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Storia economica del mondo dalla preistoria ad oggi cap.VII-XVI, Sintesi del corso di Storia Economica

Cameron e Neal, riassunto dettagliato

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 11/06/2019

Goma96
Goma96 🇮🇹

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Scarica Storia economica del mondo dalla preistoria ad oggi cap.VII-XVI e più Sintesi del corso in PDF di Storia Economica solo su Docsity! CAPITOLO VII L’ALBA DELL’INDUSTRIA MODERNA All’inizio del ‘700 diverse regioni europee avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale. Per descrivere tale processo di espansione e di trasformazione occasionale di queste industrie è stato inventato il termine di protoindustrializzazione. Primo esempio in cui si può parlare di protoindustrializzazione fu l’industria di lino delle fiandre basata su unità famigliari. Le caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispersa, rurale, organizzata da imprenditori urbani che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. I lavoratori devono acquistare almeno una parte dei loro mezzi di sussistenza. La protoindustrializzazione fa riferimento in primo luogo alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Nel cap. VI si è parlato di “manifactures royales” francesi (situate in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani, senza impiegare energia meccanica lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore). Analoghe protofabbriche furono organizzate da nobili proprietari terrieri (industria del carbone, ferriere, fabbriche di piombo, rame e vetro) ma, sebbene imponenti furono eclissate nel XVIII secolo dalla nascita di nuove forme di attività industriale. Caratteristiche dell’industria moderna Una delle differenze più ovvie tra la società preindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura. Alla diminuzione della sua importanza corrisponde una crescita enorme della produttività dell’agricoltura moderna. Una differenza è l’elevata percentuale di forza lavoro impiegata nel settore terziario, o dei servizi in epoche recenti. Nel periodo della vera e propria industrializzazione la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario (industria estrattive, manifatturiera e delle costruzioni) riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata che dei livelli di produzione. La Gran Bretagna è definita la “prima nazione industriale”. Il termine “rivoluzione industriale” è stato usato per indicare gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento: tale espressione è imprecisa, il suo uso distoglie l’attenzione dalle evoluzioni contemporanee ma differenti dei paesi dell’Europa continentale. La nostra attenzione è rivolta all’inizio del processo di industrializzazione nella Gran Bretagna del XVIII secolo. Nel corso di questa trasformazione emersero alcune caratteristiche che distinguono in modo netto l’industria moderna da quella “premoderna”. Esse sono: F 0 B 7 l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica; F 0 B 7 l’introduzione di nuove fonti di energia inanimata (combustibili fossili); F 0 B 7 impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura. I miglioramenti più significativi dal punto di vista tecnologico furono quelli che videro l’utilizzazione di macchine e di energia meccanica. Ma gli sviluppi più importanti furono la sostituzione della legna e del carbone di legna col carbon fossile come combustibile e l’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei trasporti. Rivoluzione industriale: un termine equivoco Questo termine è stato usato per oltre un secolo per indicare quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione delle macchine e del sistema di fabbrica nel processo di produzione. Le prime descrizioni del fenomeno misero in evidenza le “grandi invenzioni” e la natura drammatica dei mutamenti. Il cambiamento fu quasi violento, in pochi anni furono perfezionate le invenzioni di Watt, Arkwright e Boulton. Per la maggior parte della sua storia l’espressione “rivoluzione industriale” ha posseduto una connotazione negativa. Alcuni studiosi, consapevoli che nelle descrizioni tradizionali la rapidità dei mutamenti era stata esagerata, proposero un periodo più lungo per la rivoluzione, come ad esempio quello compreso tra il 1750 e il 1850. Ma la datazione tradizionale ricevette l’imprimatur di Thomas Ashton, il più famoso storico dell’economia britannica del XVIII secolo. Lo storico considerava i risultati di questo periodo un “traguardo” piuttosto che una catastrofe, e sottolineava il fatto che i cambiamenti di questo periodo non furono solo industriali, ma anche sociali e intellettuali. Requisiti e fattori concomitanti dell’industrializzazione Già nel Medioevo singoli individui avevano cominciato a considerare la possibilità pratica di imbrigliare le forze della natura. Le scoperte scientifiche realizzate in seguito da Copernico, Galileo e Newton rafforzarono queste idee. Alcuni studiosi considerarono l’applicazione della scienza all’industria il carattere distintivo dell’industria moderna. Per quanto affascinante, questa idea ha il suo punto debole nella fragilità del “corpus” della conoscenza scientifica dell’epoca. L’espressione metodo sperimentale può risultare troppo formale e specifica per definire tale processo, una più appropriata è per tentativi. Tuttavia una propensione a sperimentare e innovare si diffuse in tutti gli strati della società. L’Inghilterra fu una delle prime nazioni ad accrescere la propria produttività agricola, grazie alla sperimentazione per tentativi di nuove colture e nuove rotazioni. La più importante innovazione agricola fu lo sviluppo della cosiddetta agricoltura convertibile, che prevedeva l’alternanza di campi coltivati e pascoli temporanei in luogo di arativi e pascoli permanenti. Essa aveva il duplice vantaggio di ripristinare la fertilità del suolo con rotazioni più efficaci e di permettere l’allevamento di una quantità ingente di bestiame. Una condizione per il miglioramento delle rotazioni e l’allevamento selettivo fu la recinzione e il consolidamento dei campi. Il nuovo paesaggio agricolo consisteva in fattorie compatte, consolidate e recintate. Nel sistema tradizionale dei campi aperti era quasi impossibile ottenere l’accordo di tutti gli interessati sull’introduzione di nuove culture o rotazioni e con mandrie e greggi comuni era ugualmente difficile praticare un allevamento selettivo. La crescente produttività agricola inglese permetteva a quest’ultima di sostentare una popolazione sempre maggiore secondo standard nutritivi via via più elevati. Per circa un secolo essa produsse un surplus per l’esportazione, prima che il tasso di crescita demografica superasse quello di crescita della produttività. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale di commercializzazione dell’intera nazione. Già nel XVI secolo Londra aveva cominciato a svolgere la funzione di “polo di crescita” dell’economia inglese. I suoi vantaggi erano sia geografici che politici. La commercializzazione Un significativo processo di espansione ebbe luogo anche nell’industria chimica. Alcuni miglioramenti furono una conseguenza dei progressi della chimica (Lavoisier): furono studiati l’acido solforico, gli alcali (in particolare la soda caustica e la potassa). Nel 1791 Leblanc scoprì un processo di produzione degli alcali che faceva uso di cloruro di sodio, il sale comune. Questa soda artificiale aveva molti impieghi. L’industria del carbone rimase per lo più un’industria ad alta intensità di lavoro. Alle miniere del carbone va la responsabilità delle prime ferrovie. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo che ebbe diversi stadi preparatori. La sua principale antenata fu la macchina a vapore. A Richard Trevithick va il merito della costruzione della prima locomotiva perfezionata infine da Stephenson. Varianti regionali E’ importante prendere atto delle varianti regionali della industrializzazione inglese, nonché dell’andamento eterogeneo che il cambiamento economico assunse nelle varie componenti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. All’interno dell’Inghilterra il Lanchashire divenne sinonimo di cotone, la Cornovaglia rimase la fonte primaria dello stagno e del rame, il Sud rimase agricolo. Il Galles era una sorta di parente povero in quanto per questa regione la fama e la fortuna passava attraverso l’Inghilterra e la Scozia. La Scozia, a differenza del Galles, conservò la sua indipendenza dall’Inghilterra fino all’unione volontaria dei parlamentari nel 1707. A metà del XVIII secolo la Scozia era un paese povero e arretrato, ma ebbe un passaggio all’industria anche più veloce di quello dell’Inghilterra. L’ingresso della Scozia nell’Impero britannico le diede accesso non solo ai mercati inglesi, ma anche a quelli delle colonie inglesi nel Nord America e altrove, il che senza dubbio contribuì all’accelerazione del ritmo della vita economica. L’Irlanda, in contrasto purtroppo con la Scozia, non riusciva quasi ad industrializzarsi. Gli Inglesi trattavano l’Irlanda come una provincia conquistata. Quando la carestia di patate la colpì, a metà degli anni quaranta, la morte per fame e l’emigrazione privarono l’Irlanda in meno di un decennio di un quarto