, mentre Watt stava sperimentando e mettendo a punto la macchina a vapore, altri ingegneri e inventori rivolsero la loro attenzione al perfezionamento della ruota idraulica. Furono introdotte forme nuove e più efficienti e, in conseguenza della discesa del prezzo del ferro, divennero comuni le grandi ruote realizzate completamente in metallo. Negli anni venti e trenta, degli scienziati e ingegneri francesi inventarono e perfezionarono la turbina idraulica, uno strumento molto efficiente per convertire l’energia sprigionata dalle cadute d’acqua in utile forza motrice. 5. L’AVVENTO E LA DIFFUSIONE DELL’ELETTRICITÀ I fenomeni elettrici erano stati oggetto di osservazione fin dall’antichità. Verso la fine del secolo le ricerche di Benjamin Franklin in America e degli italiani Luigi Galvani e Alessandro Volta, inventore della pila voltaica o batteria, ne innalzarono lo status da gioco da salotto a oggetto di ricerche di laboratorio. Nel 1807, sir Humphry Davy scoprì l’elettrolisi, il fenomeno mediante il quale una corrente elettrica scompone una soluzione acquosa nei suoi elementi chimici, dando così inizio all’industria della galvanoplastica. La fase successiva dello studio dell’elettricità fu dominata dalle figure dell’allievo di Davy, Michael Faraday, del fisico danese Hans Oersted e del matematico francese André Ampère. Nel 1820, Oersted osservò che una corrente elettrica produce un campo magnetico attorno al conduttore, e ciò spinse Ampère a formulare una relazione quantitativa tra l’elettricità e il magnetismo. Tra il 1820 e il 1831, Faraday scoprì il fenomeno dell’induzione elettromagnetica e inventò un primitivo generatore manuale. Samuel Morse sviluppò il telegrafo elettrico in America tra il 1832 e il 1844. L’uso industriale dell’elettricità era tuttavia frenato delle difficoltà insite nella progettazione di un generatore economicamente efficiente. Nel 1873, un fabbricante di carta della Francia sudorientale collegò la sua turbina idraulica, che utilizzava acqua dalle Alpi, a una dinamo. Quest’innovazione apparentemente semplice ebbe importanti conseguenze nel lungo periodo, in quanto consentì a regioni povere di carbon fossile 16 ma ricche di acqua di soddisfare i propri bisogni energetici. L’invenzione della turbina a vapore nel decennio seguente svincolò la generazione di elettricità dalla disponibilità di acqua, e spostò nuovamente la bilancia energetica dalla parte del carbone e del vapore. Lo sviluppo dell’energia idroelettrica divenne tremendamente importante per i paesi poveri di carbone dove fino a quel momento lo sviluppo industriale aveva ristagnato. I fari cominciarono a utilizzare lampade elettriche ad arco negli anni cinquanta, e negli anni settanta le lampade ad arco erano comuni in molte fabbriche, in negozi, teatri ed edifici pubblici. Il perfezionamento tra 1878 e il 1880 della lampadina elettrica a incandescenza da parte di Joseph Swan in Inghilterra e di Thomas Edison negli Stati Uniti, rese obsoleta l’illuminazione con lampade ad arco diede inizio al boom dell’industria a nostra disposizione. Nel 1879, lo stesso anno in cui Edison brevettava la sua lampadina elettrica, il tedesco Werner von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie per i trasporti di massa nelle metropoli in espansione dell’epoca. L’elettricità può inoltre essere usata produrre calore e cominciò ad essere impiegata nella fusione dei metalli. 5.1. L’AVVENTO E LA DIFFUSIONE DEL PETROLIO Il petrolio è un’altra delle grandi fonti di energia che si affermò nella seconda metà del XIX secolo. Il suo sfruttamento economico cominciò nel 1859 con la trivellazione dei pozzi di Drake a Titusville, in Pennsylvania. Come l’elettricità, il petrolio liquido e il suo sottoprodotto, il gas naturale, furono usati dapprincipio soprattutto per l’illuminazione. Parecchi inventori e ingegneri, tra cui i tedeschi Nikolaus Otto, Karl Benz e Gottfried Daimler, stavano sperimentando dei motori a combustione interna. Nel 1900 ne esistevano diversi tipi, che usavano solitamente come carburante uno dei vari distillati del periodo liquido, come benzina e gasolio. L’applicazione di gran lunga più importante del motore a combustione interna fu nel settore dei mezzi di trasporto leggeri, come automobili, autocarri a motore e autobus; nelle mani di imprenditori come i francesi Armand Peugeot, Louis Renault e André Citroën, l’inglese William Morris e l’americano Henry Ford, esso diede origine a una delle maggiori industrie del XX secolo. 5.2. ACCIAIO A BUON MERCATO All’inizIo dell’Ottocento erano pressoché universali, in Gran Bretagna, l’impiego del coke nella fusione del minerale ferroso e il procedimento di puddellaggio per la produzione di ferro grezzo e la sua trasformazione in ferro battuto, a tutto vantaggio degli imprenditori britannici rispetto ai loro concorrenti stranieri. Nella seconda metà del XVIII secolo, in Francia e nella Slesia prussiana si era tentato di introdurre il procedimento di fusione con il coke. Nel 1815, gli industriali siderurgici del continente si affrettarono ad adottare il metodo di puddellaggio e laminatura per la trasformazione della ghisa grezza in ferro lavorato. Il primo efficiente altoforno alimentato a coke sul continente fu costruito in Belgio alla fine degli anni venti; alcuni industriali francesi adottarono il coke nei due decenni successivi. Ancor più lenta nell’adozione del coke si rivelò la Germania, dove si ebbe una grande accelerazione nel corso degli anni cinquanta. Negli Stati Uniti, il procedimento di fusione con il coke non fu generalmente adottato fino a dopo la guerra civile. In altri paesi europei, sopravvissero tenacemente piccole industrie che utilizzavano carbone di legna. L’unica grande innovazione tecnica nel settore siderurgico nella prima metà del XIX secolo fu l’altoforno ad aria calda brevettato dall’ingegnere scozzese James B. Neilson nel 1828. Utilizzando i gas recuperati dall’altoforno per preriscaldare l’aria usata nel medesimo, questo tipo di altoforno otteneva una combustione più completa, diminuiva il consumo di combustibile e accelerava il processo di fusione. Fu subito adottato dagli industriali scozzesi, europei e persino statunitensi, mentre si diffuse con maggiore lentezza in Inghilterra e nel Galles. Le innovazioni più spettacolari nell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo riguardarono la fabbricazione dell’acciaio. Nel 1856, Henry Bessemer, un inventore inglese, brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione dell’acciaio direttamente dalla ghisa fusa. La produzione dell’acciaio Bessemer crebbe rapidamente e ben presto sostituì il ferro in una varietà di usi. Il processo Bessemer non produceva sempre un acciaio di qualità uniforme ed elevata, e 17 fotografia dopo il 1827 resero possibile la riproduzione economica e l’ampia diffusione delle immagini visive. Nel 1840, la Gran Bretagna introdusse il servizio postale. Ancora più significativa fu l’invenzione nel 1832 del telegrafo elettrico da parte dell’americano Samuel Morse. Nel 1850, quasi tutte le maggiori città europee e americane erano collegate da linee telegrafiche, e nel 1851 fu posato con successo il primo cavo telegrafico sottomarino, nel Canale della Manica. Nel 1866, l’americano Cyrus W. Field riuscì a posare un cavo telegrafico nell’Atlantico settentrionale, assicurando una comunicazione quasi instantanea tra l’Europa e il Nord America. Altri cavi telegrafici sottomarini furono posati negli anni seguenti. Il telefono, brevettato da Graham Bell nel 1876, rese ancor più personale la comunicazione su lunghe distanze, anche se all’inizio il suo impiego fu volto principalmente a facilitare le comunicazioni locali. Guglielmo Marconi inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (o radio). Già nel 1901, un radiomessaggio attraversava l’Atlantico, e all’epoca del disastro del Titanic nel 1912, la radio aveva già assunto un ruolo importante nella navigazione oceanica. Nel campo delle comunicazioni d’affari, l’invenzione della macchina per scrivere e di altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e a contribuire al flusso crescente di informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. 6.1. L’APPLICAZIONE DELLA SCIENZA L’industria dell’elettricità richiedeva un grado elevato di conoscenze scientifiche e di addestramento. In altre industrie, il progresso scientifico divenne sempre più essenziale per il progresso tecnologico. Si ebbe una crescente interazione tra scienziati, ingegneri e imprenditori. Marconi era soprattutto un uomo d’affari. Bessemer ed Edison furono i prototipi di una nuova categoria occupazionale, l’inventore di professione. Edison dedicò in realtà gran parte del Sio tempo a questioni commerciali relative all’installazione di gigantesche attrezzature per la generazione e la trasmissione dell’elettricità. Lo sviluppo tecnologico richiedeva sempre più la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica, la cui opera era coordinata da funzionari che comprendevano le potenzialità della nuova tecnologia pur non possedendo conoscenze particolari nel settore. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti. Essa aveva prodotto artificialmente la soda, l’acido solforico, il cloro e numerosi composti chimici pesanti particolarmente importanti nell’industria tessile. Nel 1856, William Perkin, chimico inglese, sintetizzò accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio dell’industria dei coloranti artificiali. I coloranti artificiali si rivelarono la testa di ponte di un complesso molto più ampio di industrie che dai processi della chimica organica ricavavano prodotti molto diversi come farmaceutici, esplosivi, reagenti fotografici e fibre sintetiche. La chimica svolse un ruolo vitale anche nella metallurgia. all’inizio del XIX secolo, i soli metalli importanti dal punto di vista economico erano quelli noti sin dall’antichità: ferro, rame, piombo, stagno, mercurio, oro e argento. Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento, Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, alluminio, nichel, magnesio e cromo. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli che presentano caratteristiche differenti da quelle dei loro singoli componenti. L’acciaio è in realtà una lega di ferro e piccole quantità di carbonio e talvolta altri metalli. La chimica venne inoltre in soccorso di vecchie e affermate industrie quali quelle della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. L’agricoltura scientifica si sviluppò perciò in parallelo con l’industria scientifica. I cibi in scatola e la refrigerazione artificiale rivoluzionarono le abitudini alimentari e crearono i presupposti perché la popolazione europea potesse aumentare ben al di là di quanto avrebbero consentito le risorse agricole del continente. Il coordinamento di queste tre componenti fondamentali della crescita economica (popolazione, cibo e risorse, tecnologia) nelle economie che diedero l’avvio all’età della crescita economica moderna richiese nuovi assetti istituzionali tali da far funzionare efficacemente l’insieme. 20 Cap.9: Le istituzioni si adeguano (o meno) alla crescita economica moderna 1. IL CONTESTO ISTITUZIONALE 1.1. FONDAMENTI GIURIDICI La Gran Bretagna si era già dotata di una struttura sostanzialmente moderna ai fini dello sviluppo economico, adatta all’innovazione e al cambiamento sia in senso sociale sia materiale. Una delle istituzioni cardine di questo contesto era il sistema giuridico noto come “diritto comune”. Le caratteristiche distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidarsi alle consuetudini e ai precedenti nei limiti in cui questi venivano recepiti da risoluzioni o decisioni giuridiche scritte, la sua flessibilità. Assicurava la protezione della proprietà e degli interessi privati contro le possibili angherie dello stato e allo stesso tempo proteggeva l’interesse pubblico dai privati. Trasmesso alle colonie inglesi nel processo di colonizzazione, il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico nel momento in cui questi conquistarono l’indipendenza o l’autonomia. La Rivoluzione francese spalancò nuove prospettive e opportunità per chi fosse dotato di iniziativa e ambizione. Essa abolì completamente gli ultimi residui dell’ordine feudale e istituì un sistema giuridico più razionale che fu alfine incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine può essere considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’articolo 1 proclamava che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti”, diritti che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. La Dichiarazione elencava anche le garanzie necessarie per tutelare questi diritti: uniformità delle leggi, libertà di parola e di stampa, tassazione equa decisa dagli stessi cittadini o dai loro rappresentanti, responsabilità dei pubblici ufficiali. Tutti i cittadini dovevano essere “ugualmente eleggibili a tutte le dignità, gli uffici e gli impieghi pubblici, conformemente alle loro virtù e ai loro talenti”. Le assemblee, oltre ad abolire il regime feudale e a instaurare la proprietà privata della terra, si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne, abolirono le corporazioni di mestiere e l’intero apparato statale di controllo dell’industria, proibirono i monopoli, autorizzarono la costituzione di società e altre imprese privilegiate, e sostituirono alle tasse arbitrarie e inique dell’antico regime un sistema d’imposizione razionale e uniforme. Nel 1791, l’assemblea arrivò persino ad approvare la drastica legge “Le Chapelier” che proibiva le organizzazioni o associazioni sia dei lavoratori sia degli imprenditori. I francesi esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche. Il Belgio, la riva sinistra del Reno in Germania, gran parte dell’Italia, e per breve tempo l’Olanda e alcune aree della Germania settentrionale furono tutti incorporati nell’Impero francese. L’influsso delle riforme si manifestò persino in paesi non direttamente dominati dalla Francia, in particolare modo in Prussia. Dopo l’umiliazione di Jena del 1806, venne alla ribalta un gruppo di ufficiali intelligenti e patriottici decisi a rigenerare il paese mediante riforme amministrative e sociali che lo avrebbero messo in grado di opporsi al conquistatore e di assumere la leadership di uno stato tedesco. Alla fine, le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva non dalla rivoluzione stessa ma da Napoleone. Il cambiamento nella pubblica opinione che rese possibile la dittatura napoleonica fu una reazione agli eccessi rivoluzionari e alla corruzione e alla dissolutezza imperanti sotto il Direttorio. Il genio e la buona sorte di Napoleone consistettero nella sua abilità di operare una sintesi tra le conquiste più razionali della rivoluzione e le abitudini e tradizioni profondamente radicate stratificatesi in un millennio di storia. La sua politica fu influenzata dalla sua mentalità militaresca. La sintesi napoleonica raggiunse forse il suo culmine nella grande opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’impero. I Codici e la nuova legislazione rivoluzionaria, preservarono i principi fondamentali della rivoluzione: uguaglianza di fronte alla legge, laicità dello stato, libertà di coscienza, libertà economica. 21 Abolendo le istituzioni dell’antico regime nei territori da essi conquistati, i francesi posero i fondamenti del nuovo ordine. Il “Code civil” fu adottato per intero o posto a fondamento dei codici nazionali in tutta Europa e anche oltre, come in Louisiana e nel Québec e praticamente in tutta l’America Latina. Un altro dei codici napoleonici di particolare importanza per lo sviluppo economico fu il “Code de commerce”. Il “Code de commerce” distingueva tre tipi principali di organizzazione commerciale: 1. la società semplice, i cui soci sono individualmente e solidalmente responsabili dei debiti della ditta; 2. le “sociétés en commandite”, società di persone in cui il socio o i soci accomandatari assumono una responsabilità illimitata per gli affari della società; 3. le “sociétés anonymes”, società a responsabilità limitata nel senso americano, nella quale tutti i soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite. L’accomandita divenne ben presto la forma preferita d’impresa. La forma dell’accomandita fu adottata nella maggiorate delle nazioni europee e svolse una funzione essenziale nella raccolta dei capitali necessari al commercio e all’industria nel periodo di transizione che precedette la liberalizzazione della formazione di strutture societarie. Nel 1900, solo la Russia e l’Impero ottomano richiedevano ancora un’autorizzazione specifica per la costituzione di società. 1.2. PENSIERO ECONOMICO E POLITICA ECONOMICA L’epoca delle Guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo del nazionalismo e dell’imperialismo economico dei secolo precedenti, con il tentativo britannico di blocco del continente e la risposta di Napoleone attraverso il Sistema continentale. Negli anni sessanta e settanta del XVIII secolo, i fisiocrati (detti in Francia “les économistes”) avevano cominciato a propugnare i meriti della libertà economica e della concorrenza. Nel 1776, anno della Dichiarazione d’indipendenza americana, Adam Smith pubblicò nella “Ricchezza delle nazioni” quella che doveva diventare una dichiarazione di indipendenza economica dell’individuo. C’è chi ha visto in Smith l’apologeta dell’uomo d’affari o della “borghesia”. La maggiore preoccupazione di Smith è quella di dimostrare che l’abolizione di restrizioni vessatorie e “irragionevoli” all’impresa privata favorirebbe la concorrenza economica e ciò porterebbe al massimo grado la “ricchezza delle nazioni”. L’opera di Smith godette di una popolarità insolita per un trattato filosofico. Il bersaglio principale degli economisti classici era il vecchio appartato giuridico che regolava l’economia, che nel nome dell’interesse nazionale creava frequentemente sacche di privilegio e monopoli. Negli Stati Uniti, prese forma una miscela unica di intervento statale e iniziativa privata. L’economia classica aveva negli Stati Uniti pochi sostenitori puristi. I governi statali e locali assunsero un ruolo attivo nella promozione dello sviluppo economico. Il “sistema americano” vedeva nel governo un’agenzia con il compito di assistere gli individui e le imprese private nell’accelerare lo sviluppo delle risorse materiali della nazione. 1.3. STRUTTURA E CONFLITTI DI CLASSE Dal punto di vista sociale, l’Europa dell’ “ancien régime” era organizzata in tre “ordini”, la nobiltà, il clero e il Terzo Stato. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari terrieri. Il fondamento economico del loro potere politico e della loro condizione sociale era la proprietà della terra, che permetteva loro di vivere “nobilmente” senza lavorare. Sul gradino successivo della scala sociale si trovava lo strato superiore della classe media, o “alta borghesia”, composto da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti come avvocati e notai. A un livello ancora più basso della scala sociale era situata la “piccola borghesia”, comprendente artigiani, commercianti al dettaglio e altri dediti ad attività di prestazione di servizi, nonché piccoli proprietari indipendenti. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i braccianti, tra le cui file erano molto numerosi i poveri e gli indigenti. 22 il “Bank Act” del 1844, che modellò la struttura del sistema bancario britannico fino alla Prima guerra mondiale. In base alla legge sulle banche del 1844, la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio come banca a capitale azionario in cambio del monopolio dell’emissione di cartamoneta. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Molto meno visibile delle due precedenti era un’altra caratteristica del sistema bancario britannico, l’esistenza a Londra di banche d’affari private. Con la loro attività di basso profilo, queste imprese private, come la N.M. Rothschild & Sons, la Baring Brothers e la J.S. Morgan & Co., si dedicavano soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta, ma partecipavano altresì alla sottoscrizione di emissioni di titoli esteri che inserivano nel listini della Borsa dei valori di Londra. La Gran Bretagna possedeva molte altre istituzioni finanziarie: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso e così via. La proliferazione di casse rurali in Inghilterra e nel Galles e di filiali bancarie in Scozia rese tuttavia accessibili fonti di finanziamento a breve per gli imprenditori locali. Il sistema bancario francese era dominato da un istituto di ispirazione politica i cui affari si svolgevano soprattutto con il governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800, essa acquistò ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta e altri speciali privilegi. Come la Banca d’Inghilterra, essa divenne in effetti la Banca di Parigi, e permise ad alcune banche di emissione di operare nelle maggiori città di provincia. Fino al 1848, la Francia non possedette altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo sistema bancario era in effetti meno sviluppato del necessario. La Francia aveva comunque, nella prima metà del XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria. Parliamo della “hautes banques parisiennes”, banche d’affari simili a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild Frères. Come a Londra, la principale attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio di valuta e lingotti, ma dopo le Guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti governativi e altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie. Dopo il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo Impero, l’anno seguente, Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli esponenti delle “hautes banques” con la creazione di nuovi istituti finanziari. Trovò volenterosi collaboratori nelle persone dei fratelli Émile e Isaac Pereire, ex dipendenti dei Rothschild che avevano deciso di mettersi in proprio. Con la benedizione dell’imperatore, essi fondarono nel 1852 la “Société générale de crédit foncier” un istituto di credito fondiario, e la “Société générale de crédit mobilier”, una banca d’investimento specializzata nel finanziamento di costruzioni ferroviarie. Le banche francesi, private e a capitale azionario, svolsero altresì un ruolo di battistrada nell’incoraggiare gli investimenti esteri francesi. In Belgio, nel 1822, re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la “Société générale pour favorire l’industrie nazionale des Pays-Bas”, il cui quartiere generale era Bruxelles; egli l’aveva dotata di proprietà statali per un valore di 20 milioni di fiorini. La banca aveva le più ampie attribuzioni possibili per un’impresa di tal genere, ma i risultati che riuscì a conseguire nel primo decennio furono poco brillanti. Dopo la rivoluzione con un nuovo governatore nominato dalle nuove autorità statali, essa stimolò un boom di investimenti senza precedenti sul continente. Tra il 1835 e il 1838, creò trentuno nuove “sociétés anonymes” con un capitale totale di oltre 100 milioni di franchi. In tutte queste promozioni, essa beneficiò della cooperazione di James de Rothschild di Parigi, il più influente banchiere e finanziere dell’epoca. Nel 1835, un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale azionario, la “Banque de Belgique”. Modellata a imitazione della “Société générale” in tutti i particolari più significativi, la nuova banca non perse tempo a emularla come banca d’investimento. In meno di quattro anni fondò ventiquattro imprese industriali e finanziarie con un capitale complessivo di 54 milioni di franchi. 25 La “Société générale de Belgique” e la “Banque de Belgique” fecero miracoli nel favorire l’industrializzazione del piccolo stato, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro poteri, unita alla loro acuta rivalità. Nel 1850, il governo creò la “Banque nazionale de Belgique” come banca centrale con il monopolio dell’emissione di cartamoneta. Globalmente, il sistema bancario belga merita un voto molto elevato per il suo ruolo di stimolo dell’economia del paese. Gli olandesi avevano perduto la posizione di preminenza nella finanza e nel commercio europei che avevano detenuto nel XVII secolo, ma conservano riserve di potere finanziario. Quando nel 1814, il Regno delle Province Unite prese il posto della defunta Repubblica Olandese, la “Nederlandsche Bank” si sostituì alla “Banca di Amsterdam”. Il sistema finanziario olandese comprendeva inoltre diverse solide banche private, guidate dalla Hope & Co. Negli anni cinquanta, dopo i successi della “Société générale de Belgique” e, in tempi più vicini, del “Crédit mobilier”, gli uomini d’affari olandesi si convinsero che istituzioni di questo genere potevano favorire l’industrializzazione del paese. La Svizzera, che nel XX secolo si è affermata come grande centro finanziario mondiale, era molto meno importante prima del 1914. Ginevra era stata uno dei centri finanziari chiave dell’Europa del Rinascimento, e i banchieri privati svizzeri erano ancora importanti nel XVIII secolo. Le fondamenta della successiva grandezza svizzera furono poste nel corso dell’Ottocento. Negli anni cinquanta, sessanta e settanta furono fondate numerose nuove banche sul modello del “Crédit mobilier” francese, alcune delle quali destinate a divenire famose: la “Schweizerischer Kreditanstalt”, l’ “Eidgenossische Bank di Berna” e la “Schweizerische Bankgesellschaft”. Nella prima metà del XIX secolo, non si poteva dire che in Germania esistesse un vero e proprio sistema bancario. I numerosi stati sovrani erano l’ostacolo all’affermazione di un sistema finanziario unificato. La Prussia, la Sassonia e la Baviera possedevano banche di emissione monopolistiche che però erano attentamente controllate dai governi e si occupavano soprattutto delle finanze statali. Esistevano numerose banche private negli importanti centri commerciali di Amburgo, Francoforte, Colonia, Düsseldorf, Lipsia e della capitale prussiana, Berlino. A partire dagli anni quaranta, un certo numero di esse cominciò a dedicarsi a operazioni di investimento, fondando o finanziando nuove imprese industriali e in particolar modo le costruzioni ferroviarie. Era l’alba di una nuova era per il mondo bancario tedesco. La prima di queste istituzioni fu lo “Schaffhausen’scher Bankverein” di Colonia, fondato nel rivoluzionario 1848. Nel frattempo, il governo prussiano era tornato alla vecchia politica, e non autorizzò altre banche per azioni fino al 1870. Il primo esempio consapevole del nuovo tipo di banca fu la “Bank für Handel und Industrie zu Darmstadt” fondata nel 1853 nella capitale del Granducato di Assia-Darmstadt. La nuova banca seguì il modello del “Crédit mobilier” dal quale ricevette assistenza sia tecnica sia finanziaria. Di fronte al rifiuto del governo prussiano di autorizzare statuti di società per azioni per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero all’espediente della “Kommanditgesellschaft” che non richiedeva l’autorizzazione da parte del governo. Ne nacquero parecchie nel corso degli anni cinquanta e sessanta. Nel frattempo alcuni stati tedeschi minori ne autorizzarono la fondazione. Finalmente, nel 1869, la Confederazione della Germania del Nord adottò una legge modellata su quelle della Gran Bretagna e della Francia che liberalizzava la costituzione di società. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre 100 nuove “Kreditbanken” prima della crisi del 1873. Le più famose furono le “banche-D” — Deutsche Bank, Diskonto-Gesellschaft, Dresdner e Darmstädter — ciascuna con un capitale superiore ai 100 milioni di marchi e con sede a Berlino. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione istituzionale, la Reichsbank, fondata nel 1875. Godeva del monopolio dell’emissione di cartamoneta e agiva da banca centrale. Lo sviluppo del sistema bancario tedesco nella seconda metà dell’Ottocento fu una delle più straordinarie concomitanze dell’egualmente rapido processo di industrializzazione. Rimane a ogni 26 modo il fatto che le banche svolsero un ruolo determinante nello sviluppo industriale; all’inizio del XX secolo il sistema bancario tedesco era probabilmente il più potente al mondo. L’Austria sviluppò il proprio sistema bancario moderno più o meno nello stesso periodo della Germania. Essa aveva creato la banca nazionale austriaca già nel 1817, ma come istituto privilegiato, come le banche d’Inghilterra e di Francia, nella gestione del caos della finanza pubblica dopo le Guerre napoleoniche. Disponeva inoltre di alcune banche private, tra le quali la Rothschild era di gran lunga la più importante. La prima moderna banca a capitale azionario fu però la “Creditanstalt austriaca”, istituita nel dicembre del 1855. La sua creazione fu una diretta conseguenza della rivalità tra i fratelli Pereire e i Rothschild. I Pereire avevano fatto un’offerta nello stesso momento in cui acquisivano con successo le ferrovie di stato austriache per il “Crédit mobilier”, ma i Rothschild riuscirono a strappargliela. Oltre alla “Creditanstalt”, diverse altre importanti banche a capitale azionario sorsero a Vienna, Praga e Budapest. L’economia svedese era relativamente arretrata nella prima metà del XIX secolo, eppure il paese aveva una lunga tradizione bancaria. La “Sveriges Riksbank”, fondata nel 1656, fu in effetti la prima banca a emettere cartamoneta. Nella prima metà dell’Ottocento sorsero anche alcune banche di emissioni private. La storia moderna del sistema bancario svedese ebbe però inizio negli anni tra il 1850 e il 1870, e trasse ispirazione dall’esempio del “Crédit mobilier”. La “Stockholms Enskilda Bank”, fondata nel 1856, fu la prima banca svedese del nuovo tipo; fu seguita dalle “Skandinaviska Banken” nel 1864 e dalle “Stockholms Handelsbank” nel 1871. Queste tre banche si dedicarono a operazioni bancarie miste con notevole successo. Nella prima metà del XIX secolo, la Danimarca possedeva una banca centrale, la “Nationalbank”, di proprietà privata ma controllata dal governo. La storia moderna del suo sistema bancario comincia, come nel caso della Svezia, negli anni cinquanta, con il predominio di tre banche a capitale azionario, tutte con sede a Copenhagen: la “Privatbank”, le “Landsmanbanken” e le “Handelsbanken”. La Norvegia e la Finlandia dal lato finanziario non erano altrettanto progredite della Svezia e della Danimarca, ma in tutti e quattro i paesi, i livelli generali di analfabetismo erano sufficientemente bassi da mettere la popolazione in grado di sfruttare al meglio i vantaggi della disponibilità di servizi bancari. Anche i paesi latini del Mediterraneo costruirono i loro moderni istituti finanziari negli anni cinquanta e sessanta. La Spagna possedeva una banca di emissione, il Banco de San Carlos, fondato nel 1872 da un francese. Anche Barcellona possedeva una banca di emissione, risalente agli anni quaranta. I Pereire tentarono di aprire una filiale spagnola nel 1853, all’epoca della fondazione della Darmstädter, ma non riuscirono a ottenere l’autorizzazione dal reazionario governo dell’epoca. Nel 1855, dopo un mutamento nel governo aveva portato al potere una fazione “moderata”, essi convinsero il ministro delle finanze a presentare alle Cortes un disegno di legge che autorizzava il governo ad approvare statuti bancari sul modello di quello del “Crédit mobilier”. All’inizio dell’anno seguente, essi organizzarono la “Sociedad general de crédito mobiliario espanol”. Altri imprenditori francesi non persero tempo nel farsi avanti; spuntarono quasi simultaneamente su suolo spagnolo quattro istituti modellati sul “Crédit mobilier”, tre dei quali fondati con capitali francesi, incluso uno che godeva del sostegno dei Rothschild. Tutti questi istituti furono coinvolti nell’entusiasmo febbrile per la promozione e la costruzione di ferrovie, e diversi, in particolare il “Crédito mobiliare”, si impegnarono in altre iniziative industriali e finanziarie, una delle quali fu la prima moderna compagnia assicuratrice spagnola. Poco dopo aver ottenuto l’autorizzazione per il “Crédito mobiliario espanol”, i Pereire negoziarono con il governo portoghese per l’istituzione di una società analoga a Lisbona. La camera alta del parlamento portoghese rifiutò tuttavia di ratificare l’accordo. Quello stesso anno un altro avventuriero della finanza, anch’egli francese, che aveva collaborato con il governo per un prestito, ottenne l’autorizzazione per un “Crédit mobilier portoghese”, che ebbe tuttavia breve vita. Il fondatore andò in bancarotta nella crisi del 1857, e la società affondò con lui. Successivamente altri imprenditori francesi contribuirono alla creazione di due istituti di credito fondiario sull’esempio del “Crédit foncier”. 27 pubblico incompetente e inefficiente, conservato più per fini di censura, spionaggio ed erariali che per pubblica utilità. Il servizio postale moderno ebbe inizio nel 1840 quando sir Rowland Hill, direttore generale delle poste del Regno Unito, introdusse il servizio postale preparato alla tariffa unica di un penny. In pochi anni, sistemi simili furono adottati dalla maggioranza delle nazioni occidentali. Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India. Nel 1875, il primo ministro tory Benjamin Disraeli fece del governo un azionista di una delle maggiori imprese private dell’epoca rilevando le azioni della Compagnia del Canale di Suez, società di diritto francese, appartenute al kedivè d’Egitto. Fino al 1870, le sole scuole esistenti erano quelle gestite da fondazioni private o religiose che erano quasi tutte a pagamento. Una buona metà della popolazione non riceveva alcuna educazione formale. L’Education Bill del 1870 assicurava il sostegno statale alle scuole private ed ecclesiastiche esistenti che rispondessero a certi requisiti minimi. Solo nel 1891, l’istruzione divenne gratuita e universale fino all’età di 12 anni. Anche nell’istruzione superiore, l’Inghilterra era indietro rispetto al continente e agli Stati Uniti. Fino a quando nel XX secolo non furono istituite borse di studio statali, Oxford e Cambridge rimasero aperte solo ai figli dei ricchi. La Scozia, con una popolazione molto minore, possedeva quattro antiche e fiorenti università aperte a tutti i richiedenti diplomati. L’University College of London si trasformò nel 1898 in Università di Londra con l’aggiunta di nuovi colleges. Nel 1880, Manchester divenne la prima città di provincia ad avere una nuova università. I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di “paternalismo statale” o “étatisme”. In diversi di essi, lo stato era proprietario di foreste, miniere e persino imprese industriali. Nel XVIII secolo, man mano che diveniva evidente la superiorità della tecnologia britannica in determinate industrie, i governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi di tale tecnologia con lo spionaggio o altri mezzi. Sia la Francia sia la Prussia intrapresero la fusione di ghisa grezza mediante carbon coke in altiforni di proprietà statale. Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti comportò il coinvolgimento di tutti i governi. I britannici fecero il meno possibile lasciando la promozione, la costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata; ma persino in Gran Bretagna il parlamento fu costretto ad approvare la normativa che consentiva alle società di acquistare terre per i diritti di transito, e la legge sulle ferrovie del 1844 precisò tutta una serie di principi e regole, inclusa una tariffa massima per il trasporto passeggeri della terza classe. Negli altri paesi, i governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie. In Francia si svolse un lungo dibattito sulla questione della proprietà statale o privata; alla fine ebbero la meglio i sostenitori della proprietà privata, ma con numerose clausole condizionali che lasciarono ampio spazio all’iniziativa statale. Dopo la proclamazione dell’impero, Bismarck istituì l’Ufficio imperiale delle ferrovie, la cui funzione era di rilevare el società private e di impiegare consapevolmente le ferrovie come strumento di politica economica, concedendo ad esempio tariffe di favore alle merci destinate all’esportazione. La politica ferroviaria dell’Impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali a una preferenza per le società private e a un ritorno infine alla tesi statalista. In Svezia si giunse all’affermazione del principio della proprietà statale. Negli Stati Uniti, il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli stati fino alla guerra civile, ma subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle ferrovie transcontinentali. 4. RELAZIONI INTERNAZIONALI Al Congresso di Vienna del 1814-1815, gli uomini che avevano sconfitto Napoleone tentarono di riportare in vita l’ancien régime sia sul piano politico sia sociale ed economico, ma i loro sforzi si rivelarono vani. Una divergenza di interessi tra i vincitori, in particolare tra la Gran Bretagna e i sovrani restaurati dell’Europa continentale, affrettò il collasso del vecchio ordine così riaffermato. 30 Con le rivoluzioni del 1830 e del 1848, in Europa continentale il crollo definitivo dell’ancien régime divenne evidente dappertutto tranne che in Russia e nell’Impero ottomano. Queste rivoluzioni non furono eventi di natura prevalentemente economica, ma ebbero importanti conseguenze per l’economia, in primo luogo attraverso la formazione di nuovi schieramenti nelle forze politiche. In Francia, la rivoluzione del 1830 sostituì a un governo decisamente reazionario uno più compiacente nei confronti degli interessi commerciali e industriali, mentre nel 1848, le classi lavoratrici urbane fecero un risoluto tentativo di appropriarsi del potere politico per poi essere sconfitte dalle forze della repressione. La rivoluzione del 1830 nei Paesi Bassi meridionali determinò la nascita di una nuova nazione, il Belgio, che ben presto si dimostrò tra le più economicamente progredite del continente. Le rivoluzioni del 1848 nei paesi dell’Europa centrale ebbero come effetto la liquidazione degli ultimi resti del regime feudale. In tutte queste rivoluzioni, il nazionalismo si rivelò una forza determinante. In Germania, l’unificazione economica raggiunta con lo Zollverein sotto l’egemonia prussiana negli anni trenta precedette il compimento nel 1871 dell’unificazione politica, e contribuì a porre le fondamenta della potenza industriale tedesca. La mancanza di un’analoga unificazione economica prima della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 ostacolò considerevolmente l’ascesa del paese al rango di grande potenza. Nell’Impero ottomano, la conquista dell’indipendenza da parte della Grecia, della Serbia, della Romania e della Bulgaria pose questi paesi nella condizione di pedine nella partita a scacchi delle politica di potenza. Per la restante parte del secolo, avventurieri britannici, francesi, americani e tedeschi rivendicarono in vari modi le isole dei Mari del Sud. Seguì la spartizione dell’Africa da parte delle potenze coloniali europee e nel 1898, gli Stati Uniti si impossessarono delle poche colonie che ancora rimanevano alla Spagna. Tutte le potenze imperiali europee erano convinte che la loro supremazia politica fosse di beneficio all’espansione continua del sistema mondiale dei mercati e che era naturale che l’Europa fosse al centro di tale sistema. 31 Cap.10: Le economie europee si adeguano (o meno) alla crescita economica moderna 1. LA GRAN BRETAGNA Alla fine delle Guerre napoleoniche, la Gran Bretagna era di gran lunga il maggiore paese industriale del mondo. La sua posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale avevano fatto sì che essa si affermasse anche come principale potenza commerciale mondiale. La Gran Bretagna conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Nel 1870, essa controllava circa un quarto del commercio internazionale complessivo. Dopo il 1870, perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Gli Stati Uniti la superarono in quanto a produzione industriale totale nel corso degli anni ottanta, e lo stesso fece la Germania nel primo decennio del XX secolo. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale, ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Nell’industria siderurgica, la Gran Bretagna raggiunse il massimo relativo intorno al 1870. Nel 1890, gli Stati Uniti avevano conquistato la prima posizione, e nei primi anni del Novecento, la Gran Bretagna fu superata anche dalla Germania. Nell’industria del carbone, la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa. Dato il ruolo pionieristico della Gran Bretagna nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di consulenti, materiai e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un altro potente stimolo fu rappresentato dall’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e del legno al ferro. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore sia di quelle a vela nel corso degli anni cinquanta; negli anni ottanta al ferro cominciò a subentrare l’acciaio. Nei primi anni del XX secolo, l’industria britannica delle costruzioni navali produceva oltre 1 milione di tonnellate l’anno. Ciò equivaleva a oltre il 60% delle costruzioni mondiali. L’agricoltura era ancora il settore che impiegava il maggior numero di unità lavorative seguita al secondo posto dai servizi domestici. Le industrie tessili rappresentavano meno dell’8% della forza lavoro totale. I fabbri erano più numerosi degli operai dell’industria siderurgica primaria; i calzolai superavano come numero i minatori dell’industria del carbone. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della supremazia industriale nei confronti delle altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il 1870. Successivamente venne superata da Stati Uniti e Russia. Un esempio del declino relativo della Gran Bretagna potrebbe essere il fallimento della strategia imprenditoriale. È un fatto indiscutibile che alcuni degli imprenditori vittoriani erano individui dinamici e aggressivi: i nomi di William Lever e di Thomas Lipton erano gli esempi ben nota tutti. Da indizi numerosi sembra che nel complesso gli imprenditori del tardo periodo vittoriano non esibirono lo stesso dinamismo dei loro predecessori, man mano che i figli e i nipoti dei fondatori delle dinastie industriali adottavano lo stile di vita del gentiluomo agiato abbandonando l’amministrazione quotidiana delle loro ditte nelle mani di direttori stipendiati. L’introduzione tardiva e quasi controvoglia di nuove industrie ad alto tasso tecnologica, come quella della chimica organica, dell’elettricità, dell’ottica e dell’alluminio fu un segno di inerzia imprenditoriale. Ancor più rivelatrice è la risposta tardiva e parziale degli imprenditori britannici alle nuove tecnologie in quelle industrie di base di cui essi erano i maestri. Le industrie tessili resistettero a lungo contro l’introduzione di macchine di qualità superiore per la filatura e la tessitura inventate negli Stati Uniti e in Europa, e i produttori di soda Leblanc combatterono per trent’anni un’inutile battaglia di retroguardia contro il procedimento Solvay per la fabbricazione della soda mediante ammoniaca introdotto dal Belgio. 32 determinato la crescita: carbone, ferro, metalli non ferrosi, industria meccanica e tessili. Sempre per tutto il secolo, l’industria belga dipese pesantemente dall’economia internazionale: in definitiva, le esportazioni rappresentarono almeno il 50% del prodotto nazionale lordo. Un partner particolarmente importante era la Francia. 4. LA FRANCIA Di tutti i paesi della prima ondata industriale, la Francia fu quello con il modello di crescita più aberrante. Sebbene il modello francese di industrializzazione differisse da quello britannico e di altri paesi, il risultato fu non meno efficiente. L’aspetto più notevole del XIX secolo, nel caso della Francia, fu il modesto tasso di crescita demografica. Un secondo aspetto è la questione delle risorse. L’industrializzazione della Gran Bretagna, del Belgio e successivamente degli Stati Uniti e della Germania dipese in larga misura dalle abbondanti riserve di carbone. La Francia ne era molto meno ricca; inoltre, le caratteristiche dei suoi giacimenti rendevano più costoso il loro sfruttamento. Questi fatti ebbero importanti ripercussioni su altre industrie, come quella dell’energia idraulica, dell’acciaio, dell’alluminio, dell’automobile e dell’aviazione. La crescita economica moderna cominciò in Francia nel XVIII secolo. Il secolo si chiuse per la Gran Bretagna con l’inizio della “rivoluzione industriale” (nel settore cotoniero), mentre la Francia fu colpita dagli spasimi di un grande sconvolgimento politico, la Rivoluzione francese. E quest’importante differenza influenzò i risultati relativi delle due economie per gran parte del XIX secolo. Per venticinque anni, dal 1790 al 1815, con il breve intervallo della tregua dovuta al Trattato di Amiens, la Francia fu quasi costantemente coinvolta in quella che è stata definita la “prima guerra moderna”. La domanda bellica determinò l’espansione della produzione economica. Nell’industria cotoniera furono introdotti filatoi meccanici, e macchine a vapore furono messe in funzione. Anche la Gran Bretagna entrò in guerra nel 1793, ma dovette sopportare un’emorragia molto inferiore delle forze lavorative. In virtù del suo controllo dei mari, le sue esportazioni crebbero in maniera sensazionale, affrettando la modernizzazione tecnologica delle principali industrie. Dopo una depressione postbellica piuttosto severa, che colpì tutta l’Europa occidentale continentale e toccò persino la Gran Bretagna, l’economia francese riprese a crescere a tassi ancor più elevati che nel XVIII secolo. Nel XIX secolo, il prodotto nazionale lordo crebbe probabilmente con un tasso medio compreso tra l’1,5% e il 2% annuo. La lenta crescita demografica francese spiega in grande misura la crescita apparentemente lenta dell’economia nel suo complesso. Per tutta la prima metà del secolo, l’industria manuale, artigianale e domestica costituì almeno i tre quarti della produzione “industriale” totale. Furono poste le basi di un’importante industria meccanica; verso il 1850, il valore delle esportazioni di macchine superò quello delle importazioni in un rapporto di oltre 3 a 1. Fra il 1815 e il 1845, il consumo di cotone grezzo si quintuplicò. Le industrie chimica, del vetro, della porcellana e della carta, pure in rapida crescita, erano senza eguali in quanto a varietà e qualità dei loro prodotti. Molte nuove industrie nacquero o furono velocemente importate in questo periodo: l’illuminazione a gas, i fiammiferi, la fotografia, la galvanoplastica, la manifattura di gomma vulcanizzata. