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storia economica del mondo - dalla preistoria ad oggi, Sintesi del corso di Storia Economica

riassunto del libro "Storia economica del mondo, dalla preistoria ad oggi"

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 24/04/2020

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deborah_19 🇮🇹

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Scarica storia economica del mondo - dalla preistoria ad oggi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Economica solo su Docsity! 1 STORIA ECONOMICA DEL MONDO Dalla preistoria a oggi 2 5 Lo sviluppo economico significa crescita economica accompagnata da un sostanziale cambiamento strutturale od organizzativo dell’economia (es. passaggio da un’economia locale di sussistenza ai mercati e al commercio). Il mutamento strutturale od organizzativo può essere “causa” della crescita, ma non necessariamente; talvolta la sequenza causale è inversa, oppure i due cambiamenti possono essere il prodotto concomitante di altri cambiamenti interni o esterni all’economia. La crescita economica è un processo reversibile: cioè, può essere seguito da una decadenza. Logicamente, anche lo sviluppo economico è reversibile. Durante o in seguito a un prolungato periodo di declino economico, si verifica qualche forma di regressione economica, un ritorno a forme più semplici di organizzazione, per quanto non identiche a quelle esistite in precedenza. Sia la “crescita” che lo “sviluppo” sono concetti neutri, in quanto possono essere misurati e descritti prescindendo assolutamente dalle norme etiche. Questo non è il caso del progresso economico. Nell’etica secolare moderna, la crescita e lo sviluppo sono frequentemente identificati con il progresso, ma tra essi non esiste necessariamente alcuna connessione. Secondo taluni criteri etici, un aumento del benessere materiale potrebbe essere considerato pericoloso per la natura spirituale degli esseri umani. Un’altra ragione per cui la crescita e lo sviluppo economico non possono essere automaticamente identificati con il progresso è che un aumento del reddito pro capite non dice alcunché della distribuzione di quel reddito. Partendo da determinati presupposti etici, si può sostenere che redditi pro capite inferiori, più equamente distribuiti, siano preferibili a redditi medi più alti ma distribuiti molto inegualmente. 3. DETERMINANTI DELLO SVILUPPO ECONOMICO L’economia classica ha sviluppato la classificazione tripartita dei «fattori di produzione»: terra, lavoro e capitale (a volte vi si aggiunge lo spirito imprenditoriale, cioè lo sforzo o il talento necessario per combinare od organizzare gli altri tre). In ogni dato momento, la produzione totale di un’economia è determinata dalla quantità dei fattori di produzione impiegati. Questa classificazione e le varie formule che ne possono derivare sono indispensabili all’analisi economica moderna ed estremamente utili anche nello studio della storia dell’economia. Come cornice concettuale per l’analisi dello sviluppo economico la classificazione è limitativa, in quanto presume che i gusti, la tecnologia e le istituzioni sociali (forme dell’organizzazione economica, sociale e politica, il sistema legale e la religione) siano date e fisse, o che non incidano in alcun modo sul processo di produzione. Nella realtà storica, tutti questi fattori hanno un effetto potente sul processo produttivo e sono tutti soggetti a cambiamenti. I mutamenti tecnologici e delle istituzioni sociali sono le fonti più dinamiche di cambiamento all’interno dell’economia, e sono le sorgenti profonde dello sviluppo economico. Analizzando un’economia in un dato momento o anche in momenti di tempi successivi, purché gli intervalli non siano troppo ampi, è ammissibile considerare fattori come gusti, tecnologia e istituzioni sociali dei parametri di un sistema, all’interno del quale le quantità e i prezzi dei fattori di produzione convenzionali sono le principali variabili. Invece di considerare costanti popolazione, risorse, tecnologia e istituzioni per isolare gli effetti di una singola variazione dei prezzi o delle quantità di lavoro, prodotti o capitale, lo storico dell’economia deve considerare come tutte queste caratteristiche di fondo diventano variabili quando la scala temporale cresce da uno o pochi anni a diverse generazioni o secoli. Le risorse di un paese comprendono le «risorse naturali» dell’economia classica, intese come doni della natura in termini di terra utilizzabile e della sua fertilità. Ma tra le risorse vanno anche annoverate le modificazioni del paesaggio compiute dagli esseri umani che costituiscono investimenti di capitale e senza le quali le risorse grezze sono inutilizzabili. Altre forme di capitale, o risorse di lungo periodo, sono le strutture e le infrastrutture che forniscono riparo e accesso alla terra. La conoscenza umana dell’utilità di queste risorse trasmessa di generazione in generazione è essa stessa una risorsa durevole e gli economisti sono da tempo consapevoli dell’importanza del capitale umano e dell’istruzione delle successive generazioni. L’ottimismo riguardo alla capacità dell’ingegno umano di affrontare e vincere le sfide ricorrenti di carestie, pestilenze, disastri naturali, guerre e crisi finanziarie hanno spinto alcuni economisti a considerarla la «risorsa definitiva». La scoperta e l’applicazione di nuove tecniche per la produzione di merci e per l’utilizzazione di risorse “naturali” precedentemente non sfruttate non solo consente all’umanità, da almeno tre secoli, di continuare a espandersi in tutto il mondo, ma permette da almeno due secoli che il livello medio di vita sia in costante crescita. La tecnologia è la forza motrice essenziale della crescita economica moderna, cioè della crescita costante del reddito pro capite accoppiata alla crescita demografica. Ma prima, per migliaia di anni, la tecnologia era cambiata pochissimo e le popolazioni umane avevano dovuto rispondere alle crisi emigrando in altre parti del mondo alla ricerca di ambienti fisici più salubri, più pacifici e più facili da sfruttare. A livello di economie nazionali e simili aggregati, la struttura sociale (numero, dimensione relativa, base economica e fluidità delle classi sociali), la natura dello stato o altro regime politico (come vengono prese le decisioni strategiche, se d’autorità o secondo consuetudine) e le convinzioni religiose o ideologiche dei gruppi o classi dominanti e delle masse (che determinano la coesione e la stabilità delle istituzioni) sono fattori che determinano congiuntamente come le istituzioni vengono realizzate dalle varie organizzazioni. Queste ultime vanno dalle agenzie governative alle società commerciali di ogni tipo alle famiglie, che a loro volta possono creare associazioni volontarie fondate sulla residenza, sulla religione, sul mestiere o su eventi ricorrenti. Una funzione sociale svolta dalle istituzioni è fornire elementi di stabilità e continuità, senza le quali le società si disintegrerebbero: nello svolgimento di questa funzione esse possono ostacolare lo sviluppo economico vincolando il lavoro umano, impedendo lo sfruttamento razionale delle risorse, o vietando l’innovazione e la diffusione della tecnologia. Ma è possibile anche l’innovazione istituzionale, che può avere conseguenze non dissimili dall’innovazione tecnologica, permettendo un impiego più efficiente o intensivo sia delle risorse materiali sia dell’energia e dell’ingegno degli esseri umani. 4. PRODUZIONE E PRODUTTIVITÀ La produzione è il processo mediante il quale i fattori di produzione vengono messi in relazione per produrre i beni e servizi desiderati dalle popolazioni umane. La produzione può essere misurata in unità fisiche (o unità di servizi identici), o in termine di valore (monetari). Per il confronto tra la produzione di un meleto e quella di un aranceto (per esempio), occorre convertire la quantità fisica in valore, ovvero moltiplicare il numero dei quintali prodotti da ciascuno per i prezzi rispettivi, arrivando ai loro valori aggregati. La produttività è il rapporto tra il risultato utile di un processo di produzione e i fattori di produzione in esso impiegati. Può essere misurata in unità fisiche o in termini di valore. Per misurare la produttività totale dei fattori di produzione – la produttività combinata di tutti i fattori – è necessario ricorrere a misure di valore. 6 La produttività del capitale è in parte in funzione della tecnologia che esprime. Inoltre, determinate combinazioni di fattori di produzione sono in grado di accrescere la produttività. Il capitale umano deriva dall’investimento in conoscenze e abilità o opacità. L’investimento può assumere la forma di un’educazione o di un addestramento formale, di un periodo di apprendistato p di un apprendimento “sul campo”. Le differenze nel livello di capitale umano pro capite tra le economie più avanzate e quelle arretrate sono tra le più notevoli e importanti che si possano osservare. La produttività di tutti i fattori di produzione è cresciuta enormemente. Tale aumento può essere spiegato dai progressi tecnologici, dai miglioramenti organizzativi sia a livello macroscopico che minimo e soprattutto dalla crescita notevole degli investimenti in capitale umano. Gli aumenti della produttività sono stati particolarmente considerevoli nell’ultimo secolo, ma sono stati importanti in tutte le epoche storicamente documentate, e anche prima. 5. STRUTTURA ECONOMICA E MUTAMENTI STRUTTURALI È opportuno riflettere su cosa significa creare un valore economico. Ciò dipende dal mettere a disposizione la cosa giusta alla persona giusta, nel luogo giusto e nel momento giusto. Le «cose» sono le materie prime provenienti dai campi, dalle foreste e dalle miniere che vengono poi trasformate in oggetti utili nelle officine e nelle fabbriche. Questi oggetti non hanno un valore economico finché non sono trasferiti là dove i consumatori finali possono farne uso, nel luogo e nel momento in cui questo può accadere. La struttura economica ha a che vedere con le relazioni tra i vari settori dell’economia, in particolare i tre settori principali: primario, secondario e terziario. - il settore primario comprende quelle attività i cui prodotti sono ottenuti direttamente dalla natura: agricoltura, silvicoltura e pesca. - il settore secondario comprende le attività che trasformano o lavorano i prodotti naturali: manifattura e costruzioni. - il terziario, o settore dei servizi, comprende un ampio spettro di servizi, che vanno da quelli domestici e personali, a quelli commerciali e finanziari, professionali e pubblici. Per migliaia di anni, dalle prime civiltà fino a meno di un secolo fa, l’agricoltura è stata la principale occupazione della grande maggioranza della razza umana. Ciò è tuttora valido per i paesi a basso reddito. La ragione di questo fenomeno è che la produttività era così bassa che per sopravvivere era necessario dedicarsi alla produzione di generi alimentari. Alcune centinaia di anni fa, la produttività agricola cominciò a crescere, dapprima lentamente e poi più rapidamente. Di conseguenza, sempre meno lavoratori divennero necessari per la produzione di beni di sussistenza, e poterono essere dirottati verso altre attività produttive. Cominciò il processo di industrializzazione, che si protrasse dalla fine del Medioevo fino alla metà del XX secolo (nell’Europa occidentale e nell’America settentrionale; in gran parte del resto del mondo è un fenomeno tuttora in atto). Nei paesi più industrializzati la proporzione della popolazione attiva impiegata in agricoltura cadde dall’80 o 90% del totale a meno del 50% alla fine del XIX secolo, per arrivare in seguito a meno del 10%. Diminuì contemporaneamente anche la quota del reddito totale (o del Pil) prodotta dall’agricoltura, sebbene in termini assoluti il valore totale della produzione agricola crescesse di parecchie volte. Nel frattempo, man mano che la forza lavoro impiegata in agricoltura diminuiva, aumentava quella nel settore secondario. La crescita della forza lavoro impiegata nel settore secondario è stata accompagnata dalla crescita del reddito prodotto da quel settore. Il processo duplice di mutamento percentuale della forza lavoro impiegata e dal reddito prodotto dai due settori sono esempi eclatanti di mutamento economico strutturale. Dal 1950 in poi le economie più avanzate hanno conosciuto un ulteriore cambiamento strutturale, il passaggio dal settore secondario a quello terziario in termini di numeri di addetti e di reddito prodotto. Il passaggio dall’agricoltura alle attività secondarie si svolse lungo due linee principali: i. sul versante dell’offerta, l’accresciuta produttività rese possibile produrre le stesse quantità di prodotti con meno lavoro; ii. sul versante della domanda entrò in gioco la legge di Engel. La legge di Engel, desunta dallo studio di numerosi bilanci familiari, afferma che man mano che cresce il reddito di un consumatore, diminuisce la percentuale di reddito destinata all’acquisto di cibo. (Questo può essere posto in relazione con la legge dell’utilità marginale decrescente, secondo la quale più si dispone di un dato bene e meno valore viene attribuito a ogni singola unità di esso). Il secondo cambiamento strutturale attualmente in atto, il passaggio relativo dalla produzione di beni (e il loro consumo) a quella di servizi, implica un corollario alla legge di Engel: man mano che cresce il reddito, cresce la domanda per ogni genere di merce, ma a un ritmo inferiore a quello del reddito, mentre la domanda di servizi e di tempo libero si sostituisce in parte a quella di beni concreti. I mutamenti tecnologici, causa degli aumenti della produttività, e dei gusti sono in gran parte responsabili di tali cambiamenti strutturali, tuttavia la forza scatenante immediata è di solito la variazione dei prezzi relativi (e dei salari). I prezzi dei beni e dei servizi sono determinati dall’interazione tra domanda e offerta. Un alto prezzo relativo indica che l’offerta è scarsa in relazione alla domanda; un basso prezzo relativo indica il contrario. Di regola, i fattori di produzione vengono attirati dagli impieghi nei quali trovano la più alta ricompensa, da quelli cioè in cui il loro prezzo è più elevato. 6. LA LOGISTICA DELLA CRESCITA ECONOMICA Nell’uso comune, il termine logistica indica l’organizzazione dei rifornimenti per un grosso gruppo di persone (es. un esercito). Ma la logistica è anche una formula matematica. La curva logistica che ne deriva ha la forma di una S allungata ed è talvolta chiamata «curva a S». I biologi la chiamano anche «curva della crescita», in quanto essa descrive con una certa accuratezza la crescita di molte popolazioni subumane, ad esempio una colonia di mosche della frutta in un contenitore chiuso e con una provvista di cibo costante. La curva ha due fasi, una prima fase di crescita accelerata seguita da una seconda di decelerazione; dal punto di vista matematico, ai suoi limiti la curva si approssima asintoticamente a una retta orizzontale parallela all’asintoto originario. È stato anche osservato che le curve logistiche possono anche descrivere approssimativamente molti fenomeni sociali, in particolare la crescita delle popolazioni umane. Nel caso europeo, si sono individuate nel lungo periodo diverse ondate di crescita demografica, a 7 ognuna delle quali è seguita una fase di relativa stagnazione o di declino. La prima di queste cominciò nel IX o X secolo, raggiunse la massima velocità nel XII, cominciò a rallentare nel XIII e fu bruscamente arrestata dalla grande pestilenza del 1347-1352, quando l’Europa perse 1/3 o più della sua popolazione complessiva. Dopo un secolo di relativa stagnazione, la popolazione rincominciò a crescere verso la metà del XV secolo, raggiunse il massimo ritmo di crescita nel XVI e di nuovo rallentò, o declinò, nel XVII secolo. Il processo riprese verso la metà del XVIII secolo, questa volta con maggior vigore, e continuò a ritmi senza precedenti finché non fu interrotto dalle guerre mondiali e dalle relative sventure della prima metà del XX secolo. Ci sono segni di una quarta logistica, su scala mondiale, a partire dalla Seconda guerra mondiale. Sembra probabile che la crescita della popolazione greca tra il IX e il V secolo a.C. abbia seguito l’andamento della curva logistica, lo steso è accaduto per la popolazione del bacino del Mediterraneo nell’era della pax romana. Alcuni studiosi ritengono che le tre logistiche individuabili in Europa abbiano avuto in realtà dimensione mondiale e siano state in relazione con qualche mutamento climatico. Ciascuna fase di accelerazione della crescita demografica in Europa è stata accompagnata dalla crescita economica, nel senso sia del prodotto totale sia di quello pro capite. Ciò è documentato con la massima chiarezza nel caso della terza logistica (e della quarta incipiente), per le quali i dati statistici sono relativamente abbondanti. L’ipotesi di una crescita economica parallela alla crescita demografica è fortemente accreditata dalla prova dell’espansione fisica ed economica della civiltà europea in ognuna delle fasi di accelerazione della crescita demografica. In ogni regione, le istituzioni feudali furono adattate alle condizioni e agli usi locali, dando origine a una molteplicità di sistemi economici. Alla fine del XV secolo e nel XVI l’esplorazione marittima, le scoperte e le conquiste portarono gli europei in Africa, nell’Oceano Indiano e nell’emisfero occidentale. Infine, nel XIX secolo, attraverso l’emigrazione, la conquista e l’annessione, gli europei instaurarono la loro egemonia politica ed economica sul mondo intero. Le condizioni di vita dell’uomo comune erano diventate sempre più difficili nelle fasi di decelerazione delle prime due logistiche (nella prima metà del XIV secolo e del XVII), il che suggerisce in un declino o almeno una stagnazione dei redditi pro capite. Prima del XVII secolo, la varietà delle forme istituzionali introdotte in Europa determinò il formarsi di sacche di prosperità nel mezzo di un declino complessivo. Nella terza logistica, la possibilità di un’emigrazione su larga scala dall’Europa alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo mitigò le difficili condizioni delle masse; ciononostante, un certo numero di paesi dovette affrontare locali crisi di sussistenza, la più drammatica delle quali fu la carestia irlandese degli anni del 1840. L’osservazione di Adam Smith, scritta nella fase di accelerazione della terza logistica, secondo la quale la condizione del lavoratore era migliore in una società “progressista”, cupa in una società stagnante e miserabile in una decadenza, acquista un nuovo significato. Le fasi finali di tutte le logistiche, e gli intervalli di stagnazione o depressione che seguirono, testimoniarono la propagazione di tensioni sociali, inquietudini e disordini, e lo scoppio di guerre feroci e distruttive. È da notare, che le fasi di accelerazione di ogni periodo di crescita demografica in Europa, furono contrassegnate da fioriture di creatività intellettuale e artistica, seguite da una proliferazione di monumenti architettonici. In precedenza, le «età dell’oro» della Grecia e di Roma – e, prima ancora, della Mesopotamia e dell’Egitto – erano stati periodi di crescita demografica concluse da guerre civili e rivalità intestine. Naturalmente, gli sforzi creativi dell’uomo non si limitano a specifici periodi storici più di quanto non facciano le nostre tendenze distruttive. All’origine del Rinascimento fu la grande depressione del Tardo Medioevo, e il secolo dei geni che vantò Galileo, Cartesio, Newton, Leibniz e Locke, abbracciò l’intervallo di stagnazione e di sconvolgimento tra la seconda e la terza logistica europea. Una possibile spiegazione della correlazione tra crescita demografica-stagnazione-declino e fluttuazioni del reddito può essere ricavata analizzando l’interazione delle determinanti fondamentali dello sviluppo economico. In presenza di una data tecnologia le risorse a disposizione di una società stabiliscono il limite superiore dei risultati economici che essa può conseguire, compresa la dimensione della sua popolazione. Il cambiamento tecnologico, che accresce la produttività e rende disponibile nuove risorse, ha l’effetto di sollevare il tetto, permettendo in questo modo un’ulteriore crescita demografica. Senza altre innovazioni tecnologiche, finisce per manifestarsi il fenomeno dei rendimenti decrescenti, la società incontra un nuovo tetto di produzione, e la popolazione si stabilizza di nuovo (o diminuisce) fino al momento in cui una nuova “innovazione epocale” fa di nuovo aumentare la produttività e rende disponibili ulteriori risorse. Vi sono stati storicamente e in diversi punti del globo numerosi esempi di crescita logistica. Tutte queste esperienze passate però sono sfociate in contrazioni brusche e prolungate sia della popolazione sia dei livelli di reddito. Quando una nuova logistica ha inizio, ciò avviene a un livello più basso sia demografico sia reddituale e solo dopo che sono trascorse diverse generazioni. La popolazione residente nell’economia colpita deve raggrupparsi e poi riorganizzarsi affinché possa verificarsi una ripresa. Le innovazioni epocali non avvengono spontaneamente né facilmente, benché negli ultimi secoli esse sembrino essersi intensificate ed essere divenute più imponenti. II. Lo sviluppo economico nell’antichità La comunità scientifica è concorde sul fatto che creature dall’aspetto molto simile a noi, gli ominidi, originari dell’Africa, vivessero sulla terra almeno 2 milioni di anni fa. Tutte le specie di ominidi evolvettero nelle epoche geologiche seguenti in risposta ai cambiamenti climatici e geografici e in competizione con le altre specie, in particolare i cugini primati. I primati si differenziarono in cladi distinte, gruppi definiti dalla presenza di un antenato comune determinato in base alle somiglianze del Dna. I primi a differenziarsi furono i gibboni, poi gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé e i bonobo, infine i nostri progenitori, gli ominini. Queste creature apparvero nel Tardo Pliocene circa 6 milioni di anni fa, erano in grado di camminare eretti su due gambe e possedevano mani in grado di afferrare oggetti ma crani che al massimo potevano ospitare cervelli della grandezza di quelli degli scimpanzé. Nell’epoca che seguì il Pliocene, il Pleistocene, durato approssimativamente da 2,6 milioni a 12.000 anni fa, si verificarono almeno venti lunghi episodi di glaciazione diffusa e successivo riscaldamento del globo. L’alternanza di questi mutamenti climatici rese desertiche vaste aree di terra per poi restituirle parzialmente a lussureggianti savane e foreste; di quando in quando eruzioni vulcaniche devastavano ampie aree che rimanevano inabitabili per secoli o millenni. Le specie sopravvissute giovarono dei mezzi più efficienti di cui disponevano per spostarsi (due gambe invece che quattro) in seguito della loro intelligenza superiore (i crani sempre più voluminosi dovevano contenere cervelli più grossi e complessi) per affrontare cambiamenti che imponevano la ricerca di nuovi modi per cibarsi e trovare riparo. In alternativa, poterono mettersi alla ricerca di migliori condizioni di vita in altri luoghi dentro e fuori dell’Africa. Il ritrovamento di resti di diversi ominidi in punti assai distinti del contenente africano riflette la ampia varietà di condizioni che dovettero insorgere in ciascun periodo glaciale e interglaciale nei millenni del Pleistocene. Sono stati anche ritrovati, in luoghi disparati che vanno dal Sud Africa al Kenya, 10 maggiore fertilità delle donne, oppure dalla più frequente sopravvivenza dei bambini, o ancora per la diminuzione del carico che gravava sugli uomini. In cambio, la variazione della dieta produsse col tempo individui meno robusti, e la prolungata vicinanza accresceva la possibilità di contrarre malattie infettive. Una maggiore possibilità di venire in contatto con nuove malattie, alcune delle quali si rivelarono altamente contagiose, fu una conseguenza dei commerci avviati. Nel lungo periodo, l’agricoltura portò benefici nel senso che aumentò il numero di persone che potevano riunirsi in unità economicamente attive rispetto ai clan di cacciatori-raccoglitori. La forza del numero permetteva una maggiore specializzazione del lavoro e la possibilità di produrre e accumulare un’ampia varietà di beni. A parte i miglioramenti organizzativi richiesti dalle cure quotidiane da prestare alle piante coltivate, vi furono quelli determinati dalla necessità di difendersi dai rischi ricorrenti di disastri naturali, della carestia e delle invasioni. Tutto ciò richiedeva la formazione di un’organizzazione statutale che coordinasse e governasse le necessarie risposte alle minacce ricorrenti all’agricoltura stanziale. A partire da circa 9.000 anni fa, i villaggi sulle pendici collinari cominciarono a rarefarsi per lasciare il posto ai sempre più numerosi insediamenti nella pianura mesopotamica. Fu questo l’inizio del passaggio dall’agricoltura dipendente dalle precipitazioni piovose, che si praticavano lungo le pendici montane, alle opere irrigue per controllare i fiumi della pianura. Le opere irrigue erano facili da scavare nella pianura che dalla costa sul Golfo Persico si estende all’interno del continente, ma la loro manutenzione richiedeva uno sforzo mirato per molti anni. I villaggi a sud cominciarono a sviluppare ampie strutture centrali, probabilmente templi dove alloggiavano i capi che coordinavano l’ampia gamma di attività richieste agli abitanti per la manutenzione delle opere irrigue, per la coltivazione dei campi, per la cura di frutteti e bestiame. Questi villaggi si diffusero progressivamente lungo il corso sia del Tigri che dell’Eufrate fino a raggiungere la costa del Golfo Persico con le sue ricche risorse ittiche. A est correva la rotta commerciale che attraversando le pendici meridionali della catena dei monti Zagros raggiungeva l’Iran. s 4. NASCITA DEGLI ANTICHI IMPERI (5.500-3.000 ANNI FA) 4.1 Mesopotamia La chiave della supremazia dell’Occidente sul resto del mondo fu l’edificazione della prima città della storia, Uruk, circa 5.500 anni fa. La popolazione massima di Uruk superò i 10.000 abitanti, pochi secondo gli standard di epoche successive ma abbastanza numerosi da comprendere un’ampia varietà di lavoratori specializzati. Le sue grandi dimensioni richiedevano, per il coordinamento delle molteplici attività richieste per il sostentamento della città, istituzioni sia formali che informali. Un elenco standard di professioni elaborato a Uruk circa 5.000 anni fa identifica in cima alla gerarchia un capo supremo seguito da un capo della città, un capo del recinto del bestiame, un capo degli agnelli, poi i sacerdoti del tempio, giardinieri, cuochi, fabbri, gioiellieri, vasai, tessitori, birrai e altri ancora. Costoro ricevevano razioni fisse in cambio dei loro servigi. Benché sia possibile che esistesse un rigido schema di razionamento che i capi applicavano ai dipendenti del tempio, è evidente che il tempio non poteva controllare i campi, i frutteti e gli acquitrini circostanti né le zone di caccia sulle colline, cosicché il grosso della popolazione che abitava nell’area gravitante su Uruk doveva essere composta da lavoratori dipendenti. La difesa dai predoni dei villaggi vicini o delle città concorrenti che sorsero più a monte sul fiume e più a oriente, era una delle principali preoccupazioni degli abitanti di Uruk, come dimostra l’estensione delle mura edificate a sua protezione. La città fu saccheggiata e distrutta almeno due volte prima di venire abbandonata, ma all’apice del suo potere costituì la base da cui Sargon di Akkad (2234-2279 a.C.) unificò tutte le sparpagliate città-stato della Mesopotamia nel primo impero della storia. Tra le professioni di Uruk figuravano gli scribi, che avevano perfezionato la scrittura in iscrizioni a caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla. Le tavolette costituivano registrazioni permanenti delle imprese dei governanti, delle leggende che motivavano la società e delle attività economiche che si svolgevano nel tempio. Quando la tavoletta doveva registrare un’importante transazione economica, ogni soggetto economico e tutti i testimoni dovevano apporvi segni e figure personali, in modo che fossero identificabili in caso di disputa tutti coloro che avevano a che fare con la transazione. Questa pratica era talmente essenziale per assicurare che venissero onorati indefinitamente i contratti a lungo termine stipulati per l’uso delle risorse, che fu imitata dappertutto in Medio Oriente per migliaia di anni. Solo l’invenzione del papiro e l’utilizzo di rotoli di pergamena su cui si poteva scrivere con l’inchiostro resero obsoleto il ricorso alle tavolette d’argilla. Solo in epoca recente sono state ritrovate e tradotte molte altre tavolette provenienti da archivi privati che informano dell’ampia varietà di attività economiche che si svolgevano in tutta la Mesopotamia al di fuori dei templi. Le tavolette rinvenute negli archivi di templi e palazzi trattano affari quotidiani come la distribuzione di razioni agli individui occupati nelle varie attività, la risoluzione di dispute e la descrizione dei successi militari del sovrano regnante con lo scopo di far capire quanto fosse saggio eseguire la sua volontà. le tavolette scoperte negli archivi privati trattano di diritti familiari su beni o individui e fanno emergere una grande varietà di attività condotte sia dentro che fuori dalle città. Le più interessanti dal punto di vista dello storico dell’economia sono le tavolette, risalenti al periodo tra il 1974 e il 1740 a.C. in cui l’Impero assiro governava la parte settentrionale della Mesopotamia, contenenti le comunicazioni fra i mercanti di Assur nella Siria settentrionale e i loro corrispondenti che operavano in un apposito quartiere della città di Kanesh. Da queste tavolette emerge un’estesa rete commerciale organizzata e controllata da una corporazione mercantile di Assur che aveva istituito avamposti commerciali in città situate a sud, a nord, a nord-ovest e presumibilmente anche a est in direzione dell’Afghanistan. Argento e oro provenivano dai monti della Turchia, il rame dalle miniere dell’Iraq settentrionale, le pietre preziose dall’Afghanistan, e i tessuti dalle diverse città dell’Iraq meridionale. Carovane di asini trasportavano le merci lungo rotte ben definite tra i passi montani e i mercanti che le conducevano pagavano tributi ai locali signori della guerra, che li lasciavano passare indisturbati anche nel mezzo di conflitti con le altre tribù della regione. Le tavolette scompaiono più o meno all’epoca in cui le città-stato della Mesopotamia vennero nuovamente riunite sotto un unico sovrano, Hammurabi (1792-1750 a.C.). Egli è famoso per aver promulgato un corpo di leggi finalizzate a definire e a far rispettare i diritti di proprietà e i contratti in tutte le varie città-stato sottomesse dai suoi eserciti, ma la restaurazione dell’Impero di Sargon da lui operata non sopravvisse a lungo alla sua morte. Le città mesopotamiche che Hammurabi assoggettò al suo governo non apprezzarono il gesto, visto che si ribellarono al potere imperiale e ripristinarono le pratiche consuetudinarie imperniate su un’agricoltura diversificata e su un proficuo commercio tra loro e con città più distanti situate lungo il Golfo Persico, la costa del Belucistan, il corso del fiume Indo e sulle sponde del Mediterraneo a occidente. Le dinastie sorsero e caddero, registrarono i loro trionfi nei monumenti i sulle tavolette d’argilla, ma non lasciarono documenti quando cadevano. I reperti archeologici provenienti dai numerosi villaggi circondati da canali, campi, 11 frutteti, peschiere, nonché gli oggetti domestici rinvenuti, di qualità e fattura migliore, dimostrano che la vita economica, in generale, continuava come sempre per il grosso della popolazione quando una dinastia cadeva. Mentre i documenti ufficiali degli antichi imperi raccontano la storia dell’ascesa e del crollo di quei regimi, le evidenze fisiche esaminare mostrano una continuità sia in termini di numerosità della popolazione sia della qualità dell’esistenza che conducevano. 4.2 La valle dell’Indo Una storia simile di città sparse in una pianura alluvionale, ciascuna con un proprio ruolo specializzato in un sistema di agricoltura diversificata, ma tutte dedite a commerci basati su capacità artigianali locali, si era formata anche nella regione della valle dell’Indo. I primi insediamenti sono cominciati attorno al 7000 a.C. La città più grande di tutte era Harappa. 5.000 anni fa Harappa era il fulcro di una estesa rete di insediamenti minori, alcuni dei quali erano centri regionali della prospera pianura alluvionale dell’Indo. Vi erano altre città con cui Harappa intratteneva commerci di lunga distanza: - nell’Afghanistan settentrionale dove si estraevano e lavoravano oro, rame, stagno, e lapislazzuli - nell’Iran orientale, dove uomini e donne intrecciavano panieri, a Lothal, porto sorto nel 2400 a.C. Il porto di Lothal, progettato per trarre profitto dalle alte maree tipiche della costa in cui si trovava, probabilmente fungeva anche da bacino di carenaggio per la costruzione e la riparazione dei velieri. L’esistenza di pesi e misure standard in tutti questi siti dimostra che nella tarda Età del Bronzo il commercio, con mezzi di pagamento universalmente accettati, caratterizzò per secoli l’intera regione della valle dell’Indo. Scarsa è stata l’attenzione rivolta a questa economia fino a pochi anni fa. Ciò che si è scoperto sono i segni di un’ingegneria avanzata, in particolare nelle opere idrauliche, e di una tecnologia artigianale. Il fatto che in generale non siano state trovate delle fortificazioni nei siti di Harappa dimostra che l’evidente prosperità delle città era dovuta alla capacità di fabbricare e commerciare merci apprezzate nella regione e anche oltre. Attorno al 4000 a.C. tutte le città entrarono in decadenza in termini di popolazione e di prosperità, mentre i villaggi più piccoli sorgevano a oriente dell’Indo e sul corso superiore del Gange. Lo spopolamento dell’Indo fu dovuto probabilmente al mutamento climatico che ridusse le precipitazioni sia estetiche che invernali, limitando la disponibilità di prodotti agricoli fondamentali nonché l’approvvigionamento idrico delle città. La regione è tuttora geologicamente attiva, e i terremoti spostano periodicamente il corso dei fiumi. 4.3 l’Egitto L’antico Egitto racconta una storia di 3.000 anni di costante esistenza di un impero governato da sovrani assoluti, i faraoni. Le bande di esseri umani primitivi che si stabilirono sulle rive del Nilo probabilmente provenivano dagli altipiani etiopici, e avevano seguito il corso del Nilo. Discendendo il corso principale del Nilo oltre le cateratte sudanesi essi trovarono abbondanza di cibo tra le canne di palude sotto forma di molluschi e pesci gatto, che rappresentarono per loro una dieta proteica prontamente disponibile. Le coltivazioni agricole e gli animali addomesticati già diffusi nella Mezzaluna Fertile arrivarono in Egitto successivamente, ma solo in aree circoscritte del delta e lungo il suo corso inferiore. Circa 5.000 anni fa, si costituì uno stato potente, che unificò l’Alto e il Basso Egitto e si sarebbe conservato per i successivi 3.000 anni salvo brevi interruzioni. Solo attraverso l’espansione dell’area coltivata lungo il Nilo l’imperò riuscì a procurarsi quanto necessario per sostentare gli eserciti che lo mantennero unito. Lo stato egiziano sostenne e stimolò lo sviluppo dell’agricoltura stanziale, mentre i faraoni regnavano nei loro complessi palaziali e templari con l’appoggio di un esercito permanente. Grazie alle piene annuali del Nilo, che lasciava dietro di sé ricchi depositi di limo facili da seminare e coltivare una volta calate le acque, non erano indispensabili opere irrigue, per cui i sovrani egiziani poterono impiegare i loro eserciti nell’edificazione di monumenti, quando non erano necessari al mantenimento dell’ordine interno o alla difesa dei confini naturali sul delta e sulle cateratte dell’Alto Nilo. In Mesopotamia l’agricoltura fu in grado, con il tempo, di sostentare un certo numero di città-stato, che di quando in quando vennero incorporate in imperi i cui sovrani avrebbero poi intrapreso la costruzione di giganteschi complessi architettonici. La necessità di tenere in funzionamento e potenziare le opere irrigue dissuase i sovrani dall’ingrandire i loro eserciti o dall’inviarli in spedizioni di conquista di terre. L’«età degli imperi» in Egitto e nel Medio Oriente durante l’Età del Bronzo (5.600-3.200 anni fa) non fu caratterizzata solo da quell’architettura monumentale, ma anche dalla diffusione della scrittura, della documentazione amministrativa, di burocrazie organizzate formate da amministratori tecnicamente competenti. Tutto ciò fu reso possibile dalla tecnologia dell’Età del Bronzo, che si sviluppò a partire dall’impiego di metalli facilmente lavorabili. Le armi e gli arnesi in bronzo erano essenziali per equipaggiare gli eserciti imperiali, e l’approvvigionamento di rame e di stagno, incoraggiò il commercio su lunghe distanze. Una dimostrazione della prosperità degli imperi e dell’estensione dei loro rapporti commerciali è venuta dal ritrovamento dei resti della nave Uluburun nel Mediterraneo. La nave, che risale alla tarda Età del Bronzo, trasportava un grosso carico composto per lo più da materie prime, soprattutto lingotti di rame e stagno. Pietre preziose, gioielli, pezzi d’oro e una varietà di frutta conservata, documentano la ricchezza dei proprietari oltre che la prosperità generale dell’antico Medio Oriente all’apice dell’Età del Bronzo. Attorno all’anno 1000 a.C. tutti gli imperi dell’Età del Bronzo avevano subito sconfitte militari o crisi economiche e la loro ricca documentazione scopare per diversi secoli creando un vuoto nelle testimonianze storiche. Fonti egizie menzionano le invasioni dei misteriosi Popoli del Mare che, provenendo da diversi luoghi dell’area mediterranea, raggiunsero, attraverso il delta del Nilo, il Basso Egitto. La scoperta di insediamenti dell’Età del Bronzo divorati dal fuoco più o meno in quel periodo lungo la costa orientale del Mediterraneo suggerisce che i Popoli del Mare abbiano invaso anche quelle regioni. Persino l’Impero ittita arroccato tra le montagne del Caucaso cadde vittima delle invasioni di questi gruppi. A complicare il quadro di questi sconvolgimenti, venne circa 3.600 anni fa l’esplosione del vulcano di Thera, che depositò ceneri e scatenò onde di tsunami, provocando il massimo del danno a est e a nord-est dell’isola di Santorini, creata dall’eruzione stessa. Questo duraturo sconvolgimento degli habitat circostanti dovette motivare i sopravvissuti, consapevoli grazie agli estesi commerci della tarda Età del Bronzo dell’esistenza di aree di prosperità non toccate dall’eruzione di Thera, a trasferirsi in altre zone. Queste nuove migrazioni migliorarono le economie preesistenti, estendendo l’applicazione di strumenti e armi in ferro allo sfruttamento delle aree agricole esistenti. L’anomalia climatica che aveva accentuato la crisi agricola in tutto il Medio Oriente ebbe termine circa 2.800 anni fa, inaugurando un tempo più umido e una migliore stabilità dei fiumi sia in Egitto che in Mesopotamia. 12 L’Impero assiro, il primo gande impero mondiale, conobbe una notevole espansione che comprendeva tutta la Mesopotamia, la Fenicia e l’Egitto. Nel 626 a.C., il nucleo originario degli imperi meridionali si rivoltò fino a saccheggiare la capitale assira e fondando l’Impero neobabilonese con capitale Babilonia. Questo impero più compatto comprendeva tutta la costa orientale del Mediterraneo, la Siria e l’Iraq fino ai margini dell’altopiano iraniano. I sovrani che si susseguirono sul trono lasciarono che le élite mercantili di ciascuna città valorizzassero i campi, i frutteti e i pascoli circostanti e si arricchissero di conseguenza, e guidarono i loro eserciti in razzie ai confini, imponendo il versamento regolare di tributi alle città fenicie sulla costa mediterranea e alle città che sorgevano lungo le rotte terrestri che conducevano all’Asia centrale e all’Iran. Con il bottino finanziarono la costruzione di opere irrigue, mura, palazzi e templi nelle città. Utilizzarono i tributi per assodare appaltatori che a loro volta ingaggiavano lavoratori salariati, e realizzarono tutto ciò effettuando pagamenti in quantità standard di argento, traducibili in quantità variabili di altri prodotti a seconda dei prezzi di mercato. Offrendo queste possibilità di mercato alla popolazione, i sovrani riuscirono a incoraggiare sia la crescita demografica sia un miglioramento generale del tenore di vita dei loro sudditi. Questo periodo di crescita economica babilonese, primissimo esempio a oggi noto di crescita economica che riguardò tanto la popolazione totale quanto il suo benessere medio, durò alcuni secoli, esaurendosi per ragioni politiche perché nuovi sovrani provenienti dalla Persia indirizzarono le risorse verso nuove capitali e verso campagne belliche all’estero. 5. NASCITA DELLE CITTÀ-STATO GRECHE All’epoca le città-stato greche prosperavano forti della loro innovativa forma di governo, che applicava le regole del mercato per acquistare derrate alimentari e materie prime dai villaggi circostanti o anche da luoghi distanti, e per fabbricare merci da vendere in cambio. Per difendersi e per imporre il pagamento di tributi, esse ricorrevano, al bisogno, a soldati mercenari. Allo scopo di mantenere relazioni commerciali con le altre città che producevano metalli, argilla, cereali, frutta, legname, lana, vino, olio, sesamo o pistacchi, le città greche istituirono quartieri speciali in cui alloggiare i loro mercanti. Stabilirono empori in tutto il Mediterraneo orientale e sulle coste sia settentrionali sia meridionali del Mediterraneo, fino alla Sicilia. In ogni città il commercio regolare di articoli domestici veniva condotto nella pubblica agorà, i prezzi fissati attraverso una trattativa tra venditori e compratori. I pagamenti venivano effettuati sempre più spesso in monete d’argento appositamente coniate per pagare il salario giornaliero ai lavoratori e per versare le tasse occasionalmente riscosse dalle autorità cittadine. La coniazione di monete fu inventata attorno al VII secolo a.C. da un re dell’enclave greca della Lidia, in una valle della Turchia. Inizialmente venivano prodotti prezzi di elettro (lega naturale di oro e argento), tagliati in pesi standard e recanti in sovraimpressione un simbolo speciale. Le città dell’Impero neobabilonese avevano già fissato standard di peso e di purezza dei lingotti di argento utilizzati come mezzi standard di pagamento, cosicché le monete lidiche non erano che una versione speciale pensata per l’uso locale. La loro utilità nell’assicurare ai mercanti stranieri un equo pagamento delle loro merci condusse a una lor più ampia circolazione. Atene, che aveva accesso a una miniera d’argento particolarmente ricca nella vicina Laurio, fu in grado di coniare monete che divennero molto ricercate come messi di pagamento in porti che andavano dall’Egitto al Mar Nero. Atene, come la maggior parte delle città greche, quando occorreva apprestare la difesa della città arruolava i contadini delle fattorie dei dintorni. Questi soldati (opliti) erano proprietari dell’equipaggiamento e delle armi che portavano in battaglia, cosicché non potevano essere resi schiavi e, avendo botteghe o fattorie da curare, non erano disposti a partecipare a prolungate azioni offensive contro altre città. Quando venivano ingaggiati nella difesa comune della loro città, gli opliti venivano pagati in monete coniate dalla medesima. Poiché ciascuna città possedeva la propria milizia cittadina, e considerata l’assenza di minacce esterne dopo che era stata respinta un’invasione persiana all’inizio del V secolo a.C., si instaurò un equilibrio pacifico tra le città-stato greche e un accordo politico tra i capi e i guerrieri-cittadini di ciascuna città-stato. Atene estese questo equilibrio sociale alle forze navali tenute sempre pronte in porto, finanziate dai più facoltosi mercanti della città, che arruolavano i lavoratori di Atene quando questi ultimi venivano chiamati in servizio. Dopo la battaglia di Maratona del 490 a.C. il capo militare di Atene, Temistocle, persuase la città ad acquistare 200 triremi come navi da guerra per una protezione navale futura del commercio via mare necessario per il sostentamento della città. Atene formò in seguito un’alleanza navale nota come «Lega di Delo» con oltre 150 città-stato disseminate sulle isole dell’Egeo e lungo la costa anatolica. Da ogni mercante o proprietario ateniese si pretendeva che equipaggiasse di uomini e mezzi, in caso di bisogno, almeno una trireme della flotta. Il capitano pagava i rematori, che erano cittadini ateniesi, e concedeva loro una parte del bottino che avessero conquistato in battaglia. Rendendosi disponibili a combattere in difesa dell’Impero ateniese in tempo di guerra, i lavoratori comuni guadagnavano diritti di cittadinanza con la prospettiva di beneficiare della prosperità generale della città in tempo di pace e delle ricchezze conquistate con i successivi navali in tempo di guerra oppure nelle spedizioni contro i pirati. La risultante efficace combinazione di incentivi per i governanti e per i sudditi pose le basi del successo dell’Impero ateniese, il primo impero marittimo che il mondo abbia mai conosciuto. La difesa delle rotte marittime, vitali per l’estesa rete commerciale che copriva interamente Mediterraneo e Mar Nero, fu preannunciatrice per le città-stato greche e per Atene di un periodo di crescita economica impetuosa che durò 500 anni. La popolazione quadruplicò tra il 740 e il 300 a.C. Lo sviluppo del commercio marittimo comportò un aumento del numero di navi utilizzate, più grandi e meglio costruite. I naufragi crebbero di numero assieme all’intensificarsi delle spedizioni navali. I singoli mercanti organizzavano le loro iniziative reperendo soci finanziatori per ciascun viaggio. I contratti di prestito per le spedizioni marittime promettevano un compenso maggiore di quelli praticati nel caso di viaggi via terra quando il viaggio di ritorno avveniva con successo, perché doveva compensare anche la quota delle perdite che si subivano quando la nave non riusciva a portare a termine con successo il suo viaggio oppure si perdeva in mare. I mercanti più facoltosi potevano ripartire il loro capitale di rischio in una pluralità di navi e di viaggi per diversificare i propri investimenti. Le singole città con i loro distinti sistemi di conio e tribunali davano ai rispettivi mercanti sufficiente garanzia che i loro diritti venissero fatti rispettare attraverso le istituzioni esistenti. In tutti i maggiori porti del Mediterraneo i mercanti delle diverse città greche potevano disporre di magazzini e luoghi di riunione in cui stipulare accordi di finanziamento, chiedere il rispetto dei contratti di lungo periodo e appianare le controversie. Le leggi e le pratiche commerciali delle 15 confuciana riuscivano ad assicurare al popolo pace e prosperità, questa era la prova che l’imperatore era il destinatario di un mandato celeste. Se la pace e la prosperità risultavano sconvolte per una qualsiasi ragione, era un segno che l’imperatore aveva perduto il mandato celeste e i contadini si sarebbero inevitabilmente sollevati. Le rivolte contadine contro governanti o amministratori locali rimasero una caratteristica endemica della civiltà cinese e quando una dinastia cadeva ne erano la causa. Per lo più si trattava di rivolte locali facilmente soffocate dalle forze imperiali, a meno che l’esercito dell’imperatore fosse lontano a protezione del paese dalle invasioni dei nomadi delle steppe del nord. Il mantenimento della legge e dell’ordine in queste condizioni economiche giustificava la strategia adottata da tutti i successivi sovrani della Cina, tenere piccole e disperse le singole città mentre venivano costruite massicce mura a nord per scoraggiare le invasioni dei nomadi a cavallo. Né l’impero romano né quello Han in Asia orientale riuscirono a mantenere il loro successo economico di fronte alle invasioni barbariche, ai mutamenti avversi del clima, allo stress demografico. Ma l’uno e l’altro donarono alle successive generazioni progressi tecnologici permanenti ed eredità culturali che si sarebbero rivelati importanti per la ripresa economica sia dell’Europa sia della Cina. Il diritto cinese, applicato da amministratori formati nell’ideologia confuciana con poteri generali di controllo sui mercanti, artigiani delle città e contadini delle campagne, manteneva le distinzioni di classe ma consentiva la mobilità attraverso esami per l’ammissione nei ranghi dell’élite amministrativa. Acquisirono una forte base monetaria, con il governo centrale che riscuotendo le tasse in denaro si procurava quanto serviva per pagare i soldati nei luoghi individuati per lo stanziamento di guarnigioni. Le monete cinesi, per lo più di bronzo e di dimensioni standardizzate, circolavano soprattutto in Cina e non erano utilizzabili per acquistare merci all’estero o dai barbari oltre confine. L’Impero romano aveva una base monetaria più ampia di quella cinese. Il regime cinese non era in grado di emettere titoli di debito a lunga scadenza per pagare le spese in caso di emergenza e pertanto dovevano ricorrere a nuove emissioni monetarie per pagare le truppe in caso di guerra. La crisi che si verificò nella popolazione e nella prosperità economica ai due estremi dell’Europa e dell’Asia, pose anche le basi per una divergenza di lungo periodo dei sistemi economici separati dalla massa continentale eurasiatica. La ripresa cinese conseguì migliori risultati quando ritornò alle radici dell’originaria prosperità del sistema: un mosaico di piccoli proprietari contadini vagamente governati. 