della sua popolazione. Aspetti sociali della prima industrializzazione La Gran Bretagna fu una delle componenti della terza logistica europea. Che la crescita demografica non fosse esclusivamente legata al processo d’industrializzazione è documentato dal fatto che si trattò di un fenomeno generale europeo. D’altra parte sarebbe scorretto affermare che non ci fu alcuna relazione. L’industrializzazione fu quanto meno un elemento propizio alla crescita continua della popolazione. Non è possibile offrire una spiegazione adeguata dei meccanismi della crescita che si verificò nel XVIII secolo. E’ possibile che la crescita del tasso di natalità sia dipesa da un decremento del tasso di mortalità dovuto a diversi fattori, quali i progressi dell’agricoltura, che portarono ad una maggiore abbondanza nonché ad una maggiore varietà di cibi, migliorando l’alimentazione. Inoltre l’accresciuta produzione di carbon fossile significò abitazioni meglio riscaldate. La popolazione totale risentì anche degli effetti dell’immigrazione e dell’emigrazione. Per tutto il XVIII secolo le migliori opportunità economiche offerte dall’Inghilterra e dalla Scozia vi attirarono irlandesi di ambo i sessi. L’emigrazione interna alterò la distribuzione geografica della popolazione. Questo fenomeno produsse due mutamenti: aumento della densità nel nord-ovest a scapito del sud-est e crescita dell’urbanizzazione. Nel 1800 Londra era la maggiore città della Gran Bretagna e probabilmente la più grande d’Europa. La crescita delle città non ebbe solo aspetti positivi. Non mancavano le abitazioni cadenti, le infrastrutture sanitarie erano inesistenti (causa, questa, di colera e malattie epidemiche) e ci si liberava dei rifiuti gettandoli nelle strade. Tali condizioni erano frutto in parte della crescita estremamente rapida, dell’inadeguatezza dell’apparato amministrativo, della mancanza di esperienza delle autorità locali e della assenza di pianificazione. La rapida espansione delle città è ancora più sorprendente se si tiene conto del fatto che essa dipese interamente dall’immigrazione dalle campagne. A causa delle spaventose condizioni sanitarie la mortalità superava la natalità (mortalità infantile) e il tasso di incremento naturale era in realtà negativo. Un vecchio libro di testo affermava che i lavoratori “erano spinti verso le fabbriche dalla lusinga di salari elevati”. Questa è una mezza verità. La presenza femminile e infantile sia nell’agricoltura che nell’industria domestica era un fenomeno di lunga tradizione, che il sistema fabbrica non fece che adottare. L’ultimo mezzo secolo ha assistito ad un dibattito erudito sulla questione di come mutò il livello di vita delle classi lavoratrici britanniche tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XIX secolo. Nessun accordo è stato mai raggiunto. Nel complesso sembra probabile che si sia verificato un graduale miglioramento del livello di vita delle classi lavoratrici. La maggior parte dei lavoratori, inclusi quelli peggio pagati, videro migliorare in qualche modo la propria situazione, ma la disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza, già grande nell’economia preindustriale, divenne ancora più accentuata nelle prime fasi della industrializzazione. CAPITOLO VIII LO SVILUPPO ECONOMICO NELL’OTTOCENTO: FATTORI DETERMINANTI Il XIX secolo vide il trionfo definitivo dell’industrialismo come sistema di vita in Europa, in particolare nell’Europa occidentale. Popolazione Nel XIX secolo la crescita demografica europea accelerò, l’Europa aveva raggiunto un totale di 400 milioni di abitanti. La popolazione continuò ad aumentare nel XX secolo, ma il tasso di crescita europeo conobbe una leggera diminuzione, mentre quello del resto del mondo aumentò. E’ pertanto evidente che non esiste una chiara correlazione tra industrializzazione e crescita demografica, e che non bisogna andare alla ricerca d’altri fattori causali. Prima dei miglioramenti dei trasporti, uno dei maggiori limiti alla crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del continente. La produzione agricola crebbe enormemente. Questo fenomeno fu particolarmente importante nel caso della Russia. La produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche più scientifiche. Una migliore conoscenza della chimica del suolo ed un uso più intenso dei fertilizzanti, fece salire la resa dei terreni comuni e rese possibile la coltivazione di quelli poco fertili. La diminuzione del prezzo del ferro favorì l’uso di attrezzi e strumenti migliori e più efficienti. Il basso prezzo dei trasporti facilitò i movimenti migratori della popolazione. Cospicua fu anche l’emigrazione interna europea. La Francia attirò gli Italiani, gli Spagnoli, gli Svizzeri e i Belgi, mentre l’Inghilterra ricevette immigrati da tutta Europa. Talvolta gli emigranti cercavano di sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita migliore all’estero. Un numero relativamente elevato d’Italiani e Tedeschi emigrò in quelli che divennero i paesi economicamente più progrediti del Sud America. Il mutamento più fondamentale fu la crescita della popolazione urbana. L’Italia aveva assistito allo spopolamento delle maggiori città all’inizio dell’era moderna. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette ad un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Anche in questo la nazione guida fu la Gran Bretagna. La popolazione dei paesi industriali non solo viveva nelle città, ma preferiva quelle più grandi. Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. La principale limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di fornire grandi masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di carattere economico richiedevano la crescita delle città. L’introduzione del vapore, la transizione dal carbone di legna al coke cambiarono la situazione. Risorse L’Europa industriale non beneficiò di un magico aumento della quantità o qualità delle risorse naturali. Accadde piuttosto che risorse precedentemente sconosciute o di scarso valore acquisirono un’importanza enorme. Questo fu in particolare il caso del carbon fossile, e le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbone divennero nel XIX secolo i siti primari dell’industria pesante. Le regioni prive di riserve indigene di carbone dovettero importarlo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste d’acqua, ottennero da questa fonte un nuovo vantaggio relativo. L’Europa era nel complesso relativamente ben provvista di risorse minerarie convenzionali, quali il ferro, altri metalli, sale e zolfo. Il risultato fu una caccia sistematica a fonti d’energia ancora sconosciute, una ricerca scientifica e tecnologica dei migliori metodi di sfruttamento. In alcuni casi, con l’esaurirsi delle risorse domestiche, la ricerca di nuove fonti d’approvvigionamento si estese oltreoceano. Nel corso del XIX secolo la ricerca di materie prime, spinse sempre più le nazioni europee ad estendere il controllo politico sulle regioni africane e asiatiche scarsamente organizzate o prive di un governo forte. Sviluppo e diffusione della tecnologia Simon Kuznets definì il periodo in cui viviamo come “l’epoca economica moderna”. stampa cilindrica, usata per la prima volta dal “Times” di Londra ridussero notevolmente il costo di libri e giornali. Queste innovazioni misero la carta stampata alla portata delle masse e contribuirono alla loro progressiva alfabetizzazione. L’invenzione della litografia e gli sviluppi della fotografia resero possibile la riproduzione economica e l’ampia diffusione delle immagini visive. La Gran Bretagna introdusse il servizio postale. Ancora più significativa fu l’invenzione del telegrafo elettrico da parte dell’americano Samuel Morse. Il telefono, brevettato da Graham Bell rese ancora più personale la comunicazione su lunghe distanze. L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, inventò il telegrafo senza fili. Nel campo delle comunicazioni d’affari l’invenzione della macchina per scrivere e d’altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e contribuire al flusso crescente d’informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. La macchina per scrivere contribuì inoltre all’ingresso della donna nella forza lavoro impiegatizia. L’applicazione della scienza Il progresso scientifico divenne sempre più essenziale per il progresso tecnologico, si ebbe una crescente interazione tra scienziati, ingegneri e imprenditori. Lo sviluppo tecnologico richiedeva sempre più la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti. La chimica svolse un ruolo vitale anche nella metallurgia, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, allumino, nichel, magnesio e cromo. Oltre a scoprire nuovi metalli, scienziati e industriali trovarono il modo di impiegarli ed escogitarono metodi di produzione economici. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli; esempi di leghe naturali sono l’ottone e il bronzo. L’acciaio è in realtà una lega di ferro e piccole quantità di carbonio e talvolta altri metalli. La chimica venne inoltre in soccorso di vecchie e affermate industrie quali quelle della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. L’agricoltura scientifica si sviluppò perciò in parallelo con l’industria scientifica. Il contesto istituzionale Lo scenario istituzionale in cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo, assicurava ampie opportunità all’iniziativa individuale, lasciava libertà di scelta in campo occupazionale si fondava sulla proprietà privata; tuttavia la loro combinazione e l’esplicito riconoscimento loro accordato fecero sì che essi contribuissero in modo notevolissimo al processo di sviluppo economico. Fondamenti giuridici Una delle istituzioni cardine della Gran Bretagna era il sistema giuridico noto come diritto comune. Le caratteristiche distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidarsi alle consuetudini; il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico. La rivoluzione francese istituì un sistema giuridico più razionale che fu alla fine incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine può essere considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il primo articolo proclamava che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti”, diritti che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza. La Dichiarazione elencava anche le garanzie necessarie per tutelare questi diritti: uniformità delle leggi, libertà di parola e di stampa. Le assemblee rivoluzionarie oltre ad abolire il regime feudale e ad instaurare la proprietà privata della terra, si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne, abolirono le corporazioni di mestiere e l’intero apparato statale di controllo dell’industria, proibirono i monopoli. I Francesi naturalmente esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche. Il Belgio, gran parte dell’Italia, e per breve tempo l’Olanda furono tutti incorporati nell’Impero francese. Il regno di Napoli e l’intera Spagna, tutti posti sotto la “protezione” francese, accettarono la maggior parte della legislazione rivoluzionaria. Le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva da Napoleone. La sintesi napoleonica raggiunse forse il suo culmine nella grand’opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’Impero. Il fondamentale Code civil, promulgato nel 1804, era scritto da giuristi e avvocati della classe media, esso rifletteva evidentemente le preoccupazioni e gli interessi delle classi proprietarie. Il Code civil fu adottato per intero o posto a fondamento dei codici nazionali in tutta l’Europa e anche oltre. Un altro dei codici napoleonici di particolare importanza per lo sviluppo economico fu il Code de commerce, promulgato nel 1807, esso fu la prima normativa di carattere generale che avesse mai regolato le forme d’impresa. L’accresciuta dimensione dell’impresa determinata dalle nuove tecnologie richiedeva nuove forme legali che facilitassero l’accumulazione di capitale e la ripartizione dei rischi d’investimento. Il Code de commerce distingueva tre tipi principali d’organizzazione commerciale: F 0 B 7 la società semplice, i cui soci sono individualmente e solidalmente responsabili dei debiti della ditta; F 0 B 7 le società di persone, in cui il socio o i soci accomandatari assumono una responsabilità illimitata per gli affari della società, mentre il socio o i soci accomandanti rischiano esclusivamente il capitale sottoscritto; F 0 B 7 le società a responsabilità limitata nel senso americano, nella quale tutti i soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite. Pensiero economico e politica economica L’epoca delle guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo del nazionalismo e dell’imperialismo economico. Nel 1776 Adam Smith pubblicò la “ricchezza delle nazioni” quella che doveva diventare una dichiarazione d’indipendenza economica dell’individuo. La maggiore preoccupazione di Smith nel suo libro è però quella di dimostrare che l’abolizione di restrizioni vessatorie e “irragionevoli” all’impresa privata favorirebbe la concorrenza economica e ciò, a sua volta, porterebbe al massimo grado la “ricchezza delle nazioni”. Il libro di Smith godette di una popolarità insolita. Molto dopo la sua morte, e dopo che vari altri scrittori come Malthus e Ricardo, le idee di Smith cominciarono ad essere messe in pratica nella legislazione. Ciò si verificò in primo luogo nel Regno Unito, il maggior risultato conseguito fu l’abrogazione delle leggi sul grano, che inaugurò in Gran Bretagna un lungo periodo di libero scambio. Oltre al libero scambio, i principi del liberalismo economico sollecitavano una limitazione del ruolo del governo nell’economia. Secondo Smith e il suo “sistema di libertà naturale”, il governo aveva solo tre funzioni da svolgere: F 0 B 7 proteggere la società dalla violenza; F 0 B 7 proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia od oppressione; F 0 B 7 creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche. Nello stesso periodo in cui si smantellava il vecchio sistema di regolamenti e di privilegi speciali, il Parlamento emanava una serie di nuovi provvedimenti legislativi riguardanti il benessere pubblico, e in particolare dei soggetti meno in grado di difendersi. Il sistema americano vedeva nel Governo un’agenzia col compito di assistere gli individui e le imprese private nell’accelerare lo sviluppo delle risorse materiali della nazione. Struttura e conflitti di classe Dal punto di vista sociale, l’Europa dell’ancien régime era organizzata in tre ordini: la nobiltà, il clero e tutti gli altri. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari terrieri, che comprendeva anche non nobili oltre agli strati più alti del clero. Il fondamento economico del loro potere politico e della loro condizione sociale era la proprietà della terra, che permetteva loro di vivere “nobilmente” senza lavorare. Sul gradino successivo della scala sociale si trovava lo strato superiore della classe media, o alta borghesia, composto da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti come avvocati e notai, il principale fondamento della loro posizione erano le loro particolari conoscenze e abilità. Ad un livello ancora più basso della scala sociale era situata una classe media di rango inferiore, o piccola borghesia, comprendente artigiani, commercianti al dettaglio ed altri dediti ad attività di prestazioni di servizi. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i braccianti, tra le cui file erano molto numerosi i poveri e gli indigenti. All’inizio del secolo il gruppo di gran lungo più numeroso era quello dei contadini. La loro partecipazione ai movimenti sociali d’ampia portata fu generalmente sporadica. Negli anni immediatamente successivi a Waterloo, l’aristocrazia terriera continuò a godere di prestigio sociale e potere politico, nonostante gli effetti della rivoluzione francese. All’inizio dell’Ottocento i lavoratori urbani costituivano ancora una sparuta minoranza della popolazione, ma con il diffondersi del sistema industriale cominciarono a conquistare la superiorità numerica. Karl Marx profetizzò, a metà del XIX secolo, che la polarizzazione da lui osservata e le società industriali avanzate nell’epoca sarebbe continuata fino a che solo due classi sarebbero rimaste, la classe dominante dei capitalisti e il proletariato industriale. Anziché produrre due classi reciprocamente antagoniste, la diffusione dell’industrializzazione ha visto l’enorme sviluppo di una classe media impiegatizia, artigianale e d’imprenditori indipendenti. Le rivoluzioni vittoriose, furono opera di era di gran lunga il maggiore paese industriale del mondo, si affermava anche come principale potenza commerciale mondiale. La Gran Bretagna conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale sia gli scambi commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio d’altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo, ed era tallonata dalla Germania e dagli Stati Uniti. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Nell’industria siderurgica la Gran Bretagna produceva oltre metà della ghisa grezza mondiale. Nel 1890 però gli Stati Uniti avevano conquistato la prima posizione, e nei primi anni del Novecento la Gran Bretagna fu superata anche dalla Germania. Nell’industria del carbone, invece, la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa, e produceva un surplus destinato all’esportazione. L’industria tessile aveva bisogno di costruttori e riparatori di macchine, quella siderurgica ne aveva di propri. Un altro potente stimolo fu rappresentato dall’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e dal legno al ferro. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore sia di quelle a vela. Nonostante questi risultati impressionanti, non devono essere sopravvalutati il ritmo e la misura dell’industrializzazione britannica. L’agricoltura, ad esempio, era ancora il settore che impiegava il maggior numero d’unità lavorative, seguita al secondo posto dai servizi domestici. I fabbri erano più numerosi degli operai dell’industria siderurgica primaria. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della supremazia industriale tra il 1850 e il 1870, quest’ultima non poteva conservare indefinitamente la propria posizione di predominio, man mano che altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano ad industrializzarsi. In questo senso, il declino relativo della Gran Bretagna era inevitabile. Inoltre, considerate le immense risorse e la rapida crescita demografica degli Stati Uniti e della Russia, non può sorprendere che questi due paesi finissero per superare la piccola nazione insulare in termini di prodotto complessivo. L’industria cotoniera, ad esempio, era stata dipendente dalle importazioni di cotone grezzo, ma ciò non aveva certo impedito alla Gran Bretagna di divenire il principale produttore mondiale di tessuti di cotone. I giacimenti nazionali di metalli non ferrosi (rame, piombo e stagno) si esaurirono gradualmente o non furono più in grado di competere con i prezzi più bassi degli stessi materiali importati dall’estero. Un’altra possibile causa del declino relativo della Gran Bretagna fu il fallimento della strategia imprenditoriale. Gli imprenditori del tardo periodo vittoriano non esibirono lo stesso dinamismo dei loro predecessori. La Gran Bretagna fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti. Le poche grandi Università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica. Il contrasto con la situazione del XVII secolo è impressionante e ironico: mentre a quell’epoca la società britannica era considerata più fluida e aperta di quelle dell’ancien régime del continente, un secolo dopo questa percezione si era capovolta. Di tutti i maggiori paesi, la Gran Bretagna era quello maggiormente dipendente dalle importazioni e dalle esportazioni per il proprio benessere. La Gran Bretagna dipendeva dall’economia internazionale per la propria sopravvivenza in misura molto maggiore di paesi anche più piccoli. Possedeva la flotta mercantile di gran lunga più imponente e aveva investito all’estero più di ogni altro paese. Fin dall’inizio del 19 secolo nonostante l’importanza delle industrie che producevano per le esportazioni, la Gran Bretagna aveva una bilancia commerciale “sfavorevole” o negativa. Nella seconda parte del secolo il ruolo centrale di Londra nel sistema bancario e assicurativo internazionale gonfiò questi ricavi invisibili. Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro-capite dei cittadini britannici aumentò, la distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni d’assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa. Gli Stati Uniti L’esempio più spettacolare della rapida crescita economica nazionale nell’Ottocento è offerto dagli Stati Uniti. L’America fu generalmente riconosciuta come il “crogiolo” dell’Europa. Il numero annuo di immigranti crebbe rapidamente. Reddito e ricchezza crebbero ancora più rapidamente della popolazione. Fin dall’epoca coloniale la scarsità di manodopera in rapporto alla terra e alle altre risorse avevano comportato salari più elevati ed un più alto tenore di vita rispetto all’Europa. Fu questo fatto, unito alle correlate possibilità di realizzazione dell’individuo e alle libertà religiose e politiche godute dai cittadini americani, ad attirare gli immigranti europei . E’ probabile che il reddito medio pro capite sia per lo meno raddoppiato nel periodo compreso tra l’adozione della Costituzione e lo scoppio della guerra civile. L’abbondanza di terra e la dovizia di risorse naturali contribuiscono a spiegare come mai gli Stati Uniti vantassero redditi pro capite più alti dell’Europa. La continua scarsità e l’alto costo della manodopera rendevano particolarmente proficuo l’impiego di macchine che permettevano di risparmiare manodopera, in agricoltura come nell’industria. In agricoltura, le migliori tecniche europee assicuravano quantità per acro sensibilmente più alte che degli Stati Uniti, ma gli agricoltori americani, avvalendosi di macchine relativamente poco costose erano in grado di ottenere rese molto più elevate per unità di lavoro. L’immensa vastità degli Stati Uniti, con la loro varietà di climi e risorse, permetteva una specializzazione regionale ancora più spinta di quello attuabile nei singoli paesi europei. Nel 1789, lo stesso anno in cui entrò in vigore la Costituzione, arrivò dall’Inghilterra Samuel Slater, che l’anno seguente fondò la prima fabbrica americana. Alexander Hamilton, che fu il primo segretario al Tesoro, era del parere che si dovesse favorire le manifatture con tariffe protettive ed altri provvedimenti. Thomas Jefferson, primo segretario di Stato e terzo presidente, preferiva incoraggiare l’agricoltura. L’industria del cotone del New England, dopo aver superato drammatici alti e bassi si affermò negli anni venti. Un altro dei vantaggi della vastità del territorio statunitense era il suo potenziale come mercato interno, anche se la realizzazione di questo potenziale richiedeva una vasta rete di trasporti. All’inizio del XIX secolo la rada popolazione era disseminata lungo la costa atlantica; le comunicazioni erano assicurate dalla navigazione costiera, l’unico accesso praticabile alle regioni dell’interno era rappresentato dai fiumi, dove si presentava però l’ostacolo di rapide e cascate. Per porre rimedio gli Stati e le municipalità intrapresero un grande programma di “miglioramenti interni”, espressione con la quale s’intendeva in primo luogo la costruzione di strade a pedaggio e canali. Nel 1830 erano state costruite oltre 11000 miglia di strade a pedaggio. Una delle cause principali del fallimento economico dei canali fu la comparsa sulla scena di un nuovo concorrente, la ferrovia. L’era delle ferrovie iniziò negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna quasi contemporaneamente, anche se per molti anni gli USA dipesero fortemente dalla tecnologia, dalle attrezzature e dai capitali britannici. I promotori americani colsero al volo l’opportunità offerta da questo nuovo mezzo di trasporto. Nel 1840 la rete ferroviaria ultimata superava non solo quella britannica ma quella di tutto il continente europeo. Come in gran Bretagna, le ferrovie furono importanti in America per i loro collegamenti ascendenti con altre industrie, in particolare quella siderurgica e dell’acciaio. Prima della guerra civile l’industria siderurgica era per lo più frammentata, caratterizzata da impianti di piccole dimensioni, e legata alla tecnologia del carbone di legna. Dopo la guerra, con la generale adozione del coke per la fusione del ferro e l’introduzione del forno a suola per la fabbricazione dell’acciaio, l’industria siderurgica divenne in breve tempo la maggiore industria americana. La popolazione urbana non eguagliò quella delle campagne fino a dopo la prima guerra mondiale, l’industria siderurgica conservò una base rurale fino a dopo la guerra civile, solo con l’avvento delle centrali elettriche cominciò il declino dell’industria a base rurale. Il Belgio La prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico fu quella che nel 1830 assunse il nome di Regno del Belgio. Il Belgio vantava una lunga tradizione industriale; le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno, Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad assimilare le tecniche commerciali e finanziare italiane nel basso medioevo. Pur avendo dovuto sopportare le conseguenze del dominio spagnolo e di altre disgrazie dopo la rivolta olandese, nel corso del XVIII secolo l’economia della regione si risollevò. Innanzitutto nelle Fiandre nacque un’importante industria rurale manuale del lino. In secondo luogo, le risorse naturali belghe erano molto simili a quelle britanniche, infatti il Belgio possedeva giacimenti carboniferi facilmente accessibili e fu in grado di produrre più’ carbone di qualunque altro paese del continente, inoltre esso possedeva giacimenti di minerale ferroso e non mancava di piombo e zinco. In terzo luogo la regione che sarebbe divenuta il Belgio ricevette importanti infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e capitali stranieri, e godette di una posizione di favore in certi mercati esteri in particolare quelli francesi. Il processo iniziò sotto l’ancien regime ed accelerò nel periodo della dominazione francese. Le miniere di carbone erano le maggiori utilizzatrici di macchine a vapore. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese in generale. La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi, la cui costruzione era stata intrapresa sotto l’ancien regime ma era proseguita con i governi successivi, facilitò enormemente questo traffico. I capitalisti francesi giudicavano il carbone belga un investimento promettente. I grandi boom industriali degli anni trenta e quaranta e persino negli anni settanta, quando la tradizionali industrie artigianali, quali quella alimentare, dell’abbigliamento e della lavorazione del legno, mentre quelle con oltre 100 operai appartenevano di regola al settore industriale moderno: industrie chimiche, del vetro, della carta e della gomma. Non devono sfuggire due ulteriori caratteristiche della dimensione relativamente ridotta delle imprese francesi: l’alto valore aggiunto (articoli di lusso) e la dispersione geografica. La Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. Questa dispersione era determinata in parte dalla natura delle fonti energetiche a disposizione. La Francia era, tra tutti i paesi della prima ondata industriale, quello meno ricco di carbone. Le caratteristiche dell’acqua come fonte di energia ponevano però forti limitazioni al suo impiego. I siti migliori erano generalmente molto distanti dai centri abitati. L’energia idraulica, perciò, nonostante tutta la sua importanza per l’industrializzazione francese, contribuì ad imporre un certo modello: aziende di piccole dimensioni, dispersione geografica e limitata urbanizzazione. La Germania Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo Stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico. Però alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Impero tedesco unificato era la più potente nazione industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e derivati, dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La Germania era all’avanguardia nella produzione di vetro, strumenti ottici, metalli non ferrosi, tessili ed altri prodotti di manifattura. Possedeva inoltre una delle reti ferroviarie più dense, ed aveva un grado elevato di urbanizzazione. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in 3 periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in Gran Bretagna, Francia e Belgio. Nel secondo, assunsero consistenza le vere e proprie fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. Finalmente, la Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua ad occupare ancora oggi. Un vivace afflusso di capitali, tecnologie e iniziative estere contrassegnò il secondo periodo. In quello finale, il quadro fu dominato dall’espansione dell’industria tedesca nei mercati esteri. La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone, aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi. Persino la Prussia adottò, in forma modificata, molte istituzioni legali ed economiche francesi. Editti successivi abolirono le corporazioni e abrogarono altre restrizioni alle attività commerciali e formarono il sistema fiscale e snellirono l’amministrazione centrale. Altre riforme diedero alla Germania il primo sistema educativo moderno. Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse alla formazione dell’unione doganale o tariffaria. Fu decisa l’applicazione della tariffa unica. Di conseguenza la rete ferroviaria tedesca crebbe molto più rapidamente di quella francese. Le costruzioni ferroviarie obbligarono inoltre gli Stati a riunirsi per accordarsi su itinerari, prezzi ed altre questioni tecniche. Fino agli anni quaranta la produzione tedesca di carbone fu più bassa di quella francese e persino di quella del Belgio. La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del carbone. La produzione commerciale cominciò nella valle della Rhur. Negli anni trenta dell’Ottocento furono scoperti i giacimenti nascosti a nord della valle della Rhur. Il loro sfruttamento, sebbene estremamente redditizio, richiedeva capitali più ingenti, tecniche più sofisticate. Le aziende tedesche adottarono rapidamente la strategia dell’integrazione verticale acquistando miniere di carbone e ferro, impianti per la produzione di coke, altiforni, e fonderie e laminatoi, officine meccaniche. Gli investitori tedeschi, aiutati e incoraggiati dalle banche, cominciarono a ricomprare le azioni di aziende tedesche in mani straniere, e persino ad investire all’estero. I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotti intermedi ad uso industriale. La produzione di carbone, ferro e acciaio era notevole. Ancora più importanti erano due industrie relativamente nuove, quella chimica e quella elettrica. Non ostacolati dal peso di attrezzature e impianti obsoleti, gli imprenditori chimici poterono avvalersi della tecnologia più aggiornata in una industria in rapida evoluzione. L’industria elettrica registrò una crescita ancora più rapida di quella chimica. All’inizio del XX secolo i motori elettrici stavano facendo concorrenza e rimpiazzando i motori a vapore. Una caratteristica notevole delle industrie chimiche ed elettriche, nonché di quelle del carbone, del ferro e dell’acciaio, era l’imponente dimensione delle aziende. Un’altra importante caratteristica della struttura industriale tedesca era la prevalenza dei cartelli. Un cartello è un accordo o contratto tra aziende nominalmente indipendenti nel quale si determinano i prezzi, si limita la produzione, si suddividono i mercati. Tali contratti o accordi, contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge. I cartelli furono in grado di mantenere sul mercato interno dei prezzi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri, persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione. CAPITOLO X MODELLI DI CRESCITA: RITARDATARI E ASSENTI Prima del 1850 esistevano singoli nuclei di industrie moderne, ma non si può dire che vi fosse in processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo. La prima ondata di industrializzazione fu legata al carbone, ciò emerge dalle cifre relative al consumo pro capite. Ovviamente l’aumento del consumo non fu una causa, bensì una conseguenza del successo del processo di industrializzazione. La Svizzera Sebbene la Svizzera avesse già acquisito, nella prima metà del secolo, diverse importanti risorse, la sua struttura economica era ancora preindustriale. La forza lavoro era impiegata soprattutto in attività agricole. La grande maggioranza degli addetti dell’industria lavoravano in casa o in piccole officine non meccanizzate. La Svizzera non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, ad un’effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e ad uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è povera di risorse naturali ad eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è priva di carbone. Nonostante tutti questi svantaggi, gli Svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo un livello di vita molto elevato e un notevole incremento della popolazione. A causa della scarsità di terra arabile, gli Svizzeri avevano praticato da tempo la combinazione di industria domestica, agricoltura e produzione casearia. In questi dipendeva dai mercati internazionali. Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto ad un’insolita combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato di questa combinazione furono prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto. Alta intensità di lavoro significava soprattutto alta intensità di lavoro specializzato. Esisteva una forza lavoro abile e disposta a lavorare a salari bassi. A ciò si aggiunse il famoso Istituto svizzero di tecnologia, fondato nel 1851. La Svizzera possedeva un’importante industria tessile cotoniera che era basata su lavorazioni artigianali e sul lavoro a tempo parziale. La combinazione di tecnologie usate era alquanto insolita: la filatura era meccanizzata (energia idraulica) e si avvaleva del lavoro di donne e bambini, mentre la tessitura era manuale. Anche l’industria della seta contribuì alla crescita economica svizzera, attraverso un processo di ammodernamento tecnologico. Tra le industrie che presero il posto del tessile nelle esportazioni figuravano sia settori tradizionali che industrie che erano esse stesse un risultato del processo di industrializzazione. Alla vigila della Prima Guerra Mondiale esse erano l’industria meccanica, la fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi, di prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone evitò saggiamente di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni, affidandosi all’importazione di materie prime dall’estero, essa sviluppò un’importante industria di trasformazione dei metalli. L’industria casearia si trasformò da un’attività artigianale ad un processo di fabbrica. Sviluppò la produzione di latte condensato (su brevetto americano) e diede origine alla produzione di cioccolato e quella di alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, quella della manifattura di orologi fu caratterizzata da altissima specializzazione, da una minima divisione del lavoro e anche se furono inventate delle macchine, l’assemblaggio finale rimase manuale. Infine l’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione, ma si specializzò in prodotti esotici e di prezzo elevato, ed inoltre in specialità farmaceutiche. Le ferrovie, infine, non rappresentarono un buon investimento per la Svizzera che saggiamente le lasciò ai capitalisti stranieri (in particolare francesi). I Paesi Bassi e la Scandinavia Può apparire incongruo accomunare Paesi Bassi e Stati scandinavi in questa discussione dei processi di industrializzazione. Le caratteristiche comuni dei paesi un ruolo cruciale nello sviluppi economico dell’Impero. Poiché gran parte del paese era montagnoso, il trasporto terrestre era costoso e quello per via d’acqua inesistente nelle regioni montane. L’Austria-Ungheria disponeva di pochi canali. Le prime ferrovie furono localizzate nell’Austria propriamente detta e nella Boemia. Furono utilizzate per il trasporto del grano e della farina. L’Impero possedeva anche industrie pesanti (industria siderurgica alimentare dal carbone di legna) che però scomparvero gradualmente con l’avvento della fusione del minerale ferroso mediante carbon coke. L’Europa meridionale e orientale Caratteristiche comuni di questi paesi furono: l’insufficiente grado di industrializzazione fino al 1914, con conseguenti bassi livelli di reddito pro capite ed un’elevata incidenza di povertà, i livelli bassi di capitale umano, l’assenza di una riforma agraria significativa che incidesse sulla produttività ed infine il fatto che tutti furono soggetti a regimi autocratici, autoritari, corrotti e inefficienti. La