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni facilitarono la crescita del commercio interno ed estero. Le crisi politiche ed economiche del 1848-1851 causarono un’interruzione del ritmo dello sviluppo economico. La crisi della finanza pubblica e privata paralizzò le costruzioni ferroviarie e le altre opere pubbliche. La produzione di carbone crollò improvvisamente del 20%. Le importazioni si dimezzarono; le esportazioni diminuirono leggermente. Con il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo Impero, l’anno seguente, la crescita economica francese riprese il vecchio corso a un ritmo accelerato. La guerra del 1870-1871 fu un disastro sia dal punto di vista militare sia economico, ma l’economia francese si riprese in una maniera che sbalordì il mondo. Fu colpita dalla depressione del 1873 meno delle altre nazioni in via di industrializzazione, e ne uscì con maggiore rapidità. Cominciò allora un nuovo boom che durò fino al 1881. In questo periodo, la rete ferroviaria crebbe da circa 3.000 chilometri a oltre 27.000. Le costruzioni ferroviarie rappresentarono un efficace 35 stimolo per il resto dell’economia. In quel periodo, la produzione del carbone e quella del ferro si quadruplicarono. Il commercio estero crebbe di oltre il 5% annuo, e la Francia aumentò leggermente la propria quota del commercio mondiale totale. Nel periodo compreso tra il 1851 e il 1881, la ricchezza e il reddito della Francia crebbero ai massimi ritmi del secolo, con una media annua compresa tra il 2 e il 4%. La depressione che ebbe inizio nel 1882 durò più a lungo e costò probabilmente alla Francia più di tutte le precedenti depressioni del XIX secolo. Il commercio estero ebbe nel complesso una contrazione e rimase virtualmente stazionario per oltre quindici anni, e con la perdita dei mercati esteri anche l’industria nazionale entrò in stagnazione. La prosperità tornò finalmente con l’estensione dei bacini minerari della Lorena e l’affermarsi di nuove industrie come quella dell’elettricità, dell’alluminio, del nichel e delle automobili. La Francia tornò a godere di un tasso di crescita paragonabile a quello del 1815-1848. La “Belle époque” fu quindi un periodo di prosperità materiale e fioritura culturale. Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con il più basso ritmo di urbanizzazione. La causa principale di questo fenomeno fu la lenta crescita demografica complessiva. Numerosi fattori sono stati tirati in ballo per tentare di spiegare la percentuale relativamente elevata di persone impiegate in agricoltura, ma si è generalmente trascurato il fatto che all’inizio di questo secolo, la Francia era il solo paese industrializzato europeo autosufficiente dal punto di vista alimentare, e anzi con un’eccedenza da esportare. Per quanto riguarda la dimensione e la struttura dell’impresa, la Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. C’erano numerosissime piccole e medie aziende, che davano lavoro alla grande maggioranza dei salariati. Tra le aziende di dimensioni ridotte, quelle con meno di 10 operai si concentravano nelle tradizionali industrie artigianali, quali quella alimentare, dell’abbigliamento e della lavorazione del legno. Non devono sfuggire due ulteriori caratteristiche della dimensione relativamente ridotta delle imprese francesi: l’alto valore aggiunto (articoli di lusso) e la dispersione geografica. La Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. 5. LA GERMANIA Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione, la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. In Renania, Sassonia, Slesia e nella città di Berlino esistevano piccole concentrazioni industriali, per lo più però di tipo artigianale o protoindustriale. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico, e l’esistenza di numerose entità politiche diverse, con sistemi monetari separati, politiche commerciali distinte e altri impedimenti agli scambi commerciali, era causa di ulteriori ritardi. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, l’Impero tedesco unificato era la più potente nazione industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e derivati, dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La sua produzione di carbone era seconda soltanto a quella britannica, e la Germania era all’avanguardia nella produzione di vetro, strumenti ottici, metalli non ferrosi, tessili e altri prodotti di manifattura. Possedeva inoltre una delle reti ferroviarie più dense. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in tre periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo, che dall’inizio del secolo arriva a comprendere la costituzione nel 1833 dello Zollverein, registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in Gran Bretagna, Francia e Belgio e la determinazione delle condizioni legali e intellettuali essenziali per la transizione al moderno ordine industriale. Nel secondo, un periodo di imitazione consapevole e di prestiti che durò fino al 1870 circa, assunsero consistenza le vere e proprie fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. La Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua a occupare ancor oggi. In ognuno di questi periodi svolsero un’azione importante le influenze esterne. 36 La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone, aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi. Durante l’epoca napoleonica, l’influenza francese fu molto forte nella Confederazione del Reno, che abbracciava gran parte della Germania centrale. Persino la Prussia adottò molte istituzioni legali ed economiche francesi. Editti successivi abolirono le corporazioni e abrogarono altre restrizioni alle attività commerciali e industriali, migliorarono la posizione giuridica degli ebrei, riformarono il sistema fiscale e snellirono l’amministrazione centrale. Altre riforme diedero alla Germania il primo sistema educativo moderno. Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse alla formazione dello Zollverein (letteralmente, unione doganale o tariffaria). Le fondamenta furono poste nel 1818, quando fu decisa l’applicazione di una tariffa unica per tutta la Prussia, con l’obiettivo primario dell’efficienza amministrativa e di un maggiore gettito fiscale. Esso raggiunse due risultati: in primo luogo, abolì tutti i dazi interni e le barriere doganali, creando un “mercato comune” tedesco; in secondo luogo, rese possibile la determinazione, da parte della Prussia, di una tariffa comune verso l’estero. In generale, lo Zollverein seguì una politica commerciale “liberale”. Se lo Zollverein rese possibile un’economia tedesca unificata, le ferrovie la trasformarono in realtà. Le rivalità tra i vari stati tedeschi affrettarono altresì la costruzione di ferrovie. Di conseguenza, la rete ferroviaria tedesca crebbe molto più rapidamente di quella francese dove esisteva sì un governo unico, ma si era indecisi sulla questione dell’iniziativa privata o statale. Le costruzioni ferroviarie obbligarono inoltre gli stati a riunirsi per accordarsi su itinerari, prezzi e altre questioni tecniche, rafforzando la cooperazione interstatale. Fino agli anni quaranta, la produzione tedesca di carbone fu più bassa di quella francese e persino di quella del Belgio, e fino agli anni sessanta anche la produzione di ferro fu più bassa di quella francese. Dopo quelle date, i progressi in entrambe le industrie furono estremamente rapidi, e dovuti in buona parte all’estensione della rete ferroviaria. La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del carbone, e la chiave della crescita di quest’ultima fu il bacino carbonifero della Ruhr. Poco prima della Prima guerra mondiale, la Ruhr produceva circa i due terzi del carbone tedesco. Prima del 1850, la regione era molto meno importante della Slesia, della Saar, della Sassonia e persino dell’area introno ad Acquisgrana. La produzione commerciale cominciò nella valle della Ruhr vera e propria nel corso degli anni ottanta del XVIII secolo. Le miniere erano poco profonde, le tecniche semplici, e la produzione trascurabile. Negli anni trenta dell’Ottocento furono scoperti i giacimenti “nascosti” a nord della valle della Ruhr. Il loro sfruttamento richiedeva capitali più ingenti, tecniche più sofisticate e una maggiore libertà d’impresa. Tutto ciò fu infine fornito in larga misura da ditte straniere. Dal 1850, la produzione carbonifera della Ruhr crebbe con grande rapidità. Ancora nel 1840, l’industria siderurgica tedesca possedeva un aspetto primitivo. La produzione dell’acciaio Bessemer iniziò nel 1863. Nel 1895, la produzione tedesca di acciaio superò quella britannica, per divenire più. Del doppio nel 1914. L’industria tedesca era grande non solo in termini di prodotto totale, ma anche nella dimensione delle unità produttive. L’anno 1870-1871, così drammatico nella storia della politica per la Guerra franco-prussiana, la caduta del Secondo Impero in Francia e la nascita di un nuovo Secondo Impero in Germania, fu meno sensazionale per la storia dell’economia. L’unificazione economica era un fatto compiuto, e già nel 1869 era iniziata una nuova impennata ciclica di investimenti, scambi e produzione industriale. Nel solo 1871, furono costruite 207 nuove società per azioni. Nel processo, gli investitori tedeschi cominciarono a ricomporre le azioni di aziende tedesche in mani straniere e persino a investire all’estero. Questa iperattività si arrestò bruscamente con la crisi finanziaria del giugno 1873. Una volta esauritisi gli effetti della depressione, la crescita riprese però con ancora maggior vigore. La produzione di carbone, ferro e acciaio era notevole. Fino al 1860, l’industria chimica tedesca fu quasi inesistente. Stimolati dalla nuova letteratura sull’uso della chimica in agricoltura, un’invenzione tedesca, i coltivatori richiedevano anche fertilizzanti artificiali. Gli imprenditori chimici poterono avvalersi della tecnologia più aggiornata in un’industria in rapida evoluzione. L’esempio più notevole fu quello dell’avvento dei composti 37 Sia l’argomentazione di Smith a favore del libero scambio sia quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche. Nel 1820, un gruppo di mercanti londinesi presentò al parlamento una petizione che invocava il libero commercio internazionale. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette “Corn Laws”, le leggi sul grano che imponevano dazi sulle importazioni. La crescita demografica e lo sviluppo dell’urbanizzazione rendevano virtualmente impossibile l’autosufficienza alimentare, ma il parlamento resisteva pervicacemente ai tentativi di ritoccare le “Corn Laws”, È con l’abrogazione delle leggi sul grano che cominciò a prendere forma quello che sarebbe stato, almeno fino al 1914, il moderno sistema politico britannico. I “Whigs”, noti in seguito come liberali, divennero il partito del libero scambio e delle manifatture, mentre i “Tories”, noti anche con il nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi fondiari e, in seguito, dell’imperialismo. Sempre in quel periodo, il parlamento fece tabula rasa di gran parte della vecchia legislazione “mercantilistica”, come le leggi sulla navigazione, che furono abrogate nel 1849. Si affermò un’intransigente politica liberoscambista. Dopo il 1860, rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di bilancio su prodotti. Non britannici quali brandy, vino tabacco, caffè, tè e pepe. Nonostante molte delle tariffe fossero completamente eliminate e fosse stato ridotto l’importo di quelle che ancora rimanevano, l’aumento degli scambi totali fu tale che le entrate doganali del 1860 furono maggiori di quelle del 1842. 2. L’ETÀ DEL LIBERO SCAMBIO Il secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato commerciale, il Trattato anglo-francese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito tradizionalmente una politica protezionistica; ciò era stato particolarmente vero nella prima metà dell’Ottocento, quando il governo francese aveva cercato di proteggere l’industria tessile cotoniera dalla concorrenza britannica. Parte della politica proibizionistica francese era consistita nel divieto perentorio di importare tessuti di cotone e di lana e nell’applicazione di tariffe molto elevate su altre merci. Il governo di Napoleone III, salito al potere con il colpo di stato del 1851, desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran Bretagna. L’obiettivo era quello di guadagnare status politico e rispetto diplomatico. Dopo la Guerra di Crimea, nella quale la Gran Bretagna e la Francia erano state alleate, Napoleone III desiderava cementare questi nuovi legami d’amicizia. Sebbene in Francia avesse tradizionalmente prevalso una politica protezionistica, una forte corrente di pensiero sosteneva il liberalismo economico. Uno dei capi di questa scuola era l’economista Michel Chevalier, che aveva molto viaggiato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e possedeva una mentalità cosmopolita. Un’altra circostanza politica rese più allettante la scelta del trattato. Secondo la costituzione del 1851, l’approvazione di ogni legge che riguardasse la nazione spettava al parlamento bicamerale, mentre il sovrano, l’imperatore, deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere, le cui clausole avevano in Francia forza di legge. Napoleone aveva cercato negli anni cinquanta di ridurre la forte impronta protezionistica della politica francese. In Gran Bretagna, si riteneva a quel tempo che i vantaggi di una politica liberoscambista sarebbero stati così evidenti che altre nazioni l’avrebbero spontaneamente adottata. Di conseguenza, un trattato negoziato da Cobden e Chevalier verso la fine del 1859 fu firmato nel gennaio del 1860. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti i dazi sull’importazione di merci francesi a eccezione del vino e del brandy; questi ultimi erano considerati prodotti di lusso per i consumatori britannici, per cui la Gran Bretagna manteneva su di essi dazi ridotti. Dati i saldi legami economici con il Portogallo, anch’esso produttore vinicolo, la Gran Bretagna fu attenta a salvaguardare la posizione di preferenza del Portogallo nel mercato britannico. La Francia revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i dazi su un’ampia varietà di merci britanniche a un massimo del 30%. I francesi rinunciarono in tal modo al protezionismo estremo in favore di una sua forma moderata. 40 Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese terzo, la controparte nel trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa. In altri termini, entrambi i contraenti del Trattato anglo-francese avrebbero beneficiato del trattamento accordato alla “nazione più favorita”. La Gran Bretagna non aveva potere contrattuale per negoziare con altri paesi, mentre la Francia applicava ancora alti dazi sulle importazioni di merci dagli altri paesi. Nei primi anni sessanta, la Francia stipulò trattati con il Belgio, lo Zollverein, l’Italia, la Svizzera, la Scandinavia e quasi tutti i paesi europei a eccezione della Russia. Il risultato di questi nuovi trattati fu che se la Francia applicava un dazio più basso sulle importazioni di ferro dallo Zollverein, i produttori britannici beneficiavano automaticamente di queste tariffe ridotte. Alla serie di trattati negoziati dalla Francia con tutta Europa, si aggiunsero quelli stipulati tra gli altri paesi europei, tutti contenenti la clausola della nazione più favorita. Conseguenza di ciò era che ogni qual volta entrava in vigore un trattato aveva luogo una riduzione generale della tariffe. Le conseguenze di questa rete di trattati commerciali furono considerevoli. Il commercio internazionale crebbe di circa il 10% l’anno per diversi anni consecutivi. Gran parte dell’aumento dipese dal commercio intereuropeo, ma crebbero anche gli scambi tra l’Europa e il resto del mondo. I trattati in tal modo favorirono l’efficienza tecnica e aumentarono la produttività incoraggiando la diffusione di nuove tecniche e nuovi prodotti. 3. LA GRANDE DEFLAZIONE E IL RITORNO AL PROTEZIONISMO Il tasso di crescita del commercio europeo ebbe una flessione tra il 1873 e il 1897, per poi risollevarsi nuovamente fino allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Benché la produzione mondiale e i commerci continuassero a espandersi, il suddetto periodo può considerarsi una “grande depressione” a causa della sua insolita lunghezza e vista l’assenza di guerre di un certo rilievo rispetto alla storia precedente dell’Europa. Poiché anche la successiva depressione mondiale del 1929-1933 è stata chiamata “Grande depressione”, gli storici dell’economia preferiscono chiamare l’episodio precedente “Grande deflazione”. L’espressione ha il merito di porre l’accento sul fatto che in un periodo di produzione generalmente crescente si verificò una peculiare diminuzione generale dei prezzi. In concomitanza con una crescente integrazione dei mercati dovuta alla riduzione dei costi di trasporto. Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Nell’economia preindustriale, le brusche fluttuazioni dei prezzi erano stati fenomeni di carattere generalmente locale o regionale, provocati da cause naturali (siccità, inondazioni ecc.) che si ripercuotevano sui raccolti. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e del commercio internazionale, le fluttuazioni cominciarono a essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. La depressione che seguì il panico del 1873 fu probabilmente la più grave e la più generale che si fosse verificata fino a quel momento nel mondo industriale. Gli industriali la attribuirono a torto all’accresciuta concorrenza internazionale frutto dei trattati commerciali e avanzarono nuove e più insistenti richieste di protezione. Il settore agricolo si associò a questa richiesta di protezione. Prima del 1870, essi non erano stati disturbati dalla concorrenza dei paesi d’oltremare. Nel 1850, le esportazioni statunitensi di frumento e farina, destinate soprattutto alla Indie occidentali, ammontavano a 8 milioni di dollari; nel 1870 a 68 milioni, destinati in buona parte all’Europa; nel 1880 a 226 milioni di dollari. Per la prima volta gli agricoltori europei si trovavano a fronteggiare una dura concorrenza sui propri mercati. La situazione dell’agricoltura tedesca in questo frangente era molto critica. La Germania era divisa all’epoca in un occidente in via di industrializzazione e un oriente agricolo. Gli Junker delle Prussia orientale si erano dedicati da tempo all’esportazione di grano in Europa occidentale, compresa la Germania occidentale, attraverso il Baltico. La popolazione tedesca stava crescendo rapidamente e con l’industrializzazione anche le città stavano espandendosi velocemente. Gli Junker desideravano perciò conservare l’esclusiva del grande e crescente mercato. 41 Otto von Bismarck, creatore e cancelliere del nuovo Impero tedesco colse quest’opportunità. Gli industriali della Germania occidentale da tempo reclamavano a gran voce una protezione tariffaria; ora che anche gli Junker prussiani si erano schierati al loro fianco, Bismarck decise di “accedere” alla richiesta, denunciò i trattati commerciali dello Zollverein con la Francia e altre nazioni e diede la sua approvazione a una nuova legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria sia per l’agricoltura. Fu questo il primo grande passo sulla strada del “ritorno al protezionismo”. Gli interessi protezionistici francesi, che non avevano mai accettato il Trattato Cobden-Chevalier, ripresero forza sul piano politico dopo la sconfitta nella Guerra franco-prussiana e ancor più con i dazi tedeschi del 1879. Nel 1881, essi riuscirono a ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo. L’agricoltura francese era dominata dai piccoli proprietari contadini i quali, nel sistema politico della Terza Repubblica, avevano il diritto di voto e il potere politico. Dopo che le elezioni del 1889 ebbero mandato alla Camera dei deputati una maggioranza favorevole al protezionismo, questa riuscì a far approvare nel 1892 la famigerata tariffa Méline. Questa tariffa è stata dipinta come estremamente protezionistica. Una guerra tariffaria con l’Italia, dal 1887 al 1898, arrecò gravi danni al commercio francese e ancora maggiori a quello italiano. L’Italia aveva seguito l’esempio tedesco nel ritorno al protezionismo e aveva deciso di discriminare in particolare le importazioni francesi. La mossa fu poco saggia, in quanto la Francia rappresentava per l’Italia il maggiore mercato estero. Per rappresaglia, i francesi imposero a loro volta dei dazi discriminatori. Anche la Germania e la Russia scatenarono una breve guerra tariffaria tra il 1892 e il 1894. Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi. L’Austria-Ungheria negoziò dei trattati con la Francia e alcuni altri paesi ma conservò un grado di protezione più elevato degli altri e ritornò rapidamente all’ultraprotezionismo. La Russia non era mai entrata nella rete di trattati commerciali inaugurata dal Trattato Cobden-Chevalier e nel 1891 introdusse i dazi virtualmente proibitivi. Gli Stati Uniti avevano oscillato tra dazi molto alti e molto bassi, ma nel complesso avevano seguito una politica di dazi contenuti. Dopo la guerra civile, con il radicale ridimensionamento dell’influenza politica del Sud e l’aumento di quella degli interessi manifatturieri del Nordest e del Midwest, essi divennero uno dei paesi più protezionistici e tali rimasero in larga misura fino a dopo la Seconda guerra mondiale. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio e di queste la più notevole fu la Gran Bretagna. Sorsero dei movimenti politici che si battevano per un “commercio giusto” e una “preferenza imperiale”. I Paesi Bassi si specializzarono nella lavorazione di merci importate da oltreoceano quali zucchero, tabacco e cioccolato destinati alla riesportazione in Germania e negli altri paesi continentali; essi mantennero perciò una posizione prevalentemente liberoscambista e lo stesso fece il Belgio. La Danimarca fu apparentemente danneggiata dalle importazioni su larga scala di grano a buon mercato; tuttavia i danesi passarono molto rapidamente dalla coltivazione dei cereali all’allevamento del bestiame e alle produzione casearia e di pollame. Anche la Danimarca rimase perciò nel blocco liberoscambista. Le nazioni di tutto il mondo e in special modo quelle europee, dipendevano come non mai dal commercio internazionale. Nei maggiori paesi sviluppati — Gran Bretagna, Francia e Germania — le esportazioni rappresentavano tra il 15 e il 20% del reddito nazionale totale. Gli Stati Uniti erano nel 1914 il terzo paese al mondo in quanto a esportazioni. Anche diversi paesi latinoamericani erano coinvolti nei mercati mondiali per via delle loro esportazioni di commestibili e materie prime, destinati per oltre il 50% all’Europa. L’economia mondiale all’inizio del XX secolo era più integrata e interdipendente di quanto fosse mai stata in precedenza o di quanto lo sarebbe stata fino a molto dopo la Seconda guerra mondiale. 4. IL GOLD STANDARD INTERNAZIONALE Secondo alcuni, l’alto grado di integrazione raggiunto dall’economia mondiale nella seconda metà del XIX secolo dipese criticamente da un’adesione generale al gold standard internazionale. Secondo altri, quest’integrazione fu prima di tutto una conseguenza del ruolo centrale della Gran 42 avevano pochi debiti con l’estero e ancor meno crediti. Nei decenni centrali del secolo, le province occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, che contribuirono alla nascita di industrie possenti e all’avvio di un boom di eccedenze delle importazioni che fornirono i fondi con i quali la Germania fu in grado di ripagare i capitali esteri e di accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò di avvalersi dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera; nel 1887 chiuse la Borsa valori di Berlino alle obbligazioni russe e in seguito spinse la Deutsche Bank a intraprendere la costruzione della “Ferrovia dell’Anatolia. I paesi industrializzati minori dell’Europa occidentale le cui economie nel corso del secolo avevano beneficiato di investimenti esteri, erano divenuti alla fine del secolo creditori netti come la Germania. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri, gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore. Dopo la guerra civile, gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono a investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali e agricole. Nei successivi quattro anni di guerra, i prestiti americani agli alleati portarono gli Stati Uniti al primo posto tra i paesi creditori. In Europa, il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa fu costruita soprattutto con capitali esteri. Gli stranieri investirono ingentemente anche nelle banche russe a capitale azionario e nelle grandi industrie metallurgiche. I prestiti maggiori furono contratti dal governo russo che usò il denaro non solo per costruire ferrovie, ma anche per finanziare l’esercito e la flotta. Dopo il 1917, gli investitori persero tutto. La maggior parte dei paesi europei contrasse prestiti nel corso del XIX secolo. La Germania e alcuni dei paesi sviluppati più piccoli da debitori netti diventarono creditori netti. Si può affermare che a livello pro capite, gli investimenti in Svezia, Danimarca e Norvegia fossero i maggiori d’Europa. Le somme prese in prestito furono investite saggiamente oltre che ai buoni progressi dal lato dell’istruzione fatti registrare dalle popolazioni di quei paesi, anche del rapido sviluppo di quelle economie nella seconda metà del XIX secolo. Come i paesi scandinavi, anche l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada beneficiarono di ingenti investimenti esteri in rapporto al numero di abitanti. Fino al 1914, il Canada aveva ricevuto l’equivalente di 3,85 miliardi di dollari, in gran parte dalla Gran Bretagna. L’Australia aveva avuto 1,8 miliardi di dollari e la Nuova Zelanda circa 300 milioni. In tutti e tre i casi, la maggior parte dei fondi furono investiti in titoli pubblici e confluirono nel finanziamento di beni capitale di utilità sociale (ferrovie, installazioni portuali, servizi pubblici, ecc.). L’Australia esportava anche discrete quantità di frumento e metalli grezzi. Canada, Nuova Zelanda e Australia svilupparono industrie di servizi e in qualche modo le manifatture, ma rimasero dipendenti dall’Europa e in particolare dalla Gran Bretagna. Gli investimenti effettuati in America Latina e in Asia furono molto inferiori. Inoltre in queste aree mancava un’analoga consistente quantità di capitale umano da mettere all’opera e le strutture istituzionali delle loro economie non erano propizie allo sviluppo economico. In queste zone e in Africa, il risultato principale degli investimenti esteri fu lo sviluppo di fonti di materie prime per le industrie europee. La Gran Bretagna era dovunque la fonte principale dei capitali: il 42% in America Latina, il 50% in Asia e oltre il 60% in Africa. Alla ricerca di nuovi mercati esteri, gli imprenditori delle prime nazioni industriali crearono in tutto il mondo nuove forme d’impresa basandosi sulle proprie esperienze nei paesi di provenienza. La prima metà della globalizzazione economica coinvolse tutto il mondo fino agli sconvolgimenti della Grande guerra. 45 Cap.12: La diffusione dello sviluppo in Europa: 1848-1914 Prima del 1850, esistevano singoli nuclei di industrie moderne, ma non si può dire che fosse in atto un vero e proprio processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo, in particolare in Svizzera, nei Paesi Bassi, in Scandinavia e nell’Impero austro-ungarico, più debolmente in Italia, nei paesi iberici e nell’Impero russo, mentre fu quasi nullo nei nuovi stati balcanici e nel decadente Impero ottomano. Nei paesi di più tarda industrializzazione, il carbone era scarso o del tutto assente. La produzione carbonifera spagnola, austriaca e ungherese era a malapena sufficiente. La Russia possedeva enormi giacimenti, ma solo nel 1914 ebbe inizio uno sfruttamento intensivo. Poiché l’impiego principale del carbone nei paesi scarsamente provvisti di tale materia prima era come combustibile per locomotive, piroscafi e caldaie a vapore fisse e poiché praticamente tutto il carbone dei paesi più avanzati nel gruppo, è evidente che la domanda costituì il fattore determinante nel favorire un consumo relativo più alto. L’aumento del consumo non fu una causa bensì una conseguenza del successo del processo di industrializzazione. 1. I PICCOLI VICINI EUROPEI 1.1 LA SVIZZERA Come la Germania fu l’ultimo tra i paesi della prima ondata industriale, così la Svizzera fu il primo della seconda. Sebbene la Svizzera avesse già acquisito diverse importanti risorse che avrebbero svolto un ruolo determinante nella sua rapida industrializzazione dopo il 1850, la sua struttura economica era ancora prevalentemente preindustriale. Nel 1850, oltre il 57% della forza lavoro era impiegato soprattutto in attività agricole; gli operai di fabbrica erano meno del 4%. La Svizzera era appena agli inizi dell’età delle ferrovie e possedeva meno di 30 chilometri di strade ferrate inaugurate da poco tempo. Il paese non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, a un’effettiva unione monetaria, a un sistema postale centralizzato e a uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è inoltre povera di risorse naturali a eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname ed è praticamente priva di carbone. Le montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile un buon 25% del suo territorio. Gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei livelli di vita più elevati di tutta Europa. La popolazione passò dai 2 milioni scarsi dei primi anni del XIX secolo a poco meno di 4 milioni nel 1914. La densità della popolazione era inferiore a quella degli altri paesi, ma ciò è in gran parte spiegabile con la natura del territorio. A causa della scarsità di terra arabile, gli svizzeri avevano praticato da tempo la combinazione di industria domestica, agricoltura e produzione casearia. La Svizzera dipendeva dunque dai mercati internazionali. Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto a un’insolita combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Esisteva una forza lavoro abile, adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. A ciò si aggiunse il giustamente famoso Istituto svizzero di tecnologia, fondato nel 1851, dal quale uscirono intelligenze addestrate e soluzioni ingegnose per i difficili problemi tecnici che si presentarono nel tardo XIX secolo. La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera che era basata però su lavorazioni di tipo artigianale e sul lavoro a tempo parziale. Nell’ultimo decennio del secolo, l’industria della filatura del cotone fu virtualmente annientata dalla concorrenza della più progredita industria britannica. L’industria si riprese e riuscì persino a prosperare. Per quanto più tradizionale dell’industria cotoniera, quella della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo più della precedente sia come numero di addetti sia a livello di esportazioni. Essa attraversò inoltre un processo di ammodernamento tecnologico. La Svizzera possedeva industrie della lana e del lino piuttosto piccole e produceva capi di abbigliamento, scarpe e altri articoli in cuoio. Il loro valore corrente passò dai circa 150 milioni di franchi degli anni trenta agli oltre 600 milioni del 1912-1913. 46 L’industria casearia, rinomata per il formaggio, si trasformò da un’attività artigianale a un processo di fabbrica. Sviluppò inoltre la produzione di latte condensato e diede origine a due industrie sorelle, la produzione di cioccolato e quella di alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, la manifattura di orologi da muro e da polso, continuò a essere caratterizzata dal lavoro manuale di artigiani ad altissima specializzazione e da una minuziosa divisione del lavoro. L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. La Svizzera non possedeva industrie pesanti o chimiche degne di menzione. Nel 1859 e 1860, dopo la scoperta dei coloranti artificiali, due piccole ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire l’industria locale dei nastri. Esse svilupparono inoltre varie specialità farmaceutiche. Probabilmente nessun altro paese europeo fu più radicalmente trasformato della Svizzera dall’avvento delle ferrovie, ma in nessun altro paese le ferrovie si rivelarono nel complesso un così cattivo affare. Gli investitori svizzeri apparentemente presagirono quest’ultima possibilità e si mostrarono estremamente riluttanti a impegnarsi, preferendo le ferrovie statunitensi e lasciando le proprie in gran parte a disposizione dei capitalisti stranieri. Le costruzioni ferroviarie cominciarono in grande stile nel corso degli anni cinquanta; nel 1882 fu completata la prima delle gallerie alpine, quella del Gottardo. Negli anni novanta, la maggior parte delle ferrovie si trovava sull’orlo della bancarotta. Nel 1898, il governo svizzero rilevò le ferrovie dai rispettivi proprietari a una frazione del loro costo reale. Poco dopo ne intraprese l’elettrificazione. Il successo svizzero dipese dall’identificazione di mercati di nicchia caratterizzati da una domanda di prodotti pregiati ad alto prezzo e dal soddisfacimento di tali mercati per mezzo di una forza lavoro qualificata che faceva uso di macchinari specializzati. 1.2. I PAESI BASSI E LA SCANDINAVIA Le caratteristiche comuni dei paesi scandinavi che li fa considerare in blocco non sono economiche, ma culturali. I Paesi Bassi hanno più in comune con la Danimarca di quanto i due paesi non abbiano con la Norvegia o con la Svezia. Tutti i quattro paesi, dopo aver perso molto terreno rispetto ai paesi più avanzati nella prima metà del secolo, fecero registrare un rapido salto in avanti nella seconda, in particolare negli ultimi due o tre decenni. Norvegia e Svezia rimasero a livelli inferiori pur vantando un tasso di crescita in linea con quello medio dei paesi dell’Europa settentrionale. Tutti questi paesi, come il Belgio e la Svizzera, avevano popolazioni modeste. All’inizio del XIX secolo, la Danimarca e la Norvegia avevano meno di 1 milione di abitanti, la Svezia e i Paesi Bassi meno di 2,5 milioni. La densità di popolazione variava fortemente. I Paesi Bassi avevano uno dei valori più alti d’Europa, mentre la Norvegia e la Svezia erano tra i paesi meno densamente popolati, persino meno della Russia. La Danimarca era nel mezzo, ma più vicina ai Paesi Bassi. Sia nel 1850 sia nel 1914, i paesi scandinavi vantavano la percentuale più elevata di adulti in grado di leggere e scrivere in Europa e nel mondo, mentre i Paesi Bassi erano ben al di sopra della media europea. Questo fatto ebbe un valore inestimabile nell’aiutare le economie nazionali a trovare le loro nicchie nelle correnti in perenne e rapida evoluzione dell’economia internazionale. Il fatto più significativo è che tutti e quattro i paesi, come la Svizzera ma a differenza del Belgio, erano privi di carbone. La Svezia era la nazione più fortunata a causa dei suoi ricchi giacimenti di ferro, fosforoso o meno, le vaste distese di foreste da legname e l’energia idraulica. Anche la Norvegia possedeva molto legname, alcuni giacimenti di metalli e un enorme potenziale di energia idraulica. L’energia idraulica fu un fattore significativo per lo sviluppo della Svezia e della Norvegia nella prima parte del XIX secolo, ma divenne estremamente importante con l’imbrigliamento dopo il 1890 dell’energia idroelettrica. Danimarca e Paesi Bassi erano quasi altrettanto privi di energia idraulica di quanto non lo fossero di carbone. Avevano a disposizione un ammontare non trascurabile di energia eolica, che però ben difficilmente poteva servire da fondamento per lo sviluppo della grande industria. La posizione geografica fu un elemento importante per tutti e quattro i paesi. A differenza della Svizzera, circondata da terre, tutti avevano un accesso diretto al mare. Ciò ebbe notevoli implicazioni per un’importante risorsa naturale internazionale, il pesce, oltre che per la 47 I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo economico dell’impero. Poiché gran parte del paese era montagnosa, o circondata da montagne, il trasporto terrestre era costoso e quello per via d’acqua inesistente nelle regioni montane. A differenza dei paesi già industrializzati, l’Austria- Ungheria disponeva di un ridotto numero di canali. Il corso del Danubio e di alcuni altri grandi fiumi portava a sud e a est, vale a dire in direzione opposta rispetto ai mercati e ai centri industriali. Solo a partire dagli anni trenta, con l’avvento della navigazione fluviale a vapore, tali corsi d’acqua poterono essere usati per la navigazione in risalita. Le prime ferrovie furono localizzate nell’Austria propriamente detta e in Boemia. L’Ungheria ne ebbe in misura maggiore dopo il 1850. L’effetto delle ferrovie fu di consolidare la già avviata divisione geografica del lavoro all’interno dell’impero. Negli anni sessanta, oltre metà delle merci trasportate dalle ferrovie ungheresi consisteva di grano e farina. Budapest divenne il maggiore centro europeo per la trasformazione del grano in farina, seconda nel mondo solo a Minneapolis. La città inoltre produceva ed esportava macchine per la macinatura del grano e alla fine del secolo cominciò a produrre anche macchine elettriche. L’impero possedeva alcune industrie pesanti. Esisteva da secoli, nella regione alpina, un’industria siderurgica alimentata dal carbone di legna, mentre la Boemia aveva una lunga tradizione metallurgica sia nei metalli ferrosi sia in quelli non ferrosi. Sorsero anche diverse industrie chimiche. Alcune industrie piuttosto sofisticate si svilupparono anche nella Bassa Austria, in particolare a Vienna e sobborghi. Nella metà occidentale (austriaca) della monarchia, l’industria continuò a crescere, gradualmente se non spettacolarmente, mentre quella della metà orientale (ungherese) registrò un rapido balzo in avanti dopo il 1867. 2. L’EUROPA MERIDIONALE E ORIENTALE Il modello di industrializzazione dei restanti paesi europei può essere illustrato in modo più sommario. Una caratteristica comune a tutti questi paesi fu l’insufficiente grado di industrializzazione fino al 1914. Se si guarda a singole regioni invece che agli aggregati nazionali, emergono cospicue varianti regionali, analoghe a quelle francesi, tedesche, asburgiche e persino britanniche. Le poche “isole di modernità” rimasero circondate da un mare di arretratezza. Una delle ragioni di questo fenomeno è una loro seconda caratteristica comune: i livelli spaventosamente bassi del capitale umano. Tra i paesi maggiori l’Italia, la Spagna e la Russia erano agli ultimi posti sia per quanto riguarda la percentuale di adulti in grado di leggere e scrivere sia per la frequenza delle scuole primarie e la situazione non era migliore nei paesi minori dell’Europa sudorientale. Questi paesi arretrati avevano una terza caratteristica comune che si rifletteva pesantemente sulle loro possibilità di sviluppo economico: l’assenza di una significativa riforma agraria. Verso la metà dell’Ottocento, la percentuale della forza lavoro agricola variava da un minimo del 20% in Gran Bretagna al 50-60% negli altri paesi di più rapida industrializzazione, per arrivare al 60% circa in italia, a più del 70% in Spagna e a un massimo di oltre l’80% in Russia e nell’Europa sudorientale. Per i paesi in questione è possibile individuare una quarta caratteristica comune, riassumibile nel fatto che tutti furono soggetti in vario grado a regimi autocratici, autoritari, corrotti o inefficienti. 2.1. LA PENISOLA IBERICA L’evoluzione economica della Spagna e del Portogallo nel XIX secolo è sufficientemente uniforme da rendere conveniente trattare i due paesi come fossero uno solo. Entrambi emersero dalle Guerre napoleoniche con sistemi economici primitivi e con regimi politici reazionari. La presenza di questi ultimi innescò nel 1820 dei moti rivoluzionari in entrambi i paesi. Entrambi i paesi erano afflitti da una finanza pubblica in condizioni deplorevoli. Durante le guerre civili, entrambe le parti in lotta contrassero prestiti all’estero per finanziare lo sforzo militare. In Spagna, dopo le rovine e le distruzioni delle Guerre napoleoniche, la perdita delle colonie americane determinò una drastica riduzione delle entrate statali tra il 1800 e il 1830. Prima della fine del secolo, entrambi i paesi dovettero rifiutare in più di un’occasione di riconoscere almeno una parte dei loro debiti. La bassa produttività dell’agricoltura rimase una debolezza fondamentale di entrambe le economie. Ancora nel 1910, il settore primario e in particolare l’agricoltura dava lavoro al 60% circa della forza lavoro in Spagna e almeno altrettanto in Portogallo. Negli anni quaranta, un decreto governativo che 50 imponeva il pagamento delle tasse in moneta contante invece che in natura scatenò una rivolta dei contadini, in quanto non esistevano mercati in cui questi ultimi potessero vendere i loro prodotti. Nella prima metà del secolo, la Spagna tentò una riforma agraria che si rivelò un fiasco completo. Il governo confiscò le terre della chiesa, delle municipalità e degli aristocratici che si erano schierati nel partito opposto durante le guerre civili, con l’intenzione di rivenderle ai contadini; le esigenze delle finanze pubbliche erano però tali che il governo finì con il venderle all’asta al miglior offerente; il risultato fu che la maggior parte della terra finì nelle mani dei già ricchi, sia aristocratici sia esponenti della borghesia urbana. I contadini dovettero assistere inerti all’avvicendamento tra due gruppi di proprietari assenteisti, che non portò né a miglioramenti tecnologici né a investimenti in beni capitali. Nessuna riforma agraria fu tentata invece in Portogallo. Un’industria cotoniera moderna si sviluppò dopo il 1790 in Catalogna, a Barcellona e dintorni e grazie ai dazi protezionistici e al mercato coloniale protetto di Cuba e Portorico, prosperò fino alla perdita di queste ultime colonie nel 1900. In Andalusia e nella provincia di Oporto del Portogallo esistevano industrie vinicole orientate all’esportazione. Nel 1850, vino e brandy costituivano il 28% delle esportazioni spagnole. Dopo il 1820, la crescente domanda estera di piombo per i lavori idraulici diede inizio allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di piombo della Spagna meridionale. Già nel 1827, le esportazioni di piombo in pani rappresentavano oltre l’8% delle entrate totali dall’estero. Tra il 1869 e il 1898, la Spagna fu il maggiore produttore mondiale di piombo. Nel 1900, le esportazioni di minerali e metalli costituivano circa un terzo delle esportazioni totali. Purtroppo per la Spagna, le esportazioni erano in gran parte di metalli grezzi (piombo e rame) o minerali (ferro). I capitali esteri predominavano anche in altri settori moderni dell’economia, quali le attività bancarie e le ferrovie. Il sistema bancario era dominato dalla Banca di Spagna, che era prima di tutto uno strumento delle finanze governative e solo pochi chilometri di ferrovie erano stati costruiti nel corso degli anni quaranta. Negli anni cinquanta, il nuovo regime decise di accordare uno speciale incoraggiamento ai capitali stranieri che intendessero creare banche e ferrovie. Sfortunatamente, una volta ultimate le linee principali e cessata la garanzia sugli interessi, le ferrovie non avevano ancora sviluppato un traffico sufficiente a pareggiare i costi di esercizio e la maggior parte di esse fece bancarotta. Le ferrovie erano state costruite in gran parte con materiali e attrezzature d’importazione da ingegneri stranieri e di conseguenza non ebbero, come le miniere, effetti stimolanti sull’economia. Esse cominciarono a fruttare non prima della fine del secolo. Il Portogallo ebbe la sua prima ferrovia, una breve linea che partiva da Lisbona, nel 1856 e la storia delle sue ferrovie fu persino più triste di quella spagnola. Costruite con capitali esteri, le ferrovie portoghesi non sfuggirono alla frode, alla corruzione e alla bancarotta e fecero ben poco per aiutare la crescita economica del paese. La Spagna possedeva diversi giacimenti di carbone, ma non di elevata qualità e localizzati in modo infelice ai fini dello sfruttamento industriale. Negli ultimi due decenni del XIX secolo, una piccole industria siderurgica e dell’acciaio si sviluppò lungo la costa settentrionale del paese nelle vicinanze di Bilbao. 