6. SPIEGAZIONI ECONOMICHE DELLA RIVOLUZIONE NEOLITICA Le spiegazioni economiche dell’avvento dell’agricoltura, cioè della rivoluzione neolitica, si fondano sulle risposte razionali dei gruppi di cacciatori-raccoglitori primitivi a shock esogeni costituiti da scoperte tecnologiche (Malthus), pressioni demografiche (Boserup) o mutamenti climatici (archeologi e storici dell’economia). Un esempio di innovazione tecnologica preferito dai malthusiani è il calendario: in molti insediamenti agricoli si rinvengono strutture che sembrano essere state create per determinare i solstizi d’estate e d’inverno e gli equinozi di primavera e d’autunno, e il cambio di stagione in funzione della semina o della raccolta di piante annuali. Tali strutture implicano l’esistenza di un élite dominante che fondava la propria autorità sull’abilità di prevedere il succedersi delle stagioni. Per i boserupiani, solo la pressione demografica determinata da un’imprevista diminuzione della mortalità infantile o dall’estromissione da aree di raccolta per mano di bande rivali potrebbe aver costretto i clan di cacciatori-raccoglitori a compiere gli sforzi aggiuntivi necessari per avviare la coltivazione della terra. Questa coltivazione sarebbe avvenuta per fasi: partendo dalla tecnica del “taglia e brucia” per passare a cicli da 4-6 anni. Con il tempo si è affermato il doppio raccolto (piantare due colture l’anno sullo stesso pezzo di terra) possibile nella Cina meridionale nel caso del riso. Ciascuna di queste fasi permetteva agli uomini di acquisire conoscenze necessarie per passate alla successiva, ma solo la pressione della crescita demografica li avrebbe indotti a intraprendere lo sforzo aggiuntivo richiesto. Per gli studiosi dei mutamenti climatici, i cambiamenti in termini di habitat costringevano i branchi di animali selvatici a migrare o perire. I cacciatori-raccoglitori avrebbero dovuto scegliere se seguire gli animali o rimanere a coltivare le aree abbandonate (senza le distruzioni provocate dai passaggi stagionali della selvaggina o le razzie dei gruppi vicini). Una volta scelta la stanzialità, i diritti sull’uso della terra avrebbero costituito i necessari incentivi affinché i coltivatori migliorassero ulteriormente la tecnologia impiegata. La crescita demografica che segue lo sviluppo dell’agricoltura stanziale per effetto della maggiore frequenza delle nascite o della diminuzione delle morti infantili può creare conflitti sui diritti di proprietà oppure incentivare lo sviluppo di nuove tecnologie. Oltre a migliorare la produzione di certe colture e animali al di là dello stato iniziale, queste possono consistere nella creazione di prodotti nuovi attraverso la lavorazione in modi originali in materie prime vegetali e animali. In ciascuno di questi casi sarebbero stati essenziali, per assicurare il successo di questa transizione iniziale all’agricoltura, degli insediamenti sedentari, dato che le colture avevano bisogno di protezione nella stagione della crescita e il trattamento del raccolto doveva essere svolto nelle vicinanze. Il marcato incremento della stagionalità a livello mondiale nella fascia temperata all’inizio dell’Olocene potrebbe essere un’altra ragione per cui l’agricoltura sorse solo in quella fascia, Medio Oriente, in India, in Cina, in Africa e in America Centrale. 7. LA TEORIA DEI GIOCHI APPLICATA ALL’EVOLUZIONE DELLA COOPERAZIONE Uno degli esperimenti favoriti dagli economisti è il gioco dell’ultimatum. Si divide un gruppo in due squadre: ai componenti della prima viene consegnata una somma di denaro, a quelli della seconda nulla. La prima squadra può tenere il denaro solo con il consenso della seconda. Per favorire l’accordo, la prima squadra può offrirsi di condividere con la seconda una parte del denaro ricevuto. L’esperimento può svolgersi in offerte successive della prima squadra e in contro-offerte (richieste) della seconda, finché si raggiunge una ripartizione reciprocamente accettabile. L’esito è solitamente una quasi paritaria spartizione tra le due. Presumibilmente, per i componenti della prima squadra dalla mentalità economica, l’offerta sarebbe molto bassa, mentre quelli della seconda pretenderebbero quasi tutto. Vi sono, di solito, abbastanza giocatori di mentalità da permettere il raggiungimento di un punto d’equilibrio. L’evoluzione della cooperazione sociale, nel gioco dell’ultimatum, dovrebbe condurre a un’equa ripartizione del denaro. La principale strategia di gioco riscontrata dai teorici dei giochi è la strategia del tit fot tat o «colpo su colpo», che prevale costantemente. Ne 16 derivano quattro regole che consentono a individui o gruppi di riscuotere un successo duraturo negli incontri competitivi con altri individui o gruppi: i. Non essere invidiosi del successo dell‘altro ii. Non essere i primi a defezionare (non essere i primi a ritirarsi) iii. Ricambiare sia la cooperazione che la defezione iv. Non esagerare in astuzia Sono tutte regole dure da seguire in pratica, ma se i benefici in termini demografici ed economici conseguiti in seguito applicando la strategia della «reciprocità forte» vanno a favore dell’intero gruppo, con il tempo dovrebbe consolidarsi la legittimità dei decisori del gruppo, e cioè potrebbe favorire una tendenza, al momento del primo incontro con degli stranieri, a trattare anziché depredare. Quando un leader dotato di tattica e armi di qualità superiore incontra un altro gruppo può impiegarle per distruggerlo o ridurlo in schiavitù. Se forse più consistenti e meglio preparate hanno ripetutamente la meglio sui successivi oppositori, il successo del ricorso alla violenza può instaurare una diversa forma di legittimità che rafforzerà in tali società una tendenza iniziale a depredare anziché trattare ogni volta che esse si confrontano con stranieri. 8. COME MISURARE IL TENORE DI VITA CON LA STATURA Per misurare il tenore di vita degli uomini preistorici, gli antropologi hanno preso a prestito tecniche ce hanno spalancato nuove prospettive sugli effetti delle trasformazioni storiche sulla vita economica, a cominciare dalla rivoluzione neolitica per finire con la rivoluzione industriale. La misura fondamentale è la statura media della popolazione, in quanto la statura raggiunta in età adulta dipende non solo dall’eredità genetica, ma anche dall’alimentazione netta che il corpo riceve nel corso della vita, dalla nascita alla maturità. La struttura finale di un individuo (misurata in base alla lunghezza dell’osso superiore della gamba), riassume l’effetto netto dell’alimentazione disponibile per la crescita. In generale, i cacciatori-raccoglitori erano più alti e robusti dei contadini; il che fa concludere che nel corso della loro vita i contadini, nel complesso, erano più esposti alle malattie e al duro lavoro rispetto ai cacciatori- raccoglitori. Analoghi riscontri di una statura ridotta tra i maschi della classe operaia nei periodi dell’industrializzazione e della crescita urbana moderna mettono in discussione il beneficio netto sia della rivoluzione neolitica che di quella industriale. Lavorando su questa intuizione, si provò a creare un indice della salute umana da un campione di resti umani rinvenuti nel Nord America e nell’America Centrale e risalenti a un periodo compreso tra 6.000 anni fa e l’inizio del Novecento. Combinando sette indicatori di diversi aspetti della salute umana, hanno creato un indice globale, da cui emerge un prolungato e significativo declino della salute media sul continente nordamericano tra il 4000 a.C. e l’inizio del XX secolo. La parte più consistente di tale declino si verificò quando la popolazione dei nativi americani crebbe in conseguenza dell’adozione dell’agricoltura stanziale, prima del contatto con gli europei. L’effetto del contatto con gli europei sulla mortalità delle popolazioni native, indicatore negativo della salute globale di queste popolazioni, fi devastante a causa delle malattie epidemiche importate dagli europei e dal loro bestiame. Anche gli europei che immigrarono, in seguito patirono il contatto con le nuove malattie, il che fa ritenere che lo «shock immigratorio» che accresce la mortalità sia stato un aspetto ricorrente nella storia dell’economia. Tuttavia gli indiani delle pianure sopravvissuti nel XIX secolo, alla fine prosperarono e divennero gli esseri umani più alti del Nord America, adottando le armi da fuoco europee e dando la caccia a bisonti su cavalli importati dagli europei. Non tutte le prove fisiche stratte dai resti ossei dimostrano effetti negativi dell’agricoltura stanziale. I segni arrecati da traumi sono nettamente più frequenti nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori e ci sono elementi che fanno pensare che episodi di stressa tali da stravolgere il processo normale di crescita dei bambini, fossero più gravi nei gruppi di cacciatori-raccoglitori anziché in quelli di agricoltori stanziali. Ciò potrebbe significare che l’approvvigionamento alimentare era più incerto e variabile per i cacciatori rispetto ai contadini, deduzione ragionevole se l’agricoltura permetteva a questi ultimi di immagazzinare cibo più di quanto potessero fare i cacciatori-raccoglitori. III. Lo sviluppo economico nell’Eurasia medievale La creatività tecnologica e il dinamismo economico che contraddistinguono l’Europa nordoccidentale a partire dalla creazione del Sacro romano impero con Carlo Magno, nell’anno 800, fino alla Morte Nera (epidemia di peste bubbonica) degli anni 1347-1352. Dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, la popolazione e il prodotto pro capite si erano risollevati, ma prima della Morte Nera avevano raggiunto livelli ancor più elevati. Ci sono elementi a riprova dell’adozione in tempi ancora più remoti della tecnologia responsabile dell’incremento della produttività agricola in aree sempre più ampie del continente europeo, ma mostrano anche che aumenti a livello sia demografico che di prodotto pro capite si verificarono più o meno simultaneamente in vaste aree del continente eurasiatico oltre che in Europa nordoccidentale, nonché nelle regioni occupate dagli antichi imperi, in Mesopotamia, in Egitto e nelle isole e penisole greche. Anche le devastazioni di Gengis Khan nel XIII secolo si ritiene che abbiano favorito lo sviluppo del commercio e del dinamismo economico dell’Asia centrale. Più notevole è l’evidenza riguardante la formazione di imperi nell’Asia sudorientale, nella periferia meridionale dell’Eurasia e in Estremo Oriente, fino in Corea e in Giappone. 1. L’ANOMALIA CLIMATICA MEDIEVALE («OPTIMUM») L’attrazione che il fenomeno del riscaldamento globale esercitata sulla scienza a partire dalla fine del XX secolo, ha sfornato nuovi dati sugli episodi di variazione climatica verificatasi in passato a livello mondiale. I climatologi hanno scoperto che un clima insolito interessò l’emisfero settentrionale nel periodo compreso tra l’anno 800 e il 1350. Nell’Inghilterra meridionale, nella Francia settentrionale, nella Germania meridionale, in Austria e in gran parte dell’odierna Ucraina si ebbero temperature più calde, accompagnate da precipitazioni piovose ideali per la coltivazione del grano. In tutte queste aree abbiamo prova di un’espansione dei disboscamenti forestali finalizzati a creare campi coltivabili e a fondare nuovi insediamenti in risposta alla crescita demografica frutto di un clima più mite. Stagioni vegetative più lunghe significavano un aumento dei raccolti e, di conseguenza, popolazioni meglio nutrite e più sane. Il moltiplicarsi dei centri abitati portò alla costituzione di una rete di mercati che permisero la specializzazione regionale, e questa specializzazione finì per incoraggiare anche il commercio su scala europea. Incrementi demografici e della produttività agricola e lo sviluppo di cittadine e grandi città per ospitare una popolazione in aumento si verificarono in tutte le periferie meridionali e occidentali dell’Eurasia in risposta ai più 17 costanti e umidi monsoni asiatici. Si avviarono commerci su lunghe distanze tra centri urbani e lo scoppio di conflitti militari attraverso e attorno al continente eurasiatico e sulle sponde del Mediterraneo. Questo primo episodio di crescita economica prolungata, fu troncato dalla Morte Nera nel 1350. Lo spopolamento generalizzato significò mercati più piccoli; furono imposte quarantene per scongiurare il ritorno dell’epidemia. Non era possibile che il commercio intraregionale si arrestasse, ed esso continuò finché la popolazione non ebbe raggiunto i numeri precedenti, in un processo che fu particolarmente breve là dove cerano maggiori possibilità di rimettere in moto l’agricoltura e il commercio dopo la perdita di vite umane. Il recupero dalla Morte Nera fu più rapido e completo in Europa nordoccidentale per ragioni che sembrano condizionate dal modo in cui la popolazione locale aveva risposto in primo luogo all’optimum climatico medievale. Dopo il crollo dell’Impero romano, le tribù barbare continuarono a scorrazzare e predare; piccoli regni sorsero e caddero, incapaci di mantenere un ordine per più di un breve periodo o di stabilire sistemi regolari di tassazione. Il Regno franco, situato tra la Loira e il Reno, durò più degli altri; privo di un sistema regolare di tassazione o di una burocrazia permanente. A partire dall’VIII secolo, nuove orde di invasori minacciarono i franchi e altri popoli europei per oltre due secoli. Nel 711 i musulmani del Nord Africa invasero la Spagna e rovesciarono il Regno visigoto; prima di essere respinti, nel 732, erano riusciti a penetrare nella Francia centrale. Ricacciati al di qua dei Pirenei dai franchi, i musulmani riuscirono a conquistare la Sicilia, la Corsica e la Sardegna. Più tardi, nel corso di quello stesso secolo, dalla Scandinavia piombarono i vichinghi, che si impadronirono delle Isole britanniche, conquistarono la Normandia, fecero oggetto delle loro incursioni località costiere e fluviali spingendosi fino a Parigi, e penetrando nel Mediterraneo. Nel IX secolo, feroci tribù magiare attraversarono i Carpazi, penetrarono nell’Europa centrale e assaltarono, saccheggiarono e riscossero tributi nell’Italia settentrionale, nella Germania meridionale e nella Francia orientale, prima di insediarsi nella loro nuova patria di elezione nella pianura ungherese. Per affrontare queste minacce i re franchi idearono un sistema di relazioni militari e politiche, il feudalesimo, che innestarono nel sistema economico in via di evoluzione. Erano richieste truppe di guerrieri a cavallo, in quanto l’introduzione della staffa aveva reso obsoleti i fanti. Mantenere direttamente tali truppe era impossibile nell’assenza di un sistema efficace di tassazione e nell’assenza di un’economia monetaria. Per l’ordine interno e l’amministrazione erano necessari funzionari locali, che non potevano essere pagati direttamente dallo Stato. La soluzione fu di concedere ai guerrieri il reddito di grandi proprietà, molte delle quali confiscate alla chiesa, in cambio del servizio militare; i guerrieri avevano la responsabilità di mantenere l’ordine e di amministrare la giustizia nei loro possedimenti. I grandi nobili possedevano molti latifondi che comprendevano villaggi; alcuni di questi furono da essi concessi a signori di rango inferiore o cavalieri, in cambio di un giuramento di omaggio e fedeltà, simile a quello prestato al re; questa procedura si definisce «subinfeudazione». Al di sotto del sistema feudale, ma con origini più antiche e differenti, era la forma di organizzazione economica e sociale detta curtis. La curtis cominciò a prendere forma nel tardo Impero romano, allorché i latifundia dei nobili romani furono trasformati in proprietà autosufficienti, e i coltivatori furono legati alla terra. Le invasioni barbariche modificarono il quadro soprattutto con l’ingresso nei ranghi della classe dominante di capi e guerrieri delle tribù barbare, e il sistema curtense ricevette la sua impronta definitiva nei secoli VIII e IX, durante le invasioni saracene, vichinghe e magiare, allorché divenne il fondamento economico del sistema feudale. Nel IX secolo, il sistema curtense era stabilito nelle regioni tra la Loira e il Reno e nella valle del Po in Italia. Successivamente si estese all’Inghilterra, alla Spagna, al Portogallo, alla Danimarca e all’Europa centrale e orientale. In alcune regioni non prese mai piede. La curtis non assunse mai una forma tipica. Le variazioni, sia geografiche che cronologiche, furono troppo numerose. Come unità organizzativa e amministrativa, la curtis era costituita dalla terra, dagli edifici e dalle persone che coltivavano la terra e abitavano negli edifici. Da un punto di vista funzionale, la terra era divisa in arativo, pascolo e prato, bosco, foresta o terreni incolti. Legalmente, era suddivisa fra riserva dominica, appezzamenti dei contadini e terre comuni. La riserva dominica poteva comprendere il 25 o 30% della terra arabile totale della curtis. La terra coltivata dai contadini per se stessi era costituita da larghi campi aperti circostanti la casa signorile e il villaggio. Prati, pascoli, boschi e foreste erano normalmente comuni. I contadini vivevano in villaggi serrati situati sotto le mura della casa signorile o nelle sue vicinanze. I villaggi erano situati, normalmente, nelle vicinanze di un ruscello, che assicurava il rifornimento d’acqua e azionava il mulino e forse un mantice per una forgia o una fucina. Se la casa signorile non possedeva una cappella, la scena del villaggio era completata da una chiesetta. Le variazioni erano infinite. La curtis fu l’istituzione in uno stato di costante cambiamento o evoluzione. L’evoluzione della curtis in Europa dipese in gran parte dalle opportunità nei mercati delle merci, della terra e del lavoro là dove questi fattori non erano limitati dalla coercizione o dall’assenza di diritti di proprietà tutelati. La coercizione della forza lavoro aumentò verso la fine del I millennio per effetto della pressione demografica e della scarsità di terra da mettere a coltivazione. La risposta consistette 20 La pressione del numero provocò l’espansione geografica della «civiltà europea». Con questa espressione si vuole comprendere il caso per la riconquista della Penisola iberica e della Sicilia ai musulmani, della penetrazione dei coloni tedeschi nelle aree forestali scarsamente popolate dell’Europa orientale, e ancor meno per l’istituzione di monarchie feudali nel Vicino Oriente durante le crociate. Sebbene nell’VIII secolo i franchi avessero ricacciato i musulmani a sud dei Pirenei e nelle regioni montagnose del nord e alcuni staterelli cristiani avessero mantenuto la loro indipendenza, gli stati e le civiltà dell’Islam dominarono la maggior parte della Penisola iberica per oltre 400 anni. Gli abitanti musulmani erano abili nell’agricoltura e nell’orticoltura; restaurarono ed estesero il sistema d’irrigazione romano e fecero della Spagna meridionale una delle aree più prosperose d’Europa. La capitale, Córdoba, fu un grande centro intellettuale e fece da ponte per la trasmissione delle conoscenze del Mondo antico alla nascente civiltà europea. La riconquista cristiana della penisola cominciò nel X secolo, in coincidenza con la crescita della popolazione europea, e nel XIII secolo 9/10 della penisola erano in mani cristiane. La riconquista ebbe il carattere di una crociata, e molti dei guerrieri che vi presero parte provenivano dalle regioni a nord dei Pirenei. I conquistatori portarono con sé contadini del nord per assicurare il proprio mantenimento e per ripopolare il territorio devastato, incoraggiando ulteriori immigrazioni e tentarono di trapiantarvi il sistema curtense. La topografia e il clima iberici, si rivelarono sfavorevoli a questa innovazione; furono apportate delle modifiche, ma il risultato finale fu un sistema ibrido meno produttivo dia della curtis settentrionale sia dell’agricoltura intensiva moresca, che la popolazione cristiana si rivelò incapace di imitare. Nella seconda metà dell’XI secolo, mentre la riconquista cristiana della Spagna e del Portogallo era in pieno svolgimento e il duca Guglielmo di Normandia rivendicava i suoi diritti sul trono d’Inghilterra, altri guerrieri normanni scesero in Sicilia e la strapparono ai musulmani. Prima della conquista musulmana la Sicilia aveva fatto parte dell’Impero bizantino; la conquista normanna la portò per la prima volta nell’ambito dell’economia occidentale. Per un certo periodo, dopo la conquista, con la sua mescolanza di elementi greci, arabi e normanni, essa fu una delle più prospere regioni europee. Dopo la Sicilia i normanni strapparono a Costantinopoli anche l’Italia meridionale, ultimo territorio occidentale ancora nelle mani dell’Impero bizantino. La prova più evidente della vitalità economica dell’Europa medievale fu l’espansione tedesca nella regione che comprende oggi la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania e la Lituania. Anteriormente al X secolo quest’area era abitata soprattutto da tribù slave. L’Austria aveva fatto parte dell’Impero di Carlo Magno ma gli invasori magiari l’avevano conquistata e devastata. Nel 955 gli eserciti tedeschi inflissero una sconfitta decisiva ai magiari, dopo la quale questi ultimi si stabilirono nella pianura centrale ungherese e l’Austria fu ripopolata. I missionari tedeschi successivamente convertirono alla chiesa di Roma gli ungheresi e gli slavi occidentali, e gli imperatori del Sacro romano impero germanico affermarono la propria autorità su gran parte dell’Europa orientale. Verso la metà dell’XI secolo, i coloni tedeschi cominciarono a riversarsi al di là dell’Elba. Nel secolo seguente, dopo le devastazioni compiute dai nomadi mongoli, i sovrani e la chiesa in Ungheria e Polonia invitarono i tedeschi a stabilirsi nei loro territori. Nel XIII secolo, i Cavalieri Teutonici furono incaricati della conquista, della cristianizzazione dei territori pagani della Prussia e della Lituania. La colonizzazione di questa vasta area fu portata a termine in diversi modi, che però implicano tutti una forma rudimentale di pianificazione economica. I colonizzatori stipulavano un contratto con un grande proprietario terriero o con un sovrano locale che li impegnava a fondare un villaggio, un gruppo di villaggi o una città. Essi poi facevano il giro delle regioni più progredite e più densamente popolate d’Europa per reclutare coloni. Venivano anche reclutati gli artigiani e i commercianti cittadini, in quanto i piani di colonizzazione prevedevano insediamenti agricoli ma anche reti di città commerciali. I coloni rurali portarono con sé il sistema curtense, e la tecnologia agricola avanzata. I canoni di affitto comprendevano sia denaro sia pagamenti in natura al proprietario, ma i coloni avevano più terra, meno oneri e maggiore libertà che nelle regioni dalle quali provenivano. I colonizzati ricevevano lotti più grandi di terra rispetto ai contadini. Nell’espansione furono anche coinvolti gli ordini religiosi, specialmente i cistercensi e i Cavalieri Teutonici. Questi ultimi fondarono numerose città e villaggi e si dedicarono ad attività commerciali. Il risultato economico complessivo di questa espansione può essere riassunto nella diffusione di una tecnologia più avanzata, in un aumento della popolazione sia per cause naturali sia per effetto dell’immigrazione in una grande estensione dell’area coltivata (nuove risorse) e in un’intensificazione dell’attività economica. L’espansione tedesca legò più strettamente l’Europa orientale all’emergente civiltà occidentale. 4. LA RINASCITA DELLA VITA URBANA La popolazione urbana aveva cominciato a diminuire già prima della caduta di Roma. Nell’Alto Medioevo molti centri urbani dell’Europa settentrionali furono completamente abbandonati; altri ospitavano pochi amministratori laici o ecclesiastici con il loro seguito, che si rifornivano dei beni di prima necessità dalla campagna circostante, spesso da possedimenti di loro proprietà. Il commercio di lunga distanza era limitato essenzialmente ai generi di lusso, schiavi compresi, destinati alle corti dei nobili ricchi e potenti; gli agenti di tale commercio erano stranieri, soprattutto siriani ed ebrei, ai quali i loro clienti assicuravano una speciale protezione e un salvacondotto. In Italia, nonostante i danni e la contrazione sopportati dalle città nei vari secoli di invasioni e saccheggi, la tradizione urbana resistette. Prima dell’XI secolo i contatti politici, culturali ed economici dell’Italia con l’Impero bizantino furono uguali o più intensi di quelli con l’Europa settentrionale. Le città italiane si trovarono nella posizione ideale per agire da intermediarie tra l’Oriente più ricco e avanzato e l’Occidente povero e arretrato. Tra il VI e il IX secolo le principali intermediarie furono Amalfi, Napoli, Gaeta e altre città portuali della parte meridionale della penisola, che, pur mantenendosi politicamente fedeli a Costantinopoli, erano sufficientemente distanti da non rimanere eccessivamente ostacolate dalle leggi imperiali. Venezia conobbe un rapido sviluppo come centro commerciale. Pisa e Genova si trovarono ben presto a controllare l’intero Mediterraneo occidentale. La crescita delle città cominciò dapprima nelle città portuali. Le pianure della Lombardia e della Toscana rappresentavano il retroterra naturale di Venezia, Pisa e Genova; esse erano tra le regioni più fertili d’Italia, e vi era ancora viva la tradizione urbana di Roma. Con l’aumento della produttività agricola e la crescita demografica da essa provocata, molti contadini emigrarono nei centri urbani, dove intrapresero nuove attività nel commercio e nell’industria. Per la Lombardia l’esempio più illustre fu Milano, per la Toscana fu Firenze. L’interazione tra città e campagna era intensa. La campagna forniva la popolazione in soprannumero necessaria per popolare le città, e una volta trasferitivisi i nuovi abitanti urbani rappresentavano un nuovo mercato per i prodotti della campagna. Sotto la pressione delle forse di mercato il sistema curtense, finalizzato all’autosufficienza, cominciò a disintegrarsi. All’inizio del X secolo le prestazioni lavorative dei fittavoli cominciarono a essere sostituite da canoni in denaro; poco dopo i signori feudali cominciarono ad affittare o vendere le terre di loro proprietà ad agricoltori commerciali. I campi aperti del sistema curtense furono spezzettati, recintati e sottoposti a una coltivazione intensiva. Molti dei nuovi imprenditori agricoli erano abitanti delle città che applicavano alle loro terre le stesse valutazioni dei costi e dei ricavi che avevano appreso nelle transazioni commerciali. 21 Alcuni sovrani e altri grandi feudatari cercarono di trattare città intere come loro vassalle, ma le esigenze dell’amministrazione urbana, le richieste da parte dei mercanti di libertà di cui gli altri soggetti feudali erano prive e le pretese dei ricchi uomini d’affari non si adattavano alla gerarchia feudale. Nelle città dell’Italia settentrionale i commercianti più prosperi si riunirono in associazioni volontarie con il fine di sbrigare gli affari municipali, difendere gli interessi comuni e appianare le controversie senza ricorrere alle ingombranti corti feudali. Con il tempo, queste associazioni volontarie si trasformarono in governi cittadini, detti Comuni; essi trattarono con i signori feudali per ottenere degli statuti di franchigia o li combatterono con lo stesso obiettivo. Nel 1035 Milano conquistava la sua indipendenza con la forza delle armi. In Italia, le città si rivelarono abbastanza forti da estendere il loro potere sulla campagna immediatamente circostante. Nel 1176 una lega di città lombarde sconfisse l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa ribadendo la loro libertà e indipendenza. Nelle altre regioni europee lo sviluppo urbano cominciò più tardi e fu meno intenso che nell’Italia settentrionale. Spuntarono città grandi e piccole, ma non furono né altrettanto grandi né altrettanto concentrate delle città dell’Italia settentrionale. Esse non riuscirono a conquistare una paragonabile autonomia o indipendenza dai principi territoriali. Alla fine del XIII secolo, allorché Milano aveva una popolazione di circa 200.000 abitanti, Parigi, che combinava le funzioni di capitale territoriale e sede di una grande corte, di città commerciale e industriale, nonché di centro universitario, poteva forse avere una popolazione dell’ordine di quella di Milano. L’unica regione che potesse essere paragonata all’Italia settentrionale sul piano dello sviluppo urbano erano i Paesi Bassi meridionali, in particolare la Fiandra e il Brabante. La popolazione urbana complessiva costituiva probabilmente circa 1/3 del totale, più o meno la stessa percentuale dell’Italia settentrionale. Le due regioni vantavano anche la densità di popolazione più alta d’Europa. La loro agricoltura era la più avanzata e intensiva e i loro centri commerciali e industriali più importanti. Il fatto che l’agricoltura fosse sempre più intensiva e produttiva nelle vicinanze delle città che non in aperta campagna sembra confermare un ruolo importante della domanda e dei mercati urbani – l’esistenza delle città e del commercio, con i loro mercati potenzialmente lucrativi, stimolavano i coltivatori a una maggiore produzione e produttività. 5. CORRENTI E TECNICHE COMMERCIALI Il tipo di traffico più prestigioso e proficuo era quello che stimolò la ripresa degli scambi commerciali tra l’Italia e il Levante. Già prima che cadessero nelle mani degli italiani quelle rotte erano state usate da mercanti orientali che trasportavano articoli di lusso nelle corti occidentali. Con l’avvento degli italiani i prodotti di lusso – spezie, sete e porcellane, broccate, pietre preziosi e altre merci – continuarono a dominare il flusso da Oriente a Occidente, ma si aggiunsero merci voluminose come l’allume. In direzione opposta viaggiavano panno comune di lana o lino, pellicce, oggetti di metallo e vetro. I veneziani avevano commerciato con l’Impero bizantino fin dai primi anni della loro storia, ma si assicurarono un posto di favore nella seconda metà dell’XI secolo, in cambio dell’aiuto contro i turchi selgiuchidi; in tal modo ottennero libero accesso a tutti i porti dell’impero senza pagamento di dazi doganali o altre tasse. Genova e Pisa, che avevano cacciato i musulmani dalla Corsica e dalla Sardegna, assalirono le loro roccaforti in Nord Africa, saccheggiarono le loro città e ottennero condizioni particolarmente favorevoli per le loro navi e i loro mercanti. Genova sconfisse Pisa nella lotta per il dominio assoluto del Mediterraneo occidentale e sfidò Venezia per quello orientale. Durante le crociate le città italiane intensificarono la loro penetrazione nel Levante; fondarono colonie e speciali enclave privilegiate. La caduta del Regno di Gerusalemme e il fallimento delle crociate ebbero scarsa influenza sulla posizione degli italiani in Oriente; essi stipularono trattati con gli arabi e i turchi e continuarono i “soliti commerci”. Una speciale ed esotica estensione del commercio con l’Oriente fu quello con la Cina, che fiorì tra la metà del XIII e la metà del XIV secolo. In quel periodo l’Impero mongolo, il più vasto impero terrestre che il mondo abbia mai visto, si estendeva dall’Ungheria e dalla Polonia al Pacifico. I sovrani mongoli, diedero il benvenuto ai missionari cristiani e ai commercianti occidentali. Anche questo commercio fu dominato dagli italiani, che stabilirono colonie a Pechino e in altre città cinesi oltre che in India. Sull’altra sponda del Mediterraneo il commercio era più piatto. Esso comprendeva specie e altri prodotti di lusso orientali, ma avevano maggiore importanza, almeno per gli italiani, i rifornimenti di cereali dalla Sicilia. Si trattava di un afflusso regolare, eccetto in tempi di guerra e di blocca commerciale, necessario per la sopravvivenza delle città italiane carenti di grano. C’erano inoltre merci ordinarie che dalle regioni specializzate nella loro produzione o con temporanee eccedenze venivano trasportate verso zone con deficit cronici o temporanei. Nonostante le comunicazioni relativamente lente, commercianti acuti e mercati attivi facevano sì che la domanda non rimanesse insoddisfatta a lungo. I porti italiani dominavano anche questi traffici, ma li condividevano, più o meno di buon grado, con mercanti catalani, spagnoli, provenzali, narbonesi e musulmani. I mari settentrionali, pur se meno trafficati del Mediterraneo, crebbero costantemente d’importanza nel corso del Medioevo. Nel Tardo Medioevo le grandi città commerciali tedesche, organizzate nell’Hansa, arrivò a dominare sia il Mar Baltico sia il Mare del Nord. L’Hansa fu organizzata formalmente nel 1367; l’avevano preceduta molti anni di cooperazione informale tra mercanti tedeschi nelle città straniere. A Venezia, ad esempio, c’era un Fondaco dei Tedeschi, che forniva vitto e alloggio ai commercianti tedeschi in viaggio, nonché consigli e assistenza nella vendita delle loro merci. Riga, Memel, Danzica e altre località erano città interamente tedesche fondate come enclave in territorio straniero. I loro mercanti trasportavano cereali, legname, attrezzature navali e altre merci prodotti dai coloni tedeschi nell’entroterra del Baltico verso le prospere città che si stavano sviluppando attorno al Mare del Nord. Nel XII secolo la specializzazione a livello regionale nella produzione stava divenendo un aspetto saliente dell’economia medievale. L’esempio più noto è quello del commercio del vino di Guascogna. I paesi baltici divennero sempre più importanti per la loro funzione di granai dei Paesi Bassi altamente industrializzati. Più a sud, navi portoghesi, francesi e inglesi trasportavano sale e vino verso nord, ritornando con carichi di pesce salato ed essiccato. Prima dei perfezionamenti nella progettazione delle navi e nella tecnica di navigazione realizzati nei secoli XIII e XIV, la via marittima tra il Mediterraneo e il Mare del Nord era pericolosa e non particolarmente vantaggiosa. Per questa ragione i grandi valichi alpini sopportavano un traffico superiore a quello dello Stretto di Gibilterra, nonostante tutti gli ostacoli e i pericoli che ponevano. I signori feudali sulle cui terre passavano le rotte commerciali eliminarono i banditi e migliorarono le strade, sulle quali imposero dei pedaggi, che tuttavia la presenza di itinerari alternativi mantenne a un livello ragionevole. Confraternite religiose organizzarono stazioni di cambio e servizi di soccorso. Associazioni professionali di carrettieri e mulattieri offrivano servizi di trasporto. Gli empori più importanti di questa rotta commerciale erano, sul versante meridionale, le città della pianura padana, soprattutto Milano o Verona. La maggioranza delle merci cambiava di mano nelle grandi fiere o mercati di Lipsia, Francoforte e delle quattro città fieristiche della Champagne. Le fiere della Champagne si affermarono nel XII secolo come il più importante punto d’incontro per i mercanti meridionali e settentrionali. Sotto la protezione dei conti di Champagne, che offrivano strutture per lo smercio dei prodotti e speciali tribunali 22 commerciali, nonché protezione sulle strade per i mercanti in viaggio, le fiere ruotavano quasi continuamente nel corso dell’anno tra le quattro città di Provins, Troyes, Lagny e Baur-sur-Aube. Situate quasi a metà tra le due regioni economicamente più sviluppate d’Europa, l’Italia settentrionale e i Paesi Bassi, esse servivano da punto d’incontro e di scambio per i mercanti provenienti da entrambe. Le pratiche e tecniche commerciali che si svilupparono in queste città – strumenti di credito e tribunali commerciali – esercitarono un’influenza molto più ampia e duratura di quella delle fiere. Anche dopo il loro declino come centri di scambio di merci, continuarono per molti anni a funzionare come centri finanziari. Negli ultimi decenni del XIII secolo i viaggi dal Mediterraneo al Mare del Nord divennero sempre più frequenti; nel secondo decennio del XIV secolo Venezia e Genova cominciarono a organizzare regolari convogli annuali, le flotte delle Fiandre. Trasportavano le merci dai porti del Mediterraneo al grande mercato permanente di Burges, tagliando fuori le fiere della Champagne o impedendo loro di offrire alcuni servizi. Sebbene il commercio terrestre non cessasse del tutto, si era aperta una nuova fase nei rapporti tra Europa meridionale e settentrionale. Oltre alle nuove rotte e ai nuovi mezzi di trasporto, essa comportò un mutamento della dimensione dei traffici e dei meccanismi dell’organizzazione commerciale. Grandi società commerciali e finanziarie, con sedi nelle maggiori città italiane e filiali in tutta Europa, si sostituirono ai singoli mercanti come principali motori del commercio. 6. UNA RIVOLUZIONE COMMERCIALE In epoca carolingia i mercanti erano spesso stranieri: siriani ed ebrei. Con la rinascita commerciale del X secolo i mercanti europei acquistarono una maggiore preminenza, ma fino al XIII secolo inoltrato il commercio continuò a mantenere un carattere itinerante. I viaggi terrestri erano spesso effettuati in carovana, e i mercanti portavano con sé le proprie armi o assoldavano delle guardie armate per tenere lontani i banditi. Sul mare, andavano armati per difendersi dai pirati e dovevano prendere in considerazione la possibilità di un naufragio. Nel caso più semplice, il mercante lavorava per proprio conto; il suo intero capitale consisteva della quantità di merce che trasportava. Ben presto si diffuse una forma di associazione, detta «commenda»: un mercante forniva il capitale a un altro, che si incaricava di effettuare il viaggio. I profitti erano divisi tra i due. Simili contratti erano particolarmente comuni nel commercio marittimo mediterraneo, ma non mancavano nel commercio terrestre; di regola erano limitati a una singola avventura (un viaggio di andata e ritorno), ma in caso di successo era usuale che seguisse un nuovo contratto tra gli stessi partecipanti. A Genova e in altre città italiane, già a partire dal XII secolo, molti individui non direttamente impegnati in attività commerciali investivano in questo modo nel commercio. Con l’espansione del volume dei traffici e la standardizzazione delle pratiche commerciali, comparve la «vera società», che cominciò a fare concorrenza o a sostituirsi alla commenda. Aveva un discreto numero di soci e operava frequentemente in molte città d’Europa. Gli italiani, dalle loro sedi di Firenze, Siena, Venezia o Milano dirigevano filiali a Burges, Londra, Parigi, Ginevra e diverse altre città. Spesso alle operazioni mercantili aggiungevano le attività bancarie. Oltre alle filiali, queste grandi società possedevano navi, carri e convogli di muli; alcune detenevano la proprietà o la gestione di miniere di metalli e di altri giacimenti di minerali. I mercanti che non potevano permettersi di acquistare una nave escogitarono altri mezzi per ripartire i rischi del commercio di lunga distanza. I proprietari di navi potevano affittare le proprie navi contemporaneamente a diversi mercanti che operavano separatamente ma univano le proprie risorse nel noleggio della nave. Oppure poteva accadere che un singolo imprenditore noleggiasse una nave intera e poi rivendesse lo spazio su di essa ad altri mercanti. Furono escogitati vari tipi di prestiti marittimi per assicurare dei profitti a investitori non commerciali senza prenderli come soci nell’impresa o violare le leggi sull’usura. L’attività bancaria e di credito era strettamente legata al commercio medievale. Già nel XII secolo a Venezia e Genova furono fondate delle primitive banche di deposito. Nate come depositi di sicurezza, cominciarono a trasferire somme da un conto all’altro su ordine verbale o scritto. Le banche concedevano ai clienti particolari anticipazioni di somme eccedenti i depositi, e in questo modo creavano nuovi mezzi di pagamento. Banche di questo genere si trovavano solo nei maggiori centri commerciali. I banchieri privati compravano e vendevano cambiali per facilitare il commercio di lunga distanza. Per l’alto rischio e il costo delle spedizioni di moneta e metalli preziosi, i mercanti preferivano vendere a credito, investire gli introiti in un nuovo carico e realizzare dei profitti solo dopo la vendita di quest’ultimo. Quasi tutte le transazioni d’affari delle fiere della Champagne venivano condotte per mezzo del credito; alla fine di una fiera i conti ancora in sospeso venivano riportati alla fiera successiva mediante le lettere di fiera, una sorta di “cambiali”. Le cambiali finirono per essere usate come strumenti finanziari, con nessun legame diretto con merci reali. Un’altra ragione della diffusa dipendenza dal credito era la molteplicità e la confusione delle monete. Solo nella seconda metà del XIII secolo l’Europa riuscì a ottenere una valuta stabile, il fiorino d’oro coniato per la prima volta a Firenze nel 1252. Il fiorino era lo strumento ideale – con il suo valore stabile e relativamente elevato – per gli scopi commerciali, ma all’epoca del suo avvento il credito era già divenuto una parte indispensabile dell’attività commerciale. 7. LA TECNOLOGIA INDUSTRIALE E LE ORIGINI DELL’ENERGIA MECCANICA Per quanto inferiore all’agricoltura in termini di persone occupate, l’industria manifatturiera non era un settore insignificante dell’economia medievale. Essa guadagnò gradualmente importanza con il passare dei secoli. Sulla soglia dell’anno 1000 il livello tecnologico era almeno pari a quello dell’antichità. Da quel momento in poi, le innovazioni si susseguirono sempre più numerose, tanto che, dal punto di vista della storia della tecnologia, non esistono interruzioni tra l’età medievale e quella moderna. L’industria più sviluppata e diffusa era la manifattura del panno, anche se le attività di costruzione potevano figurare non molto distanti dal secondo posto. Il panno era fabbricato quasi in ogni casa d’Europa; all’inizio dell’XI secolo alcune regioni si stavano specializzando in questa attività. Le più importanti erano le Fiandre, la Francia settentrionale e l’attuale Belgio. Altri centri importanti erano l’Italia settentrionale e la Toscana, l’Inghilterra meridionale e orientale, la Francia meridionale. La lana era la materia prima più importante e i tessuti di lana il prodotto più richiesto. Oltre alla lana, in molte regioni si producevano tessuti di lino, mentre la produzione della seta e del cotone era limitata all’Italia e alla Spagna musulmana. Sebbene i lavoratori più specializzati, quali i tintori, i follatori, i tosatori e i tessitori, fossero organizzati in corporazioni, l’industria era dominata dai mercanti (anch’essi organizzati in corporazioni) che acquistavano la materia prima e vendevano il prodotto finale. I lavoratori meno specializzati non erano organizzati e, generalmente, lavoravano direttamente per il mercante. In Italia, il lavoro era effettuato in locali o capannoni appositi, sotto lo sguardo di un sorvegliante. La produttività del lavoro crebbe di vari ordini di grandezza in conseguenza di tre innovazioni tecniche correlate: 25 complessi strumenti di credito, tra cui le lettere di credito e le cambiali, per facilitare i loro commerci. Per centinaia di anni gli arabi e i loro correligionari funsero da principali intermediari nel commercio tra Europa e Asia. Così facendo facilitarono la diffusione della tecnologia. Furono da loro introdotte anche nuove coltivazioni come il riso, canna da zucchero, cotone, agrumi, cocomeri, ecc. È probabile che tra l’VIII e il X secolo il mondo islamico attraversasse un periodo di grande espansione demografica ed economica. Gli arabi viaggiavano e commerciavano per mare e per terra. Il Mar Arabico (porzione di Oceano Indiano compreso tra la Penisola iberica e il subcontinente indiano) era dominato dai mercanti e marinai arabi, quali Sinbad. Alcuni si spinsero fino in Cina, nei cui porti si insediarono colonie mercantili musulmani. Là dove esistevano fiumi navigabili i musulmani ne approfittavano, spesso integrandoli con una fitta rete di canali come in Mesopotamia. Via terra era preferito il cammello per lunghe distanze, mentre cavalli, muli e asini erano impiegati per i viaggi brevi. Il trasporto su ruota riapparve in Medio Oriente nel XIX secolo. Uno sei principi dell’Islam era il jihad, o «guerra santa» contro i pagani. Ai nemici sconfitti veniva concessa la possibilità di scegliere tra convertirsi o essere uccisi. I musulmani tolleravano ebrei e cristiani, ma li tassavano. Gli ebrei godevano di grande libertà. Come conquistatori della regione di lingua greca dell’Impero romano d’Oriente, gli arabi ereditarono gran parte della cultura della Grecia classica. Durante il Medioevo europeo essi divennero, con i cinesi, i capifila del pensiero scientifico e filosofico mondiale. La matematica moderna è basata sul sistema di notazione arabo, e l’algebra è un’invenzione degli arabi. Durante la rinascita intellettuale dell’Europa occidentale dell’XI e XII secolo molti studiosi cristiani si recarono a Córdoba e in altri centri intellettuali musulmani a studiare la filosofia e la scienza classiche. Il papato ufficialmente proibiva i commerci con i musulmani, ma i mercanti cristiani e quelli veneziani non prestavano attenzione a tale divieto. 3. L’IMPERO OTTOMANO Tra i popoli che accettarono l’Islam come loro religione troviamo diverse tribù nomadi turche dell’Asia centrale. Attirati verso sud e ovest dalla ricchezza del califfato arabo, i turchi giunsero prima come pirati e predoni, ma si insediarono poi come conquistatori. Uno di loro, Tamerlano, conquistò la Persia alla fine del XIV secolo. Un altro conquistatore, Ismail, all’inizio del XVI secolo, fondò la dinastia safawide, che regnò in Persia fino al Settecento. Gli ottomani facevano risalire le loro origini a Osman, il quale aveva strappato una piccola area dell’Anatolia nordoccidentale all’Impero bizantino. Gli ottomani estesero gradualmente il loro dominio a tutta l’Anatolia, e nel 1354 riuscirono a ottenere una base in Europa a ovest di Costantinopoli, che conquistarono nel 1453. Nel XVI secolo la loro espansione proseguì con la conquista dei territori del Medio e Vicino Oriente, del Nord Africa, Grecia e i Balcani e, nel 1683, raggiunsero le porte di Vienna prima di essere ricacciati in Ungheria. Il vasto impero controllato dai turchi non costituiva un’economia unificata o un mercato comune anche perché l’alto costo dei trasporti ostacolava una vera integrazione economica. Ciascuna regione all’interno dell’impero continuò le attività economiche che aveva praticato prima della conquista, con una limitata specializzazione regionale. L’agricoltura era l’occupazione principale della grande maggioranza dei sudditi del sultano. L’impero sopravvisse perché i turchi stabilirono un sistema d’imposizione regolare e relativamente equo attraverso il quale affluivano risorse sufficienti a mantenere la burocrazia del governo centrale e dell’esercito. Il controllo e l’ordine venivano mantenuti da ufficiali turchi dislocati nelle province e che godevano di rendite provenienti da specifici appezzamenti di terreno. I turchi si comportavano benevolmente nei confronti dei loro sudditi finché le entrate tributarie erano regolari e non si presentavano minacce di rivolta o ribellione. Fecero pochi tentativi di convertire all’Islam i loro sudditi cristiani in Europa, come il caso speciale dei giannizzeri, la casta militare reclutata nell’ambito delle famiglie cristiane e ai cui componenti veniva impartita un’educazione intensiva sotto una ferrea disciplina militare. Anche gli ebrei erano tollerati. Alla fine del regno di Solimano il Magnifico, nel 1566, tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo orientale erano in mano agli ottomani, che attraverso i regolari tributi versati dalle province periferiche cercavano di mantenere lo splendore di Istanbul e delle residenze del sultano. Diverse città che avevano conosciuto periodi di prosperità nel periodo dell’optimum climatico medievale declinarono in termini sia di popolazione che di ricchezza rispetto al Cairo e a Istanbul. L’impero ottomano raggiunse la sua massima estensione all’inizio del XVII secolo. 4. L’ASIA ORIENTALE L’incivilimento della Cina, all’inizio del II millennio a.C., costituisce uno degli sviluppi più autonomi nella storia della civiltà. Raramente si intromisero influenze straniere e, in quei casi, furono assorbite e integrate nella tradizione cinese. Le dinastie sorsero e caddero, separate talvolta da periodi di anarchia e di «regni combattenti», ma la civiltà cinese, per continuando ad evolversi, non abbandonò mai quella linea che appare preordinata. Il confucianesimo (una filosofia), aveva raggiunto un’elaborazione completa già nel V secolo a.C. Anche la tradizione burocratica del governo, trasmessa dai mandarini, funzionari di grado elevato selezionati per concorso e imbevuti di filosofia confuciana, raggiunse forma compiuta molto presto. In teoria l’imperatore era onnipotente, e alcuni imperatori fecero pieno uso della loro potenza; ma nella maggior parte dei casi i loro desideri erano esauditi e spesso modellati dai mandarini. Dalla dinastia Han fino all’ultima dinastia (Ching – seconda metà del XVII secolo), l’ingresso nella classe dei mandarini era aperto a chiunque riuscisse a superare le procedure concorsuali. L’incentivo rappresentato dalla possibilità di entrare nell’élite di governo, incoraggiava alti tassi di alfabetizzazione. L’alfabetizzazione generale dei candidati, compresi coloro che non riuscivano a superare l’esame, contribuì a promuovere in tutto il paese la diffusione dell’innovazione in agricoltura, nel commercio e nelle attività artigianali. La culla della civiltà cinese fu la parte mediana della valle del Fiume Giallo, dove il fertile loes, depositato dai venti, permetteva una facile coltivazione. Il suo primo fondamento materiale fu il miglio, al quale si aggiunsero il grano e l’orzo e poi il riso. L’agricoltura cinese è sempre stata ad altissima intensità di lavoro, e l’irrigazione vi ha trovato ampia diffusione. Intorno all’anno 1000 fu introdotta una varietà superiore di riso che permetteva un doppio raccolto, e incrementava notevolmente la produttività. In alcune aree della Cina meridionale, l’optimum climatico medievale rese possibile un terzo raccolto l’anno, due di riso e uno di grano sullo stesso appezzamento. Questa agricoltura produttiva permise una certa crescita urbana e lo sviluppo di parecchie attività specializzate. La lavorazione del bronzo raggiunse alti livelli. La manifattura dei tessuti di seta nacque in Cina in epoca remota; anche la porcellana è un’invenzione cinese, come la carta e la stampa. Quando l’Occidente scoprì la cartamoneta i cinesi avevano già attraversato diversi cicli di inflazione e crollo monetario (a causa di un’eccessiva emissione di banconote e l’inflazione). Anche la bussola venne scoperta dai cinesi. In generale, i cinesi raggiunsero un livello abbastanza elevato di sviluppo scientifico e tecnico molto prima dell’Occidente. Tuttavia, la Cina non 26 realizzò quel salto di qualità tecnologico che potesse dare avvio a un’era industriale. Le masse contadine erano troppo povere per costituire un mercato per tali merci esotiche. Persino il ferro, nella cui produzione eccellevano anche i cinesi, era usato solo per fabbricare armi e per l’arte decorativa. Ai mercanti e al commercio, la filosofia confuciana assegnava uno status molto basso. I pochi mercanti che riuscirono ad accumulare grandi ricchezze le impiegarono per acquistare terre ed entrare nei ranghi dell’aristocrazia. Nel frattempo, sia a causa della fertilità dei sui abitanti sia della terra, la popolazione aumentò e si diffuse sul territorio. Mentre nel VII secolo circa i ¾ della popolazione vivevano nella Cina settentrionale, all’inizio del XIII secolo più del 60% risiedeva nella Cina centrale e meridionale. Per collegare questi centri il governo costruì una complessa rete di strade e canali. Lo scopo principale di questa rete di trasporti era di permettere al governo di mantenere l’ordine e di raccogliere imposte e tasse; essa però ebbe anche un effetto positivo sul commercio interregionale e favorì una rudimentale divisione geografica del lavoro. Nel 1500, una volta che la popolazione cinese si era ripresa dagli effetti devastanti delle combinazioni di epidemie, carestie, inondazioni e invasioni mongole, Pechino, la capitale settentrionale della dinastia Ming, era la città più popolosa del mondo. Inoltre, in Cina sorgevano quattro delle dieci maggiori città del mondo. Nel XIII secolo, si verificò una serie di eventi che influenzarono la Cina e l’intera massa continentale eurasiatica: il dilagare dei mongoli, sotto Gengis Kahn, dalla nativa Mongolia, a nord della Cina. In poco più di mezzo secolo, Gengis e i suoi successori diedero vita al più vasto impero terrestre ininterrotto, esso si estendeva dall’Oceano Pacifico a Oriente fino alla Polonia e all’Ungheria a Occidente. In questo processo essi insediarono uomini del loro popolo come sovrani nell’Asia centrale, Cina, Russia e nel Medio Oriente, rovesciarono il califfato arabo nel 1258 e ridussero Baghdad a un cumulo di rovine. I mongoli si stabilirono nei vari luoghi adottando la cultura degli ospiti sconfitti. Nell’Asia centrale e nel Medio Oriente si convertirono all’Islam e si fusero con i loro alleati turchi e con le popolazioni indigene locali. In Russia non abbracciarono il cristianesimo fino a che, nel 1480, il grande duca di Mosca (Ivan III) liberò il suo paese dai mongoli. In Cina assunsero il potere come dinastia Yüan (1260-1368) alla maniera cinese e adottarono i costumi cinesi, ma cercarono di mantenere la loro peculiarità etnica, fatto che condusse alla loro disfatta dopo poco più di un secolo. Fu il quinto nipote e successore di Gengis Kahn colui che Marco Polo incontro nel suo viaggio. A quell’epoca, in mongoli mantenevano la pace e l’ordine in tutti i loro territori. I traffici tra il Mediterraneo e la Cina erano più fiorenti che ai tempi dell’Impero romano. Un altro commerciante italiano definì la Grande via della Seta “perfettamente sicura sia di giorno che di notte”. Questa però fu anche la via percorsa dal bacillo Yersinia pestis che, dalla Cina occidentale, giunse, nel 1347, sulle sponde del Mar Nero scatenando la Morte Nera. La dinastia Ming (1368-1644) restaurò i costumi tradizionali cinesi, il confucianesimo e il mandarinato. La prima metà dell’epoca Ming, registrò una crescita economica e demografica. Negli ultimi anni del dominio mongolo e nell’epoca delle rivolte contro di esso, strade e canali erano caduti in rovina e la popolazione era diminuita per effetto di inondazioni, siccità e guerre. Il governo prese misure per ricostruire la rete di trasporti, e con l’avvento di una pace relativa la popolazione tornò a crescere. Nel 1421 i Ming trasferirono la capitale a Pechino, all’estremo nord, per incoraggiare il commercio nord-sud. Furono introdotte la coltivazione del cotone e la manifattura dei tessuti di cotone. La specializzazione regionale divenne più spiccata. I cinesi cominciarono a commerciare con i paesi d’oltremare. In precedenza i cinesi avevano lasciato il commercio con l’estero nelle mani di mercanti stranieri, ma nei primi anni dell’epoca Ming navi e mercanti cinesi cominciarono a commerciare con il Giappone, le Filippine, l’Asia sudorientale, la Penisola malese e l’Indonesia. Poi, improvvisamente, nel 1433, l’imperatore proibì ulteriori viaggi, decretò la distruzione delle navi transoceaniche e proibì ai suoi sudditi di recarsi all’estero. Le colonie furono abbandonate a se stesse. La Corea e il Giappone si svilupparono sulla scia della civiltà cinese, ma lo sviluppo della Corea precedette quello del Giappone ed era molto più avanzata nell’epoca antecedente le invasioni mongole del XIII secolo. Durante il precedente optimum climatico medievale, la Penisola coreana fu unificata sotto sovrani che rivendicavano un’autorità imperiale simile al “mandato celeste” degli imperatori cinesi, anche se pagavano tributi per tenere lontani gli eserciti cinesi. I sovrani della Corea incoraggiarono innovazioni simili a quelle introdotte sotto la dinastia Song in agricoltura, in metallurgia e nel commercio. Il Giappone rimase un’accozzaglia frammentata di isole per gran parte del periodo in esame e restò all’oscuro, fino all’inizio del XIV secolo, delle innovazioni agricole che intanto venivano introdotte in Cina e in Corea. Tra l’anno 800 e il 1083 si verificarono almeno 12 eruzioni del monte Fuji. Solo nei secoli seguenti di quiescenza vulcanica, la popolazione poté crescere in maniera costante. Nel XV e XVI secolo, pirati giapponesi saccheggiarono le coste cinesi e coreane. All’inizio del XVII secolo, lo shogun (dittatore militare che governa in Giappone) vietò ai giapponesi di recarsi all’estero e proibì la costruzione di navi in grado di solcare gli oceani. 5. IL SUBCONTINENTE INDIANO Il subcontinente indiano, che comprende i moderni stati del Pakistan, del Bangladesh e dello Sri Lanka, ha circa la stessa superficie dell’Europa a occidente dell’ex Unione Sovietica. La sua popolazione è più eterogenea di quella europea in quanto a lingua e origini etniche. Il suolo e il clima sono vari: dalla foresta monsonica tropicale agli aridi deserti e alle montagne ricoperte di neve. Nel corso della sua storia, principati, regni e imperi sono sorti e caduti in una sequenza sconcertante. Nel corso dei secoli, la popolazione fu ingrossata, o travolta, da ondate di immigranti o di invasori. I nuovi venuti provenivano per lo più dal nord-ovest (attraverso la Persia o l’Afghanistan), ma alcuni venivano dal nord-est (dal Tibet e dalla Birmania). Con una sola grande eccezione, i musulmani, i nuovi arrivati finirono per adottare i costumi, la cultura e la religione del luogo. La religione ebbe un’influenza sull’economia maggiore di quella della forma di governo. La religione primitiva originaria fu l’induismo, che si sviluppò con molte varianti e sette eterodosse. Una di queste varianti fu il buddismo; esso ebbe successo in Cina, Corea e Giappone, mentre scomparve virtualmente dall’India prima dell’inizio dell’era moderna. L’Islam penetrò nel subcontinente all’inizio dell’VIII secolo per poi riproporsi a partire dal Duecento. Dopo il sacco di Delhi, gli indù fuggiaschi si radunarono a sud dando ulteriore impulso alla città di Vijayanagar, che nel 1500 era la seconda città del mondo, per popolazione, dopo Pechino. La città venne conquistata dagli eserciti dell’Impero Moghul, fondato dal discendente di Tamerlano. Uno dei modi in cui la religione influenzava l’economia era il sistema di caste degli indù. Le caste erano determinate in primo luogo dall’occupazione. All’inizio c’erano solo quattro caste: i. l’ordine sacerdotale e dei bramini ii. un ordine di guerrieri e sovrani iii. uno di agricoltori, artigiani e mercanti iv. un ordine servile Con il tempo, il numero delle caste si moltiplicò, tanto che per ogni categoria occupazionale se ne formò una. Il sistema delle caste aveva una forte connotazione gerarchica, con rigide limitazioni ai rapporti sociali e fisici. L’endogamia all’interno della casta era una 27 regola universale. In generale, il principio che governava lo status sociale era il concetto di «impurità»: le occupazioni più impure erano anche quelle socialmente meno elevate, fino ad arrivare agli “intoccabili” e agli “inguardabili” (costretti a lavorare di notte). Il sistema delle caste dovette rappresentare un ostacolo sia alla mobilità sociale sia a un’efficiente distribuzione delle risorse. Un altro elemento della religione indù avverso alla crescita economica era la venerazione del bestiame – le «vacche sacre» non potevano né essere uccise né mangiate. Nel corso dei secoli, la maggioranza della popolazione del subcontinente indiano ha vissuto in villaggi dedicandosi a un’agricoltura a bassa produttività e quasi di sussistenza. Nelle altre zone, le tecniche e i tipi di coltivazione dipendevano dalle caratteristiche del suolo e del clima. Nella regione dei monsoni la coltivazione principale era quella del riso; in terreni più asciutti c’erano il grano e l’orzo oppure il miglio. L’unico prodotto autenticamente indiano era il cotone. L’India non mancava di artigiani specializzati. Ne sono la prova elaborate opere d’arte, sculture ed esempi di architettura monumentale (es. Taj Mahal). Questi artigiani lavoravano per i ricchi e i potenti; le masse non avevano potere d’acquisto e non esisteva una classe media. Gli scarsi traffici erano in mano straniera. Una ragione geografica di questa anomalia è la mancanza di porti praticabili lungo le coste indiane. Storicamente le maggiori città indiane erano collocato lungo le sponde dell’Indo e del Gange, a nord, dove era possibile un’agricoltura di tipo estensivo. Gli altipiani dell’interno erano scarsamente sfruttati dai sovrani locali. 6. L’ASIA SUDORIENTALE L’Asia sudorientale (che va a nord-ovest dalla Birmania, a est al Vietnam e a sud alla Penisola malese) è anche chiamata «Indocina» in quanto la sua cultura è una miscela di tradizioni culturali cinesi e indiane. Gran parte della sua tecnologia ed economia deriva dalla Cina ma, con l’eccezione del Vietnam, gli influssi culturali indiani devono considerarsi più importanti. Anche l’Indonesia subì forti influssi dall’India, a cominciare dalla cultura induista e buddista e poi di quella islamica. Tra i veicoli di trasmissione culturale ci sono i monaci buddisti, che diffondevano la tecnologia avanzata insieme alla cultura religiosa. L’Asia sudorientale rese due grossi contributi alla civiltà mondiale: i. il riso, divenuto poi l’alimento di base della Cina, dell’Indonesia e di aree dell’emisfero orientale e occidentale. L’inizio della sua coltivazione si ha nel II millennio a.C. ii. le spezie. La storia documentata dell’Asia sudorientale, il cui inizio risale a poco più di 1.000 anni fa, è breve. Ci sono elementi che fanno pensare a un insediamento di cacciatori-raccoglitori del neolitico nella Thailandia e nel Vietnam fin dal 10000 a.C. Si fabbricavano vasi nelle due regioni forse già nel V millennio a.C. Utensili, armi e ornamenti bronzei erano in uso dal II millennio a.C., e la lavorazione del ferro fu introdotta attorno al 500 d.C. Durante l’optimum climatico europeo si formarono grandi stati lungo i tre maggiori bacini fluviali della regione, separati gli uni dagli altri dalle giungle degli altipiani. Lungo le coste del Mar Cinese Meridionale sorsero i regni di Champa e Dai Viet, che si opposero in più occasioni all’espansione dell’impero cinese dei Song subendo perdite demografiche e invasioni straniere negli anni che precedettero l’arrivo dei portoghesi nel XVI secolo. La massa della popolazione viveva nelle grandi vallate alluvionali dei fiumi, dove si manteneva coltivando il riso in terreni irrigui, oppure sui ricchi terreni vulcanici di altre isole. Un’altra voce importante della dieta era il pesce di fiumi e mari, che veniva anche scambiato localmente con il riso. Il pepe e altre spezie più esotiche avevano trovato spazio nei mercati indiani, cinesi, mediorientali e europei. I musulmani erano i principali intermediari tra l’Indonesia e l’India; essi furono i principali agenti dell’espansione dell’Islam nell’intera Indonesia. Dall’India le merci venivano trasportate dagli arabi fino ad Alessandria e ad altri empori del Mediterraneo orientale, dove venivano vendute a mercati italiani, soprattutto veneziani, che le distribuivano in Europa. Il desiderio di aggirare questo “monopolio”, quale appariva agli occhi di altri europei, fu uno dei principali stimoli all’esplorazione portoghese, che portò alla scoperta della rotta marittima attorno all’Africa. 7. L’AFRICA Fin dall’antichità la storia del Nord Africa è legata a quella europea, in particolare a quella del Mediterraneo. L’Africa subsahariana ebbe scarsissimo peso negli eventi europei o mondiali prima del XVI o del XIX secolo. La storia documentata dell’Africa comincia con l’antico Egitto. I fenici facevano la spola lungo le coste nordafricane, e la loro colonia Cartagine contese a Roma il controllo del Mediterraneo. L’assalto improvviso dell’Islam, nei primi secoli del Medioevo, riuscì quasi a trasformare il Mediterraneo in un lago musulmano. Separato dall’Europa dalla religione oltre che dal mare, il Nord Africa continuò a svolgere un ruolo sia nella storia europea che in quella islamica e africana. Fu in conseguenza della conversione all’Islam della regione subsahariana dell’Africa nera che quest’ultima ebbe i primi contatti con l’economia europea. L’economia del Nord Africa era simile a quella dell’Europa mediterranea. La coltivazione dei cereali prevaleva nelle regioni con adeguata piovosità, la pastorizia nomade nelle altre. Il commercio era vivace, ma l’industria era di tipo domestico. Un ramo delle rotte commerciali attraversava il Sahara e penetrava nell’Africa nera. Traffici transahariani divennero comuni con l’introduzione dei cammelli nel II o III secolo d.C. Gli alti costi dei viaggi limitavano gli scambi ad articoli di grande valore e scarso volume, soprattutto oro, avorio e schiavi, che si muovevano da soli. I datteri provenienti dai palmizi delle oasi sahariane venivano trasportati in entrambe le direzioni. L’economia dell’Africa subsahariana è varia come sono vari il clima, la topografia e la vegetazione. Solo una parte del continente è ricoperta dalla foresta pluviale tropicale o giungla. Da deserti settentrionali e meridionali la separano vaste distese di savana. All’interno una dorsale montuosa punteggiata da grandi laghi. I grandi fiumi africani – Nilo, Niger, Zambesi – non favorivano più di tanto lo sviluppo del commercio per la frequenza di cascate e rapide. Sebbene gli abitanti originari fossero tutti di pelle scura, le differenze etniche, razziali e linguistiche erano enormi. Il gruppo sociale fondamentale era, dappertutto, la tribù. Occasionalmente si costituivano forme di governo più ampie – confederazioni, regni e imperi – ma la maggior parte di esse si rivelò effimera. L’economia comprendeva, accanto alle attività più primitive della caccia e della raccolta dei frutti della natura, un’agricoltura stanziale e un allevamento del bestiame, nella savana e in altri spazi aperti. L’introduzione di piante e animali addomesticati dall’Egitto o da altre zone del Mediterraneo risaliva al II millennio a.C. Le differenze climatiche e di piovosità impedirono al frumento e all’orzo di diffondersi nell’Africa subsahariana. A causa della diffusione in Africa centrale della mosca tse-tse, i coltivatori non possedevano animali da tiro; ripiegavano sull’agricoltura alla zappa. Radici e banane erano le coltivazioni praticate, cui si aggiungeva il pesce di fiume. Il livello 30 l’Europa nel suo complesso, l’emigrazione nelle colonie fu trascurabile nel XVI e XVII secolo; la maggior parte dei flussi migratori ebbe carattere interno o locale. Una conseguenza di queste emigrazioni fu che la popolazione urbana crebbe più rapidamente di quella complessiva. Sebbene l’aumento percentuale della popolazione urbana fosse un fenomeno generale, esso fu più marcato nell’Europa settentrionale che nei paesi del Mediterraneo, che partivano da una situazione di maggiore urbanizzazione. A quell’epoca le città fungevano principalmente da centri commerciali e amministrativi piuttosto che industriali. Molte attività manifatturiere avevano luogo nelle campagne. I mestieri praticati nelle città erano organizzati in corporazioni, con clausole di lunghi periodi di apprendistato e altre restrizioni all’accesso. Gli immigrati provenienti dalle campagne possedevano raramente le abilità o le attitudini necessarie per le occupazioni urbane. Nelle città essi formavano un gruppo di lavoratori occasionali e non qualificati, spesso privi di occupazione, che arrotondavano i loro guadagni con elemosine o piccoli furti. Le loro condizioni di vita in ambienti affollati, sporchi e squallidi mettevano in pericolo l’intera comunità rendendola più esposta alle epidemie. La situazione dei poveri delle città e delle campagne fu aggravata da una prolungata diminuzione dei salari reali. Poiché la popolazione cresceva più rapidamente della produzione agricola, il prezzo dei prodotti alimentari, in particolare dei cereali usati per fare il pane, crebbe più velocemente dei salari monetari, una situazione che fu esacerbata dal fenomeno della «rivoluzione dei prezzi». Alla fine del XVI secolo, la pressione demografica sulle risorse era giunta all’estremo, e nella prima metà del XVII una serie di cattivi raccolti, nuovi focolai di peste bubbonica e altre epidemie, e un’aumentata incidenza e ferocia della guerra, arrestarono l’espansione della popolazione. In varie regioni d’Europa essa diminuì nel corso di parte o tutto il XVII secolo. 2. ESPLORAZIONI E SCOPERTE Le scoperte ebbero grosse ripercussioni sul corso dell’evoluzione economica europea. Mentre la crescita demografica in Europa occidentale non fece che rafforzare la direttrice commerciale nord-sud già affermatasi nel corso del Medioevo, il rifiorire dei commerci dopo la Morte Nera si concentrò più sulle rotte marine transoceaniche che sulle vie di terra come in epoca medievale. Il miglioramento nelle tecniche di fabbricazione delle vele pose le premesse per le scoperte oltremare. Alla fine del Medioevo notevoli progressi tecnologici furono realizzati nella progettazione delle navi, nella loro costruzione e negli strumenti di navigazione. Questi cambiamenti assicuravano una maggiore manovrabilità e un miglior controllo della direzione rendendo inutili gli uomini ai reni. Le navi divennero più grandi, più maneggevoli, più atte a tenere il mare e acquistarono maggiori capacità di carico, il che permise di effettuare viaggi più lunghi. La bussola ridusse il margine di approssimazione insito nella navigazione. Gli sviluppi della cartografia misero a disposizione carte geografiche e marine molto più perfezionate. Gli italiani, capifila nell’arte della navigazione, non rinunciarono subito a questo ruolo, come è esemplificato dai nomi di Colombo, Caboto, Vespucci, Vezzano ecc. Nel 1291 una spedizione genovese di galee a remi si era spinta lungo la costa occidentale dell’Africa nel tentativo di raggiungere l’India per mare; di essa non si era saputo più nulla. Gli italiani erano tradizionalisti in quanto a progettazione delle navi, e il ruolo guida fu assunto dai fiamminghi, olandesi e portoghesi. Questi ultimi assunsero l’iniziativa in tutti gli aspetti dell’attività marinara: progettazione di navi, navigazione ed esplorazione. La visione e l’energia del principe Enrico «il Navigatore», furono in gran parte responsabili del progresso della conoscenza geografica e delle scoperte fatte dagli europei nel corso del XV secolo. Enrico (1393-1460), figlio minore del re del Portogallo, si dedicò all’incoraggiamento delle esplorazioni della costa africana con l’obiettivo finale di raggiungere l’Oceano Indiano. Dal 1418 fino alla morte, organizzò quasi una spedizione all’anno. I suoi marinai disegnarono coste e correnti, scoprirono o riscoprirono e colonizzarono le isole atlantiche, stabilirono relazioni commerciali con capi indigeni della costa africana. Enrico non visse abbastanza per realizzare la sua massima ambizione. Ma l’opera scientifica e di esplorazione svolta sotto il suo patrocinio pose le fondamenta delle scoperte successive. Il re Giovanni II, salito al trono nel 1481, riprese le esplorazioni a un ritmo accelerato. I suoi navigatori si spinsero quasi fino all’estrema punta meridionale dell’Africa. Nel 1487 egli inviò due spedizioni. Dias doppiò il Capo di Buona Speranza nel 1488; un altro esplorò la parte occidentale dell’Oceano Indiano. Vasco da Gama, tra il 1497 e il 1499, raggiunse Calcutta circumnavigando l’Africa. Il carico di spezie con il quale egli fece ritorno compensò tutti i costi del viaggio. Nel giro di poco più di dieci anni, i portoghesi avevano spazzato via gli arabi dall’Oceano Indiano e aperto scali commerciali fortificati dal Mozambico e dal Golfo del Persico fino alle Isole delle Spezie. Nel 1513 una delle loro navi attraccò nella Cina meridionale, e a metà secolo avevano intrecciato relazioni commerciali e diplomatiche con il Giappone. Cristoforo Colombo chiese al re di finanziare una spedizione attraverso l’Atlantico per raggiungere l’Oriente viaggiando verso l’Occidente, ma il re Giovanni bocciò la proposta. Questi si rivolse agli spagnoli, Ferdinando e Isabella, i quali, impegnati in una guerra contro il Regno di Granada, non avevano denaro da investire in un progetto così poco probabile. Ma, nel 1492, Ferdinando e Isabella sconfissero i mori e, per celebrare questa vittoria, Isabella acconsenti finanziare la spedizione. Colombo salpò nell’agosto del 1942 e il 12 ottobre avvistò le isole note in seguito come Indie occidentali. Egli credette veramente di aver raggiunto le Indie. Colombo chiamò «indiani» i suoi abitanti. L’anno successivo tornò con un equipaggiamento (compreso di bestiame e altri animali) sufficiente a fondare un insediamento permanente. Subito dopo il ritorno della prima spedizione, Ferdinando e Isabella si rivolsero al papa perché stabilisse una «linea di demarcazione» che confermasse i diritti spagnoli sulle terre appena scoperte. Questa linea divideva il mondo non cristiano in due metà a fini di ulteriori esplorazioni, con la parte occidentale riservata agli spagnoli e quella orientale ai portoghesi. L’anno seguente (1494), nel Trattato del Tordesillas, il re del Portogallo convinse gli spagnoli a tracciare una nuova linea. Ciò fa pensare che i portoghesi conoscessero già l’esistenza del Nuovo mondo, in quanto questa nuova linea collocava il Brasile nell’emisfero portoghese. Nel 1500, nella prima grande spedizione commerciale portoghese successiva al ritorno di da Gama, Cabral fece vela verso il Brasile e lo rivendicò al Portogallo prima di proseguire per l’india. Nel frattempo, esploratori di altri paesi seguivano le orme di Colombo. Nel 1497 Giovanni Caboto si assicurò l’appoggio di alcuni commercianti di Bristol per un viaggio che lo portò alla scoperta di Terranova e della Nuova Scozia. L’anno dopo, alla guida di una spedizione più grande, esplorò la costa settentrionale del Nord America; poiché però essi non portarono indietro spezie, metalli preziosi o altri generi smerciabili, i loro finanziatori persero ogni interesse. Mercanti francesi mandarono, negli anni venti, Verrazzano, alla scoperta di un passaggio a occidente per le Indie. Dieci anni dopo il francese Cartier effettuò il primo di tre viaggi che lo portarono alla scoperta e all’esplorazione del fiume San Lorenzo. Cartier inoltre rivendicò alla Francia la regione nota in seguito come Canada. All’inizio degli anni venti, navigatori spagnoli e di altre nazionalità, avevano esplorato l’intera costa orientale delle due Americhe. Divenne sempre più evidente non solo che Colombo non aveva scoperto le Indie, ma anche che non esisteva un passaggio agevole attraverso la parte centrale del Nuovo continente. Nel 1519, Magellano convinse il re di Spagna a lasciargli guidare una spedizione alle Isole delle Spezie passando per il Mare del Sud. Il suo problema maggiore era di trovare un passaggio attraverso o attorno al Sud 31 America e ci riuscì. Il Mare Pacificum in cui finì non gli portò comunque ricchezze, ma lunghi mesi di fame e malattie e, infine, la morte sua e della maggior parte dell’equipaggio. Alla fine, uno dei luogotenenti di Magellano, guidò l’unica nave rimasta attraverso l’Oceano Indiano fino in Spagna; questi uomini divennero i primi ad aver portato a termine un’intera circumnavigazione del globo. 3. LA CONQUISTA DEI MARI E I SUOI EFFETTI SULL’EUROPA Il primo secolo di espansione europea sui mari e di conquista coloniale (XVI secolo) fu monopolio quasi esclusivo della Spagna e Portogallo. La preminenza guadagnata da queste due nazioni è il risultato della loro opera pionieristica di scoperta, esplorazione e sfruttamento del mondo extraeuropeo. Prima del XVI secolo entrambe erano rimaste ai margini della civiltà europea: in seguito la loro potenza e il loro prestigiò declinò fino a farle piombare in uno stato di sonnolenza nel XIX secolo. Nel XVI secolo, i loro domini erano sterminati e la loro ricchezza e potenza non avevano eguali al mondo. Nel 1515 i portoghesi erano i padroni dell’Oceano Indiano. Vasco da Gama tornò in India nel 1501 con il compito di interrompere il commercio arabo con il Mar Rosso e l’Egitto, dal quale i veneziani ricavavano le spezie che distribuivano in Europa. Nel 1505 de Almeida fu inviato in India come primo viceré portoghese. Conquistò o fondò diverse città e postazioni fortificate sulle coste orientali dell’Africa e su quelle indiane e distrusse una grande flotta musulmana. Quello stesso anno assunse l’incarico de Albuquerque (viceré portoghese) che completò la conquista dell’Oceano Indiano; conquistò Ceylon nel 151, chiave della supremazia nell’Oceano Indiano. Il suo tentativo di conquistare Aden all’ingresso del Mar Rosso non ebbe successo, e i portoghesi non riuscirono a mantenere un monopolio nel commercio delle spezie. I portoghesi intrecciarono relazioni commerciali con il Siam e Giappone. Nel 1557 si insediarono sulla costa meridionale della Cina, ultima colonia europea in Asia. La strategia imperiale globale dei portoghesi era conseguenza del modo in cui erano riusciti a riconquistare il paese ai Mori catturando un porto dopo l’altro e mantenendone il controllo. Per questo motivo i portoghesi non tentarono di conquistare o colonizzare l’interno dell’India, dell’Africa o delle isole; essi controllarono le rotte marine da postazioni commerciali e fortificate collocate in punti strategici. L’Impero spagnolo si rivelò anche più redditizio di quello portoghese. Gli spagnoli si volsero alla ricerca di oro e argento. I loro sforzi di individuare un passaggio per l’India rivelarono l’esistenza di ricche civiltà nell’entroterra del Messico e della parte parte settentrionale dell’America del Sud. Tra il 1519 e 1521 Cortés riuscì a conquistare l’Impero azteco in Messico. Pizarro conquistò l’Impero inca in Perù nel corso degli anni trenta. Alla fine del XVI secolo gli spagnoli avevano il controllo dell’intero emisfero. All’inizio non fecero che depredare gli abitanti del luogo di tutte le ricchezze che potevano essere asportate; esaurita questa fonte, gli spagnoli introdussero i metodi estrattivi europei nelle miniere d’argento del Messico e delle Ande. Gli spagnoli, a differenza dei portoghesi, intrapresero fin dall’inizio un’opera di colonizzazione e di insediamento nelle regioni conquistate. Gli spagnoli avevano riconquistato la Penisola iberica riprendendo le maggiori città della costa e dell’entroterra e riorganizzandole come distretti militari con poteri locali di tassazione e la responsabilità di mantenere l’ordine cittadino. Nelle conquiste oltremare, gli spagnoli, portarono nel Nuovo mondo le tecniche, le attrezzature e le istituzioni europee, imponendole con la forza alle popolazioni indigene. Oltre alla cultura e ai manufatti europei, gli spagnoli introdussero prodotti naturali, quali: grano, altri cereali, zucchero di canna, caffè, verdura e frutta comuni. Gli indiani precolombiani d’America non avevano animali addomesticati eccetto cani e lama. Gli spagnoli introdussero cavalli, bovini, pecore, asini, capre, maiali e volatili domestici. Aspetti della civiltà europea introdotti in America, come le armi da fuoco, l’alcol e le malattie europee, si diffusero rapidamente con effetti letali La popolazione indigena fu ridotta. Per rimediare alla scarsità di manodopera, gli spagnoli introdussero gli schiavi africani nell’emisfero occidentale dal 1501. Nel 1600, la maggioranza della popolazione delle Indie occidentali era composta di africani e di individui di razza mista. Il trapianto della cultura europea rappresentò l’aspetto più drammatico e importante dell’espansione europea. Quest’ultima produsse un effetto retroattivo sulla cultura europea, che ne fu profondamente modificata. Dal punto di vista economico, l’espansione determinò un aumento del volume delle merci scambiate. Nel XVI secolo le spezie orientali e i metalli preziosi occidentali rappresentarono una grande percentuale delle importazioni dal mondo coloniale. Altre merci fecero la loro apparizione nei flussi commerciali, aumentarono e finirono per mettere in ombra le originali esportazioni coloniali in Europa: tinture esotiche, caffè africano, cacao americano, tè asiatico, prodotti di cotone (dall’India), porcellana cinese, tabacco (America), frutta tropicale e noci, pelli, pellicce, varietà esotiche di legname e nuove fibre. Molti generi alimentari, precedentemente sconosciuti in Europa, pur non importanti in grandi quantità, furono introdotti e adattati, divenendo, con il tempo, componenti basilari della dieta: dall’America arrivarono patate, pomodori, fagiolini, meloni, peperoncini, zucche e granturco; dal Messico tacchino addomesticato; dall’Asia il riso. 4. LA RIVOLUZIONE DEI PREZZI L’afflusso di oro e argento dalle colonie spagnole accrebbe le scorte europee di minerali adatti alla monetazione, triplicandole nel corso del Cinquecento. Il governo spagnolo cercò di vietare l’esportazione di metalli preziosi in lingotti, ma esso si rivelò il principale trasgressore, con le grandi quantità di metalli preziosi inviate in Italia, Germania e Paesi Bassi a pagamento dei debiti e per finanziare le sue guerre. Da questi paesi i metalli preziosi si distribuirono per tutta l’Europa. Il risultato fu un prolungato, ma non uniforme, aumento dei prezzi. Alla fine del XVI secolo, i prezzi erano tre o quattro volte più elevati che al suo inizio. I prezzi crebbero prima e in misura maggiore in Andalusia, i cui porti erano i soli scali legali per l’oro e l’argento americani, che nella Russia distante e arretrata. Il prezzo dei generi alimentari – in particolare dei cereali, farina e pane – crebbe più di quello di gran parte degli altri prodotti. In generale, l’aumento dei salari nominali fu inferiore a quello dei prezzi dei generi di consumo, determinando un ridimensionamento dei salari in Spagna e in misura inferiore in Italia e Francia. I salari reali nell’Inghilterra meridionale e in Olanda rimasero più alti che nell’Europa meridionale. Il divario salariale creò una frattura tra Nord e Sud Europa. L’aumento della produzione di argento in Europa centrale, a partire dalla seconda metà del XV secolo, accrebbe le riserve monetarie e contribuì alla crescita dei prezzi. La sottovalutazione della moneta decisa dai sovrani senza soldi e senza scrupoli stimolò l’incremento dei prezzi nominali. La rivoluzione dei prezzi causò una redistribuzione del reddito e della ricchezza, sia a livello individuale sia di gruppi sociali. Coloro che godevano di redditi elastici in rapporto ai prezzi – commercianti, manifatturieri, proprietari terrieri che coltivavano le proprie terre, contadini con proprietà sicure che producevano per il mercato – se ne avvantaggiarono a spese dei salariati e di coloro che disponevano di redditi fissi o in grado di crescere solo lentamente – pensionati, percettori di rendite, contadini soggetti al pagamento di affitti troppo 32 alti. La crescita demografica, svolse un ruolo determinante nel ritardo dei salari, in quanto l’agricoltura e l’industria si rivelarono incapaci di assorbire la forza lavoro eccedente. Causa determinante della diminuzione dei salari reali fu il risultato delle interrelazioni tra il comportamento demografico e la produttività agricola. 5. TECNOLOGIA AGRICOLA E PRODUTTIVITÀ La spiegazione della cessazione della crescita demografica nel XVII secolo è che la popolazione era cresciuta al di là delle proprie capacità di nutrirsi adeguatamente. Per l’Europa nel suo complesso, come per ogni grande area geografica, l’agricoltura continuava a essere la principale attività economica. Sia dal punto di vista umano che sociale, il lavoro manuale era il fattore più importante di produzione. Per l’Europa nel suo complesso, la produttività agricola media nel Cinquecento fu non superiore a quella del XIII secolo, e diminuì leggermente nel Seicento. Ciò è quanto viene suggerito dal rapporto tra rese dei raccolti e sementi impiegate. Il rapporto tra raccolte e sementi per i principali cereali era non superiore a 4 o 5 a 1 per l’Europa nel suo complesso e tale rapporto diminuì nel XVII secolo. Sebbene la prova empirica diretta di un declino della produttività della terra e del lavoro sia la più esile, ci sono ragioni teoriche che conducono a una simile supposizione. In primo luogo è probabile che, a causa della crescita demografica, si sia verificato un aumento di addetti per la terra. Inoltre, aumentò la terra arata, sia attraverso il recupero di distese incolte che convertendo pascoli in terreni arabili. Nel caso dei terreni incolti, meno fertili, si aveva una resa minore. I rendimenti dei pascoli convertiti all’agricoltura potevano essere temporaneamente più elevati, ma la riduzione dei pascoli portò con sé la diminuzione del bestiame che, a sua volta, portò a una diminuzione del consumo di carne nel XVI secolo, con conseguenze negative per la nutrizione e la salute della popolazione. La diminuzione del bestiame significò inoltre una scarsità di letame per fertilizzare terreni già esauriti. Nella periferia settentrionale e occidentale d’Europa, predominava un’agricoltura di sussistenza. Le campagne erano scarsamente popolate; nelle aree montuose era importante l’allevamento del bestiame. Le colture principali erano segale, orzo e avena; lino e canapa venivano coltivati per la fibra. L’abbondanza di terra faceva sì che i poderi fossero fluidi, e che la maggior parte della terra appartenesse a clan di capi tribali (lords). L’organizzazione sociale era gerarchica, ma senza schiavitù o legami servili. Nell’Europa di oltr’Elba e a nord del Danubio, la schiavitù o servitù personale aumentò costantemente man mano che i signori più potenti usurpavano le terre e le libertà dei pochi contadini ancora rimasti indipendenti. Era la regione del sistema di sfruttamento diretto, a vantaggio della nobiltà terriera, delle grandi tenute. La condizione dei contadini fu gradualmente ridotta a una situazione non lontana dalla schiavitù. La tecnologia agricola era relativamente primitiva. Il rapporto tra raccolto e semente impiegata era basso persino in rapporto agli standard contemporanei. Nei territori adiacenti al Mar Baltico o ai fiumi navigabili che vi sfociavano, la produzione finalizzata all’esportazione verso i mercati dell’Europa occidentale fu uno stimolo alla specializzazione in coltivazioni cerealicole e altre colture commerciali; nella maggior parte dell’Europa orientale la produzione era diretta soprattutto all’autosufficienza locale. In Italia, le proprietà fondiarie variavano, in Piemonte e all’estremo nord, da piccole e innovatrici fattorie dei contadini e proprietari e dei fittavoli indipendenti, a, in Sicilia e nel sud, grandi possedimenti coltivati da mezzadri e braccianti salariati. L’Italia possedeva l’agricoltura più diversificata d’Europa: cereali, riso, frutta (compresi gli agrumi nel meridione), verdure, colture foraggiere e industriali necessarie all’industria tessile. Però, la produzione agricola italiana non riuscì a mantenere il passo della crescita demografica; i terreni erano esauriti dalle coltivazioni e dai pascoli, e alcune delle conseguenze erano la deforestazione e l’erosione dei suoli. La Spagna aveva fertili regioni costiere a est e a sud, catene montuose a nord e l’altopiano che abbraccia la parte centrale della Penisola iberica. I popoli arabi e moreschi che avevano popolato Valencia e l’Andalusia prima della riconquista cristiana avevano portato l’arte dell’irrigazione a un alto livello. I sovrani spagnoli sperperarono quest’eredità. Nello stesso anno della conquista del Regno di Granada e della scoperta dell’America da parte di Colombo, decretarono l’espulsione dal regno di tutti gli ebrei. Con la caduta di Granada fuggirono molti dei suoi abitanti musulmani, prima che dieci anni dopo fosse posta loro l’alternativa tra la conversione e l’abbandono del paese. Quelli che optarono per la conversione (moriscos) rimasero la spina dorsale dell’economia agricola della Spagna meridionale fino alla loro espulsione nel 1609. I cristiani che presero il loro posto non furono in grado di mantenere in attività i sistemi di irrigazione e le altre peculiarità dell’agricoltura moresca. Nel corso del XVI secolo la terra si concentrò, in tutta la Spagna, in grandi tenute di proprietà dell’aristocrazia e della chiesa. Si trattava di proprietari assenteisti che assegnavano la terra in piccoli appezzamenti e con contratti a breve termine a mezzadri o fittavoli a cui mancavano i capitali e gli incentivi necessari per conservare il sistema moresco. Molti contadini caddero nella servitù per i debiti. Con l’aumento dei prezzi conseguente all’afflusso di oro e argento americano, molte terre furono convertite alla coltivazione dei cereali. La produzione cerealicola non fu sufficiente a nutrire la popolazione, e la Spagna dipese in misura sempre maggiore dalle importazioni di grano e altri cereali. Un’altra delle maggiori difficoltà dell’agricoltura spagnola derivava dalla rivalità tra contadini e proprietari di greggi. I pastori seguivano la pratica della transumanza, essa era praticata in ogni regione d’Europa in cui esistessero aree montuose inadatte alle colture arative. I percorsi battuti dalle greggi abbracciavano tutta la lunghezza del paese. Gli allevatori, organizzati in una corporazione o associazione imprenditoriale «la Mesta», formavano una potente lobby a corte. Le greggi transumanti erano sottoponibili a tassazione in stazioni di pedaggio collocate in luoghi strategici; la lana era una merce di valore, che fruttava denaro contante ed era facilmente tassabile anche al momento dell’esportazione. I sovrani accordarono alla Mesta dei privilegi speciali (come il diritto di pascolo illimitato sulle terre comuni, cosa dannosa per l’agricoltura) in cambio del pagamento di maggiori tasse. La produttività dell’agricoltura spagnola era la più bassa dei paesi dell’Europa occidentale. Nel Seicento, con la diminuzione della popolazione, molte fattorie furono abbandonate. In altre aree dell’Europa occidentale prevaleva il sistema dei campi aperti. Facevano eccezione le regioni collinari e montuose nonché aree della Francia occidentale, dove piccoli campi recintati erano intercalati ai campi aperti. Le piccole tenute e i fittavoli indipendenti erano più numerosi nei pressi delle città, dove il loro prodotto era vitale per il rifornimento della popolazione urbana. Altrove prevalevano due tipi di possesso fondiario: i. i contratti d’affitto a lungo termine erano comuni in Inghilterra, in alcune aree della Germania e nella Francia settentrionale. I contadini pagavano canoni fissi in natura o in contanti, provvedevano al proprio bestiame, alle attrezzature e alle sementi, e prendevano decisioni autonome, eccetto quando erano obbligati a osservare usanze e decisioni comunitarie. ii. l’altro grande tipo di possesso fondiario era quello mezzadrile, particolarmente comune a sud della Loira. In questo sistema, il proprietario della terra provvedeva totalmente o in parte al bestiame e alle attrezzature, partecipava al rischio e alle scelte (o prendeva direttamente le decisioni) e si appropriava di una parte del raccolto. 35 orientali. Le altre potenze marittime approfittarono della debolezza del Portogallo e della rigidità della Spagna anche per invadere e creare mercati nell’emisfero occidentale. Nella prima metà del XVII secolo, gli inglesi insediarono delle colonie stabili in Virginia, New England e Maryland, nonché in isole delle Indie occidentali strappate agli spagnoli. Con il tempo divennero tutte dei mercati per le industrie inglesi nonché fonti di approvvigionamento di materie prime e di generi di prima necessità. Il commercio marittimo era di gran lunga la componente più importante per gli scambi internazionali; non era però trascurabile il commercio interno, soprattutto fluviale. Il commercio locale ne faceva grande uso, e persino nei traffici internazionali gran parte delle merci cominciava il viaggio verso il mercato su carri o sul dorso di animali oppure lungo i fiumi su chiatte. I metalli e alcuni tessuti di lusso potevano sopportare la spesa di lunghi viaggi per via di terra. Poche altre merci erano nelle stesse condizioni, a meno che non si trattasse di bestiame. Mentre la maggior parte della terra arabile europea era dedicata sempre più alla coltivazione per assicurare il mantenimento di una popolazione crescente, la Danimarca, l’Ungheria e la Scozia disponevano di vaste distese erbose adatte al pascolo di mandrie di bestiame. Il carattere delle merci trasportate su lunghe distanze mutò nel corso del XVI e XVII secolo. Nell’Alto Medioevo si era trattato principalmente di prodotti di lusso per ricchi. In seguito, con la crescita delle città, fecero la loro apparizione articoli più comuni. Nel XVI secolo una buona percentuale del volume di merci scambiate nel commercio internazionale consisteva di beni di prima necessità come legname, pesce, vino, sale, metalli, materie prime tessili e panno. Alla fine del XVII secolo metà delle importazioni inglesi per volume consisteva in legname. Gli scambi di merci voluminose furono resi possibili in primo luogo dai miglioramenti nella progettazione e nella costruzione delle navi. Un contributo nella medesima direzione fu la riduzione dei rischi dei viaggi per mare in virtù di migliori tecniche di navigazione e dell’azione delle flotte contro la pirateria. Nel commercio intercontinentale la situazione si avvicinava maggiormente al modello tradizionale, per quanto anche in questo settore si verificarono dei cambiamenti nel corso del XVII e del XVIII secolo. Le esportazioni verso le colonie consistevano per la maggior parte di manufatti, ma parte dello spazio ancora disponibile veniva riempito dagli emigrati. Diversa era la situazione nel commercio orientale. Fin dagli inizi della presenza diretta dell’Europa, gli europei avevano avuto difficoltà nel trovare le mercanzie da scambiare con le spezie e gli altri articoli desiderati. Per questa ragione, gran parte del “commercio” europeo fu saccheggio. Dove questo non era possibile, gli asiatici accettavano in cambio armi da fuoco e munizioni, ma chiedevano per lo più oro e argento. Nel complesso, l’Asia si rivelò un pozzo senza fondo per i metalli monetari europei. La situazione non doveva essere rovesciata che con la conquista dell’India da parte degli inglesi nel XVIII secolo. Una branca molto particolare del commercio era quella che trattava gli esseri umani: il traffico di schiavi. Sebbene le colonie spagnole fossero tra le maggiori acquirenti di schiavi, gli spagnoli cedettero questo commercio per contratto ai trafficanti di altre nazioni. Questo traffico fu dapprima dominato dai portoghesi, poi dagli olandesi, dai francesi e dagli inglesi. Di solito la sua natura era triangolare. Una nave europea carica di armi da fuoco, coltelli, tessuti dai colori vivaci e liquori faceva vela per la costa occidentale dell’Africa, dove consegnava il suo carico a capi tribù locali in cambio di schiavi. Una volta caricati tanti africani, il capitano faceva rotta per le Indie occidentali o il continente nordamericano o sudamericano. Lì cedeva il suo carico umano in cambio di zucchero, tabacco o altri prodotti dell’emisfero occidentale, con i quali faceva ritorno in Europa. I profitti del traffico di schiavi erano eccezionali. I governi europei non presero alcuna misura concreta per proibirlo fino al XIX secolo. 8. ORGANIZZAZIONE DEL COMMERCIO L’organizzazione commerciale variava da un paese all’altro a seconda della natura del commercio. Il commercio intereuropeo ereditò la sofisticata e complessa organizzazione sviluppata dai mercanti italiani nel Tardo Medioevo. Nel XV secolo colonie di mercanti italiani erano in ogni centro commerciale importante, soprattutto Anversa che nella prima metà del XVI secolo divenne il maggiore emporio mondiale. I commercianti del luogo e quelli di altri paesi appresero le tecniche commerciali italiane, quali la contabilità a partita doppia e i vantaggi del credito; nella prima metà del XVI secolo gli italiani non potevano più vantare alcun predominio. La maggior dinastia commerciale del Cinquecento fu la famiglia Fugger. Alla fine del XV secolo erano attivi come finanziatori degli imperatori del Sacro romano impero, e attraverso tale attività ottennero il controllo della produzione delle miniere di argento e di rame del Tirolo e delle miniere di rame ungheresi. Da Lisbona e Anversa controllavano in larga misura la distribuzione delle spezie nell’Europa centrale, dalla quale ottenevano l’argento necessario per acquistare le spezie in India. Erano pesantemente coinvolti nel finanziamento dei sovrani della Spagna e del Portogallo, un’attività che doveva condurli alla rovina. I Fugger dominarono la scena nel XVI secolo ma altri non erano di molto inferiori. La forma di organizzazione prediletta era la società di persone, solitamente formalizzata con contratti scritti che specificavano i diritti e gli obblighi di ciascun socio. In Inghilterra, paese periferico nel Quattrocento, l’organizzazione commerciale aveva forme più antiche che nelle economie più sviluppate del continente, in seguito però fece registrare rapidi progressi e divenne, all’inizio del XVII secolo, una delle più avanzate. Nel Medioevo il commercio della lana grezza, la voce di gran lunga più importante nelle esportazioni, era sotto il controllo dei Mercanti del Fondaco, una società regolamentata che agiva grosso modo come una corporazione. Il fondaco, dove la lana veniva tassata e venduta ai mercanti stranieri, era situato a Calais, possedimento inglese fino al 1558. I successori dei Mercanti del Fondaco in quanto a importanza furono i Merchant Adventurers, cui passò il controllo del commercio della lana. Stabilirono il loro fondaco ad Anversa. Nel 1564 la compagnia beneficiò di un decreto reale che le conferiva il monopolio legale delle esportazioni di panno verso i Paesi Bassi e la Germania, i mercati più importanti. Nella seconda metà del XVI secolo nacquero in Inghilterra diverse altre compagnie detentrici di privilegi commerciali monopolistici. Alcune di queste compagnie adottarono la forma di società regolamentate, altre divennero società per azioni; mettevano in un fondo comune i contributi dei membri sottoponendoli a un’amministrazione comune. Ciò accadeva nel commercio di lunga distanza, in cui i rischi e i capitali necessari per predisporre una singola spedizione superavano quelli che uno o più individui sarebbero stati disposti ad assumersi o a investire. L’esistenza di un unico grande emporio nell’Europa nordoccidentale – prima Bruges, poi Anversa e infine Amsterdam – è doppiamente importante. La loro esistenza è una prova della crescita della dimensione dei mercati e della produzione orientata al mercato. Il fatto che ne sorgesse solo uno alla volta, e che l’ascesa dell’uno accompagnasse la decadenza dell’altro, rivela i limiti di quello sviluppo. Esistevano altri empori importanti, ma nessuno forniva la varietà di servizi commerciali e finanziari dell’unica grande metropoli. Le ragioni di questo fenomeno sono legate alla dimensione limitata dei mercati e alla possibilità di economie esterne nelle transazioni 36 commerciali e finanziarie. Quando il volume totale del movimento commerciale o finanziario è relativamente piccolo, è più conveniente concentrarlo in una singola località. L’organizzazione del centro commerciale era già molto sofisticata a Bruges all’inizio del XV secolo, e lo divenne ancor di più con la migrazione ad Anversa e ad Amsterdam. È necessaria in primo luogo una borsa o un mercato. Di regola, le merci in mostra non erano scambiate sul posto; fatto un ordine, le merci venivano spedite dai magazzini. L’uso del credito era comune, e la maggior parte dei pagamenti veniva effettuata attraverso strumenti finanziari quali la cambiale, o per mezzo di trasferimenti bancari. Le banche furono per lo più un fatto privato. Il 1609 è l’anno di fondazione della Banca di Amsterdam: era una banca pubblica nel senso che fu fondata sotto gli auspici della città stessa. Era essenzialmente una banca di cambio. Dato che tutto il commercio all’ingrosso ad Amsterdam doveva essere svolto per il tramite della banca, tutti i mercanti, olandesi e stranieri, dovevano aprirvi un conto depositando monete o verghe d’oro o argento per ottenere credito in banco schelligen, l’unità di conto della banca. Dato che i fondi potevano essere trasferiti da un conto all’altro, la banca forniva un mezzo affidabile e stabile di pagamento che venne adottato in tutto il continente per le transazioni sia in ambito europeo sia con i paesi d’oltremare. Il regime dei traffici coloniali differiva da quello del commercio interno europeo. Il commercio delle spezie dell’Impero portoghese era monopolio della corona; la marina da guerra portoghese fungeva anche da flotta mercantile, e tutte le spezie dovevano essere vendute attraverso la Casa da India a Lisbona. Non esisteva un commercio tra il Portogallo e l’Oriente al di fuori di quello organizzato e controllato dello stato. La situazione era diversa al di là del Capo di Buona Speranza. I mercanti portoghesi erano parte attiva del «commercio regionale» e facevano concorrenza ai mercanti musulmani, indù e cinesi. Per un certo periodo, a causa della proibizione del commercio diretto con il Giappone decretata dall’imperatore della Cina, essi godettero di un monopolio virtuale sugli scambi tra Cina e Giappone. Goa era il polo orientale del commercio delle spezie, così come Lisbona quello occidentale. Le spezie, la più importante dal punto di vista quantitativo era il pepe, venivano acquistate nei mercati di tutto l’Oceano Indiano e nelle Isole delle Spezie ed erano portate a Goa per essere caricate sulle navi dirette in patria. Poiché il Portogallo produceva poche merci appetite dai mercati orientali, i carichi diretti verso l’Oriente consistevano soprattutto di oro e argento in verghe, accompagnati da armi da fuoco e munizioni. Nel complesso, nonostante i profitti che il governo traeva dal commercio delle spezie, quest’ultimo contribuì ben poco a sviluppare o rafforzare l’economia portoghese. Il commercio tra la Spagna e le sue colonie non era dissimile. Gli scambi con le colonie era monopolio della corona di Castiglia. Per praticità il governo trasferì tale monopolio alla Casa de Contratacìon, un’organizzazione corporativa di Siviglia che operava sotto l’occhio vigile di ispettori governativi. Tutte le spedizioni tra la Spagna e le colonie viaggiavano in convogli che partivano da Siviglia in due contingenti, uno in primavera e l’altro sul finire dell’estate, svernavano nelle colonie e facevano ritorno come un’unica flotta nella primavera successiva. La funzione ufficiale del sistema dei convogli era quella di proteggere il rifornimento di metalli preziosi dai corsari e dai nemici; esso era anche però uno strumento conveniente ma inefficace per tentare di impedire il contrabbando. La popolazione europea del Nuovo Mondo, pur se in larga misura autosufficiente in quanto ad approvvigionamenti alimentari, essa aveva bisogno del vino e dell’olio d’oliva prodotti dall’Europa, panno, armi da fuoco, utensili e articoli di ferramenta. L’Impero spagnolo fu di ben poca utilità per lo sviluppo dell’economia spagnola, ebbe anzi su di essa un effetto ritardante. VI. Nazionalismo economico e imperialismo Le politiche economiche dei grandi stati centralizzati emergenti nel periodo in cui l’Europa si riprendeva dalle terribili conseguenze della Morte Nera avevano un duplice obiettivo: a) costruire la potenza economica per rafforzare lo stato b) avvalersi della potenza militare dello stato stesso per favorire la crescita economica e la prosperità della nazione. Prima di tutto, però, gli stati miravano ad assicurare le entrate necessarie al mantenimento di un esercito in enorme crescita, e questa necessità li spingeva a porre frequentemente in atto politiche che potevano arrecare danno alle attività produttive. Nel perseguire questi obiettivi i governanti dovettero prendere in considerazione i desideri contrastanti dei propri sudditi e le strategie degli stati-nazione rivali. In epoca medievale le municipalità e le altre articolazioni del governo locale avevano goduto di estesi poteri di controllo e regolamentazione dell’economia. Esse riscuotevano dazi e tariffe sulle merci che entravano o uscivano dalla loro giurisdizione. Le corporazioni locali di mercanti e artigiani disciplinavano le condizioni di lavoro. Le politiche del «nazionalismo economico» rappresentarono il trasferimento di queste funzioni dal livello locale a quello nazionale, mentre il governo centrale tentava di unificare lo stato sia dal punto di vista economico sia politico. Mentre cercavano di imporre l’unità economica e politica ai propri sudditi, la concorrenza fra i governanti europei si faceva aspra, tanto sul piano dell’espansione territoriale, quanto su quello del controllo dei possedimenti e del commercio d’oltremare. Il loro scopo era in parte quello di rendere i loro stati il più possibile autosufficienti in caso di guerra, anche se il tentativo stesso di conquistare territori o commerci a spese di altri produceva spesso fasi di belligeranza. Il nazionalismo economico aggravò in tal modo gli antagonismi generati dalle divergenze religiose e dalle rivalità dinastiche che opponevano i governanti europei. I numerosi conflitti interni e internazionali di questo periodo esacerbavano i disastri provocati dalle frequenti epidemie di peste e di altri morbi. Assieme alle condizioni climatiche estreme che si produssero nelle fasi culminanti della piccola era glaciale, nel XVII secolo le guerre civili e fra le nazioni innescarono una vera e propria crisi globale. 