2.2. L’ITALIA Fino al 1860, la frase di Metternich sull’Italia — “un’espressione geografica” — era appropriata non solo a livello politico, ma anche economico. Non esisteva un’ “economia italiana”. Rimasta fin dall’inizio dell’età moderna nelle retrovie del cambiamento economico, divisa e dominata da potenze straniere, l’Italia aveva perso da lungo tempo la sua supremazia negli affari economici. Guerre e intrighi dinastici l’avevano trasformata in un campo di battaglia per gli eserciti stranieri. Il Congresso di Vienna restaurò lo sconcertante mosaico di principati nominalmente indipendenti, tutti però, compresi lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie, sotto il controllo o l’influenza dell’Impero asburgico. L’Austria incorporò la Lombardia e Venezia: due delle regioni economicamente più progredite, già centri di importanti industrie e traffici commerciali. Il Regno di Sardegna, l’unico vero stato indipendente, era una miscela curiosa, una nazione artificiale composta da quattro grandi regioni, con climi, risorse, istituzioni e persino lingue differenti. L’isola 51 di Sardegna languiva nelle acque stagnanti del feudalesimo; i proprietari terrieri assenteisti non avevano alcun interesse a migliorare i propri possedimenti, con il risultato che la sua popolazione analfabeta viveva nelle condizioni più primitive. La Savoia apparteneva culturalmente ed economicamente alla Francia. Genova, centro commerciale dello stato, aveva resistito per secoli come repubblica indipendente fino all’avvento di Napoleone. Il Piemonte costituiva una continuazione geografica della pianura padana, ma l’altitudine e il clima lo distinguevano anche dalla Lombardia. Prima del 1850, possedeva poche industrie se si eccettuano alcuni setifici e qualche stabilimento metallurgico, ma sotto la guida di diversi intraprendenti proprietari terrieri, la sua agricoltura divenne la più avanzata e prospera della penisola. I differenziali economici regionali erano in Italia particolarmente marcati. Il gradiente nord-sud, ancor oggi evidente, esisteva fin dal Medioevo. La produttività agricola era più alta al nord, specialmente in Piemonte e nella valle del Po, dove esistevano inoltre varie industrie. Fu nel nord economicamente più progredito che ebbe inizio il movimento di unificazione nazionale. Dopo le rivoluzioni fallite e i tentativi di unificazione degli anni venti, trenta e del 1848-1849 repressi dagli Asburgo, nel Regno di Sardegna venne alla ribalta un personaggio eccezionale, il conte Camillo Benso di Cavour, proprietario terriero e imprenditore agricolo progressista che aveva anche promosso una ferrovia, un giornale e una banca e che nel 1850 divenne ministro della marina, del commercio e dell’agricoltura del piccolo stato da poco divenuto monarchia costituzionale. L’anno seguente ebbe anche il portafoglio delle finanze e nel 1852 divenne primo ministro. Sottolineò ripetutamente che l’ordine finanziario e il progresso economico erano le due “condizioni indispensabili” affinché il Piemonte potesse assumere, agli occhi dell’Europa, la guida della Penisola italiana. Per conseguire questi risultati, egli riteneva necessaria l’assistenza economica degli altri paesi e perciò anche la presenza di capitale straniero. Subito dopo aver assunto la carica nel 1850, negoziò trattati commerciali con tutti i più importanti paesi commerciali e industriali d’Europa. Tra il 1850 e il 1855, le esportazioni crebbero del 50%. Per il resto del decennio, i francesi, incoraggiati da Cavour, costruirono ferrovie, fondarono banche e altre società a capitale azionario e investirono nel crescente debito pubblico del regno. Una parte del debito pubblico era stata contratta per liquidare le sfortunate guerre del 1848-1849 e una più consistente per preparare la successiva guerra vittoriosa del 1859, in cui il Regno di Sardegna, appoggiato militarmente e finanziariamente dalla Francia, sconfisse l’Impero austriaco e spianò la strada al regno unificato d’Italia del 1861. Con la maggior parte della forza lavoro impegnata in attività agricole a bassa produttività, l’Italia aveva una lunga strada da percorrere. L’unificazione alleviò uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo economico, la frammentazione del mercato. L’estensione della legislazione progressista e del sistema amministrativo piemontese al regno allargato non poteva mutare d’un sol colpo il carattere arretrato delle istituzioni o l’analfabetismo e l’ignoranza della popolazione del resto della penisola. Nessuna legge poteva ovviare alla povertà di risorse naturali. Purtroppo per l’Italia, gli sforzi di Cavour, in quegli anni frenetici, lo condussero alla morte prematura tre soli mesi dopo la proclamazione del regno, privando in tal modo la nazione della sua guida saggia e ispirata. I suoi successori mancavano della sua esperienza, del suo acume e soprattutto della sua fine comprensione delle questioni finanziarie ed economiche. L’Italia continuò a dipendere dagli investimenti e dalle relazioni economiche con l’estero, soprattutto con la Francia, ma le iniziative del governo alienarono ripetutamente gli investitori stranieri e trascinarono l’Italia nel 1887 in una drammatica guerra tariffaria decennale con la Francia. Verso la fine degli anni novanta, dopo la conclusione della guerra tariffaria con la Francia e una nuova immissione di capitali esteri, questa volta dalla Germania, l’Italia fece registrare una modesta accelerazione della crescita industriale che durò fino a dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. L’Italia non era ancora un paese industriale, ma il suo cammino era iniziato con molto ritardo. Sempre negli anni novanta del XIX secolo, la pressione demografica determinò una massiccia emigrazione soprattutto in direzione degli Stati Uniti, ma anche dell’Argentina e di altri paesi dell’America Latina. 2.3. L’EUROPA SUDORIENTALE I cinque piccoli paesi che occupavano l’angolo sudorientale del continente europeo — Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia — erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti 52 Cap.13: La diffusione dello sviluppo oltre l’Europa: 1848-1914 Gli sterminato territori dell’Asia e dell’Africa furono interessati solo marginalmente dall’espansione commerciale del XIX secolo. Gran parte dell’America Latina continuò a beneficiarne, nonostante la disintegrazione di quello che fu l’Impero spagnolo in una serie di nazioni indipendenti. Sebbene ampie zone dell’Asia, in particolare l’India e l’Indonesia, fossero state aperte all’influenza e alla conquista europee fin dall’inizio del XVI secolo, gran parte del continente era rimasto isolato. Il vasto e antico Impero cinese, il Giappone, la Corea e i principati dell’Asia sudorientale, tentarono di rifuggire dalla civiltà occidentale, che consideravano inferiore. Essi rifiutarono di accettare rappresentanti diplomatici occidentali, espulsero o perseguitarono i missionari cristiani e ridussero il commercio con l’Occidente a una quota insignificante. Il clima di gran parte dell’Africa, soprattutto di quella racchiusa tra i tropici, era insopportabile per gli europei e quei pochi che si avventuravano in spedizioni contraevano malattie sconosciute e spesso letali. Pochi erano i fiumi navigabili. La virtuale assenza di comunità politiche organizzate, sul modello europeo e lo scarso sviluppo economico rendevano il continente africano poco attraente agli occhi dei commercianti e degli imprenditori europei. 1. IL GIAPPONE L’ultima e più sorprendente presenza nell’elenco dei paesi in via di industrializzazione nel XIX secolo fu quella del Giappone. Nella prima metà del secolo, il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze straniere. Dall’invio del Seicento, il governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste, che si avvicinavano sotto taluni aspetti a quelle feudali dell’Europa medievale. Nel XIX secolo, il livello tecnologico del Giappone era approssimativamente quello dell’Europa all’invio del Seicento. Nonostante queste limitazioni, l’organizzazione dell’economia era notevolmente sofisticata, con mercati attivi e un sistema creditizio. Il livello di analfabetismo era sostanzialmente più basso di quello dei paesi dell’Europa meridionale e orientale. Nel 1853 e ancora nel 1854, il commodoro Matthew Perry, ammiraglio della flotta statunitense, entrò con le sue navi nella Baia di Tokyo e minacciando di bombardare la città, costrinse lo shogun Tokugawa ad allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti. Subito dopo, altre nazioni occidentali ottennero privilegi simili a quelli accordati agli Stati Uniti. La debolezza dello shogunato Tokugawa di fronte alle prepotenze occidentali portò a rivolte xenofobe e a un movimento per riportare l’imperatore a una posizione centrale nel governo. Questo movimento, guidato da ambiziosi giovani samurai, fu provvidenzialmente favorito dall’ascesa al trono di un vigoroso e intelligente giovane imperatore, Mutsuhito. Questo avvenimento segna la nascita del Giappone moderno. Non appena conquistato il potere, il nuovo governo mutò il tono del movimento xenofobo. Invece di tentare un’espulsione degli stranieri, il Giappone cooperò con loro, ma tenendoli a rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione burocratica altamente centralizzata modellata sul sistema francese. I metodi industriali e finanziari furono importati da molti paesi. Giovani intelligenti furono mandati all’estero a studiare i metodi occidentali nella politica e nel governo, nella scienza militare, nella tecnologia industriale, nel commercio e nella finanza, con l’obiettivo di adottare i più efficienti. Furono fondate nuove scuole su modello occidentale ed esperti stranieri furono invitati ad addestrare i loro colleghi giapponesi. Il governo fu attento a porre limiti rigorosi alla loro permanenza, badando a che essi lasciassero il paese non appena scaduti i termini per evitare che acquistassero posizioni di vantaggio. Uno dei problemi più fastidiosi che il nuovo governo si trovò a fronteggiare fu quello finanziario. Il governo intraprese la creazione di un nuovo sistema bancario che sostituisse la rete informale di credito dell’epoca Tokugawa. In armonia con la sua politica di cercare il meglio di ogni cosa, esso scelse come modello il “National Banking System” degli Stati Uniti, istituito dal governo dell’Unione nelle ultime fasi della guerra civile come strumento di finanza bellica. Con questo sistema, nel 1876, erano state fondate 153 banche nazionali. L’anno seguente scoppiò la Rivoluzione di Satsuma, una sollevazione antigovernativa scatenata da uno dei maggiori clan occidentali; il governo riuscì a domare la ribellione ma a un costo pesante e gonfiando 55 ulteriormente la circolazione sia di denaro governativo inconvertibile sia di banconote nazionali, causando in tal modo un’inflazione selvaggia. Il nuovo ministro delle finanze decise che il difetto era nel sistema bancario e ricostruì completamente la struttura bancaria. Creò una nuova banca centrale, la “Banca del Giappone”, modellata sull’ultimo grido in fatto di banche centrali, la “Banque nazionale de Belgique”, che, sebbene di proprietà in gran parte privata, era sotto stretto controllo governativo. La Banca del Giappone agiva anche come agente fiscale per conto del tesoro. Il Giappone disponeva di limitate risorse naturali. Più piccolo dello stato della California, questo paese insulare è anche in gran parte montuoso, cosicché la percentuale di terra arabile sul totale è ancora più bassa di quella della California. Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell’alimentazione, integrato dal pesce e dagli altri prodotti marini delle brulicanti acque costiere. Il Giappone possedeva alcuni giacimenti di carbone e rame. Per la maggior parte, fu il settore agrario quello che dovette sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a finanziare le importazioni. Le due tradizionali industrie tessili giapponesi basate sulle materie prime nazionali, la seta e il cotone, andarono incontro a destini molto differenti. Dopo l’apertura degli scambi, l’industria cotoniera fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati provenienti dall’Occidente. L’industria della seta sopravvisse, la produzione di filato grezzo dai bozzoli conobbe un periodo di prosperità. Favorita dall’introduzione di attrezzature moderne importate dalla Francia, la produzione di seta grezza crebbe. Si sviluppò anche il commercio dei tessuti di seta. L’altra grande fonte di esportazioni agricole era il tè. Lo stesso si verificò e in misura ancor più accentuata con il riso. L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi. I mercati più importanti erano la Cina e la Corea. Le industrie pesanti — siderurgica, dell’acciaio, meccanica e chimica — ebbero uno sviluppo più lento, permesso da ingenti sussidi e protezioni tariffarie, ma nel 1914, il Giappone era in gran parte autosufficiente in questi settori. La Prima guerra mondiale accrebbe naturalmente in misura notevole la domanda dei prodotti di queste industrie e aprì contemporaneamente nuovi mercati. La guerra fu una manna per l’intera economia giapponese. Entrando in guerra a fianco degli alleati, il Giappone riuscì a impadronirsi delle colonie del Pacifico e delle concessioni cinesi già appartenute alla Germania. Le esportazioni, nel 1915, erano già arrivate al 22%. La transizione economica del Giappone da società arretrata e tradizionale a grande nazione industriale all’epoca della Prima guerra mondiale fu un’impresa notevolissima. La transizione economica giapponese ebbe anche conseguenza politiche. Nel 1894-1895, il Giappone sconfisse agevolmente la Cina in una breve guerra ed entrò nel novero dei paesi imperialisti annettendo territori cinesi (Taiwan) e affermando la propria influenza sulla Cina stessa. Appena dieci anni dopo, il Giappone sconfisse la Russia sia in mare sia in terra. Quest’impresa ebbe come ricompensa l’acquisizione della metà meridionale dell’isola di Sakhalin, delle concessioni russe su Port Arthur e della penisola cinese di Liaotung e il riconoscimento da parte russa dell’influenza giapponese in Corea, annessa dal Giappone nel 1910. Nel XIX secolo, la Corea era un regno semiautonomo nominalmente sotto il dominio cinese, anche se i giapponesi da lungo tempo avevano avanzato delle rivendicazioni. L’aspra rivalità tra Cina e Giappone per il predominio della Corea, scoraggiarono i diplomatici e i commercianti occidentali dall’avanzare proprie pretese su quel paese. 2. LA CINA Nel XIX secolo, la decadenza interna aveva seriamente indebolito la dinastia Qing, che aveva governato la Cina fin dalla metà del XVII secolo. Gli interessi commerciali britannici fornirono il pretesto iniziale per l’intervento. Il tè e le sete cinesi avevano un ampio mercato in Europa, ma i commercianti britannici poterono offrire ben poco in 56 cambio finché non scoprirono che i cinesi avevano una spiccata predilezione per l’oppio. Il governo cinese ne proibì l’importazione, ma il commercio prosperò per mezzo di contrabbandieri e di doganieri corrotti. Quando nel 1839, un onesto ufficiale di Canton sequestrò e fece bruciare un grosso carico di oppio, i commercianti britannici invocarono una rappresaglia. Corniciò così la Guerra dell’oppio (1839-1842), che terminò con l’imposizione del Trattato di Nanchino. In base a esso, la Cina dovette consegnare agli inglesi l’isola di Hong Kong, accettare di aprire altri cinque porti al commercio sotto supervisione consolare, fissare un dazio uniforme del 5% sulle importazioni e pagare una considerevole indennità. Il commercio dell’oppio proseguì. La facilità con cui i britannici ebbero la meglio sui cinesi incoraggiò altri paesi a richiedere trattati ugualmente favorevoli, che furono accordati. Nel 1857-1858, una forza congiunta anglo-francese occupò diverse grandi città e costrinse la Cina a ulteriori concessioni, alle quali parteciparono anche gli Stati Uniti e la Russia. La discesa del prezzo dell’argento nei paesi che adottarono il gold standard regalò però alla Cina un boom stimolato dalle esportazioni, soprattutto il cotone. Crebbero anche le esportazioni di seta, ma le colorazioni locali sbarrarono l’ingresso alla tecnologia moderna che avrebbe potuto accrescere la produttività. Un migliore accesso ai mercati internazionali era impedito dal fatto che la famiglia imperiale si rifiutava di costruire ferrovie per paura di una maggiore influenza occidentale. Si trattò di un vero e proprio ostruzionismo. Invece di procedere a una vera e propria spartizione, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Russia, gli Stati Uniti e il Giappone si accontentarono di trattati speciali che assicuravano porti, sfere d’influenza e cessioni a lungo termine di territorio cinese. Le grandi potenze stabilirono nel 1899 di seguire in Cina una politica di “porte aperte” non discriminando i commerci di altre nazioni nelle rispettive sfere d’influenza. Le continue umiliazioni portarono a un ultimo scoppio di violenza xenofoba nota come “Rivolta dei Boxer” (1900-1901). “Boxer” era l’appellativo popolare dato ai membri della società segreta dei “pugni di giustizia e di concordia”, il cui obiettivo era di cacciare tutti gli stranieri dalla Cina. Da quel momento, l’Impero cinese si trovò in uno stato quasi palpabile di decadenza. Esso cadde nel 1912 sotto i colpi della rivoluzione condotta da Sun Yat-sen, un medico di educazione occidentale, il cui programma era “nazionalismo, democrazia e socialismo”. Le potenze occidentali non tentarono di interferire nella rivoluzione né se ne preoccuparono. La nuova repubblica cinese rimase debole e divisa. 3. L’INDIA Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, la Compagnia assunse funzioni di governo territoriale dopo la vittoria riportata sull’esercito del nababbo del Bengala e l’acquisizione del controllo sulle sue entrate. La Compagnia era in parte motivata dall’obiettivo di trovare una compensazione per i profitti commerciali perduti allorché il governo metropolitano l’aveva privata nel 1813 del monopolio del commercio con l’India (dopo la prima sconfitta di Napoleone) e poi anche del monopolio del commercio con la Cina. C’era poi l’obiettivo di estendere la produzione di oppio destinato all’esportazione, soprattutto dopo il Trattato di Nanchino che aveva ampliato il mercato cinese dell’oppio. La Compagnia aveva scoperto che poteva aumentare sia le proprie entrate fiscali sia i ricavi commerciali incoraggiando la coltivazione del papavero tra i contadini indiani. L’opinione pubblica britannica divenne tuttavia consapevole dell’anomalia di una compagnia privata che esercitava un’autorità militare e ne pretese lo scioglimento e il trasferimento delle sue funzioni di governo all’India Office. Il dominio sempre più esteso della Compagnia delle Indie orientali sull’India durò un secolo intero, dal 1757 al 1857, mentre quello dell’India Office sulla colonia più vasta che il mondo avesse mai visto durò fino al 1947. Il primo cinquantennio di dominio britannico portò i contadini indiani a contatto con l’economia globale e consentì l’introduzione di nuovi prodotti molto ricercati sui mercati di esportazione, come cotone, tè, juta e persino riso e frumento, al posto dell’oppio. Il sostegno dato dai britannici alle costruzioni ferroviarie in tutto l’India facilitò ai contadini indiani l’accesso ai mercati mondiali. Il completamento nel 1869 del Canale di Suez diede ulteriore impulso all’espansione del commercio indiano con la Gran Bretagna oltre che con il resto d’Europa. Il miglioramento della produttività agricola e lo sviluppo dei commerci internazionali sul finire del XIX secolo portarono a una crescita sia della popolazione sia del reddito pro capite. Sempre in quel periodo i britannici assunsero il controllo della Birmania e degli stati malesi che 57 prodotti tropicali richiesti dall’economia mondiale in crescita. L’Africa rimase tuttavia la regione più povera al mondo e sempre più distanziata dalle altre. 5. SPIEGAZIONI DELL’IMPERIALISMO L’Asia e l’Africa non furono le sole aree del mondo soggette allo sfruttamento imperialista. Il Giappone perseguì politiche imperialistiche molto simili a quelle europee. Gli Stati Uniti adottarono prima della fine del secolo una politica colonialista. L’imperialismo di alcuni dominions britannici fu molto più aggressivo di quello della stessa madrepatria. Si distingue talvolta tra imperialismo e colonialismo. Né la Russia né l’Austria-Ungheria ebbero colonie oltremare, ma entrambi erano imperi nel senso che dominavano popoli stranieri senza il loro consenso. Le cause dell’imperialismo furono molte e complesse. Una delle spiegazioni più popolari dell’imperialismo moderno parla di necessità economica. Esso è stato infatti definito “imperialismo economico”. La spiegazione è la seguente: 1. la concorrenza nel mondo capitalistico si intensifica, determinando la costituzione di grandi imprese e l’eliminazione delle piccole; 2. il capitale si accumula sempre più velocemente nelle grandi imprese; 3. man mano che il capitale si accumula e la produzione delle industrie capitalistiche rimane invenduta, i capitalisti ricorrono all’imperialismo per ottenere il controllo politico su aree nelle quali possono investire i capitali e vendere i prodotti in eccedenza. È questa nelle linee essenziali la teoria marxista dell’imperialismo, o più precisamente la teoria leninista. Lenin pubblicò la sua teoria nel 1915 nel popolarissimo opuscolo intitolato “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”. Lenin non fu il primo a proporre un’interpretazione economica dell’imperialismo. Egli attinse in misura notevole da John A. Hobson, il critico liberale britannico dell’imperialismo. Jules Ferry fu il principale responsabile delle maggiori conquiste coloniali francesi. È interessante notare che nel difendere le proprie azioni di fronte al parlamento francese Ferry non fece ricorso ad argomentazioni di tipo economico, insistendo invece sul prestigio e sulle esigenze militari. I sostenitori dell’imperialismo affermavano che le colonie avrebbero assicurato nuove fonti di materie prime e assorbito la popolazione in rapida crescita delle nazioni industriali. Le colonie erano situate per lo più in climi che risultavano oppressivi agli europei. Gli emigranti preferirono in grande maggioranza dirigersi verso nazioni indipendenti, come gli Stati Uniti o l’Argentina. È vero che in qualche caso le colonie assicuravano nuove fonti di materie prime, ma l’accesso a queste ultime non richiedeva un controllo politico. Le colonie avevano popolazioni troppo sparse e troppo povere per fungere da grossi mercati. Un grande mercato era quello dell’India britannica, che nonostante la sua povertà acquistava prodotti europei in grande quantità, ma non esclusivamente dalla Gran Bretagna. I tedeschi vendevano molto più all’India che a tutte le loro colonie messe insieme. Nonostante i dazi protettivi, le nazioni industriali e imperialiste d’Europa continuarono a commerciare soprattutto tra loro. Il più grande mercato estero per l’industria tedesca era la Gran Bretagna. Anche gli Stati Uniti acquistavano e vendevano in grande misura nei paesi europei. La spiegazione più importante dell’imperialismo come fenomeno economico è forse quella che accenna all’investimento di capitali in eccesso, almeno secondo la teoria marxista. Alcuni dei paesi imperialisti erano in realtà dei debitori netti; oltre alla Russia, tra questi paesi figuravano l’Italia, la Spagna, il Portogallo, il Giappone e gli Stati Uniti. Theodore Roosevelt parlò in modo magniloquente di “destino manifesto” e l’espressione di Kipling “stirpi inferiori senza legge” rifletteva il tipico atteggiamento europeo e americano nei confronti delle razze non bianche. Le radici storiche del razzismo e dell’etnocentrismo europei erano comunque più profonde della biologia darwiniana. La stessa attività dei missionari cristiani era un’espressione di una fede antica nella superiorità morale e culturale dell’Europa e dell’Occidente. L’imperialismo moderno deve essere considerato un fenomeno psicologico e culturale oltre che politico ed economico. 60 STORIA ECONOMICA DEL MONDO Dalla preistoria a oggi Cap.7: L’alba dell’industria moderna All’inizio del Settecento diverse regioni europee avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale, in gran parte nel settore tessile. All’inizio degli anni settanta del secolo scorso è stato coniato un nuovo termine, “protoindustrializzazione”. Il primo esempio che autorizzi a parlare di “protoindustrializzazione” fu l’industria del lino nelle Fiandre. Si trattava di un’attività rurale che si svolgeva nelle case di campagna, organizzata da imprenditori di Gand e di altri centri commerciali che ne esportavano i prodotti verso mercati lontani. La forza lavoro era costituita da unità familiari composte da marito, moglie e figli. Lo stesso termine è stato successivamente ridefinito ed esteso sia geograficamente sia cronologicamente fino a comprendere altre industrie dalle caratteristiche analoghe. In alcuni casi esso è stato visto come preludio a un vero e proprio sistema di fabbrica. Le caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispersa, solitamente rurale, organizzata da imprenditori urbani che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. I lavoratori devono acquistare almeno una parte dei loro mezzi di sussistenza. La protoindustrializzazione e i termini a essa correlati fanno riferimento in primo luogo alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Ben prima dell’avvento del sistema di fabbrica nell’industria cotoniera, esistevano altre industrie di grandi dimensioni e ad alta concentrazione di capitale. Le manufactures royales francesi erano situate generalmente in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore. Analoghe “protofabbriche” furono organizzate da nobili proprietari terrieri. Grandi proprietari terrieri avevano assunto un ruolo imprenditoriale anche nell’industria del carbone, estraendo il minerale localizzato nei propri terreni. Le ferriere, situate solitamente in aree rurali ricche di legname e di materiali ferrosi, impiegavano stavolta centinaia, persino migliaia di operai. Anche le fabbriche di piombo, rame e vetro erano spesso organizzate su grande scala e lo stesso valeva per i cantieri navali. l’Arsenale di Venezia, fondato nel Medioevo, fu una delle più antiche imprese industriali di grosse dimensioni della storia. Per tutte queste realizzazioni furono eclissate nel XVIII secolo dalla nascita di nuove forme di attività industriale. 1. CARATTERISTICHE DELL’INDUSTRIA MODERNA Una delle differenze più ovvie tra la società preindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura. Nel periodo della vera e propria industrializzazione, che va grosso modo dall’inizio del XVIII secolo alla prima metà del XX secolo, la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario, riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata sia dei livelli di produzione. La trasformazione fu rilevata per la prima volta in Inghilterra, poi in Scozia, e la Gran Bretagna è stata giustamente definita “la prima nazione industriale”. Un’espressione più pittoresca ma meno utile, quella di “rivoluzione industriale”, è stata usata per indicare gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento; tale espressione è nello stesso tempo imprecisa e fuorviante. Il suo uso distoglie l’attenzione delle evoluzioni contemporanee ma differenti dei paesi dell’Europa continentale. Nel corso di questa trasformazione, chiamata più esattamente “nascita dell’industria moderna”, emersero gradualmente alcune caratteristiche che distinguono in modo netto l’industria “moderna” da quella “premoderna”. Esse sono: A) l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica; B) l’introduzione di nuove fonti di energia inanimata, in particolare i combustibili fossili; C) l’impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura. 1 I miglioramenti più significativi dal punto di vista tecnologico furono quelli che videro l’utilizzazione di macchine e dell’energia meccanica per l’esecuzione di compiti svolti in precedenza molto più lentamente e laboriosamente dal lavoro umano e degli animali, o che non erano stati svolti affatto. Nel XVIII secolo si verificò un notevole aumento dell’uso dell’energia idraulica in industrie quali quella della macinatura del grano, tessile e metallurgica; e in seguito abbiamo assistito alla proliferazione di una grande varietà di motori primi, dai piccoli motori azionati dall’energia elettrica domestica ai colossali reattori nucleari. Ma gli sviluppi più importanti nell’applicazione dell’energia nelle prime fasi dell’industrializzazione consistettero nella sostituzione della legna e del carbone di legna con il carbon fossile come combustibile e nell’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei trasporti. L’uso del carbone e del coke nei processi di fusione ridusse considerevolmente il costo dei metalli e ne moltiplicò gli usi, mentre l’applicazione della chimica creò una serie innumerevole di nuovi materiali “artificiali” o sintetici. 2. “RIVOLUZIONE INDUSTRIALE”: UN’ESPRESSIONE EQUIVOCA Nessuna espressione del lessico dello storico dell’economia ha riscosso maggior successo di quella di “rivoluzione industriale”. L’espressione non ha di per sé alcun valore scientifico, e trasmette un’idea grossolanamente fuorviante della natura del mutamento economico. Proprio questa espressione è stata usata per oltre un secolo a indicare quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione della macchina a vapore di James Watt e il “trionfo” del sistema di fabbrica nel processo di produzione. l’espressione è stata applicata altresì agli esordi dell’industrializzazione in altri paesi. Poiché la crescita economica moderna esordì solitamente negli altri paesi con l’industrializzazione, l’espressione “rivoluzione industriale” è conveniente per indicare il periodo in cui essa ebbe inizio. Secondo Thomas S. Ashton, il più famoso storico dell’economia britannica del XVIII secolo, “i cambiamenti non furono soltanto “industriali”, ma anche sociali e intellettuali. La parola “rivoluzione” implica una subitaneità di cambiamento che non è tipica dei processi economici”. 3. REQUISITI E FATTORI CONCOMITANTI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE I cambiamenti furono anche commerciali, agricoli e persino politici. Già nel Medioevo, singoli individui avevano cominciato a considerare la possibilità pratica di imbrigliare le forze della natura. Le scoperte scientifiche realizzate in seguito da Copernico, Galileo, Cartesio e Newton, rafforzarono queste idee. In Inghilterra l’influenza di Francesco Bacone, uno dei cui aforismi era “la scienza è potenza”, condusse alla fondazione nel 1660 della Royal Society “per l’approfondimento della conoscenza della natura”. Alcuni studiosi considerano l’applicazione della scienza all’industria il carattere distintivo dell’industria moderna. Per quanto affascinante, quest’idea ha i suoi punti deboli. All’alba dell’industria moderna, nel XVIII secolo, il corpus della conoscenza scientifica era troppo esile e gracile per poter essere direttamente applicato ai processi industriali, quali che fossero le intenzioni dei suoi sostenitori. Non fu che nella seconda metà del XIX secolo, con l’affermazione delle scienze della chimica e dell’elettricità, che le teorie scientifiche divennero il fondamento dei nuovi procedimenti e delle nuove industrie. Non si può tuttavia negare che già nel Seicento i metodi della scienza venissero applicati a scopi utilitaristici. Uno degli aspetti più notevoli del progresso tecnico del XVIII secolo e dell’inizio del XIX fu anzi la grande percentuale di grandi innovazioni realizzate da artigiani ingegnosi, meccanici e ingegneri autodidatti. In molti casi l’espressione “metodo sperimentale” può risultare troppo formale e specifica per definire tale processo; una più appropriata è “per tentativi”. Tuttavia una propensione a sperimentare e innovare si diffuse in tutti gli strati della società, compresa la popolazione agricola, tradizionalmente la più conservatrice e diffidente nei confronti dell’innovazione. L’Inghilterra fu una delle prime ad accrescere la propria produttività agricola. Alla fine del Seicento, l’Inghilterra era già avanti a gran parte dell’Europa continentale in quanto a produttività dell’agricoltura, con solo il 60% circa della forza lavoro impegnata nella produzione alimentare. Il 2 parrocchiali e di migliorare l’accesso ai mercati. Gli anni cinquanta e sessanta del XVIII secolo videro il culmine della loro costruzione. 4. TECNOLOGIA INDUSTRIALE E INNOVAZIONE Gli storici impressionati dalla natura rivoluzionaria del mutamento industriale sottolineano la rapida meccanizzazione e la crescita dell’industria cotoniera negli ultimi due decenni del XVIII secolo. Quasi un secolo prima, erano state realizzate altre due innovazioni che ebbero probabilmente un impatto anche più fondamentale sull’industrializzazione. Si tratta del procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke, che liberò l’industria siderurgica dalla dipendenza esclusiva dal carbone di legna, e l’invenzione della macchina a vapore atmosferica. Nel 1709, Abraham Darby, proprietario di una ferriera a Coalbrookdale nello Shropshire, sottopose il carbone a un processo molto simile a quello mediante il quale gli altri proprietari di ferriere ricavavano il carbone di legna dal legname: riscaldò il carbone in un contenitore chiuso per eliminarne le impurità in forma di gas, e dal processo ottenne come residuo il coke, una forma quasi pura di carbonio, che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per produrre ghisa grezza. Nonostante la grande scoperta tecnologica fatta da Darby, l’innovazione si diffuse lentamente. I proprietari delle ferriere ottennero delle economie di scala concentrando tutte queste operazioni in un unico luogo, di solito in corrispondenza o nelle vicinanze di giacimenti di carbon fossile, e sia la produzione totale di ferro sia la percentuale di esso ottenuta con l’impiego di combustibile fossile crebbero in maniera spettacolare. Alla fine del secolo, la produzione di ferro aveva superato le 200.000 tonnellate, quasi tutte ottenute per fusione con il coke, e la Gran Bretagna era divenuta un esportatore netto di ferro e di prodotti ferrosi. Il vapore fu utilizzato per la prima volta nell’industria mineraria. Nel 1698, l’ingegnere Thomas Savery ottenne il brevetto per una pompa a vapore, che chiamò appropriatamente “l’amico del minatore”. Alcune pompe di Savery furono installate nel decennio seguente, soprattutto nelle miniere di stagno della Cornovaglia, ma l’apparecchio aveva diversi difetti pratici, tra i quali una tendenza a esplodere. Thomas Newcomen decise di porre rimedio a questi difetti e nel 1712 riuscì a costruire la sua prima pompa a vapore atmosferica in una miniera di carbone nello Staffordshire. La macchina di Newcomen spingeva il vapore proveniente da una caldaia in un cilindro contenente uno stantuffo collegato a una pompa per mezzo di una trave a T oscillante. Dopo che il vapore aveva spinto lo stantuffo alla sommità del cilindro, un getto d’acqua fredda al suo interno faceva condensare il vapore creando un vuoto che permetteva al peso dell’aria di spingere in basso lo stantuffo e di azionare così la pompa. La macchina di Newcomen era molto grande, ingombrante e costosa; era però efficace. Alla fine del secolo ne erano state costruite a centinaia in Gran Bretagna. Erano impiegate per lo più nelle miniere di carbone, dove il combustibile era a buon mercato, ma anche in altre industrie estrattive. Erano usate inoltre per azionare ruote idrauliche là dove la caduta dell’acqua era insufficiente, e per l’approvvigionamento idrico pubblico. Il maggior difetto della macchina di Newcomen era il suo elevato consumo di combustibile in rapporto al lavoro prodotto. Negli anni sessanta a James Watt venne chiesto di riparare un piccolo modello funzionante della macchina di Newcomen. Incuriosito, Watt cominciò a fare esperimenti con l’apparecchio; nel 1769 brevettò un condensatore separato, che eliminava la necessità di ricorrere al riscaldamento e raffreddamento alternato del cilindro. Nel frattempo, Watt formò una società con Matthew Boulton, prospero fabbricante di articoli di ferramenta dei dintorni di Birmingham, che concesse a Watt tempo e mezzi per ulteriori esperimenti. Nel 1774, John Wilkinson, padrone di una vicina ferriera, brevettò una nuova macchina fresatrice per la fabbricazione di affusti di cannone, adatta però anche alla fabbricazione dei cilindri della macchina di Watt. L’anno seguente questi ottenne il prolungamento di 25 anni del suo brevetto, e la ditta di Boulton e Watt cominciò la produzione commerciale di macchine a vapore. Uno dei loro 5 primi clienti fu John Wilkinson, che impiegava queste macchine per azionare i mantici del suo altoforno. La maggior parte delle prime macchine realizzate da Boulton e Watt venne impiegata per pompare via l’acqua dalle miniere. Watt realizzò però parecchi altri miglioramenti, quali un regolatore della velocità del motore e uno strumento che trasformava il movimento alternativo del pistone in moto rotatorio. La prima filanda a essere azionata direttamente da una macchina a vapore cominciò la produzione nel 1785, accelerando in modo spettacolare un processo di cambiamento già in atto. Le industrie tessili erano già giunte alla ribalta nell’era “preindustriale” britannica con il sistema della produzione a domicilio. La manifattura di articoli di lana, e di lana pettinata, era di gran lunga il settore più importante, sebbene in Scozia e in Irlanda il lino avesse un ruolo maggiore che non in Inghilterra e nel Galles. L’industria della seta vantava fabbriche e macchine mosse dall’energia idraulica a imitazione di quelle italiane. La manifattura dei tessuti di cotone, come quella della seta, era per la Gran Bretagna un’industria relativamente nuova. Già negli anni trenta del XVIII secolo si tentò deliberatamente di inventare macchine che permettessero di risparmiare manodopera, sia nella filatura sia nella tessitura. Le prime macchine filatrici non ebbero successo, ma nel 1733 un meccanico del Lancashire, John Kay, inventò la navetta volante, che permetteva a un singolo tessitore di svolgere il lavoro di due, con una crescita conseguente della domanda di filato. Nell’arco di pochi anni furono inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica. Il primo di essi, inventato nel 1764 ma non brevettato fino al 1770, fu la “jenny” on riannetta di James Hargreaves. Si trattava di una macchina relativamente semplice; in pratica, non era molto più che una ruota per filare con una batteria di fusi invece che uno solo. Il filatoio idraulico, una macchina filatrice brevettata nel 1769 da Richard Arkwright, ebbe un significato più generale. Arkwright non fu probabilmente il vero inventore del filatoio idraulico, e il suo brevetto fu in seguito revocato; egli fu, però, il più fortunato come uomo d’affari. Azionato com’era dall’energia idraulica, pesante e costoso, il filatoio idraulico condusse direttamente al sistema di fabbrica sul modello dell’industria della seta. Le fabbriche furono costruite per lo più in vicinanza di corsi d’acqua, nelle campagne o in piccoli villaggi, non provocando di conseguenza una concentrazione di lavoratori nelle città. La più importante delle invenzioni nel campo della filatura fu la “mula” di Samuel Crompton. La mula era in grado di produrre un filato più sottile e più resistente di qualunque altra macchina o filatore manuale. Dopo essere stata adattata al vapore, intorno al 1790, divenne lo strumento favorito nella filatura del cotone. Le innovazioni tecniche furono accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone. Poiché la Gran Bretagna non aveva cotone proprio, le cifre relative all’importazione di cotone grezzo forniscono una buona indicazione del ritmo al quale si sviluppò l’industria. Dalle 500 tonnellate scarse d’inizio secolo, le importazioni salirono a circa 2.500 tonnellate verso il 1770, alla vigilia delle maggiori innovazioni, per raggiungere le 25.000 nel 1800. Inizialmente le maggiori fonti di approvvigionamento furono l’India e il Levante, ma la loro produzione non aumentò in modo sufficientemente rapido da soddisfare la domanda crescente. Si cominciò allora a produrre cotone nelle isole caraibiche britanniche e negli stati americani del Sud, ma l’alto costo della separazione manuale dei semi dalla fibra corta del cotone americano, anche là dove ci si avvaleva del lavoro degli schiavi, scoraggiò la produzione di cotone fino a quando Eli Whitney non inventò una sgranatrice meccanica. Questa macchina rispose talmente bene alla bisogna che gli Stati Uniti del Sud divennero ben presto il maggior fornitore di materia prima per quella che divenne rapidamente la più importante industria britannica. Nel 1860, la Gran Bretagna importava più di mezzo milione di tonnellate di cotone grezzo. Le innovazioni nella filatura e nella tessitura furono le più importanti ma non le uniche innovazioni nell’industria cotoniera. Fu introdotta una serie di perfezionamenti in tutte le fasi della produzione. Con la caduta dei costi di produzione e l’aumento della produzione, una notevole e crescente 6 percentuale del prodotto fu esportata; nel 1803 il valore delle esportazioni di cotone superò quello della lana. I drastici ribassi del prezzo dei prodotti di cotone ebbero riflessi sulla domanda di tessuti di lana e lino. Le innovazioni tecniche concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della forza a vapore costituiscono il nocciolo della prima industrializzazione britannica. Proprio mentre James Watt stava perfezionando la sua macchina a vapore, il suo illustre connazionale Adam Smith scriveva nella “Ricchezza delle nazioni” dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di spilli semplicemente attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro. Un’altra industria rappresentativa fu la manifattura delle stoviglie. L’introduzione della porcellana fine dalla Cina diffuse tra i ricchi la moda di sostituire con essa il vasellame d’oro e d’argento, e nello stesso tempo fornì un modello per articoli di utilità più immediata. Come nell’industria siderurgica, il prezzo crescente del carbone di legna spinse l’industria del vasellame a spostarsi in aree ricche di carbon fossile. Lo Staffordshire, dove centinaia di piccoli proprietari producevano per il mercato nazionale, divenne il luogo di maggiore concentrazione dell’industria. Un significativo processo di espansione e diversificazione ebbe luogo anche nell’industria chimica. Alcuni dei miglioramenti furono una conseguenza dei progressi della chimica, in particolare quelli collegati al nome del chimico francese Antoine Lavoisier. Un esempio è l’acido solforico, una delle sostanze chimiche più versatili e più largamente usate. Per quanto fosse già noto agli alchimisti, la sua produzione era nello stesso tempo costosa e pericolosa a causa delle sue proprietà corrosive. Nel 1746, John Roebuck inventò un procedimento economico di produzione dell’acido solforico per mezzo di camere di piombo. Tra i vari usi immediati, il loro prodotto veniva impiegato come sbiancante nelle industrie tessili al posto del latte acido, del siero di latte, dell’urina e di altre sostanze naturali. L’acido solforico fu a sua volta rimpiazzato nell’ultimo decennio del Settecento, quando alcune industrie scozzesi introdussero come sbiancanti il cloro e i suoi derivati, una scoperta del chimico francese Claude Berthollet. Un altro gruppo di composti chimici largamente usati nei processi industriali erano gli alcali, in particolare la soda caustica e la potassa. Alle miniere di carbone va altresì la responsabilità delle prime ferrovie britanniche. Negli anni sessanta del XVIII secolo in alcune miniere vennero introdotti i ponies, che ben presto furono adibiti al traino di vagoni muniti di ruote su binari fatti di lamine metalliche, e in seguito su binari di ghisa o ferro battuto. Già prima, nel XVII secolo, lamine metalliche e binari erano stati usati in superficie nelle vicinanze delle miniere per facilitare il traino, solitamente effettuate a mezzo di cavalli. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo complesso che ebbe parecchi stadi preparatori. La progettazione e la costruzione di un motore per locomotiva richiedeva lo sviluppo di macchine utensili precise e potenti. Uno dei molti bravi ingegneri e costruttori di macchine fu John Wilkinson, la cui fresatrice aveva permesso a Watt di sviluppare la sua macchina. Altri furono John Smeaton, fondatore dell’ingegneria civile come professione e Henry Maudsley, inventore introno al 1797 di un tornio a lunetta mobile per fare le viti, che rese possibile la fabbricazione di componenti metallici di precisione. A Richard Trevithick va il merito della costruzione della prima locomotiva funzionante nel 1801. Trevithick si avvalse di una macchina ad alta pressione, e progettò una locomotiva che poteva percorrere le strade ordinarie. Per quanto tecnicamente guidabile, la locomotiva non fu un grande successo dal punto di vista economico perché le strade non ne potevano sopportare il peso. Molti altri ingegneri, come John Blenkinshop, contribuirono allo sviluppo della locomotiva; tra tutti il successo più evidente arrise però all’autodidatta George Stephenson che costruì, nel 1813, una caldaia a vapore fissa in grado di trascinare per mezzo di cavi i vagoni di carbone che tornavano alla miniera dalle banchine di carico. Nel 1822, persuase i promotori del progetto di una linea ferroviaria tra le miniere di Stockton e Darlington ad avvalersi del vapore invece che della trazione 7 Cap.8: L’economia globale a confronto con il capitalismo britannico Una delle ragioni per cui gli storici amano chiamare “rivoluzione industriale” la transizione britannica all’industria moderna è quella di volerla contrapporre e paragonare alla Rivoluzione francese del 1789. Il periodo che abbracciò la Rivoluzione francese e le Guerre napoleoniche (1793-1815) vide la Gran Bretagna continuare con il suo processo di industrializzazione sempre più in direzione dei prodotti del ferro e dell’acciaio anziché dei tessili e dei ceramici i. 1. DIVERGENZA INIZIALE GLOBALE E SUCCESSIVA CONVERGENZA Angus Maddison, impressionato dalla rapida e regolare crescita economica dei paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, si mise a capo di un movimento internazionale per la misurazione degli episodi storici di crescita del reddito pro capite, paese per paese o regione per regione in tutto il mondo. Il suo lavoro, denominato “Maddison Project”, è oggetto di continuo aggiornamento ma i suoi risultati principali sono chiari se paragoniamo i livelli di crescita del reddito pro capite nel periodo 1820-1914 per le prime quattro nazioni industriali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Germania). Tutti e quattro i paesi detenevano redditi pro capite tra i più elevati al mondo, persino nel 1820 dopo decenni di guerre, ma la Gran Bretagna aveva raggiunto livelli di benessere economico senza precedenti fino al 1850. La carestia che devastò l’Irlanda nel corso degli anni quaranta non compare nei dati di Maddison fino al 1850, quando la nazione studiata cambia dalla Gran Bretagna al Regno Unito. Dopo il 1850 a ogni modo, il reddito pro capite del Regno Unito continuò a crescere più che raddoppiandosi alla vigilia della Prima guerra mondiale. Benché anche in Francia e in Germania il reddito pro capite cominciasse a crescere regolarmente dopo il 1850, lo scarto rispetto al Regno Unito in realtà si allargò. Nel frattempo, la progressiva espansione degli Stati Uniti nella parte centrale del nord America, che diffondeva nel suo cammino l’industrializzazione e un’agricoltura a elevata efficienza, permise al reddito pro capite statunitense di eguagliare il livello britannico nei primi anni del XX secolo. Era chiaramente arrivata l’era delle crescita economica moderna. Il successo dell’economia dei paesi del Nord Atlantico nel suo complesso è ancor più notevole se lo si paragona al resto del mondo. La crescita economica moderna sembrava confinata a queste regioni che un tempo erano state nelle retrovie della civiltà umana. Nel periodo in cui i Paesi Bassi (in realtà la sola Olanda) godettero del reddito pro capite più elevato al mondo, tra il 1650 e il 1750, i grandi imperi asiatici erano a malapena riusciti a mantenere i rispettivi livelli, ,entro pativano gli effetti del cambiamento climatico, di conflitti diffusi e, nel caso indiano, di una decrescita demografica. Tutte le economie asiatiche cominciarono l’era moderna con redditi pro capite pari a circa la metà di quelli conseguiti dalle aree più urbanizzate d’Europa. 2. POPOLAZIONE Dopo la diminuzione da un massimo di circa 110 milioni di abitanti nel 1620 a un minimo di 105 milioni nel 1650, la popolazione europea ricominciò a crescere dapprima con lentezza, poi con una velocità crescente fino al XX secolo. Nel 1800, essa era arrivata a 188 milioni di abitanti. Nel XIX secolo, la crescita demografica europea accelerò, tanto che nel 1900 l’Europa aveva raggiunto un totale di 400 milioni di abitanti. La popolazione continuò ad aumentare nel XX secolo, ma il tasso di crescita europeo conobbe una leggera diminuzione, mentre quello del resto del mondo aumentò. Nel 2000, la popolazione europea era salita a 729 milioni contro un totale mondiale di 6.127 milioni di persone. Simili tassi di crescita, sia in Europa sia nel resto del mondo, non avevano precedenti. Nel XIX secolo, la popolazione europea raddoppiò in meno di 100 anni, e nel XX il mondo nel suo complesso ha superato anche questo elevato ritmo di crescita. Nel XIX secolo, la Gran Bretagna e la Germania, i due più importanti paesi industriali d’Europa, ebbero tassi d’incremento superiori all’1% annuo. La Russia, uno dei paesi meno industrializzati d’Europa, ebbe il tasso d’incremento più elevato tra i grandi paesi europei: una media di circa il 2% per tutto il secolo. La Francia, che all’inizio dell’Ottocento aveva la popolazione più numerosa di tutta l’Europa occidentale, fu invece il fanalino di coda, in particolare nella seconda metà del secolo; nell’intero secolo il suo tasso d’incremento fu in media di appena lo 0,4% annuo. 10 È evidente che non esiste una chiara correlazione tra industrializzazione e crescita demografica. Prima dei miglioramenti dei trasporti che permisero l’importazione su larga scala di generi alimentari dagli altri continenti nell’ultimo quarto del XIX secolo, uno dei maggiori limiti alla crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola crebbe enormemente nel corso del secolo per due ragioni. In primo luogo, fu estesa la superficie di terra coltivata. Questo fenomeno fu importante nel caso della Russia, che disponeva di vaste distesa di terra disabitata, ma anche in altre regioni dell’Europa orientale e in Svezia. Nella stessa Europa occidentale, l’abolizione del maggese e la coltivazione di terreni una volta marginali o incolti aumentò la disponibilità di terra. In secondo luogo, la produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche più scientifiche. Una migliore conoscenza della chimica del suolo e un uso più intenso dei fertilizzanti naturali e artificiali, fece salire la resa dei terreni comuni e rese possibile la coltivazione di terreni poco fertili. La diminuzione del prezzo favorì l’uso di attrezzi e strumenti migliori e più efficienti. Nella seconda metà del secolo fecero il loro debutto macchine agricole come trebbiatrici a vapore e mietitrici meccaniche. Il basso prezzo dei trasporti facilitò i movimenti migratori della popolazione. Come in Gran Bretagna, l’emigrazione era di due tipi: interna e internazionale. In totale, circa 60 milioni di persone abbandonarono l’Europa tra il 1815 e il 1914. Di queste, quasi 35 milioni si diressero verso gli Stati Uniti, e altri 5 milioni verso il Canada. 12 o 15 milioni si trasferirono in America Latina, soprattutto Argentina e Brasile. Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa assorbirono gran parte del resto. Le Isole britanniche (Irlanda compresa) fornirono il numero maggiore di emigranti, circa 18 milioni. Queste furono molto numerosi anche dalla Germania, dai paesi scandinavi, dall’Italia dall’Austria-Ungheria e dall’Impero Russo. Cospicua fu anche l’emigrazione interna europea, ancorché in alcuni casi di carattere esclusivamente temporaneo. Furono molti, tra i polacchi e le altre popolazioni slave ed ebraiche, coloro che si diressero a ovest verso la Germania, la Francia e altri paesi. La Francia attirò gli italiani, gli spagnoli, gli svizzeri e i belgi, mentre l’Inghilterra ricevette immigrati da tutta Europa. A oriente, lo zar trasferì 1 milione e 500.000 famiglie contadine in Siberia tra il 1861 e il 1914, senza contare i numerosi delinquenti e i deportati politici. Le migrazioni furono per la maggior parte volontarie. Talvolta gli emigranti cercavano di sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita migliore all’estero. Negli otto anni che seguirono la grande carestia del 1845, più di 1 milione e 200.000 persone lasciarono l’Irlanda per gli Stati Uniti. Paesi d’oltreoceano come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, attirarono un flusso ininterrotto di immigranti, in special modo dalle Isole britanniche. Un numero relativamente elevato di italiani e tedeschi emigrò in quelli che divennero i paesi economicamente più progrediti del Sud America. L’emigrazione interna fu ancor più fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. In tutti i paesi si verificarono importanti variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, ma il mutamento più fondamentale fu la crescita della popolazione urbana, sia in assoluto sia come percentuale della popolazione totale. All’inizio del XIX secolo, l’Inghilterra era già la nazione più urbanizzata. I Paesi Bassi avevano una percentuale molto simile. L’Italia aveva assistito allo spopolamento delle maggiori città all’inizio dell’era moderna, e nei primi decenni del XIX secolo la popolazione urbana ammontava probabilmente a non oltre un quarto o un quinto del totale. Percentuali analoghe si registravano in Francia e nella Germania occidentale. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette a un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Anche in questo la nazione guida fu la Gran Bretagna. Nel 1850, oltre la metà della popolazione britannica viveva in città e cittadine con oltre 2.000 abitanti. Nell’Impero russo, Mosca e San Pietroburgo potevano vantare almeno 1 milione di abitanti. La popolazione dei paesi instilli non solo viveva nelle città, ma preferiva quelle più grandi. In Inghilterra e nel Galles, la percentuale della popolazione residente nelle piccole città è rimasta pressoché costante, mentre la percentuale relativa alle grandi città è cresciuta dal 27 a oltre il 70%. Nel 1800, le città europee con una popolazione di almeno 100.000 abitanti non erano più di 20. 11 Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Nelle società preindustriali gran parte della popolazione anche non impegnata in occupazioni agricole viveva in aree rurali. Era più conveniente trasportare i prodotti finiti dell’industria, come i tessili e il ferro, a mercati lontani che non portare il cibo e le materie prime a concentrazioni di lavoratori. A causa della nuova importanza del carbon fossile, alcuni dei maggiori centri industriali sorsero in corrispondenza o in prossimità dei giacimenti di carbone: la Black Country in Inghilterra, la Ruhr in Germania, l’area attorno a Lille in Francia, la regione di Pittsburgh in America. 3. AGRICOLTURA Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatisi ne XIX secolo fu la diminuzione del peso relativo del settore agricolo. Ciò non vuol dire che l’agricoltura cessò di essere importante; è vero anzi il contrario. Presupposto di tale declino relativo furono i progressi nella produttività agricola. In altri termini, la capacità di una società di elevare i propri standard di consumo al di sopra di un mero livello di sussistenza e di trasferire una parte significativa della forza lavoro in altre attività potenzialmente più produttive dipende da un preliminare aumento della produttività agricola. Un incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in cinque modi potenziali: 1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione in grado di dedicarsi a occupazioni non agricole. 2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostenere la popolazione non agricola. 3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie manifatturiere e dei servizi. 4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura. 5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. All’inizio dell’Ottocento, l’agricoltura britannica era già la più produttiva d’Europa. Questo dato di fatto ebbe uno stretto rapporto con la posizione di avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema industriale. La popolazione agricola offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e di alcune materie prime, come la lana o l’orzo e il luppolo per l’industria della birra. Nella prima metà del XVIII secolo, essa aveva prodotto persino un surplus di cereali per l’esportazione. Quello tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu anzi il grande periodo dell’agricoltura, allorché l’agricoltura britannica raggiunse il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso sempre più massiccio di grano americano basso prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento, mentre molti si volsero alla produzione di carne e latticini. Il prospero settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. Prima della metà dell’Ottocento, la popolazione rurale del paese rappresentò per gran parte delle industrie un mercato migliore di quello dei paesi esteri. La ricchezza prodotta dalla terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. L’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu diverso da quello che essa ebbe in Gran Bretagna e variò da regione a regione. vi fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Una riforma agraria implica un mutamento del sistema di possesso fondiario. Il movimento delle recinzioni in Inghilterra può essere considerato un tipo di riforma agraria. 12 4. RISORSE L’Europa industriale non beneficiò di un magico aumento della quantità o qualità delle risorse naturali. Fu in particolare il caso del carbon fossile, e le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbone divennero nel XIX secolo i siti primari dell’industria pesante. Le regioni prive di riserve indigene di carbone dovettero importarlo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste di acqua, come la Svizzera e alcune aree della Francia, dell’Italia e della Svezia-Norvegia, ottennero da questa fonte un nuovo vantaggio relativo. L’Europa era nel complesso relativamente ben provvista di risorse minerarie convenzionali, quali ferro, altri metalli, sale e zolfo. Alcune di queste, come lo stagno della Cornovaglia, erano in uso fin dall’antichità. Il risultato fu da un lato una caccia sistematica a fonti di energia ancora sconosciute, dall’altro una ricerca scientifica e tecnologica dei migliori metodi di sfruttamento. Con l’esaurirsi delle risorse domestiche, la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento si estese oltreoceano. Nel corso del XIX secolo, la ricerca di materie prime spinse sempre più le nazioni europee a estendere il controllo politico sulle regioni africane e asiatiche scarsamente organizzate o prive di un governo forte. 4.1. SVILUPPO E DIFFUSIONE DELLA TECNOLOGIA Simon Kuznets, premio Nobel per l’economia, definì il periodo in cui viviamo “epoca economica moderna”. A suo parere, un’epoca economica viene determinata e foggiata dalle applicazioni e ramificazioni di un’ “innovazione epocale”. Egli vedeva l’innovazione epocale della prima età moderna europea nello sviluppo delle tecniche di navigazione e di altre a queste correlate, che resero possibile la scoperta dell’America e della rotta tutta marittima verso l’Oriente. Secondo Kuznets, una buona parte della storia economica del periodo compreso tra il 1492 e il 1776 può essere spiegata facendo riferimento al progresso delle esplorazioni e delle scoperte, al commercio marittimo, alla crescita delle flotte e ai fenomeni a essi correlati. L’attuale epoca economica (moderna), secondo la terminologia di Kuznets, ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e l’innovazione epocale a essa associata fu “l’applicazione estesa della scienza ai problemi della produzione economica”. Il periodo della storia della tecnologia che va dall’inizio del Settecento a circa il 1860 o il 1870 è piuttosto l’era dell’artigiano-inventore. Dopo di allora, le teorie scientifiche divennero sempre più fondamentali per i processi produttivi, in particolare in industrie nuove quali quella dell’elettricità, dell’ottica e dei prodotti chimici organici. Nell’analizzare il processo di cambiamento tecnologico in un qualsiasi periodo storico, è opportuno non dimenticare le differenze esistenti tre tre termini strettamente correlati ma concettualmente differenti: “invenzione”, “innovazione” e “diffusione” delle nuove tecnologie. L’invenzione definisce una novità brevettabile di natura meccanica, chimica o elettrica. L’invenzione non ha un particolare significato economico. Lo assume solo quando è inserita in un processo economico — quando cioè diventa innovazione. Ad esempio, l’invenzione di James Watt del condensatore separato per la macchina di Newcomen, brevettato nel 1769, ebbe un ruolo trascurabile nell’economia fino al momento in cui, in società con Matthew Boulton, egli non iniziò a produrre e a porre in commercio macchine a vapore, nel 1776. Con “diffusione” si intende un processo attraverso il quale un’innovazione si propaga in un’industria all’altra e a livello internazionale superando le frontiere geografiche. La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese dai progressi tecnologici verificatisi in due industrie fondamentali, l’industria cotoniera e quella del ferro, sostenuti da un uso generalizzato del carbon fossile come combustibile industriale e dall’impiego crescente della macchina a vapore come fonte di energia meccanica. La meccanizzazione della filatura del cotone si era pressoché completata nel 1820, facendone la prima industria moderna fondata sul sistema di fabbrica. L’industria siderurgica aveva completato la transizione all’uso del coke per la fusione del minerale ferroso e dei processi di puddellaggio e di laminatura per la raffinazione del ferro prodotto dall’altoforno. Il carbon fossile era molto usato non solo per alimentare le macchine a vapore, gli altiforni e i forni di puddellaggio, ma anche come combustibile in parecchie altre attività industriali. Le macchine a 15 vapore fornivano l’energia necessaria alle fabbriche tessili, alle fonderie e al funzionamento delle pompe nelle miniere di carbone e stagno. Nei cinquant’anni successivi — fino al 1870 circa — gli sforzi di molti industriali dell’Europa continentale furono tesi all’acquisizione e all’adattamento dei successi tecnologici dell’industria britannica. Le industrie tessili subirono diversi piccoli miglioramenti tecnici in un periodo che vide un’enorme espansione della produzione. Molte innovazioni furono opera di industriali continentali e americani, desiderosi di eguagliare o superare l’efficienza tecnica dei concorrenti britannici. 4.2. MOTORI PRIMI E PRODUZIONE DI ENERGIA Alla scadenza del brevetto di base di Watt, nel 1800, meno di 500 delle sue macchine erano in funzione in Gran Bretagna e poche decine sul continente. Nonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue macchine avevano parecchie limitazioni. La loro efficienza termica era piuttosto bassa. Erano inoltre pesanti, ingombranti e soggette a frequenti rotture. Lavoravano a pressioni relativamente basse e ciò limitava notevolmente la loro efficacia. I successivi cinquant’anni videro molti importanti sviluppi nella tecnologia della macchina a vapore. I primi progressi furono realizzati da meccanici e ingegneri come Richard Trevithick, della Cornovaglia, e Oliver Evans, americano che costruirono e sperimentarono macchine ad alta pressione, considerate da Watt pericolose e di scarsa utilità. Questi e altri esperimenti condussero all’utilizzazione di macchine a vapore per la propulsione di battelli e locomotive, con profonde conseguenze per l’industria dei trasporti. Anche la potenza e l’efficienza delle macchine era nel frattempo notevolmente cresciuta. L’efficienza termica era tre volte superiore a quella delle migliori macchine di Watt. Furono introdotte macchine “compound”, a doppia o tripla azione. Il progresso tecnologico toccò anche il maggiore rivale della macchina a vapore, la ruota idraulica. A partire dal 1760, mentre Watt stava sperimentando e mettendo a punto la macchina a vapore, altri ingegneri e inventori rivolsero la loro attenzione al perfezionamento della ruota idraulica. Furono introdotte forme nuove e più efficienti e, in conseguenza della discesa del prezzo del ferro, divennero comuni le grandi ruote realizzate completamente in metallo. Negli anni venti e trenta, degli scienziati e ingegneri francesi inventarono e perfezionarono la turbina idraulica, uno strumento molto efficiente per convertire l’energia sprigionata dalle cadute d’acqua in utile forza motrice. 5. L’AVVENTO E LA DIFFUSIONE DELL’ELETTRICITÀ I fenomeni elettrici erano stati oggetto di osservazione fin dall’antichità. Verso la fine del secolo le ricerche di Benjamin Franklin in America e degli italiani Luigi Galvani e Alessandro Volta, inventore della pila voltaica o batteria, ne innalzarono lo status da gioco da salotto a oggetto di ricerche di laboratorio. Nel 1807, sir Humphry Davy scoprì l’elettrolisi, il fenomeno mediante il quale una corrente elettrica scompone una soluzione acquosa nei suoi elementi chimici, dando così inizio all’industria della galvanoplastica. La fase successiva dello studio dell’elettricità fu dominata dalle figure dell’allievo di Davy, Michael Faraday, del fisico danese Hans Oersted e del matematico francese André Ampère. Nel 1820, Oersted osservò che una corrente elettrica produce un campo magnetico attorno al conduttore, e ciò spinse Ampère a formulare una relazione quantitativa tra l’elettricità e il magnetismo. Tra il 1820 e il 1831, Faraday scoprì il fenomeno dell’induzione elettromagnetica e inventò un primitivo generatore manuale. Samuel Morse sviluppò il telegrafo elettrico in America tra il 1832 e il 1844. L’uso industriale dell’elettricità era tuttavia frenato delle difficoltà insite nella progettazione di un generatore economicamente efficiente. Nel 1873, un fabbricante di carta della Francia sudorientale collegò la sua turbina idraulica, che utilizzava acqua dalle Alpi, a una dinamo. Quest’innovazione apparentemente semplice ebbe importanti conseguenze nel lungo periodo, in quanto consentì a regioni povere di carbon fossile 16 ma ricche di acqua di soddisfare i propri bisogni energetici. L’invenzione della turbina a vapore nel decennio seguente svincolò la generazione di elettricità dalla disponibilità di acqua, e spostò nuovamente la bilancia energetica dalla parte del carbone e del vapore. Lo sviluppo dell’energia idroelettrica divenne tremendamente importante per i paesi poveri di carbone dove fino a quel momento lo sviluppo industriale aveva ristagnato. I fari cominciarono a utilizzare lampade elettriche ad arco negli anni cinquanta, e negli anni settanta le lampade ad arco erano comuni in molte fabbriche, in negozi, teatri ed edifici pubblici. Il perfezionamento tra 1878 e il 1880 della lampadina elettrica a incandescenza da parte di Joseph Swan in Inghilterra e di Thomas Edison negli Stati Uniti, rese obsoleta l’illuminazione con lampade ad arco diede inizio al boom dell’industria a nostra disposizione. Nel 1879, lo stesso anno in cui Edison brevettava la sua lampadina elettrica, il tedesco Werner von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie per i trasporti di massa nelle metropoli in espansione dell’epoca. L’elettricità può inoltre essere usata produrre calore e cominciò ad essere impiegata nella fusione dei metalli. 5.1. L’AVVENTO E LA DIFFUSIONE DEL PETROLIO Il petrolio è un’altra delle grandi fonti di energia che si affermò nella seconda metà del XIX secolo. Il suo sfruttamento economico cominciò nel 1859 con la trivellazione dei pozzi di Drake a Titusville, in Pennsylvania. Come l’elettricità, il petrolio liquido e il suo sottoprodotto, il gas naturale, furono usati dapprincipio soprattutto per l’illuminazione. Parecchi inventori e ingegneri, tra cui i tedeschi Nikolaus Otto, Karl Benz e Gottfried Daimler, stavano sperimentando dei motori a combustione interna. Nel 1900 ne esistevano diversi tipi, che usavano solitamente come carburante uno dei vari distillati del periodo liquido, come benzina e gasolio. L’applicazione di gran lunga più importante del motore a combustione interna fu nel settore dei mezzi di trasporto leggeri, come automobili, autocarri a motore e autobus; nelle mani di imprenditori come i francesi Armand Peugeot, Louis Renault e André Citroën, l’inglese William Morris e l’americano Henry Ford, esso diede origine a una delle maggiori industrie del XX secolo. 5.2. ACCIAIO A BUON MERCATO All’inizIo dell’Ottocento erano pressoché universali, in Gran Bretagna, l’impiego del coke nella fusione del minerale ferroso e il procedimento di puddellaggio per la produzione di ferro grezzo e la sua trasformazione in ferro battuto, a tutto vantaggio degli imprenditori britannici rispetto ai loro concorrenti stranieri. Nella seconda metà del XVIII secolo, in Francia e nella Slesia prussiana si era tentato di introdurre il procedimento di fusione con il coke. Nel 1815, gli industriali siderurgici del continente si affrettarono ad adottare il metodo di puddellaggio e laminatura per la trasformazione della ghisa grezza in ferro lavorato. Il primo efficiente altoforno alimentato a coke sul continente fu costruito in Belgio alla fine degli anni venti; alcuni industriali francesi adottarono il coke nei due decenni successivi. Ancor più lenta nell’adozione del coke si rivelò la Germania, dove si ebbe una grande accelerazione nel corso degli anni cinquanta. Negli Stati Uniti, il procedimento di fusione con il coke non fu generalmente adottato fino a dopo la guerra civile. In altri paesi europei, sopravvissero tenacemente piccole industrie che utilizzavano carbone di legna. L’unica grande innovazione tecnica nel settore siderurgico nella prima metà del XIX secolo fu l’altoforno ad aria calda brevettato dall’ingegnere scozzese James B. Neilson nel 1828. Utilizzando i gas recuperati dall’altoforno per preriscaldare l’aria usata nel medesimo, questo tipo di altoforno otteneva una combustione più completa, diminuiva il consumo di combustibile e accelerava il processo di fusione. Fu subito adottato dagli industriali scozzesi, europei e persino statunitensi, mentre si diffuse con maggiore lentezza in Inghilterra e nel Galles. Le innovazioni più spettacolari nell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo riguardarono la fabbricazione dell’acciaio. Nel 1856, Henry Bessemer, un inventore inglese, brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione dell’acciaio direttamente dalla ghisa fusa. La produzione dell’acciaio Bessemer crebbe rapidamente e ben presto sostituì il ferro in una varietà di usi. Il processo Bessemer non produceva sempre un acciaio di qualità uniforme ed elevata, e 17 fotografia dopo il 1827 resero possibile la riproduzione economica e l’ampia diffusione delle immagini visive. Nel 1840, la Gran Bretagna introdusse il servizio postale. Ancora più significativa fu l’invenzione nel 1832 del telegrafo elettrico da parte dell’americano Samuel Morse. Nel 1850, quasi tutte le maggiori città europee e americane erano collegate da linee telegrafiche, e nel 1851 fu posato con successo il primo cavo telegrafico sottomarino, nel Canale della Manica. Nel 1866, l’americano Cyrus W. Field riuscì a posare un cavo telegrafico nell’Atlantico settentrionale, assicurando una comunicazione quasi instantanea tra l’Europa e il Nord America. Altri cavi telegrafici sottomarini furono posati negli anni seguenti. Il telefono, brevettato da Graham Bell nel 1876, rese ancor più personale la comunicazione su lunghe distanze, anche se all’inizio il suo impiego fu volto principalmente a facilitare le comunicazioni locali. Guglielmo Marconi inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (o radio). Già nel 1901, un radiomessaggio attraversava l’Atlantico, e all’epoca del disastro del Titanic nel 1912, la radio aveva già assunto un ruolo importante nella navigazione oceanica. Nel campo delle comunicazioni d’affari, l’invenzione della macchina per scrivere e di altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e a contribuire al flusso crescente di informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. 6.1. L’APPLICAZIONE DELLA SCIENZA L’industria dell’elettricità richiedeva un grado elevato di conoscenze scientifiche e di addestramento. In altre industrie, il progresso scientifico divenne sempre più essenziale per il progresso tecnologico. Si ebbe una crescente interazione tra scienziati, ingegneri e imprenditori. Marconi era soprattutto un uomo d’affari. Bessemer ed Edison furono i prototipi di una nuova categoria occupazionale, l’inventore di professione. Edison dedicò in realtà gran parte del Sio tempo a questioni commerciali relative all’installazione di gigantesche attrezzature per la generazione e la trasmissione dell’elettricità. Lo sviluppo tecnologico richiedeva sempre più la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica, la cui opera era coordinata da funzionari che comprendevano le potenzialità della nuova tecnologia pur non possedendo conoscenze particolari nel settore. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti. Essa aveva prodotto artificialmente la soda, l’acido solforico, il cloro e numerosi composti chimici pesanti particolarmente importanti nell’industria tessile. Nel 1856, William Perkin, chimico inglese, sintetizzò accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio dell’industria dei coloranti artificiali. I coloranti artificiali si rivelarono la testa di ponte di un complesso molto più ampio di industrie che dai processi della chimica organica ricavavano prodotti molto diversi come farmaceutici, esplosivi, reagenti fotografici e fibre sintetiche. La chimica svolse un ruolo vitale anche nella metallurgia. all’inizio del XIX secolo, i soli metalli importanti dal punto di vista economico erano quelli noti sin dall’antichità: ferro, rame, piombo, stagno, mercurio, oro e argento. Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento, Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, alluminio, nichel, magnesio e cromo. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli che presentano caratteristiche differenti da quelle dei loro singoli componenti. L’acciaio è in realtà una lega di ferro e piccole quantità di carbonio e talvolta altri metalli. La chimica venne inoltre in soccorso di vecchie e affermate industrie quali quelle della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. L’agricoltura scientifica si sviluppò perciò in parallelo con l’industria scientifica. I cibi in scatola e la refrigerazione artificiale rivoluzionarono le abitudini alimentari e crearono i presupposti perché la popolazione europea potesse aumentare ben al di là di quanto avrebbero consentito le risorse agricole del continente. Il coordinamento di queste tre componenti fondamentali della crescita economica (popolazione, cibo e risorse, tecnologia) nelle economie che diedero l’avvio all’età della crescita economica moderna richiese nuovi assetti istituzionali tali da far funzionare efficacemente l’insieme. 20 Cap.9: Le istituzioni si adeguano (o meno) alla crescita economica moderna 1. IL CONTESTO ISTITUZIONALE 1.1. FONDAMENTI GIURIDICI La Gran Bretagna si era già dotata di una struttura sostanzialmente moderna ai fini dello sviluppo economico, adatta all’innovazione e al cambiamento sia in senso sociale sia materiale. Una delle istituzioni cardine di questo contesto era il sistema giuridico noto come “diritto comune”. Le caratteristiche distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidarsi alle consuetudini e ai precedenti nei limiti in cui questi venivano recepiti da risoluzioni o decisioni giuridiche scritte, la sua flessibilità. Assicurava la protezione della proprietà e degli interessi privati contro le possibili angherie dello stato e allo stesso tempo proteggeva l’interesse pubblico dai privati. Trasmesso alle colonie inglesi nel processo di colonizzazione, il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico nel momento in cui questi conquistarono l’indipendenza o l’autonomia. La Rivoluzione francese spalancò nuove prospettive e opportunità per chi fosse dotato di iniziativa e ambizione. Essa abolì completamente gli ultimi residui dell’ordine feudale e istituì un sistema giuridico più razionale che fu alfine incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine può essere considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. L’articolo 1 proclamava che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti”, diritti che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. La Dichiarazione elencava anche le garanzie necessarie per tutelare questi diritti: uniformità delle leggi, libertà di parola e di stampa, tassazione equa decisa dagli stessi cittadini o dai loro rappresentanti, responsabilità dei pubblici ufficiali. Tutti i cittadini dovevano essere “ugualmente eleggibili a tutte le dignità, gli uffici e gli impieghi pubblici, conformemente alle loro virtù e ai loro talenti”. Le assemblee, oltre ad abolire il regime feudale e a instaurare la proprietà privata della terra, si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne, abolirono le corporazioni di mestiere e l’intero apparato statale di controllo dell’industria, proibirono i monopoli, autorizzarono la costituzione di società e altre imprese privilegiate, e sostituirono alle tasse arbitrarie e inique dell’antico regime un sistema d’imposizione razionale e uniforme. Nel 1791, l’assemblea arrivò persino ad approvare la drastica legge “Le Chapelier” che proibiva le organizzazioni o associazioni sia dei lavoratori sia degli imprenditori. I francesi esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche. Il Belgio, la riva sinistra del Reno in Germania, gran parte dell’Italia, e per breve tempo l’Olanda e alcune aree della Germania settentrionale furono tutti incorporati nell’Impero francese. L’influsso delle riforme si manifestò persino in paesi non direttamente dominati dalla Francia, in particolare modo in Prussia. Dopo l’umiliazione di Jena del 1806, venne alla ribalta un gruppo di ufficiali intelligenti e patriottici decisi a rigenerare il paese mediante riforme amministrative e sociali che lo avrebbero messo in grado di opporsi al conquistatore e di assumere la leadership di uno stato tedesco. Alla fine, le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva non dalla rivoluzione stessa ma da Napoleone. Il cambiamento nella pubblica opinione che rese possibile la dittatura napoleonica fu una reazione agli eccessi rivoluzionari e alla corruzione e alla dissolutezza imperanti sotto il Direttorio. Il genio e la buona sorte di Napoleone consistettero nella sua abilità di operare una sintesi tra le conquiste più razionali della rivoluzione e le abitudini e tradizioni profondamente radicate stratificatesi in un millennio di storia. La sua politica fu influenzata dalla sua mentalità militaresca. La sintesi napoleonica raggiunse forse il suo culmine nella grande opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’impero. I Codici e la nuova legislazione rivoluzionaria, preservarono i principi fondamentali della rivoluzione: uguaglianza di fronte alla legge, laicità dello stato, libertà di coscienza, libertà economica. 21 Abolendo le istituzioni dell’antico regime nei territori da essi conquistati, i francesi posero i fondamenti del nuovo ordine. Il “Code civil” fu adottato per intero o posto a fondamento dei codici nazionali in tutta Europa e anche oltre, come in Louisiana e nel Québec e praticamente in tutta l’America Latina. Un altro dei codici napoleonici di particolare importanza per lo sviluppo economico fu il “Code de commerce”. Il “Code de commerce” distingueva tre tipi principali di organizzazione commerciale: 1. la società semplice, i cui soci sono individualmente e solidalmente responsabili dei debiti della ditta; 2. le “sociétés en commandite”, società di persone in cui il socio o i soci accomandatari assumono una responsabilità illimitata per gli affari della società; 3. le “sociétés anonymes”, società a responsabilità limitata nel senso americano, nella quale tutti i soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite. L’accomandita divenne ben presto la forma preferita d’impresa. La forma dell’accomandita fu adottata nella maggiorate delle nazioni europee e svolse una funzione essenziale nella raccolta dei capitali necessari al commercio e all’industria nel periodo di transizione che precedette la liberalizzazione della formazione di strutture societarie. Nel 1900, solo la Russia e l’Impero ottomano richiedevano ancora un’autorizzazione specifica per la costituzione di società. 1.2. PENSIERO ECONOMICO E POLITICA ECONOMICA L’epoca delle Guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo del nazionalismo e dell’imperialismo economico dei secolo precedenti, con il tentativo britannico di blocco del continente e la risposta di Napoleone attraverso il Sistema continentale. Negli anni sessanta e settanta del XVIII secolo, i fisiocrati (detti in Francia “les économistes”) avevano cominciato a propugnare i meriti della libertà economica e della concorrenza. Nel 1776, anno della Dichiarazione d’indipendenza americana, Adam Smith pubblicò nella “Ricchezza delle nazioni” quella che doveva diventare una dichiarazione di indipendenza economica dell’individuo. C’è chi ha visto in Smith l’apologeta dell’uomo d’affari o della “borghesia”. La maggiore preoccupazione di Smith è quella di dimostrare che l’abolizione di restrizioni vessatorie e “irragionevoli” all’impresa privata favorirebbe la concorrenza economica e ciò porterebbe al massimo grado la “ricchezza delle nazioni”. L’opera di Smith godette di una popolarità insolita per un trattato filosofico. Il bersaglio principale degli economisti classici era il vecchio appartato giuridico che regolava l’economia, che nel nome dell’interesse nazionale creava frequentemente sacche di privilegio e monopoli. Negli Stati Uniti, prese forma una miscela unica di intervento statale e iniziativa privata. L’economia classica aveva negli Stati Uniti pochi sostenitori puristi. I governi statali e locali assunsero un ruolo attivo nella promozione dello sviluppo economico. Il “sistema americano” vedeva nel governo un’agenzia con il compito di assistere gli individui e le imprese private nell’accelerare lo sviluppo delle risorse materiali della nazione. 1.3. STRUTTURA E CONFLITTI DI CLASSE Dal punto di vista sociale, l’Europa dell’ “ancien régime” era organizzata in tre “ordini”, la nobiltà, il clero e il Terzo Stato. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari terrieri. Il fondamento economico del loro potere politico e della loro condizione sociale era la proprietà della terra, che permetteva loro di vivere “nobilmente” senza lavorare. Sul gradino successivo della scala sociale si trovava lo strato superiore della classe media, o “alta borghesia”, composto da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti come avvocati e notai. A un livello ancora più basso della scala sociale era situata la “piccola borghesia”, comprendente artigiani, commercianti al dettaglio e altri dediti ad attività di prestazione di servizi, nonché piccoli proprietari indipendenti. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i braccianti, tra le cui file erano molto numerosi i poveri e gli indigenti. 22 il “Bank Act” del 1844, che modellò la struttura del sistema bancario britannico fino alla Prima guerra mondiale. In base alla legge sulle banche del 1844, la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio come banca a capitale azionario in cambio del monopolio dell’emissione di cartamoneta. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Molto meno visibile delle due precedenti era un’altra caratteristica del sistema bancario britannico, l’esistenza a Londra di banche d’affari private. Con la loro attività di basso profilo, queste imprese private, come la N.M. Rothschild & Sons, la Baring Brothers e la J.S. Morgan & Co., si dedicavano soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta, ma partecipavano altresì alla sottoscrizione di emissioni di titoli esteri che inserivano nel listini della Borsa dei valori di Londra. La Gran Bretagna possedeva molte altre istituzioni finanziarie: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso e così via. La proliferazione di casse rurali in Inghilterra e nel Galles e di filiali bancarie in Scozia rese tuttavia accessibili fonti di finanziamento a breve per gli imprenditori locali. Il sistema bancario francese era dominato da un istituto di ispirazione politica i cui affari si svolgevano soprattutto con il governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800, essa acquistò ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta e altri speciali privilegi. Come la Banca d’Inghilterra, essa divenne in effetti la Banca di Parigi, e permise ad alcune banche di emissione di operare nelle maggiori città di provincia. Fino al 1848, la Francia non possedette altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo sistema bancario era in effetti meno sviluppato del necessario. La Francia aveva comunque, nella prima metà del XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria. Parliamo della “hautes banques parisiennes”, banche d’affari simili a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild Frères. Come a Londra, la principale attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio di valuta e lingotti, ma dopo le Guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti governativi e altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie. Dopo il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo Impero, l’anno seguente, Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli esponenti delle “hautes banques” con la creazione di nuovi istituti finanziari. Trovò volenterosi collaboratori nelle persone dei fratelli Émile e Isaac Pereire, ex dipendenti dei Rothschild che avevano deciso di mettersi in proprio. Con la benedizione dell’imperatore, essi fondarono nel 1852 la “Société générale de crédit foncier” un istituto di credito fondiario, e la “Société générale de crédit mobilier”, una banca d’investimento specializzata nel finanziamento di costruzioni ferroviarie. Le banche francesi, private e a capitale azionario, svolsero altresì un ruolo di battistrada nell’incoraggiare gli investimenti esteri francesi. In Belgio, nel 1822, re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la “Société générale pour favorire l’industrie nazionale des Pays-Bas”, il cui quartiere generale era Bruxelles; egli l’aveva dotata di proprietà statali per un valore di 20 milioni di fiorini. La banca aveva le più ampie attribuzioni possibili per un’impresa di tal genere, ma i risultati che riuscì a conseguire nel primo decennio furono poco brillanti. Dopo la rivoluzione con un nuovo governatore nominato dalle nuove autorità statali, essa stimolò un boom di investimenti senza precedenti sul continente. Tra il 1835 e il 1838, creò trentuno nuove “sociétés anonymes” con un capitale totale di oltre 100 milioni di franchi. In tutte queste promozioni, essa beneficiò della cooperazione di James de Rothschild di Parigi, il più influente banchiere e finanziere dell’epoca. Nel 1835, un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale azionario, la “Banque de Belgique”. Modellata a imitazione della “Société générale” in tutti i particolari più significativi, la nuova banca non perse tempo a emularla come banca d’investimento. In meno di quattro anni fondò ventiquattro imprese industriali e finanziarie con un capitale complessivo di 54 milioni di franchi. 25 La “Société générale de Belgique” e la “Banque de Belgique” fecero miracoli nel favorire l’industrializzazione del piccolo stato, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro poteri, unita alla loro acuta rivalità. Nel 1850, il governo creò la “Banque nazionale de Belgique” come banca centrale con il monopolio dell’emissione di cartamoneta. Globalmente, il sistema bancario belga merita un voto molto elevato per il suo ruolo di stimolo dell’economia del paese. Gli olandesi avevano perduto la posizione di preminenza nella finanza e nel commercio europei che avevano detenuto nel XVII secolo, ma conservano riserve di potere finanziario. Quando nel 1814, il Regno delle Province Unite prese il posto della defunta Repubblica Olandese, la “Nederlandsche Bank” si sostituì alla “Banca di Amsterdam”. Il sistema finanziario olandese comprendeva inoltre diverse solide banche private, guidate dalla Hope & Co. Negli anni cinquanta, dopo i successi della “Société générale de Belgique” e, in tempi più vicini, del “Crédit mobilier”, gli uomini d’affari olandesi si convinsero che istituzioni di questo genere potevano favorire l’industrializzazione del paese. La Svizzera, che nel XX secolo si è affermata come grande centro finanziario mondiale, era molto meno importante prima del 1914. Ginevra era stata uno dei centri finanziari chiave dell’Europa del Rinascimento, e i banchieri privati svizzeri erano ancora importanti nel XVIII secolo. Le fondamenta della successiva grandezza svizzera furono poste nel corso dell’Ottocento. Negli anni cinquanta, sessanta e settanta furono fondate numerose nuove banche sul modello del “Crédit mobilier” francese, alcune delle quali destinate a divenire famose: la “Schweizerischer Kreditanstalt”, l’ “Eidgenossische Bank di Berna” e la “Schweizerische Bankgesellschaft”. Nella prima metà del XIX secolo, non si poteva dire che in Germania esistesse un vero e proprio sistema bancario. I numerosi stati sovrani erano l’ostacolo all’affermazione di un sistema finanziario unificato. La Prussia, la Sassonia e la Baviera possedevano banche di emissione monopolistiche che però erano attentamente controllate dai governi e si occupavano soprattutto delle finanze statali. Esistevano numerose banche private negli importanti centri commerciali di Amburgo, Francoforte, Colonia, Düsseldorf, Lipsia e della capitale prussiana, Berlino. A partire dagli anni quaranta, un certo numero di esse cominciò a dedicarsi a operazioni di investimento, fondando o finanziando nuove imprese industriali e in particolar modo le costruzioni ferroviarie. Era l’alba di una nuova era per il mondo bancario tedesco. La prima di queste istituzioni fu lo “Schaffhausen’scher Bankverein” di Colonia, fondato nel rivoluzionario 1848. Nel frattempo, il governo prussiano era tornato alla vecchia politica, e non autorizzò altre banche per azioni fino al 1870. Il primo esempio consapevole del nuovo tipo di banca fu la “Bank für Handel und Industrie zu Darmstadt” fondata nel 1853 nella capitale del Granducato di Assia-Darmstadt. La nuova banca seguì il modello del “Crédit mobilier” dal quale ricevette assistenza sia tecnica sia finanziaria. Di fronte al rifiuto del governo prussiano di autorizzare statuti di società per azioni per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero all’espediente della “Kommanditgesellschaft” che non richiedeva l’autorizzazione da parte del governo. Ne nacquero parecchie nel corso degli anni cinquanta e sessanta. Nel frattempo alcuni stati tedeschi minori ne autorizzarono la fondazione. Finalmente, nel 1869, la Confederazione della Germania del Nord adottò una legge modellata su quelle della Gran Bretagna e della Francia che liberalizzava la costituzione di società. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre 100 nuove “Kreditbanken” prima della crisi del 1873. Le più famose furono le “banche-D” — Deutsche Bank, Diskonto-Gesellschaft, Dresdner e Darmstädter — ciascuna con un capitale superiore ai 100 milioni di marchi e con sede a Berlino. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione istituzionale, la Reichsbank, fondata nel 1875. Godeva del monopolio dell’emissione di cartamoneta e agiva da banca centrale. Lo sviluppo del sistema bancario tedesco nella seconda metà dell’Ottocento fu una delle più straordinarie concomitanze dell’egualmente rapido processo di industrializzazione. Rimane a ogni 26 modo il fatto che le banche svolsero un ruolo determinante nello sviluppo industriale; all’inizio del XX secolo il sistema bancario tedesco era probabilmente il più potente al mondo. L’Austria sviluppò il proprio sistema bancario moderno più o meno nello stesso periodo della Germania. Essa aveva creato la banca nazionale austriaca già nel 1817, ma come istituto privilegiato, come le banche d’Inghilterra e di Francia, nella gestione del caos della finanza pubblica dopo le Guerre napoleoniche. Disponeva inoltre di alcune banche private, tra le quali la Rothschild era di gran lunga la più importante. La prima moderna banca a capitale azionario fu però la “Creditanstalt austriaca”, istituita nel dicembre del 1855. La sua creazione fu una diretta conseguenza della rivalità tra i fratelli Pereire e i Rothschild. I Pereire avevano fatto un’offerta nello stesso momento in cui acquisivano con successo le ferrovie di stato austriache per il “Crédit mobilier”, ma i Rothschild riuscirono a strappargliela. Oltre alla “Creditanstalt”, diverse altre importanti banche a capitale azionario sorsero a Vienna, Praga e Budapest. L’economia svedese era relativamente arretrata nella prima metà del XIX secolo, eppure il paese aveva una lunga tradizione bancaria. La “Sveriges Riksbank”, fondata nel 1656, fu in effetti la prima banca a emettere cartamoneta. Nella prima metà dell’Ottocento sorsero anche alcune banche di emissioni private. La storia moderna del sistema bancario svedese ebbe però inizio negli anni tra il 1850 e il 1870, e trasse ispirazione dall’esempio del “Crédit mobilier”. La “Stockholms Enskilda Bank”, fondata nel 1856, fu la prima banca svedese del nuovo tipo; fu seguita dalle “Skandinaviska Banken” nel 1864 e dalle “Stockholms Handelsbank” nel 1871. Queste tre banche si dedicarono a operazioni bancarie miste con notevole successo. Nella prima metà del XIX secolo, la Danimarca possedeva una banca centrale, la “Nationalbank”, di proprietà privata ma controllata dal governo. La storia moderna del suo sistema bancario comincia, come nel caso della Svezia, negli anni cinquanta, con il predominio di tre banche a capitale azionario, tutte con sede a Copenhagen: la “Privatbank”, le “Landsmanbanken” e le “Handelsbanken”. La Norvegia e la Finlandia dal lato finanziario non erano altrettanto progredite della Svezia e della Danimarca, ma in tutti e quattro i paesi, i livelli generali di analfabetismo erano sufficientemente bassi da mettere la popolazione in grado di sfruttare al meglio i vantaggi della disponibilità di servizi bancari. Anche i paesi latini del Mediterraneo costruirono i loro moderni istituti finanziari negli anni cinquanta e sessanta. La Spagna possedeva una banca di emissione, il Banco de San Carlos, fondato nel 1872 da un francese. Anche Barcellona possedeva una banca di emissione, risalente agli anni quaranta. I Pereire tentarono di aprire una filiale spagnola nel 1853, all’epoca della fondazione della Darmstädter, ma non riuscirono a ottenere l’autorizzazione dal reazionario governo dell’epoca. Nel 1855, dopo un mutamento nel governo aveva portato al potere una fazione “moderata”, essi convinsero il ministro delle finanze a presentare alle Cortes un disegno di legge che autorizzava il governo ad approvare statuti bancari sul modello di quello del “Crédit mobilier”. All’inizio dell’anno seguente, essi organizzarono la “Sociedad general de crédito mobiliario espanol”. Altri imprenditori francesi non persero tempo nel farsi avanti; spuntarono quasi simultaneamente su suolo spagnolo quattro istituti modellati sul “Crédit mobilier”, tre dei quali fondati con capitali francesi, incluso uno che godeva del sostegno dei Rothschild. Tutti questi istituti furono coinvolti nell’entusiasmo febbrile per la promozione e la costruzione di ferrovie, e diversi, in particolare il “Crédito mobiliare”, si impegnarono in altre iniziative industriali e finanziarie, una delle quali fu la prima moderna compagnia assicuratrice spagnola. Poco dopo aver ottenuto l’autorizzazione per il “Crédito mobiliario espanol”, i Pereire negoziarono con il governo portoghese per l’istituzione di una società analoga a Lisbona. La camera alta del parlamento portoghese rifiutò tuttavia di ratificare l’accordo. Quello stesso anno un altro avventuriero della finanza, anch’egli francese, che aveva collaborato con il governo per un prestito, ottenne l’autorizzazione per un “Crédit mobilier portoghese”, che ebbe tuttavia breve vita. Il fondatore andò in bancarotta nella crisi del 1857, e la società affondò con lui. Successivamente altri imprenditori francesi contribuirono alla creazione di due istituti di credito fondiario sull’esempio del “Crédit foncier”. 27 pubblico incompetente e inefficiente, conservato più per fini di censura, spionaggio ed erariali che per pubblica utilità. Il servizio postale moderno ebbe inizio nel 1840 quando sir Rowland Hill, direttore generale delle poste del Regno Unito, introdusse il servizio postale preparato alla tariffa unica di un penny. In pochi anni, sistemi simili furono adottati dalla maggioranza delle nazioni occidentali. Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India. Nel 1875, il primo ministro tory Benjamin Disraeli fece del governo un azionista di una delle maggiori imprese private dell’epoca rilevando le azioni della Compagnia del Canale di Suez, società di diritto francese, appartenute al kedivè d’Egitto. Fino al 1870, le sole scuole esistenti erano quelle gestite da fondazioni private o religiose che erano quasi tutte a pagamento. Una buona metà della popolazione non riceveva alcuna educazione formale. L’Education Bill del 1870 assicurava il sostegno statale alle scuole private ed ecclesiastiche esistenti che rispondessero a certi requisiti minimi. Solo nel 1891, l’istruzione divenne gratuita e universale fino all’età di 12 anni. Anche nell’istruzione superiore, l’Inghilterra era indietro rispetto al continente e agli Stati Uniti. Fino a quando nel XX secolo non furono istituite borse di studio statali, Oxford e Cambridge rimasero aperte solo ai figli dei ricchi. La Scozia, con una popolazione molto minore, possedeva quattro antiche e fiorenti università aperte a tutti i richiedenti diplomati. L’University College of London si trasformò nel 1898 in Università di Londra con l’aggiunta di nuovi colleges. Nel 1880, Manchester divenne la prima città di provincia ad avere una nuova università. I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di “paternalismo statale” o “étatisme”. In diversi di essi, lo stato era proprietario di foreste, miniere e persino imprese industriali. Nel XVIII secolo, man mano che diveniva evidente la superiorità della tecnologia britannica in determinate industrie, i governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi di tale tecnologia con lo spionaggio o altri mezzi. Sia la Francia sia la Prussia intrapresero la fusione di ghisa grezza mediante carbon coke in altiforni di proprietà statale. Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti comportò il coinvolgimento di tutti i governi. I britannici fecero il meno possibile lasciando la promozione, la costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata; ma persino in Gran Bretagna il parlamento fu costretto ad approvare la normativa che consentiva alle società di acquistare terre per i diritti di transito, e la legge sulle ferrovie del 1844 precisò tutta una serie di principi e regole, inclusa una tariffa massima per il trasporto passeggeri della terza classe. Negli altri paesi, i governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie. In Francia si svolse un lungo dibattito sulla questione della proprietà statale o privata; alla fine ebbero la meglio i sostenitori della proprietà privata, ma con numerose clausole condizionali che lasciarono ampio spazio all’iniziativa statale. Dopo la proclamazione dell’impero, Bismarck istituì l’Ufficio imperiale delle ferrovie, la cui funzione era di rilevare el società private e di impiegare consapevolmente le ferrovie come strumento di politica economica, concedendo ad esempio tariffe di favore alle merci destinate all’esportazione. La politica ferroviaria dell’Impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali a una preferenza per le società private e a un ritorno infine alla tesi statalista. In Svezia si giunse all’affermazione del principio della proprietà statale. Negli Stati Uniti, il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli stati fino alla guerra civile, ma subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle ferrovie transcontinentali. 4. RELAZIONI INTERNAZIONALI Al Congresso di Vienna del 1814-1815, gli uomini che avevano sconfitto Napoleone tentarono di riportare in vita l’ancien régime sia sul piano politico sia sociale ed economico, ma i loro sforzi si rivelarono vani. Una divergenza di interessi tra i vincitori, in particolare tra la Gran Bretagna e i sovrani restaurati dell’Europa continentale, affrettò il collasso del vecchio ordine così riaffermato. 30 Con le rivoluzioni del 1830 e del 1848, in Europa continentale il crollo definitivo dell’ancien régime divenne evidente dappertutto tranne che in Russia e nell’Impero ottomano. Queste rivoluzioni non furono eventi di natura prevalentemente economica, ma ebbero importanti conseguenze per l’economia, in primo luogo attraverso la formazione di nuovi schieramenti nelle forze politiche. In Francia, la rivoluzione del 1830 sostituì a un governo decisamente reazionario uno più compiacente nei confronti degli interessi commerciali e industriali, mentre nel 1848, le classi lavoratrici urbane fecero un risoluto tentativo di appropriarsi del potere politico per poi essere sconfitte dalle forze della repressione. La rivoluzione del 1830 nei Paesi Bassi meridionali determinò la nascita di una nuova nazione, il Belgio, che ben presto si dimostrò tra le più economicamente progredite del continente. Le rivoluzioni del 1848 nei paesi dell’Europa centrale ebbero come effetto la liquidazione degli ultimi resti del regime feudale. In tutte queste rivoluzioni, il nazionalismo si rivelò una forza determinante. In Germania, l’unificazione economica raggiunta con lo Zollverein sotto l’egemonia prussiana negli anni trenta precedette il compimento nel 1871 dell’unificazione politica, e contribuì a porre le fondamenta della potenza industriale tedesca. La mancanza di un’analoga unificazione economica prima della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 ostacolò considerevolmente l’ascesa del paese al rango di grande potenza. Nell’Impero ottomano, la conquista dell’indipendenza da parte della Grecia, della Serbia, della Romania e della Bulgaria pose questi paesi nella condizione di pedine nella partita a scacchi delle politica di potenza. Per la restante parte del secolo, avventurieri britannici, francesi, americani e tedeschi rivendicarono in vari modi le isole dei Mari del Sud. Seguì la spartizione dell’Africa da parte delle potenze coloniali europee e nel 1898, gli Stati Uniti si impossessarono delle poche colonie che ancora rimanevano alla Spagna. Tutte le potenze imperiali europee erano convinte che la loro supremazia politica fosse di beneficio all’espansione continua del sistema mondiale dei mercati e che era naturale che l’Europa fosse al centro di tale sistema. 31 Cap.10: Le economie europee si adeguano (o meno) alla crescita economica moderna 1. LA GRAN BRETAGNA Alla fine delle Guerre napoleoniche, la Gran Bretagna era di gran lunga il maggiore paese industriale del mondo. La sua posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale avevano fatto sì che essa si affermasse anche come principale potenza commerciale mondiale. La Gran Bretagna conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Nel 1870, essa controllava circa un quarto del commercio internazionale complessivo. Dopo il 1870, perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Gli Stati Uniti la superarono in quanto a produzione industriale totale nel corso degli anni ottanta, e lo stesso fece la Germania nel primo decennio del XX secolo. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale, ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Nell’industria siderurgica, la Gran Bretagna raggiunse il massimo relativo intorno al 1870. Nel 1890, gli Stati Uniti avevano conquistato la prima posizione, e nei primi anni del Novecento, la Gran Bretagna fu superata anche dalla Germania. Nell’industria del carbone, la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa. Dato il ruolo pionieristico della Gran Bretagna nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di consulenti, materiai e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un altro potente stimolo fu rappresentato dall’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e del legno al ferro. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore sia di quelle a vela nel corso degli anni cinquanta; negli anni ottanta al ferro cominciò a subentrare l’acciaio. Nei primi anni del XX secolo, l’industria britannica delle costruzioni navali produceva oltre 1 milione di tonnellate l’anno. Ciò equivaleva a oltre il 60% delle costruzioni mondiali. L’agricoltura era ancora il settore che impiegava il maggior numero di unità lavorative seguita al secondo posto dai servizi domestici. Le industrie tessili rappresentavano meno dell’8% della forza lavoro totale. I fabbri erano più numerosi degli operai dell’industria siderurgica primaria; i calzolai superavano come numero i minatori dell’industria del carbone. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della supremazia industriale nei confronti delle altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il 1870. Successivamente venne superata da Stati Uniti e Russia. Un esempio del declino relativo della Gran Bretagna potrebbe essere il fallimento della strategia imprenditoriale. È un fatto indiscutibile che alcuni degli imprenditori vittoriani erano individui dinamici e aggressivi: i nomi di William Lever e di Thomas Lipton erano gli esempi ben nota tutti. Da indizi numerosi sembra che nel complesso gli imprenditori del tardo periodo vittoriano non esibirono lo stesso dinamismo dei loro predecessori, man mano che i figli e i nipoti dei fondatori delle dinastie industriali adottavano lo stile di vita del gentiluomo agiato abbandonando l’amministrazione quotidiana delle loro ditte nelle mani di direttori stipendiati. L’introduzione tardiva e quasi controvoglia di nuove industrie ad alto tasso tecnologica, come quella della chimica organica, dell’elettricità, dell’ottica e dell’alluminio fu un segno di inerzia imprenditoriale. Ancor più rivelatrice è la risposta tardiva e parziale degli imprenditori britannici alle nuove tecnologie in quelle industrie di base di cui essi erano i maestri. Le industrie tessili resistettero a lungo contro l’introduzione di macchine di qualità superiore per la filatura e la tessitura inventate negli Stati Uniti e in Europa, e i produttori di soda Leblanc combatterono per trent’anni un’inutile battaglia di retroguardia contro il procedimento Solvay per la fabbricazione della soda mediante ammoniaca introdotto dal Belgio. 32 determinato la crescita: carbone, ferro, metalli non ferrosi, industria meccanica e tessili. Sempre per tutto il secolo, l’industria belga dipese pesantemente dall’economia internazionale: in definitiva, le esportazioni rappresentarono almeno il 50% del prodotto nazionale lordo. Un partner particolarmente importante era la Francia. 4. LA FRANCIA Di tutti i paesi della prima ondata industriale, la Francia fu quello con il modello di crescita più aberrante. Sebbene il modello francese di industrializzazione differisse da quello britannico e di altri paesi, il risultato fu non meno efficiente. L’aspetto più notevole del XIX secolo, nel caso della Francia, fu il modesto tasso di crescita demografica. Un secondo aspetto è la questione delle risorse. L’industrializzazione della Gran Bretagna, del Belgio e successivamente degli Stati Uniti e della Germania dipese in larga misura dalle abbondanti riserve di carbone. La Francia ne era molto meno ricca; inoltre, le caratteristiche dei suoi giacimenti rendevano più costoso il loro sfruttamento. Questi fatti ebbero importanti ripercussioni su altre industrie, come quella dell’energia idraulica, dell’acciaio, dell’alluminio, dell’automobile e dell’aviazione. La crescita economica moderna cominciò in Francia nel XVIII secolo. Il secolo si chiuse per la Gran Bretagna con l’inizio della “rivoluzione industriale” (nel settore cotoniero), mentre la Francia fu colpita dagli spasimi di un grande sconvolgimento politico, la Rivoluzione francese. E quest’importante differenza influenzò i risultati relativi delle due economie per gran parte del XIX secolo. Per venticinque anni, dal 1790 al 1815, con il breve intervallo della tregua dovuta al Trattato di Amiens, la Francia fu quasi costantemente coinvolta in quella che è stata definita la “prima guerra moderna”. La domanda bellica determinò l’espansione della produzione economica. Nell’industria cotoniera furono introdotti filatoi meccanici, e macchine a vapore furono messe in funzione. Anche la Gran Bretagna entrò in guerra nel 1793, ma dovette sopportare un’emorragia molto inferiore delle forze lavorative. In virtù del suo controllo dei mari, le sue esportazioni crebbero in maniera sensazionale, affrettando la modernizzazione tecnologica delle principali industrie. Dopo una depressione postbellica piuttosto severa, che colpì tutta l’Europa occidentale continentale e toccò persino la Gran Bretagna, l’economia francese riprese a crescere a tassi ancor più elevati che nel XVIII secolo. Nel XIX secolo, il prodotto nazionale lordo crebbe probabilmente con un tasso medio compreso tra l’1,5% e il 2% annuo. La lenta crescita demografica francese spiega in grande misura la crescita apparentemente lenta dell’economia nel suo complesso. Per tutta la prima metà del secolo, l’industria manuale, artigianale e domestica costituì almeno i tre quarti della produzione “industriale” totale. Furono poste le basi di un’importante industria meccanica; verso il 1850, il valore delle esportazioni di macchine superò quello delle importazioni in un rapporto di oltre 3 a 1. Fra il 1815 e il 1845, il consumo di cotone grezzo si quintuplicò. Le industrie chimica, del vetro, della porcellana e della carta, pure in rapida crescita, erano senza eguali in quanto a varietà e qualità dei loro prodotti. Molte nuove industrie nacquero o furono velocemente importate in questo periodo: l’illuminazione a gas, i fiammiferi, la fotografia, la galvanoplastica, la manifattura di gomma vulcanizzata. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni facilitarono la crescita del commercio interno ed estero. Le crisi politiche ed economiche del 1848-1851 causarono un’interruzione del ritmo dello sviluppo economico. La crisi della finanza pubblica e privata paralizzò le costruzioni ferroviarie e le altre opere pubbliche. La produzione di carbone crollò improvvisamente del 20%. Le importazioni si dimezzarono; le esportazioni diminuirono leggermente. Con il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo Impero, l’anno seguente, la crescita economica francese riprese il vecchio corso a un ritmo accelerato. La guerra del 1870-1871 fu un disastro sia dal punto di vista militare sia economico, ma l’economia francese si riprese in una maniera che sbalordì il mondo. Fu colpita dalla depressione del 1873 meno delle altre nazioni in via di industrializzazione, e ne uscì con maggiore rapidità. Cominciò allora un nuovo boom che durò fino al 1881. In questo periodo, la rete ferroviaria crebbe da circa 3.000 chilometri a oltre 27.000. Le costruzioni ferroviarie rappresentarono un efficace 35 stimolo per il resto dell’economia. In quel periodo, la produzione del carbone e quella del ferro si quadruplicarono. Il commercio estero crebbe di oltre il 5% annuo, e la Francia aumentò leggermente la propria quota del commercio mondiale totale. Nel periodo compreso tra il 1851 e il 1881, la ricchezza e il reddito della Francia crebbero ai massimi ritmi del secolo, con una media annua compresa tra il 2 e il 4%. La depressione che ebbe inizio nel 1882 durò più a lungo e costò probabilmente alla Francia più di tutte le precedenti depressioni del XIX secolo. Il commercio estero ebbe nel complesso una contrazione e rimase virtualmente stazionario per oltre quindici anni, e con la perdita dei mercati esteri anche l’industria nazionale entrò in stagnazione. La prosperità tornò finalmente con l’estensione dei bacini minerari della Lorena e l’affermarsi di nuove industrie come quella dell’elettricità, dell’alluminio, del nichel e delle automobili. La Francia tornò a godere di un tasso di crescita paragonabile a quello del 1815-1848. La “Belle époque” fu quindi un periodo di prosperità materiale e fioritura culturale. Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con il più basso ritmo di urbanizzazione. La causa principale di questo fenomeno fu la lenta crescita demografica complessiva. Numerosi fattori sono stati tirati in ballo per tentare di spiegare la percentuale relativamente elevata di persone impiegate in agricoltura, ma si è generalmente trascurato il fatto che all’inizio di questo secolo, la Francia era il solo paese industrializzato europeo autosufficiente dal punto di vista alimentare, e anzi con un’eccedenza da esportare. Per quanto riguarda la dimensione e la struttura dell’impresa, la Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. C’erano numerosissime piccole e medie aziende, che davano lavoro alla grande maggioranza dei salariati. Tra le aziende di dimensioni ridotte, quelle con meno di 10 operai si concentravano nelle tradizionali industrie artigianali, quali quella alimentare, dell’abbigliamento e della lavorazione del legno. Non devono sfuggire due ulteriori caratteristiche della dimensione relativamente ridotta delle imprese francesi: l’alto valore aggiunto (articoli di lusso) e la dispersione geografica. La Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. 5. LA GERMANIA Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione, la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. In Renania, Sassonia, Slesia e nella città di Berlino esistevano piccole concentrazioni industriali, per lo più però di tipo artigianale o protoindustriale. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico, e l’esistenza di numerose entità politiche diverse, con sistemi monetari separati, politiche commerciali distinte e altri impedimenti agli scambi commerciali, era causa di ulteriori ritardi. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, l’Impero tedesco unificato era la più potente nazione industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e derivati, dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La sua produzione di carbone era seconda soltanto a quella britannica, e la Germania era all’avanguardia nella produzione di vetro, strumenti ottici, metalli non ferrosi, tessili e altri prodotti di manifattura. Possedeva inoltre una delle reti ferroviarie più dense. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in tre periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo, che dall’inizio del secolo arriva a comprendere la costituzione nel 1833 dello Zollverein, registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in Gran Bretagna, Francia e Belgio e la determinazione delle condizioni legali e intellettuali essenziali per la transizione al moderno ordine industriale. Nel secondo, un periodo di imitazione consapevole e di prestiti che durò fino al 1870 circa, assunsero consistenza le vere e proprie fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. La Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua a occupare ancor oggi. In ognuno di questi periodi svolsero un’azione importante le influenze esterne. 36 La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone, aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi. Durante l’epoca napoleonica, l’influenza francese fu molto forte nella Confederazione del Reno, che abbracciava gran parte della Germania centrale. Persino la Prussia adottò molte istituzioni legali ed economiche francesi. Editti successivi abolirono le corporazioni e abrogarono altre restrizioni alle attività commerciali e industriali, migliorarono la posizione giuridica degli ebrei, riformarono il sistema fiscale e snellirono l’amministrazione centrale. Altre riforme diedero alla Germania il primo sistema educativo moderno. Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse alla formazione dello Zollverein (letteralmente, unione doganale o tariffaria). Le fondamenta furono poste nel 1818, quando fu decisa l’applicazione di una tariffa unica per tutta la Prussia, con l’obiettivo primario dell’efficienza amministrativa e di un maggiore gettito fiscale. Esso raggiunse due risultati: in primo luogo, abolì tutti i dazi interni e le barriere doganali, creando un “mercato comune” tedesco; in secondo luogo, rese possibile la determinazione, da parte della Prussia, di una tariffa comune verso l’estero. In generale, lo Zollverein seguì una politica commerciale “liberale”. Se lo Zollverein rese possibile un’economia tedesca unificata, le ferrovie la trasformarono in realtà. Le rivalità tra i vari stati tedeschi affrettarono altresì la costruzione di ferrovie. Di conseguenza, la rete ferroviaria tedesca crebbe molto più rapidamente di quella francese dove esisteva sì un governo unico, ma si era indecisi sulla questione dell’iniziativa privata o statale. Le costruzioni ferroviarie obbligarono inoltre gli stati a riunirsi per accordarsi su itinerari, prezzi e altre questioni tecniche, rafforzando la cooperazione interstatale. Fino agli anni quaranta, la produzione tedesca di carbone fu più bassa di quella francese e persino di quella del Belgio, e fino agli anni sessanta anche la produzione di ferro fu più bassa di quella francese. Dopo quelle date, i progressi in entrambe le industrie furono estremamente rapidi, e dovuti in buona parte all’estensione della rete ferroviaria. La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del carbone, e la chiave della crescita di quest’ultima fu il bacino carbonifero della Ruhr. Poco prima della Prima guerra mondiale, la Ruhr produceva circa i due terzi del carbone tedesco. Prima del 1850, la regione era molto meno importante della Slesia, della Saar, della Sassonia e persino dell’area introno ad Acquisgrana. La produzione commerciale cominciò nella valle della Ruhr vera e propria nel corso degli anni ottanta del XVIII secolo. Le miniere erano poco profonde, le tecniche semplici, e la produzione trascurabile. Negli anni trenta dell’Ottocento furono scoperti i giacimenti “nascosti” a nord della valle della Ruhr. Il loro sfruttamento richiedeva capitali più ingenti, tecniche più sofisticate e una maggiore libertà d’impresa. Tutto ciò fu infine fornito in larga misura da ditte straniere. Dal 1850, la produzione carbonifera della Ruhr crebbe con grande rapidità. Ancora nel 1840, l’industria siderurgica tedesca possedeva un aspetto primitivo. La produzione dell’acciaio Bessemer iniziò nel 1863. Nel 1895, la produzione tedesca di acciaio superò quella britannica, per divenire più. Del doppio nel 1914. L’industria tedesca era grande non solo in termini di prodotto totale, ma anche nella dimensione delle unità produttive. L’anno 1870-1871, così drammatico nella storia della politica per la Guerra franco-prussiana, la caduta del Secondo Impero in Francia e la nascita di un nuovo Secondo Impero in Germania, fu meno sensazionale per la storia dell’economia. L’unificazione economica era un fatto compiuto, e già nel 1869 era iniziata una nuova impennata ciclica di investimenti, scambi e produzione industriale. Nel solo 1871, furono costruite 207 nuove società per azioni. Nel processo, gli investitori tedeschi cominciarono a ricomporre le azioni di aziende tedesche in mani straniere e persino a investire all’estero. Questa iperattività si arrestò bruscamente con la crisi finanziaria del giugno 1873. Una volta esauritisi gli effetti della depressione, la crescita riprese però con ancora maggior vigore. La produzione di carbone, ferro e acciaio era notevole. Fino al 1860, l’industria chimica tedesca fu quasi inesistente. Stimolati dalla nuova letteratura sull’uso della chimica in agricoltura, un’invenzione tedesca, i coltivatori richiedevano anche fertilizzanti artificiali. Gli imprenditori chimici poterono avvalersi della tecnologia più aggiornata in un’industria in rapida evoluzione. L’esempio più notevole fu quello dell’avvento dei composti 37 Sia l’argomentazione di Smith a favore del libero scambio sia quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche. Nel 1820, un gruppo di mercanti londinesi presentò al parlamento una petizione che invocava il libero commercio internazionale. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette “Corn Laws”, le leggi sul grano che imponevano dazi sulle importazioni. La crescita demografica e lo sviluppo dell’urbanizzazione rendevano virtualmente impossibile l’autosufficienza alimentare, ma il parlamento resisteva pervicacemente ai tentativi di ritoccare le “Corn Laws”, È con l’abrogazione delle leggi sul grano che cominciò a prendere forma quello che sarebbe stato, almeno fino al 1914, il moderno sistema politico britannico. I “Whigs”, noti in seguito come liberali, divennero il partito del libero scambio e delle manifatture, mentre i “Tories”, noti anche con il nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi fondiari e, in seguito, dell’imperialismo. Sempre in quel periodo, il parlamento fece tabula rasa di gran parte della vecchia legislazione “mercantilistica”, come le leggi sulla navigazione, che furono abrogate nel 1849. Si affermò un’intransigente politica liberoscambista. Dopo il 1860, rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di bilancio su prodotti. Non britannici quali brandy, vino tabacco, caffè, tè e pepe. Nonostante molte delle tariffe fossero completamente eliminate e fosse stato ridotto l’importo di quelle che ancora rimanevano, l’aumento degli scambi totali fu tale che le entrate doganali del 1860 furono maggiori di quelle del 1842. 2. L’ETÀ DEL LIBERO SCAMBIO Il secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato commerciale, il Trattato anglo-francese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito tradizionalmente una politica protezionistica; ciò era stato particolarmente vero nella prima metà dell’Ottocento, quando il governo francese aveva cercato di proteggere l’industria tessile cotoniera dalla concorrenza britannica. Parte della politica proibizionistica francese era consistita nel divieto perentorio di importare tessuti di cotone e di lana e nell’applicazione di tariffe molto elevate su altre merci. Il governo di Napoleone III, salito al potere con il colpo di stato del 1851, desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran Bretagna. L’obiettivo era quello di guadagnare status politico e rispetto diplomatico. Dopo la Guerra di Crimea, nella quale la Gran Bretagna e la Francia erano state alleate, Napoleone III desiderava cementare questi nuovi legami d’amicizia. Sebbene in Francia avesse tradizionalmente prevalso una politica protezionistica, una forte corrente di pensiero sosteneva il liberalismo economico. Uno dei capi di questa scuola era l’economista Michel Chevalier, che aveva molto viaggiato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e possedeva una mentalità cosmopolita. Un’altra circostanza politica rese più allettante la scelta del trattato. Secondo la costituzione del 1851, l’approvazione di ogni legge che riguardasse la nazione spettava al parlamento bicamerale, mentre il sovrano, l’imperatore, deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere, le cui clausole avevano in Francia forza di legge. Napoleone aveva cercato negli anni cinquanta di ridurre la forte impronta protezionistica della politica francese. In Gran Bretagna, si riteneva a quel tempo che i vantaggi di una politica liberoscambista sarebbero stati così evidenti che altre nazioni l’avrebbero spontaneamente adottata. Di conseguenza, un trattato negoziato da Cobden e Chevalier verso la fine del 1859 fu firmato nel gennaio del 1860. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti i dazi sull’importazione di merci francesi a eccezione del vino e del brandy; questi ultimi erano considerati prodotti di lusso per i consumatori britannici, per cui la Gran Bretagna manteneva su di essi dazi ridotti. Dati i saldi legami economici con il Portogallo, anch’esso produttore vinicolo, la Gran Bretagna fu attenta a salvaguardare la posizione di preferenza del Portogallo nel mercato britannico. La Francia revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i dazi su un’ampia varietà di merci britanniche a un massimo del 30%. I francesi rinunciarono in tal modo al protezionismo estremo in favore di una sua forma moderata. 40 Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese terzo, la controparte nel trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa. In altri termini, entrambi i contraenti del Trattato anglo-francese avrebbero beneficiato del trattamento accordato alla “nazione più favorita”. La Gran Bretagna non aveva potere contrattuale per negoziare con altri paesi, mentre la Francia applicava ancora alti dazi sulle importazioni di merci dagli altri paesi. Nei primi anni sessanta, la Francia stipulò trattati con il Belgio, lo Zollverein, l’Italia, la Svizzera, la Scandinavia e quasi tutti i paesi europei a eccezione della Russia. Il risultato di questi nuovi trattati fu che se la Francia applicava un dazio più basso sulle importazioni di ferro dallo Zollverein, i produttori britannici beneficiavano automaticamente di queste tariffe ridotte. Alla serie di trattati negoziati dalla Francia con tutta Europa, si aggiunsero quelli stipulati tra gli altri paesi europei, tutti contenenti la clausola della nazione più favorita. Conseguenza di ciò era che ogni qual volta entrava in vigore un trattato aveva luogo una riduzione generale della tariffe. Le conseguenze di questa rete di trattati commerciali furono considerevoli. Il commercio internazionale crebbe di circa il 10% l’anno per diversi anni consecutivi. Gran parte dell’aumento dipese dal commercio intereuropeo, ma crebbero anche gli scambi tra l’Europa e il resto del mondo. I trattati in tal modo favorirono l’efficienza tecnica e aumentarono la produttività incoraggiando la diffusione di nuove tecniche e nuovi prodotti. 3. LA GRANDE DEFLAZIONE E IL RITORNO AL PROTEZIONISMO Il tasso di crescita del commercio europeo ebbe una flessione tra il 1873 e il 1897, per poi risollevarsi nuovamente fino allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Benché la produzione mondiale e i commerci continuassero a espandersi, il suddetto periodo può considerarsi una “grande depressione” a causa della sua insolita lunghezza e vista l’assenza di guerre di un certo rilievo rispetto alla storia precedente dell’Europa. Poiché anche la successiva depressione mondiale del 1929-1933 è stata chiamata “Grande depressione”, gli storici dell’economia preferiscono chiamare l’episodio precedente “Grande deflazione”. L’espressione ha il merito di porre l’accento sul fatto che in un periodo di produzione generalmente crescente si verificò una peculiare diminuzione generale dei prezzi. In concomitanza con una crescente integrazione dei mercati dovuta alla riduzione dei costi di trasporto. Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Nell’economia preindustriale, le brusche fluttuazioni dei prezzi erano stati fenomeni di carattere generalmente locale o regionale, provocati da cause naturali (siccità, inondazioni ecc.) che si ripercuotevano sui raccolti. Con lo sviluppo dell’industrializzazione e del commercio internazionale, le fluttuazioni cominciarono a essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. La depressione che seguì il panico del 1873 fu probabilmente la più grave e la più generale che si fosse verificata fino a quel momento nel mondo industriale. Gli industriali la attribuirono a torto all’accresciuta concorrenza internazionale frutto dei trattati commerciali e avanzarono nuove e più insistenti richieste di protezione. Il settore agricolo si associò a questa richiesta di protezione. Prima del 1870, essi non erano stati disturbati dalla concorrenza dei paesi d’oltremare. Nel 1850, le esportazioni statunitensi di frumento e farina, destinate soprattutto alla Indie occidentali, ammontavano a 8 milioni di dollari; nel 1870 a 68 milioni, destinati in buona parte all’Europa; nel 1880 a 226 milioni di dollari. Per la prima volta gli agricoltori europei si trovavano a fronteggiare una dura concorrenza sui propri mercati. La situazione dell’agricoltura tedesca in questo frangente era molto critica. La Germania era divisa all’epoca in un occidente in via di industrializzazione e un oriente agricolo. Gli Junker delle Prussia orientale si erano dedicati da tempo all’esportazione di grano in Europa occidentale, compresa la Germania occidentale, attraverso il Baltico. La popolazione tedesca stava crescendo rapidamente e con l’industrializzazione anche le città stavano espandendosi velocemente. Gli Junker desideravano perciò conservare l’esclusiva del grande e crescente mercato. 41 Otto von Bismarck, creatore e cancelliere del nuovo Impero tedesco colse quest’opportunità. Gli industriali della Germania occidentale da tempo reclamavano a gran voce una protezione tariffaria; ora che anche gli Junker prussiani si erano schierati al loro fianco, Bismarck decise di “accedere” alla richiesta, denunciò i trattati commerciali dello Zollverein con la Francia e altre nazioni e diede la sua approvazione a una nuova legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria sia per l’agricoltura. Fu questo il primo grande passo sulla strada del “ritorno al protezionismo”. Gli interessi protezionistici francesi, che non avevano mai accettato il Trattato Cobden-Chevalier, ripresero forza sul piano politico dopo la sconfitta nella Guerra franco-prussiana e ancor più con i dazi tedeschi del 1879. Nel 1881, essi riuscirono a ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo. L’agricoltura francese era dominata dai piccoli proprietari contadini i quali, nel sistema politico della Terza Repubblica, avevano il diritto di voto e il potere politico. Dopo che le elezioni del 1889 ebbero mandato alla Camera dei deputati una maggioranza favorevole al protezionismo, questa riuscì a far approvare nel 1892 la famigerata tariffa Méline. Questa tariffa è stata dipinta come estremamente protezionistica. Una guerra tariffaria con l’Italia, dal 1887 al 1898, arrecò gravi danni al commercio francese e ancora maggiori a quello italiano. L’Italia aveva seguito l’esempio tedesco nel ritorno al protezionismo e aveva deciso di discriminare in particolare le importazioni francesi. La mossa fu poco saggia, in quanto la Francia rappresentava per l’Italia il maggiore mercato estero. Per rappresaglia, i francesi imposero a loro volta dei dazi discriminatori. Anche la Germania e la Russia scatenarono una breve guerra tariffaria tra il 1892 e il 1894. Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi. L’Austria-Ungheria negoziò dei trattati con la Francia e alcuni altri paesi ma conservò un grado di protezione più elevato degli altri e ritornò rapidamente all’ultraprotezionismo. La Russia non era mai entrata nella rete di trattati commerciali inaugurata dal Trattato Cobden-Chevalier e nel 1891 introdusse i dazi virtualmente proibitivi. Gli Stati Uniti avevano oscillato tra dazi molto alti e molto bassi, ma nel complesso avevano seguito una politica di dazi contenuti. Dopo la guerra civile, con il radicale ridimensionamento dell’influenza politica del Sud e l’aumento di quella degli interessi manifatturieri del Nordest e del Midwest, essi divennero uno dei paesi più protezionistici e tali rimasero in larga misura fino a dopo la Seconda guerra mondiale. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio e di queste la più notevole fu la Gran Bretagna. Sorsero dei movimenti politici che si battevano per un “commercio giusto” e una “preferenza imperiale”. I Paesi Bassi si specializzarono nella lavorazione di merci importate da oltreoceano quali zucchero, tabacco e cioccolato destinati alla riesportazione in Germania e negli altri paesi continentali; essi mantennero perciò una posizione prevalentemente liberoscambista e lo stesso fece il Belgio. La Danimarca fu apparentemente danneggiata dalle importazioni su larga scala di grano a buon mercato; tuttavia i danesi passarono molto rapidamente dalla coltivazione dei cereali all’allevamento del bestiame e alle produzione casearia e di pollame. Anche la Danimarca rimase perciò nel blocco liberoscambista. Le nazioni di tutto il mondo e in special modo quelle europee, dipendevano come non mai dal commercio internazionale. Nei maggiori paesi sviluppati — Gran Bretagna, Francia e Germania — le esportazioni rappresentavano tra il 15 e il 20% del reddito nazionale totale. Gli Stati Uniti erano nel 1914 il terzo paese al mondo in quanto a esportazioni. Anche diversi paesi latinoamericani erano coinvolti nei mercati mondiali per via delle loro esportazioni di commestibili e materie prime, destinati per oltre il 50% all’Europa. L’economia mondiale all’inizio del XX secolo era più integrata e interdipendente di quanto fosse mai stata in precedenza o di quanto lo sarebbe stata fino a molto dopo la Seconda guerra mondiale. 4. IL GOLD STANDARD INTERNAZIONALE Secondo alcuni, l’alto grado di integrazione raggiunto dall’economia mondiale nella seconda metà del XIX secolo dipese criticamente da un’adesione generale al gold standard internazionale. Secondo altri, quest’integrazione fu prima di tutto una conseguenza del ruolo centrale della Gran 42 avevano pochi debiti con l’estero e ancor meno crediti. Nei decenni centrali del secolo, le province occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, che contribuirono alla nascita di industrie possenti e all’avvio di un boom di eccedenze delle importazioni che fornirono i fondi con i quali la Germania fu in grado di ripagare i capitali esteri e di accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò di avvalersi dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera; nel 1887 chiuse la Borsa valori di Berlino alle obbligazioni russe e in seguito spinse la Deutsche Bank a intraprendere la costruzione della “Ferrovia dell’Anatolia. I paesi industrializzati minori dell’Europa occidentale le cui economie nel corso del secolo avevano beneficiato di investimenti esteri, erano divenuti alla fine del secolo creditori netti come la Germania. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri, gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore. Dopo la guerra civile, gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono a investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali e agricole. Nei successivi quattro anni di guerra, i prestiti americani agli alleati portarono gli Stati Uniti al primo posto tra i paesi creditori. In Europa, il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa fu costruita soprattutto con capitali esteri. Gli stranieri investirono ingentemente anche nelle banche russe a capitale azionario e nelle grandi industrie metallurgiche. I prestiti maggiori furono contratti dal governo russo che usò il denaro non solo per costruire ferrovie, ma anche per finanziare l’esercito e la flotta. Dopo il 1917, gli investitori persero tutto. La maggior parte dei paesi europei contrasse prestiti nel corso del XIX secolo. La Germania e alcuni dei paesi sviluppati più piccoli da debitori netti diventarono creditori netti. Si può affermare che a livello pro capite, gli investimenti in Svezia, Danimarca e Norvegia fossero i maggiori d’Europa. Le somme prese in prestito furono investite saggiamente oltre che ai buoni progressi dal lato dell’istruzione fatti registrare dalle popolazioni di quei paesi, anche del rapido sviluppo di quelle economie nella seconda metà del XIX secolo. Come i paesi scandinavi, anche l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada beneficiarono di ingenti investimenti esteri in rapporto al numero di abitanti. Fino al 1914, il Canada aveva ricevuto l’equivalente di 3,85 miliardi di dollari, in gran parte dalla Gran Bretagna. L’Australia aveva avuto 1,8 miliardi di dollari e la Nuova Zelanda circa 300 milioni. In tutti e tre i casi, la maggior parte dei fondi furono investiti in titoli pubblici e confluirono nel finanziamento di beni capitale di utilità sociale (ferrovie, installazioni portuali, servizi pubblici, ecc.). L’Australia esportava anche discrete quantità di frumento e metalli grezzi. Canada, Nuova Zelanda e Australia svilupparono industrie di servizi e in qualche modo le manifatture, ma rimasero dipendenti dall’Europa e in particolare dalla Gran Bretagna. Gli investimenti effettuati in America Latina e in Asia furono molto inferiori. Inoltre in queste aree mancava un’analoga consistente quantità di capitale umano da mettere all’opera e le strutture istituzionali delle loro economie non erano propizie allo sviluppo economico. In queste zone e in Africa, il risultato principale degli investimenti esteri fu lo sviluppo di fonti di materie prime per le industrie europee. La Gran Bretagna era dovunque la fonte principale dei capitali: il 42% in America Latina, il 50% in Asia e oltre il 60% in Africa. Alla ricerca di nuovi mercati esteri, gli imprenditori delle prime nazioni industriali crearono in tutto il mondo nuove forme d’impresa basandosi sulle proprie esperienze nei paesi di provenienza. La prima metà della globalizzazione economica coinvolse tutto il mondo fino agli sconvolgimenti della Grande guerra. 