1. «MERCANTILISMO»: UN TERMINE EQUIVOCO Adam Smith, fondatore della scienza moderna dell’economia, classificò le politiche economiche della sua epoca sotto un’unica rubrica, il sistema mercantile. A suo parere si trattava di politiche che interferivano con la “libertà naturale” degli individui e causavano una cattiva distribuzione delle risorse. Smith tentò di offrire un quadro sistematico di queste politiche, con l’obiettivo di metterne in evidenza l’assurdità. Appoggiandosi a esempi tratti dalla realtà britannica, egli dichiarò che tali politiche erano invenzioni dei mercanti spacciate a sovrani e statisti ignoranti delle cose dell’economia. Proprio come i mercanti si arricchiscono nella misura in cui le loro entrate sono superiori alle spese, così anche le nazioni (secondo l’interpretazione di Smith), si sarebbero arricchite a seconda di quanto le vendite a paesi esteri avessero superato gli acquisti dall’estero, incassando la differenza (o «bilancia commerciale») in oro e argento. Per questo motivo incoraggiavano politiche che stimolavano le esportazioni e penalizzavano le importazioni per ottenere una «bilancia commerciale favorevole» per le nazioni nel suo complesso. 37 Per oltre un secolo dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni (1776) l’espressione «sistema mercantile» mantenne una connotazione negativa. Nell’ultima parte del XIX secolo, alcuni storici ed economisti tedeschi ne rovesciò la concezione. Per loro, nazionalisti e patrioti che vivevano nel solco aperto dall’unificazione della Germania sotto l’egemonia prussiana, il Merkantilismus era, in primo luogo, una politica di costruzione dello stato portata avanti da sovrani saggi e benevoli, il principale dei quali era Federico il Grande. Nei manuali si trovano definizioni di «mercantilismo» come “teoria” o “sistema” di politica economica caratteristico dell’Europa della prima età moderna o, più cautamente, come «insieme variegato di idee e pratiche che prevalse nei paesi dell’Europa occidentale e nei loro possedimenti d’oltremare dal 1500 circa fino a forse il 1800». Nonostante le somiglianze, ogni paese ebbe una propria politica economica influenzata dalle peculiarità delle tradizioni locali e nazionali, dalla situazione geografica e dal carattere stesso dello stato. I propugnatori del nazionalismo in economia sostenevano che le loro politiche avevano l’obiettivo di rafforzare lo stato. La natura dello stato variava dalla monarchia assoluta di Luigi XIV e della maggior parte delle altre potenze continentali alla repubblica borghese delle città olandesi, svizzere e anseatiche. In nessuno stato tutti gli abitanti o anche solo una maggioranza di essi partecipavano al processo di governo. Poiché il nazionalismo dei primi stati-nazione aveva un fondamento di classe, e non popolare, la chiave delle differenze nazionali nel campo della politica economica dovrebbe essere ricercata nella differente composizione e negli interessi divergenti delle classi dominanti. In Francia e nelle altre monarchie assolute niente si situava al di sopra dei desideri del sovrano. Pochi monarchi comprendevano o mostravano interesse per le questioni economiche, ma tutti erano abituati a far rispettare i propri ordini. L’amministrazione quotidiana degli affari era affidata a ministri e funzionari minori che spesso non conoscevano meglio i problemi della tecnologia industriale e dell’iniziativa commerciale, e rispecchiavano i valori e gli atteggiamenti dei loro padroni. Complesse regolamentazioni della conduzione dell’industria e del commercio moltiplicavano il costo e la frustrazione dell’attività economica e incoraggiavano l’evasione. In questioni importanti i sovrani spesso sacrificavano per ignoranza o indifferenza sia il benessere economico dei loro sudditi sia le fondamenta economiche del proprio potere. Il governo spagnolo, spese più di quanto gli consentissero le entrate. Persino la Francia di Luigi XIV, la nazione più potente e popolosa d’Europa, non fu in grado di sopportare agevolmente la continua emorragia di ricchezza. Le Province Unite, che vivevano soprattutto di commercio, non potevano permettersi le politiche restrittive protezionistiche dei loro vicini maggiori. Stabilirono il libero scambio all’interno del paese, e diedero il benvenuto nei loro poteri e mercati ai commercianti di tutte le nazioni. L’Inghilterra si trovava al centro di questi schieramenti. L’aristocrazia terriera intrecciava legami matrimoniali con ricche famiglie mercantili, di avvocati e funzionari, mentre i maggiori mercanti già da tempo svolgevano un ruolo di primo piano nel governo e nella vita politica. Dopo la rivoluzione del 1688-1689 i rappresentanti in parlamento di questi ultimi conquistarono il potere effettivo all’interno dello stato. Le leggi e i regolamenti promulgati nel settore dell’economia rifletterono un equilibrio di interessi, che giovava a quelli fondiari e agricoli del paese incoraggiando nello stesso tempo le manifatture nazionali e favorendo gli interessi marittimi e commerciali. 2. GLI ELEMENTI COMUNI Nel Medioevo gran parte dei signori feudali, e in particolare i monarchi, possedevano dei «forzieri di guerra»: enormi scrigni corazzati in cui venivano accumulate monete e verghe di metalli preziosi per finanziare guerre previste o inattese. Nel XVI secolo i metodi della finanza statale erano più sofisticati, ma era ancora viva la preoccupazione di costituire abbondanti riserve di oro e argento. Ciò determinò una forma di politica economica nota come «bullionismo», ovvero il tentativo di accumulare all’interno del paese tutto l’oro e l’argento possibile, proibendone l’esportazione mediante decreti che comminavano la pena di morte ai trasgressori. Poiché erano pochi i paesi europei che possedevano miniere d’oro e d’argento, l’acquisizione di colonie in cui esistessero miniere di metalli preziosi fu uno degli obiettivi principali dell’esplorazione e della colonizzazione. Il modello da imitare fu quello della Spagna. Le colonie francesi, inglesi e olandesi producevano però una quantità scarsa o nulla di oro e argento, per cui il solo modo di procurarsi riserve di metalli preziosi (a parte la conquista e la pirateria) era il commercio. Fu in questo quadro, come Adam Smith mise in evidenza, che i mercanti riuscirono a influenzare i consigli di stato, e furono ancora i mercanti a escogitare le argomentazioni a sostegno di una bilancia commerciale favorevole. Idealmente, secondo la teoria, un paese doveva solo vendere, senza acquistare nulla dall’estero. In pratica, ciò era impossibile. A causa dell’alta incidenza di raccolti insufficienti e di carestie periodiche, i governi cercarono di garantirsi abbondanti riserve interne di grano e altri generi alimentari, dei quali proibirono l’esportazione. Allo stesso tempo incoraggiarono le manifatture, non solo per avere qualcosa da vendere all’estero, ma anche per perseguire l’autosufficienza attraverso l’ampliamento della gamma delle attività produttive. Per incoraggiare la produzione nazionale, le manifatture estere furono tagliate fuori o obbligate a pagare alte tariffe protezionistiche, che costituivano una fonte di entrate. Le manifatture nazionali furono altresì incoraggiate attraverso la concessione di monopoli e sussidi all’esportazione. Se le materie prime non erano disponibili sul mercato interno, potevano essere importate senza il pagamento di tasse sull’importazione, violando in tal modo la politica generale tesa a scoraggiare le importazioni. Le leggi suntuarie (relative ai consumi) tentarono di limitare il consumo di merci estere e di favorire quello di prodotti nazionali. Le grandi flotte mercantili erano apprezzate in quanto consentivano di ottenere denaro dagli stranieri attraverso la fornitura di servizi di trasporto e incoraggiavano le esportazioni nazionali assicurando un mezzo di trasporto conveniente. Inoltre, una grande flotta mercantile poteva essere convertita in flotta da guerra in caso di conflitto. Quasi tutti i paesi avevano delle «leggi sulla navigazione» che avevano l’obiettivo di riservare a navi nazionali le importazioni e le esportazioni, e di favorire in altri modi la marina mercantile. I governi, inoltre, incoraggiavano la pesca, vista come mezzo di addestramento degli uomini di mare e come stimolo per l’industria delle costruzioni navali, oltre che come attività che rendeva la nazione più autosufficiente dal punto di vista alimentare e forniva una merce suscettibile di esportazione. I teorici di tutti i paesi sottolineavano l’importanza dei possedimenti coloniali come fattori della ricchezza e della potenza nazionale. Anche se le colonie non possedevano miniere d’oro e d’argento, esse potevano produrre beni non disponibili nella madrepatria che potevano essere consumati da questa o venduti all’estero. Erano questi alcuni dei concetti di economia politica più diffusi nel XVI e XVII secolo. 40 «Nuovi cristiani» era l’espressione con la quale si definivano i cittadini portoghesi di origine ebraica. Re Emanuele aveva decretato, nel 1497, la conversione forzata degli ebrei a imitazione dei monarchi spagnoli, ma per vari decenni non fu preso alcun provvedimento repressivo per mettere in pratica l’editto. Alla fine, anche il Portogallo ottenne la sua Inquisizione. I cittadini erano istigati a denunciarsi a vicenda. Come risultato delle pratiche dell’Inquisizione, un’atmosfera di reciproco sospetto e di sfiducia afflisse per secoli la vita portoghese, e il Portogallo perse molte ricchezze e molti abili lavoratori e professionisti a vantaggio di nazioni più tolleranti, i Paesi Bassi olandesi in particolare. 5. L’EUROPA CENTRALE, ORIENTALE E SETTENTRIONALE Tutta l’Europa centrale, dall’Italia settentrionale al Baltico, era nominalmente unita sotto il Sacro romano impero. In realtà, il territorio era organizzato in centinaia di principati indipendenti o quasi, laici ed ecclesiastici, di dimensioni variabili dal possedimento. Con la Riforma protestante, nel corso della quale molti signori secolari e alcuni ecclesiastici avevano abbracciato la nuova fede per impossessarsi delle proprietà della chiesa, l’autorità dell’imperatore aveva subito una drastica limitazione. Persino all’interno dei loro territori, gli Asburgo avevano difficoltà a imporre la propria autorità sulle aristocrazie regionali e gli organi municipali. La lotta tra il particolarismo locale e le tendenze centralizzatrici dei più potenti monarchi e principi costituisce gran parte della storia europea della prima età moderna, specialmente nell’Europa centrale e orientale, e in quella lotta i fattori economici svolsero un ruolo cruciale. In Germania i propugnatori del nazionalismo economico sostenevano una serie di principi e massime che meritano quasi di essere definite un «sistema» o un’«approssimazione di sistema». Nella loro preoccupazione per il rafforzamento dello stato territoriale, essi invocavano misure che, oltre a riempire le casse dello stato, avrebbero ridotto la sua dipendenza da altri stati e lo avrebbero reso più autosufficiente in caso di guerra: limitazioni al commercio con l’estero, incentivazione delle manifatture nazionali, bonifica dei terreni paludosi, offerta di lavoro per i “poveri oziosi”, ecc. Nella grande maggioranza, gli stati tedeschi erano troppo piccoli e privi delle risorse indispensabili per divenire pienamente autosufficienti; vi furono, tuttavia, alcuni casi di indirizzi politici che riuscirono ad accrescere il potere e l’autorità dei sovrani territoriali, sebbene a spese del benessere dei loro sudditi. Il caso più spettacolare di successo di una politica di centralizzazione è quello dell’ascesa della Prussia degli Hohenzollern. La dinastia degli Hohenzollern arrivò al potere nell’elettorato del Brandeburgo nel XV secolo. Egli estesero gradualmente i propri domini per via ereditaria. Nel 1640, una serie di regnanti trasformò il Brandeburgo-Prussia in una delle più grandi e potenti nazioni europee. Tra i mezzi da essi impiegati figurano gli strumenti della «politica mercantilistica», quali dazi protettivi, concessioni di monopolio e sussidi all’industria, incentivi a imprenditori stranieri e lavoratori specializzati a stabilirsi nei territori meno popolati; un fattore più importante per il successo fu l’attenta gestione delle risorse dello stato. Attraverso la centralizzazione dell’amministrazione, il requisito della responsabilità personale imposto al corpo di funzionari statali professionisti da loro creato, l’attenta riscossione delle imposte e la parsimonia sul lato della spesa, essi crearono una macchina statale efficiente. I re prussiani sfruttarono il loro esercito non solo da un punto di vista militare e politico, ma anche economico. In virtù della sua terrificante reputazione, essi erano in grado di ottenere sussidi dagli alleati, ed evitarono in questo modo di trovarsi nella necessità di prendere denaro in prestito. Essi facevano buon uso dei loro possedimenti della corona, che comprendevano, oltre ai terreni agricoli, miniere di carbone, fonderie e altre imprese produttive, Nonostante lo stato fosse efficiente e potente, l’economia del paese era solo moderatamente prospera secondo il metro dell’epoca. La stragrande maggioranza della popolazione attiva era ancora occupata in un’agricoltura a bassa produttività. All’ascesa della Prussia si contrappose la scomparsa del Regno di Polonia. Nel 1772, la Russia, la Prussia e l’Austria diedero inizio a quel processo di spartizione che entro il 1795 eliminò la Polonia dalla carta politica. Come per l’ascesa della Prussia, anche il declino e la caduta della Polonia ebbero cause più militari e politiche – quali la debolezza dell’autorità regia elettiva e il liberum veto, in virtù del quale ogni singolo membro del parlamento poteva annullare gli atti dell’intera sessione – che puramente economiche; ma la povertà e l’arretratezza dell’economia fu un fattore concomitante. La popolazione era composta per circa ¾ da servi, legati alla terra e con nessun diritto al di fuori di quelli concessi dai loro signori. La nobiltà polacca era abbastanza numerosa, ma nella grande maggioranza era anch’essa povera e virtualmente senza terra. La maggior parte della terra, primaria fonte di ricchezza per il paese, era controllata da non più di una ventina di famiglie. Sebbene l’assenza di un’effettiva autorità centrale rendesse impossibile per la Polonia una coerente politica economica, alcune delle regioni che ne facevano parte l’avevano. I limiti della possibilità dello stato di plasmare l’economia anche là dove le sue politiche venivano applicate su un territorio molto ampio sono messi ancor più in evidenza dalla storia della Russia, il più esteso e uno dei più potenti stati europei. Nel XVI e XVII secolo la Russia si sviluppò, sia dal punto di vista politico sia economico, restando in gran parte isolata dall’Occidente, anche perché intratteneva pochissimi scambi commerciali di lunga distanza. La grande maggioranza della popolazione si dedicava a un’agricoltura di sussistenza, condizionata dalle istituzioni servili. Nel frattempo, nonostante le numerose rivolte, guerre civili e rivoluzioni di palazzo, l’autorità dello zar si andava rafforzando. Nel 1696, quando Pietro I (detto «il Grande») divenne unico sovrano, il suo potere all’interno dello stato russo era senza rivali. Pietro intraprese una deliberata politica di modernizzazione – ossia di occidentalizzazione – del suo paese, economia compresa. Oltre a emanare provvedimenti minori, egli viaggiò molto in Occidente, osservando sia i processi di produzione industriali sia le fortificazioni e l’organizzazione militare. Concesse sussidi e privilegi ad artigiani e imprenditori occidentali disposti a stabilirsi in Russia per esercitarvi una professione o il commercio. Costruì la città di San Pietroburgo e cominciò a costruire una flotta. Alla base di tutte le iniziative e le riforme di Pietro c’era il desiderio di espandere la propria influenza ed estendere i propri domini trasformando la Russia in una grande potenza militare. A questo scopo istituì un nuovo e più efficiente sistema tributario e riformò l’amministrazione centrale, la cui funzione era, nelle sue parole, «di raccogliere quanto più denaro possibile, perché il denaro è l’arteria della guerra». Quando le industrie del paese si dimostrarono incapaci di soddisfare le sue richieste di articoli militari, Pietro fondò arsenali, cantieri navali, fonderie, miniere e fabbriche di panno di proprietà statale, che disponevano di tecnici occidentali il cui compito avrebbe dovuto essere quello di addestrare una forza lavoro indigena; ma poiché la riserva di manodopera indigena consisteva soprattutto di servi analfabeti, legati al loro lavoro indipendentemente dal loro consenso, il tentativo ebbe scarso successo. Solo nell’industria del rame e del ferro degli Urali, dove il minerale, il legname e l’energia idraulica erano abbondanti e a buon mercato, nacquero delle imprese vitali da questa atmosfera di serra. Dopo la morte di Pietro la maggior parte delle industrie da lui fondate scomparvero, la flotta cadde in rovina, e persino il suo sistema tributario assicurò rendite inadeguate a mantenere l’esercito e la burocrazia. Tra i suoi successori, Caterina fu responsabile di due innovazioni nella finanza statale che ebbero effetti deleteri per l’economia: l’accensione di prestiti all’estero e l’eccessiva emissione di moneta (cartacea) a corso fiduciario. Nel frattempo le forze veramente produttive dell’economia, i contadini, continuavano a praticare faticosamente le loro tecniche tradizionali, riuscendo a conservare per sé, dopo le riscossioni dei loro signori e dello stato, appena quanto bastava per sopravvivere. 41 Nel XVI e XVII secolo la Svezia svolse un ruolo di grande potenza politica e militare. Il suo successo dipese in parte dall’abbondanza di risorse naturali, soprattutto rame e ferro, e in parte dall’efficacia amministrativa del suo governo. I sovrani svedesi conquistarono nel loro regno un grado di potere assoluto che non aveva paragoni in Europa. Inoltre, essi usarono il loro potere in modo complessivamente saggio quanto meno nella sfera economica. Abolirono i dazi e le tariffe interne che ostacolavano il commercio negli altri paesi, standardizzarono pesi e misure, istituirono un sistema di tassazione uniforme e presero dei provvedimenti che favorirono la crescita del commercio e dell’industria. Nel complesso, essi diedero briglia sciolta sia agli imprenditori locali sia a quelli stranieri nello sviluppo delle risorse svedesi. Nel XVIII secolo, dopo la decadenza della sua potenza politica, la Svezia divenne il principale fornitore di ferro sul mercato europeo. L’Italia è stata esclusa da questa rassegna delle politiche del periodo del nazionalismo economico perché, per gran parte della prima età moderna, essa fu vittima delle rivalità delle grandi potenze. Fece eccezione la Repubblica di Venezia, che riuscì a conservare sia l’indipendenza politica sia una certa prosperità economica fino alla conquista francese del 1797. Alla fine del Quattrocento, Venezia era al culmine della sua supremazia commerciale, con estesi possedimenti nell’Egeo e nell’Adriatico oltre che nell’entroterra italiano. L’avanzata dei turchi ottomani, la scoperta della rotta marittima per l’Oceano Indiano e il graduale spostamento del centro di gravità europeo dal Mediterraneo al Mare del Nord fu l’insieme di fattori che costrinse Venezia sulla difensiva. I veneziani reagirono impiegando in altre direzioni il capitale e le altre risorse. Nel corso del XVI secolo svilupparono un’importante industria della lana che andò ad aggiungersi alle produzioni di lusso. Quando l’industria della lana si scontrò, nel Seicento, con la concorrenza olandese, francese e inglese, molte famiglie veneziane investirono i loro capitali in migliorie agricole nell’entroterra. Il governo, un’oligarchia composta dai rappresentanti delle famiglie più importanti, tentò di scongiurare la decadenza commerciale e industriale, ma con scarso successo. Il valore medio del commercio e dell’industria veneziana declinò progressivamente. Alla fine del XVII secolo Venezia ristagnava mentre l’Europa si espandeva. 6. IL COLBERTISMO IN FRANCIA L’esempio originale del nazionalismo economico fu la Francia di Luigi XIV. Luigi ne costituì il simbolo (e il potere), ma la responsabilità del disegno politico e della sua applicazione ricade sul suo primo ministro (1661-1683) Jean-Baptiste Colbert. L’influenza di Colbert fu tale che i francesi coniarono in suo nome il termine colbertisme, più o meno sinonimo di «mercantilismo». Colbert cercò di sistematizzare e razionalizzare l’apparato dei controlli statali sull’economia ereditato dai suoi predecessori, ma non riuscì mai a ottenere un vero successo. La ragione principale del suo fallimento fu l’incapacità di attingere dall’economia denaro sufficiente a finanziare le guerre e il lusso della corte di Luigi. Ciò, a sua volta, dipese in parte dal carattere casuale del sistema tributario francese che Colbert non fu mai capace di riformare. In linea di principio, il re doveva essere mantenuto da quanto veniva prodotto nei propri possedimenti, sebbene i suoi sudditi potessero pagargli imposte “straordinarie” in tempo di emergenza per il tramite di assemblee rappresentative. Alla fine della Guerra dei Cent’anni diverse di queste imposte “straordinarie” erano divenute voci permanenti delle entrate reali. Inoltre, alla fine del XV secolo il re si era conquistato il potere di elevare i tassi d’imposta e di istituire nuove tasse per decreto, senza il consenso di alcuna assemblea rappresentativa, e alla fine del XVI secolo, per effetto dell’aumento delle tasse, dell’inflazione dei prezzi e della crescita reale dell’economia, le entrate tributarie reali erano aumentate di sette volte rispetto all’inizio del secolo e di dieci rispetto alla fine della Guerra dei Cent’anni nel 1453. Ma neanche questa manna fiscale riuscì a coprire le spese delle campagne italiane, la lunga serie di guerre tra i Valois di Francia e di Asburgo che caratterizzarono i primi 3/5 del XVI secolo, e le guerre civili e di religione che seguirono. Per raccogliere denaro i re furono costretti ad accendere prestiti e a vendere gli uffici. I re francesi avevano preso denaro a prestito nel Medioevo, in particolare durante la Guerra dei Cent’anni, ma fu solo a partire dal regno di Francesco I (1515-1547) che i debiti della corona entrarono a far parte in modo permanente del sistema fiscale. Da allora in poi il debito crebbe progressivamente. L’effetto di tali bancarotte parziali fu di rendere sempre più difficile per la monarchia contrarre prestiti; tuttavia essa continuò a prendere denaro in prestito, e a tassi d’interesse sempre più onerosi. La corona si procurava nuove entrare anche attraverso la vendita degli uffici (giudiziali, fiscali e amministrativi). Questa politica raggiunse il suo obiettivo immediato, ma a lungo andare il suo effetto fu del tutto deleterio. Creò una moltitudine di nuovi uffici con maggiori costi per il governo e per i contribuenti e che incoraggiarono l’inefficienza e la corruzione. A dispetto della moltiplicazione degli uffici e dei funzionari, la corno fu costretta ad affidarsi all’iniziativa privata per riscuotere il grosso delle imposte attraverso gli esattori. Questi individui, di solito ricchi finanzieri, si impegnavano a pagare allo stato una somma forfettaria in cambio del privilegio di riscuotere certe specifiche tasse e il gran numero di dazi e pedaggi che gravavano sulle merci in transito all’interno del paese e alle frontiere. In definitiva, fu il fallimento del sistema fiscale come produttore di entrate a portare all’assemblea degli Stati generali del 1789, l’inizio della fine dell’antico regime. Oltre che a riformare il sistema tributario e ad accrescerne il gettito, Colbert, i suoi predecessori e successori, tentarono di migliorare l’efficienza e la produttività dell’economia francese. Emanarono numerosi decreti e ingiunzioni che avevano per oggetto le caratteristiche tecniche dei manufatti con l’intento dichiarato di migliorare i controlli di qualità, anche se il loro scopo reale era di incrementare le entrate. Concessero sussidi alle manufactures royales, sia per assicurare ai loro regi padroni merci di lusso sia per sviluppare nuove industrie. Per conseguire una bilancia commerciale favorevole crearono un sistema di proibizioni e di alti dazi protettivi. Ciò che distinse il regime di Colbert, oltre alla sua relativamente lunga permanenza nella posizione di luogotenente di Luigi XIV, fu il vigore die suoi sforzi e il fatto che ne fece oggetto di numerosi scritti. Uno dei principali obiettivi di Colbert era di rendere la Francia autosufficiente dal punto di vista economico. A questo fine promulgò, nel 1664, un sistema di dazi protettivi; quando ciò si rivelò insufficiente a migliorare la bilancia commerciale, riscorse, nel 1667, a tariffe ancora più elevate, virtualmente proibitive. Gli olandesi, che trasportavano una buona parte degli scambi commerciali della Francia, replicarono con provvedimenti altrettanto discriminatori. Questi atti di guerra commerciale contribuirono allo scoppio di un conflitto nel 1672, che terminò in una situazione di stallo, e con il trattato di pace che seguì, la Francia fu costretta a ritornare alle tariffe del 1664. Le misure prese da Colbert per disciplinare l’industria ebbero un rapporto meno diretto con l’obiettivo dell’autosufficienza. Egli emanò istruzioni dettagliate che abbracciavano ogni fase della manifattura di centinaia di prodotti. Colbert aggiunse a questa pratica non nuova corpi di ispettori e di giudici per sorvegliarne l’applicazione, il che accrebbe i costi di produzione. Sia i produttori che i consumatori opposero resistenza e cercarono di evadere i regolamenti, i quali, però, intralciarono il progresso tecnologico. L’Ordonnance du Commerce di Colbert (1673), che codificava il diritto commerciale, fu molto più benefica per l’economia. 42 Parte del grandioso disegno di Colbert era la creazione di un impero sui mari. I francesi avevano già stabilito, nella prima metà del XVII secolo, degli avamposti in Canada, nelle Indie occidentali e in India; tuttavia li avevano trascurati. Colbert soffocò le colonie in una quantità di regolamenti dettagliati e paternalistici. Creò società azionarie monopolistiche per gestire il commercio con le Indie orientali e occidentali, esse erano delle emanazioni governative in cui privati individui, compresi vari membri della famiglia reale e della nobiltà, erano stati indotti o obbligati a investire. Nell’arco di pochi anni erano tutte agonizzanti. Colbert (cattolico) appoggiava la limitata tolleranza assicurata agli ugonotti dall’Editto di Nantes. Dopo la sua morte, il suo successore si sottomise alla determinazione di Luigi di sradicare l’eresia protestante, che culminò nella revoca dell’editto nel 1685 e nella conseguente fuga di molti ugonotti verso climi più tolleranti. Ciò, combinato con la continuazione del soffocante paternalismo colbertiano e le disastrose guerre di Luigi, gettò la Francia in una grave crisi economica dalla quale non doveva emergere fino alla fine della Guerra di successione spagnola. 7. LA PRODIGIOSA ASCESA DEI PAESI BASSI Le scelte economiche olandesi furono diverse da quelle degli stati-nazione considerati, soprattutto per due ragioni: a) la struttura di governo della Repubblica olandese era diversa da quella delle monarchie assolute dell’Europa continentale b) l’economia olandese dipendeva dal commercio internazionale molto più di quelle dei più grandi vicini. L’Unione di Utrecht (1579) – il patto tra le sette province settentrionali che divennero poi i Paesi bassi Uniti o Repubblica olandese – fu una sorta di alleanza difensiva contro la Spagna. Gli Stati generali – l’organismo legislativo della repubblica – si interessavano esclusivamente di politica estera, e lasciavano la gestione degli affari interni agli stati provinciali e ai consigli cittadini. Tutte le decisioni dovevano essere raggiunte per accordo unanime, e ciascuna provincia disponeva di un voto. Gli stati provinciali erano dominati dalle maggiori città, queste erano governate dai consigli cittadini composti dall’oligarchia borghese della Repubblica Olandese. I membri di questo gruppo di governo, i «reggenti», cominciarono a provenire da una classe di rentiers composta da proprietari terrieri e possessori di titoli di stato. I reggenti discendevano solitamente da famiglie mercantili, si legavano a esse tramite matrimoni ed erano consapevoli e sensibili alle loro esigenze e richieste. Gli olandesi avevano affermato la loro supremazia commerciale all’inizio del Seicento, ed essa continuò a crescere fino alla metà del secolo. Alla base della superiorità commerciale olandese c’erano i «commerci madre», i traffici che collegavano i porti olandesi con quelli del Mare del Nord, del Baltico, del Golfo di Biscaglia e del Mediterraneo. Dal Baltico acquistavano cereali, legname e attrezzature navali da distribuire in tutta l’Europa occidentale e meridionale in cambio del vino e del sale del Portogallo e del Golfo di Biscaglia, dei manufatti olandesi, soprattutto tessili, e di aringhe. La pesca delle aringhe occupava un posto eccezionale nell’economia olandese: fino a ¼ della popolazione dipendeva da essa direttamente o indirettamente. Gli olandesi si erano specializzati nel trasporto di merci altrui, nonché nell’esportazione di aringhe, ma esportavano anche alcuni altri prodotti nazionali. L’agricoltura olandese era la più produttiva d’Europa e si concentrava sulle produzioni di maggiore valore, come burro, formaggio e colture industriali. I Paesi Bassi mancavano di risorse naturali come carbone e minerali, ma importavano materie prime e prodotti semilavorati, come i tessuti grezzi di lana inglesi, per riesportarli in forma finita. I Paesi Bassi settentrionali beneficiarono della libera immigrazione dalle altre regioni europee. Nel periodo successivo alla ribellione olandese, parecchi fiamminghi, brabantesi e valloni, in altissima percentuale mercanti e maestri artigiani, invasero le città del nord. La facilità con cui Amsterdam raggiunse la sua posizione di principale centro commerciale europeo fu in parte una conseguenza dell’afflusso di mercanti e finanzieri dalla decaduta Anversa, che portarono con sé la loro abilità di agire nel mercato dei capitali e una grande liquidità. Negli anni seguenti i Paesi Bassi continuarono a guadagnare capitale finanziario e umano per l’arrivo di profughi per motivi religiosi dai Paesi Bassi meridionali, di ebrei dalla Spagna e dal Portogallo e di ugonotti dalla Francia. Nei Paesi Bassi l’oligarchia mercantile riuscì a conservare sia la libertà religiosa sia economica per i cattolici, gli ebrei e i protestanti. Nei frequenti e più o meno continui conflitti del XVII secolo, gli olandesi insistettero sul loro diritto come neutrali di trasportare merci a tutti i belligeranti ed erano pronti a entrare in guerra per proteggere questo diritto. In linea generale, le città seguivano politiche di libero scambio. Non vi erano dazi che ostacolassero le esportazioni e le importazioni di materie prime e prodotti semilavorati, destinati a essere ulteriormente lavorati e riesportati; tariffe e tasse sui generi di prima necessità erano finalizzate all’ottenimento di entrate. Il commercio di metalli preziosi era del tutto libero. Amsterdam, con la sua banca, la borsa e la favorevole bilancia dei pagamenti, divenne in breve tempo l’emporio mondiale dell’oro e dell’argento. La libertà era la norma anche nell’industria; gran parte delle maggiori industrie operava del tutto al di fuori del sistema corporativo. Più restrittivi erano i regolamenti imposti dalle maggiori città ai distretti circostanti, che ostacolavano la crescita delle industrie rurali. L’eccezione all’assenza di regole nel commercio e nell’industria olandesi era il «Collegio della pesca» sanzionato dal governo, che disciplinava la pesca delle aringhe. Il Collegio concedeva a vascelli il controllo della quantità, e imponeva rigidi controlli di qualità per mantenere elevata la reputazione delle aringhe olandesi. Questa politica restrittiva diede generosi risultati finché gli olandesi riuscirono a conservare il quasi-monopolio sul mercato europeo, ma man mano che altri paesi adottarono la tecnologia olandese, essa contribuì alla stagnazione e poi alla decadenza del commercio delle aringhe, sintomo (e in parte causa) del declino dell’intera economia olandese. Là dove gli olandesi prendevano più nettamente le distanze dalla loro regola generale di libertà era nei confronti del loro impero coloniale. Gli Stati generali olandesi delegarono non solo il controllo del commercio ma anche i poteri del governo a società per azioni di proprietà privata, la Compagnia delle Indie orientali per l’Oceano Indiano e l’Indonesia, e la Compagnia delle Indie occidentali per la costa occidentale dell’Africa e l’America settentrionale e meridionale. Pur ufficialmente istituite all’inizio come imprese puramente commerciali, le compagnie scoprirono ben presto che per aver successo in quel campo, esse dovevano stabilire un controllo territoriale. Nella misura in cui riuscirono a ottenerlo esse si trasformarono in “stati nello stato”; conseguenza inevitabile fu il monopolio commerciale, sia nei confronti dei connazionali sia della concorrenza straniera. 8. LA MONARCHIA COSTITUZIONALE IN GRAN BRETAGNA Le strategie economiche dell’Inghilterra (e, dopo l’unione del parlamento scozzese e inglese nel 1707, della Gran Bretagna) erano diverse sia da quelle olandesi sia da quelle delle monarchie assolute del continente. Le caratteristiche generali delle politiche economiche inglesi e britanniche attraversarono una graduale evoluzione corrispondente all’evoluzione del governo costituzionale. Enrico VIII 81509-1547) fu per l’Inghilterra un monarca assoluto. L’assolutismo monarchico in Inghilterra culminò dopo il 1688 nell’istituzione di una monarchia costituzionale sotto controllo parlamentare. 45 2. «RIVOLUZIONE INDUSTRIALE»: UN’ESPRESSIONE EQUIVOCA Questa espressione è stata usata per oltre un secolo per a indicare quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione delle macchine a energia meccanica nell’industria tessile, l’innovazione della macchina a vapore di James Watt e il “trionfo” del sistema di fabbrica nel processo di produzione. Per analogia, l’espressione è stata applicata altresì agli esordi dell’industrializzazione in altri paesi, sebbene senza un accordo generale sulle date. Le prime descrizioni del fenomeno misero in risalto le «grandi invenzioni» e l’eccezionalità del cambiamento fu improvviso e violento. Le grandi invenzioni furono realizzate tutte in un lasso di tempo relativamente breve». Le prime interpretazioni mettevano altresì in evidenza le presunte conseguenze deleterie del nuovo modo di produzione. Sebbene venissero riconosciuti i progressi in termini di produttività per effetto dell’impiego di energia meccanica e delle macchine, nella maggior parte degli studi si sottolineava il lavoro infantile, il sostituirsi della macchina alle tradizionali abilità manuali e le condizioni insalubri delle nuove città industriali. Poiché la crescita economica moderna, caratterizzata da incrementi sostenuti del reddito pro capite, esordì solitamente negli altri paesi con l’industrializzazione, l’espressione «rivoluzione industriale» è conveniente per indicare il periodo in cui essa ebbe inizio. Molti studiosi hanno dedicato molti sforzi alla misurazione dei cambiamenti nella produzione industriale, nel reddito nazionale e nelle variabili collegate, scoprendo che tali cambiamenti furono tutti relativamente modesti. Fu solo attorno ai decenni centrali del XIX secolo, molto dopo gli estremi cronologici convenzionali della “rivoluzione”, che l’industria britannica cominciò ad assumere il suo carattere «moderno». Nonostante i tentativi di allungare o accorciare il tasso di tempo coperto dalla «rivoluzione», la datazione tradizionale ricevette l’autorizzazione da un’autorità: Thomas S. Ashton, il più famoso storico dell’economia britannica del XVIII secolo. Egli considerava i risultati di questo periodo un successo. Secondo Ashton «I cambiamenti non furono soltanto “industriali”, ma anche sociali e intellettuali. Il sistema di relazioni umane che alcuni chiamano capitalismo ebbe origine molto prima del 1760, e raggiunse il suo pieno sviluppo più tardi del 1830: c’è rischio di trascurare il fatto essenziale della continuità». 3. REQUISITI E FATTORI CONCOMITANTI DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE I cambiamenti non furono solo industriali, ma anche sociali, intellettuali, commerciali, agricoli e politici. I mutamenti intellettuali furono quelli più fondamentali, nel senso che resero possibili o favorirono gli altri. Nel Medioevo singoli individui avevano cominciato a considerare la possibilità pratica di imbrigliare le forze della natura. Le scoperte scientifiche realizzate in seguito da Copernico, Galileo, Cartesio e Newton rafforzarono queste idee. Bacone condusse alla fondazione nel 1660 della Royal Society «per l’approfondimento della conoscenza della natura». È nella seconda metà del XIX secolo, con l’affermazione delle scienze della chimica e dell’elettricità, che le teorie scientifiche divennero il fondamento dei nuovi procedimenti e delle nuove industrie. Già nel Seicento i metodi della scienza – osservazione e sperimentazione – venivano applicati a scopi utilitaristici. Uno degli aspetti più notevoli del progresso tecnico del XVIII secolo e dell’inizio del XIX fu la grande percentuale di grandi innovazioni realizzate da artigiani ingegnosi, meccanici e ingegneri autodidatti. Tuttavia, una propensione a sperimentare e innovare si diffuse in tutti gli strati della società, compresa la popolazione agricola, tradizionalmente la più conservatrice e diffidente nei confronti dell’innovazione. L’Inghilterra, che fu la prima nazione a industrializzarsi su grande scala, fu altresì una delle prime ad accrescere la propria produttività agricola. Alla fine del Seicento l’Inghilterra era già avanti a gran parte dell’Europa continentale in quanto a produttività dell’agricoltura. Il numero dei lavoratori agricoli continuò a crescere fino alla metà del XIX secolo, ma la loro consistenza percentuale diminuì progressivamente. Dopo la Morte Nera, per conservare salari reali elevati, era necessaria una produttività del lavoro altrettanto alta. L’Inghilterra accrebbe la produttività della propria agricoltura in gran parte grazie alla sperimentazione per tentativi di nuove colture e nuove rotazioni. L’innovazione agricola più importante prima dell’introduzione dell’agricoltura scientifica nel XIX secolo fu lo sviluppo dell’«agricoltura convertibile», che prevedeva l’alternanza di campi coltivati e pascoli temporanei in luogo di arativi e pascoli permanenti. Essa aveva il duplice vantaggio di ripristinare la fertilità del suolo con rotazioni più efficaci e di permettere l’allevamento di una quantità ingente di bestiame, con la conseguente disponibilità di maggiori quantità di letame per fertilizzare il terreno nonché di carne, prodotti caseari e lana. Molti proprietari terrieri e agricoltori sperimentarono inoltre l’allevamento selettivo del bestiame. Una condizione importante per il miglioramento delle rotazioni e l’allevamento selettivo fu la recinzione e il consolidamento dei campi. Le recinzioni avevano molti oppositori, in primo luogo i piccoli contadini e i braccianti che non avevano possedimenti nei campi aperti ma solo diritti consuetudinari a far pascolare uno o due capi di bestiame nel pascolo comune. Le recinzioni più note furono quelle realizzate sulla base di leggi parlamentari tra il 1760 e la fine delle Guerre napoleoniche. Le recinzioni effettuate in base a trattative private erano cosa comune fin dal Tardo Medioevo, e furono intense verso la fine del Seicento e i primi sei decenni del Settecento. A quell’epoca almeno metà della terra arabile inglese era stata recintata. Il nuovo paesaggio agricolo che prese il posto dei nuclei abitati circondati dai campi aperti consisteva di fattorie compatte, consolidate e recintate. Contemporaneamente ai processi di recinzione e di miglioramento tecnologico si sviluppò una tendenza graduale alla costituzione di unità più consistenti. Ciononostante, gli occupanti delle piccole fattorie superavano quelli delle altre. La ragione è che i piccoli agricoltori erano proprietari residenti che lavoravano la terra con l’aiuto della famiglia; gli agricoltori maggiori erano affittuari capitalisti che prendevano la terra in affitto per denaro e assoldavano lavoratori agricoli senza terra. In passato si pensava che le recinzioni avessero “spopolato” le campagne; in realtà, le nuove tecniche di coltivazione a esse associate accrebbero l’offerta di lavoro. Solo nella seconda metà del XIX secolo, con l’introduzione di macchine agricole quali le trebbiatrici, le mietitrici e gli aratri a vapore, la quantità di forza lavoro impiegata in agricoltura cominciò a diminuire in termini assoluti. Nel contempo, la crescente produttività dell’agricoltura inglese permetteva a quest’ultima di sostenere una popolazione sempre maggiore secondo standard nutritivi via via più elevati. Dal 1660 al 1760 essa produsse un surplus per l’esportazione, prima che il tasso di crescita demografica superasse quello di crescita della produttività. La relativamente prospera popolazione rurale, più specializzata e orientata al mercato rispetto ai contadini, rappresentava inoltre un buon mercato per i prodotti manifatturieri, dagli attrezzi agricoli a beni di consumo. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale di commercializzazione dell’intera nazione. Già alla fine del XVII secolo, il commercio estero inglese pro capite superava quello di tutti gli altri paesi a eccezione dell’Olanda, e Londra 46 aveva sviluppato un’organizzazione commerciale e finanziaria notevolmente sofisticata che stava cominciando a rivaleggiare con quella di Amsterdam. Tra il 1688 e il 1801, il peso relativo dell’agricoltura nel reddito nazionale scese, quello dell’industria mineraria, manifatturiera e delle costruzioni crebbe e quello del commercio e dei trasporti salì. Già nel XVI secolo, Londra aveva cominciato a svolgere la funzione di «polo di crescita» dell’economia inglese. I suoi vantaggi erano sia geografici che politici. La commercializzazione interagì con la nascente organizzazione finanziaria della nazione. Negli anni successivi alla Restaurazione del 1660 diversi grandi orefici londinesi cominciarono a svolgere le funzioni di banchieri. Rilasciavano ricevute di deposito che circolavano come banconote, e concedevano prestiti a imprenditori degni di credito. La fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694, con il suo monopolio legale nel settore delle banche a capitale azionario, costrinse i banchieri privati a rinunciare all’emissione di banconote, essi tuttavia continuarono a svolgere le funzioni di banche di deposito, accettando ordini di pagamento e scontando cambiali. La provincia era rimasta priva di formali infrastrutture bancarie, sebbene agenti d’affari (money scriveners), procuratori e ricchi grossisti svolgessero alcune delle più elementari funzioni di banca. La Banca d’Inghilterra non istituì filiali, e le sue banconote non circolavano fuori da Londra. La Zecca reale era estremamente inefficiente; il valore delle monete d’oro era troppo elevato perché queste potessero essere utilizzate per pagare i salari o nel commercio al dettaglio, mentre le monete d’argento o di rame da essa coniate erano insufficienti. Questa penuria di moneta spicciola incoraggiò l’iniziativa privata: industriali, mercanti e pubblicani rilasciavano titoli cartacei e metallici che supplivano alla mancanza di una circolazione monetaria locale. L’euforia suscitata dalla Gloriosa rivoluzione portò alla creazione, nell’ultimo decennio del Seicento, di numerose società per azioni, alcune delle quali per regio decreto e con la concessione di monopoli come la Banca d’Inghilterra. Un’euforia analoga investì il paese dopo la conclusione vittoriosa della Guerra di successione spagnola, e culminò con il boom finanziario speculativo noto come «Bolla dei Mari del Sud». L’episodio prese il nome della Compagnia dei Mari del Sud, istituita per decreto nel 1711 con il monopolio nominale dei traffici con l’Impero spagnolo, sebbene la vera ragione della sua creazione fosse quella di raccogliere denaro per conto del governo per finanziare la prosecuzione del conflitto. La Bolla dei Mari del Sud scoppiò nell’ottobre 1720 allorché gli investitori compresero che le azioni della compagnia erano sopravvalutate e che esistevano altre opportunità di investimento sia in Inghilterra sia in Europa. Nel 1720 il Bubble Act proibì la costituzione di società per azioni senza l’espressa autorizzazione del parlamento, il quale si rivelò riluttante ad accordare autorizzazioni se non a compagnie che mirassero a realizzare infrastrutture pubbliche. Le industrie manifatturiere, il cuore della «rivoluzione industriale» inglese, furono limitate da quel momento alla forma giuridica di proprietà individuali o società di persone. Benché alcune potessero raggiungere ragguardevoli dimensioni, nessuna era paragonabile alle grandi società di capitali che furono rese possibili solo con le leggi approvate a metà del XIX secolo. Tuttavia gli investimenti infrastrutturali intrapresi dalle società effettivamente autorizzate moltiplicarono progressivamente le opportunità di mercato sia nel commercio sia nella manifattura. Un’altra importante conseguenza della Gloriosa rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del regno sotto lo stretto controllo del parlamento, il che ridusse notevolmente il peso del debito pubblico e conseguentemente rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Poiché gran parte delle entrate fiscali necessarie per pagare gli interessi sul debito governativo proveniva dalle accise sui beni di consumo che colpivano soprattutto i gruppi a basso reddito, i gruppi ad alto reddito che riscuotevano gli interessi avevano anche più capitali da investire. Il governò continuò a emettere quantità sempre più ingenti di obbligazioni a lunga scadenza per finanziare le sue guerre ricorrenti e poi, anziché rimborsarle, si limitò a consolidare la maggior parte del debito accumulato in obbligazioni senza scadenza al 3%. Tale forma di obbligazione rimase la quota principale del debito nazionale britannico per tutte le guerre del XX secolo. Le nuove emissioni rappresentarono da un lato un’opportunità per gli investitori stranieri nei periodi in cui la Gran Bretagna combatté le sue guerre vittoriose, dall’altro anche una garanzia universalmente accettata per quegli imprenditori britannici che intendessero contrarre prestiti per espandere le proprie attività. Il movimento di grosse quantità di beni voluminosi e di poco valore (cereali, legname da costruzione, carbone e minerali) richiedeva un sistema di trasporto affidabile e a buon mercato. Prima dell’era delle ferrovie le vie d’acqua rappresentavano le arterie più economiche ed efficienti. La Gran Bretagna dovette buona parte della sua precoce prosperità e la sua posizione di capofila nell’industria moderna alla sua natura insulare, che le assicurava una protezione contro gli sconvolgimenti e le distruzioni delle guerre continentali, ma anche un mezzo di trasporto a buon mercato. Nonostante i vantaggi naturali della Gran Bretagna, la domanda di migliori servizi di trasporto crebbe a ritmo spedito. Gli anni cinquanta del XVIII secolo videro l’affermazione dell’età dei canali, con la costruzione di vie d’acqua interne che collegavano tra loro fiumi navigabili o le miniere con i loro mercati. Attraverso questi canali e fiumi navigabili, tutti i maggiori centri di produzione e di consumo furono messi in comunicazione tra loro e con i porti più importanti. Le iniziative di canalizzazione furono organizzate sotto forma di società private a scopo di lucro istituite per legge, che riscuotevano pedaggi dai conducenti di barche e chiatte e in qualche caso fornivano a nolo una propria flotta di chiatte. La rete britannica di canali e fiumi navigabili era estremamente efficiente per l’epoca, tuttavia non soddisfaceva appieno la domanda di trasporti interni. Tradizionalmente, la manutenzione delle strade era compito delle parrocchie, che si avvalevano del lavoro forzato degli abitanti del luogo, infatti le condizioni delle strade erano deplorevoli. A partire dall’ultimo decennio del Seicento, il parlamento creò società il cui compito era di costruire e curare la manutenzione di buone strade i cui utenti erano tenuti al pagamento di un pedaggio. Queste compagnie nascevano su iniziativa di proprietari terrieri del luogo, agricoltori, commercianti e industriali, che ne divenivano poi gli amministratori, desiderosi di alleggerire i propri oneri tributari per la manutenzione delle strade parrocchiali e di migliorare l’accesso ai mercati. Sebbene le strade a pedaggio fossero per la maggior parte relativamente corte, molte erano collegate tra loro, e finirono con il formare una rete molto fitta. Gli anni cinquanta e sessanta del XVIII secolo videro il culmine della loro costruzione. Nel 1836 le ferrovie avevano già cominciato a rendere obsoleti sia queste strade che i canali. 4. TECNOLOGIA INDUSTRIALE E INNOVAZIONE Negli ultimi due decenni del XVIII secolo ci fu una rapida meccanizzazione e la crescita dell’industria cotoniera. Quasi un secolo prima, erano state realizzate altre due innovazioni che ebbero un impatto più fondamentale sull’industrializzazione. Si tratta del procedimento di fusione del metallo con il carbon coke – che liberò l’industria siderurgica dalla dipendenza dal carbone di legna – e l’invenzione della macchina a vapore atmosferica – che rimpiazzò come fonte inanimata di energia i mulini a vento e ad acqua. Il carbon coke, inventato nel 1709 – si diffuse solo lentamente. La continua crescita del prezzo del carbone di legna dopo il 1750, accompagnata da innovazioni, liberò la produzione del ferro dalla dipendenza dal carbone di legna. I proprietari delle ferriere ottennero delle economie di scala concentrando tutte le operazioni del procedimento per il coke in un unico luogo, di solito in corrispondenza o nelle vicinanze di giacimenti di carbon fossile, e sia la produzione totale di ferro sia la percentuale di esso ottenuta con l’impiego di 47 combustibile fossile crebbero in maniera spettacolare. Alla fine del secolo, la Gran Bretagna era divenuta un esportatore netto di ferro e di prodotti ferrosi. Il vapore fu utilizzato per la prima volta nell’industria mineraria. Espandendosi la domanda di carbon fossile e metalli, si intensificarono gli sforzi per estrarli da miniere sempre più profonde, il cui problema erano le inondazioni. Nel 1698, un ufficiale dell’esercito ottenne il brevetto per una pompa a vapore, ma l’apparecchio aveva diversi difetti pratici. Newcomen, un mercante di ferramenta e calderaio che conosceva i problemi dell’industria estrattiva, decise di porre rimedio a questi difetti procedendo per tentativi, e nel 1712 riuscì a costruire la sua prima pompa a vapore atmosferica. La macchina di Newcomen era molto grande (richiedeva un edificio separato per contenerla), ingombrante e costosa; era però anche efficace, se non efficiente dal punto di vista termico. Erano impiegate per lo più nelle miniere di carbone, dove il combustibile era a buon mercato, ma anche in altre industrie estrattive. Il maggior difetto della macchina di Newcomen era il suo elevato consumo di combustibile in rapporto al lavoro prodotto. Negli anni sessanta a James Watt, un tecnico di laboratorio dell’Università di Glasgow, venne richiesto di riparare un modello della macchina di Newcomen, usato per scopi dimostrativi. Watt cominciò a fare esperimenti con l’apparecchio; nel 1769 brevettò un condensatore separato, che eliminava la necessità di ricorrere al riscaldamento e raffreddamento alternato del cilindro. Molti problemi tecnici affliggevano ancora la macchina, e ciò ne ritardò per diversi anni l’utilizzazione pratica. Nel frattempo Watt formò una società e nel 1775 cominciò la produzione commerciale di macchine a vapore. La maggior parte delle prime macchine realizzate venne impiegata per pompare via l’acqua dalle miniere. Watt realizzò altri miglioramenti che permisero nuove possibilità applicative, come la macinatura del grano e la filatura del cotone. Le industrie tessili erano già giunte alla ribalta nell’era «preindustriale» britannica con il sistema della produzione a domicilio. La manifattura di articoli di lana, e di lana pettinata, era il settore più importante. L’industria della seta, introdotta nei primi decenni del XVIII secolo, vantava fabbriche e macchine mosse dall’energia idraulica; la domanda di seta era però limitata dall’alto costo e dalla concorrenza continentale. La manifattura dei tessuti di cotone, come quella della seta, era per la Gran Bretagna un’industria relativamente nuova. Introdotta nel Lancashire nel XVII secolo, fu incoraggiata dalle leggi sul calicò promulgate nel primo Settecento. Per la sua novità, la manifattura del cotone era meno soggetta delle altre industrie a una legislazione repressiva, alle regole corporative e alle pratiche tradizionali che ostacolavano i cambiamenti tecnici. Nel 1733, un meccanico inventò la navetta volante, che permetteva a un singolo tessitore di svolgere il lavoro di due, con una crescita conseguente della domanda di filato. Nell’arco di pochi anni furono inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica. Il primo di essi, inventato nel 1764 ma non brevettato fino al1770, fu la «jenny», una ruota per filare con una batteria di fusi. Non richiedeva energia meccanica e poteva essere fatta funzionare nell’abitazione del filatore, ma permetteva a una persona di svolgere il lavoro di molti. Il filatoio idraulico, una macchina filatrice inventata nel 1769, era azionato dall’energia idraulica, pesante e costoso e condusse al sistema di fabbrica sul modello dell’industria della seta. Poiché era l’energia fornita dall’acqua a muovere i macchinari, la maggior parte della forza lavoro consisteva di donne e bambini, meno costosi e più arrendevoli. La più importante delle innovazioni nel campo della filatura fu la «mula», che combinava elementi della jenny e del filatoio idraulico. Non fu mai brevettata, ma era in grado di produrre un filatoio più sottile e più resistente. Dopo essere stata adattata al vapore, divenne lo strumento favorito nella filatura di cotone. Permise l’impiego su larga scala di donne e bambini; ma, a differenza del filatoio, favorì la costruzione di enormi fabbriche in città dove il carbon fossile era a buon mercato e la manodopera abbondante. Nel 1785 Edmund Cartwright brevettò un telaio meccanico. Molti problemi ostacolarono il progresso della tessitura meccanica, e non fu che negli anni venti del XIX secolo, con la costruzione di un telaio meccanico perfezionato, che le macchine cominciarono a sostituire in modo massiccio i tessitori manuali. Le innovazioni tecniche furono accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone. Poiché la Gran Bretagna non aveva cotone proprio, lo importava inizialmente dall’India e dal Levante, ma la loro produzione non aumentò in modo sufficientemente rapido da soddisfare la domanda crescente. Si cominciò a produrre cotone nelle isole caraibiche britanniche e negli stati americani del Sud, ma l’alto costo della separazione manuale dei semi dalla fibra corta del cotone americano scoraggiò la produzione di cotone fino a quando Withney non inventò una sgranatrice meccanica e grazie ad essa gli Stati Uniti del Sud divennero il maggior fornitore di materia prima per quella che divenne la più importante industria britannica. Le innovazioni nella filatura e nella tessitura, insieme alla sgranatrice, furono le più importanti ma non le uniche innovazioni nell’industria cotoniera. Fu introdotta una serie di perfezionamenti in tutte le fasi della produzione. Con la caduta dei costi di produzione e l’aumento della produzione, una notevole e crescente percentuale del prodotto fu esportata; nel 1803 il valore delle esportazioni di cotone superò quello della lana, e almeno metà della produzione cotoniera era destinata ai mercati esteri. I drastici ribassi del prezzo dei prodotti di cotone ebbero riflessi sulla domanda di tessuti di lana e di lino, e fornirono insieme sia un incentivo all’innovazione tecnica sia un modello di innovazione. Queste due industrie erano appesantite dalla tradizione e dalle regolamentazioni, mentre le caratteristiche fisiche della materia prima le rendevano più difficili da meccanizzare. La loro piena trasformazione si verificò nella seconda metà dell’Ottocento. Le innovazioni tecniche concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della forza a vapore costituiscono il nocciolo della prima industrializzazione britannica. Mentre Watt stava perfezionando la sua macchina a vapore, Adam Smith scriveva nella Ricchezza delle nazioni dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di spilli attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro. Sotto taluni aspetti, la fabbrica di spilli di Smith può essere considerata un simbolo delle molte industrie impegnate nella produzione di beni di consumo. Un’altra industria rappresentativa fu la manifattura delle stoviglie. L’introduzione della porcellana fine dalla Cina diffuse tra i ricchi la moda di sostituire con essa il vasellame d’oro e d’argento e fornì un modello per articoli di utilità più immediata. La crescente popolarità del tè e del caffè e la crescita dei redditi delle classi medie, spinse queste ultime a sostituire a vasi e stoviglie di legno porcellane di produzione nazionale. Il prezzo crescente del carbone di legna spinse l’industria del vasellame a spostarsi in aree ricche di carbon fossile. Lo Staffordshire, dove centinaia di piccoli proprietari producevano per il mercato nazionale, divenne il luogo di maggiore concentrazione dell’industria. Nella maggior parte dei casi, questi piccoli proprietari ricorrevano, per aumentare la produttività, a una divisione del lavoro molto spinta, ma alcuni dei più innovatori arrivarono a impiegare macchine a vapore per frantumare e mescolare le materie prime. Un significativo processo di espansione e diversificazione ebbe luogo anche nell’industria chimica. Alcuni dei miglioramenti furono una conseguenza dei progressi della chimica. La maggior parte dei progressi dell’industria furono però un effetto degli esperimenti empirici 50 di industrializzazione sempre più in direzione dei prodotti del ferro e dell’acciaio anziché dei tessili e dei ceramici. Con la Gran Bretagna impegnata a emergere come potenza, mentre Napoleone estendeva il dominio della Francia sul continente europeo, le guerre sottoposero alla prova più dura le nuove industrie britanniche e coinvolsero anche altre regioni del mondo, in particolare gli imperi marittimi spagnolo e portoghese e gli imperi asiatici inglese e olandese. Il successo militare favorì i britannici (i quali, pur non riuscendo a impedire che il Mississippi cadesse sotto il controllo degli Stati Uniti, impedirono a questi ultimi di conquistare il Canada nel 1812), grazie alla loro superiore capacità economica di equipaggiare e rifornire eserciti e flotte, frutto della loro precedente industrializzazione. L’interrogativo su quali fossero le cause fondamentali del successo economico britannico (cioè la rivoluzione industriale), e come esse potessero efficacemente imitate dagli altri paesi, assillò i governi europei fino allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. 1. DIVERGENZA INIZIALE GLOBALE E SUCCESSIVA CONVERGENZA Angus Maddison, impressionato dalla rapida e regolare crescita economica dei paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, si mise a capo di un movimento internazionale per la misurazione degli episodi storici di crescita del reddito pro capite in tutto il mondo. Nel periodo 1820-1914, Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Germania detenevano redditi pro capite tra i più elevati al mondo, persino nel 1820 dopo decenni di guerre, ma la Gran Bretagna aveva raggiunto livelli di benessere economico senza precedenti ed era destinata a mantenerli e a migliorarli fino al 1850. Dopo il 1850, il reddito pro capite del Regno Unito continuò a crescere più che raddoppiandosi alla vigilia della Prima guerra mondiale. Benché anche in Francia e Germania il reddito pro capite cominciasse a crescere regolarmente dopo il 1850, lo scarto rispetto al Regno Unito si allargò in termini assoluti. Nel frattempo, la progressiva espansione degli Stati Uniti nella parte centrale del Nord America, che diffondeva nel suo cammino l’industrializzazione e un’agricoltura a elevata efficienza, permise al reddito pro capite statunitense di eguagliare il livello britannico nei primi anni del XX secolo. Era arrivata l’era della crescita economica moderna, caratterizzata da aumenti sostenuti del reddito pro capite combinati con una dimensione stabile o crescente della popolazione. Dopo il 1850, piccoli paesi dell’Europa nordoccidentale, in particolare, furono in grado di imitare il successo della Francia e della Germania. La Svizzera smentì qualsiasi preconcetto riguardo a quanto fosse necessario per creare la prosperità economica. Questo paese politicamente diviso e geograficamente confinato, con una popolazione che parlava quattro lingue diverse, riuscì, alla vigilia della Prima guerra mondiale, a superare in fatto di reddito pro capite tutti i vicini e gli Stati Uniti. Il successo dell’economia dei paesi del Nord Atlantico nel suo complesso è più notevole se lo si paragona al resto del mondo. Una «Grande divergenza» divenne sempre più evidente tra il Nord Atlantico e gli altri grandi centri della civiltà umana. Nel periodo in cui i Paesi Bassi godettero del reddito pro capite più elevato al mondo, tra il 1650 e il 1750, i grandi imperi asiatici (Cina, India e Giappone) erano a malapena riusciti a mantenere i rispettivi livelli, mentre pativano gli effetti del cambiamento climatico, di conflitti diffusi e, nel caso indiano, di una crescita demografica. Tutte le economie asiatiche cominciarono l’era moderna con redditi pro capite pari a circa la metà di quelli conseguiti dalle aree più urbanizzate d’Europa. La «Grande divergenza» si verificò prima dell’affermazione dell’industria in Gran Bretagna e della sua successiva diffusione in tutto il Nord Atlantico. E nel corso dei secoli seguenti, la divergenza iniziale si approfondì ulteriormente, in quanto solo il Giappone riuscì a incrementare il reddito pro capite ma solo lentamente e tenendo bassi i livelli demografici fin quando non cominciò ad adottare tecnologie e istituzioni alla maniera occidentale dopo il 1850. Alla base della Grande divergenza, molto netta fino alla Prima guerra mondiale e continua ancora oggi, vi erano trasformazioni strutturali riguardo a come e dove le persone vivevano e alle condizioni in cui conducevano la vita e il lavoro. Le trasformazioni coinvolsero tutti. 2. POPOLAZIONE Dopo la diminuzione da un massimo nel 1620 a un minimo nel 1650, la popolazione europea ricominciò a crescere prima con lentezza, poi con una velocità crescente fino al XX secolo. Nel 1800 essa era arrivata a poco più di circa 1/5 della popolazione mondiale. Nel XIX secolo la crescita demografica europea accelerò. La popolazione continuò ad aumentare nel XX secolo, ma il tasso di crescita europeo conobbe una leggera diminuzione, mentre quello del resto del mondo aumentò. Simili tassi di crescita, sia in Europa sia nel resto del mondo, non avevano precedenti. Se si eccettuano fluttuazioni a breve termine (talvolta violente, come nel periodo della Morte Nera), la popolazione mondiale era raddoppiata più o meno ogni 1.000 anni a partire dall’invenzione dell’agricoltura sino alla fine del XVIII secolo. Nel XIX secolo la popolazione europea raddoppiò in meno di 100 anni, e nel XX il mondo nel suo complesso ha superato anche questo elevato ritmo di crescita. Nel XIX secolo la Gran Bretagna e la Germania, i due più importanti paesi industriali d’Europa, ebbero tassi d’incremento superiori all’1% annuo. La Russia, uno dei paesi più industrializzati d’Europa, ebbe il tasso d’incremento più elevato tra i grandi paesi europei: una media di circa il 2% per tutto il secolo. La Francia, altro grande paese industriale, che all’inizio dell’Ottocento aveva la popolazione più numerosa di tutta l’Europa occidentale, nell’intero secolo il suo tasso d’incremento fu in media di appena lo 0,4% annuo. Non esiste una chiara correlazione tra industrializzazione e crescita demografica, quindi bisogna ricercare altri fattori causali. Prima dei miglioramenti dei trasporti che permisero l’importazione su larga scala di generi alimentari dagli altri continenti nell’ultimo quarto del XIX secolo, uno dei maggiori limiti alla crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola crebbe enormemente nel corso del secolo per due ragioni: a) fu estesa la superficie di terra coltivata. Fenomeno particolarmente importante per la Russia, che disponeva di vaste distese di terra disabitata, ma anche in altre regioni dell’Europa orientale e in Svezia. Nella stessa Europa occidentale, l’abolizione del maggese e la coltivazione di terreni una volta marginali o incolti aumentò la disponibilità di terra b) la produttività agricola (prodotto per addetto) aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche più scientifiche. Una migliore conoscenza della chimica del suolo e un uso più intenso dei fertilizzanti, prima naturali poi artificiali, fece salire la resa dei terreni comuni e rese possibile la coltivazione di terreni poco fertili. La diminuzione del prezzo del ferro favorì l’uso di attrezzi e strumenti migliori e più efficienti. Nella seconda metà del secolo fecero il loro debutto macchine agricole come trebbiatrici a vapore e mietitrici meccaniche. Il basso prezzo dei trasporti facilitò i movimenti migratori della popolazione. Come in Gran Bretagna, l’emigrazione era di due tipi: interna e internazionale. Le Isole britanniche fornirono il numero maggiore di emigranti; essi furono molto numerosi anche dalla Germania, dai paesi scandinavi e, dopo il 1890 circa, dall’Italia, dall’Austria-Ungheria e dall’Impero russo. Cospicua fu anche l’emigrazione interna europea. 51 Le migrazioni furono per la maggior parte volontarie, a eccezione di delinquenti e deportati politici. Talvolta, gli emigranti cercavano di sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita migliore all’estero. Paesi d’oltreoceano nuovi e pressoché disabitati, come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda, attirarono un flusso interrotto di immigranti, in special modo dalle Isole britanniche. Un numero relativamente elevato di italiani e tedeschi emigrò in quelli che divennero i paesi economicamente più progrediti del Sud America. L’emigrazione interna fu ancora più fondamentale per il processo di sviluppo economico ottocentesco. In tutti i paesi si verificarono importanti variazioni regionali nella concentrazione della popolazione, ma il mutamento più fondamentale fu la crescita della popolazione urbana, sia in assoluto sia come percentuale della popolazione totale. All’inizio del XIX secolo, l’Inghilterra era già la nazione più urbanizzata, circa il 30% della popolazione totale. Anche i Paesi Bassi avevano una lunga tradizione urbana simile a quella della Gran Bretagna. L’Italia, essa pure con una lunga tradizione urbana, aveva assistito allo spopolamento delle maggiori città all’inizio dell’era moderna, e nei primi decenni del XIX secolo la popolazione urbana ammontava a non oltre ¼ o 1/5 del totale. Percentuali analoghe si registravano in Francia e nella Germania occidentale, mentre nella maggior parte del resto d’Europa, come nel resto del mondo, la popolazione urbana rappresentava non più del 10% del totale. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette a un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Anche in questo la nazione guida fu la Gran Bretagna. Nel 1850 oltre metà della popolazione britannica viveva in città e cittadine, e nel 1900 la proporzione aveva raggiunto i 3/4 . A quell’epoca gran parte degli altri paesi industriali era urbanizzata almeno al 50%, e persino i paesi prevalentemente agrari mostravano una forte tendenza all’urbanizzazione. La popolazione dei paesi industriali viveva nelle città e preferiva quelle più grandi. Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. Storicamente, la principale limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di rifornire grandi masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria moderna non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di carattere economico richiedevano la crescita delle città. Nelle società preindustriali gran parte della popolazione anche non impegnata in occupazioni agricole viveva in aree rurali. Era più conveniente trasportare i prodotti finiti dell’industria, come i tessili e il ferro, a mercati lontani che non portare il cibo e le materie prime a concentratori di lavoratori. L’introduzione del vapore come fonte di energia e del sistema di fabbrica, la transizione dal carbone di legna al coke come combustibile per l’industria siderurgica e i miglioramenti nei trasporti e nelle comunicazioni cambiarono la situazione. L’affermazione del sistema di fabbrica impose una concentrazione della forza lavoro. A causa della nuova importanza del carbon fossile, alcuni dei maggiori centri industriali sorsero in corrispondenza o in prossimità di giacimenti di carbone. Le risorse sono state molto importanti nella moderna crescita economica. 3. AGRICOLTURA Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatisi nel XIX secolo, fu la diminuzione del peso relativo del settore agricolo. Presupposto di tale declino relativo furono i progressi nella produttività agricola: la capacità di una società di elevare i propri standard di consumo al di sopra di un mero livello di sussistenza e di trasferire una parte significativa della forza lavoro in altre attività potenzialmente più produttive dipende da un preliminare aumento della produttività agricola. Un incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in cinque modi potenziali: 1) Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione (forza lavoro) in grado di dedicarsi a occupazioni non agricole. 2) Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostentare la popolazione non agricola. 3) La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie manifatturiere e dei servizi. 4) Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale il settore agricolo può fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura. 5) Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. Perché una società si sviluppi economicamente, lo sviluppo economico può avvenire con il contributo dell’agricoltura in almeno 2 o 3 dei punti sopra citati, e perché ciò accada è necessario che aumenti la produttività agricola. All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era la più produttiva d’Europa. Questo dato ebbe uno stretto rapporto con la posizione di avanguardia della Gran Bretagna nello sviluppo del sistema industriale. La popolazione agricola, pur continuando a crescere fino alla metà del secolo, offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. L’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e di alcune materie prime. Nella prima metà del XVIII secolo aveva prodotto un surplus di cereali per l’esportazione; ciò non accadeva più dal 1760, ma gli agricoltori britannici avevano continuato a soddisfare gran parte del fabbisogno alimentare nazionale, anche dopo l’abrogazione delle leggi sul grano. Quello tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu il grande periodo dell’agricoltura, allorché l’agricoltura britannica raggiunse, contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura superiore all’introduzione, in epoca precedente, della coltura a rotazione e delle tecniche a essa associate. Dopo il 1873 circa, con l’afflusso sempre più massiccio di grano americano a basso prezzo, gli agricoltori britannici ridussero l’area coltivata a frumento, mentre molti si volsero alla produzione di carne e latticini, prodotti a più alto valore aggiunto, impiegando spesso per l’alimentazione del bestiame il grano importato. Il settore agricolo costituì inoltre un buon mercato per l’industria britannica. Prima della metà dell’Ottocento, la popolazione rurale del paese rappresentò per gran parte delle industrie un mercato migliore di quello dei paesi esteri. Sebbene fossero rari i casi di proventi dell’attività agricola investiti nell’industria (tranne che nell’industria del carbone), la ricchezza prodotta dalla terra contribuì alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso, l’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu diverso da quello che essa ebbe in Gran Bretagna e variò da regione a regione. In generale vi fu una correlazione piuttosto stretta tra produttività agricola e successo dell’industrializzazione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Fondamentalmente, una riforma agraria implica un mutamento del sistema di possesso fondiario. Il movimento delle recinzioni in Inghilterra, che diede come risultato la formazione di unità agricole relativamente estese e compatte in luogo del sistema dei campi aperti, può essere considerato un tipo di riforma agraria. Una riforma fondiaria di tipo differente fu quella della Rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccole fattorie. Riforme simili a quella francese furono imposte in alcuni territori occupati dai francesi. Le riforme prussiane degli anni 1807 e seguenti, pur emancipando i 52 servizi, obbligarono questi ultimi a cedere gran parte della terra da essi precedentemente coltivata ai vecchi padroni, determinando la formazione di proprietà ancora più estese. La Svezia e la Danimarca abolirono il servaggio nella seconda metà del XVIII secolo e istituirono dei movimenti per la recinzione dai quali, alla metà dell’Ottocento, era sorta una classe di grandi proprietari contadini. Altrove, la riforma agraria ebbe effetti meno felici. Nella monarchia asburgica Giuseppe II tentò negli anni ottanta del XVIII secolo di alleviare il fardello che gravava sulla classe contadina, con risultati deludenti. In Spagna e in Italia tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei governi e furono disattesi nei fatti. Effetti meno felici vennero riscontrati anche in Serbia e Bulgaria, Stati balcanici, Grecia e Romania, in quanto nessuno di questi sistemi si dimostrò proprio al conseguimento di un’elevata produttività agricola. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma agraria nell’arco di due successive generazioni. L’emancipazione dei servi – decretata nel 1861 – non mutò alla base la struttura dell’agricoltura russa. Gli ex servi appartenevano obbligatoriamente alla comune contadina, il mir; per lasciarla erano tenuti a munirsi di uno speciale passaporto, ma anche in questo caso di partenza essi erano ancora tenuti al pagamento della loro quota di imposte e di rate di riscatto. Le tecniche rimasero immutate, e le strisce di terreno coltivabile venivano periodicamente redistribuite tra le famiglie per tenere conto delle variazioni nella dimensione delle medesime. La produttività rimase bassa e le agitazioni agricole si moltiplicarono. Sull’onda della rivoluzione del 1905-1906, il governo abolì i residui pagamenti di riscatto e approvò la «Riforma Stolypin», che favoriva la proprietà privata della terra e il consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti. Questo fece sì che la produttività dell’agricoltura russa cominciasse a crescere; il paese fu però travolto dalla guerra e dalla rivoluzione. La Francia era patria della piccola proprietà contadina e possedeva molte aziende agricole moderne. Nel 1882, esistevano appezzamenti con un’estensione inferiore ai 10 ettari. Gli appezzamenti più piccoli erano localizzati soprattutto nelle regioni meno fertili del sud e dell’ovest. I poderi più grandi erano situati soprattutto sulle terre più fertili del nord e dell’est. Queste prospere aziende agricole producevano un’eccedenza commerciabile sufficiente a sostentare la crescente popolazione urbana a livelli nutritivi via via crescenti. Inoltre, molti figli di agricoltori abbandonarono l’agricoltura per altri impieghi. Sembra che una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovasse sbocco in investimenti industriali, o nella realizzazione di infrastrutture. L’industria vinicola era una delle voci principali delle esportazioni. In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. In Svizzera, gli agricoltori aumentarono nel 1850, per poi diminuire nel 1915; la diminuzione in termini relativi della forza lavoro passò da un 60% (all’inizio del XIX) a un 25% nel 1915. Ci fu un’evoluzione analoga nei Paesi Bassi e in Belgio. Una grande varietà caratterizzava la condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi e, in seguito, nel nuovo impero. A sud-ovest erano numerosi i piccoli proprietari contadini. A nord e a est c’erano le grandi tenute coltivate dai braccianti. Tradizionalmente, questi estesi possedimenti erano stati esportatori di cereali in Europa occidentale almeno dal Quattrocento. Essi mantennero questo ruolo anche nel XIX secolo, fino al momento in cui le massicce importazioni di grano americano e russo spinsero i prezzi al ribasso e determinarono il ritorno al protezionismo. A quell’epoca la popolazione tedesca era talmente cresciuta che non esisteva più un’eccedenza esportabile. Infatti, nell’ultimo decennio del XIX secolo la Germania importava circa il 10% del proprio fabbisogno di cereali. L’emancipazione dei servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti immediati. Ma, con la crescita graduale della popolazione e il rapido aumento della domanda di lavoro in Renania a partire da metà secolo, la popolazione fu ridistribuita da oriente a occidente. La forza lavoro agricola continuò a crescere in valore assoluto fino al 1914 ma, in rapporto alla forza lavoro totale, diminuì dal 56% di metà secolo al 35% scarso del 1914 In Danimarca, Svezia e Norvegia (Paesi scandinavi) il settore primario assicurò sia la quasi totalità dell’approvvigionamento alimentare sia l’accresciuta disponibilità di manodopera per gli altri settori. Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo stato, all’accumulazione di capitali attraverso l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu attraverso le esportazioni. La Svezia esportava legname e avena e poi carne e latticini; la Norvegia esportava legname ma la pesca era più importante. La quasi totalità delle esportazioni danesi consisteva di prodotti agricoli ad alto valore aggiunto. La Finlandia, sottoposta allo zar di Russia come granducato, non registrò alcun mutamento strutturale significativo nel corso del XIX secolo. Rimase un paese prevalentemente agricolo, con un’agricoltura poco produttiva e bassi redditi medi. La voce più importante nelle sue esportazioni era il legname, a cui si aggiunse verso la fine del secolo la cellulosa. La monarchia asburgica era contrassegnata da varianti regionali. All’inizio del XIX secolo i ¾ circa della forza lavoro nella metà austriaca dell’impero si dedicavano ad attività agricole, e la proporzione era ancora più elevata nella metà ungherese. La crescita della produzione agricola, sia totale sia per unità di lavoro, fu soddisfacente per tutto il secolo in entrambe le metà dell’impero. La metà ungherese dell’impero “esportava” prodotti agricoli, in particolare frumento e farina, nella metà austriaca in cambio di manufatti e anche di investimenti. Il fallimento dell’impero nel suo complesso nello sviluppo di esportazioni agricole consistenti può essere attribuito a due fattori: 1) le difficoltà di trasporto 2) il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. La Spagna, il Portogallo e l’Italia, non beneficiarono nel XIX secolo di una vera e propria riforma agraria. Con oltre metà della popolazione impiegata in agricoltura ancora all’inizio del XX secolo, la produttività e il reddito rimanevano tra i più bassi d’Europa. Sebbene tutti e quattro i paesi esportassero frutta e vino, rimasero in parte dipendenti dalle importazioni per l’approvvigionamento di cereali per l’alimentazione. I piccoli paesi dell’Europa sudorientale rimasero impantanati in un’agricoltura arretrata e improduttiva, che non apriva mercati all’industria né assicurava un’eccedenza di generi alimentari, materie prime o lavoro per i mercati urbani. Essa era comunque in grado di produrre piccole eccedenze esportabili. Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della Prima guerra mondiale, a grande prevalenza rurale e agraria. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostentare il popolo russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la spinta all’industrializzazione che si dispiegò alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo di industrializzazione statunitense e nell’ascesa degli Stati Uniti al rango di prima potenza economica mondiale. Fin dal periodo coloniale l’agricoltura forniva commestibili e materie prime necessari alla popolazione non agricola, essa forniva anche la maggior parte delle esportazioni statunitensi. Le colonie meridionali mandavano in Europa tabacco, riso e indaco in cambio dei manufatti. Il New England e le colonie centrali scambiavano pesce, farina e altri generi commestibili con lo 55 successivamente utilizzate per il riscaldamento domestico e industriale, in concorrenza con il carbon fossile e altre tradizionali fonti d’energia. Le frazioni più leggere e volatili, nafta e benzina, furono considerate a lungo sostanze pericolose. Nel frattempo parecchi inventori e ingegneri, tra cui i tedeschi N. Otto, Karl Benz e G. Daimler, stavano sperimentando dei motori a combustione interna. Nel 1900 ne esistevano diversi tipi, che usavano come carburante uno dei vari distillati del petrolio liquido. L’applicazione di gran lunga più importante del motore a combustione interna fu nel settore dei mezzi di trasporto leggeri (auto, autocarri a motore, autobus); nelle mani di imprenditori come i francesi Peugeot, Renault e Citroën, l’inglese Morris e l’americano Ford, esso diede origine a una delle maggiori industrie del XX secolo. Il motore a combustione interna conobbe anche usi industriali, e nel XX secolo rese possibile lo sviluppo dell’industria aeronautica. 5.2 Acciaio a buon mercato L’unica grande innovazione tecnica nel settore siderurgico nella prima metà del XIX secolo fu l’altoforno ad aria calda brevettato dall’ingegnere scozzese Neilson nel 1828. Utilizzando i gas recuperati dall’altoforno per preriscaldare l’aria usata nel medesimo, questo tipo di altoforno otteneva una combustione più completa, diminuiva il consumo di combustibile e accelerava il processo di fusione. Le innovazioni più spettacolari nell’industria siderurgica nella seconda metà del XIX secolo riguardarono la fabbricazione dell’acciaio. Si fabbricava da secoli, ma in quantità limitate e ad alto costo, cosicché il suo uso era limitato a prodotti di qualità. Nel 1856 Bessemer brevettò un nuovo metodo per la fabbricazione dell’acciaio e assicurando un prodotto superiore. La produzione dell’acciaio Bessemer crebbe rapidamente e ben presto sostituì il ferro in una varietà di usi. Il processo Bessemer tuttavia non produceva sempre un acciaio di qualità uniforme ed elevata. Per correggere questo difetto, negli anni sessanta una coppia di metallurgisti francesi, padre e figlio Martin, e i fratelli Siemens, svilupparono il forno a suola, o Martin-Siemens. Era più lento e un po’ più costoso del metodo Bessemer, ma il risultato era un prodotto di qualità più elevata. Nel 1878 due cugini inglesi brevettarono il «metodo basico», che permise di attingere dagli abbondanti giacimenti di ferro ad alto contenuto di fosforo. In conseguenza di queste ed altre innovazioni, la produzione mondiale annua di acciaio crebbe da mezzo milione di tonnellate nel 1865 a oltre 50 milioni alla vigilia della Prima guerra mondiale. L’espansione dell’industria dell’acciaio ebbe un profondo impatto sulle altre industrie, sia quelle fornitrici di materie prime (quali il carbone), sia quelle che facevano uso dell’acciaio. 6. TRASPORTI E COMUNICAZIONI Il processo di sviluppo economico è riassunto dalla locomotiva a vapore e dai suoi necessari complementi, le rotaie di ferro. Esse furono un simbolo e uno strumento dell’industrializzazione. Prima delle ferrovie, le inadeguate strutture di trasporto avevano costituito uno dei maggiori ostacoli all’industrializzazione dell’Europa continentale sia degli Stati Uniti. Privi dell’abbondante dotazione di vie d’acqua naturali della Gran Bretagna e sfavoriti dalle maggiori distanze da percorrere, gli industriali europei e americani si trovavano legati a mercati locali che non davano loro grandi motivi di specializzarsi o di investire ingenti capitali in impianti e macchinari. La ferrovia, e in misura minore il battello a vapore, mutarono questo stato di cose. Le ferrovie offrono un trasporto più economico, più veloce e più affidabile; inoltre, nel periodo della loro costruzione, tra il 1830 circa e la fine del secolo, la domanda di ferro, carbone, legname, mattoni e macchinari si rivelò un potente stimolo per le industrie fornitrici di tali prodotti. L’apertura della ferrovia tra Stockton e Darlington nel 1825 preannunciò l’età delle ferrovie, inaugurata nel 1830 dalla ferrovia Liverpool-Manchester, la prima progettata espressamente per essere percorsa da locomotive a vapore per il trasporto in generale. Dopo quell’anno la rete ferroviaria britannica conobbe un rapido sviluppo. La Gran Bretagna possedeva sia le conoscenze tecniche sia i capitali necessari per la loro costruzione. Ne seguirono accessi frenetici di speculazione e costruzione, inevitabilmente punteggiati da crisi finanziarie. Nel 1850 la Gran Bretagna aveva già costruito oltre 1/4 della sua rete ferroviaria definitiva. Gli Stati Uniti finirono con il superare la Gran Bretagna e a rivaleggiare con l’Europa intera nel settore delle costruzioni ferroviarie. Molte delle linee ferroviarie furono costruite con materiali di poco prezzo, e secondo criteri molto variegati. Il Belgio fu all’avanguardia tra le nazioni europee che per prime si dedicarono alla progettazione e alla costruzione di ferrovie. Il governo borghese belga decise di costruire una rete ferroviaria completa a spese dello stato per facilitare l’esportazione dei prodotti delle manifatture e per attirare il commercio di transito dell’Europa nordoccidentale. Il primo tratto della rete, nonché prima ferrovia del continente interamente a vapore, fu inaugurata nel 1838. Dieci anni dopo la rete ferroviaria statale era essenzialmente completa, e il compito di costruire diramazioni e linee secondarie fu lasciato all’impresa privata. La Francia e la Germania furono i soli altri paesi del continente a realizzare dei progressi significativi nelle costruzioni ferroviarie prima della metà del secolo. La Germania fu quella che fece di più. Dopo la breve linea Norimberga-Fürth del 1835, le costruzioni ferroviarie procedettero a ritmo variabile ma per lo più rapido in diversi stati. In Francia, che pure aveva un governo centrale e che già nel 1842 aveva predisposto un piano ferroviario globale incentrato su Parigi, il processo si svolse con maggiore lenezza. Dopo il 1853 le costruzioni ferroviarie procedettero speditamente. Negli altri paesi i progressi furono minimi fin verso la metà del secolo. La seconda metà del XIX secolo fu sia in Europa sia altrove l’età dell’oro delle costruzioni ferroviarie. Gli ingegneri britannici costruirono alcune delle prime ferrovie del continente, in seguito furono responsabili della maggior parte delle costruzioni realizzate in India, America Latina e Africa meridionale. Gli americani costruirono le loro ferrovie in proprio fin dall’inizio, anche se con l’apporto di capitale e in parte di equipaggiamento europei. I francesi, dopo aver imparato inizialmente dai britannici, non solo costruirono da sé le proprie ferrovie, ma anche la maggior parte di quelle che attraversarono l’Europa meridionale e orientale. Anche i tedeschi costruirono gran parte delle proprie ferrovie, nonché alcune altre in Europa e in Asia, e in tal modo rafforzarono i loro immensi stabilimenti metallurgici e meccanici. Le prime locomotive erano di dimensioni ridotte. I continui miglioramenti nella progettazione di locomotive portarono alle enormi macchine del tardo Ottocento e primo Novecento, epoca in cui la trazione elettrica e i motori diesel avevano cominciato a insediare il primato delle locomotive a vapore. Il famoso Orient Express, che da Londra e Parigi arrivava a Costantinopoli, effettuò il primo viaggio nel 1888. Il battello a vapore, sebbene fosse stato inventato prima della locomotiva, svolse un ruolo meno vitale di quest’ultima nell’espansione del commercio dell’industria fino alla fine del secolo. Fino alla fine della guerra civile americana le navi a vapore oceaniche 56 trasportarono principalmente posta, passeggeri e carichi costosi e leggeri. La vera e propria età del piroscafo transoceanico non arrivò che con l’introduzione della propulsione a elica, del motore compound, degli scafi d’acciaio e con l’apertura del Canale di Suez nel 1869. Da quel momento il progresso fu rapido, e le navi a vapore svolsero un ruolo importante nell’integrazione dell’economia mondiale. Forse nessuna singola invenzione del XIX secolo può essere paragonata a quella quattrocentesca della stampa per i suoi effetti sul mondo delle comunicazioni. La macchina per la fabbricazione della carta, inventata intorno al 1800, e la macchina da stampa cilindrica, usata per la prima volta dal «Times» di Londra nel 1812, ridussero il costo di libri e giornali. Negli anni sessanta la polpa di legno rimpiazzò gli stracci come materia prima per la fabbricazione della carta. Queste innovazioni, combinate con la riduzione dell’imposta di bollo e sul consumo che gravava sulla carta e sulla stampa, misero la carta stampata alla portata delle masse e contribuirono alla loro progressiva alfabetizzazione. Ancora più significativa fu l’invenzione nel 1832 del telegrafo elettrico da parte di Samuel Morse. Nel 1850 quasi tutte le maggiori città europee e americane erano collegate alle linee telegrafiche, e nel 1851 fu posato con successo il primo cavo telegrafico sottomarino, nel Canale della Manica. Nel 1866 l’americano Field riuscì a posare un cavo telegrafico nell’Atlantico settentrionale, assicurando una comunicazione quasi istantanea tra l’Europa e il Nord America. Altri cavi telegrafici sottomarini furono posati negli anni seguenti. Il telefono, brevettato da Bell nel 1876, rese ancor più personale la comunicazione su lunghe distanze. L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi inventò nel 1895 il telegrafo senza fili (radio). Nel campo delle comunicazioni d’affari l’invenzione della macchina per scrivere e di altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e a contribuire al flusso crescente di informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. La macchina per scrivere contribuì inoltre all’ingresso della donna nella forza lavoro impiegatizia. 6.1 L’applicazione della scienza Tutti gli sviluppi fin qui illustrati dipesero in modo molto maggiore che non le innovazioni tecnologiche di periodi precedenti dall’applicazione della scienza ai processi industriali. L’industria dell’elettricità richiedeva un grado elevato di conoscenze scientifiche e di addestramento. In altre industrie il progresso scientifico divenne sempre più essenziale per il progresso tecnologico. Si ebbe una crescente interazione tra scienziati, ingegneri e imprenditori. Marconi, al di là dell’infarinatura scientifica, era soprattutto un uomo d’affari. Bessemer ed Edison furono i prototipi di una nuova categoria occupazionale, l’inventore di professione. Edison, inventore del fonografo e del cinetoscopio oltre che della lampadina elettrica a incandescenza e di una serie di altre innovazioni minori, dedicò gran parte del suo tempo a questioni commerciali relative all’installazione di gigantesche attrezzatture per la generazione e la trasmissione dell’elettricità. Lo sviluppo tecnologico richiedeva sempre più la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica, la cui opera era coordinata da funzioni che comprendevano le potenzialità della nuova tecnologia pur non possedendo conoscenze particolari nel settore. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far crescere nuovi prodotti e procedimenti. Nel 1856 William Perkin, chimico inglese, sintetizzò accidentalmente la malva, una sfumatura molto pregiata della porpora. Fu questo l’inizio dell’industria dei coloranti artificiali, che nello spazio di vent’anni mise virtualmente fuori mercato i coloranti naturali. I coloranti artificiali si rivelarono la testa di ponte di un complesso molto più ampio di industrie che dai processi della chimica organica ricavavano prodotti molto diversi. La principale materia prima di queste industrie era il catrame minerale. La chimica svolse un ruolo vitale anche nella metallurgia. All’inizio del XIX secolo i soli metalli importanti dal punto di vista economico erano quelli noti sin dall’antichità: ferro, rame, piombo, stagno, mercurio, oro e argento. Dopo la rivoluzione della chimica associata al nome del grande chimico francese del Settecento Antoine Lavoisier, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui lo zinco. Oltre a scoprire nuovi metalli, scienziati e industriali trovarono il modo di impiegarli ed escogitarono metodi di produzione economici. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli che presentano caratteristiche differenti da quelle dei loro singoli componenti. La chimica venne inoltre in soccorso di vecchie e affermate industrie quali quelle della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. Lo studio scientifico del terreno, iniziato in Germania negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo, portò a un notevole miglioramento delle pratiche agricole e all’introduzione dei fertilizzanti artificiali. L’agricoltura scientifica si sviluppò in parallelo con l’industria scientifica. I cibi in scatola e la refrigerazione artificiale rivoluzionarono le abitudini alimentari e, permettendo l’importazione di alimenti altrimenti deperibili dal Nuovo Mondo e dall’Australasia, crearono i presupposti perché la popolazione europea potesse aumentare ben al di là di quanto avrebbero consentito le risorse agricole del continente. Il coordinamento di queste tre componenti fondamentali della crescita economica (popolazione, cibo e risorse, tecnologia) nelle economie che diedero l’avvio all’età della crescita economica moderna richiese nuovi assetti istituzionali tali da far funzionare efficacemente l’insieme. Si dovettero prima elaborare e poi far osservare regole differenti per il governo dell’attività economica degli individui; il risultato furono i livelli stupefacenti di crescita sia della popolazione sia del reddito pro capite raggiunti prima del 1914. IX. Le istituzioni si adeguano (o meno) alla crescita economia moderna Le circostanze istituzionali in cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo, attività che produsse la prima civiltà industriale, assicuravano opportunità all’iniziativa individuale, lasciavano libertà di scelta in campo occupazionale e anche in fatto di mobilità geografica e sociale, si fondavano sulla proprietà privata e sullo stato di diritto e raccomandavano l’uso della ragione e della scienza nel perseguimento di fini materiali. 57 1. IL CONTESTO ISTITUZIONALE 1.1 Fondamenti giuridici La Gran Bretagna si era già dotata di una struttura sostanzialmente moderna ai fini dello sviluppo economico, adatta all’innovazione e al cambiamento. Una delle istituzioni cardine era il sistema giuridico detto «diritto comune» («comune» nel senso che era patrimonio universale dell’intero Regno d’Inghilterra). Le caratteristiche distintive: - Natura evolutiva - Affidarsi alle consuetudini e ai precedenti nei limiti in cui questi venivano recepiti da risoluzioni o decisioni giuridiche scritte - Flessibilità. Assicurava la protezione della proprietà e degli interessi privati contro le possibili angherie dello stato e, al tempo stesso, proteggeva l’interesse pubblico dai privati. Aveva assorbito le consuetudini mercantili. Trasmesso alle colonie inglesi nel processo di colonizzazione, il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico nel momento in cui questi conquistarono l’indipendenza o l’autonomia. Sul continente, nel frattempo, le antiquate istituzioni del passato si erano cristallizzate a dispetto delle forze corrosive del cambiamento in modo tale da rendere impossibile una transazione graduale e pacifica al nuovo ordine. La Rivoluzione francese spalancò nuove prospettive e opportunità per chi fosse dotato di iniziativa e ambizione. Abolì completamente l’ordine feudale e istituì un sistema giuridico più razionale, incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Le assemblee rivoluzionarie posero i fondamenti giuridici del nuovo ordine: - Abolirono il regime feudale - Instaurarono la proprietà privata della terra - Si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne - Abolirono le corporazioni di mestiere e l’apparato statale di controllo dell’industria - Proibirono i monopoli - Autorizzarono la costituzione di società e altre imprese privilegiate - Sistema di imposizione razionale e uniforme. Nel 1791 l’assemblea approvò la legge Le Chapelier che proibiva le organizzazioni o associazioni sia dei lavoratori sia degli imprenditori. I francesi esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche. L’influsso delle riforme si manifestò anche in paesi non dominati dalla Francia. In Prussia, dopo l’umiliazione di Jena del 1806, venne alla ribalta un gruppo di ufficiali intelligenti e patriottici decisi a rigenerare il paese mediante riforme amministrative e sociali che lo avrebbero messo in grado di opporsi al conquistatore e di assumere la leadership di uno stato tedesco. L’opera di pulizia della rivoluzione costituì un primo passo verso una politica positiva, costruttiva e coerente. Alla fine, le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva da Napoleone. Il cambiamento nella pubblica opinione che rese possibile la dittatura napoleonica fu la reazione agli eccessi rivoluzionari e alla corruzione. La sintesi napoleonica raggiunse il suo culmine nella grande opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’impero. I Codici, compromesso tra il diritto romano e la nuova legislazione rivoluzionaria, preservarono i principi fondamentali della rivoluzione: - Uguaglianza di fronte alla legge - Laicità dello stato - Libertà di coscienza - Libertà economica Il Code civil, promulgato nel 1804, rifletteva le preoccupazioni e gli interessi delle classi proprietarie. Abolendo le istituzioni dell’antico regime nei territori da essi conquistati, i francesi posero i fondamenti del nuovo ordine. Il Code civil fu adottato per intero o posto a fondamento dei codici nazionali in tutta Europa e anche oltre. Il Code de commerce, promulgato nel 1807, fu la prima normativa di carattere generale che avesse mai regolato le forme di impresa. Esso distingueva tre tipi principali di organizzazione commerciale: a) Società semplice. I soci sono individualmente e solidamente responsabili dei debiti della ditta; b) Società di persone. Il socio o i soci accomandatari assumono una responsabilità illimitata per gli affari della società, mentre il socio o i soci accomandanti rischiano esclusivamente il capitale sottoscritto; c) Società a responsabilità limitata nel senso americano. Tutti i soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite. A causa dei privilegi di cui godevano, tutte le società anonime (così chiamate le s.r.l.) dovevano essere autorizzate espressamente dal governo. 