45 Cap.12: La diffusione dello sviluppo in Europa: 1848-1914 Prima del 1850, esistevano singoli nuclei di industrie moderne, ma non si può dire che fosse in atto un vero e proprio processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo, in particolare in Svizzera, nei Paesi Bassi, in Scandinavia e nell’Impero austro-ungarico, più debolmente in Italia, nei paesi iberici e nell’Impero russo, mentre fu quasi nullo nei nuovi stati balcanici e nel decadente Impero ottomano. Nei paesi di più tarda industrializzazione, il carbone era scarso o del tutto assente. La produzione carbonifera spagnola, austriaca e ungherese era a malapena sufficiente. La Russia possedeva enormi giacimenti, ma solo nel 1914 ebbe inizio uno sfruttamento intensivo. Poiché l’impiego principale del carbone nei paesi scarsamente provvisti di tale materia prima era come combustibile per locomotive, piroscafi e caldaie a vapore fisse e poiché praticamente tutto il carbone dei paesi più avanzati nel gruppo, è evidente che la domanda costituì il fattore determinante nel favorire un consumo relativo più alto. L’aumento del consumo non fu una causa bensì una conseguenza del successo del processo di industrializzazione. 1. I PICCOLI VICINI EUROPEI 1.1 LA SVIZZERA Come la Germania fu l’ultimo tra i paesi della prima ondata industriale, così la Svizzera fu il primo della seconda. Sebbene la Svizzera avesse già acquisito diverse importanti risorse che avrebbero svolto un ruolo determinante nella sua rapida industrializzazione dopo il 1850, la sua struttura economica era ancora prevalentemente preindustriale. Nel 1850, oltre il 57% della forza lavoro era impiegato soprattutto in attività agricole; gli operai di fabbrica erano meno del 4%. La Svizzera era appena agli inizi dell’età delle ferrovie e possedeva meno di 30 chilometri di strade ferrate inaugurate da poco tempo. Il paese non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, a un’effettiva unione monetaria, a un sistema postale centralizzato e a uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è inoltre povera di risorse naturali a eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname ed è praticamente priva di carbone. Le montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile un buon 25% del suo territorio. Gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei livelli di vita più elevati di tutta Europa. La popolazione passò dai 2 milioni scarsi dei primi anni del XIX secolo a poco meno di 4 milioni nel 1914. La densità della popolazione era inferiore a quella degli altri paesi, ma ciò è in gran parte spiegabile con la natura del territorio. A causa della scarsità di terra arabile, gli svizzeri avevano praticato da tempo la combinazione di industria domestica, agricoltura e produzione casearia. La Svizzera dipendeva dunque dai mercati internazionali. Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto a un’insolita combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Esisteva una forza lavoro abile, adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. A ciò si aggiunse il giustamente famoso Istituto svizzero di tecnologia, fondato nel 1851, dal quale uscirono intelligenze addestrate e soluzioni ingegnose per i difficili problemi tecnici che si presentarono nel tardo XIX secolo. La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera che era basata però su lavorazioni di tipo artigianale e sul lavoro a tempo parziale. Nell’ultimo decennio del secolo, l’industria della filatura del cotone fu virtualmente annientata dalla concorrenza della più progredita industria britannica. L’industria si riprese e riuscì persino a prosperare. Per quanto più tradizionale dell’industria cotoniera, quella della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo più della precedente sia come numero di addetti sia a livello di esportazioni. Essa attraversò inoltre un processo di ammodernamento tecnologico. La Svizzera possedeva industrie della lana e del lino piuttosto piccole e produceva capi di abbigliamento, scarpe e altri articoli in cuoio. Il loro valore corrente passò dai circa 150 milioni di franchi degli anni trenta agli oltre 600 milioni del 1912-1913. 46 L’industria casearia, rinomata per il formaggio, si trasformò da un’attività artigianale a un processo di fabbrica. Sviluppò inoltre la produzione di latte condensato e diede origine a due industrie sorelle, la produzione di cioccolato e quella di alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, la manifattura di orologi da muro e da polso, continuò a essere caratterizzata dal lavoro manuale di artigiani ad altissima specializzazione e da una minuziosa divisione del lavoro. L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. La Svizzera non possedeva industrie pesanti o chimiche degne di menzione. Nel 1859 e 1860, dopo la scoperta dei coloranti artificiali, due piccole ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire l’industria locale dei nastri. Esse svilupparono inoltre varie specialità farmaceutiche. Probabilmente nessun altro paese europeo fu più radicalmente trasformato della Svizzera dall’avvento delle ferrovie, ma in nessun altro paese le ferrovie si rivelarono nel complesso un così cattivo affare. Gli investitori svizzeri apparentemente presagirono quest’ultima possibilità e si mostrarono estremamente riluttanti a impegnarsi, preferendo le ferrovie statunitensi e lasciando le proprie in gran parte a disposizione dei capitalisti stranieri. Le costruzioni ferroviarie cominciarono in grande stile nel corso degli anni cinquanta; nel 1882 fu completata la prima delle gallerie alpine, quella del Gottardo. Negli anni novanta, la maggior parte delle ferrovie si trovava sull’orlo della bancarotta. Nel 1898, il governo svizzero rilevò le ferrovie dai rispettivi proprietari a una frazione del loro costo reale. Poco dopo ne intraprese l’elettrificazione. Il successo svizzero dipese dall’identificazione di mercati di nicchia caratterizzati da una domanda di prodotti pregiati ad alto prezzo e dal soddisfacimento di tali mercati per mezzo di una forza lavoro qualificata che faceva uso di macchinari specializzati. 1.2. I PAESI BASSI E LA SCANDINAVIA Le caratteristiche comuni dei paesi scandinavi che li fa considerare in blocco non sono economiche, ma culturali. I Paesi Bassi hanno più in comune con la Danimarca di quanto i due paesi non abbiano con la Norvegia o con la Svezia. Tutti i quattro paesi, dopo aver perso molto terreno rispetto ai paesi più avanzati nella prima metà del secolo, fecero registrare un rapido salto in avanti nella seconda, in particolare negli ultimi due o tre decenni. Norvegia e Svezia rimasero a livelli inferiori pur vantando un tasso di crescita in linea con quello medio dei paesi dell’Europa settentrionale. Tutti questi paesi, come il Belgio e la Svizzera, avevano popolazioni modeste. All’inizio del XIX secolo, la Danimarca e la Norvegia avevano meno di 1 milione di abitanti, la Svezia e i Paesi Bassi meno di 2,5 milioni. La densità di popolazione variava fortemente. I Paesi Bassi avevano uno dei valori più alti d’Europa, mentre la Norvegia e la Svezia erano tra i paesi meno densamente popolati, persino meno della Russia. La Danimarca era nel mezzo, ma più vicina ai Paesi Bassi. Sia nel 1850 sia nel 1914, i paesi scandinavi vantavano la percentuale più elevata di adulti in grado di leggere e scrivere in Europa e nel mondo, mentre i Paesi Bassi erano ben al di sopra della media europea. Questo fatto ebbe un valore inestimabile nell’aiutare le economie nazionali a trovare le loro nicchie nelle correnti in perenne e rapida evoluzione dell’economia internazionale. Il fatto più significativo è che tutti e quattro i paesi, come la Svizzera ma a differenza del Belgio, erano privi di carbone. La Svezia era la nazione più fortunata a causa dei suoi ricchi giacimenti di ferro, fosforoso o meno, le vaste distese di foreste da legname e l’energia idraulica. Anche la Norvegia possedeva molto legname, alcuni giacimenti di metalli e un enorme potenziale di energia idraulica. L’energia idraulica fu un fattore significativo per lo sviluppo della Svezia e della Norvegia nella prima parte del XIX secolo, ma divenne estremamente importante con l’imbrigliamento dopo il 1890 dell’energia idroelettrica. Danimarca e Paesi Bassi erano quasi altrettanto privi di energia idraulica di quanto non lo fossero di carbone. Avevano a disposizione un ammontare non trascurabile di energia eolica, che però ben difficilmente poteva servire da fondamento per lo sviluppo della grande industria. La posizione geografica fu un elemento importante per tutti e quattro i paesi. A differenza della Svizzera, circondata da terre, tutti avevano un accesso diretto al mare. Ciò ebbe notevoli implicazioni per un’importante risorsa naturale internazionale, il pesce, oltre che per la 47 I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo economico dell’impero. Poiché gran parte del paese era montagnosa, o circondata da montagne, il trasporto terrestre era costoso e quello per via d’acqua inesistente nelle regioni montane. A differenza dei paesi già industrializzati, l’Austria- Ungheria disponeva di un ridotto numero di canali. Il corso del Danubio e di alcuni altri grandi fiumi portava a sud e a est, vale a dire in direzione opposta rispetto ai mercati e ai centri industriali. Solo a partire dagli anni trenta, con l’avvento della navigazione fluviale a vapore, tali corsi d’acqua poterono essere usati per la navigazione in risalita. Le prime ferrovie furono localizzate nell’Austria propriamente detta e in Boemia. L’Ungheria ne ebbe in misura maggiore dopo il 1850. L’effetto delle ferrovie fu di consolidare la già avviata divisione geografica del lavoro all’interno dell’impero. Negli anni sessanta, oltre metà delle merci trasportate dalle ferrovie ungheresi consisteva di grano e farina. Budapest divenne il maggiore centro europeo per la trasformazione del grano in farina, seconda nel mondo solo a Minneapolis. La città inoltre produceva ed esportava macchine per la macinatura del grano e alla fine del secolo cominciò a produrre anche macchine elettriche. L’impero possedeva alcune industrie pesanti. Esisteva da secoli, nella regione alpina, un’industria siderurgica alimentata dal carbone di legna, mentre la Boemia aveva una lunga tradizione metallurgica sia nei metalli ferrosi sia in quelli non ferrosi. Sorsero anche diverse industrie chimiche. Alcune industrie piuttosto sofisticate si svilupparono anche nella Bassa Austria, in particolare a Vienna e sobborghi. Nella metà occidentale (austriaca) della monarchia, l’industria continuò a crescere, gradualmente se non spettacolarmente, mentre quella della metà orientale (ungherese) registrò un rapido balzo in avanti dopo il 1867. 2. L’EUROPA MERIDIONALE E ORIENTALE Il modello di industrializzazione dei restanti paesi europei può essere illustrato in modo più sommario. Una caratteristica comune a tutti questi paesi fu l’insufficiente grado di industrializzazione fino al 1914. Se si guarda a singole regioni invece che agli aggregati nazionali, emergono cospicue varianti regionali, analoghe a quelle francesi, tedesche, asburgiche e persino britanniche. Le poche “isole di modernità” rimasero circondate da un mare di arretratezza. Una delle ragioni di questo fenomeno è una loro seconda caratteristica comune: i livelli spaventosamente bassi del capitale umano. Tra i paesi maggiori l’Italia, la Spagna e la Russia erano agli ultimi posti sia per quanto riguarda la percentuale di adulti in grado di leggere e scrivere sia per la frequenza delle scuole primarie e la situazione non era migliore nei paesi minori dell’Europa sudorientale. Questi paesi arretrati avevano una terza caratteristica comune che si rifletteva pesantemente sulle loro possibilità di sviluppo economico: l’assenza di una significativa riforma agraria. Verso la metà dell’Ottocento, la percentuale della forza lavoro agricola variava da un minimo del 20% in Gran Bretagna al 50-60% negli altri paesi di più rapida industrializzazione, per arrivare al 60% circa in italia, a più del 70% in Spagna e a un massimo di oltre l’80% in Russia e nell’Europa sudorientale. Per i paesi in questione è possibile individuare una quarta caratteristica comune, riassumibile nel fatto che tutti furono soggetti in vario grado a regimi autocratici, autoritari, corrotti o inefficienti. 2.1. LA PENISOLA IBERICA L’evoluzione economica della Spagna e del Portogallo nel XIX secolo è sufficientemente uniforme da rendere conveniente trattare i due paesi come fossero uno solo. Entrambi emersero dalle Guerre napoleoniche con sistemi economici primitivi e con regimi politici reazionari. La presenza di questi ultimi innescò nel 1820 dei moti rivoluzionari in entrambi i paesi. Entrambi i paesi erano afflitti da una finanza pubblica in condizioni deplorevoli. Durante le guerre civili, entrambe le parti in lotta contrassero prestiti all’estero per finanziare lo sforzo militare. In Spagna, dopo le rovine e le distruzioni delle Guerre napoleoniche, la perdita delle colonie americane determinò una drastica riduzione delle entrate statali tra il 1800 e il 1830. Prima della fine del secolo, entrambi i paesi dovettero rifiutare in più di un’occasione di riconoscere almeno una parte dei loro debiti. La bassa produttività dell’agricoltura rimase una debolezza fondamentale di entrambe le economie. Ancora nel 1910, il settore primario e in particolare l’agricoltura dava lavoro al 60% circa della forza lavoro in Spagna e almeno altrettanto in Portogallo. Negli anni quaranta, un decreto governativo che 50 imponeva il pagamento delle tasse in moneta contante invece che in natura scatenò una rivolta dei contadini, in quanto non esistevano mercati in cui questi ultimi potessero vendere i loro prodotti. Nella prima metà del secolo, la Spagna tentò una riforma agraria che si rivelò un fiasco completo. Il governo confiscò le terre della chiesa, delle municipalità e degli aristocratici che si erano schierati nel partito opposto durante le guerre civili, con l’intenzione di rivenderle ai contadini; le esigenze delle finanze pubbliche erano però tali che il governo finì con il venderle all’asta al miglior offerente; il risultato fu che la maggior parte della terra finì nelle mani dei già ricchi, sia aristocratici sia esponenti della borghesia urbana. I contadini dovettero assistere inerti all’avvicendamento tra due gruppi di proprietari assenteisti, che non portò né a miglioramenti tecnologici né a investimenti in beni capitali. Nessuna riforma agraria fu tentata invece in Portogallo. Un’industria cotoniera moderna si sviluppò dopo il 1790 in Catalogna, a Barcellona e dintorni e grazie ai dazi protezionistici e al mercato coloniale protetto di Cuba e Portorico, prosperò fino alla perdita di queste ultime colonie nel 1900. In Andalusia e nella provincia di Oporto del Portogallo esistevano industrie vinicole orientate all’esportazione. Nel 1850, vino e brandy costituivano il 28% delle esportazioni spagnole. Dopo il 1820, la crescente domanda estera di piombo per i lavori idraulici diede inizio allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di piombo della Spagna meridionale. Già nel 1827, le esportazioni di piombo in pani rappresentavano oltre l’8% delle entrate totali dall’estero. Tra il 1869 e il 1898, la Spagna fu il maggiore produttore mondiale di piombo. Nel 1900, le esportazioni di minerali e metalli costituivano circa un terzo delle esportazioni totali. Purtroppo per la Spagna, le esportazioni erano in gran parte di metalli grezzi (piombo e rame) o minerali (ferro). I capitali esteri predominavano anche in altri settori moderni dell’economia, quali le attività bancarie e le ferrovie. Il sistema bancario era dominato dalla Banca di Spagna, che era prima di tutto uno strumento delle finanze governative e solo pochi chilometri di ferrovie erano stati costruiti nel corso degli anni quaranta. Negli anni cinquanta, il nuovo regime decise di accordare uno speciale incoraggiamento ai capitali stranieri che intendessero creare banche e ferrovie. Sfortunatamente, una volta ultimate le linee principali e cessata la garanzia sugli interessi, le ferrovie non avevano ancora sviluppato un traffico sufficiente a pareggiare i costi di esercizio e la maggior parte di esse fece bancarotta. Le ferrovie erano state costruite in gran parte con materiali e attrezzature d’importazione da ingegneri stranieri e di conseguenza non ebbero, come le miniere, effetti stimolanti sull’economia. Esse cominciarono a fruttare non prima della fine del secolo. Il Portogallo ebbe la sua prima ferrovia, una breve linea che partiva da Lisbona, nel 1856 e la storia delle sue ferrovie fu persino più triste di quella spagnola. Costruite con capitali esteri, le ferrovie portoghesi non sfuggirono alla frode, alla corruzione e alla bancarotta e fecero ben poco per aiutare la crescita economica del paese. La Spagna possedeva diversi giacimenti di carbone, ma non di elevata qualità e localizzati in modo infelice ai fini dello sfruttamento industriale. Negli ultimi due decenni del XIX secolo, una piccole industria siderurgica e dell’acciaio si sviluppò lungo la costa settentrionale del paese nelle vicinanze di Bilbao. 2.2. L’ITALIA Fino al 1860, la frase di Metternich sull’Italia — “un’espressione geografica” — era appropriata non solo a livello politico, ma anche economico. Non esisteva un’ “economia italiana”. Rimasta fin dall’inizio dell’età moderna nelle retrovie del cambiamento economico, divisa e dominata da potenze straniere, l’Italia aveva perso da lungo tempo la sua supremazia negli affari economici. Guerre e intrighi dinastici l’avevano trasformata in un campo di battaglia per gli eserciti stranieri. Il Congresso di Vienna restaurò lo sconcertante mosaico di principati nominalmente indipendenti, tutti però, compresi lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie, sotto il controllo o l’influenza dell’Impero asburgico. L’Austria incorporò la Lombardia e Venezia: due delle regioni economicamente più progredite, già centri di importanti industrie e traffici commerciali. Il Regno di Sardegna, l’unico vero stato indipendente, era una miscela curiosa, una nazione artificiale composta da quattro grandi regioni, con climi, risorse, istituzioni e persino lingue differenti. L’isola 51 di Sardegna languiva nelle acque stagnanti del feudalesimo; i proprietari terrieri assenteisti non avevano alcun interesse a migliorare i propri possedimenti, con il risultato che la sua popolazione analfabeta viveva nelle condizioni più primitive. La Savoia apparteneva culturalmente ed economicamente alla Francia. Genova, centro commerciale dello stato, aveva resistito per secoli come repubblica indipendente fino all’avvento di Napoleone. Il Piemonte costituiva una continuazione geografica della pianura padana, ma l’altitudine e il clima lo distinguevano anche dalla Lombardia. Prima del 1850, possedeva poche industrie se si eccettuano alcuni setifici e qualche stabilimento metallurgico, ma sotto la guida di diversi intraprendenti proprietari terrieri, la sua agricoltura divenne la più avanzata e prospera della penisola. I differenziali economici regionali erano in Italia particolarmente marcati. Il gradiente nord-sud, ancor oggi evidente, esisteva fin dal Medioevo. La produttività agricola era più alta al nord, specialmente in Piemonte e nella valle del Po, dove esistevano inoltre varie industrie. Fu nel nord economicamente più progredito che ebbe inizio il movimento di unificazione nazionale. Dopo le rivoluzioni fallite e i tentativi di unificazione degli anni venti, trenta e del 1848-1849 repressi dagli Asburgo, nel Regno di Sardegna venne alla ribalta un personaggio eccezionale, il conte Camillo Benso di Cavour, proprietario terriero e imprenditore agricolo progressista che aveva anche promosso una ferrovia, un giornale e una banca e che nel 1850 divenne ministro della marina, del commercio e dell’agricoltura del piccolo stato da poco divenuto monarchia costituzionale. L’anno seguente ebbe anche il portafoglio delle finanze e nel 1852 divenne primo ministro. Sottolineò ripetutamente che l’ordine finanziario e il progresso economico erano le due “condizioni indispensabili” affinché il Piemonte potesse assumere, agli occhi dell’Europa, la guida della Penisola italiana. Per conseguire questi risultati, egli riteneva necessaria l’assistenza economica degli altri paesi e perciò anche la presenza di capitale straniero. Subito dopo aver assunto la carica nel 1850, negoziò trattati commerciali con tutti i più importanti paesi commerciali e industriali d’Europa. Tra il 1850 e il 1855, le esportazioni crebbero del 50%. Per il resto del decennio, i francesi, incoraggiati da Cavour, costruirono ferrovie, fondarono banche e altre società a capitale azionario e investirono nel crescente debito pubblico del regno. Una parte del debito pubblico era stata contratta per liquidare le sfortunate guerre del 1848-1849 e una più consistente per preparare la successiva guerra vittoriosa del 1859, in cui il Regno di Sardegna, appoggiato militarmente e finanziariamente dalla Francia, sconfisse l’Impero austriaco e spianò la strada al regno unificato d’Italia del 1861. Con la maggior parte della forza lavoro impegnata in attività agricole a bassa produttività, l’Italia aveva una lunga strada da percorrere. L’unificazione alleviò uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo economico, la frammentazione del mercato. L’estensione della legislazione progressista e del sistema amministrativo piemontese al regno allargato non poteva mutare d’un sol colpo il carattere arretrato delle istituzioni o l’analfabetismo e l’ignoranza della popolazione del resto della penisola. Nessuna legge poteva ovviare alla povertà di risorse naturali. Purtroppo per l’Italia, gli sforzi di Cavour, in quegli anni frenetici, lo condussero alla morte prematura tre soli mesi dopo la proclamazione del regno, privando in tal modo la nazione della sua guida saggia e ispirata. I suoi successori mancavano della sua esperienza, del suo acume e soprattutto della sua fine comprensione delle questioni finanziarie ed economiche. L’Italia continuò a dipendere dagli investimenti e dalle relazioni economiche con l’estero, soprattutto con la Francia, ma le iniziative del governo alienarono ripetutamente gli investitori stranieri e trascinarono l’Italia nel 1887 in una drammatica guerra tariffaria decennale con la Francia. Verso la fine degli anni novanta, dopo la conclusione della guerra tariffaria con la Francia e una nuova immissione di capitali esteri, questa volta dalla Germania, l’Italia fece registrare una modesta accelerazione della crescita industriale che durò fino a dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. L’Italia non era ancora un paese industriale, ma il suo cammino era iniziato con molto ritardo. Sempre negli anni novanta del XIX secolo, la pressione demografica determinò una massiccia emigrazione soprattutto in direzione degli Stati Uniti, ma anche dell’Argentina e di altri paesi dell’America Latina. 2.3. L’EUROPA SUDORIENTALE I cinque piccoli paesi che occupavano l’angolo sudorientale del continente europeo — Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia — erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti 52 Cap.13: La diffusione dello sviluppo oltre l’Europa: 1848-1914 Gli sterminato territori dell’Asia e dell’Africa furono interessati solo marginalmente dall’espansione commerciale del XIX secolo. Gran parte dell’America Latina continuò a beneficiarne, nonostante la disintegrazione di quello che fu l’Impero spagnolo in una serie di nazioni indipendenti. Sebbene ampie zone dell’Asia, in particolare l’India e l’Indonesia, fossero state aperte all’influenza e alla conquista europee fin dall’inizio del XVI secolo, gran parte del continente era rimasto isolato. Il vasto e antico Impero cinese, il Giappone, la Corea e i principati dell’Asia sudorientale, tentarono di rifuggire dalla civiltà occidentale, che consideravano inferiore. Essi rifiutarono di accettare rappresentanti diplomatici occidentali, espulsero o perseguitarono i missionari cristiani e ridussero il commercio con l’Occidente a una quota insignificante. Il clima di gran parte dell’Africa, soprattutto di quella racchiusa tra i tropici, era insopportabile per gli europei e quei pochi che si avventuravano in spedizioni contraevano malattie sconosciute e spesso letali. Pochi erano i fiumi navigabili. La virtuale assenza di comunità politiche organizzate, sul modello europeo e lo scarso sviluppo economico rendevano il continente africano poco attraente agli occhi dei commercianti e degli imprenditori europei. 1. IL GIAPPONE L’ultima e più sorprendente presenza nell’elenco dei paesi in via di industrializzazione nel XIX secolo fu quella del Giappone. Nella prima metà del secolo, il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze straniere. Dall’invio del Seicento, il governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste, che si avvicinavano sotto taluni aspetti a quelle feudali dell’Europa medievale. Nel XIX secolo, il livello tecnologico del Giappone era approssimativamente quello dell’Europa all’invio del Seicento. Nonostante queste limitazioni, l’organizzazione dell’economia era notevolmente sofisticata, con mercati attivi e un sistema creditizio. Il livello di analfabetismo era sostanzialmente più basso di quello dei paesi dell’Europa meridionale e orientale. Nel 1853 e ancora nel 1854, il commodoro Matthew Perry, ammiraglio della flotta statunitense, entrò con le sue navi nella Baia di Tokyo e minacciando di bombardare la città, costrinse lo shogun Tokugawa ad allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti. Subito dopo, altre nazioni occidentali ottennero privilegi simili a quelli accordati agli Stati Uniti. La debolezza dello shogunato Tokugawa di fronte alle prepotenze occidentali portò a rivolte xenofobe e a un movimento per riportare l’imperatore a una posizione centrale nel governo. Questo movimento, guidato da ambiziosi giovani samurai, fu provvidenzialmente favorito dall’ascesa al trono di un vigoroso e intelligente giovane imperatore, Mutsuhito. Questo avvenimento segna la nascita del Giappone moderno. Non appena conquistato il potere, il nuovo governo mutò il tono del movimento xenofobo. Invece di tentare un’espulsione degli stranieri, il Giappone cooperò con loro, ma tenendoli a rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione burocratica altamente centralizzata modellata sul sistema francese. I metodi industriali e finanziari furono importati da molti paesi. Giovani intelligenti furono mandati all’estero a studiare i metodi occidentali nella politica e nel governo, nella scienza militare, nella tecnologia industriale, nel commercio e nella finanza, con l’obiettivo di adottare i più efficienti. Furono fondate nuove scuole su modello occidentale ed esperti stranieri furono invitati ad addestrare i loro colleghi giapponesi. Il governo fu attento a porre limiti rigorosi alla loro permanenza, badando a che essi lasciassero il paese non appena scaduti i termini per evitare che acquistassero posizioni di vantaggio. Uno dei problemi più fastidiosi che il nuovo governo si trovò a fronteggiare fu quello finanziario. Il governo intraprese la creazione di un nuovo sistema bancario che sostituisse la rete informale di credito dell’epoca Tokugawa. In armonia con la sua politica di cercare il meglio di ogni cosa, esso scelse come modello il “National Banking System” degli Stati Uniti, istituito dal governo dell’Unione nelle ultime fasi della guerra civile come strumento di finanza bellica. Con questo sistema, nel 1876, erano state fondate 153 banche nazionali. L’anno seguente scoppiò la Rivoluzione di Satsuma, una sollevazione antigovernativa scatenata da uno dei maggiori clan occidentali; il governo riuscì a domare la ribellione ma a un costo pesante e gonfiando 55 ulteriormente la circolazione sia di denaro governativo inconvertibile sia di banconote nazionali, causando in tal modo un’inflazione selvaggia. Il nuovo ministro delle finanze decise che il difetto era nel sistema bancario e ricostruì completamente la struttura bancaria. Creò una nuova banca centrale, la “Banca del Giappone”, modellata sull’ultimo grido in fatto di banche centrali, la “Banque nazionale de Belgique”, che, sebbene di proprietà in gran parte privata, era sotto stretto controllo governativo. La Banca del Giappone agiva anche come agente fiscale per conto del tesoro. Il Giappone disponeva di limitate risorse naturali. Più piccolo dello stato della California, questo paese insulare è anche in gran parte montuoso, cosicché la percentuale di terra arabile sul totale è ancora più bassa di quella della California. Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell’alimentazione, integrato dal pesce e dagli altri prodotti marini delle brulicanti acque costiere. Il Giappone possedeva alcuni giacimenti di carbone e rame. Per la maggior parte, fu il settore agrario quello che dovette sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a finanziare le importazioni. Le due tradizionali industrie tessili giapponesi basate sulle materie prime nazionali, la seta e il cotone, andarono incontro a destini molto differenti. Dopo l’apertura degli scambi, l’industria cotoniera fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati provenienti dall’Occidente. L’industria della seta sopravvisse, la produzione di filato grezzo dai bozzoli conobbe un periodo di prosperità. Favorita dall’introduzione di attrezzature moderne importate dalla Francia, la produzione di seta grezza crebbe. Si sviluppò anche il commercio dei tessuti di seta. L’altra grande fonte di esportazioni agricole era il tè. Lo stesso si verificò e in misura ancor più accentuata con il riso. L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi. I mercati più importanti erano la Cina e la Corea. Le industrie pesanti — siderurgica, dell’acciaio, meccanica e chimica — ebbero uno sviluppo più lento, permesso da ingenti sussidi e protezioni tariffarie, ma nel 1914, il Giappone era in gran parte autosufficiente in questi settori. La Prima guerra mondiale accrebbe naturalmente in misura notevole la domanda dei prodotti di queste industrie e aprì contemporaneamente nuovi mercati. La guerra fu una manna per l’intera economia giapponese. Entrando in guerra a fianco degli alleati, il Giappone riuscì a impadronirsi delle colonie del Pacifico e delle concessioni cinesi già appartenute alla Germania. Le esportazioni, nel 1915, erano già arrivate al 22%. La transizione economica del Giappone da società arretrata e tradizionale a grande nazione industriale all’epoca della Prima guerra mondiale fu un’impresa notevolissima. La transizione economica giapponese ebbe anche conseguenza politiche. Nel 1894-1895, il Giappone sconfisse agevolmente la Cina in una breve guerra ed entrò nel novero dei paesi imperialisti annettendo territori cinesi (Taiwan) e affermando la propria influenza sulla Cina stessa. Appena dieci anni dopo, il Giappone sconfisse la Russia sia in mare sia in terra. Quest’impresa ebbe come ricompensa l’acquisizione della metà meridionale dell’isola di Sakhalin, delle concessioni russe su Port Arthur e della penisola cinese di Liaotung e il riconoscimento da parte russa dell’influenza giapponese in Corea, annessa dal Giappone nel 1910. Nel XIX secolo, la Corea era un regno semiautonomo nominalmente sotto il dominio cinese, anche se i giapponesi da lungo tempo avevano avanzato delle rivendicazioni. L’aspra rivalità tra Cina e Giappone per il predominio della Corea, scoraggiarono i diplomatici e i commercianti occidentali dall’avanzare proprie pretese su quel paese. 2. LA CINA Nel XIX secolo, la decadenza interna aveva seriamente indebolito la dinastia Qing, che aveva governato la Cina fin dalla metà del XVII secolo. Gli interessi commerciali britannici fornirono il pretesto iniziale per l’intervento. Il tè e le sete cinesi avevano un ampio mercato in Europa, ma i commercianti britannici poterono offrire ben poco in 56 cambio finché non scoprirono che i cinesi avevano una spiccata predilezione per l’oppio. Il governo cinese ne proibì l’importazione, ma il commercio prosperò per mezzo di contrabbandieri e di doganieri corrotti. Quando nel 1839, un onesto ufficiale di Canton sequestrò e fece bruciare un grosso carico di oppio, i commercianti britannici invocarono una rappresaglia. Corniciò così la Guerra dell’oppio (1839-1842), che terminò con l’imposizione del Trattato di Nanchino. In base a esso, la Cina dovette consegnare agli inglesi l’isola di Hong Kong, accettare di aprire altri cinque porti al commercio sotto supervisione consolare, fissare un dazio uniforme del 5% sulle importazioni e pagare una considerevole indennità. Il commercio dell’oppio proseguì. La facilità con cui i britannici ebbero la meglio sui cinesi incoraggiò altri paesi a richiedere trattati ugualmente favorevoli, che furono accordati. Nel 1857-1858, una forza congiunta anglo-francese occupò diverse grandi città e costrinse la Cina a ulteriori concessioni, alle quali parteciparono anche gli Stati Uniti e la Russia. La discesa del prezzo dell’argento nei paesi che adottarono il gold standard regalò però alla Cina un boom stimolato dalle esportazioni, soprattutto il cotone. Crebbero anche le esportazioni di seta, ma le colorazioni locali sbarrarono l’ingresso alla tecnologia moderna che avrebbe potuto accrescere la produttività. Un migliore accesso ai mercati internazionali era impedito dal fatto che la famiglia imperiale si rifiutava di costruire ferrovie per paura di una maggiore influenza occidentale. Si trattò di un vero e proprio ostruzionismo. Invece di procedere a una vera e propria spartizione, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Russia, gli Stati Uniti e il Giappone si accontentarono di trattati speciali che assicuravano porti, sfere d’influenza e cessioni a lungo termine di territorio cinese. Le grandi potenze stabilirono nel 1899 di seguire in Cina una politica di “porte aperte” non discriminando i commerci di altre nazioni nelle rispettive sfere d’influenza. Le continue umiliazioni portarono a un ultimo scoppio di violenza xenofoba nota come “Rivolta dei Boxer” (1900-1901). “Boxer” era l’appellativo popolare dato ai membri della società segreta dei “pugni di giustizia e di concordia”, il cui obiettivo era di cacciare tutti gli stranieri dalla Cina. Da quel momento, l’Impero cinese si trovò in uno stato quasi palpabile di decadenza. Esso cadde nel 1912 sotto i colpi della rivoluzione condotta da Sun Yat-sen, un medico di educazione occidentale, il cui programma era “nazionalismo, democrazia e socialismo”. Le potenze occidentali non tentarono di interferire nella rivoluzione né se ne preoccuparono. La nuova repubblica cinese rimase debole e divisa. 3. L’INDIA Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, la Compagnia assunse funzioni di governo territoriale dopo la vittoria riportata sull’esercito del nababbo del Bengala e l’acquisizione del controllo sulle sue entrate. La Compagnia era in parte motivata dall’obiettivo di trovare una compensazione per i profitti commerciali perduti allorché il governo metropolitano l’aveva privata nel 1813 del monopolio del commercio con l’India (dopo la prima sconfitta di Napoleone) e poi anche del monopolio del commercio con la Cina. C’era poi l’obiettivo di estendere la produzione di oppio destinato all’esportazione, soprattutto dopo il Trattato di Nanchino che aveva ampliato il mercato cinese dell’oppio. La Compagnia aveva scoperto che poteva aumentare sia le proprie entrate fiscali sia i ricavi commerciali incoraggiando la coltivazione del papavero tra i contadini indiani. L’opinione pubblica britannica divenne tuttavia consapevole dell’anomalia di una compagnia privata che esercitava un’autorità militare e ne pretese lo scioglimento e il trasferimento delle sue funzioni di governo all’India Office. Il dominio sempre più esteso della Compagnia delle Indie orientali sull’India durò un secolo intero, dal 1757 al 1857, mentre quello dell’India Office sulla colonia più vasta che il mondo avesse mai visto durò fino al 1947. Il primo cinquantennio di dominio britannico portò i contadini indiani a contatto con l’economia globale e consentì l’introduzione di nuovi prodotti molto ricercati sui mercati di esportazione, come cotone, tè, juta e persino riso e frumento, al posto dell’oppio. Il sostegno dato dai britannici alle costruzioni ferroviarie in tutto l’India facilitò ai contadini indiani l’accesso ai mercati mondiali. Il completamento nel 1869 del Canale di Suez diede ulteriore impulso all’espansione del commercio indiano con la Gran Bretagna oltre che con il resto d’Europa. Il miglioramento della produttività agricola e lo sviluppo dei commerci internazionali sul finire del XIX secolo portarono a una crescita sia della popolazione sia del reddito pro capite. Sempre in quel periodo i britannici assunsero il controllo della Birmania e degli stati malesi che 57 prodotti tropicali richiesti dall’economia mondiale in crescita. L’Africa rimase tuttavia la regione più povera al mondo e sempre più distanziata dalle altre. 5. SPIEGAZIONI DELL’IMPERIALISMO L’Asia e l’Africa non furono le sole aree del mondo soggette allo sfruttamento imperialista. Il Giappone perseguì politiche imperialistiche molto simili a quelle europee. Gli Stati Uniti adottarono prima della fine del secolo una politica colonialista. L’imperialismo di alcuni dominions britannici fu molto più aggressivo di quello della stessa madrepatria. Si distingue talvolta tra imperialismo e colonialismo. Né la Russia né l’Austria-Ungheria ebbero colonie oltremare, ma entrambi erano imperi nel senso che dominavano popoli stranieri senza il loro consenso. Le cause dell’imperialismo furono molte e complesse. Una delle spiegazioni più popolari dell’imperialismo moderno parla di necessità economica. Esso è stato infatti definito “imperialismo economico”. La spiegazione è la seguente: 1. la concorrenza nel mondo capitalistico si intensifica, determinando la costituzione di grandi imprese e l’eliminazione delle piccole; 2. il capitale si accumula sempre più velocemente nelle grandi imprese; 3. man mano che il capitale si accumula e la produzione delle industrie capitalistiche rimane invenduta, i capitalisti ricorrono all’imperialismo per ottenere il controllo politico su aree nelle quali possono investire i capitali e vendere i prodotti in eccedenza. È questa nelle linee essenziali la teoria marxista dell’imperialismo, o più precisamente la teoria leninista. Lenin pubblicò la sua teoria nel 1915 nel popolarissimo opuscolo intitolato “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”. Lenin non fu il primo a proporre un’interpretazione economica dell’imperialismo. Egli attinse in misura notevole da John A. Hobson, il critico liberale britannico dell’imperialismo. Jules Ferry fu il principale responsabile delle maggiori conquiste coloniali francesi. È interessante notare che nel difendere le proprie azioni di fronte al parlamento francese Ferry non fece ricorso ad argomentazioni di tipo economico, insistendo invece sul prestigio e sulle esigenze militari. I sostenitori dell’imperialismo affermavano che le colonie avrebbero assicurato nuove fonti di materie prime e assorbito la popolazione in rapida crescita delle nazioni industriali. Le colonie erano situate per lo più in climi che risultavano oppressivi agli europei. Gli emigranti preferirono in grande maggioranza dirigersi verso nazioni indipendenti, come gli Stati Uniti o l’Argentina. È vero che in qualche caso le colonie assicuravano nuove fonti di materie prime, ma l’accesso a queste ultime non richiedeva un controllo politico. Le colonie avevano popolazioni troppo sparse e troppo povere per fungere da grossi mercati. Un grande mercato era quello dell’India britannica, che nonostante la sua povertà acquistava prodotti europei in grande quantità, ma non esclusivamente dalla Gran Bretagna. I tedeschi vendevano molto più all’India che a tutte le loro colonie messe insieme. Nonostante i dazi protettivi, le nazioni industriali e imperialiste d’Europa continuarono a commerciare soprattutto tra loro. Il più grande mercato estero per l’industria tedesca era la Gran Bretagna. Anche gli Stati Uniti acquistavano e vendevano in grande misura nei paesi europei. La spiegazione più importante dell’imperialismo come fenomeno economico è forse quella che accenna all’investimento di capitali in eccesso, almeno secondo la teoria marxista. Alcuni dei paesi imperialisti erano in realtà dei debitori netti; oltre alla Russia, tra questi paesi figuravano l’Italia, la Spagna, il Portogallo, il Giappone e gli Stati Uniti. Theodore Roosevelt parlò in modo magniloquente di “destino manifesto” e l’espressione di Kipling “stirpi inferiori senza legge” rifletteva il tipico atteggiamento europeo e americano nei confronti delle razze non bianche. Le radici storiche del razzismo e dell’etnocentrismo europei erano comunque più profonde della biologia darwiniana. La stessa attività dei missionari cristiani era un’espressione di una fede antica nella superiorità morale e culturale dell’Europa e dell’Occidente. L’imperialismo moderno deve essere considerato un fenomeno psicologico e culturale oltre che politico ed economico. 60 6. LA REAZIONE ALLA PRIMA GLOBALIZZAZIONE: 1890-1914 All’inizio del 1914, il mondo ospitava più abitanti di quanti se ne fossero mai visti. Nelle regioni in cui i redditi pro capite erano sempre più distanti dalle medie delle economie industriali crebbero anche le disuguaglianze interne, creando ulteriori tensioni in quelle società. Le crescenti tensioni provocate dalla diffusione a livello mondiale della crescita economica moderna, in special modo nel periodo compreso tra il 1890 e il 1914, condussero a una reazione alla globalizzazione. Segni di questa reazione sempre più forte divennero evidenti nelle varie dimensioni dell’economia: nei dazi elevati che persistevano nel commercio internazionale; nell’ambito del movimento internazionale dei lavoratori, nelle restrizioni all’immigrazione imposte dai paesi di destinazione e nei movimenti sindacali e nelle leggi sul lavoro adottate nei paesi di partenza; nel capitale internazionale, sotto forma di cambiamenti in fatto di standard monetari e di un crescente ricorso a fonti interne di risparmio, fino alla Prima guerra mondiale. Le scelte economiche che precedettero il conflitto ebbero tuttavia conseguenze che avrebbero determinato in definitiva l’esito della Prima guerra mondiale nonché le politiche successive che avrebbero condotto alla Seconda guerra mondiale. Secondo Jeffrey G. Williamson, i dazi erano gli sforzi razionali delle élite politiche di proteggere le basi delle rispettive economie nazionali dagli effetti della competizione internazionale. Sua ulteriore argomentazione è che le accresciute esportazioni di beni primari in direzione del centro del mondo industriale da parte dei paesi non industriali furono vantaggiose soprattutto per le élite locali. Per le classi medie di quei paesi, la sostituzione dei loro prodotti con beni più a buon mercato e di qualità superiore provenienti dai paesi industriali più avanzati significò una perdita in termini di reddito e di prestigio. La conseguenza per il Terzo mondo, soprattutto in Asia e in Africa, fu una crescente disuguaglianza dei redditi. Nella periferia europea, i dazi protezionistici ebbero l’effetto di incoraggiare gli investimenti esteri diretti di società multinazionali che aprivano fabbriche dietro el nuove barriere tariffarie. Nel frattempo India, Cina e Giappone erano in grado di finanziare le loro amministrazioni centrali sulla base di imposte fondiarie ben consolidate che invece suscitavano vibranti resistenze sia in America Latina sia nelle aree di recente insediamento. Nel corso del XIX secolo, le politiche restrittive sull’immigrazione caratterizzarono tutti i paesi di destinazione, ma furono stimolate soprattutto dalla discriminazione razziale nei confronti non tanto dei migranti europei quanto di quelli asiatici. Allorché Argentina, Australia, Brasile, Canada e Stati Uniti irrigidirono le loro politiche di ammissione ciò accadde generalmente per proteggere i lavoratori non qualificati dei rispettivi paesi da un’ulteriore concorrenza salariale. In realtà, gli immigrati in possesso di qualificazioni erano una preziosa risorsa di capitale umano per i paesi di destinazione. Oltre al massiccio movimento di persone dall’Europa orientale e meridionale alle aree di recente insediamento, erano migliaia i lavoratori cinesi o indiani che rispondevano alla richiesta di manodopera proveniente dalle isole caraibiche per la produzione di zucchero, banane, o caffè, o dalla Birmania meridionale, dal Vietnam e dalla Thailandia centrale per l’espansione della coltivazione del riso. 61 Cap.14: Disintegrazione dell’economia internazionale: 1914-1945 I principali mutamenti economici si verificarono nell’arco di un lungo periodo di tempo. Le conseguenze delle trasformazioni demografiche, materiali e tecnologiche e persino istituzionali possono distribuirsi in un periodo di anni, decenni o anche secoli. I cambiamenti politici possono avvenire in maniera piuttosto improvvisa, in un periodo di giorni o settimane, portando eventualmente con sé una scia di repentini mutamenti economici. Fu questo il caso della Prima guerra mondiale. Dopo oltre quattro anni di guerra, i leader politici internazionali puntarono a un “ritorno alla normalità”, ma i pezzi dell’economia mondiale non potevano essere rimessi insieme così facilmente. 1. CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE Fino al 1914, l’economia mondiale era dominata dall’Europa e dagli Stati Uniti. In termini politici, gli imperi marittimi delle nazioni occidentali, in particolare Gran Bretagna, Francia e Germania, ma anche Paesi Bassi, Belgio, Danimarca e Italia, sommati al vasto impero terrestre della Russia zarista, assicuravano a questi paesi il controllo di oltre tre quarti della superficie del pianeta e di una percentuale quasi equivalente della popolazione mondiale. Dal punto di vista economico, l’Europa e gli Stati Uniti detenevano oltre metà della produzione e del commercio mondiali. La Prima guerra mondiale e le concomitanti rivoluzioni russe del 1917 alterarono alla radice questa struttura. Scomparve la Russia zarista, sostituita dall’Unione Sovietica. Scomparve anche l’Impero asburgico nell’Europa centro-orientale, al cui posto sorserò diversi stati nazionali nuovi o ampliati. La Germania perse il suo impero d’oltremare oltre a una parte consistente del proprio territorio e della propria popolazione. I restanti imperi europei sfruttavano le rispettive colonie con accresciuto fervore nazionalistico. L’Europa vera e propria vide diminuire la sua quota del commercio e nella produzione mondiali, a vantaggio principalmente ma non esclusivamente degli Stati Uniti, dei dominions britannici e del Giappone. Gli anni venti e trenta videro l’affermazione di dittature fasciste in Italia, Germania e in diversi altri paesi europei. Le stime del costo monetario diretto della guerra oscillano tra in 180 e i 230 miliardi di dollari, mentre i costi indiretti per danni alle cose ammontarono a oltre 150 miliardi i dollari. Gran parte dei danni furono subiti dalla Francia settentrionale, dal Belgio, da una piccola area nell’Italia nordorientale e dai campi di battaglia dell’Europa orientale. Nell’Europa centro-orientale, il crollo della produzione agricola portò intere regioni sull’orlo della morte in massa per fame. Fino al 1914, l’economia aveva funzionato liberamente e nel complesso in modo efficiente. Durante la guerra, i governi di ciascuno stato belligerante e alcuni dei paesi non belligeranti imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza lavoro. Questi controlli stimolarono artificialmente taluni settori dell’economia, limitandone artificialmente degli altri. Un problema ancora più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di guerra economica cui fecero ricorso i paesi belligeranti, in particolare Gran Bretagna e Germania. Prima della guerra Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti erano anche i migliori clienti e fornitori reciproci. Diversi paesi latinoamericani e asiatici fondarono industrie manifatturiere, che protessero dopo la guerra con dazi elevati. Gli Stati Uniti e il Giappone conquistarono mercati d’oltremare precedentemente considerati riserva esclusiva delle manifatture europee. Gli Stati Uniti aumentarono considerevolmente le esportazioni verso gli Alleati e i paesi europei neutrali. La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale. Determinando un notevole aumento della domanda di generi alimentari e materie prime in un’epoca in cui alcune regioni non producevano più o erano tagliate fuori dai mercati, la guerra stimolò la produzione agricola sia in regioni già affermate, come gli Stati Uniti, sia in territori relativamente vergini quali l’America Latina. Il risultato fu sovrapproduzione e crollo dei prezzi. Gli agricoltori americani aumentarono la superficie coltivata a frumento e acquistarono nuove terre ai prezzi gonfiati dall’inflazione bellica. Quando i prezzi cominciarono a scendere, molti si trovarono nell’impossibilità di estinguere le ipoteche e fallirono. 62 cosiddetto “Prestito Dawes”, i cui fondi furono raccolti in gran parte negli Stati Uniti, permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni e di tornare al gold standard nel 1924. A questo prestito fece seguito un secondo afflusso di capitali americani in Germania sotto forma di prestiti privati alle municipalità e alle grandi società tedesche, che presero a prestito negli Stati Uniti somme notevoli da impiegare nella modernizzazione tecnica e nella “razionalizzazione”. La disastrosa inflazione lasciò cicatrici profonde nella società tedesca. La maggioranza dei cittadini, soprattutto quelli delle classi medio-basse e quelli a reddito fisso, videro i propri modesti risparmi spazzati via nello spazio di mesi o settimane e subirono un grave peggioramento del tenore di vita. Ciò li rese sensibili agli appelli dei politici estremisti. Anche nella Gran Bretagna del dopoguerra, i problemi economici assunsero dimensioni inquietanti. Con la Guerra, la Gran Bretagna perse mercati e investimenti esteri. Tuttavia, essa dipendeva come non mai dalle importazioni di prodotti alimentari e materie prime e si trovò gravata di responsabilità mondiali ancor più onerose in qualità di paese più forte tra i vincitori europei e come amministratrice di nuovi territori oltremare. Nel 1921, erano senza lavoro oltre 1 milione di operai. I provvedimenti presi dal governo per affrontare i problemi economici furono timidi, prosaici e inefficaci. l’unica soluzione per la disoccupazione fu il sussidio, un sistema di pagamenti assistenziali del tutto inadeguato a sostentare le famiglie dei disoccupati ma allo stesso tempo molto oneroso per un bilancio già sottoposto a tensioni eccessive. La politica economica del governo consistette principalmente in una riduzione all’osso delle spese, il che privò la nazione degli interventi urgentemente necessari di espansione e modernizzazione di scuole, ospedali, autostrade e altre opere pubbliche. La Gran Bretagna aveva abbandonato nel 1914 il gold standard. Nel 1925, il cancelliere dello Scacchiere, Winston Churchill, passato in precedenza dai liberali ai conservatori, decise il ritorno della Gran Bretagna al gold standard alla parità d’anteguerra. Per mantenere la competitività delle industrie britanniche fu necessario comprimere i salari. L’industria del carbone fu una di quelle maggiormente colpite dalla perdita dei mercati esteri e dalla lievitazione dei costi. Di fronte alla prospettiva di un taglio dei salari in conseguenza del ritorno al gold standard, il 1 maggio del 1926, i minatori scesero in sciopero e persuasero molti altri sindacati a unirsi a loro in quello che avrebbe dovuto essere uno sciopero generale. Nonostante i problemi britannici, neo tardi anni venti, la maggior parte dell’Europa prosperò. Per cinque anni, dal 1924 al 1929, sembrò che si fosse effettivamente tornati alla normalità. La riparazione dei danni materiali era un fatto per lo più compiuto; i più urgenti e immediati problemi postbellici erano stati risolti; e con l’istituzione della Società delle Nazioni sembrava che fosse albeggiato una nuova era nelle relazioni internazionali. Molti paesi, in particolare gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, attraversarono un periodo di prosperità. Tuttavia le basi di questa prosperità erano fragili e dipendevano dal continuo afflusso spontaneo di fondi dall’America alla Germania. 3. LA GRANDE CONTRAZIONE: 1929-1933 A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Essi erano passati da paese debitore netto a creditore netto. Con i loro grandi mercati, la popolazione in crescita e il rapido progresso tecnologico sembrava che essi avessero scoperto la ricetta della prosperità perpetua. Nel 1920-1921, erano stati colpiti da una sensibile depressione, ma la flessione si era rivelata di breve durata e per quasi un decennio l’economia in crescita attraversò solo fluttuazioni di secondaria importanza. Nell’estate del 1928, le banche e gli investitori americani cominciarono a limitare gli acquisti di titoli tedeschi e di altri paesi per investire i propri fondi sul mercato azionario di New York, che di conseguenza iniziò una spettacolare ascesa. Il prodotto nazionale lordo statunitense raggiunse il suo massimo nel primo trimestre del 1929, per poi diminuire gradualmente; la produzione di autoveicoli scese dalle 622.000 unità di marzo alle 416.000 di settembre. In Europa, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia stavano avvertendo i primi sintomi della Grande depressione. 65 Il 24 ottobre del 1929 — il “giovedì nero” della storia finanziaria americana — un’ondata di vendite per panico nel mercato azionario fece crollare i prezzi dei titoli e cancellò milioni di dollari che esistevano solo sulla carta. Una seconda ondata di vendite si ebbe il 29 ottobre, il “martedì nero”. L’indice dei prezzi azionari cadde a 198 il 13 novembre… e continuò a cadere. Le banche richiesero il pagamento dei prestiti effettuati, obbligando altri investitori a gettare le proprie azioni sul mercato a qualunque prezzo si potesse spuntare. Gli americani che avevano investito in Europa bloccarono ogni ulteriore investimento e vendettero quanto possedevano per riportare in patria i capitali. Il ritiro dei capitali dall’Europa continuò per tutto il 1930. I mercati finanziari si stabilizzarono, ma i prezzi delle merci erano bassi e continuavano a scendere, trasmettendo la pressione a paesi produttori come l’Argentina e l’Australia. Il crollo del mercato azionario non fu la causa della Grande depressione, ma fu un chiaro segnale che essa era già in atto, sia negli Stati Uniti sia in Europa. Nel primo trimestre del 1931, il commercio estero complessivo era crollato a meno di due terzi di quello del corrispondente periodo del 1929. Nel maggio del 1931, la Creditanstalt austriaca di Vienna, una delle banche più grandi e importanti dell’Europa centrale, sospese i pagamenti. Nonostante il governo austriaco congelasse i patrimoni bancari e proibisse il ritiro dei fondi, il panico si diffuse in Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Polonia e soprattutto in Germania, dove in giugno si verificò un ritiro massiccio di fondi che determinò il fallimento di diverse banche. Diversi paesi duramente colpiti dalla diminuzione dei prezzi dei prodotti primari, compresi Argentina, Australia e Cile, avevano già abbandonato il gold standard. Tra il settembre del 1931 e l’aprile 1932 altri ventiquattro paesi abbandonarono il gold standard e diversi altri avevano però sospeso i pagamenti in oro. I valori delle valute oscillarono incontrollabilmente spinti dalle variazioni dell’offerta e della domanda. Gli scambi internazionali caddero drasticamente tra il 1929 e il 1932. Le riparazioni e i debiti di guerra perciò caddero semplicemente nel dimenticatoio; toccò a Hitler nel 1933 porre fine alla “schiavitù degli interessi”. Solo la minuscola Finlandia pagò interamente il proprio piccolo debito verso gli Stati Uniti. L’ultimo grande tentativo di dar vita a una cooperazione internazionale che ponesse termine alla crisi economica fu la Conferenza monetaria mondiale del 1933. A causa delle elezioni e della riluttanza dei candidati, Hoover e Roosevelt, a esporsi anzitempo, la conferenza fu rinviata alla primavera del 1933 e poi nuovamente rinviata al mese di giugno per permettere a Roosevelt di varare la propria amministrazione. Roosevelt assunse la carica nel momento peggiore della Grande depressione; uno dei suoi primi atti ufficiali fu quello di disporre una chiusura delle banche di otto giorni per permettere al sistema bancario di riorganizzarsi. Che cosa provocò la Grande depressione? Per alcuni la causa fu prima di tutto monetaria: una drastica diminuzione della quantità di denaro disponibile nelle maggiori economie industriali; Stati Uniti in particolare, che contagiò il resto del mondo. Per altri, le cause devono essere cercate nel settore “reale”: un’autonoma contrazione dei consumi e al mondo attraverso il meccanismo moltiplicatore-acceleratore. Un’interpretazione eclettica è quella che non vede responsabile un singolo fattore bensì una sfortunata concatenazione di eventi e circostanze, sia monetari sia extramonetari, che concorsero a determinare la Grande depressione. Prima della guerra, la Gran Bretagna aveva svolto un ruolo determinante nel dare stabilità all’economia mondiale. La sua politica di libero scambio significava che le merci provenienti da ogni angolo del mondo potevano sempre trovare un mercato. I suoi ingenti investimenti esteri permettevano a paesi con disavanzi considerevoli della bilancia commerciale di disporre delle risorse necessarie per equilibrare i pagamenti. La sua fedeltà al gold standard significava che paesi con problemi temporanei nei conti con l’estero potevano alleviare la propria situazione scontando effetti o altri titoli commerciali. Dopo la guerra, la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere questa funzione di guida. Gli Stati Uniti erano restii ad accettare il ruolo di guida, riluttanza esemplificata dalla politica dell’immigrazione, dalla politica commerciale, dalla politica monetaria e dall’atteggiamento nei confronti della cooperazione internazionale. Se gli Stati Uniti avessero perseguito politiche più aperte negli anni venti, ma soprattuto negli anni cruciali 66 compresi tra il il 1929 e il 1933, la Grande depressione quasi sicuramente sarebbe stata meno feroce e più breve. La Grande depressione contribuì inoltre all’affermazione dei movimenti politici estremistici sia di destra sia di sinistra, in particolare in Germania e fu così indirettamente tra le cause della Seconda guerra mondiale. 4. TENTATIVI DIVERSI DI RICOSTRUZIONE Quando Franklin Roosevelt entrò in carica come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, la nazione era in preda alla peggiore crisi dall’epoca della guerra civile. Con oltre 15 milioni di disoccupati, l’industria era praticamente ferma, mentre il sistema bancario era sull’orlo del collasso totale. Nei suoi discorsi elettorali, Roosevelt aveva invocato un “New Deal” per l’America. Nei famosi “100 giorni” che seguirono il suo insediamento, un Congresso docile si uniformò alle sue direttive, approvando nuove leggi a una velocità senza precedenti. Si trattò soprattutto di leggi di risanamento economico e di riforma sociale nei settori agricolo, bancario, monetario, del mercato dei titoli, del lavoro, della sicurezza sociale, sanitario, abitativo, dei trasporti, delle comunicazioni, delle risorse naturali. La legge forse più caratteristica dell’intero periodo fu il “National Industrial Recovery Act”. Esso istituì la National Recovery Administration (Nra) con il compito di sovrintendere alla stesura di “norme di concorrenza leale” per ogni industria da parte dei rappresentanti delle industrie stesse. L’Nra aveva sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia, sebbene senza la brutalità e i metodi da stato di polizia di quest’ultimo. Era essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata con supervisione governativa per salvaguardare l’interesse pubblico e garantire il diritto del mondo del lavoro di organizzarsi e contrattare collettivamente. Nel 1935, l’Nra fu dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Il risanamento industriale era stato deludente e nel 1937, l’economia entrò in una nuova fase di recessione senza aver raggiunto l’obiettivo del pieno impiego. Gli Stati Uniti tornarono in guerra con ancora oltre 6 milioni di disoccupati. Nessuna nazione dell’Occidente aveva sofferto per la guerra più della Francia. La cosa più spaventosa era stata la perdita di vite umane: 1,5 milioni di francesi uccisi più altri 750.000 resi permanentemente inabili. Non sorprende la pretesa della Francia che la Germania pagasse per la guerra. Facendo assegnamento sulle riparazioni tedesche per affrontarne le spese, il governo francese intraprese immediatamente un esteso programma di ricostruzione materiale delle aree danneggiate dalla guerra, che ebbe incidentalmente l’effetto di stimolare l’economia a nuovi record produttivi. Quando le riparazioni tedesche non si concretizzarono nella cifra prevista, i metodi approssimativi impiegati per finanziare la ricostruzione imposero il loro pedaggio. Il problema fu ulteriormente complicato dalla costosa e inutile occupazione della Ruhr. Il franco si deprezzò più nei primi sette anni di pace che durante la guerra. Ciò stimolò le esportazioni, scoraggiò le importazioni e determinò un afflusso di oro. Per questo motivo, la Grande depressione colpì la Francia più tardi di altri paesi. Il punto più basso non fu raggiunto che nel 1936 e l’economia francese stava ancora riprendendosi faticosamente quando nel 1939 scoppiò la guerra. La Grande depressione moltiplicò la protesta sociale e produsse una nuova infornata di organizzazioni estremistiche. Nel 1936, tre partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali, si coalizzarono nel Fronte popolare e vinsero le elezioni di quell’anno, dando vita a un governo guidato dal venerabile esponente socialista Léon Blum. Il governo del Fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti di riforma in materia di lavoro, come la settimana lavorativa in quaranta ore, l’arbitrato obbligatorio in caso di conflitti di lavoro e le ferie pagate per i lavoratori dell’industria. I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale, subirono tutti le conseguenze della Grande depressione ma non tutti allo stesso modo. Dopo l’abbandono del gold standard da parte della Gran Bretagna nel 1931, molti paesi che con essa 67 Nel frattempo, grossi mutamenti stavano avvenendo nella direzione del Partito comunista. Nel maggio del 1922, Lenin subì il primo di una serie di attacchi di paralisi dai quali non si riprese mai completamente fino alla morte nel gennaio del 1924. Lenin si astenne dal designare esplicitamente il suo successore. Due tra i maggiori contendenti erano Iosif Stalin e Lev Trockij. Trockij aveva servito come commissario di guerra e rivendicava il merito di aver sconfitto le Armate bianche durante la guerra civile. Stalin era un fedele seguace di Lenin e dei vecchi bolscevichi. Pur non essendo stato seriamente preso in considerazione come successore di Lenin subito dopo la morte di quest’ultimo, Stalin si avvalse della propria carica di segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista per formare coalizioni nel partito stesso al fine di neutralizzare i propri rivali, Trockij primo tra tutti. Mentre Trockij propugnava la rivoluzione mondiale, Stalin finì con lo schierarsi con coloro che preferivano costruire un forte stato socialista in Unione Sovietica: “Socialismo in un solo paese”. Dopo aver avuto la meglio su Trockij, rimosso, esiliato e infine ucciso, Stalin si volse contro i suoi vecchi alleati. Nel 1928, il controllo di Stalin sul partito e sul paese era pressoché assoluto. Il programma staliniano del “socialismo in un solo paese” implicava un massiccio rafforzamento dell’industria russa per rendere il paese autosufficiente e potente. Per raggiungere questo obiettivo, era necessaria una pianificazione economica globale. Invece di rappresentare i lavoratori e tutelare i loro interessi, i sindacati furono usati per mantenere la disciplina nei luoghi di lavoro, impedire scioperi e sabotaggi e stimolare la produttività. L’agricoltura era per l’Unione Sovietica uno dei settori con i problemi più complessi e persistenti. Lo stato, proprietario della terra, del bestiame e delle attrezzature, nominava un dirigente di professione; i contadini che coltivavano la terra non erano che proletariato agrario. In un compromesso con i contadini, il governo permise loro in qualche caso di formare fattorie cooperative in cui la maggior parte della terra era coltivata in comune. Lo stato forniva consiglio e macchinari attraverso le stazioni statali di macchine e trattori. Nonostante in certi settori industriali la produzione fosse cresciuta prodigiosamente, la maggior parte delle industrie non era riuscita a soddisfare le quote. In agricoltura, circa il 60% dei contadini era stato collettivizzato e la produzione agricola era crollata, mentre il numero di capi di bestiame era tra la metà e i due terzi del livello del 1928. Nonostante i grandi incrementi della produzione industriale, il paese rimase prevalentemente agrario e l’agricoltura era il settore più debole. Migliaia di individui, da umili operai ad alti dirigenti del partito e dell’esercito, furono sottoposti a processo sotto l’accusa di aver commesso crimini che andavano dal sabotaggio allo spionaggio e al tradimento. 6. RISPOSTE ISTITUZIONALI ALLA DISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE 6.1. RELAZIONI INTERNAZIONALI Alcune organizzazioni internazionali risalgono al XIX secolo, ma il XX è stato particolarmente profilo a questo proposito. La Società delle Nazioni, istituita dal Trattato di Versailles del 1919, nelle intenzioni di Wilson doveva garantire la pace mondiale e di conseguenza la prosperità. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, succeduta alla Società delle Nazioni, ha avuto una storia leggermente più fortunata come baluardo della pace e ha istituito diverse agenzie specializzate in questioni economiche e affini. 6.2. IL RUOLO DEL POTERE PUBBLICO Un altro dei cambiamenti fondamentali che hanno coinvolto tutte le nazioni nel XX secolo è il ruolo enormemente cresciuto del potere pubblico nell’economia. 70 In Unione Sovietica e nelle altre economie di modello sovietico, lo stato si assumeva la responsabilità totale dell’economia attraverso un sistema globale di pianificazione economica e di controllo. Nel periodo tra le due guerre, tutti i governi tentarono di perseguire politiche di risanamento e stabilizzazione dell’economia. Nel XX secolo, le industrie di proprietà statale divennero molto più comuni, talvolta a causa del fallimento dell’impresa privata. Negli anni ottanta del XIX secolo, Bismarck introdusse l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro le malattie e gli infortuni e un sistema pensionistico molto limitato per gli anziani e i disabili. Queste innovazioni furono gradualmente imitate e adottate da altri paesi, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale; gli Stati Uniti non adottarono un’assicurazione sociale complessiva fino alle riforme del “New Deal” degli anni trenta. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti governi democratici estesero considerevolmente i ripentivi sistemi di sicurezza sociale e gli altri trasferimenti. 6.3. FORME DI IMPRESA La società a responsabilità limitata dalle azioni o società di capitali moderna, era un’entità già ben radicata nei paesi industriali avanzati all’inizio del XX secolo. Nelle altre attività, come il commercio all’ingrosso e al dettaglio, la produzione artigianale, i servizi e soprattutto l’agricoltura prevaleva l’impresa familiare. Grandi imprese multiunitarie, le “catene” di negozi, giunsero a dominare la vendita al dettaglio in industrie tanto eterogenee quali quella dei prodotti alimentari deperibili o dell’elettronica ad alta tecnologia. Un’altra possibilità era quella dell’integrazione “in avanti”, ad esempio dei produttori di macchine per cucire, macchine agricole e automobili, che gestivano la funzione di vendita al dettaglio per mezzo di concessionari. Uno sviluppo correlato fu la comparsa di società conglomerate, grandi società finalizzate alla produzione e alla vendita di decine o persino centinaia di prodotti, dai beni capitale più voluminosi a beni di consumo quali cosmetici e articoli d’alta moda. Queste tendenze all’impiego della forma organizzativa della società di capitali furono sperimentate principalmente negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo, ma si diffusero rapidamente in Europa e in altre parti del mondo nel XX. Una delle ragioni di questo fenomeno fu che sesso permetteva alle imprese di competere con successo con un altro sviluppo tipicamente americano, l’impresa multinazionale. Le multinazionali non erano qualcosa di interamente originale, né esclusivamente americano — nel Quattrocento, la banca Medici, la cui sede era a Firenze, possedeva filiali in diversi paesi — ma rimasero relativamente rare dino al XX secolo. Uno degli esempi più rilevanti è quello della Nestlé, la cui direzione centrale è nella piccola città di Vevey, in Svizzera, ma possiede strutture produttive e di vendita in ogni continente e praticamente in ogni paese. 6.4. ORGANIZZAZIONI SINDACALI All’inizio del XX secolo, il diritto dei lavoratori di organizzarsi e contrattare collettivamente era riconosciuto nella maggior parte dei paesi occidentali e in alcuni di essi, le organizzazioni dei lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro. Gli anni compresi fra le due guerre registrarono una crescita di iscrizioni ai sindacati nei paesi industriali e una diffusione delle organizzazioni sindacali in altri paesi meno sviluppati. Negli Stati Uniti, negli anni venti, gli iscritti ai sindacati erano solo circa un decimo del totale della forza lavoro non agricola. In Europa occidentale, l’oscillazione del numero di iscritti ai sindacati è stata simile, anche se non identica, a quella statunitense. Una grossa differenza è data però dal fatto che in Europa i sindacati sono molto più nettamente identificasti con specifiche forze politiche che non negli Stati Uniti. In Gran Bretagna, il Partito laburista è sostenuto soprattutto dagli iscritti ai sindacati e da altri lavoratori non sindacalizzati. In Germania, nel periodo precedente la Prima guerra mondiale, il Partito socialdemocratico era la maggiore delle organizzazioni sostenute dai lavoratori. Con l’avvento della dittatura nazista di 71 Adolf Hitler nel 1933 fu sciolto d’autorità insieme agli altri partiti politici a eccezione di quello nazista. I nazisti abolirono non solo i partiti politici ma anche i sindacati. Sviluppi analoghi si ebbero in Italia, in Unione Sovietica e in altri paesi totalitari. 7. ASPETTI ECONOMICI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE La Seconda guerra mondiale fu di gran lunga la più massiccia e distruttiva delle guerre. Vera e propria guerra globale, essa coinvolse direttamente o indirettamente i popoli di ogni continente e di quasi ogni nazione del mondo. Fu una guerra di movimento, sulla terra, nell’aria, sui mari. La tecnologia a base scientifica fu responsabile di molte nuove armi speciali, sia offensive sia difensive: dal radar alle bombe volanti, dall’aereo a reazione alle bombe atomiche. Le capacità economiche e soprattuto industriali dei belligeranti acquisirono una nuova importanza. Stime approssimative situano il numero dei morti da porre in relazione alla guerra intorno ai 15 milioni per l’Europa occidentale: 6 milioni di soldati e oltre 8 milioni di civili, inclusi tra questi ultimi dai 4,5 ai 6 milioni di ebrei assassinati dai nazisti nell’Olocausto. Per la Russia si calcolano oltre 15 milioni di morti. La Cina ebbe oltre 2 milioni di caduti tra i soldati. I giapponesi persero oltre 1 milione e 500.000 militari, oltre a milioni di civili; più di 100.000 morirono per effetto diretto delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima guerra mondiale, a causa soprattutto dei bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti vi furono le infrastrutture di trasporto, in particolare ferrovie, porti e bacini. Alla fine della guerra in Europa, le prospettive economiche erano estremamente deprimenti. Oltre ai danni alle cose e alla perdita di vite umane, milioni di persone erano state sradicate e separate dalle loro case e dalle loro famiglie. La struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni. La ricostruzione non sarebbe stata agevole. 
 72 3. IL PIANO MARSHALL E I “MIRACOLI ECONOMICI” Verso la metà o la fine del 1947, buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, a eccezione della Germania, era tornata ai livelli prebellici di produzione industriale. Inoltre l’inverno del 1946-1947 fu molto rigido e fu seguito in gran parte d’Europa da una lunga siccità che fece del raccolto agricolo del 1947 il peggiore del XX secolo. Nel caos monetario e finanziario degli anni trenta, praticamente tutti i paesi europei e molti altri extraeuropei avevano adottato controlli sui cambi; le loro valute non erano cioè convertibili in altre se non su autorizzazione concessa dalle autorità monetarie. Nella tarda primavera del 1947, era però sempre più evidente che l’immediato risanamento postbellico correva seriamente il pericolo di fallire. Inoltre la Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, sempre più aspra, e il ruolo dei partiti comunisti nella vita politica di diversi paesi dell’Occidente europeo, in particolare la Francia e l’Italia, davano alle autorità americane motivo di preoccupazione sulla stabilità politica dell’Europa occidentale. Il 5 giugno del 1947, il generale George C. Marshall, nominato segretario di stato dal presidente americano Truman, pronunciò un discorso in cui annunciava che se i paesi europei avessero presentato una richiesta di assistenza congiunta e coerente, il governo statunitense avrebbe risposto in modo positivo. Fu questa l’origine del cosiddetto “Piano Marshall”. I ministri degli esteri francese e britannico si incontrarono immediatamente, invitando il loro collega sovietico a Parigi per discutere una risposta europea alla proposta di Marshall. Il 12 luglio del 1947 si incontrarono a Parigi rappresentanti di sedici nazioni dell’Europa occidentale, autodefinitisi “Commissione di cooperazione economica europea” (Ccee). Essi rappresentano tutti i paesi democratici dell’Europa occidentale (con l’Islanda), compresi paesi neutrali come la Svezia e la Svizzera, nonché l’Austria, il non democratico Portogallo, la Grecia e la Turchia. Finlandia e Cecoslovacchia avevano mostrato interesse a partecipare, ma erano state richiamate all’ordine dall’Unione Sovietica; né questa né gli altri paesi dell’Europa orientale erano rappresentati. La Spagna franchista non fu invitata e la Germania non aveva un governo di cui inviare rappresentanti. Il popolo e il Congresso americani dovevano essere ancora persuasi che un ulteriore aiuto economico all’Europa era nel loro interesse. L’amministrazione Truman intraprese a tale scopo una vigorosa campagna di pressioni sul parlamento e nella primavera del 1948, il Congresso approvò il “Foreign Assistance Act”, che istituiva l’European Recovery Program (Erp) la cui gestione era affidata alla Economic Cooperation Administration (Eca). Ciononostante, dopo la deliberazione del Congresso, la Ccee si trasformò nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece), responsabile della distribuzione degli aiuti americani. Nel complesso, calcolando gli aiuti temporanei concessi a Francia, Italia e Austria alla fine del 1947 per ragioni d’emergenza, l’Erp aveva distribuito, all’inizio del 1952, cara 13 miliardi di dollari di aiuti economici sotto forma di prestiti e sovvenzioni statunitensi all’Europa. La Germania, in un primo momento, occupò una posizione anomala nell’Erp. Dopo la sua sconfitta nel maggio del 1945, i capi di governo di Stati Uniti, Regno Unito e Urss si incontrarono nel mese di luglio a Potsdam, nei pressi di Berlino, per decidere del destino della Germania. Il risultato finale fu la divisione della Germania in due stati distinti: la Repubblica federale tedesca (Germania Occidentale) e la Repubblica democratica tedesca (Germania Orientale). Anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino Est, capitale della Rdt e Berlino Ovest, appartenente alla Rft. La Conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle altre industrie pesanti tedesche. Le merci precedentemente incettate o vendute al mercato nero riapparvero; gli scaffali dei negozi si riempirono, le fabbriche ripresero a produrre e la Germania occidentale cominciò la sua sensazionale rinascita economica. Con la Germania Occidentale pienamente integrata nell’Oece e nel Piano Marshall, il risanamento economico dell’Europa occidentale poteva dirsi completo. Il Piano Marshall si concluse nel 1952. L’Europa occidentale aveva raggiunto e superato i livelli prebellici di produzione e inoltre l’Oece e 75 le altre istituzioni create in seguito erano a disposizione per stimolare l’economia a nuovi grandi risultati. Una delle più importanti fra queste altre nuove istituzioni fu l’Unione Europea dei pagamenti (Uep). Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del commercio nell’immediato dopoguerra era la scarsità di valuta estera, dollari in particolare e la conseguente necessità di un conguaglio bilaterale degli scambi. Nei due decenni successivi all’istituzione dell’Uep, il commercio mondiale crebbe a un tasso annuo dell’8%, il più elevato della storia. Gran parte di questa crescita si verificò naturalmente in Europa. Nel 1961, l’Oece si trasformò nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), alla quale aderirono gli Stati Uniti e il Canada: un’organizzazione di paesi industriali avanzati per coordinare gli aiuti ai paesi sottosviluppati. 4. UNA CRESCITA SENZA PRECEDENTI Il quarto di secolo successivo alla Seconda guerra mondiale vide il periodo più lungo di crescita ininterrotta dei paesi industrializzati. La crescita fu particolarmente rapida in quei paesi che disponevano di un’abbondante riserva di manodopera. I paesi del gruppo industriale con redditi pro capite relativamente modesti — Italia, Austria, Spagna, Grecia e Giappone — crebbero più velocemente della media. L’espressione “miracolo economico” venne applicata per la prima volta al ragguardevole balzo in avanti compiuto dalla Germania Occidentale dopo la riforma valutaria del 1948. Si notò poi che diversi altri paesi, in particolare l’Italia e il Giappone, avevano tassi di crescita uguali o superiori a quello tedesco. Gli aiuti americani svolsero un ruolo determinante nell’innescare la ripresa economica. La modernizzazione tecnologica accompagnò e contribuì in modo rilevante al cosiddetto “miracolo economico”. Altri fattori importanti furono l’atteggiamento e il ruolo della pubblica amministrazione. Furono nazionalizzate alcune industrie di base, redatti programmi economici e assicurata un’ampia gamma di servizi sociali. L’impresa era tuttavia responsabile della parte fi gran lunga più consistente dell’attività economica. A livello internazionale, buona parte del merito per la bontà dei risultati economici va al grado relativamente elevato di collaborazione intergovernativa. I bassi livelli di analfabetismo e l’abbondanza di istituzioni scolastiche specializzate assicuravano il personale qualificato necessari per applicare efficacemente la nuova tecnologia. 5. LA FORMAZIONE DEL BLOCCO SOVIETICO L’Unione Sovietica subì i danni più ingenti di qualsiasi altro paese coinvolto nella guerra. Stime dei caduti, sia militari sia civili, variano da un minimo di 10 milioni a oltre 20 milioni. 25 milioni di persone rimasero senza casa. Le devastazioni avevano colpito grandi aree di fertilissima terra coltivabile e alcune delle regioni più intensamente industrializzate. L’Unione Sovietica si affermò come una delle due superpotenze del dopoguerra. Questo ruolo le fu consentito dall’immensità del suo territorio e della sua popolazione. Per risanare l’economia devastata e risospingere la produzione ad alti livelli, il governo varò nel 1946 il quanto piano quinquennale. Esso poneva l’accento sull’industria pesante e sugli armamenti, con particolare attenzione all’energia atomica. Nell’immediato dopoguerra, Stalin decise di apportare diversi cambiamenti nelle alte sfere del governo e dell’economia. Una revisione costituzionale del 1946 sostituì al Consiglio dei commissari del popolo un Consiglio dei ministri in cui lo stesso Stalin assunse la posizione di presidente o primo ministro. Stalin morì nel 1953. Il leader divenne Nikita Kruščëv, già erede di Stalin alla carica di primo segretario del Pcus. 76 L’industria dei beni di consumo continuò a procedere a rilento. L’agricoltura sovietica rimase per tutto il dopoguerra in una situazione quasi permanente di crisi nonostante i massicci sforzi del governo di stimolarne la produttività. Nel 1954, Kruščëv diede l’avvio a un progetto di “terre vergini” che prevedeva la messa a coltura di grandi distese di terre aride nell’Asia sovietica. La vita sovietica continuò a essere caratterizzata dalla carenza di generi alimentari. Durante la guerra, Churchill e Stalin, senza consultare Roosevelt, si erano accordati su un’equa spartizione delle sfere d’influenza in Jugoslavia dopo la guerra. I partigiani jugoslavi guidati dal maresciallo Tito liberarono però il paese ricevendo ben pochi aiuti da parte russa e quasi nessuno da parte britannica e ciò assicurò al paese una certa indipendenza. Tito governò il paese in modo non diverso da quello di Stalin. Rifiutò tuttavia di accettare le imposizioni dell’Unione Sovietica e nel 1948 ruppe pubblicamente con quest’ultima. La determinazione dei confini postbellici della Polonia e della sua forma di governo rappresentò uno dei problemi più spinosi del processo di pacificazione. Nelle ultime fasi della guerra erano esistiti due governi provvisori polacchi, uno a Londra e uno nella parte della Polonia occupata dai russi. Su insistenza dei sovietici e con l’acquiescenza degli occidentali, i due gruppi si fusero formando un governo provvisorio. La colazione resse fino al 1947, quando i comunisti estromisero i loro alleati e assunsero il completo controllo del governo. La sistemazione territoriale decisa in via provvisoria a Potsdam una volta applicata spostò la Polonia 300 miglia più a ovest. Essi procedettero immediatamente all’espulsione di milioni di tedeschi residenti nella regione per accogliere vari milioni di polacchi che affluivano dalla zona occupata dai russi. Nei trattati di pace con i satelliti tedeschi dell’Est europeo, la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria, furono incluse clausole territoriali che seguivano un consolidato modello storico. La Romania riottenne la Transilvania dall’Ungheria, ma dovette restituire la Bessarabia e la Bucovina settentrionale all’Unione Sovietica e la Dobrugia alla Bulgaria. L’Ungheria subì le perdite maggiori, in quanto non ricevette nulla e dovete cedere una piccola area alla Cecoslovacchia, che perse la Rutenia a beneficio dell’Unione Sovietica. La Finlandia subì perdite territoriali a vantaggio della Russia, ma riuscì a sfuggire al destino dei governi di unità popolare nei paesi confinanti con l’Unione Sovietica e a conservare una precaria neutralità. I trattati di pace non affrontarono in alcun modo il problema della scomparsa dei paesi baltici della Lettonia, della Lituania e dell’Estonia. Nel gennaio del 1949, l’Unione Sovietica creò il Consiglio di aiuto economico reciproco (Comecon) nel tentativo di dare maggiore coesione alle economie dei suoi satelliti dell’Est europeo. Vi entrarono a far parte l’Albania, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Germania orientale. Sebbene il suo obiettivo dichiarato fosse di coordinare lo sviluppo economico dei paesi comunisti e di promuovere tra di essi una più efficiente divisione del lavoro, l’Unione Sovietica se ne servì per accrescere la dipendenza economica dei paesi satelliti. Alla morte di Stalin nel 1953, il blocco sovietico in Europa aveva un aspetto monolitico. Ciascuno dei paesi satelliti era più o meno una riproduzione in miniatura dell’Unione Sovietica. Subito dopo la morte di Stalin, questi paesi furono percorsi da una ventata di irrequietezza. In diversi di essi scoppiarono scioperi e sommosse, che assunsero una tale gravità da costringere le autorità sovietiche che ancora li occupavano a reprimerli con la forza delle armi. Nel 1956, in Ungheria divenne primo ministro Imre Nagy, un “nazionalcomunista” che promise ampie riforme e libere elezioni. Egli annunciò anche che l’Ungheria si sarebbe ritirata dal Patto di Varsavia, l’alleanza militare ispirata dai sovietici e chiese alle Nazioni Unite di garantire la neutralità perpetua dell’Ungheria sulla stessa base di quella austriaca. Questo era troppo per l’Unione Sovietica. Il 4 novembre, alle 4 del mattino, carri armati e bombardieri sovietici iniziarono un attacco coordinato che inflisse all’Ungheria distruzioni paragonabili a quelle della Seconda guerra mondiale. Per dieci giorni, operai e studenti ungheresi lottarono eroicamente contro forze preponderanti con armi ricevute dai propri soldati. La rivolta ungherese mostrò chiaramente che persino una Russia destalinizzata non era preparata a rinunciare al suo impero comunista. 77 L’ex colonia italiana della Libia fu il primo paese africano a ottenere l’indipendenza. La decisione fu presa dalla Nazioni Unite nel 1949 e il nuovo stato nacque alla fine del 1951 come monarchia costituzionale. Nel 1969, una giunta di giovani ufficiali delle forze armate rovesciò il vecchio monarca filo-occidentale e instaurò una repubblica araba contraddistinta da tono molto nazionalistici, che negli anni ottanta e novanta appoggiò e istigò il terrorismo internazionale. La Gran Bretagna pose termine al suo protettorato sull’Egitto nel 1922, ma conservò il controllo delle questioni militari e delle relazioni con l’estero. Nel 1952, una giunta militare rovesciò il fattaccio britannico instaurando una dittatura militare mascherata da repubblica. Nel 1956, il dittatore espulse le ultime truppe britanniche che erano lì con il pretesto di proteggere il Canale di Suez e poco dopo nazionalizzò il canale. Gli egiziani desideravano mantenere il controllo del Sudan. In un plebiscito del 1955, i sudanesi votarono decisamente a favore di una repubblica indipendente, che fu proclamato il 1º gennaio del 1956. Il Sudan non è riuscito a far funzionare né la democrazia né l’economia ed è stato governato da una serie di regimi militari. Il Nord Africa francese fu teatro di una lunga e difficile lotta per l’indipendenza. La Tunisia e il Marocco avevano mantenuto i loro governi tradizionali sotto l’amministrazione francese. L’Algeria, dove i francesi si erano insediati da oltre 100 anni e dove più di 1 milione di abitanti era di origine europea, era trattata per certi versi come parte della Francia. Dopo la guerra in tutti e tre i paesi, si svilupparono forti movimenti nazionalisti e panarabi. Il governo francese rispose facendo concessioni nominali alla Tunisia e al Marocco, ma cercando di integrare più strettamente l’Algeria con la Francia. Nessuna delle due tattiche di dimostrò efficace. La Tunisia e il Marocco ottennero alla fine la piena indipendenza dalla Francia. Gli algerini replicarono a partire dal 1954 con una tenace guerriglia che vide spesso azioni terroristiche contro la popolazione europea e i collaborazionisti algerini. L’esercito francese rispose con un controterrorismo. Il governo di Parigi non accordò un pieno sostegno all’esercito né lo pose strettamente sotto controllo. Nel maggio del 1958, il governo della Quarta Repubblica abdicò ai suoi poteri a vantaggio del generale de Gaulle. In un primo momento, de Gaulle sembrò deciso a conservare l’Algeria, ma dopo diversi anni di ulteriori spargimenti di sangue e di vani tentativi di raggiungere un accordo con i dirigenti algerini su un’autonomia nel quadro della “comunità francese”, acconsentì nel 1962 a una piena indipendenza. Tutti e tre i paesi nordafricani erano prevalentemente agrari, con un’agricoltura di tipo mediterraneo, ma oltre a questo possedevano importanti risorse minerarie. Il petrolio e il gas naturale scoperti in Algeria poco dopo l’indipendenza hanno dato a questo paese sia i mezzi per sviluppare l’industria sia quelli per svolgere un certo ruolo nella politica mondiale. Fino all’indipendenza, tutti e tre i paesi erano commercialmente orientati verso la Francia. L’Algeria esportava negli Stati Uniti grandi quantità di gas naturale liquido. Dopo la Seconda guerra mondiale, il governo britannico si rese conto che avrebbe dovuto sforzarsi di preparare meglio i propri sudditi africani all’autogoverno se voleva evitare costose guerre coloniali e la perdita totale dei vantaggi economici dell’impero. Cominciò così a costruire più scuole, a istituire università e ad ammettere gli africani nel pubblico impiego. Nel 1951, la Costa d’Oro e la Nigeria ottennero una certa autonomia locale. La Nigeria ottenne l’indipendenza nel 1960. Le prime colonie britanniche in Africa a conquistare l’indipendenza erano tra le meno avanzate economicamente e politicamente. Nell’Africa Orientale e nelle due Rhodesia, invece, i coloni britannici avevano acquisito la proprietà di vasti territori e godevano di un sostanziale autogoverno sul piano locale. Nel 1965, la Gran Bretagna aveva concesso l’indipendenza a tutte le colonie africane a eccezione della Rhodesia meridionale. L’eccezione era determinata dal rifiuto della popolazione bianca rhodesiana di accordare uno status paritario ai concittadini neri. Alla fine, nel 1979, dopo libere elezioni, la maggioranza nera trionfò e cambiò il nome del paese in Zimbabwe. Annunciando l’instaurazione della Quinta Repubblica nel 1958, de Gaulle offrì alle colonie francesi, a eccezione dell’Algeria, l’opzione dell’immediata indipendenza o autonomia nell’ambito della nuova Comunità francese, con il diritto di distaccarsene in qualsiasi momento. Sebbene de Gaulle si rendesse conto che sarebbe stato probabilmente impossibile conservare le colonie contro la loro volontà, 80 quest’offerta eccezionalmente liberale fu una svolta al cospetto dell’ostinata mancanza di realismo e dei marchiani errori della politica coloniale francese precedente. Delle quindici colonie dell’Africa nera, solo la Guinea scelse l’indipendenza. Le altre organizzarono propri governi, ma permisero ai francesi di mantenere il controllo della difesa e della politica estera in cambio di assistenza economica e tecnica. La repentina conquista dell’indipendenza da parte delle colonie francesi spronò i sudditi fino a quel momento tranquilli del Congo belga a rivolte, saccheggi e richieste di un trattamento analogo. All’inizio del 1960, il governo belga decise che il Congo sarebbe divenuto indipendente il 30 giugno. Alla metà degli anni sessanta, tutte le ex potenze coloniali europee, a eccezione del Portogallo, avevano concesso l’indipendenza a quei tutte le loro colonie asiatiche e africane. Il Portogallo respinse ogni suggerimento di preparare le proprie colonie ad un’eventuale emancipazione. Nel 1974, un colpo di stato rovescio in Portogallo il regime dittatoriale e il nuovo governo negoziò prontamente l’indipendenza delle colonie africane, l’Angola e il Mozambico. Come in molte altre parti del mondo, tuttavia, non esistevano le basi sociali ed economiche per democrazie stabili e vitali. Molte delle ex colonie caddero sotto regimi monopartitici, influenzati spesso dai comunisti russi o cinesi. Alcuni piombarono nell’anarchia e nella guerra civile, in cui trovarono la morte per malnutrizione e malattie oltre che a causa delle ostilità migliaia di civili innocenti, soprattutto bambini. Gran parte delle amministrazioni dei nuovi stati fu afflitta dalle piaghe dell’inefficienza e della corruzione. 