1.2 Pensiero economico e politica economica L’epoca delle Guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo del nazionalismo e dell’imperialismo economico dei secoli precedenti, con il tentativo britannico di blocco del continente e la risposta di Napoleone attraverso il Sistema continentale. Nessuno dei due tentativi raggiunse del tutto l’obiettivo primario – distruggere o limitare il potenziale bellico dell’economia avversaria; entrambi rappresentarono l’estrema esemplificazione delle politiche del nazionalismo economico. Già in precedenza erano cominciate a manifestarsi correnti intellettuali che condannavano simili politiche. Oltre al libero scambio, i principi del liberalismo economico sollecitavano una limitazione del ruolo del governo nell’economia. Secondo Smith, il governo aveva solo tre funzioni: i) Proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti; ii) Instaurare un’equa amministrazione della giustizia; iii) Creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di un individuo. 60 1. LA GRAN BRETAGNA È la prima nazione industriale. Alla fine delle Guerre napoleoniche la GB, che produceva circa ¼ della produzione industriale totale mondiale, era il maggiore paese industriale del mondo. Inoltre, la sua posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di massima potenza navale mondiale, conquistato con le ultime guerre, avevano fatto sì che essa si affermasse anche come principale potenza commerciale mondiale. Conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale sia gli scambi commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio di altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Gli USA la superarono in quanto a produzione industriale totale nel corso degli anni ottanta, e lo stesso fece la Germania nel primo decennio del XX secolo. Alla vigilia della Prima guerra mondiale la GB era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma era tallonata dalla Germania e dagli USA. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Dato il ruolo pioneristico della GB nello sviluppo delle ferrovie, la domanda estera, europea e non, di consulenti, materiali e capitali britannici costituì un forte stimolo per l’intera economia. Un altro potente stimolo fu rappresentato dall’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e del legno al ferro. Nonostante questi risultati, il ritmo e la misura dell’industrializzazione britannica non devono essere sopravvalutati. Alcune ricerche hanno dimostrato che il ritmo della crescita industriale nel secolo 1750-1850 fu molto più lento di quanto non avessero suggerito certe valutazioni impressionistiche. La GB raggiunse l’apice della supremazia industriale nei confronti delle altre nazioni nei due decenni compresi tra il 1850 e il 1870. Ma non poteva conservare infinitamente la propria posizione di predominio, man mano che le altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano a industrializzarsi. In questo senso, il declino relativo della GB era inevitabile. Un’altra possibile causa del suo declino relativo è il fallimento della strategia imprenditoriale. Il rallentamento industriale e l’insufficienza della classe imprenditoriale sono fenomeni che possono essere ascritti entrambi in parte all’arretratezza del sistema educativo britannico. La GB fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti, presupposto importante per la formazione di una forza lavoro specializzata. Di tutti i maggiori paesi, la GB era quello maggiormente dipendente dalle importazioni e dalle esportazioni per il proprio benessere. Le politiche commerciali, soprattutto tariffarie, delle altre nazioni avevano importanti ripercussioni. Fatto ancora più importante, la GB dipendeva dall’economia internazionale per la propria sopravvivenza in misura molto maggiore di paesi anche più piccoli. Il commercio estero britannico permise alle aziende manifatturiere nazionali di continuare a sostituire un mercato all’altro man mano che contro di loro si innalzavano barriere tariffarie. La GB possedeva la flotta mercantile di gran lunga più imponente e aveva investito all’estero più di ogni altro paese; da entrambe queste attività ricavava ingenti quantità di valuta estera. Fin dall’inizio del XIX secolo, se non prima, la GB aveva una bilancia commerciale “sfavorevole” o negativa. Il deficit era più che coperto dagli utili della marina mercantile e dagli investimenti esteri, che permisero a questi ultimi di crescere quasi ininterrottamente per tutto il secolo. Inoltre, nella seconda parte del secolo il ruolo centrale di Londra nel sistema bancario e assicurativo internazionale gonfiò ulteriormente questi ricavi invisibili. Per concludere il modello di industrializzazione britannico nel XIX secolo, si aggiunge che nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro capite dei cittadini britannici aumentò tra il 1850 e il 1914, la distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni di assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva nel 1914 di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa. 2. GLI STATI UNITI L‘esempio più spettacolare di rapida crescita economica nazionale nell’Ottocento è offerto dagli USA. Sebbene fossero i beneficiari di gran parte dell’emigrazione europea, buona parte della crescita demografica fu una conseguenza del tasso estremamente elevato di incremento naturale. Reddito e ricchezza crebbero ancor più rapidamente della popolazione. Fin dall’epoca coloniale la scarsità di manodopera in rapporto alla terra e alle altre risorse avevano comportato salari più elevati e un più alto tenore di vita rispetto all’Europa. Fu questo fatto, unito alle correlate possibilità di realizzazione dell’individuo e alle libertà religiose e politiche godute dai cittadini americani, ad attirare gli immigranti europei. È probabile che il reddito medio pro capite sia per lo meno raddoppiato nel periodo compreso tra l’adozione della costituzione e lo scoppio della guerra civile. Che sia più che raddoppiato tra la fine della guerra civile e lo scoppio della Prima guerra mondiale è certo. L’abbondanza di terra e di risorse naturali contribuiscono a spiegare come mai gli USA vantassero redditi pro capite più alti dell’Europa, ma non spiegano da soli il più elevato tasso di crescita. Le ragioni di quest’ultimo vanno ricercate principalmente nelle stesse forze all’opera nell’Europa occidentale, vale a dire il rapido progresso tecnologico e la crescente specializzazione regionale; vi furono però altri fattori specifici degli USA, ad es., la continua scarsità e l’alto costo della manodopera rendevano particolarmente proficuo l’impiego di macchine che permettevano di risparmiare manodopera. Gli agricoltori americani, avvalendosi di macchine relativamente poco costose, erano in grado di ottenere rese molto più elevate per unità di lavoro. Situazione analoga si aveva nella manifattura. L’immensa vastità degli USA, con la loro varietà di climi e risorse, permetteva un grado di specializzazione regionale ancor più spinto di quello attuabile nei singoli paesi europei. Sebbene all’epoca della conquista dell’indipendenza quasi il 90% della forza lavoro fosse impiegata principalmente nell’agricoltura, e gran parte della restante nel commercio, la nuova nazione cominciò ben presto a diversificare. Un altro dei vantaggi della vastità del terreno statunitense era il suo potenziale come mercato interno, virtualmente esente da barriere commerciali artificiali. Ma la realizzazione di questo potenziale richiedeva una vasta rete di trasporti. All’inizio del XIX secolo l’unico accesso praticabile alle regioni dell’interno era rappresentato dai fiumi. Per porre rimedio a questa deficienza gli stati e le municipalità, in collaborazione con iniziative private, intrapresero un grande programma di miglioramenti interni à costruzione di strade a pedaggio e canali. Una delle cause principali del fallimento economico dei canali fu la comparsa delle ferrovie. L’era delle ferrovie iniziò quasi contemporaneamente negli USA e in GB, anche se per molti anni gli USA dipesero fortemente dalla tecnologia, dalle attrezzature e dai 61 capitali britannici. Nel 1840 la rete ferroviaria ultimata superava non solo quella britannica ma quella di tutto il continente europeo, e ciò rimase vero per gran parte del secolo. Le ferrovie furono importanti non solo in quanto fornitrici di un servizio di trasporto ma anche per i loro collegamenti ascendenti con altre industrie, in particolare quella siderurgica e dell’acciaio e le connesse industrie meccaniche. L’industria siderurgica divenne in breve tempo la maggior industria americana in termini di valore aggiunto per manifattura. Nonostante la rapida crescita delle manifatture, gli USA rimasero una nazione prevalentemente rurale per tutto il XIX secolo. La popolazione urbana non eguagliò quella delle campagne fino a dopo la Prima guerra mondiale. Ciò dipese in parte dal fatto che molte attività manifatturiere venivano svolte in aree rurali. Fu solo con l’avvento delle centrali elettriche che cominciò il declino dell’industria a base rurale. I prodotti agricoli continuarono a dominare le esportazioni americane, anche se negli anni ottanta la forza lavoro non agricola superò quella agricola e contemporaneamente il reddito dell’industria manifatturiera cominciò a superare quello prodotto dal settore agricolo. Nel 1890 gli USA erano divenuti la maggior nazione industriale del mondo. 3. IL BELGIO Fu la prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico. Nonostante frequenti mutamenti politici, essa manifestò un considerevole grado di continuità nel suo modello di sviluppo economico. La vicinanza alla GB non fu un elemento trascurabile nella sua rapida e riuscita imitazione del modello britannico d’industrializzazione; vi furono però altre e più fondamentali ragioni: 1) Il Belgio vantava una lunga tradizione industriale 2) Le risorse naturali belghe erano molto simili a quelle britanniche. Possedeva giacimenti carboniferi facilmente accessibili e possedeva anche giacimenti di minerale ferroso in prossimità di quelli di carbone, aveva anche piombo e zinco. 3) In parte a causa della sua posizione geografica, delle sue tradizioni e dei suoi legami politici, la regione che sarebbe divenuta il Belgio ricevette e godette di una posizione favorevole in certi mercati esteri, in particolare quelli francesi. La rete di canali e altre vie d’acqua che collegava la Francia settentrionale ai bacini carboniferi belgi, fece del carbone belga un investimento promettente per il capitale francese. La Rivoluzione belga, abbastanza incruenta in quanto a perdita di vite e di proprietà, provocò una depressione economica derivante dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo stato. La depressione si esaurì in pochi anni, e intorno al 1835 si assistette a un vigoroso boom industriale, carattere e dimensione del quale si spiegano, oltre che con le favorevoli condizioni economiche internazionali, sulla base di due fattori: a) La decisione del governo di costruire un’estesa rete ferroviaria a spese dello stato, una manna in particolare per le industrie del carbone, siderurgica e meccanica; b) Un’importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della finanza. Nel 1840, se non prima, il Belgio era il paese più industrializzato del continente e, in termini pro capite, molto vicino alla GB. Sebbene il suo tasso di crescita industriale finisse con lo scendere leggermente, superato da quello dei paesi di più recente industrializzazione, nel 1914 esso era ancora il paese più industrializzato dell’Europa continentale in quanto a prodotto pro capite, ed era secondo in Europa solo alla GB. Per tutto il secolo la sua prosperità continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano determinato la crescita: carbone, ferro (e acciaio), metalli non ferrosi, industria meccanica e tessili. Per tutto il secolo l’industria belga dipese pesantemente dall’economia internazionale. 4. LA FRANCIA Di tutti i paesi della prima ondata industriale, la Francia fu quello con il modello di crescita più aberrante. I fattori determinanti della crescita economica: - Aspetto più notevole del XIX secolo fu il modesto tasso di crescita demografica - Un secondo aspetto è la questione delle risorse à la Francia era povera di carbone e, inoltre, le caratteristiche dei suoi giacimenti rendevano più costoso il loro sfruttamento. Questi fatti ebbero importanti ripercussioni su altre industrie legate a quella del carbone. In campo tecnologico scienziati, inventori e innovatori francesi fecero da pionieri in diverse industrie. La crescita economica moderna cominciò in Francia nel XVIII secolo. Nell’intero secolo i tassi di crescita sia del prodotto totale sia di quello pro capite furono approssimativamente uguali in Francia e in GB. Il secolo si chiuse però per la GB con l’inizio della rivoluzione industriale, mentre la Francia fu colpita dagli spasmi della Rivoluzione francese. Dal 1790 al 1815 la Francia fu quasi costantemente coinvolta in quella che è stata definita la «prima guerra moderna», caratterizzata dalla coscrizione di massa delle forze lavorative. La domanda bellica determinò l’espansione della produzione economica, ma in gran parte su linee predeterminate, con scarsi miglioramenti tecnologici. Sia l’industria del carbone che quella chimica attraversarono un periodo di stasi tecnologica. Dopo una depressione postbellica piuttosto severa, che colpì tutta l’Europa occidentale continentale, l’economia francese riprese a crescere a tassi ancor più elevati che nel XVIII secolo. La produzione industriale, il punto principale della crescita economica moderna in Francia come nella maggior parte delle altre nazioni industrializzate, crebbe ancor più rapidamente del prodotto totale. Per tutta la prima metà del secolo – e persino sotto il Secondo Impero – l’industria manuale, artigianale e domestica costituì almeno i ¾ della produzione industriale totale. Il prodotto di queste attività crebbe più lentamente di quello delle fabbriche moderne e delle altre nuove industrie, e fornisce dei tassi di crescita apparentemente più elevati. Non si deve comunque sottovalutarne l’importanza, in quanto furono esse in buona misura a conferire all’industria francese le sue caratteristiche distintive. Fra il 1815 e il 1845 molte nuove industrie nacquero o furono importate. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni, che inclusero la costruzione di una vasta rete di canali, l’introduzione della navigazione a vapore, le prime ferrovie e il telegrafo elettrico, facilitarono la crescita del commercio interno ed estero. Tra il 1845 4 il 1847 la Francia beneficiò di una discreta eccedenza di esportazioni nel commercio dei prodotti agricoli, dalla quale ricavò le risorse che le permisero di operare ingenti investimenti all’estero. Le crisi politiche ed economiche del 1848-18851 causarono un’interruzione del ritmo dello sviluppo economico. Con il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo Impero l’anno seguente, la crescita economica francese riprese il vecchio corso a un ritmo accelerato. Il tasso di crescita subì una leggera flessione in seguito alla blanda recessione del 1857, ma le riforme 62 economiche degli anni sessanta, e in particolare i trattati di libero scambio e le leggi liberali sulle società del 1863 e del 1867, fornirono ulteriori stimoli. La guerra del 1870-1871 fu un disastro sia dal punto di vista militare sia economica, ma l’economia francese si riprese in una maniera che sbalordì il mondo. Fu colpita dalla depressione del 1873 meno delle altre nazioni in via di industrializzazione, e ne uscì con maggiore rapidità. Cominciò allora un nuovo boom che durò fino al 1881. Nel periodo compreso tra il 1851 e il 1881 la ricchezza e il reddito della Francia crebbero ai massimi ritmi del secolo. La depressione che ebbe inizio nel 1882 durò più a lungo e costò probabilmente alla Francia più di tute le precedenti depressioni del XIX secolo. La prosperità tornò poco prima della fine del secolo. La Belle époque (anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale) fu un periodo di prosperità materiale e fioritura culturale. Aspetti chiave del modello di crescita francese: - Basso ritmo di urbanizzazione - Dimensione e struttura dell’impresa - Fonti energetiche a disposizione dell’industria. I tre elementi sono interdipendenti e strettamente legati al modesto tasso d’incremento demografico e alla scarsità relativa di carbone. Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con il più basso ritmo di urbanizzazione. La causa principale di questo fenomeno fu la lenta crescita demografica complessiva, ma non bisogna trascurare la percentuale di forza lavoro impiegata nell’agricoltura (alta percentuale di addetti) e la dimensione dell’impresa industriale (ridotta dimensione delle aziende). La Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. Questa dispersione era determinata in parte dalla natura delle fonti energetiche a disposizione. Per ovviare alla scarsità e all’alto costo del minerale la Francia si affidò più dei suoi vicini ricchi di carbone all’energia idraulica. Le caratteristiche dell’acqua come fonte di energia ponevano però forti limitazioni al suo impiego. I siti migliori erano distanti dai centri abitati; il numero di utilizzatori in ogni stato era limitato a uno o pochissimi e la dimensione delle installazioni era limitata. L’energia idraulica, perciò, nonostante tutta la sua importanza per l’industrializzazione francese, contribuì a imporre un certo modello: aziende di piccole dimensioni, dispersione geografica e limitata urbanizzazione. 5. LA GERMANIA Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico, e l’esistenza di numerose entità politiche diverse, con sistemi monetari separati, politiche commerciali distinte e altri impedimenti agli scambi commerciali, era causa di ulteriori ritardi. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in tre periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici: 1) Dall’inizio del secolo al 1833, registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in GB, Francia e Belgio e la determinazione delle condizioni legali e intellettuali essenziali per la transazione al moderno ordine industriale. 2) Fino al 1870 assunsero consistenza le vere e proprie fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. 3) La Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua ad occupare ancora oggi. In ognuno di questi periodi svolsero un’azione importante le influenze esterne: - Nel 1° periodo le influenze ebbero un carattere legale e intellettuale e derivarono dalla Rivoluzione francese e dalla riorganizzazione dell’Europa operata da Napoleone - Il 2° periodo fu contrassegnato da un afflusso di capitali, tecnologie e iniziative estere - Il 3° periodo vide l’espansione dell’industria tedesca nei mercati esteri. Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse alla formazione dello Zollverein (unione doganale o tariffaria). Le fondamenta furono poste nel 1818, quando fu decisa l’applicazione di una tariffa unica per tutta la Prussia, con l’obiettivo primario dell’efficienza amministrativa e di un maggiore gettito fiscale. A questo sistema tariffario aderirono diversi piccoli stati e nel 1833 un trattato con gli stati più estesi della Germania meridionale, Austria esclusa, segnò la nascita dello Zollverein. Esso raggiunse due risultati: i) Abolì tutti i dazi interni e le barriere doganali, creando un «mercato comune» tedesco; ii) Rese possibile la determinazione, da parte della Prussia, di una tariffa comune verso l’estero. Lo Zollverein seguì una politica commerciale “liberale” (bassi dazi) perché i funzionari prussiani volevano impedire l’adesione dell’Austria protezionista. Se lo Zollverein rese possibile un’economia tedesca unificata, le ferrovie la trasformarono in realtà. Le rivalità tra i vari stati tedeschi affrettarono altresì la costruzione di ferrovie. Le costruzioni ferroviarie obbligarono gli stati a riunirsi per accordarsi su itinerari, prezzi e altre questioni tecniche, rafforzando la cooperazione interstatale. L’estensione della rete ferroviaria fece anche aumentare la produzione tedesca di carbone e di ferro e, da un lato, alimentò direttamente la domanda dei prodotti delle due industrie, dall’altro, rese più bassi i costi generali di trasporto. La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del carbone, e la chiave della crescita di quest’ultima fu il bacino carbonifero della Rhur. L’anno 1870-1871, così drammatico nella storia politica per la Guerra franco-prussiana, la caduta del Secondo Impero in Francia e la nascita di un nuovo Secondo Impero in Germania, fu meno sensazionale per la storia dell’economia. L’unificazione economica era un fatto compiuto, e già nel 1869 era iniziata una nuova impennata ciclica di investimenti, scambi e produzione industriale. Ma il successo delle operazioni e la proclamazione dell’impero aggiunsero euforia al boom. Questa iperattività si arrestò bruscamente con la crisi finanziaria del 1873. Una volta esauritisi gli effetti della depressione, la crescita riprese però con ancora maggior vigore. I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotti intermedi a uso industriale. La produzione di carbone, ferro e acciaio era notevole. Ancora più importanti erano due industrie relativamente nuove, quella chimica e quella elettrica. 65 Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi: Austria-Ungheria, Russia. Gli Usa, dopo la guerra civile, divennero uno dei paesi più protezionistici e tali rimasero in larga misura fino a dopo la Seconda guerra mondiale. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio, e di queste la più notevole fu la GB. I Paesi Bassi mantennero una posizione prevalentemente liberoscambista, così come il Belgio e la Danimarca. Nonostante una diminuzione del tasso di crescita del commercio internazionale nei due decenni successivi al 1873, tale tasso si mantenne positivo, e accelerò nuovamente nei due decenni che precedettero la Prima guerra mondiale. Nel decennio prebellico, le nazioni di tutto il mondo, e in special modo quelle europee, dipendevano come non mai dal commercio internazionale. Altrettando si può dire a proposito di altre regioni del mondo. Gli USA, pur dipendendo molto meno dal resto del mondo per via della loro economia ampia e diversificata, erano nel 1914 il terzo paese al mondo in quanto a esportazioni. L’economia mondiale all’inizio del XX secolo era più integrata e interdipendente di quanto fosse mai stata in precedenza o di quanto lo sarebbe stata fino a molto dopo la Seconda guerra mondiale. 4. IL GOLD STANDARD INTERNAZIONALE L’età classica del gold standard si può collocare tra il 1880 e il 1913. Secondo alcuni l’alto grado di integrazione raggiunto dall’economia mondiale nella seconda metà del XIX secolo dipese criticamente da un’adesione generale al gold standard internazionale. Secondo altri, questa integrazione fu prima di tutto una conseguenza del ruolo centrale della GB e di Londra, sua capitale finanziaria oltre che politica, nell’economia mondiale. La funzione di uno standard monetario è di definire l’unità di conto di un sistema monetario, l’unità in cui tutte le altre forme di moneta sono convertibili. Secondo le disposizioni della legge parlamentare istitutrice del gold standard dovevano essere osservate tre condizioni: a) La Zecca reale era obbligata a comprare e vendere quantità illimitate di oro a prezzo fisso; b) La Banca d’Inghilterra – e, per estensione, tutte le altre banche – era tenuta a convertire a richiesta le sue passività monetarie (banconote e depositi) in oro; c) Nessuna restrizione poteva essere imposta sull’importazione o sull’esportazione di oro. Ciò significava che l’oro serviva da base ultima o riserva dell’intera provvista monetaria della nazione. La quantità di oro che la Banca d’Inghilterra custodiva nei suoi forzieri determinava la quantità di credito che essa poteva accordare sotto forma di banconote e depositi; questi a loro volta (conservati come riserva dalle altre banche di emissione o di deposito) determinavano l’ammontare di credito che queste ultime potevano concedere. Di conseguenza, il movimento di entrata e uscita dell’oro dal paese determinava fluttuazioni nella riserva totale di moneta, che a sua volta causava delle oscillazioni nella dinamica dei prezzi. Quando i flussi aurei internazionali erano limitati, o quando i flussi in entrata pareggiavano quelli in uscita, i prezzi tendevano a mantenersi stabili; ma ingenti afflussi di oro potevano causare inflazione, mentre improvvisi prelevamenti causavano panici monetari. Per un breve periodo nel corso degli anni sessanta e settanta la Francia tentò di creare un’alternativa al gold standard internazionale nella forma dell’Unione monetaria latina. Sebbene in Francia vigesse nominalmente uno standard bimetallico, la scoperta dell’oro in California e in Australia causò un aumento del livello generale dei prezzi e una diminuzione del prezzo relativo dell’oro rispetto all’argento. La Francia passò quindi di fatto a uno standard argenteo, e convinse il Belgio, la Svizzera e l’Italia a seguirla nel 1865. L’obiettivo era quello di mantenere stabili i prezzi. Ogni paese definiva la propria valuta sulla base di una quantità fissa di argento. Successivamente aderirono altri paesi all’unione, che pure legarono le loro monete al franco. Pochi anni dopo, però, con la scoperta di nuovi giacimenti di argento, i prezzi relativi dell’oro e dell’argento si modificarono in senso inverso, e le nazioni facenti parte dell’Unione monetaria latina si trovarono sommerse dall’afflusso di argento a buon mercato. Ritornarono quindi a un gold standard puro. Nel frattempo, la prima nazione ad adottare ufficialmente il gold standard dopo la GB fu il nuovo Impero tedesco. Dato che il peso della Germania nel commercio internazionale era in crescita, altri paesi aderirono al movimento verso il gold standard. Prima della guerra civile negli USA vigeva tecnicamente uno standard bimetallico. Ma dal 1879 vigeva un gold standard, sebbene esso non fosse legalmente adottato dal Congresso prima del 1900. La Russia aveva adottato nominalmente lo standard argenteo per tutto il XIX secolo ma adotta il gold standard nel 1897. Quello stesso anno il Giappone adotta ufficialmente il gold standard. All’inizio del XX secolo praticamente tutte le importanti nazioni commerciali avevano aderito al gold standard internazionale. In Europa il Portogallo fu il primo ad abbandonare il gold standard nel 1890, e l’Italia lo imitò a causa dl perdurare della crisi degli anni novanta; la Spagna non lo adottò mai. Tutti e tre questi paesi riuscirono tuttavia a rimanere allineati alle valute basate sul gold standard dopo il 1900 e fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. 5. MOVIMENTI MIGRATORI E INVESTIMENTI INTERNAZIONALI Oltre al più libero movimento delle merci simboleggiato dall’età del libero scambio, si verificò nel XIX secolo anche un considerevole aumento del movimento internazionale di uomini e capitali. L’emigrazione avvenne anche entro i confini europei, ma la sua dimensione più significativa di quella transoceanica. La stragrande maggioranza si diresse verso paesi ricchi di terre. Nel complesso, questo immenso fenomeno migratorio ebbe effetti benefici: - Alleggerì le pressioni demografiche nei paesi di provenienza degli emigranti, allentando la tendenza al ribasso dei salari reali - Fornì ai paesi ricchi di risorse ma poveri di manodopera nei quali si stabilirono un afflusso di lavoratori volenterosi a salari più elevati di quelli che avrebbero potuto ottenere nei paesi di origine - Attraverso legami umani e culturali oltre che economici, favorì l’integrazione dell’economia internazionale - L’esportazione di capitali – investimento estero – rafforzò ulteriormente l’integrazione dell’economia internazionale. In generale, le risorse disponibili per essere investite all’estero derivarono dall’aumento della ricchezza e del reddito provocato dall’applicazione delle nuove tecnologie. Esistono due principali categorie di fondi (in oro o in valuta) che possono essere impiegati negli investimenti internazionali: - Quelli derivanti da una bilancia commerciale favorevole - Quelli frutto di esportazioni “invisibili” (servizi di spedizione, rimesse degli emigrati, interessi, ecc.) 66 La principale motivazione dell’investimento estero è l’aspettativa da parte dell’investitore di un saggio di profitto più elevato che in patria. I meccanismi dell’investimento estero consistono in una serie di strumenti istituzionali per il trasferimento di fondi da un paese all’altro: mercati dei cambi, delle azioni e dei titoli, banche centrali, banche private e azionarie d’investimento, agenti di cambio ecc. Gli investitori privati britannici furono di gran lunga in testa negli investimenti esteri fino al 1914. Questa situazione si era prodotta nonostante che per la maggior parte del secolo la GB avesse avuto una bilancia commerciale sfavorevole. Dunque, gli investimenti esteri furono resi possibili quasi esclusivamente dalle esportazioni invisibili. La Francia figurava al secondo posto in quanto a investimenti esteri. L’inizio dell’Ottocento vide però la Francia indebitarsi con l’estero, soprattutto con GB e Olanda, per saldare le pesanti riparazioni imposte dagli alleati dopo la sconfitta di Napoleone. I capitalisti britannici contribuirono a finanziare alcune delle prime ferrovie francesi. Si stabilizzò però ben presto una considerevole eccedenza delle esportazioni negli scambi commerciali, e da tale eccedenza la Francia ricavò il grosso delle risorse per i suoi investimenti esteri fino agli anni settanta. In seguito, i guadagni provenienti dagli investimenti precedenti furono largamente sufficienti, come nel caso dei britannici, a finanziarne di nuovi. La Germania presenta il caso interessante di un paese che si trasformò nel corso del secolo da debitore netto a creditore netto. Disuniti e poveri all’inizio dell’Ottocento, gli stati tedeschi avevano pochi debiti con l’estero e ancora meno crediti. Nei decenni centrali del secolo le province occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, che contribuirono alla nascita di industrie possenti e all’avvio di un boom di eccedenze delle importazioni che fornirono i fondi con i quali la Germania fu in grado di ripagare i capitali esteri e di accumulare investimenti. I paesi industrializzati minori dell’Europa occidentale – Belgio, Paesi Bassi, Svizzera – le cui economie nel corso del secolo avevano beneficiato di investimenti esteri, erano divenuti alla fine del secolo creditori netti come la Germania. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri gli USA erano di gran lunga il maggiore. Dopo la guerra civile e soprattutto verso la fine degli anni novanta, gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono a investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali e agricole. Dal 1914 al 1918 i prestiti americani agli alleati portarono gli USA al primo posto tra i paesi creditori. In Europa il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa, come quella americana, fu soprattutto costruita con capitali esteri. Gran parte degli investimenti esteri servì alla costruzione di infrastrutture e sovrastrutture che permettessero alle economie dipendenti di partecipare all’economia internazionale. Alla ricerca di nuovi mercati esteri, gli imprenditori delle prime nazioni industriali crearono in tutto il mondo nuove forme d’impresa basandosi sulle proprie esperienze nei paesi di provenienza. - In alcuni casi i loro tentativi assunsero la forma di investimenti diretti in iniziative imprenditoriali locali non ancora dotate della tecnologia più recente; - A volte le loro banche prestavano fondi a imprenditori locali mettendoli così in grado di raggiungere i mercati europei o americani; - Verso la fine del secolo, i fabbricanti di nuovi prodotti potevano fondare all’estero filiali delle aziende della madrepatria. XII. La diffusione dello sviluppo in Europa: 1848-1914 Prima del 1850 esistevano singoli nuclei di industrie moderne ma non si può dire che fosse in atto un vero e proprio processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo, in particolare in Svizzera, nei Paesi Basi, in Scandinavia e nell’Impero austro-ungarico, più debolmente in Italia, nei paesi iberici e nell’Impero russo, mentre fu quasi nullo nei nuovi stati balcanici e nel decadente impero ottomano. Le circostanze dai cui prese avvio l’industrializzazione furono molto diverse da quelle dei paesi già industrializzati, e l’evoluzione seguì di conseguenza modelli differenti. Ancora all’inizio del XX secolo il consumo pro capite di carbone, anche nei paesi in cui questa industrializzazione tardiva aveva avuto maggiore successo, equivaleva a meno di 1/5 di quello della Gran Bretagna. Dato il consumo limitato di tutti i paesi in questione, quello dei paesi che più profondamente si stavano industrializzando crebbe molto più rapidamente di quello degli altri. La domanda di carbone costituì il fattore determinante nel favorire un consumo relativo più alto. In altre parole, l’aumento del consumo non fu una causa bensì una conseguenza del successo del processo di industrializzazione. 1. I PICCOLI VICINI EUROPEI 1.1 La Svizzera Fu il primo paese della seconda ondata industriale. Sebbene avesse già acquisito, nella prima metà del secolo, importanti risorse che avrebbero svolto un ruolo determinante nella sua rapida industrializzazione dopo il 1850 – basso livello di analfabetismo tra la popolazione adulta – la sua struttura economica era ancora prevalentemente preindustriale e la maggior parte della forza lavoro era impiegata nell’agricoltura. La Svizzera era appena agli inizi dell’età delle ferrovie e non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, a un’effettiva unione monetaria, a un sistema postale centralizzato e a uno standard uniforme di pesi e misure. Paese di estensione e popolazione limitate, la Svizzera è inoltre povera di risorse naturali a eccezione dell’energia fornita dall’acqua e dal legname, ed è praticamente priva di carbone. Le montagne precludono la coltivazione e rendono praticamente inabitabile un buon 25% del suo territorio. Nonostante tutti questi svantaggi, gli svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo uno dei livelli di vita più elevati di tutta Europa, e uno tra i più alti del mondo nell’ultimo quarto di questo secolo. La popolazione duplicò dai primi anni del XIX secolo al 1914. A causa della scarsità di terra arabile, gli svizzeri avevano praticato da tempo la combinazione di industria domestica, agricoltura e produzione casearia. In ciò dipendevano in larga misura dall’importazione di materie prime e, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, anche di generi alimentari. Dipendeva dunque dai mercati internazionali. 67 Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto a una combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. I risultati furono prodotti di alta qualità, di un elevato valore e con un alto valore aggiunto. Esisteva una forza lavoro abile, adattabile e disposta a lavorare per salari relativamente bassi. La Svizzera possedeva nel XVIII secolo un’importante industria tessile cotoniera basata su lavorazioni di tipo artigianale e sul lavoro a tempo parziale. Nell’ultimo decennio del secolo fu però annientata dalla concorrenza dell’industria britannica. Dopo gli alti e bassi del periodo napoleonico e degli anni immediatamente successivi, l’industria si riprese e riuscì a prosperare. L’industria della seta contribuì alla crescita economica svizzera del XIX secolo più della precedente sia come numero di addetti sia a livello di esportazioni. Tessili e affini dominarono le esportazioni svizzere per tutto il secolo. In rapporto alle esportazioni totali, esse diminuirono nello stesso periodo dai ¾ a poco meno della metà. Tra le industrie che presero il posto dei tessili nelle esportazioni figuravano sia settori tradizionali sia industrie che erano esse stesse un risultato del processo di industrializzazione. Dato che era un paese privo di carbone e di giacimenti di minerali ferrosi essa sviluppò un’importante industria di trasformazione dei metalli. L’industria casearia si trasformò da un’attività artigianale a un processo di fabbrica, espandendo in tal modo enormemente la produzione totale e quella destinata all’esportazione. Nessun altro paese europeo fu più radicalmente trasformato della Svizzera dall’avvento delle ferrovie ma in nessun altro paese le ferrovie si rivelarono nel complesso un così cattivo affare. Le costruzioni ferroviarie cominciarono nel corso degli anni cinquanta. Negli anni novanta la maggior parte delle ferrovie si trovava sull’orlo della bancarotta. Nel 1898 il governo svizzero rilevò le ferrovie dai rispettivi proprietari (soprattutto stranieri) a una frazione del loro costo reale. Poco dopo ne intraprese l’elettrificazione. Le linee di tendenza del XX secolo furono: - Declino dell’agricoltura in termini relativi - Crescita relativa dell’industria dei servizi - Continua dipendenza della domanda internazionale Il successo svizzero dipese dall’identificazione di mercati di nicchia caratterizzati da una domanda di prodotti pregiati ad alto prezzo e dal soddisfacimento di tali mercati per mezzo di una forza lavoro qualificata che faceva uso di macchinari specializzati. 1.2 I Paesi Bassi e la Scandinavia Le caratteristiche comuni dei paesi scandinavi che li fa considerare in blocco non sono economiche ma culturali. Tutti i quattro paesi considerati, dopo aver perso molto terreno rispetto ai paesi più avanzati nella prima metà del secolo, fecero registrare un rapido salto in avanti nella seconda, in particolare negli ultimi due o tre decenni. Tutti questi paesi avevano popolazioni modeste. Nel corso del XIX secolo i tassi d’incremento demografico furono moderati ma in tutti e quattro i casi la popolazione era più che raddoppiata nel 1900. La densità di popolazione variava fortemente. I Paesi Bassi avevano uno dei valori più alti d’Europa, mentre la Norvegia e la Svezia erano tra i paesi meno densamente popolati. La Danimarca era nel mezzo. Tutti e 4 i paesi erano ben provvisti di capitale umano. Sia nel 1850 sia nel 1914 i paesi scandinavi vantavano la percentuale più elevata di adulti in grado di leggere e scrivere in Europa e nel mondo, mentre i Paesi Bassi erano ben al di sopra della media europea. Questo fatto ebbe un valore inestimabile nell’aiutare le economie nazionali a trovare le loro nicchie nelle correnti in perenne e rapida evoluzione dell’economia internazionale. Tutti e 4 i paesi erano privi di carbone à ragione principale per cui essi non figuravano tra i primi paesi industriali e non svilupparono un’apprezzabile industria pesante. La Svezia era la nazione più fortunata a causa dei suoi ricchi giacimenti di ferro, le vaste distese di foreste da legname e l’energia idraulica. Anche la Norvegia possedeva molto legname, alcuni giacimenti di metalli e un enorme potenziale di energia idraulica. Danimarca e Paesi Bassi erano quasi altrettanto privi di energia idraulica di quanto non lo fossero di carbone. Avevano a disposizione un ammontare non trascurabile di energia eolica. La posizione geografica fu un elemento importante per tutti e quattro i paesi. Tutti avevano un accesso diretto al mare e ciò ebbe notevoli implicazioni per il pesce, oltre che per la disponibilità di trasporti a buon mercato, per la marina mercantile e per l’industria delle costruzioni navali. La Danimarca prese decisioni politiche in senso liberoscambista. Le istruzioni politiche dei 4 paesi non ostacolarono in modo rilevante l’industrializzazione o la crescita economica à progressiva democratizzazione di tutti e 4 i paesi. In ciascuno il governo agevolò in qualche modo le costruzioni ferroviarie e in Svezia fu lo stato a costruire le linee principali. Piccoli paesi dipendenti dai mercati esteri, essi seguirono nel complesso una politica commerciale liberale, anche se in Svezia si sviluppò un movimento protezionista. In Danimarca e in Svezia, i due paesi le cui strutture agrarie erano più vicine a quelle dell’ancien régime, le riforme agrarie furono attuate gradualmente a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e per tutta la prima metà del XIX. Il fattore chiave del successo di questi paesi (oltre al vantaggio del basso livello di analfabetismo) fu la loro capacità di adattarsi alla divisione internazionale del lavoro determinata dai paesi già industrializzati, e di controllare nei mercati internazionali aree di specializzazione per le quali erano particolarmente adatti. Ciò significò una grande dipendenza dal commercio internazionale, soggetto a fluttuazioni, ma significò altresì alti profitti per quei fattori di produzione abbastanza fortunati da trovarsi al posto giusto in tempi di prosperità. Questi paesi, pur facendo il loro ingresso in modo massiccio sul mercato mondiale solo verso la metà del XIX secolo, con l’esportazione di materie prime e di beni di consumo semiraffinati, all’inizio del XX secolo avevano già sviluppato industrie molto sofisticate. Si è parlato di «industrializzazione controcorrente», vale a dire del fenomeno per cui un paese già esportatore di materie prime comincia a sottoporle a lavorazione e le esporta sotto forma di semilavorati e prodotti finiti. Tutti i paesi in questione registrarono tassi di crescita molto lusinghieri, almeno nel periodo compreso tra la metà del secolo e gli anni novanta. Poi, nei due decenni precedenti la Prima guerra mondiale, questi tassi di crescita già soddisfacenti subirono un’accelerazione, soprattutto nei paesi scandinavi, portando i livelli di reddito pro capite ai primi posti del continente. Tre sono le ragioni evidenti: 1. Contesto di prosperità generale, caratterizzato da prezzi in crescita e da una domanda sostenuta 2. Tale periodo fu contrassegnato in Scandinavia da massicce importazioni di capitali 70 Prima guerra mondiale. L’Italia non era ancora un paese industriale, ma il suo cammino era iniziato con molto ritardo. Sempre negli anni novanta del XIX secolo, e fino alla Prima guerra mondiale, la pressione demografica determinò una massiccia emigrazione. 2.3 L’Europa sudorientale Albania, Bulgaria, Romania e Serbia erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti avevano conquistato l’indipendenza dall’Impero ottomano dopo il 1815 (l’Albania solo nel 1913), e l’eredità del dominio ottomano si faceva sentire pesantemente sulle loro economie. All’inizio del XX secolo erano tutti paesi prevalentemente rurali e agrari. La tecnologia era primitiva, e la produttività e il reddito pro capite erano conseguentemente bassi. Nonostante la loro povertà, l’alta natalità combinata con una mortalità in leggero declino provocò a partire dalla metà del XIX secolo un’esplosione demografica. Nel mezzo secolo precedente la Prima guerra mondiale la popolazione crebbe a uno dei ritmi più elevati tra i paesi o gruppi di paesi europei. L’aumento della pressione demografica portò alla crescita del prezzo della terra coltivabile, alla fame di terra, all’emigrazione verso le aree urbane e i paesi più sviluppati dell’Occidente, e a una certa emigrazione verso i paesi d’oltremare. Le risorse naturali erano insufficienti ad alleggerire la pressione demografica. Gran parte della terra era montagnosa e inadatta alla coltivazione. La Romania aveva la maggiore estensione di terra arabile, ma con le tecniche primitive di coltivazione in uso neanch’essa era molto produttiva. Esistevano piccoli giacimenti sparpagliati di carbone e piccoli giacimenti di metalli non ferrosi. La più importante risorsa naturale era il petrolio romeno, la cui estrazione ebbe inizio nell’ultimo decennio del XIX secolo su iniziativa di diverse imprese straniere, in primo luogo tedesche. In accordo con il loro carattere agrario, il commercio estero di questi paesi consisteva di esportazioni di prodotti agricoli e importazioni di manufatti, soprattutto beni di consumo. In contrasto con la lenta diffusione della tecnologia agricola e industriale, la tecnologia istituzionale delle banche e dell’indebitamento estero si diffuse con rapidità. Nel 1885 tutti e quattro gli stati balcanici allora esistenti avevano la loro banca centrale con potestà esclusiva di emissione di banconote. I prestiti esteri furono destinati principalmente alla costruzione di ferrovie e altri tipi di infrastrutture, ma anche all’acquisto di armamenti, al mantenimento delle ipertrofiche burocrazie e in misura via via maggiore al pagamento degli interessi sui debiti precedentemente contratti. In ciascuno dei paesi in oggetto si sviluppò dopo il 1895 circa un modesto settore industriale, costituito soprattutto da industrie produttrici di beni di consumo. L’industria moderna non era ancora penetrata nel sud-est europeo alla vigilia della Prima guerra mondiale. 3. LA RUSSIA IMPERIALE All’inizio del XX secolo l’Impero russo era considerato generalmente una grande potenza. L’estensione del suo territorio e la popolazione, di gran lunga superiori a quelli di tutti gli altri paesi europei, giustificavano tale reputazione. Anche in termini economici complessivi la Russia occupava una posizione ragguardevole: quinta al mondo in quanto a produzione industriale totale. Possedeva grandi industrie tessili nonché industrie pesanti. Era seconda al mondo nella produzione petrolifera, e per alcuni anni alla fine dell’Ottocento detenne addirittura il primo posto. La produzione e il consumo pro capite di carbone erano nettamente inferiori persino a quelli austriaci. Lo stesso valeva anche per quasi tutti gli altri settori produttivi. La Russia era un paese ancora prevalentemente agricolo. La produttività, in special modo quella agricola, era tremendamente bassa, ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali. L’ostacolo istituzionale del servaggio legalizzato, non rimosso che nel 1861, condizionò pesantemente anche dopo l’emancipazione le possibilità di incrementare la produttività. Gli inizi dell’industrializzazione russa sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande o anche prima. Nella prima metà dell’Ottocento l’industrializzazione divenne un fenomeno più visibile. L’industria più dinamica, e che registrò la crescita più rapida, fu quella cotoniera. La Guerra di Crimea (1853-1856) rivelò la cruda realtà dell’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura russe, e in tal modo preparò la strada, indirettamente, a una serie di riforme, la più notevole delle quali fu l’emancipazione dei servizi del 1861. Contemporaneamente, il governo incoraggiò un programma di costruzioni ferroviarie sulla base di capitali e tecnologie d’importazione, e riorganizzò il sistema bancario per permettere l’introduzione di tecniche finanziarie occidentali. L’efficacia delle nuove politiche divenne evidente alla metà degli anni ottanta nel «grande balzo» della produzione industriale che si verificò negli anni novanta. Gran parte del merito di questo grande balzo va attribuita al programma di costruzioni ferroviarie e alla connessa espansione delle industrie mineraria e metallurgica. La produzione di carbone e di ghisa grezza ebbe un’impennata quando, negli anni ottanta, imprenditori francesi convinsero il governo zarista a costruire una ferrovia per collegare i giacimenti di carbone e quelli di minerali ferrosi. Il governo cercò di incoraggiare l’industrializzazione in vari modi: - Contrasse prestiti all’estero per finanziare la costruzione di ferrovie statali e garantì le obbligazioni di ferrovie appartenenti a società private - Ordinò rotaie, locomotive e altro equipaggiamento per le ferrovie di proprietà statale unicamente a società ubicate in Russia (sia di proprietà russa sia straniera) e dispose che le società private facessero altrettanto. - Impose alti dazi sulle importazioni di prodotti di ferro e acciaio, ma allo stesso tempo agevolò l’introduzione delle attrezzature più moderne per la manifattura del ferro e dell’acciaio e per le costruzioni meccaniche. Al boom dell’industria russa degli anni novanta succedette la crisi dei primi anni del XX secolo, che a sua volta fu seguita dall’esito disastroso (per la Russia) della Guerra russo-giapponese del 1904-1905, e subito dopo dalla rivoluzione del 1905-1906. La rivoluzione fu domata, ma da essa scaturirono diverse riforme sia politiche che economiche, la più importante delle quali fu la riforma agraria di Stolypin, che portò a un aumento della produttività agricola. Nel mezzo secolo precedente la Prima guerra mondiale l’economia russa subì profondi mutamenti nella direzione di un sistema più moderno e tecnologicamente adeguato; essa era però ancora molto indietro rispetto alle economie occidentali più avanzate. La sua debolezza economica si acutizzò nel corso della guerra, contribuendo alla sconfitta della Russia e preparando lo scenario in cui avrebbero avuto luogo le rivoluzioni del 1917. 71 XIII. La diffusione dello sviluppo oltre l’Europa: 1848-1914 I territori dell’Asia e dell’Africa furono interessati solo marginalmente dall’espansione commerciale del XIX secolo, fino a quando non caddero sotto la potenza militare dell’Occidente. Gran parte dell’America Latina continuò a beneficiarne. Parte dell’Asia era rimasta isolata. L’Impero cinese, il Giappone, la Corea e i principati dell’Asia sudorientale tentarono di rifuggire dalla civiltà occidentale. La virtuale assenza di comunità politiche organizzate, sul modello europeo, e lo scarso sviluppo economico rendevano il continente africano poco attraente agli occhi dei commercianti e degli imprenditori europei. Ciononostante, una concatenazione di eventi condusse, prima della fine dell’Ottocento, al coinvolgimento sia dell’Asia sia dell’Africa nell’economia mondiale in rapida evoluzione. 1. IL GIAPPONE Nella prima metà del secolo il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze straniere, in particolare occidentali. Dall’inizio del Seicento il governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste. Nel XIX secolo il livello tecnologico del Giappone era approssimativamente quello dell’Europa all’inizio del Seicento. Tuttavia, l’organizzazione dell’economia era sofisticata, con mercati attivi e un sistema creditizio. Il livello di analfabetismo era più basso di quello dei paesi dell’Europa meridionale e orientale. Nel 1853 e nel 1854 Matthew Perry, ammiraglio della flotta statunitense, entrò con le sue navi nella Baia di Tokyo e costrinse lo shogun Tokugawa ad allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti. Subito dopo altre nazioni occidentali ottennero privilegi simili a quelli accordati agli USA. Una clausola chiave di questi “trattati ineguali” impediva al governo giapponese di imporre tariffe superiori al 5% ad valorem; gli stranieri inoltre ottennero diritti di extraterritorialità (non erano cioè soggetti alle leggi giapponesi). La debolezza dello shogunato Tokagawa di fronte alle prepotenze occidentali portò a rivolte xenofobe e a un movimento per riportare l’imperatore a una posizione centrale del governo. Questo movimento fu favorito dall’ascesa al trono di un giovane imperatore, Mutsuhito; l’anno seguente il partito dell’imperatore costrinse lo shogun ad abdicare e portò l’imperatore a Tokyo, la capitale di fatto. Questo avvenimento, che segna la nascita del Giappone moderno, è chiamato «Restaurazione Meiji» («governo illuminatorio»). L’epoca Meiji durò dal 1868 alla morte di Mutsuhito nel 1912. Il Giappone cooperò con gli stranieri ma tenendoli a rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione burocratica altamente centralizzata modellata sul sistema francese, con un esercito di tipo prussiano e una flotta simile a quella britannica. I metodi industriali e finanziari furono importati da molti paesi. Furono inoltre fondate nuove scuole sul modello occidentale. Uno dei problemi più fastidiosi che il nuovo governo si trovò a fronteggiare fu quello finanziario. Nel 1873 decretò una tassa sulla terra, stabilita in base alla produttività potenziale dei territori agricoli. Essa ebbe un effetto doppiamente benefico: - Assicurò al governo un’entrata fissa (a spese dei contadini); - Garantì che la terra sarebbe stata usata al meglio, in quanto chi non era in grado di massimizzare i profitti l’avrebbe persa o sarebbe stato costretto a venderla a qualcuno capace di farlo. Sempre in merito ai problemi finanziari, il governo intraprese la creazione di un nuovo sistema bancario sul modello degli Stati Uniti à le banche potevano essere fondate usando titoli governativi a garanzia dell’emissione di banconote, obbligatoriamente convertibili in moneta metallica. Nel 1877 scoppiò la Rivoluzione di Satsuma, una sollevazione antigovernativa scatenata da uno dei maggiori clan occidentali; il governo riuscì a domare la ribellione ma a un costo pesante e gonfiando ulteriormente la circolazione sia di denaro governativo inconvertibile sia di banconote nazionali, causando in tal modo un’inflazione selvaggia. Il nuovo ministro delle finanze decise che il difetto era nel sistema bancario e, dopo aver realizzato nel 1881 una drastica deflazione monetaria, ricostruì completamente la struttura bancaria. Creò una nuova banca centrale, la Banca del Giappone che ottenne il monopolio dell’emissione di banconote e agiva anche come agente fiscale per conto del tesoro. Sin dall’epoca della Restaurazione Meiji il governo aveva intenzione di introdurre nel paese praticamente l’intera gamma delle industrie occidentali. Si trattava di un’impresa che poteva essere realizzata solo nel lungo termine. Nel frattempo, occorreva trovare le risorse necessarie per pagare le importazioni di macchinari e di altre attrezzature e gli stipendi degli esperti stranieri. Per un’economia che all’epoca della restaurazione era prevalentemente agricola e virtualmente senza alcuna esperienza di commercio con l’estero non si trattava di un compito facile. Il Giappone disponeva inoltre di limitate risorse naturali. In gran parte montuoso con conseguenza che la percentuale di terra arabile era bassa. Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell’alimentazione, integrato dal pesce e dagli altri prodotti marini. Possedeva alcuni giacimenti di carbone e rame. Ma, per la maggior parte, fu il settore agrario quello che dovette sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a finanziare le importazioni. Subito dopo l’apertura degli scambi l’industria cotoniera fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati provenienti dall’Occidente. Mentre l’industria della seta sopravvisse e la maggior parte della produzione veniva esportata. Si sviluppò anche il commercio dei tessuti di seta, ma gli alti dazi sui tessuti imposti dai paesi che erano i mercati principali della seta grezza ostacolarono la crescita di quest’industria. L’altra grande fonte di esportazione agricola era il tè; il suo peso relativo diminuì comunque gradualmente con la crescita della popolazione e del reddito nazionale. Lo stesso si verificò e in misura ancor più accentuata con il riso. Sebbene l’introduzione del maggior numero di elementi della tecnologia occidentale fosse dovuta all’iniziativa governativa, non era nelle intenzioni del governo proibire l’impresa privata. Non appena le miniere, le fabbriche modello e gli altri impianti moderni cominciarono a funzionare in maniera soddisfacente, il governo li vendette a società e imprese private. L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi. Le industrie pesanti ebbero uno sviluppo più lento, ma nel 1914 il Giappone era in gran parte autosufficiente in questi settori. La Prima guerra mondiale accrebbe la domanda dei prodotti di queste industrie e aprì nuovi mercati. La guerra fu una manna per l’intera economia giapponese. Entrando in guerra a fianco degli alleati, il Giappone riuscì a impadronirsi delle colonie del Pacifico e delle concessioni cinesi già appartenute alla Germania. 72 La transizione economica del Giappone da società arretrata e tradizionale a grande nazione industriale all’epoca della Prima guerra mondiale fu un’impresa notevolissima. Il tasso di crescita annuo del prodotto nazionale lordo, negli anni compresi tra il 1870 e la vigilia della guerra, era uguale o superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo; esso fu relativamente stabile e non scese mai sotto lo zero. La transizione economica giapponese ebbe anche conseguenze politiche. Nel 1894-1895 il Giappone sconfisse la Cina e, dieci anni dopo sconfisse anche la Russia sia in mare che in terra. 2. LA CINA Nel XIX secolo la decadenza interna aveva seriamente indebolito la dinastia Qing, che aveva governato la Cina fin dalla metà del XVII secolo. Pur di conservare il potere i nuovi sovrani Manciù avevano finito per concedere alle élite locali di conservare i loro privilegi e ai contadini i diritti di proprietà con una bassa imposizione fiscale fissa. Privi di qualsiasi stimolo di estendere il territorio cinese al di là della Grande Muraglia, e concentrati sul mantenimento del commercio interno sui fiumi e i grandi canali, i Qing non disponevano dei mezzi per opporsi alla potenza navale occidentale. Ciò diede agli europei l’opportunità di guadagnare con la forza l’accesso all’impero dal quale erano stati esclusi così a lungo. Gli interessi commerciali britannici fornirono il pretesto iniziale per l’intervento. Il tè e le sete cinesi avevano un ampio mercato in Europa, ma i commercianti britannici potevano offrire ben poco se non l’oppio. Il governo cinese ne proibì l’importazione, ma il commercio prosperò per mezzo dei contrabbandieri e di doganieri corrotti. Quando nel 1839 un ufficiale sequestrò e fece bruciare un grosso carico di oppio, i commercianti britannici invocarono una rappresaglia. Cominciò così la Guerra dell’oppio (1839-1842), che terminò con l’imposizione del Trattato di Nanchino. In base a esso la Cina dovette consegnare agli inglesi l’isola di Hong Kong, accettare di aprire altri cinque porti al commercio sotto la supervisione consolare, fissare un dazio uniforme del 5% sulle importazioni e pagare una considerevole indennità. Il commercio dell’oppio proseguì. La facilità con cui i britannici ebbero la meglio sui cinesi incoraggiò altri paesi a richiede trattati ugualmente favorevoli, che furono accordati. Una tale dimostrazione di debolezza del governo cinese provocò la Rivolta dei Taiping (1850-1864). Le truppe governative riuscirono a sconfiggere i ribelli, ma nel frattempo l’illegalità generale diede alle potenze occidentali un altro pretesto per intervenire. Nel 1857-1858 una forza congiunta anglo-francese occupò diverse grandi città e costrinse la Cina a ulteriori concessioni, alle quali parteciparono anche gli USA e la Russia. La discesa del prezzo dell’argento nei paesi che adottarono il gold standard regalò però alla Cina un boom stimolato dalle esportazioni, soprattutto di cotone. Crebbero anche le esportazioni di seta, ma le esportazioni locali sbarrarono l’ingresso alla tecnologia moderna che avrebbe potuto accrescere la produttività. Un migliore accesso ai mercati internazionali era impedito dal fatto che la famiglia imperiale si rifiutava di costruire ferrovie per paura di una maggiore influenza occidentale. Le continue umiliazioni portarono a un ultimo scoppio di violenza xenofoba nota come «Rivolta dei Boxer» (1900-1901). «Boxer» era l’appellativo popolare dato ai membri della società segreta dei “pugni di giustizia e di concordia”, il cui obiettivo era di cacciare tutti gli stranieri dalla Cina. Da quel momento l’impero cinese si trovò in uno stato quasi palpabile di decadenza. Esso cadde nel 1912 sotto i colpi della rivoluzione condotta da Sun Yat-sen. Le potenze occidentali non tentarono di interferire nella rivoluzione né se ne preoccuparono. La nuova repubblica cinese rimase debole e divisa. 3. L’INDIA Un esempio di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, la Compagnia assunse funzioni di governo territoriale dopo la vittorio riportata sull’esercito del nababbo del Bengala e l’acquisizione del controllo sulle sue entrate. La potenza militare della Compagnia condusse a ulteriori conquiste e all’estensione del suo dominio su aree sempre più ampie del subcontinente fino allo scoppio della Rivolta dei Sepoy del 1857. La Compagnia era in parte motivata dall’obiettivo di trovare una compensazione per i profitti commerciali perduti allorché il governo metropolitano l’aveva privata nel 1813 del monopolio del commercio con l’India e poi anche del monopolio del commercio con la Cina. C’era poi l’obiettivo di estendere la produzione di oppio destinato all’esportazione. La Compagnia aveva scoperto che poteva aumentare sia le proprie entrate fiscali sia i ricavi commerciali incoraggiando la coltivazione del papavero tra i contadini indiani. L’opinione pubblica britannica divenne consapevole dell’anomalia di una compagnia privata che esercitava un’autorità militare e ne pretese lo scioglimento e il trasferimento delle sue funzioni di governo all’India Office. Il dominio sempre più esteso della Compagnia delle Indie orientali sull’India durò un secolo intero, dal 1757 al 1857, mentre quello dell’India Office sulla colonia più vasta che il mondo avesse mai visto durò fino al 1947. Il primo cinquantennio del dominio britannico portò i contadini indiani a contatto con l’economia globale, e consentì l’introduzione di nuovi prodotti molto ricercati sui mercati di esportazione. Il sostegno dato dai britannici alle costruzioni ferroviarie in tutta l’India facilitò ai contadini l’accesso ai mercati mondiali. Il completamento nel 1869 del Canale di Suez diede ulteriore impulso all’espansione del commercio indiano con la Gran Bretagna oltre che con il resto d’Europa. Il miglioramento della produttività agricola e lo sviluppo dei commerci internazionali sul finire del XIX secolo portarono a una crescita sia della popolazione sia del reddito pro capite. Sempre in quel periodo i britannici assunsero il controllo della Birmania e degli stati malesi che furono poi annessi all’impero e divennero parte del commercio globale. 4. L’AFRICA La colonia del Capo era stata fondata dagli olandesi alla metà del XVII secolo. La GB la conquistò durante le Guerre napoleoniche e vi incoraggiò in seguito gli insediamenti britannici. Le politiche britanniche – abolizione della schiavitù in tutto l’impero nel 1834 e gli sforzi per assicurare un trattamento più umano nei confronti dei nativi – irritarono i boeri (discendenti dei coloni olandesi) che cominciarono la loro marcia verso il nord, dando vita a nuovi insediamenti. Nonostante i tentativi dei boeri di isolarsi dai britannici, i conflitti continuarono per tutto il secolo. Alcune tribù furono sterminate, e quelle che sopravvissero furono ridotte a uno stato di asservimento non lontano dalla schiavitù. Dapprima sia gli insediamenti boeri sia quelli britannici ebbero carattere fondamentalmente agrario, ma nel 1867 la scoperta dei diamanti determinò l’arrivo di molti cercatori provenienti da tutto il mondo. Nel 1886 fu scoperto l’oro. Questi avvenimenti alterarono completamente le basi economiche delle colonie e intensificarono le rivalità politiche. Essi contribuirono inoltre all’ascesa di Cecil Rhodes, cittadino inglese che fece fortuna nelle miniere di diamanti. Nel 1887 organizzò la British African Company e nel 1889 ottenne dal governo britannico una patente che gli concedeva ampi diritti e poteri di governo su un vasto territorio. 75 - L’Europa vera e propria vide diminuire la sua quota del commercio e nella produzione mondiali, a vantaggio principalmente ma non esclusivamente degli USA, de dominions britannici e del Giappone - In parte in conseguenza della guerra, negli anni venti e trenta videro l’affermazione di dittature fasciste in Italia e Germania e in diversi altri paesi europei, anch’esse con nuove forme di organizzazione economica. Ancor più nocive per l’economia, nel lungo periodo, della distruzione materiale, furono l’interruzione e la disorganizzazione delle normali relazioni economiche i cui effetti non cessarono con la fine delle ostilità ma continuarono a riscuotere il loro pedaggio nel periodo tra le due guerre. Fino al 1914 l’economia aveva funzionato liberamente e nel complesso in modo efficiente. Nonostante alcune restrizioni, il grosso dell’attività economica, sia nazionale sia internazionale, era regolata dal libero mercato. Durante la guerra i governi di ciascuno stato belligerante e alcuni paesi non belligeranti imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza lavoro. Questi controlli stimolarono artificialmente taluni settori dell’economia, limitandone artificialmente degli altri. Un problema più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e delle forme di guerra economica cui fecero ricorso i paesi belligeranti, in particolare GB e Germania. Prima della guerra Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti, all’avanguardia tra i paesi industriali e commerciali, erano anche i migliori clienti e fornitori reciproci. Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri si interruppero subito, mentre gli USA, ancora in posizione di neutralità, si sforzarono di mantenere relazioni normali. Il loro tentativo fu ostacolato dalle iniziative di ritorsione intraprese sia dalla GB che dalla Germania. La Gran Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose un blocco dei porti tedeschi che si rivelò abbastanza efficace. La flotta britannica non si limitava a sbarrare i mari alle navi tedesche, ma perseguitava il naviglio neutrale confiscandone talvolta il carico. Ciò provocò degli attriti con gli USA. I tedeschi, incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica, fecero ricorso ai sommergibili – strumento bellico nuovo – nel tentativo di arrestare l’afflusso in GB di rifornimenti dall’estero. I sommergibili attaccavano i vascelli disarmati, sia neutrali sia britannici, senza distinguere tra navi passeggeri e mercantili. L’affondamento nel 1915 del transatlantico britannico Lusitania provocò una vibrata protesta da parte statunitense. Per qualche tempo l’alto comando tedesco moderò la propria politica, ma nel gennaio del 1917, nello sforzo disperato di mettere in ginocchio la GB, diede il via a una guerra sottomarina illimitata. Questo fu uno dei motivi principali dell’entrata dell’America in guerra, fatto che a sua volta assicurò la vittoria finale degli Alleati. La Germania era completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare e la GB fu costretta a dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Di conseguenza, molti paesi d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da altri paesi extraeuropei le merci che in precedenza avevano acquistato in Europa. La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale. Determinando un notevole aumento della domanda di generi alimentari e materie prime in un’epoca in cui alcune regioni non producevano più o erano tagliate fuori dai mercati, la guerra stimolò la produzione agricola sia in regioni già affermate sia in territori relativamente vergini. Il risultato fu, negli anni venti, sovrapproduzione e crollo dei prezzi. Frumento, zucchero, caffè e gomma si dimostrarono particolarmente vulnerabili: - Gli agricoltori americani aumentarono la superficie coltivata a frumento e acquistarono nuove terre ai prezzi gonfi dell’inflazione bellica. Quando i prezzi cominciarono a scendere molti si trovarono nell’impossibilità di estinguere le ipoteche e fallirono. - La Malacca, maggiore produttore mondiale di gomma naturale, e il Brasile, che controllava la maggior parte della produzione mondiale di caffè, cercarono di sostenere i prezzi non immettendo sul mercato una quota del prodotto; ma nuovi produttori entrarono in scena e i prezzi ripresero a scendere. - I produttori di zucchero di canna dei Caraibi, Sud America, Africa e Asia furono danneggiati dalla protezione e dai sussidi accordati ai produttori di zucchero di barbabietola in Europa e negli USA. Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di entrate nel settore delle spedizioni marittime dei servizi. Londra e altri centri finanziari europei persero inoltre parte delle entrate provenienti dalle attività bancarie e assicurative e da altri servizi finanziari e commerciali trasferiti durante la guerra a New York e altrove. Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti all’estero. Prima della guerra la GB, Francia e Germania erano i più importanti investitori. Poiché la GB e la Francia importavano più di quanto non esportassero, i proventi degli investimenti contribuivano a pagare le importazioni in eccesso. Tutti e due i paesi furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l’acquisto urgente di materiale bellico. Altri investimenti persero valore in conseguenza dell’inflazione e delle conseguenti difficoltà valutarie. Altri soffrirono di inadempienze o di disconoscimenti. Gli investimenti tedeschi nei paesi belligeranti furono confiscati durante la guerra, e successivamente liquidati a titoli di riparazioni. Gli USA da paese debitore netto si trasformarono in creditore netto in conseguenza del rapido aumento dell’eccedenza delle esportazioni e degli ingenti prestiti concessi agli Alleati. Un ultimo stravolgimento delle economie nazionali e internazionali derivò dall’inflazione. Le pressioni finanziarie della guerra costrinsero tutti i paesi coinvolti (nonché alcuni dei non belligeranti), a eccezione degli USA, ad abbandonare il gold standard, che nel periodo prebellico era servito a stabilizzare i movimenti dei prezzi. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione dei prezzi. La grande disparità nei prezzi, e conseguentemente nel valore delle singole monete, rese più difficile la ripresa del commercio internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico. 2. CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PACE La «Pace di Parigi» (sistemazione postbellica) invece di tentare di risolvere i gravi problemi economici causati dalla guerra finì per inasprirli. Dai trattati di pace emersero due grandi categorie di difficoltà economiche: 1) La crescita del nazionalismo economico 2) Problemi monetari e finanziari Il Trattato di Versailles con la Germania la privava del 13% del territorio prebellico e del 10% della sua popolazione del 1910. Le colonie africane e nel Pacifico erano già state occupate dagli Alleati, che se ne videro confermare il possesso. La Germania dovette cedere la marina da guerra, grosse quantità di armi e munizioni, la maggior parte della flotta mercantile, molte locomotive e vagoni ferroviari, autocarri a motore e varie altre merci. L’aspetto più umiliante di tutti fu la clausola della «responsabilità della guerra». 76 • Lo smembramento dell’Impero austro-ungarico nelle ultime settimane di guerra provocò la nascita di due nuovi stati, l’Austria e l’Ungheria, entrambi con una superficie molto più ridotta. • Altri due nuovi stati-nazione furono la Cecoslovacchia e la Polonia. • La Serbia e il Montenegro si unirono per formare la Jugoslavia. • La Romania, alleata, ottenne vasti territori dall’Ungheria. • La Bulgaria, uno dei nemici, perse territori. • L’Italia ottenne dall’Austria Trieste, il Trentino e il Sud Tirolo. • L’Impero ottomano perse praticamente tutti i suoi territori europei e nel 1922 cadde sotto i colpi di una rivoluzione che segnò la nascita della Repubblica nazionale turca. I nuovi stati dallo smembramento dell’Impero austro-ungarico affermarono il proprio carattere nazionale nella sfera economica ponendosi l’obiettivo dell’autosufficienza e questo impedì la ripresa economica dell’intera regione e ne accrebbe l’instabilità. Il massimo dell’assurdo si ebbe con il blocco dei trasporti. Subito dopo la fine del conflitto, ciascun paese rifiutò di lasciar partire i treni presenti sul proprio territorio. Per qualche tempo i traffici si fermarono quasi completamente. Il tempo e gli accordi consentirono di superare questi eccessi di nazionalismo economico, ma altri tipi di restrizioni rimasero. Durante la guerra civile la Russia scomparve di punto in bianco dall’economia internazionale. Quando riemerse sotto il regime sovietico le sue relazioni economiche furono condotte in un modo completamente diverso dal precedente. Lo stato divenne l’unico compratore e venditore negli scambi internazionali. Esso acquistava e vendeva solo ciò che il potere politico riteneva strategicamente necessario o vantaggioso. In Occidente, paesi che precedentemente avevano dipeso in misura notevole dal commercio internazionale introdussero una varietà di restrizioni (tariffe protezionistiche e divieti di importazione). Contemporaneamente cercarono di stimolare le esportazioni per mezzo di sussidi o provvedimenti analoghi. La Gran Bretagna, prima caratterizzata dal libero commercio internazionale, durante la guerra aveva imposto nuovi dazi che rimasero anche dopo la guerra, prima su base “temporanea”, poi, dopo il 1932, come politica protezionistica ufficiale. Gli USA, che già prima della guerra avevano dazi relativamente elevati, li portarono alla fine delle ostilità a livelli mai visti. Ogni nuova misura restrittiva provocava la ritorsione di altre nazioni in cui interessi venivano pregiudicati. Il volume mondiale di scambi, che era più che raddoppiato nei due decenni precedenti la guerra, nei due decenni successivi eguagliò raramente il livello prebellico. Nello stesso periodo il commercio con l’estero dei paesi europei, anch’esso raddoppiatosi nei due decenni prebellici, raggiunse il livello di prima della guerra solo una volta. Tale esagerato nazionalismo economico ebbe l’effetto opposto a quello che i suoi proponenti si prefiggevano di raggiungere: livelli di produzione e di reddito più bassi invece che più elevati. I disordini monetari e finanziari provocati dalla guerra e aggravati dai trattati di pace condussero con il tempo a un completo collasso dell’economia internazionale. L’insistenza degli stati alleati a trattare ogni questione isolatamente dalle altre invece di riconoscerne le reciproche relazioni, fu uno dei fattori determinanti dei disastri successivi. La GB era stata fino al 1917 la maggior finanziatrice dello sforzo bellico alleato. Al loro ingresso in guerra gli USA subentrarono alla GB, le cui risorse erano quasi esaurite, nel ruolo di principali finanziatori. Tra gli alleati europei i prestiti erano stati solamente nominali. Essi si aspettavano che sarebbero stati cancellati alla fine della guerra, e consideravano nella stessa luce i prestiti americani, tanto più che gli USA erano entrati tardi nel conflitto, avevano contribuito in misura minore sia come uomini sia come materiali e dalla guerra avevano subito danni trascurabili. Gli USA, invece, vedevano nei prestiti un’iniziativa commerciale. Pur acconsentendo dopo la guerra a una riduzione degli interessi e a un allungamento del periodo di rimborso, insistettero sulla restituzione totale del capitale. A questo punto si riaffacciò la questione delle riparazioni. La Francia e la Gran Bretagna pretesero che la Germania pagasse non solo i danni arrecati ai civili, ma anche l’intero costo sopportato dai governi alleati per la prosecuzione della guerra (un’indennità). Il compromesso finale prevedeva che la Germania pagasse quanto gli Alleati pensavano di poter ragionevolmente ottenere, ma l’intero ammontare fu chiamato “riparazioni”. Nel frattempo, i tedeschi avevano cominciato a pagare in contanti e in natura già nell’agosto del 1919, ancor prima che il trattato di pace fosse firmato, e molto prima che fosse noto il conto definitivo. La Francia, GB e gli altri Alleati avrebbero potuto rimborsare gli USA solo se avessero ricevuto una somma equivalente a titolo di riparazioni. Ma la possibilità della Germania di pagare le riparazioni dipendeva dalla sua capacità di esportare più di quanto importava per ottenere la valuta estera o l’oro necessari per effettuare i pagamenti. Le restrizioni economiche imposte dagli Alleati, insieme con la debolezza interna della Repubblica di Weimar, resero impossibile per il governo tedesco ricavare un surplus sufficiente per i pagamenti annuali. Sul finire dell’estate del 1922 il valore del marco tedesco cominciò a crollare in maniera disastrosa in conseguenza della forte pressione dei pagamenti in conto riparazioni (oltre che a causa di iniziative speculative). Alla fine dell’anno la pressione era così forte che la Germania sospese del tutto i pagamenti. Nel gennaio 1923 truppe francesi e belghe occuparono la Ruhr, assunsero il controllo delle miniere di carbone e delle ferrovie e tentarono di obbligare i proprietari e i lavoratori delle miniere a consegnare loro il carbone. I tedeschi risposero con la resistenza passiva. Il governo stampò quantità enormi di carta-moneta per indennizzare gli operai e i datori di lavoro della Ruhr, mettendo in moto un’ondata d’inflazione incontrollata. Nel 1923 il marco valeva meno della carta su cui era stampato. A quel punto le autorità monetarie tedesche ritirarono il marco dalla circolazione sostituendolo con una nuova unità monetaria, la Rentenmark. Le dannose conseguenze dell’inflazione non poterono essere confinate alla Germania. Tutti gli stati succeduti alla monarchia asburgica, la Bulgaria, la Grecia e la Polonia soffrirono allo stesso modo di un’inflazione galoppante. Come Keynes aveva predetto, l’economia internazionale si trovava di fronte a una grave crisi. I francesi si ritirarono dalla Ruhr alla fine del 1923 senza aver raggiunto l’obiettivo, che era la ripresa da parte tedesca dei pagamenti in conto riparazioni. Una commissione internazionale convocata sotto la presidenza di Dawes (banchiere e finanziere americano) raccomandò una graduale diminuzione dei pagamenti annuali, la riorganizzazione della Reichsbank tedesca e un prestito internazionale alla Germania. Il cosiddetto «Prestito Dawes», i cui fondi furono raccolti in gran parte negli USA, permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni e di tornare al gold standard nel 1924. A questo prestito fece seguito un secondo afflusso di capitali americani in Germania. In questo modo la Germania ottenne anche la valuta estera necessaria per pagare le riparazioni. La disastrosa inflazione lasciò cicatrici profonde nella società tedesca. L’incidenza diseguale dell’inflazione sui singoli determinò una drastica redistribuzione del reddito e della ricchezza. Mentre alcuni abili speculatori ammassarono fortune enormi, la maggioranza dei cittadini videro i propri modesti risparmi spazzati via e subirono un grave peggioramento del tenore di vita. Ciò li rese sensibili agli 77 appelli dei politici estremisti. Non a caso sia i comunisti sia i nazionalisti ottennero un grosso successo a spese dei partiti democratici moderati alle elezioni per il Reichstag del 1924. La Gran Bretagna, già prima della guerra, era molto dipendente dal commercio internazionale e l’eccessivo attaccamento a settori industriali in rapida obsolescenza facevano prevedere che i britannici si sarebbero trovati nel XX secolo di fronte a un difficile periodo di riaggiustamento. Con la guerra la GB perse mercati e investimenti esteri, buona parte della marina mercantile e altre fonti estere di reddito. Essa dipendeva come non mai dalle importazioni di prodotti alimentari e materie prime, e si trovò gravata di responsabilità mondiali ancor più onerose in qualità di paese più forte tra i vincitori europei e come amministratrice di nuovi territori oltremare. Era necessario esportare, e tuttavia le fabbriche e le miniere rimanevano inoperose mentre la disoccupazione saliva. I provvedimenti presi dal governo per affrontare i problemi economici furono inefficaci. L’unica soluzione per la disoccupazione fu il sussidio. Per il resto, la politica economica del governo consistette principalmente in una riduzione all’osso delle spese. L’unica iniziativa diretta assunta dal governo in ambito economico terminò in un disastro. La GB aveva abbandonato nel 1914 il gold standard. Considerata la posizione prebellica di Londra quale centro dei mercati finanziari mondiali, esistevano forti pressioni per un rapido ritorno al gold standard per scongiurare l’ulteriore erosione della sua preminenza finanziaria. Le maggiori questioni irrisolte erano: a) In quanto tempo ci si poteva tornare b) A quale valore per la sterlina La risposta alla prima questione dipendeva dalla quantità di riserve auree accumulate dalla Banca d’Inghilterra; per consenso generale, a metà degli anni venti esse furono ritenute sufficienti. Nel 1925 il cancelliere dello Scacchiere Winston Churchill decise il ritorno della GB al gold standard alla parità d’anteguerra. Per mantenere la competitività delle industrie britanniche fu necessario comprimere i salari. L’effetto complessivo fu una redistribuzione del reddito in favore dei possessori di rendite a spese dei lavoratori. L’industria del carbone fu una di quelle maggiormente colpite dalla perdita dei mercati esteri e dalla lievitazione dei costi. Di fronte alla prospettiva di un taglio dei salari in conseguenza del ritorno al gold standard, nel 1926 i minatori scesero in sciopero e persuasero molti altri sindacati a unirsi a loro, ma lo sciopero terminò con la sconfitta dei sindacati. Nonostante i problemi britannici, nei tardi anni venti la maggior parte dell’Europa prosperò. Dal 1924 al 1929 sembrò che si fosse tornati alla normalità: - La riparazione dei danni materiali era un fatto per lo più compiuto; - I più urgenti e immediati problemi postbellici erano stati risolti; - Con l’istituzione della Società delle Nazioni sembrava che fosse albeggiata una nuova era nelle relazioni internazionali. Tuttavia le basi di questa prosperità erano fragili, e dipendevano dal continuo afflusso spontaneo di fondi dall’America alla Germania. 3. LA GRANDE CONTRAIZONE: 1929-1933 Gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. In termini economici erano passati da paese debitore netto a creditore netto, avevano strappato ai produttori europei nuovi mercati e godevano di una bilancia commerciale favorevole. Nel 1920-1921 erano stati colpiti, come del resto l’Europa, da una sensibile depressione, ma si era rivelata di breve durata. Nell’estate del 1928 le banche e gli investitori americani cominciarono a limitare gli acquisti di titoli tedeschi e di altri paesi per investire i propri fondi sul mercato azionario di New York, che di conseguenza iniziò una spettacolare ascesa. Durante il boom speculativo del great bull market numerosi individui con redditi modesti furono tentati dall’acquisto di titoli a credito. Verso la fine dell’estate del 1929 l’Europa stava già avvertendo la tensione provocata dalla cessazione degli investimenti americani all’estero, e persino l’economia americana aveva smesso di crescere. Il prodotto nazionale lordo statunitense raggiunse il suo massimo nel primo trimestre del 1929, per poi diminuire gradualmente. In Europa, la GB, la Germania e l’Italia stavano avvertendo i primi sintomi della Grande depressione. Ma con i prezzi delle azioni ai livelli più alti di tutti i tempi, gli investitori americani e i funzionari pubblici diedero scarso peso a questi segni di disagio. Il 24 ottobre del 1929 – “giovedì nero” della storia finanziaria americana – un’ondata di vendite per panico nel mercato azionario fece crollare i prezzi dei titoli e cancellò milioni di dollari che esistevano solo sulla carta. Una seconda ondata di vendite si ebbe il 29 ottobre – “martedì nero”. L’indice dei prezzi azionari cadde e continuò a cadere. Le banche richiesero il pagamento dei prestiti effettuati, obbligando altri investitori a gettare le proprie azioni sul mercato a qualunque prezzo si potesse spuntare. Gli americani che avevano investito in Europa bloccarono ogni ulteriore investimento e vendettero quanto possedevano per riportare in patria i capitali. Il ritiro dei capitali dall’Europa continuò per tutto il 1930, sottoponendo l’intero sistema finanziario a tensioni insopportabili. I mercati finanziari si stabilizzarono, ma i prezzi delle merci erano bassi e continuavano a scendere, trasmettendo la pressione a paesi produttori. Il crollo del mercato azionario non fu la causa della Grande depressione, ma fu un chiaro segnale che essa era già in atto, sia negli USA sia in Europa. Nel 1931 la Creditanstalt austriaca di Vienna, una delle banche più grandi e importanti dell’Europa centrale, sospese i pagamenti. Nonostante il governo austriaco congelasse i patrimoni bancari e proibisse il ritiro dei fondi, il panico si diffuse e si verificò un ritiro massiccio di fondi che determinò il fallimento di diverse banche. In base a quanto previsto dal Piano Young, che aveva sostituito nel 1929 il Piano Dawes come strumento per la soluzione al problema della riparazione, la Germania era tenuta a un ulteriore pagamento in conto riparazioni. Negli USA il presidente Hoover, costretto dalle circostanze a riconoscere l’interdipendenza tra debiti di guerra e riparazioni, propose una moratoria di un anno su tutti i pagamenti intergovernativi di debiti e riparazioni, ma era troppo tardi per arrestare il panico; esso si propagò alla Gran Bretagna, dove il governo autorizzò la Banca d’Inghilterra a sospendere i pagamenti in oro. Diversi paesi duramente colpiti dalla diminuzione dei prezzi dei prodotti primari avevano già abbandonato il gold standard. In assenza di un sistema internazionale concordato, i valori delle valute oscillarono incontrollabilmente spinti dalle variazioni dell’offerta e della domanda, e influenzati dalle fighe di capitali e dagli eccessi del nazionalismo economico che si riflettevano in variazioni tariffarie di ritorsione. Gli scambi internazionali caddero drasticamente tra il 1929 e il 1932, inducendo analoghe, ma meno drastiche, contrazioni della produzione manifatturiera, dell’occupazione e del reddito pro capite. Una delle caratteristiche fondamentali delle scelte di politica economica del 1930-1931 era stata l’unilateralità della loro applicazione: le decisioni di sospendere il gold standard e di imporre dazi e contingenti erano state prese dai governi nazionali senza consultazioni o accordi internazionali, e senza considerare le ripercussioni o le relazioni delle altre parti in causa. Nel giugno del 1932, a Losanna, in Svizzera, si riunirono i rappresentanti delle principali potenze europee per discutere le conseguenze della scadenza della moratoria di Hoover: la Germania doveva riprendere i pagamenti delle riparazioni, e in tal caso a quali condizioni? I debitori europei dovevano 80 dell’economia urbana, la confisca e la distribuzione della terra ai contadini e un nuovo sistema giuridico. La sua caratteristica saliente fu l’introduzione del governo di un partito unico, la «dittatura del proletariato», di cui Lenin era la voce. Nelle elezioni per l’assemblea costituente i socialisti rivoluzionari (Sr), avversari dei bolscevichi, ottennero una larga maggioranza. L’assemblea si riunì, ma Lenin mandò truppe per scioglierla. I socialisti rivoluzionari riesumarono la loro tradizione politica di attentati e riuscirono a ferire Lenin. I comunisti instaurarono subito dopo un deliberato regno del terrore, assassinando gli oppositori politici e mantenendo nel frattempo il controllo del governo centrale, spostato a Mosca a partire dal marzo 1918. Il 30 dicembre del 1922 nasceva l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). Nel 1921, al momento della firma del Trattato di Riga che segnò la pace con la Polonia, i comunisti non erano più minacciati da un’opposizione attiva al loro potere in patria o all’estero. L’economia era però nel caos. La produzione industriale era crollata e la politica agricola del governo non aveva dato risultati migliori. I contadini, di cui i bolscevichi avevano legittimato le occupazioni di terre, rifiutavano di consegnare i loro prodotti ai prezzi artificialmente bassi imposti dal governo. Nel 1921 un ammutinamento nella base navale, causato dalle spaventose condizioni di vita dei marinai, convinse Lenin della necessità di una nuova politica. Lenin adottò la «Nuova politica economica»: - Una speciale imposta in natura sulla produzione agricola sostituì le requisizioni obbligatorie, e ai contadini fu permesso di vendere le eccedenze ai liberi prezzi di mercato; - Le piccole industrie furono riprivatizzate e autorizzate a produrre per il mercato; imprenditori stranieri affittarono impianti esistenti e ottennero speciali concessioni per l’introduzione di nuove industrie. Tuttavia, i settori dominanti dell’economia 8grande industria, trasporti e comunicazioni, banche e commercio con l’estero) rimasero di proprietà statale e sotto gestione statale. La produzione crebbe sia nell’industria sia nell’agricoltura. Lenin morì nel 1924 e si astenne dal designare esplicitamente il suo successore. Due tra i maggiori contendenti erano Stalin e Trockij. Divergenze radicali sia in materia di politica interna sia di politica estera separavano i due contendenti. Mentre Trockij propugnava la rivoluzione mondiale, Stalin finì con lo schierarsi con coloro che preferivano costruire un forte stato socialista in Unione Sovietica: «Socialismo in un solo paese». Dopo aver avuto la meglio su Trockij, rimosso, esiliato e infine ucciso, Stalin si volse contro i suoi vecchi alleati. Nel 1928 il controllo di Stalin sul partito e sul paese era assoluto. Il programma staliniano del «socialismo in un solo paese» implicava un massiccio rafforzamento dell’industria russa per rendere il paese autosufficiente e potente nei confronti di un mondo largamente ostile. Nel 1929 lanciò il primo piano quinquennale. Questo avvenimento è talvolta definito «Seconda rivoluzione bolscevica». Tutte le risorse dello stato sovietico furono mobilitate direttamente o indirettamente in questa direzione. La Commissione statale di pianificazione si sostituì al mercato senza riguardo per i costi, i profitti o le preferenze dei consumatori. Invece di rappresentare i lavoratori e tutelare i loro interessi, i sindacati furono usati per mantenere la disciplina nei luoghi di lavoro, impedire scioperi e sabotaggi e stimolare la produttività. L’agricoltura era per l’Unione Sovietica uno dei settori con i problemi più complessi e persistenti. Stalin insistette che i contadini dovevano essere organizzati in aziende agricole statali. Lo stato, proprietario della terra, del bestiame e delle attrezzature, nominava un dirigente di professione; i contadini che coltivavano la terra non erano che proletariato agricolo. Essi si opposero alla collettivizzazione. In un compromesso con i contadini, il governo permise loro in qualche caso di formare fattorie cooperative in cui la maggior parte della terra era coltivata in comune, ma in cui ogni nucleo familiare era autorizzato a possedere piccoli appezzamenti di terra per uso esclusivo. Gli obiettivi del primo piano quinquennale furono dichiarati raggiunti dopo 4 anni e 3 mesi. In realtà il piano non fu un completo successo. Nonostante che in certi settori industriali la produzione fosse cresciuta prodigiosamente, la maggior parte delle industrie non era riuscita a soddisfare le quote, fissate a livelli irrealisticamente elevati. La produzione agricola era crollata. I costi del piano quinquennale furono enormi, specialmente in termini umani. Nel 1933 il governo inaugurò il secondo piano quinquennale, in cui i beni di consumo dovevano essere privilegiati; in realtà il governo continuò a dedicare una quota considerevole delle risorse ai beni capitale e all’equipaggiamento militare. Nonostante i grandi incrementi della produzione industriale, il paese rimase prevalentemente agrario, e l’agricoltura era il settore più debole. Un elemento notevole del secondo piano quinquennale fu la Grande purga del 1936-1937. Migliaia di individui furono sottoposti a processo (o giustiziati senza processo) sotto l’accusa di aver commesso crimini che andavano dal sabotaggio allo spionaggio e al tradimento. Tutto ciò ebbe effetti sensibili sulla produzione. Il terzo piano quinquennale (1938) fu interrotto dall’invasione tedesca del 1941, e l’Unione Sovietica ripiombò in qualcosa che somigliava al comunismo di guerra. 6. RISPOSTE ISTITUZIONALI ALLA DISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE 6.1 Relazioni internazionali Alcune organizzazioni internazionali risalgono al XIX secolo (Croce rossa internazionale, Unione postale universale) ma il XX è stato prolifico a questo proposito. La Società delle Nazioni, istituita dal Trattato di Versailles del 1919, doveva garantire la pace mondiale e di conseguenza la prosperità. La mancata adesione degli USA all’organizzazione promossa dal loro presidente condannarono quest’ultima al fallimento. Una delle subagenzie della Società, l’Organizzazione internazionale del lavoro, le sopravvisse ed è attiva ancor oggi. Essa indaga sulle condizioni di vita e di lavoro, pubblica i risultati delle proprie ricerche ed esprime raccomandazioni al riguardo, ma non sono vincolanti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, succeduta alla Società delle Nazioni, è il baluardo della pace e ha istituito diverse agenzie specializzate in questioni economiche e affini. 6.2 Il ruolo del potere pubblico Un altro dei cambiamenti fondamentali che hanno coinvolto tutte le nazioni nel XX secolo è il ruolo enormemente cresciuto del potere pubblico nell’economia. La crescita dello stato nel XX secolo deve in parte essere messa in relazione con le necessità finanziarie delle due guerre mondiali e con altre considerazioni di difesa nazionale. In Unione Sovietica e nelle altre economie di modello sovietico, lo stato si assumeva la responsabilità totale dell’economia attraverso un sistema globale di pianificazione economica e di controllo. Durante le due guerre mondiali numerosi paesi belligeranti avevano fatto ricorso a controlli molto estesi e alla partecipazione statale all’economia, ma con qualche eccezione, in tempo di pace 81 nelle democrazie industriali avanzate le attività economicamente produttive sono ritenute di competenza degli individui e delle società private. Nel periodo tra le due guerre tutti i governi tentarono, con scarso successo, di perseguire politiche di risanamento e stabilizzazione dell’economia. Dopo la Seconda guerra mondiale i tentativi ebbero maggior successo. Essi incorporarono per lo più qualche forma di pianificazione economica, non globale o coercitiva quale quella dell’Unione Sovietica. Per questo motivo ai paesi dell’Europa occidentale è stata applicata l’etichetta di «economie miste». Le eccezioni di cui si è fatto cenno sono di due tipi: 1) Le attività direttamente produttive intraprese da o per conto dello stato 2) I trasferimenti, ossia la redistribuzione del reddito per mezzo dell’imposizione fiscale e delle spese. La prima eccezione affonda le sue radici nel XIX secolo e nel XX secolo le industrie di proprietà statale divennero molto più comuni, talvolta a causa del fallimento dell’impresa privata, talaltra in conseguenza della posizione ideologica del partito politico popolare. Anche la seconda ragione fondamentale della crescita del ruolo dello stato – i trasferimenti – affonda le sue radici nel tardo Ottocento, ma non raggiunse dimensioni considerevoli se non dopo la Seconda guerra mondiale. Alla fine del XIX secolo Bismarck, il cancelliere tedesco, introdusse l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro le malattie e gli infortuni e un sistema pensionistico molto limitato per gli anziani e i disabili. Queste innovazioni furono gradualmente imitate e adottate da altri paesi, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale. Dopo la Seconda guerra mondiale, sotto forti pressioni politiche, molti governi democratici estesero considerevolmente i rispettivi sistemi di sicurezza sociale e gli altri trasferimenti. Per questo motivo essi sono detti talvolta «stati assistenziali» (welfare state). Nel XIX secolo, in tempo di pace, la spesa statale era generalmente bassa. Durante la guerra le spese governative aumentano e dopo la guerra la spesa pubblica diminuisce, ma non di molto né a lungo. Durante la Seconda guerra mondiale la spesa pubblica sale vertiginosamente. Ancora una volta, dopo la guerra, la spesa pubblica, in presenza però di redditi nazionali molto maggiori, ebbe un modesto calo non destinato a durare a lungo. 6.3 Forme di impresa La società a responsabilità limitata dalle azioni, o società di capitali moderna, era un’entità già ben radicata nei paesi industriali avanzati all’inizio del XX secolo, ma era usata per lo più solo nelle industrie di grandi dimensioni, ad alta concentrazione di capitale. Nelle altre attività prevaleva l’impresa familiare. La tendenza di lungo termine favoriva la diffusione della forma d’impresa della società per azioni in ambiti di attività sempre più ampi. Le “catene” di negozi giunsero a dominare la vendita al dettaglio; integrate “all’indietro” fino allo stadio produttivo, esse eliminavano del tutto in molti casi la funzione di vendita all’ingrosso. Un’altra possibilità era quella dell’integrazione “in avanti”, ad es. dei produttori di automobili, che gestivano la funzione di vendita al dettaglio per mezzo di concessionari. Uno sviluppo correlato fu la comparsa di società conglomerate, grandi società finalizzate alla produzione e alla vendita di decine o centinaia di prodotti. Questo sviluppo fu facilitato dall’avvento di società finanziarie (holding companies), la cui attività consiste esclusivamente nel possedere (e amministrare) altre società. Sebbene la forma d’impresa della società di capitale fosse nata inizialmente per venire incontro alle necessità della produzione di massa dettate dalla tecnologia, e favorisse di conseguenza la costituzione di unità organizzative sempre più ampie, essa poteva essere adattata anche ad attività su scala più limitata; nella seconda metà del secolo persino professionisti indipendenti hanno cominciato a costituirsi in persone giuridiche a fini fiscali. Queste tendenze all’impiego della forma organizzativa della società di capitali furono sperimentate principalmente negli Stati Uniti nella seconda metà del XIX secolo, ma si diffusero rapidamente in Europa e in altre parti del mondo nel XX. Una delle ragioni di questo fenomeno fu che esso permetteva alle imprese di competere con successo con un altro sviluppo tipicamente americano, l’impresa multinazionale. 6.4 Organizzazioni sindacali All’inizio del XX secolo il diritto dei lavoratori di organizzarsi e contrattare collettivamente era riconosciuto nella maggior parte dei paesi occidentali, e in alcuni di essi le organizzazioni dei lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro. Anche in questi paesi tali organizzazioni erano una minoranza. Gli anni compresi fra le due guerre registrarono una crescita di iscrizioni ai sindacati nei paesi industriali e una diffusione delle organizzazioni sindacali in altri paesi meno sviluppati. Negli USA negli anni venti gli iscritti ai sindacati erano pochi; nel 1940, in gran parte per effetto della legislazione del New Deal favorevole alle organizzazioni dei lavoratori e delle campagne di queste ultime per organizzare operai di fabbrica non specializzati o semispecializzati, la percentuale sale. A partire dalla metà degli anni cinquanta, con la crescita dei servizi e delle industrie ad alta tecnologia, la quota di appartenenti ai sindacati è tornata ai livelli degli anni venti e scende ancora dopo la crisi del 2008. In Europa occidentale l’oscillazione del numero di iscritti ai sindacati è stata simile a quella statunitense. Una grossa differenza è data però dal fatto che in Europa i sindacati sono molto più nettamente identificati con specifiche forze politiche. 7. ASPETTI ECONOMICI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE La Seconda guerra mondiale, per taluni aspetti, rappresentò un’estensione e un’intensificazione di caratteristiche che si erano già manifestate nella Prima guerra mondiale: - Ricorso alla scienza come fondamento della tecnologia militare - Grado di irreggimentazione e pianificazione dell’economia e della società - Uso raffinato e sofisticato della propaganda Sotto altri aspetti differì da tutte le guerre che l’avevano preceduta. Vera e propria guerra globale, essa coinvolse direttamente o indirettamente i popoli di ogni continente e di quasi ogni nazione del mondo. A differenza della precedente, che era stata una guerra di posizione, essa fu una guerra di movimento, sulla terra, nell’aria, sui mari. L’arma segreta finale dei vincitori fu l’enorme capacità produttiva dell’economia americana. I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima guerra mondiale, a causa soprattutto dei bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti vi furono le infrastrutture di trasporto, in particolare ferrovie, porti e bacini. 82 Tutti i paesi in conflitto fecero ricorso alla guerra economica. Come già nella Prima guerra mondiale e persino nelle Guerre napoleoniche, la GB (assistita in un secondo momento dagli USA) impose un blocco al quale i tedeschi replicarono con una guerra sottomarina illimitata. Alla fine della guerra in Europa le prospettive economiche erano estremamente deprimenti. La produzione industriale e agricola scese. Oltre ai danni alle cose e alla perdita di vite umane, milioni di persone erano state sradicate e separate dalle loro case e dalle loro famiglie, e su un numero altrettanto cospicuo incombeva lo spettro della fame. Anche la struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni. XV. La ricostruzione dell’economia mondiale: 1945-1989 La Seconda guerra mondiale portò con sé una scia di radicale riorganizzazione delle relazioni internazionali, con importanti conseguenze economiche. L’Europa perse la sua egemonia, sia politica sia economica. La rivalità tra le due nuove superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, comportò la divisione dell’Europa: un blocco orientale dominato dai sovietici e un gruppo occidentale di paesi prevalentemente democratici, in gran parte legati politicamente ed economicamente agli Stati Uniti. Nell’immediato dopoguerra le nazioni rimaste prive dei loro imperi cercarono di mantenere o reimporre la propria autorità sui vecchi possedimenti d’oltremare, ma le nuove realtà politiche ed economiche le privarono ben presto del loro desiderio di affermazione. 