7. I TRAVAGLI DEL TERZO MONDO In molti casi, le ex colonie cercarono di imitare il successo apparente dell’America Latina nella costruzione di un’indipendenza economica oltre che politica nei confronti degli ex padroni coloniali. Ancora a metà del XX secolo alcuni di essi, in particolare quelli del “cono meridionale” (Argentina, Uruguay e Cile) godevano di redditi pro capite paragonabili a quelli dell’Europa occidentale. In seguito, gran parte di questi paesi insistette in programmi di industrializzazione finalizzati alla sostituzione delle importazioni, nel tentativo di produrre direttamente i beni di manifattura precedentemente importati. Questa strategia si rivelò controproducente in confronto con le politiche di promozione delle esportazioni che si andarono affermando prima in Europa e poi in Giappone. I programmi latinoamericani fallirono quasi invariabilmente per diversi motivi: la piccolezza dei mercati interni, sia per dimensioni sia per potere d’acquisto, che non giustificava l’utilizzazione dei metodi di produzione più economici; un’insufficiente cooperazione a livello regionale; la mancanza del capitale umano necessario per fare un uso efficace della nuova tecnologia d’importazione e a maggior ragione per svilupparne una propria. Il risultato fu che all’epoca degli sconvolgimenti dell’economia mondiali provocati dagli shock petroliferi degli anni settanta i livelli latinoamericani di reddito pro capite precipitarono più nettamente di quelli dei paesi avanzati dell’Occidente. Già negli anni sessanta, una crescita industriale consistente si era avviata in certe economie dell’Asia sudorientale, in particolare le ex colonie giapponesi, Corea del Sud e Taiwan. È tuttavia evidente che questi paesi erano riusciti a imitare la politica giapponese di industrializzazione guidata dallo stato e stimolata dalle esportazioni, migliorando talvolta la stessa strategia giapponese con la previsione di tassi più elevati di crescita dei consumi interni. 8. LE ORIGINI DELL’UNIONE EUROPEA Il sogno di un’Europa unita è antico quanto l’Europa stessa. Il Sacro romano impero di Carlo Magno aveva pressappoco gli stessi confini dell’originario Mercato comune. È importante avere ben chiara la distinzione tra organizzazioni internazionali e sopranazionali. Le organizzazioni internazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non possiedono un reale potere di coercizione. Le organizzazioni sopranazionali richiedono che i loro membri cedano almeno una parte della loro sovranità e possono costringerli a uniformarsi alle proprie disposizioni. Sia la Società delle Nazioni sia le Nazioni Unite sono esempi di 81 organizzazioni internazionali. In Europa, l’Oece e la ma gioir parte delle organizzazioni postbelliche degli stari sono state internazionali piuttosto che sopranazionali. Le proposte di vari tipi di organizzazioni sopranazionali europee sono divenute via via più frequenti a partire dal 1945. L’unione doganale del Benelux, che permise il libero movimento delle merci tra Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo e una tariffa esterna comune, derivò dalla consapevolezza che nelle condizioni moderne della produzione e della distribuzione le economie dei singoli stati erano troppo piccole da permetter loro di godere in pieno dei benefici della produzione di massa. Il Belgio e il Lussemburgo avevano già dato vita in effetti a un’unione economica nel 1921. L’Oece richiedeva solo cooperazione, non una piena integrazione. Nel 1950, il ministro degli esteri francese Robert Schuman propose l’integrazione delle industrie del carbone e dell’acciaio della Francia e della Germania Occidentale e invitò altre nazioni a partecipare. Le motivazioni di Schuman erano sia politiche sia economiche. Il carbone e l’acciaio erano il cuore dell’industria moderna e tutti i segni indicavano una ripresa dell’industria tedesca. Il Piano Schuman era un artificio per mantenere l’industria tedesca sotto sorveglianza e controllo. Il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) fu siglato nel 1951 ed entrò in vigore nei primi mesi dell’anno seguente. Esso prevedeva l’eliminazione delle tariffe e dei contingenti in materia di scambi intracomunitari di minerale ferroso, carbone, coke e acciaio, una tariffa esterna comune sulle importazioni da altri paesi e controlli sulla produzione e sulle vendite. Subito dopo l’inizio delle attività della comunità, le stesse nazioni tentarono un altro gigantesco passo in avanti sulla strada dell’integrazione con un trattato per una Comunità di difesa europea. Nel 1957, i partecipanti al Piano Schuman siglarono a Roma due altri trattati, che istituivano la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) per lo sviluppo di usi pacifici per l’energia atomica e la Comunità economica europea (Cee) o Mercato comune. Il Trattato istitutivo del Mercato comune prevedeva la graduale eliminazione dei dazi sull’importazione e delle limitazioni quantitative su tutti gli scambi tra i paesi membri e l’introduzione di una tariffa esterna comune dopo un periodo di transizione da 12 a 15 anni. Sia questo trattato sia quello dell’Euratom istituirono alte commissioni per sovrintendere al proprio funzionamento e fusero gli altri organi sopranazionali con quelli della Ceca. Il Trattato istitutivo del Mercato comune entrò in vigore il 1º gennaio del 1958. Dopo la firma del Trattato istitutivo del Mercato comune da parte dei paesi che avevano aderito al Piano Schuman, la Gran Bretagna, i paesi scandinavi, la Svizzera, l’Austria e il Portogallo crearono l’Associazione europea di libero scambi io (Efta). Il Trattato istitutivo dell’Efta prevedeva unicamente l’eliminazione delle tariffe sui prodotti industriali tra i paesi firmatari. Non erano compresi i prodotti agricoli, non si parlava di una tariffa esterna comune e ogni membro poteva ritirarsi in qualsiasi momento. Essa fu perciò un’unione molto più debole del Mercato comune. Nel 1961, la Gran Bretagna rese nota la sua disponibilità a entrare nel Mercato comune a certe condizioni. Seguirono estenuanti negoziati sulle condizioni di ammissione, ma nel gennaio del 1963, il presidente francese de Gaulle pose un vero e proprio veto all’accoglimento della Gran Bretagna, veto ribadito nel 1967. Dopo le dimissioni di de Gaulle nel 1969, il governo francese assunse un atteggiamento più moderato sulla questione dell’ammissione della Gran Bretagna. Dopo ulteriori negoziati nel 1972, fu approvata l’ammissione, a far data dal 1º gennaio 1973, di Gran Bretagna, Eire, Danimarca e Norvegia. La Norvegia sottopose però la questione al giudizio di un referendum popolare, che diede esito negativo; fu così che nel 1973 i sei divennero nove. Successivamente, nel 1973, quanto la Gran Bretagna era ormai entrata nella Comunità Europea assieme all’Irlanda e alla Danimarca, il primo shock petrolifero travolse i piani economici di tutti i paesi membri, che erano basati sul presupposto di un approvvigionamento costante di petrolio a basso prezzo dal Medio Oriente. Ciascun paese adottò una propria strategia per neutralizzare gli effetti di un prezzo del petrolio quadruplicato. Nel 1963, la Comunità aveva siglato a Yaoundé, nel Camerun, una convenzione che offriva cooperazione commerciale, tecnica e finanziaria a diciotto paesi dell’Africa nera, in gran parte ex colonie francesi e belghe. Gli anni rimanenti di quel turbolento decennio videro analoghi accordi commerciali con Israele, Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Giordania e Libano. 82 Cap.16: Panoramica dell’economia mondiale: 1914-2014 Il 2014 non ha rappresentato solamente il centenario della fine della Prima economia globale, ma anche il primo quarto di secolo dall’inizio della Seconda economia globale. Dopo il crollo definitivo dell’Unione Sovietica nel 1991, quasi ogni nazione del mondo ha sentito la necessità di adattare le proprie politiche e strutture economiche alle esigenze dell’emergente mercato globale e ha agito in tal senso. Da quel momento in poi, i politici di ogni paese hanno dovuto fare i conti con le dilaganti forze di mercato. In alcuni paesi, le forze politiche hanno reagito cercando di proteggere i cittadini-elettori da alcune delle conseguenza della globalizzazione. Additando l’evidente successo della Cina continentale nel sostenere una crescita accelerata con rigidi controlli sul capitale, nel 1998, la Malesia impose temporanei controlli sui movimenti di capitali allentati poi solo marginalmente nonostante l’accantonamento di ingenti riserve di valuta estera. I paesi dell’Unione Europea hanno reso più difficile l’ingresso di profughi e sono profondamente divisi sulle misure atte a scoraggiare i flussi migratori. Gli Stati Uniti hanno rafforzato i pattugliamenti al confine con il Messico. Il Medio Oriente è martoriato da persistenti conflitti settari che hanno provocato migliaia di vittime e spinto milioni di profughi oltre i confini tracciati da diplomatici britannici e francesi dopo la Prima guerra mondiale. L’attuale presidente russo, Vladimir Putin, ha violato gli accordi degli anni novanta sui confini europei annettendo parti della Georgia e poi della Crimea nell’evidente tentativo di restituire alla Federazione Russa il potere e l’influenza di quella che fu l’Unione Sovietica. 1. IL CROLLO DEL BLOCCO SOVIETICO Nella seconda metà del 1989, una serie di eventi si è verificata in Europa orientale: la caduta dei regimi comunisti. Polonia e Ungheria furono i primi, ma pochi osservatori esterni si aspettavano una pronta replica negli altri paesi come in Cecoslovacchia, Germania Est, Bulgaria, Romania e Albania. La rivolta di massa nelle terre già dominate dai comunisti fu determinata da una mescolanza di motivi politici ed economici. I regimi di quei paesi erano stati imposti dall’Unione Sovietica senza il consenso della popolazione. Le masse avevano mostrato in varie occasioni il loro malcontento: nel 1953 in Germania Est, nel 1956 in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia e più volte in Polonia. In ognuna di queste occasioni, l’Unione Sovietica aveva fatto ricorso alla forza delle armi per ripremere la ribellione. Le radici dello scontento popolare erano dunque profonde. Nel 1980, i lavoratori polacchi guidati da Lech Walesa, elettricista nei cantieri navali di Danzica, si organizzarono in una federazione sindacale, Solidarność, indipendente dallo stato e dal Partito comunista. Il regime la tollerò per qualche tempo, ma nel dicembre del 1981, il governo proclamò la legge marziale e fece imprigionare i maggiori esponenti di Solidarność. Le agitazioni continuarono; nell’aprile del 1989, nel tentativo di placare le tensioni, il governo legalizzò nuovamente Solidarność e decise che nel mese di giugno si sarebbero tenute delle elezioni parzialmente libere. Solidarność conquistò tutti i seggi meno uno tra quelli messi in palio e uno dei suoi leader divenne primo ministro sotto un presidente comunista nel settembre del 1989. Ciò rese possibili quelle riforme economiche che avrebbero dovuto realizzare la transizione da un’economia pianificata a una capitalistica di mercato. La strategia adottata dal ministro delle finanze Lescek Balcerowitz fu chiamata “terapia d’urto” e fu inaugurata nel gennaio del 1990 con misure deflazionistiche combinate con la liberalizzazione dei prezzi e la rimozione di barriere commerciali. Purtroppo la sua riduzione delle spese dell’amministrazione centrale pregiudicò il consenso politico attorno alle sue misure. Solo le entrate derivanti da un’accelerazione delle privatizzazioni avrebbero potuto tenere in equilibrio il bilancio statale. La mancanza di una contabilità attendibile dei costi pregressi combinata con l’incertezza sui futuri mercati di sbocco della produzione di miniere di carbone, acciaierie e cantieri navali rendeva rischioso ogni genere di investimento. La Polonia era riluttante a cedere il controllo manageriale ad aziende straniere. 85 Aveva infine accumulato un enorme debito estero nei confronti dei governi occidentali e di istituzioni finanziarie, debito che non era più in grado di rimborsare. Dopo dieci anni di rapidi avvicendamenti al governo e di richiami all’ordine da parte dell’Unione Europea e di investitori stranieri, la Polonia era diventata il primo dei paesi in transizione a recuperare i livelli produttivi ante-1990 e ad attestarsi su livelli di crescita economica sostenuti. Dopo il fallimento della Rivoluzione ungherese del 1956, il nuovo governo insediato dall’Unione Sovietica seguì la linea sovietica in politica estera, ma in cambio godette di una limitata libertà negli affari interni. Nel 1968, fu istituito un “nuovo meccanismo economico” che era un compromesso tra una stretta pianificazione centrale e un sistema di libero mercato. Esso sviluppò inoltre relazioni più strette, sia politiche sia economiche con l’Europa occidentale. Fu permessa la formazione di partiti politici d’opposizione i quali negoziarono con il governo una transizione pacifica. Nelle libere elezioni del maggio 1990, una coalizione di tre partiti dell’opposizione conquistò una netta maggioranza nella nuova assemblea nazionale. Le prime riforme economiche ungheresi furono più rapide di quelle polacche. Quest’esperienza permise inoltre all’Ungheria di incoraggiare una rapida privatizzazione delle aziende di stato. Il risultato fu che l’Ungheria beneficiò della maggior quantità di investimenti esteri tra tutte le economie dell’est europeo. Sfortunatamente, molte delle aziende di stato furono semplicemente cedute a uomini di apparato incaricati della loro gestione. Costoro si sentirono rafforzati nel loro peso politico a livello governativo e l’esercizio dell’influenza politica fu il loro vantaggio comparato rispetto alla modernizzazione degli impianti e alla commercializzazione dei loro prodotti. La crescita ungherese tornò, alla fine degli anni novanta, a livelli deludentemente bassi. Con l’esempio davanti agli occhi delle transizioni relativamente pacifiche avvenute in Polonia e in Ungheria, gli studenti e gli operai cecoslovacchi intensificarono le loro proteste e le dimostrazioni di massa. Dapprima il governo rispose con una violenta repressione; alla fine però acconsentì a negoziare. Nel dicembre del 1989, Aleksander Dubček, leader della “Primavera di Praga” del 1968, fu eletto presidente del nuovo parlamento e Vaclav Havel divenne capo dello stato. Nel luglio del 1992, il Consiglio nazionale slovacco approvò una “dichiarazione di sovranità”. Poco dopo, la Repubblica Ceca acconsentì alla separazione, che divenne effettiva il 1º gennaio del 1993. La dissoluzione pacifica della Cecoslovacchia fu in netto contrasto con le contemporanee vicissitudini jugoslave. Non aveva debiti con l’estero, a differenza della Polonia e aveva avviato una limitata liberalizzazione dei prezzi e incoraggiato l’agricoltura privata sulla scia dell’esempio ungherese. Possedeva ancora una forza lavoro qualificata e una reputazione di manifatture di qualità. La privatizzazione fu ritardata a causa del conflitto tra cechi e slovacchi e al momento della separazione delle due regioni nel 1993, la creazione di valute separate e di controlli di frontiera rappresentarono ulteriori freni alle riforme. La Repubblica democratica tedesca (Germania Est) celebrò il suo quarantesimo anniversario nell’ottobre del 1989, alla presenza del presidente sovietico Michail Gorbačëv. Poco dopo, il Comitato centrale del Partito di unità socialista tedesco-orientale depose il vecchio leader, Erich Honecker, in seguito accusato di diversi delitti, tra cui l’appropriazione indebita di denaro pubblico. Nel frattempo, migliaia di tedeschi orientali, nell’impossibilità di emigrare direttamente in Occidente, avevano cominciato ad affluire in Cecoslovacchia e in Ungheria, nella speranza di raggiungere da lì l’Austria o l’Occidente. Il nuovo governo ungherese fece loro cosa grata aprendo il confine con l’Austria. Uno degli avvenimenti più spettacolari del 1989 fu l’abbattimento del Muro di Berlino. Il muro era stato costruito attorno a Berlino Ovest dal governo tedesco-orientale nel 1961 per impedire la fuga in Occidente della popolazione. Per quasi tre decenni, esso rimase in piedi come simbolo della tirannia comunista e della repressione. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre, senza alcun intervento delle autorità tedesco-orientali, dimostranti di Berlino Est e Ovest cominciarono a distruggere il muro e migliaia di berlinesi dell’Est sciamarono in Occidente. Le autorità tedesco-occidentali, colte di sorpresa non meno di quelle orientali, presero misure di emergenza per accogliere il massiccio afflusso di rifugiati, ma cercarono anche di persuadere i tedeschi orientali a rimanere dov’erano. Nel luglio del 1990, fu creata un’unione economica e monetaria con la Repubblica democratica tedesca, che cessò di esistere come stato separato il 3 86 ottobre, data in cui fu incorporata nella Repubblica federale tedesca. L’urgenza politica di portare a termine la riunificazione rapidamente, ispirò la conversione alla pari della valuta della Germania Est (Ostmark) in quella della Germania Ovest (Deutschemark). Ciò ebbe come conseguenza che i lavoratori tedesco-orientali si trovarono da sei a dodici volte meglio di prima, mentre i loro datori di lavoro, per lo più ditte tedesco-occidentali dopo la privatizzazione delle ex aziende di stato, non potevano più permettersi di tenerli alle loro dipendenze. Salì alle stelle il tasso di disoccupazione e l’onere dei sussidi di disoccupazione per i lavoratori tedesco-orientali andò ad aggiungersi alla spesa per la ricostruzione delle decadenti e obsolete infrastrutture della Germania Est. Il fardello economico perdurante della riunificazione tedesca rallentò la crescita economica della Germania negli anni novanta con effetti in ricaduta su tutti gli altri paesi europei. Ciascun paese affrontò a modo suo i particolari condizionamenti politici e culturali che lo affliggevano. La Bulgaria ottenne un nuovo regime riformatore con le elezioni della primavera del 1990, ma registrò un tracollo della produzione agricola in quanto i contadini che solo da poco avevano subito la collettivizzazione cercarono di ristabilire i propri diritti di proprietà. Nel 1999, la Bulgaria istituì un comitato incaricato di arrestare l’inflazione e dare stabilità al proprio assetto finanziario. In Romania, la violenta deposizione dell’umorale dittatore Nicolae Ceausescu, giustiziato il giorno di Natale del 1989, fu seguita dalla permanenza al potere degli stessi funzionari del Partito comunista, al cospetto di una popolazione demoralizzata che rimase tale per la lentezza delle riforme e l’assenza di risultati economici nel primo decennio dalla caduta del comunismo. In Albania, la peculiare versione locale dello stalinismo cessò di esistere nel 1991, ma le iniziali riforme economiche si ridussero all’apparizione di tutta una serie di “finanziarie” che defraudarono buona parte della popolazione dei risparmi che ancora poteva possedere. La migliore strategia economica parve allora essere l’emigrazione in Europa. La Jugoslavia, pur non essendo un satellite dell’Unione Sovietica, visse anni di agitazione. Oltre che da movimenti per la riforma economica, la sua situazione, in quanto federazione di gruppi etnici distinti, era complicata dalla presenza di movimenti separatisti. Nel 1991, le repubbliche di Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza dalla Jugoslavia e le repubbliche della Macedonia e della Bosnia-Erzegovina fecero dei passi nella stessa direzione. La Repubblica di Serbia tentò di impedite la secessione con il ricorso alle armi, innescando una vera e propria guerra civile. La situazione fu ulteriormente complicata dal fatto che molti serbi etnici che vivevano nelle altre repubbliche formarono forze paramilitari a sostegno della Serbia. Il prodursi di orrori che ricordavano anche troppo da vicino le peggiori atrocità perpetrate durante la Seconda guerra mondiale, in una regione che era già stata all’origine dello scoppio della Prima guerra mondiale all’invio del XX secolo, spinse finalmente la Nato a intervenire alla fine del 1995. Ciò stabilizzò la situazione in Bosnia-Erzegovina, ma nulla fece per risolvere le tensioni di fondo tra serbi, croati e musulmani. Tra i serbi, il leader ex comunista Slobodan Milošević continuò a fomentare il parossismo nazionalistico per l’edificazione di una Grande Serbia. L’ultimo sussulto da signore della guerra da parte di Milošević fu l’avvio della pulizia etnica nei confronti dei musulmani del Kosovo, che alla fine spinse la Nato a intervenire contro di lui con raid aerei nel 1999. Nell’inverno del 2000, con l’elezione in Serbia di un nuovo presidente, le potenze occidentali si trovarono costrette ad avviare rapidamente il processo di transizione, complicato dagli esiti di un embargo decennale contro quello che rimaneva della Jugoslavia e dagli effetti dei bombardamenti Nato sulla Serbia. Il desiderio di libertà si è propagato in tutto il continente asiatico. Il governo della repubblica popolare cinese aveva permesso una limitata introduzione del libero mercato e della libera impresa nel corso degli anni ottanta. Questa politica aveva conseguito un notevole successo nel settore rurale e la produzione agricola crebbe in modo consistente insieme al reddito degli agricoltori e dei lavoratori delle campagne. Tale politica stimolò anche richieste di maggiore libertà politica e democrazia. Per sette settimane, tra l’aprile e il maggio del 1989, una folla composta in gran parte da studenti inscenò quotidiane dimostrazioni sulla storica Piazza Tienanmen nel cuore di Pechino. Per qualche tempo sembrò che in Cina potesse verificarsi una transizione pacifica verso forme più democratiche, ma alla fine prevalsero i fautori della linea dura e il 4 giugno colonne blindate massacrarono a cannonate i dimostranti a centinaia o migliaia. La dirigenza comunista continuò nondimeno nella sua politica di riforme economiche facilitate dall’accesso alle strutture commerciali di Hong Kong, tornata finalmente sotto la sovranità cinese 87 svalutazione rispetto al dollaro della moneta brasiliana, concomitante a quella dell’euro, mise fuori mercato le esportazioni argentine. 3. IL LUNGO XX SECOLO IN PROSPETTIVA Stimolata dal ritmo sempre più accelerato del mutamento tecnologico, l’economia mondiale ha assunto, nel secolo che va dal 1914 al 2014, dimensioni nuove e senza precedenti. Il 1973 segnò l’inizio di una nuova era della globalizzazione che si è sviluppata a un ritmo superiore e su una scala molto più ampia. L’Europa occidentale e le sue propaggini avevano raggiunto nel 1973 livelli di prosperità senza precedenti nonostante avessero fatto del loro meglio per distruggersi a vicenda nella Seconda guerra mondiale. Il reddito pro capite in Europa occidentale passò da 2,43 volte la media mondiale nel 1913 a 2,92 volte nel 2010. L’idea malthusiana che alti livelli di reddito pro capite sospingono in alto la crescita demografica, la quale a sua volta farebbe scendere il reddito generale, sembrava confermata dalla storia umana fino all’epoca in cui Malthus scrisse il suo “Saggio sul principio di popolazione” nel 1798. La popolazione africana, che nel 1913 deteneva il più basso reddito pro capire tra le regioni del mondo, saliva dal 7 al 14% della popolazione mondiale nel 2009. Un esame approfondito delle interazioni fra le componenti demografiche delle dinamiche di popolazione e gli sviluppi a livello di tecnologia, risorse e istituzioni nel lungo XX secolo rivela una relazione tra mutamento demografico e crescita economica essa più complessa e interessante di quanto Malthus avrebbe potuto prevedere. Tre concetti che sono assenti nella sua analisi risultano essenziali per comprendere il mondo in cui viviamo: “transizione demografica, dividendo demografico, dislocazione demografica (displacement)”. 4. POPOLAZIONE 4.1. TRANSIZIONI DEMOGRAFICHE Come prima prima approssimazione si può dire che la causa del tremendo incremento numerico della popolazione mondiale è stata la diminuzione complessiva della mortalità. Le nazioni occidentali fecero registrare, tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento, una “transizione demografica” da un regime di alti tassi di natalità e mortalità a uno caratterizzato da tassi molto inferiori. In tale periodo, la popolazione crebbe a ritmi mai visti prima. La transizione demografica svedese iniziata almeno nel 1830 durò fino al 1930 con un altro “baby boom” dopo la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, in gran parte dei paesi non occidentali ebbe inizio una transizione analoga, che è tuttora in corso per numerosi paesi africani. Nel periodo 1950-1955, la transizione si interruppe brevemente a causa del baby boom postbellico che interessò l’Europa occidentale, ma soprattutto gli Stati Uniti, mentre la differenza era assai inferiore che in Africa, in Cina e in India, tutti paesi che avevano ancora alti tassi di natalità quando i tassi di mortalità avevano già iniziato a crollare in maniera definitiva rispetto ai livelli premoderni. Nel periodo 1970-1975, il tasso di incremento naturale rimaneva alto in Africa, in Cina e in India. All’inizio del XXI secolo, la Cina aveva un tasso di incremento naturale addirittura inferiore a quello degli Stati Uniti e la transizione demografica era quasi completa anche in India e nell’intera America Latina; solo l’Africa rimaneva ancora indietro nel compimento della propria transizione demografica. La ragione della continua diminuzione del tasso grezzo di mortalità nei paesi industriali avanzati nel XIX secolo e poi nel resto del mondo dopo la Seconda guerra mondiale va ricondotta alla diminuzione generalizzata della mortalità infantile. 90 4.2. IL DIVIDENDO DEMOGRAFICO Una delle più importanti conseguenze del calo dei tassi di mortalità è stato il rapido incremento della durata media della vita. All’inizio del XX secolo, il valore era generalmente inferiore a 50 anche nei paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, nel 1900, la media per la popolazione bianca di entrambi i sessi era di 47,3, mentre era solo di 33 per la popolazione non di razza bianca. Nel mondo occidentale, la speranza di vita all’inizio del secolo era veramente bassa, di poco superiore ai livelli raggiunti durante l’antico Impero romano. In India, ancora nel 1931, la speranza di vita alla nascita era di soli 26,8 anni. A metà secolo, nei paesi occidentali avanzati, essa era cresciuta fino a superare i 60 anni. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale sono però stati fatti registrare notevoli progressi quasi ovunque. Esiste una stretta correlazione tra queste statistiche e in particolare la speranza di vita e i vari metri di misura del benessere quali il reddito pro capite, i livelli di alimentazione e la qualità dell’assistenza sanitaria. Di regola in paesi con redditi medi elevati, la popolazione è meglio nutrita e gode di una migliore assistenza medica di quella appartenente a paesi con redditi sensibilmente inferiori; di conseguenza, gli indici di mortalità sono inferiori e la speranza di vita proporzionalmente maggiore. Man mano che i bambini sopravvissuti crescono e diventano adulti aumenta anche la dimensione delle coorti di età più suscettibili di far parte delle forza lavoro. I demografi collocano tra i 15 e i 64 anni la gamma di età generalmente accettata per la partecipazione potenziale alla vita attiva. La risultante riduzione dell’ “indice di dipendenza” di un paese determina un potenziale “dividendo demografico”. Con il tempo, la dimensione relativa di questo dividendo demografico può crescere, se il tasso di natalità decresce rapidamente e riduce il numero di soggetti che popolano la coorte sotto i 15 anni o diminuire se la riduzione del tasso di natalità continua continua mentre aumentano coloro che transitano nella coorte di età sopra i 65 anni. Il tardo XX secolo è stato testimone di esempi sensazionali del primo effetto, la riduzione dell’indice di dipendenza. L’Irlanda, dopo che sul finire degli anni settanta furono legalizzati i contraccettivi e dall’altra parte del globo Taiwan sono due dei paesi che nel corso degli anni ottanta videro crescere bruscamente la coorte 15-64 ed entrambi successivamente furono protagonisti di miracoli economici che conquistarono l’immaginazione degli osservatori stranieri. Da notare è che entrambi i paesi adottarono contemporaneamente misure di apertura delle rispettive economie al commercio internazionale e di incoraggiamento dell’afflusso di capitali per offrire opportunità di lavoro alle loro schiere crescenti di lavoratori giovani, sani e istruiti. Il XXI secolo vedrà intensificarsi i casi dell’effetto opposto: una crescita dell’indice di dipendenza con l’espansione della percentuale di residenti ultrasessantacinquenni grazie al miglioramento delle condizioni di salute e dell’assistenza medica rivolta agli anziani. Il Giappone è già immerso in questa situazione ed è verosimile che in dieci o vent’anni questo accadrà anche alla Cina. La soluzione più ovvia è incrementare la popolazione attiva all’interno della fascia di età 15-64 anni, obiettivo che si può raggiungere più facilmente aumentando l’occupazione femminile. Questa a sua volta viene generalmente accompagnata da una diminuzione del tasso di fertilità, altro fattore che tende a ridurre l’indice di dipendenza. Un esempio eminente del successo di questa soluzione è la Svezia. La seconda soluzione in ordine di praticabilità è quella di procrastinare l’età della pensione oltre i 65 anni, approfittando del miglioramento delle condizioni di salute della popolazione anziana nei paesi più ricchi del pianeta. Una terza soluzione potrebbe consistere nello sfruttare modelli migratori che si sono inavvertitamente consolidati in diversi paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. 4.3. DISLOCAZIONI DEMOGRAFICHE L’ “emigrazione interna” è sempre stata la forma più importante di dislocazione demografica che però nel XX secolo ha condotto a un’estesa urbanizzazione, proseguendo il processo così marcato nell’Europa del XIX secolo, ma esteso ora ad altre regioni del mondo. Nei paesi più industrializzati, le città sono di solito centri di ricchezza oltre che di cultura, in quanto la produttività e i redditi sono generalmente più elevati nelle attività urbane che in quelle rurali. Città del Messico è passata dai circa 2 milioni di abitanti degli anni quaranta agli oltre 21 milioni del 91 2014. Questa crescita repentina ha caratterizzato la maggior parte delle grandi città dell’America Latina, dell’Asia e persino dell’Africa, sottoponendo le infrastrutture urbane a pressioni intollerabili. L’urbanizzazione giapponese è proseguita nonostante sia cessata la crescita demografica, mentre in Russia l’umanizzazione si è stabilizzata al pari della popolazione totale. La sensazionale crescita della Cina dopo le riforme del 1978 fu chiaramente dovuta al trasferimento dei lavoratori dalle campagne alle città. La crescita meno clamorosa dell’India nello stesso periodo di riflette in un tasso di urbanizzazione molto meno accentuato. L’urbanizzazione creò problemi di carattere economico alle città del XIX secolo. Le città divennero gli epicentri della crescita economica e finirono per fornire alle loro popolazioni condizioni di vita più salubri di quelle rinvenibili nelle campagne. Continuò inoltre anche il fenomeno dell’ “emigrazione internazionale” che era stato un elemento fondamentale della storia demografica del XIX secolo. Gran parte dell’emigrazione ottocentesca era stata motivata dalle pressioni economiche in patria e dalle opportunità offerte dai paesi esteri. Questi fattori non hanno perso d’importanza nel XX secolo, ma a essi si è aggiunta come causa determinante l’oppressione politica in conseguenza di guerre, rivoluzioni e conflitti settari. Nei secoli precedenti, l’emigrazione di massa era stata più spesso un obbligo che una scelta, come invece divenne sempre più il caso nel corso del XIX secolo. Nel XX secolo, tornò ad affermarsi un tipo di emigrazione forzata. Dopo la Prima guerra mondiale, l’Europa si organizzò in stati-nazione separati, in ciascuno dei quali il diritto di cittadinanza veniva formulato sulla base della maggioranza etnica, il che comportò l’espulsione di schiere di persone appartenenti etnicamente alle minoranze. L’emigrazione internazionale di tipo ottocentesco raggiunse il culmine negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. La guerra interruppe parzialmente questo flusso per qualche tempo. Mentre nel decennio prebellico l’immigrazione negli Stati Uniti aveva raggiunto la cifra media di circa 1 milione di persone l’anno, negli anni venti essa si era ridotta a meno della metà. Dopo la guerra, i molti profughi sfuggiti alle devastazioni belliche e alle nuove repressioni politiche gonfiarono nuovamente il numero degli immigrati che crebbe dai circa 100.000 della fine degli anni quaranta al mezzo milione e più degli anni ottanta. Fino alla Grande recessione del 2008-2013, gli Stati Uniti hanno continuato a rappresentare la meta di elezione per i migranti internazionali di tutto il mondo, nonostante i tentativi statunitensi di restringere nuovamente l’immigrazione dopo la concessione nel 1986 di una controversa amnistia agli immigrati illegali già presenti nel paese. Fino al 1965, gli immigrati negli Stati Uniti erano stati soprattutto europei; dopo l’ “Hart-Celler Act” del 1965, la politica degli Stati Uniti riguardo all’immigrazione passò da un sistema di quote basate sulle origini nazionali della popolazione presente nel 1910 a un sistema che incoraggiava la ricongiunzione familiare del numero crescente di profughi provocati dalla Seconda guerra mondiale e che mirava ad attrarre lavoratori qualificati. Molto più numerosi furono quindi nei decenni successivi gli immigrati provenienti dall’Asia e dall’America Latina. Molti di questi ultimi erano immigrati illegali in cerca di lavoro o rifugiati politici dell’America centrale o dei Caraibi. Dopo la Guerra del Vietnam aumentarono i profughi dell’Asia sudorientale. Crebbe inoltre dopo il 1990 l’immigrazione dall’India e dalla Cina. L’afflusso di immigrati dal Messico agli Stati Uniti è rimasto il canale migratorio più importante al mondo anche nel periodo 2010-2013. In Asia sudorientale i flussi migratori più consistenti sono stati quelli dal Myanmar alla Thailandia, crescita in termini assoluti dal 1990 al 2013. Nel XX secolo è cambiato anche il carattere dell’immigrazione e dell’emigrazione europee. Nel XIX secolo, l’Europa aveva fornito la parte più consistente dell’emigrazione internazionale, mentre oggi l’Europa occidentale è divenuta un asilo per i rifugiati politici, una terra delle opportunità per le masse impoverite dall’Europa mediterranea, del Nord Africa e di parte del Medio Oriente. Il processo si accelerò enormemente dopo la Seconda guerra mondiale. La Germania occidentale dovette sopportare l’impatto maggiore dell’afflusso di profughi e ciò fu percepito in un primo momento come un oneroso fardello; tuttavia, con la ripresa economica dell’Europa occidentale continentale negli anni cinquanta e sessanta e la forte domanda di manodopera, quest’onere si trasformò in una benedizione. L’offerta di lavoro fu anzi superiore al 92 L’automobile divenne un simbolo dello sviluppo economico del XX secolo nello stesso modo in cui la locomotiva a vapore lo era stato per l’Ottocento. L’industria automobilistica stimolò la domanda per diverse altre industrie. Come le locomotive e i treni avevano bisogno di binari e ferro, così le automobili necessitavano di strade e cemento. Negli Stati Uniti e in altri paesi grandi produttori di autoveicoli, l’industria divenne il maggiore mercato per l’acciaio, la gomma e il vetro. La rapida affermazione del Giappone come grande potenza economica nella seconda metà del XX secolo dovette molto al suo successo nell’esportazione di automobili. L’automobile ha avuto inoltre un profondo impatto sui rapporti sociali e sul costume, dal corteggiamento al pendolarismo. La tecnica della produzione su catena di montaggio fu adottata da altre industrie, tra cui l’industria aeronautica. L’era dell’aeroplano cominciò nel 1903 con il volo di quindici secondi dei fratelli Wright su una spiaggia del North Carolina. Nella Prima guerra mondiale si scoprirono gli impieghi militari degli aeroplani. Dopo la guerra, essi furono impiegati per il trasporto della posta e in seguito di passeggeri paganti. L’aviazione commerciale conobbe un rapido sviluppo negli anni trenta, insieme alla tecnologia e alla vigilia della Seconda guerra mondiale era disponibile un servizio transatlantico. Durante la guerra, i tedeschi cominciarono a sperimentare la propulsione a getto e anche i razzi. I loro esperimenti crearono le premesse per ulteriori sviluppi sia dell’aviazione sia dell’esplorazione dello spazio, quest’ultima portata avanti soprattutto da russi e americani che nel 1945 si contesero i servigi degli scienziati missilistici tedeschi. L’applicazione più spettacolare della scienza alla tecnologia si è avuta con l’esplorazione dello spazio. Il 4 ottobre del 1957, gli scienziati sovietici misero in orbita una capsula intorno alla Terra. Era iniziata l’era dello spazio. Un secondo razzo sovietico orbitante fu lanciato un mese dopo e all’inizio del 1958, gli Stati Uniti misero in orbita una loro capsula. Nel volgere di pochi anni, entrambi i paesi lanciarono nello spazio degli astronauti recuperandoli senza danni. Satelliti senza equipaggio furono posti in orbite più o meno permanenti per rimandare sulla terra informazioni scientifiche attraverso la radio e la televisione e altri razzi furono lanciati verso la luna, Venere, Marte e lo spazio esterno con scopi analoghi. Nel dicembre del 1968, gli Stati Uniti misero un equipaggio in orbita attorno alla Luna, ma l’anno seguente fecero ancora meglio. Il 20 luglio del 1969, gli astronauti Neil Armstrong ed Edwin Aldrin, assistiti dall’altro astronauta Michael Collins e da una squadra di migliaia di scienziati e tecnici sulla Terra, furono i primi uomini a calcare il suolo lunare. Il primo passo dell’uomo sulla luna fu mostrato a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo attraverso i ripetitori televisivi. 7. ISTITUZIONI La struttura internazionale dell’economia mondiale era nel 2014 molto diversa da quel che era stata nel 1914. I mutamenti istituzionali intervenuti sono innumerevoli e vanno da innovazioni insignificanti a cambiamenti epocali: le relazioni internazionali, le istituzioni nazionali e i cambiamenti all’interno delle nazioni, come quelli relativi al ruolo dello stato, alla natura e alla dimensione delle società commerciali e al ruolo dell’istruzione. 7.1. ISTITUZIONI INFORMALI Accanto alla proliferazione di istituzioni formali istituite per legge nei singoli paesi o create da trattati internazionali a livello sopranazionale, il XX secolo ha assistito all’affermazione di una varietà crescente di istituzioni informali. Tali istituzioni creano e supportano regole di comportamento e d’interazione economica che non son esplicitamente legittimate dalle autorità, ma che i membri di una comunità, di un’organizzazione civica, di una religione o di un gruppo etnico ritengono semplicemente il “modo giusto” di fare le cose. L’importanza delle istituzioni informali nelle attività economiche è cresciuta in via generale di pari passo con l’estensione dei diritti politici nelle società moderne. Sul finire del XX secolo, taluno teorici hanno predetto uno “scontro di civiltà” secondo linee di demarcazione religiose (islam, buddismo, cristianesimo e ateismo) anziché secondo gli schieramenti geopolitici del XIX e del XX secolo. La faccia positiva della medaglia è il numero crescente di organizzazioni non governative (Ong) nei paesi industriali più avanzati del Nord 95 America e dell’Europa occidentale e la loro influenza crescente sulle organizzazioni internazionali come la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio. 8. LIMITI DELLO SVILUPPO? Nel 1972, un gruppo di ricerca associato al Massachusetts Institute of Technology pubblicò un libro, “I limiti dello sviluppo”, in cui veniva affermato che “l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni”. Gli autori si richiamavano alle “cinque linee di tendenza più importanti del sistema mondiale”: l’industrializzazione sempre più accelerata, la rapida crescita demografica, la diffusa sottoalimentazione, il depauperamento delle risorse non rinnovabili e il deterioramento dell’ambiente. Sebbene molti critici addebitassero agli autori un’eccessiva drammatizzazione delle proprie conclusioni, quasi tutti erano d’accordo nel ritenere che essi avessero correttamente individuato le linee di tendenza d’interesse globale, in particolare la crescita demografica e la degradazione dell’ambiente. Con il generale rallentamento della crescita economica mondiale seguito alla crisi finanziaria del 2008, numerosi economisti hanno ripreso l’idea dei limiti dello sviluppo o della stagnazione secolare. Ragioni aggiuntive di un rallentamento per i principali paesi del Nord America e dell’Unione Europea possono essere legate alle problematiche dell’istruzione, dell’energia e dell’ambiente, della disuguaglianza. Oggi per i paesi più avanzati, l’istruzione sembra meno importante rispetto al passato, anche perché il costo relativo dell’istruzione universitaria è aumentato e ciò l’ha posta alla portate delle sole classi elevate o medio-alte. Il costo crescente dell’energia e la richiesta di una migliore qualità ambientale imporranno tassi di crescita più moderati. Dagli anni settanta, il capitalismo globale è costantemente accompagnato da una disuguaglianza crescente tra i ricchi in cima e i poveri in fondo, con la classe media schiacciata nel mezzo, ha il potenziale di creare crisi politiche suscettibili di arrestare la crescita. La sottoalimentazione è particolarmente diffusa in quesi paesi del Terzo mondo che stanno attraversando un periodo di rapida crescita demografica. Il danno ambientale non è confinato alle economie di tipo sovietico, come dimostra la controversia sulle “piogge acide”; ma nelle economie industriali più avanzate esso è avvertito con una maggiore consapevolezza e ci sono maggiori pressioni sia da parte della pubblica opinione sia delle autorità statali a costringere gli inquinatori a desistere o a pagare il costo del risanamento ambientale. In termini quantitativi assoluti e di tasso di crescita nell’ultimo mezzo secolo, il problema demografico è senza precedenti dal punto di vista storico, ma le cifre assolute e i tassi di crescita non sono le sole variabili importanti. La popolazione deve essere considerata in rapporto alle risorse disponibili per il suo sostentamento. Anche il volume delle risorse per il sostentamento della popolazione mondiale ha raggiunto oggi il massimo di tutti i tempi. Negli ultimi 100 anni, nei paesi ricchi si è verificata una transizione demografica da un regime di alti tassi di natalità e mortalità a uno caratterizzato da tassi molto inferiori, con una conseguente riduzione del tasso di crescita demografica. Alcuni esperti ritengono addirittura che il mondo nel suo complesso abbia raggiunto negli anni settanta un punto flesso, passando da tassi crescenti d’incremento delle popolazione totale a tassi declinanti. Man mano però che le fonti convenzionali di energia si impoveriranno, la spinta a intraprendere ricerche incentrate sull’energia solare aumenterà. L’ineguaglianza nella distribuzione delle risorse è il nucleo del problema dello sviluppo economico. 96
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