1. LA RICOSTRUZIONE DELL’EUROPA OCCIDENTALE Tutti i paesi belligeranti a eccezione della GB e dell’Unione Sovietica erano stati sconfitti militarmente e occupati dal nemico. Vaste regioni dell’Unione Sovietica erano state occupate dai tedeschi. La GB, pur non occupata, subì danni gravissimi dai bombardamenti aerei e dalla scarsità di cibo e di altri prodotti di prima necessità. Prima della guerra le importazioni europee (in particolare generi alimentari e materie prime) erano state superiori alle esportazioni, e la differenza era stata pagata dall’Europa con i proventi derivanti dagli investimenti esteri e dai servizi di trasporto e finanziari. Dopo la guerra, con le flotte mercantili distrutte, gli investimenti esteri liquidati, i mercati finanziari sconvolti e i mercati d’oltremare dei manufatti europei conquistati da americani, canadesi e da nuove aziende nate in paesi una volta sottosviluppati, sull’Europa incombeva la tetra prospettiva di poter provvedere solamente alla necessità di base della sua popolazione. Vincitori e vinti erano accomunati dalla loro povertà. Le necessità più urgenti erano gli aiuti di emergenza e la ricostruzione: • Gli aiuti, provenienti in gran parte dall’America, vennero attraverso due canali principali. Durante l’avanzata degli eserciti alleati attraverso l’Europa occidentale, nell’inverno e nella primavera del 1944-1945, questi ultimi distribuirono razioni di emergenza e medicinali alle provate popolazioni civili, sia dei paesi nemici sia di quelli liberati. Poiché gli Alleati si erano impegnati a una politica di resa senza condizioni, dopo la cessazione delle ostilità essi dovettero assumersi l’onere di mantenere l’ordine pubblico nella Germania sconfitta, e quindi continuare la distribuzione di razioni di emergenza alla popolazione civile. • L’altro canale dei soccorsi fu la United Nation Relief and Rehabilitation Administrazion (Unrra). Nel 1945-1946 spese oltre 1 miliardo di dollari e distribuì milioni di tonnellate di cibo, indumenti, coperte e medicinali. Il costo gravò per oltre 2/3 sugli USA e per il resto sugli altri paesi membri delle Nazioni Unite. Dopo il 1947 l’opera dell’Unrra fu proseguita dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati, l’Organizzazione mondiale della sanità e altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, nonché da organismi ufficiali o di volontariato dei singoli paesi. Gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Lo stesso accadde, in misura minore, per il Canada, gli altri paesi del Commonwealth e diverse nazioni dell’America Latina. Sfuggite ai guasti diretti della guerra, le loro industrie e la loro agricoltura trassero vantaggio dalla forte domanda bellica, che permise un pieno uso della capacità produttiva, la modernizzazione tecnologica e l’espansione. Dopo l’abolizione del razionamento e dei prezzi controllati, che durante la guerra avevano mantenuto i prezzi a un livello artificiosamente basso, la domanda fino allora repressa di beni resi scarsi dalla guerra determinò un’inflazione postbellica che nel 1948 aveva portato al raddoppio dei prezzi. L’inflazione tenne in movimento le ruote dell’industria e permise agli USA di concedere gli aiuti economici necessari per la ricostruzione dell’Europa e degli altri paesi devastati dalla guerra e colpiti dalla miseria. 2. PIANIFICAZIONE DELL’ECONOMIA POSTBELLICA Uno dei compiti più urgenti che attendevano i popoli europei dopo il soddisfacimento dei bisogni legati alla sopravvivenza era il ripristino della normalità nella giustizia, nell’ordine pubblico e nell’amministrazione statale. In Germania e suoi satelliti queste funzioni furono assunte dagli Alleati in attesa della sistemazione postbellica. Molti dei paesi che erano stati vittime dell’aggressione nazista avevano formato governi in esilio a Londra durante la guerra. Tali governi rientrarono in patria sulla scia degli eserciti alleati riprendendo subito le loro normali funzioni. Sul continente un ruolo considerevole nella politica postbellica fu assunto dai dirigenti delle opposizioni clandestine alla Germania nazista, e la composizione di quei movimenti, nei quali socialisti e comunisti avevano ricoperto un ruolo di prima grandezza, fu un fattore determinante nello scongiurare l’antagonismo di classe prebellico e nel portare figure nuove in posizioni di potere. In GB la partecipazione del Partito laburista durante la guerra al governo di coalizione capeggiato da Churchill conferì ai suoi dirigenti grande prestigio e influenza, fattore che permise loro di condurre il partito alla sua prima netta vittoria elettorale subito dopo la fine della guerra in Europa. Infine, la stessa enormità dell’impresa della ricostruzione richiedeva un ruolo dello stato nella vita economica e sociale molto più ampio che non nel periodo prebellico. In tutti i paesi ci fu una diffusa domanda da parte dell’opinione pubblica di riforme politiche, sociali ed economiche. Nella sfera economica la risposta a questa domanda assunse la forma della nazionalizzazione di settori chiave dell’economia: - Trasporti, produzione di energia e segmenti del sistema bancario - Estensione del sistema previdenziale e dei servizi sociali - Assunzione da parte dello stato di maggiori responsabilità per il mantenimento di livelli economici soddisfacenti Negli USA fu approvato nel 1946 l’Employment Act che istituiva il comitato dei consiglieri economici del presidente e obbligava il governo federale a mantenere alti livelli i occupazionali. A livello internazionale la pianificazione del dopoguerra era cominciata durante il conflitto. Già nell’agosto del 1941 Roosevelt e Churchill avevano firmato la Carta atlantica, che impegnava i rispettivi paesi (e successivamente alti paesi delle Nazioni Unite) nel 85 Nell’immediato dopoguerra Stalin, più potente che mai, decise di apportare diversi cambiamenti nelle alte sfere del governo e dell’economia. Una revisione costituzionale del 1946 sostituì al Consiglio dei commissari del popolo un Consiglio dei ministri in cui Stalin assunse la posizione di presidente o primo ministro. Con l’accusa di incompetenza e disonestà si procedette a una drastica epurazione del personale dei ministeri incaricati della supervisione e del controllo dell’industria e dell’agricoltura. Altri alti funzionari del governo e del partito furono destituiti per le medesime ragioni, ma c’è motivo di credere che la reale motivazione di Stalin fosse la sfiducia nella loro lealtà personale nei suoi confronti. Stalin morì nel 1953. Dopo due anni, il leader supremo divenne Nikita Kruscev. Al XX Congresso del partito del 1956 Kruscev pronunciò un discorso con il quale mise in evidenza che il dispotismo staliniano era un’aberrazione di una politica essenzialmente corretta e affermò che la nuova direzione collettiva era tornata agli autentici principi leninisti. Nonostante la nuova dirigenza e alcune riforme superficiali, la natura essenziale del sistema economico sovietico non mutò. Nel 1955 il governo annunciò il “completamento” di un piano quinquennale e l’inaugurazione del successivo, mentre alti funzionari lamentavano la diffusa inefficienza e il fatto che un terzo delle imprese industriali non fossero riuscite a far fronte agli obiettivi di produzione. L’industria pesante sovietica continuò ad accrescere la produzione ma rimase ben lontana dall’obiettivo dichiarato di raggiungere quella statunitense. L’industria dei beni di consumo, a cui nella pianificazione sovietica veniva sempre assegnata una bassa priorità, continuò a procedere a rilento, affliggendo i consumatori con la scarsità delle merci e una produzione di bassa qualità. L’agricoltura sovietica rimase per tutto il dopoguerra in una situazione quasi permanente di crisi nonostante i massicci sforzi del governo di stimolarne la produttività. Nel 1854 Kruscev diede l’avvio a un progetto di «terre vergini» che prevedeva la messa a coltura di grandi distese di terre aride nell’Asia sovietica. L’anno seguente lanciò una campagna per aumentare la produzione di mais, e nel 1957 ne annunciò un’altra con l’obiettivo di superare entro il 1961 gli USA nella produzione di latte, butto e carne. Nessuno di questi programmi si avvicinò agli obiettivi dichiarati. La vita sovietica continuò a essere caratterizzata dalla carenza di generi alimentari. Gli Alleati riuscirono a stipulare trattati con i paesi satelliti della Germania e ad accordarsi sul trattamento delle vittime dell’aggressione nazista in Europa orientale. I termini generali della sistemazione dell’Est europeo erano stati delineati nelle conferenze svoltesi durante la guerra, in particolare quella di Jalta. Essi prevedevano un ruolo di primo piano per l’Unione Sovietica. La reintegrazione della Cecoslovacchia e dell’Albania era un fatto scontato dato che non erano mai stati in guerra con gli Alleati. La maniera in cui essi furono liberati fece però sì che cadessero nella sfera d’influenza sovietica. Durante la guerra, Churchill e Stalin, senza consultare Roosevelt, si erano accordati su un’equa spartizione delle sfere d’influenza in Jugoslavia dopo la guerra. I partigiani jugoslavi guidati dal maresciallo Tito liberarono però il paese. Le elezioni del 1945 diedero al Fronte di liberazione nazionale di Tito, dominato dai comunisti, una consistente maggioranza nella nuova assemblea costituente, che rovesciò la monarchia e proclamò una repubblica popolare federale. Tito governò il paese in modo non diverso da quello di Stalin. Rifiutò di accettare le imposizioni dell’Unione Sovietica e nel 1948 ruppe pubblicamente con quest’ultima e gli altri satelliti comunisti. La determinazione dei confini postbellici della Polonia e della sua forma di governo rappresentò uno dei problemi più spinosi del processo di pacificazione. Nelle ultime fasi della guerra erano esistiti due governi provvisori polacchi, i quali si fusero formando un governo provvisorio di unità nazionale. La coalizione resse fino al 1947 quando i comunisti estromisero i loro alleati e assunsero il completo controllo del governo. Romania, Bulgaria e Ungheria in breve tempo divennero repubbliche popolari sul modello sovietico. La Finlandia riuscì a sfuggire al destino dei governi di unità popolare nei paesi confinanti con l’Unione Sovietica e a conservare una precaria neutralità. I trattati di pace non affrontarono in alcun modo il problema della scomparsa dei paesi baltici della Lettonia, della Lituania e dell’Estonia. Che questi paesi non fossero menzionati nei negoziati di pace era di per sé un riconoscimento del fatto che essi facevano nuovamente parte dell’Impero russo. Nel gennaio del 1949 l’Unione Sovietica creò il Consiglio di aiuto economico reciproco (Comecon) nel tentativo di dare maggiore coesione alle economie dei suoi satelliti dell’Est europeo. Vi entrarono a far parte l’Albania, la Bulgaria, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Germania Orientale. Sebbene il suo obiettivo dichiarato fosse di coordinare lo sviluppo economico dei paesi comunisti e di promuovere tra di essi una più efficace divisione del lavoro, l’Unione Sovietica se ne servì per accrescere la dipendenza economica dei paesi satelliti. Gran parte dei commercia sia con l’Unione Sovietica sia tra gli altri paesi rimasero bilaterali. La Repubblica popolare cinese, pur non appartenendo al blocco sovietico, fu per breve tempo alleata dell’Unione Sovietica. La Seconda guerra mondiale aveva inflitto sofferenze tremende a un paese già povero. Nel 1949 i comunisti proclamarono formalmente la Repubblica popolare cinese con capitale Pechino. I comunisti estesero rapidamente il loro dominio all’intero paese, raggiungendo un grado di potere centralizzato che non aveva eguali nella lunga storia del dispotismo cinese. Consolidato il controllo politico, il nuovo governo intraprese la modernizzazione dell’economia e la ristrutturazione della società. Nel 1953 il governo cominciò a incoraggiare la collettivizzazione dell’agricoltura e intraprese una generale nazionalizzazione dell’industria. Nel 1961 il governo ridimensionò i propri obiettivi e la crescita riprese a un ritmo meno frenetico. Uno degli obiettivi principali della dirigenza comunista cinese era quello di dare una nuova struttura alla società e di riformare i processi di pensiero, il comportamento e la cultura. Alla fine, nel 1966, Mao varò una «grande rivoluzione culturale» contrassegnata da un triennio di terrorismo e violenze, durante i quali molti intellettuali furono costretti a lavorare come contadini e operai comuni. Fin dall’inizio l’Unione Sovietica aveva accordato alla Repubblica popolare cinese assistenza economica, tecnica e militare, ma i cinesi rifiutarono di conformarsi alle direttive sovietiche. Nel 1960 l’Urss interruppe tutti gli aiuti. Nel volgere di pochi anni le due superpotenze del mondo comunista arrivarono sull’orlo di un conflitto aperto. La Cina conseguì nel 1964 il suo maggiore trionfo tecnologico con l’esplosione di una bomba atomica. Per compensare l’ostilità sovietica i cinesi intrapresero un processo di riavvicinamento all’Occidente che culminò nel 1971. Dopo la morte di Mao nel 1976 i contatti con l’Occidente si intensificarono e nel corso degli anni ottanta il governo permise una limitata reintroduzione del libero mercato e della libera impresa. La Corea del Nord divenne una delle società più repressive e irreggimentate al mondo, incapace di produrre cibo o generi di prima necessità in misura sufficiente per la sua popolazione nonostante che prima della Seconda guerra mondiale fosse stata la parte più avanzata dell’economia coreana. Il solo stato dichiaratamente socialista alleato dell’Unione Sovietica nell’emisfero occidentale era la Repubblica di Cuba. Cuba riceveva la maggior parte dei manufatti (armamenti compresi) dal blocco sovietico. 86 6. ECONOMIA DELLA DECOLONIZZAZIONE La Seconda guerra mondiale inflisse un colpo mortale all’imperialismo europeo. Nell’immediato dopoguerra le potenze imperiali ripresero temporaneamente il controllo della maggior parte delle ex colonie, ma la debolezza causata dalla guerra, la forza crescente dei movimenti indipendentisti locali e il ruolo ambivalente degli USA condussero a un graduale abbandono dei poteri imperiali. In alcuni casi le colonie combatterono con successo guerre di indipendenza contro i vecchi padroni, ma le potenze imperiali, di fronte all’eventualità di affrontare i costi e gli incerti di una guerra, rinunciarono sempre più spesso volontariamente al loro dominio. L’indipendenza concessa dalla GB al subcontinente indiano, nel 1947, determinò la nascita di due stati, e poi di un terzo e di un quarto. L’India e il Pakistan ottennero l’indipendenza contemporaneamente nel 1947. L’anno dopo fu la volta dell’isola di Ceylon (si chiamò Sri Lanka). Il Pakistan, nella sua conformazione originaria, era diviso in due parti nettamente separate: il Pakistan Occidentale, sul fiume Indo, e il Pakistan Orientale, sul fiume gange. I pakistani occidentali dominarono politicamente gli orientali, benché più numerosi, fino al 1971, allorché questi ultimi si ribellarono fondando lo stato indipendente del Bangladesh. Tutti e quattro i paesi hanno una densità di popolazione molto alta, risorse naturali scarse e di mediocre qualità, alti livelli di analfabetismo. Sono soggetti a disordini razziali e religiosi e a governi instabili e spesso dittatoriali. Gran parte della forza lavoro è assorbita da un’agricoltura a bassa produttività e sono tutti estremamente poveri. L’India è nella situazione meno sfavorevole. Negli anni sessanta e settanta approfittò della «rivoluzione verde» in agricoltura ed è attualmente pressoché autosufficiente dal punto di vista alimentare. Possiede inoltre più industrie dei suoi vicini. In ognuno di questi paesi lo stato svolge un ruolo consistente nell’economia. Birmania, Laos e Cambogia, Vietnam del Nord, ex colonie di Singapore, Sarawak e Borneo settentrionale e Filippine ottennero l’indipendenza. Tutti questi paesi, a eccezione di Singapore, hanno molte caratteristiche in comune, tra cui il clima e la topografia. Tutti sono prevalentemente rurali e agrari, con una forza lavoro divisa tra la produzione per la sussistenza delle fattorie contadine e quelle per l’esportazione delle piantagioni. Alcuni di essi possiedono risorse minerarie strategiche apprezzate sui mercati mondiali. Tutti questi paesi hanno alti livelli di analfabetismo e alti tassi di crescita demografica. Seppure nominalmente repubbliche, le forze della democrazia sono deboli; molti di essi hanno dovuto sottostare a lunghi periodi di dittatura. E sono per la maggior parte poveri. Singapore, tuttavia, è molto urbanizzata, alfabetizzata e relativamente ricca. Ha sviluppato un’economia sofisticata simile a quello di Hong Kong, il cui caposaldo è il commercio accompagnato dai servizi bancari e finanziari correlati e persino da alcune industrie. La carta politica dell’Africa alla fine della Seconda guerra mondiale mostrava poche differenze rispetto a quella degli anni tra le due guerre. Le vecchie potenze imperiali controllavano ancora quasi tutto il continente. In superficie, sembrava che i portentosi avvenimenti dei due decenni precedenti avessero avuto scarsi effetti. Sotto la superficie, tuttavia, erano state messe in movimento potenti correnti di cambiamento che nei due decenni seguenti alterarono completamente il volto del continente. L’ex colonia italiana della Libia fu il primo paese africano a ottenere l’indipendenza. Il nuovo stato nacque alla fine del 1951 come monarchia costituzionale. Con una esigua popolazione, a fronte di un territorio vastissimo, una (solo apparente) mancanza di risorse naturali e un’economia arretrata, il futuro del nuovo stato non era affatto promettente, tuttavia i sussidi occidentali contribuirono alla sua sopravvivenza fino a quando la scoperta del petrolio venne a consolidarne le fondamenta economiche. Nel 199 dei giovani ufficiali delle forze armate rovesciò il vecchio monarca filo-occidentale e instaurò una repubblica araba contraddistinta da toni molto nazionalistici, che negli anni ottanti e novanta appoggiò e istigò il terrorismo internazionale. La GB pose formalmente termine al suo protettorato sull’Egitto nel 1922, ma conservò il controllo delle questioni militari e delle relazioni con l’estero. Nel 1952 una giunta militare rovesciò il fantoccio britannico instaurando una dittatura militare mascherata da repubblica. Nel 1956 il dittatore espulse le ultime truppe britanniche, che erano lì con il pretesto di proteggere il Canale di Suez, e poco dopo nazionalizzò il canale. Gli egiziani desideravano mantenere il controllo del Sudan. Nel 1955 i sudanesi votarono a favore di una repubblica dipendente, proclamata nel 1956. Con la sua vasta superficie ma con scarse risorse a disposizione, oltre a una popolazione prevalentemente analfabeta, il Sudan non è riuscito a far funzionare né la democrazia né l’economia, ed è stato governato da una serie di regimi militari. Dopo la guerra in Tunisia, Algeria e Marocco, si svilupparono forti movimenti nazionalistici e panarabi. Il governo francese rispose facendo concessioni nominali alla Tunisia e al Marocco, ma cercando di integrare più strettamente l’Algeria con la Francia. Nessuna delle due tattiche si dimostrò efficace. La Tunisia e il Marocco ottennero la piena indipendenza dalla Francia, che cercò di rafforzare il controllo sull’Algeria. Gli algerini replicarono dal 1954 con una tenace guerriglia e l’esercito francese rispose con un controterrorismo. Nel 1958, di fronte alla minaccia di un colpo di stato militare, il governo della Quarta Repubblica abdicò ai suoi poteri a vantaggio del generale de Gaulle, che assunse poteri pressoché dittatoriali. In un primo momento de Gaulle sembrò deciso a conservare l’Algeria, ma dopo diversi anni di ulteriori spargimenti di sangue e di vani tentativi di raggiungere un accordo con i dirigenti algerini su un’autonomia nel quadro della comunità francese, acconsentì nel 1962 a una piena indipendenza. Tutti e tre i paesi nordafricani (Tunisia, Marocco e Algeria) erano prevalentemente agrari, con un’agricoltura di tipo mediterraneo, ma possedevano importanti risorse minerarie. In particolare, il petrolio e il gas naturali scoperti in Algeria poco dopo l’indipendenza hanno dato a questo paese sia i mezzi per sviluppare l’industria sia quelli per svolgere un certo ruolo nella politica mondiale. Un accordo commerciale con la Comunità Europea nel 1976 ampliò i loro mercati esteri. L’indipendenza delle popolazioni nere dell’africa ha richiesto un decennio e sono nati più di 20 nuovi stati. Questo sviluppo fu dovuto solo in parte alla forza dei movimenti indipendentisti indigeni. Altrettanto importanti furono le difficoltà interne delle potenze imperiali, che le resero meno disponibili a sopportare gli alti costi (economici, politici e morali) della conservazione del dominio su popoli stranieri contro la loro volontà. Dopo la Seconda guerra mondiale il governo britannico si rese conto che avrebbe dovuto sforzarsi di preparare meglio i propri sudditi africani all’autogoverno se voleva evitare costose guerre coloniali e la perdita totale dei vantaggi economici dell’impero. Cominciò così a costruire più scuole, a istituire università e ad ammettere gli africani nel pubblico impiego. Nel 1951 la Costa d’Oro e la Nigeria ottennero una certa autonomia locale. Nella Costa d’Oro un notevole leader politico chiese l’indipendenza immediata. Piuttosto che rischiare una vera e propria rivolta, i britannici risposero positivamente alla maggior parte delle richieste e nacque così nel 1957 lo stato del Ghana, prima nazione nera del Commonwealth britannico che entrò anche a far parte delle Nazioni Unite. La Nigeria ottenne l’indipendenza nel 1960, imitata negli anni successivi da altri ex possedimenti britannici. Le prime colonie britanniche in Africa a conquistare l’indipendenza erano tra le meno avanzate economicamente e politicamente. Popolate quasi interamente da neri africani. Nell’Africa Orientale e nelle due Rhodesia i coloni britannici avevano acquisito la proprietà di vasti territori e godevano di un sostanziale autogoverno sul piano locale. Privi dei diritti politici e delle opportunità economiche, gli africani formavano una maggioranza astiosa e ribelle che di quando in quando ricorreva alla violenza. 87 Nel 1965 la GB aveva concesso l’indipendenza a tutte le colonie africane a eccezione della Rhodesia meridionale. L’eccezione era determinata dal rifiuto della popolazione bianca rhodesiana di accordare uno status paritario ai concittadini neri, di gran lunga più numerosi dei bianchi. Nel 1965 il governo dominato dai bianchi dichiarò unilateralmente l’indipendenza del paese. Nel 1979 la maggioranza nera trionfò e cambiò il nome del paese in Zimbabwe. Annunciando l’instaurazione della Quinta Repubblica nel 1958, de Gaulle offrì alle colonie francesi, a eccezione dell’Algeria, l’opzione dell’immediata indipendenza o autonomia nell’ambito della nuova Comunità francese, con il diritto di distaccarsene in qualsiasi momento. Delle quindici colonie dell’Africa nera solo la Guinea, guidata da un comunista, scelse l’indipendenza. Le altre organizzarono propri governi ma permisero ai francesi di mantenere il controllo della difesa e della politica estera in cambio di assistenza economica e tecnica. Nel 1960 un ulteriore mutamento costituzionale condusse alla loro piena indipendenza assicurando loro però speciali privilegi economici. Nel 1963, in base alla Convenzione di Yaoundé, tali privilegi furono estesi per includervi tutti i paesi membri della Comunità Europea. La repentina conquista dell’indipendenza da parte delle colonie francesi spronò i sudditi fino a quel momento tranquilli del Congo belga a rivolte, saccheggi e richieste di un trattamento analogo. All’inizio del 1960 il governo belga decise che il Congo sarebbe divenuto indipendente il 30 giugno. Molti congolesi si attendevano, una volta giunto il giorno dell’indipendenza, che il loro tenore di vita si sarebbe magicamente innalzato. Delusi, si diedero nuovamente a saccheggi e distruzioni. Il governo centrale chiese aiuto alle Nazioni Unite per ristabilire l’ordine, ma ribellioni e selvaggi scoppi di violenza continuarono a verificarsi sporadicamente. Solo nel 1965 un dittatore militare riuscì a ristabilire l’ordine. Alla metà degli anni sessanta tutte le ex potenze coloniali europee, a eccezione del Portogallo, avevano concesso l’indipendenza a quasi tutte le loro colonie asiatiche e africane. Il Portogallo respinse sdegnosamente ogni suggerimento di preparare le proprie colonie a un’eventuale emancipazione. Nel 1974, però, un colpo di stato rovesciò in Portogallo il regime dittatoriale e il nuovo governo negoziò prontamente l’indipendenza delle colonie africane. Pur se agonizzante, il colonialismo lasciò un doloroso legato. Con poche eccezioni i nuovi stati erano disperatamente poveri. In ¾ di secolo di colonialismo le nazioni europee avevano estratto fortune immense in minerali e altri prodotti, dividendo ben poco di questa ricchezza con gli africani. Non esistevano le basi sociali ed economiche per democrazie stabili e vitali. Molte delle ex colonie caddero sotto regimi monopartitici, influenzati spesso dai comunisti russi o cinesi. Alcuni piombarono nell’anarchia e nella guerra civile. Gran parte delle amministrazioni dei nuovi stati fu afflitta dalle piaghe dell’inefficienza e della corruzione. E anche quando le intenzioni erano le migliori, le risorse – in particolare capitale umano – si rivelarono spesso insufficienti a realizzarle con successo. 7. I TRAVAGLI DEL TERZO MONDO In molti casi le ex colonie cercarono di imitare il successo apparente dell’America Latina nella costruzione di un’indipendenza economica oltre che politica nei confronti degli ex padroni coloniali. Nel tardo XIX secolo e nella prima metà del XX i paesi latinoamericani si erano inseriti a pieno titolo nella divisione internazionale del lavoro grazie al loto vantaggio comparato nel settore dei prodotti primari. A metà del XX secolo alcuni di essi godevano di redditi pro capite paragonabili a quelli dell’Europa occidentale. In seguito, gran parte di questi paesi insistette in programmi di industrializzazione finalizzati alla sostituzione delle importazioni, nel tentativo di produrre direttamente i beni di manifattura precedentemente importati. Questa strategia aveva dato buoni frutti durante la Grande depressione degli anni trenta e gli sconvolgimenti provocati dalla Seconda guerra mondiale, ma si rivelò controproducente in confronto con le politiche di promozione delle esportazioni che si andarono affermando prima in Europa e poi in Giappone. I programmi latinoamericani fallirono. I tassi di accumulazione erano bassi rispetto alle economie asiatiche in via di industrializzazione e invece rimanevano elevati i tassi di incremento demografico. Il risultato fu che all’epoca degli sconvolgimenti dell’economia mondiale provocati dagli shock petroliferi degli anni settanta i livelli latinoamericani di reddito pro-capite precipitarono. America Latina e le ex colonie occidentali in Africa e Asia adottarono l’appellativo di Terzo mondo, disponibile ad accettare l’aiuto proveniente da USA, Europa occidentale e Unione Sovietica. Negli anni sessanta una crescita industriale consistente si era avviata in certe economie dell’Asia sudorientale, in particolare in Corea del Sud e Taiwan. Questi paesi erano riusciti a imitare la politica giapponese di industrializzazione guidata dallo stato e stimolata dalle esportazioni, migliorando talvolta la stessa strategia giapponese con la previsione di tassi più elevati di crescita dei consumi interni. Con le non molto più arretrate Thailandia e Malaysia, essi costituirono un gruppo di quattro nazioni note collettivamente come tigri asiatiche. Nel frattempo, il dragone rosso della Repubblica popolare cinese osservava questi sviluppi perseguendo una propria strategia economica. 8. LE ORIGINI DELL’UNIONE EUROPEA Il sogno di un’Europa unita è antico quanto l’Europa stessa. Molti furono i tentativi ma fallirono per l’incapacità degli unificatori di conservare il monopolio del potere di coercizione e la riluttanza dei soggetti a sottomettersi volontariamente alla loro autorità. Fino alla Seconda guerra mondiale le nazioni moderne si opposero con sollecitudine a ogni tentativo di usurare o in qualunque modo limitare la loro sovranità. Distinzione: a) Organizzazioni internazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non possiedono un reale potere di coercizione. b) Le organizzazioni sopranazionali richiedono che i loro membri cedano almeno una parte della loro sovranità e possono costringerli a uniformarsi alle proprie disposizioni. Sia la Società delle Nazioni sia le Nazioni Unite sono esempi di organizzazioni internazionali. In Europa l’Oece e la maggior parte delle organizzazioni postbelliche degli stati sono state internazionali piuttosto che sopranazionali. Una cooperazione continuata e positiva può condurre eventualmente a un’associazione di sovranità, cosa che è nelle speranze di sostenitori dell’unità europea. Le proposte di vari tipi di organizzazioni sopranazionali europee, provenienti da fonti sempre più influenti, sono divenute via via più frequenti a partire dal 1945. Tali proposte scaturiscono da due motivazioni distinte ma correlate, politiche ed economiche: 1. Il motivo politico è radicato nella convinzione che solo attraverso un’organizzazione sopranazionale la minaccia di una guerra tra le potenze europee può essere permanentemente estirpata. 90 l’instabilità dei prezzi e con spostamenti quantitativi. In alcuni paesi le forze politiche hanno reagito cercando di proteggere i cittadini- elettori da alcune conseguenze della globalizzazione. • Additando l’evidente successo della Cina continentale nel sostenere una crescita accelerata con rigidi controlli sul capitale, nel 1998 la Malesia impose temporanei controlli sui movimenti di capitali allentati poi solo marginalmente nonostante l’accantonamento di ingenti riserve di valuta estera. • I paesi dell’Ue hanno reso più difficile l’ingresso di profughi e sono profondamente divisi sulle misure atte a scoraggiare i flussi migratori. • Gli USA hanno rafforzato i pattugliamenti al confine con il Messico. • In tutti i paesi industrializzati sorgono barriere non tariffarie con la motivazione della tutela dei diritti umani e dell’ambiente. Nessuno è in grado di prevedere come i diversi paesi e regioni del mondo si adatteranno a questa nuova epoca di rapido cambiamento tecnologico combinato con l’apertura di nuovi mercati e di rotte migratorie. 1. IL CROLLO DEL BLOCCO SOVIETICO Nella seconda metà del 1989 una serie di eventi si è verificata in Europa orientale: la caduta dei regimi comunisti, un paese dopo l’altro. Polonia e Ungheria furono i primi, poi Cecoslovacchia, Germania Est, Bulgaria, Romania e Albania. La rivolta di massa nelle terre già dominate dai comunisti fu determinata da una mescolanza di motivi politici ed economici. I regimi di questi paesi erano stati imposti dall’Unione sovietica senza il consenso – anzi contro la volontà – della popolazione. Se tali regimi fossero stati in grado di mantenere le loro promesse di migliori condizioni materiali e più alti livelli di vita per il popolo, quest’ultimo probabilmente avrebbe accettato la perdita della libertà; essi però non vi riuscirono. Le circostanze materiali delle masse, comprese le condizioni di vita e di lavoro, conobbero un progressivo deterioramento, che contrastava con gli agi e l’abbondanza che si potevano osservare in televisione tra i vicini occidentali e con lo stile di vita dispendioso della nuova classe di governo, i quadri più elevati dei partiti comunisti. Le masse avevano mostrato in varie occasioni il loro malcontento e in ognuna di queste occasioni l’Unione Sovietica aveva fatto ricorso alla forza delle armi per reprimere le ribellioni; ma nel 1989 essa non intervenne. Nel 1964 i conservatori della gerarchia comunista deposero Kruscev, mettendo al suo posto Breznev. Sotto Breznev l’economia sovietica entrò in stagnazione; regnavano l’inefficienza e la corruzione. Sia il tasso di crescita economica sia la produttività diminuirono. Quando Gorbacev giunse al potere nel 1985 l’economia era in crisi. Gorbacev capì che l’Unione Sovietica non era più in grado di imporre la propria volontà ai recalcitranti ex paesi satelliti. Ciò di cui essa aveva più bisogno era di riformarsi, e da qui nacque il programma di Gorbacev imperniato sulla ristrutturazione e la trasparenza. Sebbene Gorbacev ponesse l’accento soprattutto sulla ristrutturazione, fu la trasparenza ad avere un effetto più immediato. Trasparenza, nel contesto sovietico, significava maggiore libertà di espressione (in particolare per la stampa), la possibilità di discutere e dibattere sia le politiche ufficiali sia le loro alternative e persino la possibilità di agire indipendentemente dal partito e dallo stato nelle questioni politiche. Fu in parte una conseguenza di ciò se le repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia e Lituania) proclamarono la propria indipendenza, che fu riconosciuta nel 1991. Altre repubbliche si mossero nella stessa direzione e persino la Repubblica Russa cominciò ad agire indipendentemente dal Partito comunista. Una delle giustificazioni della trasparenza era di suscitare l’iniziativa e l’entusiasmo della popolazione per i compiti posti dalla ristrutturazione dell’economia. In nessuna occasione Gorbacev dichiarò con precisione cosa intendeva con tale termine, al di là di generalizzazioni piuttosto vaghe su una migliore contabilità dei costi, sulla devoluzione del potere decisionale al livello dell’impresa, la necessità per le imprese di realizzare profitti e simili. Gorbacev apparentemente vedeva con favore un ritorno a qualcosa di simile alla Nuova politica economica di Lenin, in cui lo stato avrebbe mantenuto il controllo dei settori dominanti dell’economia permettendo negli altri una limitata iniziativa privata. Egli rimase però intrappolato tra i conservatori della gerarchia del partito, che volevano il mantenimento dello status quo, e i riformatori radicali che intendevano abolire interamente il sistema di pianificazione centrale e passare a una vera e propria economica di mercato. Nell’infuriare del dibattito sulla natura ultima della riforma, trovarono pratica attuazione alcune limitate innovazioni: - Molte attività economiche che in precedenza si erano svolte sul mercato nero o grigio – artigianato privato, commercio al minuto, fornitura di vari servizi personali – furono rese legittime, purché i produttori lavorassero anche a tempo pieno nelle imprese statali. - Potevano essere istituite cooperative per la produzione di beni di consumo o servizi, con le medesime limitazioni. - Individui o famiglie potevano prendere in affitto terreni da adibire alla produzione agricola, anche qui con qualche limitazione. - L’Unione Sovietica permise inoltre l’ingresso di capitali esteri in joint ventures con imprese di proprietà statale. Nessuna di queste iniziative ebbe sviluppi significativi. Nell’agosto del 1991, alla vigilia di un nuovo trattato tra l’Unione sovietica e alcune delle sue repubbliche che avrebbe conferito poteri molto maggiori a queste ultime, un piccolo gruppo del Partito comunista tentò un colpo di stato. I capi del golpe posero Gorbacev agli arresti domiciliari, sospesero la libertà di stampa e proclamarono la legge marziale. Il popolo russo, però, rifiutò di farsi intimidire; esso sfidò apertamente gli organizzatori del colpo di stato che ben presto si persero d’animo e fuggirono, ma furono arrestati. 2. L’EVOLUZIONE DELL’UNIONE EUROPEA Nel frattempo, la Comunità Europea si stava trasformando. All’inizio degli anni settanta il primo ministro belga, su invito di altri capi di governo, preparò un rapporto che prevedeva il completamento dell’unione entro il 1980. Si trattava di un obiettivo troppo ambizioso. Il rapporto non trovò mai pratica attuazione. Dopo alcuni anni di ristagno il movimento per il “rilancio” dell’Europa riprese vigore negli anni ottanta. Nel 1986 fu siglato l’«Atto unico europeo», il quale richiedeva alla Comunità di adottare provvedimenti per rimuovere le barriere fisiche, tecniche e fiscali al fine di portare a completamento il mercato interno entro il 1992. Anche se di poco la data non fu rispettata ma la Comunità Europea divenne una comunità “senza frontiere”. Il Sistema monetario europeo (Sme) con il suo connesso meccanismo dei tassi di cambio, era stato istituito nel 1979, ma il coordinamento delle politiche monetarie rimase uno dei principali ostacoli sulla strada del completamento dell’unione economica. Nel 1991 la Comunità decise di creare una propria banca centrale nel 1994, seguita da una moneta unica nel 1999, ma una crisi dei tassi di cambio nel 1992 costrinse il Regno Unito e l’Italia a uscire dallo Sme e fece differire altre misure. Al posto di una banca centrale fu istituito, nel 1994, l’Istituto monetario europeo, che nel 1999 divenne la Banca centrale europea (Bce). 91 Nel 1991 il Consiglio d’Europa siglò un nuovo trattato che intendeva creare un’unione sempre più stretta tra i popoli europei, esso entrò in vigore nel 1993: - Mutò il nome della Comunità Europea in Unione Europea; - Accrebbe i poteri del parlamento europeo, chiamato ad azioni congiunte nella politica estera e di difesa con lo scopo finale di una politica estera e di sicurezza comune; - Introdusse il principio di sussidiarietà in base al quale le decisioni dovevano essere prese a livello più vicino possibile ai cittadini; - Fece una previsione per il 1996 di una conferenza intergovernativa che avrebbe dovuto passare in rassegna i progressi realizzati in nome del trattato ed apportare gli aggiustamenti che si fossero resi necessari, e per iniziare la pianificazione di una valuta comune chiamata «euro». Cominciando a operare all’inizio del 1999, la Bce trasformava in sue filiali le banche centrali degli 11 paesi che avevano deciso di adottare la nuova valuta. Monete e banconote in euro furono distribuite nel 2002 ai cittadini dei 12 paesi che all’epoca avevano aderito alla nuova valuta. L’euro ha funzionato molto bene per i primi 10 anni della sua esistenza fin quando la Grecia non ha annunciato nel 2010 spese superiori agli impegni assunti con l’Europa. Determinata a difendere la valuta comune, la Bce prese l’impegno di fare tutto il possibile per mantenere la Grecia nell’Eurozona, ma quest’ultima continuò ad avere difficoltà nel soddisfare le condizioni di rimborso fissate dalla Bce e dal Fmi. Un nuovo governo greco eletto nel 2015 richiedeva una sostanziale riduzione del debito esistente e, allo stesso tempo, l’erogazione di un nuovo prestito. Nel frattempo, la valuta comune era stata adottata da altri 6 paesi. Nel 2015 l’euro era divenuto la valuta comune di diciannove dei ventotto paesi membri dell’Ue ma la posizione della Grecia rimaneva incerta. Un altro sviluppo favorevole fu nel 1993 la creazione di un’area economica europea attraverso la fusione della Comunità Europea con i paesi membri dell’Associazione europea di libero scambio. Poco dopo quattro membri dell’Efta – Austria, Finlandia, Norvegia e Svezia – chiesero di aderire alla nuova Ue; la loro richiesta fu accettata. Ciascun paese tenne tuttavia un referendum sulle condizioni stipulate, che solitamente prevedevano l’accettazione di una riduzione del livello di sussidi all’agricoltura nel quadro della Politica agricola comune. In Norvegia l’elettorato bocciò l’adesione. Nel 1994 nasceva un’altra grande area di libero scambio nel Nord America, la Nafta, che comprendeva gli USA, il Canada e il Messico. 3. IL LUNGO XX SECOLO IN PROSPETTIVA Stimolata dal ritmo sempre più accelerato del mutamento tecnologico, sferzata dalle due guerre più distruttive della storia, l’economia mondiale ha assunto, nel secolo che va dal 1914 al 2014, dimensioni nuove e senza precedenti. Il 1973 segnò l’inizio di una nuova era della globalizzazione. L’Europa occidentale e le sue propaggini, nonché il Giappone, avevano raggiunto nel 1973 livelli di prosperità senza precedenti. 4. POPOLAZIONE 4.1 Transizioni demografiche La causa del tremendo incremento numerico della popolazione mondiale è stata la diminuzione complessiva della mortalità, soprattutto nei paesi non occidentali. Le nazioni occidentali fecero registrare, tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento, una «transizione demografica» da un regime di alti tassi di natalità e mortalità a uno caratterizzato da tassi molto inferiori. In tale periodo, la popolazione crebbe a ritmi mai visti prima. Dopo la guerra, in gran parte dei paesi non occidentali ebbe inizio una transizione analoga, che è tuttora in corso per numerosi paesi africani. Nei paesi non occidentali oggi le transizioni demografiche si completano più rapidamente che in passato. In conseguenza della diffusione della tecnologia occidentale nei campi dell’igiene e della sanità pubblica, dell’assistenza medica e della produzione agricola, nei paesi del Terzo mondo i tassi di mortalità sono scesi in modo spettacolare, mentre quelli di natalità hanno risposto molto più lentamente. Sottraendo il tasso grezzo di mortalità dal tasso grezzo di natalità si ottiene il tasso d’incremento naturale per una data regione durante un particolare periodo di tempo. Nel periodo 1950-1955 la transazione si interruppe brevemente a causa del baby boom postbellico che interessò l’Europa occidentale ma soprattutto gli USA, mentre la differenza era inferiore che in Africa, in Cina e in India, tutti paesi che avevano ancora alti tassi di natalità quando i tassi di mortalità avevano già iniziato a crollare in maniera definitiva rispetto ai livelli premoderni. Nel 1970-1975 il tasso di incremento naturale rimaneva alto in Africa, in Cina e in India, poiché il tasso grezzo di natalità non diminuiva quanto il tasso grezzo di mortalità. All’inizio del XXI secolo, la Cina aveva un tasso di incremento naturale inferiore a quello degli USA, e la transizione demografica era quasi completa anche in India e nell’intera America Latina; solo l’Africa rimaneva ancora indietro nel compimento della propria transizione demografica. La ragione della continua diminuzione del tasso grezzo di mortalità nei paesi industriali avanzati nel XIX secolo e poi nel resto del mondo dopo la Seconda guerra mondiale va ricondotta alla diminuzione generalizzata della mortalità infantile. 4.2 Il dividendo demografico Una delle più importanti conseguenze del calo dei tassi di mortalità è stato il rapido incremento della durata media della vita, cosa che si misura frequentemente nella forma di «speranza di vita alla nascita», ossia del numero medio di anni che le persone nate in un certo anno potranno vivere. In paesi con redditi medi elevati la popolazione è meglio nutrita e gode di una migliore assistenza medica di quella appartenente a paesi con redditi sensibilmente inferiori; di conseguenza, gli indici di mortalità sono inferiori e la speranza di vita proporzionalmente maggiore. Esiste tra la diminuita mortalità infantile, il maggiore input di lavoro e la crescita del prodotto pro capite una correlazione di lungo periodo che è stata particolarmente importante nel XX secolo. Inoltre, man mano che i bambini sopravvissuti crescono e diventano adulti aumenta anche la dimensione relativa delle coorti di età più suscettibile di far parte della forza lavoro. La riduzione (data dall’aumento della popolazione in età lavorativa) dell’«indice di dipendenza» (rapporto tra popolazione in età lavorativa e popolazione in età non lavorativa) di un paese determina un potenziale «dividendo demografico». Con il tempo, la dimensione relativa di questo dividendo demografico può: a) Crescere, se il tasso di natalità decresce rapidamente e riduce il numero di soggetti troppo giovani e che, quindi, non possono lavorare; 92 b) Diminuire, se la riduzione del tasso di natalità continua mentre aumentano coloro che diventano troppo vecchi e non possono lavorare. Il tardo XX secolo è stato testimone di esempi sensazionali della riduzione dell’indice di dipendenza. Il XXI secolo vedrà intensificarsi i casi dell’effetto opposto: una crescita dell’indice di dipendenza con l’espansione della percentuale di residenti troppo anziani per lavorare grazie al miglioramento delle condizioni di salute e dell’assistenza medica rivolta agli anziani. Si stanno già esplorando le diverse alternative per scongiurare le conseguenze negative di una simile «tassa demografica» - La soluzione più ovvia è incrementare la popolazione attiva, obiettivo che si può raggiungere più facilmente aumentando l’occupazione femminile. Questa a sua volta viene generalmente accompagnata da una diminuzione del tasso di fertilità, altro fattore che tende a ridurre l’indice di dipendenza. - La seconda soluzione in ordine di praticabilità è quella di procrastinare l’età della pensione, approfittando del miglioramento delle condizioni di salute della popolazione anziana nei paesi più ricchi del pianeta. - Una terza soluzione potrebbe consistere nello sfruttare modelli migratori che si sono consolidati in diversi paesi dell’Europa occidentale e negli USA. 4.3 Dislocazioni demografiche L’emigrazione interna è sempre stata la forma più importante di dislocazione demografica nel XX secolo ha condotto a un’estesa urbanizzazione, proseguendo il processo così marcato nell’Europa del XIX secolo ma esteso ora ad altre regioni del mondo. Nei paesi più industrializzati le città di solito centri di ricchezza oltre che di cultura, in quanto la produttività e i redditi sono generalmente più elevati nelle attività urbane che in quelle rurali. Ciò non è necessariamente vero per i paesi del Terzo mondo, dove una buona proporzione degli abitanti urbani è costituita da immigrati disoccupati o sottoccupati provenienti dalle campagne che vivono in baraccopoli ai margini dei centri urbani. L’urbanizzazione è cresciuta costantemente in tutto il mondo a partire dal 1960, ma i paesi a basso reddito avevano raggiunto a malapena, nel 2014, i livelli che i paesi a medio reddito avevano conseguito già quarant’anni prima. A partire dalla metà degli anni settanta la crescita urbana ha visto un’accelerazione sia nei paesi a medio reddito sia in quelli a reddito medio-alto. Continuò inoltre anche il fenomeno dell’emigrazione internazionale, che era stato un elemento fondamentale della storia demografica del XIX secolo. Gran parte dell’emigrazione ottocentesca era stata motivata dalle pressioni economiche in patria e dalle opportunità offerte dai paesi esteri. Questi fattori non hanno perso d’importanza nel XX secolo, ma a essi si è aggiunta come causa determinante l’oppressione politica in conseguenza di guerre, rivoluzioni e conflitti settari. Nel XX secolo, pur rimanendo forti come nel secolo precedente gli incentivi all’emigrazione volontaria, tornò ad affermarsi un’emigrazione forzata. Dopo la Prima guerra mondiale l’Europa si organizzò in stati-nazione separati, in ciascuno dei quali il diritto di cittadinanza veniva formulato sulla base della maggioranza etnica, il che comportò l’espulsione di schiere di persone appartenenti etnicamente alle minoranze. L’emigrazione internazionale di tipo ottocentesco raggiunse il culmine negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale, quando l’Europa fu abbandonata per paesi d’oltreoceano, e in particolare per gli USA. La guerra interruppe parzialmente questo flusso per qualche tempo, e successivamente l’adozione da parte degli USA di una legislazione restrittiva sull’immigrazione lo limitò ulteriormente. La Grande depressione degli anni trenta diede un duro colpo alle opportunità offerte dall’America, e la Seconda guerra mondiale fece ulteriormente contrarre la marea immigratoria. Dopo la guerra i molti profughi sfuggiti dalle devastazioni belliche e alle nuove repressioni politiche gonfiarono nuovamente il numero degli immigrati. Fino alla Grande recessione del 2008-2013 gli USA hanno continuato a rappresentare la meta di elezione per i migrati internazionali di tutto il mondo. Nel XX secolo è cambiato anche il carattere dell’immigrazione e dell’emigrazione europee. Nel XIX secolo l’Europa aveva fornito la parte più consistente dell’emigrazione internazionale, mentre oggi l’Europa occidentale è divenuta un asilo per i rifugiati politici e una terra delle opportunità per le masse impoverite dell’Europa mediterranea, del Nord Africa e di parte del Medio Oriente. Il processo ebbe inizio sulla scia della rivoluzione russa del 1917, quando molti sudditi dello zar scelsero di risiedere in Occidente piuttosto che rimanere in patria sotto il regime sovietico. Il processo si accelerò enormemente dopo la Seconda guerra mondiale, con la ridefinizione dei confini dell’Europa orientale. Un’altra nuova corrente migratoria, i profughi, coinvolse gli ebrei europei e, in seguito, del resto del mondo. 5. RISORSE la crescita demografica senza precedenti del XX secolo, accompagnata dalla crescente ricchezza di almeno una parte del mondo, provocò una pressione senza precedenti sulle risorse mondiali. Nonostante il verificarsi di occasionali temporanee carenze di alcune merci, in particolare in tempo di guerra, e i timori espressi nell’ultimo quarto di secolo sull’esaurimento di determinate risorse critiche, l’economia mondiale ha risposto ai bisogni in modo positivo. Ciò è stato in gran parte il risultato della crescente interazione dell’economia con la scienza e la tecnologia. Gli agronomi hanno scoperto nuovi modi di incrementare i raccolti, gli ingegneri hanno inventato metodi nuovi per accrescere la disponibilità di minerali, gli scienziati hanno trovato nuovi impieghi per le risorse esistenti, creandone di nuove dalle vecchie sotto forma di prodotti sintetici. Lo sviluppo più importante del XX secolo in tema di risorse è stato il cambiamento nella natura e nelle fonti dell’energia primaria. Nel XIX secolo il carbone era divenuto la principale fonte di energia nei paesi in via di industrializzazione. Nel XX secolo il carbone è stato in buona parte sostituito da nuove fonti energetiche, in particolare dal petrolio e dal gas naturale. Alla luce della sua fondamentale importanza e dei suoi molteplici impieghi, il petrolio ha acquisito un grande significato geopolitico. I giacimenti petroliferi sono ampiamente disseminati nel mondo, ma gran parte della produzione è concentrata in un numero relativamente limitato di aree geografiche. L’Europa, nonostante la sua abbondanza di carbone, possiede riserve di petrolio inferiori a quelle di qualsiasi altra massa continentale. Gli USA, la Russia e la Cina, possiedono abbondanti riserve sia di carbone sia di petrolio. La produzione di petrolio su larga scala ebbe inizio negli USA. I paesi del Medio Oriente circostanti il Golfo Persico sono oggi, collettivamente, la più ricca fonte di approvvigionamento del mercato mondiale. Anche la Russia figura tra i maggiori produttori. Le fluttuazioni della produzione dei diversi paesi produttori sono in rapporto di causa o effetto con importanti fluttuazioni dei prezzi petroliferi mondiali.
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