penisola iberica Sia Spagna che Portogallo emersero dalle guerre napoleoniche con sistemi economici primitivi e con regimi politici reazionari. Entrambi i paesi erano afflitti da una finanza pubblica in condizioni deplorevoli. Durante le guerre civili entrambe le parti in lotta contrassero prestiti all’estero per finanziare lo sforzo militare . I disavanzi cronici delle finanze statali condussero a manipolazioni del sistema bancario, ad un’inflazione monetaria e all’indebitamento sui mercati esteri, ma il credito di cui il Governo godeva era talmente basso che i prestiti erano concessi solo a condizioni estremamente onerose. La bassa produttività dell’agricoltura rimase una debolezza fondamentale di entrambe le economie. L’economia spagnola è stata definita come un’economia “dualistica”, con un ampio settore agricolo di sussistenza da un lato e un piccolo settore agricolo commerciale interagente con un settore urbano industriale, commerciale e dei servizi di dimensioni ancora più ridotte. La Spagna tentò una riforma agraria che si rivelò un fallimento. Il Governo confiscò le terre della Chiesa, delle municipalità e degli aristocratici che si erano schierati nel partito opposto durante le guerre civili, con l’intenzione di rivenderle ai contadini, le esigenze delle finanze pubbliche erano però tali che il Governo finì col venderle all’asta al miglior offerente. Il risultato fu che la maggior parte della terra finì nelle mani dei già ricchi aristocratici e borghesi. La Spagna possedeva diversi giacimenti di carbone, ma non di elevata qualità e localizzati in modo infelice. Ciononostante si sviluppò un’industria siderurgica lungo la costa settentrionale del paese. Nessuna riforma agraria fu tentata invece in Portogallo. Nel frattempo l’incremento demografico determinò l’estensione delle coltivazioni di cereali e di tutti i mezzi primari di sussistenza. Questo deprimente quadro generale aveva i suoi punti luminosi. Un’industria cotoniera moderna si sviluppò dopo il 1790 in Catalogna, a Barcellona. In Andalusia e nella provincia di Oporto del Portogallo esistevano industrie vinicole. Nel frattempo una nuova fonte di valuta estera, costituita da minerali e metalli, era venuta a rimpiazzare gli utili perduti con la produzione vinicola. Nel 1900 le esportazioni di minerali e metalli costituivano circa un terzo delle esportazioni totali. I capitali esteri predominavano anche in altri settori moderni dell’economia, quali le attività’ bancarie e le ferrovie. Fino al 1850 gli sviluppi in entrambe queste aree erano stati trascurabili; il sistema bancario era dominato dalla Banca di Spagna. C’erano pochi km di ferrovie e negli anni cinquanta si decise di accordare uno speciale incoraggiamento ai capitali stranieri che intendessero avviare banche e ferrovie. Ma la maggior parte di esse fece bancarotta. Costruite con capitali esteri le ferrovie portoghesi non sfuggirono alla frode, alla corruzione e alla bancarotta. L’Italia Divisa e dominata da potenze straniere, l’Italia aveva perso da lungo tempo la sua supremazia negli affari economici. Il Congresso di Vienna restaurò lo sconcertante mosaico di principati nominalmente indipendenti, tutti però, compresi lo Stato della Chiesa e il Regno delle due Sicilie, sotto il controllo dell’impero asburgico. L’Austria incorporò la Lombardia e Venezia. Il Regno di Sardegna era indipendente, languiva nelle acque stagnanti del feudalesimo, i proprietari terrieri non avevano interesse a migliorare i possedimenti e la popolazione era completamente analfabeta e viveva in maniera primitiva. Il Regno dei Savoia apparteneva culturalmente e economicamente alla Francia. Genova aveva resistito per secoli come repubblica indipendente fino all’avvento di Napoleone. Il Piemonte era una continuazione geografica della pianura padana: possedeva alcuni setifici e sotto la guida di diversi intraprendenti proprietari terrieri la sua agricoltura divenne la più’ avanzata e prospera della penisola. I differenziali economici regionali, importanti in quasi tutti i paesi erano in Italia particolarmente marcati. Fu nel Nord, economicamente più progredito, che iniziò il movimento di unificazione. Dopo le rivoluzioni fallite nel Regno di Sardegna venne alla ribalta un personaggio eccezionale, Camillo Benso di Cavour, proprietario terriero e imprenditore agricolo progressista che aveva anche promosso una ferrovia, un giornale e una banca, e che nel 1850 divenne Ministro della Marina, del Commercio e dell’Agricoltura del piccolo Stato da poco divenuto monarchia costituzionale. Nel 1852 divenne primo ministro. Egli sottolineò che l’ordine finanziario e il progresso economico erano le due condizioni indispensabili affinché il Piemonte potesse assumere la guida della penisola italiana. Per conseguire questi risultati egli riteneva necessaria l’assistenza economica degli altri paesi, e perciò anche la presenza di capitale straniero. Negoziò trattati commerciali con tutti i più importanti paesi commerciali e industriali d’Europa. Le esportazioni crebbero così come le importazioni. L’unificazione alleviò la frammentazione del mercato. Ma senza lo sviluppo dei trasporti anche questo risultato sarebbe stato illusorio. Gli sforzi di Cavour lo condussero alla morte prematura tre mesi dopo la proclamazione del Regno ma i suoi successori non furono in grado di continuare in maniera adeguata il suo lavoro: l’Italia aveva comunque iniziato il suo cammino verso l’industrializzazione. L’Europa sudorientale I cinque piccoli paesi che occupavano l’angolo sudorientale del continente europeo (Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia) erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti avevano conquistato l’indipendenza dall’Impero Ottomano dopo il 1815 e l’eredità del dominio ottomano si faceva sentire pesantemente sulle loro economie. All’inizio del XX secolo erano tutti paesi rurali e agrari. La tecnologia era primitiva, la produttività e il reddito erano bassi. Nonostante la loro povertà, l’alta natalità combinata con una mortalità in declino provocò un’esplosione demografica. L’aumento della pressione demografica portò alla crescita della terra coltivabile, all fame di terra, all’emigrazione verso aree urbane e i paesi più sviluppati dell’occidente e ad un certa emigrazione verso i paesi d’oltremare. Le risorse naturali erano insufficienti ad alleggerire la pressione demografica. Esistevano alcuni piccoli giacimenti sparpagliati di carbone, insufficienti però a rendere uno qualsiasi di questi paesi indipendente dalle importazioni, nonostante una domanda interna molto ridotta. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale esistevano anche alcuni piccoli giacimenti di metalli non ferrosi, il cui sfruttamento era però appena iniziato, con capitale straniero. In accordo con il loro carattere agrario, il commercio estero consisteva in esportazioni di prodotti agricoli e importazioni di manufatti (beni di consumo). In contrasto con la lenta diffusione della tecnologia agricola e industriale, la tecnologia istituzionale delle banche e dell’indebitamento estero si diffuse con rapidità. Le banche a capitale azionario e le altre istituzioni finanziarie conobbero un rapido sviluppo, ma senza forti legami con la finanza industriale. I prestiti esteri furono destinati alla costruzione delle ferrovie, in genere per conto dello Stato. In ciascuno dei paesi si sviluppò dopo il 1895 un modesto settore industriale . La Russia imperiale All’inizio del XX secolo l’Impero russo era considerato una grande potenza. L’estensione del suo territorio e della sua popolazione giustificavano tale reputazione. Anche in termini economici complessivi la Russia occupava una posizione ragguardevole. Possedeva grandi industrie tessili (cotone e lino) e industrie pesanti. La Russia era un paese ancora prevalentemente agricolo, ma la produttività era ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali (servaggio legalizzato). Gli inizi dell’industrializzazione russa sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande. Le prime imprese industriali erano iniziative isolate legate ai bisogni dello Stato russo. La maggior parte di questi operai era nominalmente di condizione servile. In luogo delle prestazioni d’opera tradizionali essi erano tenuti al versamento ai loro padroni di somme in contanti che detraevano dai salari monetari percepiti (servi imprenditori). La guerra di Crimea rivelò la cruda realtà dell’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura. Ci furono riforme (emancipazione dei servi del 1861). Il Governo incoraggiò un programma di costruzioni ferroviarie sulla base di capitali e tecnologie d’importazione, e riorganizzò il sistema bancario. Inoltre incoraggiò l’industrializzazione in vari modi: contrasse debiti all’estero, impose dazi sulle importazioni di prodotti di ferro e acciaio, ma allo stesso tempo agevolò l’introduzione delle attrezzature più moderne per la manifattura del ferro e dell’acciaio e per le costruzioni meccaniche. Al boom dell’industria russa degli anni novanta succedette la crisi di primi anni del XX secolo, che a sua volta fu seguita vantaggioso per il Portogallo specializzarsi nella produzione vinicola ed acquistare stoffe dall’Inghilterra. Questo era il principio del vantaggio relativo il fondamento della moderna teoria del commercio internazionale. Sia l’argomentazione di Smith a favore del libero scambio che quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche. Per avere effetti pratici in politica esse dovevano riuscire a convincere gruppi consistenti di individui influenti che il libero scambio avrebbe loro portato dei vantaggi. Uno di questi gruppi era quello dei mercanti coinvolti nei traffici internazionali; inoltre conquistarono posizioni di preminenza nel partito tory al Governo, uomini il cui obiettivo era modernizzare le procedure arcaiche di Governo. Uno di questi fu Robert Peel che creò una forza di polizia metropolitana, i cui membri furono chiamati bobbies o peelers. Un altro dei cosiddetti “tory liberals” fu William Huskisson che ridusse il dedalo di restrizioni e tasse. La riforma parlamentare del 1832 estese il diritto di voto alla classe media urbana, in gran parte favorevole al libero scambio. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette Corn Laws, le leggi sul grano che imponevano tariffe sull’importazione. Dopo vari tentativi di abrogarle o modificarle Richard Cobden diede vita nel 1839 alla Anti-Corn Law League e intraprese una vigorosa campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica. Nel 1841 il Governo whig allora in carica propose una riduzione delle tariffe sia sul grano che sullo zucchero, di fronte alla bocciatura dei provvedimenti proposti, il Governo indisse nuove elezioni generali. In precedenza le leggi sul grano e il protezionismo in genere non avevano figurato tra le questioni di partito, in quanto i proprietari terrieri rappresentavano la maggioranza sia tra i tories che tra i whigs. In questa campagna elettorale questi ultimi proposero un ridimensionamento delle leggi sul grano, mentre i tories si batterono per il mantenimento dello status quo. La vittoria arrise ai tories ma il nuovo primo ministro, sir Robert Peel aveva già deciso un’ampia revisione del sistema fiscale. Nel 1845 l’Irlanda fu colpita dalla disastrosa carestia di patate, che ridusse alla fame gran parte della popolazione irlandese. Allora Peel presentò un progetto di legge per l’abrogazione delle leggi sul grano che fu approvato nel 1846. I whigs noti in seguito come liberali divennero il partito del libero scambio e delle manifatture, mentre i tories noti anche col nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi fondiari e in seguito dell’imperialismo. Con il consolidamento dei nuovi schieramenti politici negli anni cinquanta e sessanta e con Gladstone come cancelliere dello Scacchiere si affermò un’intransigente politica liberoscambista. Dopo il 1860 rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di bilancio su prodotti non britannici (brandy, vino tabacco). L’età del libero scambio Il secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato commerciale, il trattato anglofrancese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito tradizionalmente una politica protezionistica che consisteva nel divieto di importare tessuti di cotone e di lana. Il Governo di Napoleone III desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran Bretagna. Sebbene in Francia avesse tradizionalmente prevalso una politica protezionistica, una forte corrente di pensiero sosteneva il liberalismo economico. Uno dei capi di questa scuola era l’economista Michel Chevalier che convinse l’Imperatore dei vantaggi di un trattato commerciale con la Gran Bretagna. Un’altra circostanza politica rese più allettante la scelta del trattato. Secondo la Costituzione del 1851 l’approvazione di ogni legge che riguardasse la nazione spettava al Parlamento bicamerale, mentre il sovrano deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere. Napoleone aveva cercato negli anni cinquanta di ridurre la forte impronta protezionistica ma non era riuscito a portare a compimento una riforma complessiva della politica tariffaria. In Gran Bretagna si riteneva dopo la scelta del libero scambio che i vantaggi di una politica liberoscambista sarebbero stati così evidenti che le altre nazioni l’avrebbero adottata. Di conseguenza il trattato fu firmato nel gennaio del 1860. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti i dazi sull’importazione di merci francesi ad eccezione del vino e del brandy, in quanto prodotti di lusso per i consumatori britannici, per cui la Gran Bretagna manteneva su di essi dazi ridotti a fini esclusivamente fiscali. Inoltre la Gran Bretagna salvaguardò la posizione di preferenza del Portogallo nel mercato britannico. La Francia da parte sua revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i dazi. Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese terzo, la controparte nel trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa eventualmente accordata a quest’ultimo. Entrambi i contraenti del trattato anglofrancese avrebbero beneficiato del trattamento accordato alla “nazione più favorita”. La Francia a differenza della Gran Bretagna stipulò numerosi trattati con altri paesi. Le conseguenze di questa rete di trattati commerciali furono considerevoli. Il commercio internazionale crebbe. Gran parte dell’aumento dipese dal commercio intereuropeo, ma vi contribuirono anche paesi di altri continenti. Un’altra conseguenza dei trattati fu la riorganizzazione dell’industria imposta dalla maggiore concorrenza, i trattati favorirono l’efficienza tecnica e aumentarono la produttività. La “Grande Depressione” e il ritorno al protezionismo Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Le fluttuazioni dei prezzi cominciarono ad essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. La statistica ha distinto diverse varietà di “cicli economici”: cicli delle scorte di breve durata (2-3 anni), relativamente miti, oscillazioni di più ampio respiro (9-10 anni), concluse frequentemente da crisi finanziarie seguite da recessioni e tendenze secolari di lunga durata (20-40 anni). Causa delle fluttuazioni sono le complesse interazioni di fattori monetari e reali. Fluttuazioni della produzione accompagnavano le fluttuazioni dei prezzi anche se le cadute della produzione erano di breve durata. In quasi tutti gli Stati europei i prezzi raggiunsero il culmine all’inizio del secolo. Le cause furono sia reali (la penuria determinata dalla guerra) che monetarie (le esigenze della finanza di guerra). Dopo di allora la tendenza secolare fu al ribasso fino alla metà del secolo. Le cause furono nuovamente sia reali (innovazioni tecniche, miglioramenti nell’efficienza) che monetarie (pagamento delle riparazioni di guerra da parte di Governi). Nel 1873 un panico finanziario colpì Vienna e New York per poi propagarsi nella maggior parte dei paesi industrializzati. La susseguente caduta dei prezzi divenne nota in Gran Bretagna come “Grande Depressione”. La depressione fu attribuita a torto dai grandi industriali all’accresciuta concorrenza internazionale frutto dei trattati commerciali, e avanzarono nuove richieste di protezione. Prima del 1870 essi non erano stati disturbati dalla concorrenza dei paesi d’oltremare, in quanto i costi del trasporto via mare avevano rappresentato una protezione sufficiente. Negli anni settanta le spettacolari riduzioni dei costi di trasporto dovute alla costruzione di nuove ferrovie combinate con le riduzioni dei costi di trasporto oceanici per effetto dei miglioramenti apportati alla navigazione a vapore, incoraggiarono la messa a coltura di vasti tratti di praterie vergini. Per la prima volta gli agricoltori europei si trovavano a fronteggiare una dura concorrenza sui propri mercati. La situazione dell’agricoltura tedesca era molto critica. La Germania era divisa all’epoca essenzialmente in un occidente in via di industrializzazione ed un oriente agricolo. Gli Junker della Prussia orientale si erano dedicati da tempo all’esportazione di grano in Europa occidentale. Era questa la maggiore eccezione alla regola per la quale fino agli anni settanta del XIX secolo i costi di trasporto rendevano non conveniente trasportare il grano su lunghe distanze. I Junker erano favorevoli al libero scambio nella loro veste di esportatori. Chiesero protezione non appena cominciarono a subire le conseguenze della caduta dei prezzi del grano. La popolazione tedesca stava crescendo rapidamente e con l’industrializzazione anche le città stavano espandendosi velocemente. Gli Junker volevano conservare l’esclusiva del grande e crescente mercato. Otto von Bismark, creatore e cancelliere del nuovo impero tedesco colse questa opportunità. Gli industriali della Germania occidentale da tempo reclamavano una protezione tariffaria, ora che anche gli Junker prussiani si erano schierati al loro fianco, Bismark decise di “accedere “ alla richiesta e diede la sua approvazione ad una legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria che l’agricoltura. Gli interessi protezionistici francesi ripresero forza sul piano politico. Nel 1881 essi riuscirono ad ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo. I sostenitori del libero scambio conservarono però un notevole peso politico, e nel 1881 nuovi trattati commerciali ribadirono i principi fondamentali del trattato Cobben-Chevalier. Vi fu una maggioranza favorevole al protezionismo che riuscì a far approvare nel 1892 la famigerata tariffa Méline. Questa tariffa è stata dipinta come estremamente protezionistica, un “protezionismo raffinato”: essa conteneva elementi condivisi da partigiani del libero scambio. Una guerra tariffaria con l’Italia arrecò gravi danni al commercio francese, e ancora maggiori a quello italiano. L’Italia aveva seguito l’esempio tedesco nel ritorno al protezionismo, aveva deciso di discriminare in particolare le importazioni francesi. La mossa fu poco saggia, in quanto la Francia rappresentava per l’Italia il maggiore mercato estero. Il commercio tra i due paesi vicini crollò. Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi come l’Austria-Ungheria, la Russia e gli Stati Uniti. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio e di queste la più notevole fu la Gran Bretagna. Sorsero dei movimenti politici che si battevano per un “commercio giusto” e una “preferenza imperiale”, tuttavia essi non riuscirono a mietere alcun successo fino alla Prima Guerra quanto a investimenti, ma l’inizio dell’Ottocento la vide indebitarsi con l’estero, soprattutto con Gran Bretagna e Olanda, per saldare le pesanti riparazioni imposte dagli alleati dopo la sconfitta da Napoleone. Nella prima metà del secolo gli investimenti francesi si volsero principalmente verso i vicini più prossimi, cioè all’acquisto di obbligazioni dei governi sia rivoluzionari che reazionari di Spagna, Portogallo e dei diversi stati italiani, in Svizzera, Austria e negli Stati tedeschi. Tra il 1851 e il 1880 gli investitori francesi si assunsero l’onere di costruire la rete ferroviaria di gran parte dell’Europa meridionale e orientale. Dopo l’alleanza franco- russa i Francesi investirono somme enormi nell’acquisto di titoli russi pubblici e privati. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, oltre un quarto di investimenti esteri francesi era concentrato in Russia. A differenza dei Britannici, i Francesi destinarono meno del 10% dei loro investimenti alle colonie. Il contributo francese allo sviluppo economico dell’Europa fu considerevole. La Germania si trasformò nel corso del secolo da debitore netto a creditore netto. All’inizio dell’Ottocento gli stati tedeschi avevano pochi debiti con l’estero e ancor meno crediti. Nei decenni centrali del secolo le province occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, vi fu un boom di eccedenze delle importazioni che fornirono i fondi con i quali la Germania fu in grado di ripagare i capitali esteri e di accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò di avvalersi dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera. I paesi industrializzati minori dell’Europa occidentale - Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, le cui economie nel corso del secolo avevano beneficiato di investimenti esteri - erano divenuti alla fine del secolo creditori netti come la Germania. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore. I capitali esteri contribuirono alla costruzione di ferrovie, allo sfruttamento delle risorse minerarie e al finanziamento dei ranches degli allevatori. Dopo la Guerra Civile, gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono ad investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali ed agricole. In Europa il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa fu costruita soprattutto con capitale estero, così come furono finanziati anche l’esercito e la flotta. La maggior parte dei paesi europei contrasse prestiti nel corso del XIX secolo. Le risorse derivanti dagli investimenti privati e dai prestiti governativi furono spesso impiegate con prodigalità e talora in maniera corrotta. Come nel caso degli investimenti in patria, anche un investimento estero, per contribuire allo sviluppo economico, deve generare un flusso di reddito sufficiente a pagare un tasso positivo di remunerazione del capitale e col tempo a rimborsare l’investimento originario. In contrasto con i miseri risultati prodotti da molti investimenti nell’Europa meridionale e orientale gran parte degli investimenti effettuati nei paesi scandinavi ripagò il capitale originario e rese un contributo positivo allo sviluppo delle rispettive economie. Gli investimenti in Danimarca, Svezia e Norvegia furono i maggiori del tempo. Anche l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada beneficiarono di ingenti investimenti esteri. La maggior parte dei fondi furono investiti in titoli pubblici (governativi) e confluirono nel finanziamento di beni capitale di utilità sociale (ferrovie, installazioni portuali, servizi pubblici) anche se in Australia e in Canada somme considerevoli furono investite in attività estrattive. Considerata la bassa densità della popolazione e l’ampia disponibilità di terre in tutti e tre i paesi, non è sorprendente che essi si specializzassero nella produzione di merci che richiedevano in proporzione poco lavoro per unità di terra, vale a dire della lana, in Australia e Nuova Zelanda e del frumento in Canada. Questi prodotti trovarono ampi sbocchi sui mercati europei, in particolare in Gran Bretagna. Svilupparono industrie di servizi e in qualche modo le manifatture, ma rimasero dipendenti dall’Europa per la maggior parte dei beni di consumo industriali e soprattutto dei beni capitale. Gli investimenti effettuati in America Latina e in Asia, benché considerevoli in cifra assoluta, furono molto inferiori se rapportati alla popolazione dei paesi destinatari in confronto a quelli nei paesi appena menzionati. In queste aree mancava un’analoga consistente quantità di capitale umano da mettere all’opera e le strutture istituzionali delle loro economie non erano propizie allo sviluppo economico. Il risultato principale degli investimenti esteri fu lo sviluppo di fonti di materie prime per le industrie europee, senza una trasformazione della struttura interna dell’economia. Un esame più dettagliato degli investimenti britannici in America Latina consentirà di comprendere meglio il significato degli investimenti esteri per i paesi meno sviluppati e per l’economia mondiale nel suo complesso. Gli investimenti totali della Gran Bretagna crebbero a circa 1200 milioni nel 1913. A questa data l’Argentina era il paese destinatario delle somme di gran lunga più consistenti, seguita dal Brasile, dal Messico, Cile, Uruguay, Cuba, Colombia. La maggior parte di questi fondi fu utilizzata nella costruzione di ferrovie e di altre infrastrutture. Anche la maggior parte degli investimenti esteri diretti nelle ferrovie, nei servizi pubblici, nelle istituzioni finanziarie, in iniziative commerciali e trovò impiego industriali. La produzione di beni per il consumo interno e per l’esportazione fu lasciata ai proprietari terrieri, ai contadini. I paesi latinoamericani scambiavano i loro prodotti primari con i manufatti europei ed americani e la maggior parte di loro cominciò a dipendere da pochi beni di prima necessità: frumento, carne in Argentina, caffè e gomma in Brasile. Nitrati e rame in Cile. La rinascita dell’imperialismo occidentale Gli sterminati continenti dell’Asia e dell’Africa parteciparono solo marginalmente all’espansione commerciale del XIX secolo, fino a quando non vi furono costretti dalla potenza militare dell’occidente. Africa La colonia del Capo, all’estremità meridionale dell’Africa, era stata fondata dagli olandesi alla metà del XVII secolo come stazione di vettovagliamento per gli uomini della Compagnia delle Indie orientali. La Gran Bretagna la conquistò, le politiche britanniche (in particolare l’abolizione della schiavitù), irritarono i boeri o afrikaaner, discendenti dei coloni olandesi. Cominciarono nel 1835 la loro lunga marcia verso il Nord, dando vita a nuovi insediamenti, ma i conflitti continuarono per tutto il secolo. Oltre a combattere tra loro, entrambi i gruppi vennero spesso in urto con le tribù africane che furono sterminate e ridotte in schiavitù. Dapprima sia gli insediamenti boeri che quelli britannici ebbero carattere agrario, nel 1886 nel Transvaal fu scoperto l’oro. Questi avvenimenti contribuirono all’ascesa al potere di Rhodes, una delle personalità più’ influenti della storia africana, egli giunse in Africa nel 1870 e fece fortuna nelle miniere di diamanti. Rhodes divenne un ardente patrocinatore dell’espansione imperialistica. Nel 1880 entrò nel corpo legislativo della colonia del Capo e divenne in seguito primo ministro della colonia. Una delle sue maggiori ambizioni era la costruzione di una ferrovia “dal Capo al Cairo” tutta su territorio britannico. Il Presidente della Repubblica sudafricana Kruger rifiutò, Rhodes allora organizzò un complotto che fallì e fu costretto a dare le dimissioni. Nell’ottobre del 1899 ebbe inizio la guerra sudafricana o angloboera. I Britannici subirono dapprima diversi rovesci, poi invasero sia il Transvaal che lo Stato libero dell’Orange. Subito dopo il Governo britannico passò da una politica di repressione ad una di conciliazione. Nel 1910 l’Unione sudafricana divenne un dominio dell’Impero britannico. Prima del 1880 il solo possedimento europeo in Africa, se si escludevano il Sud Africa britannico era l’Algeria francese. Carlo V intraprese nel 1830 la conquista dell’Algeria, e in seguito i Francesi vi aggiunsero le conquiste fatte sulla costa occidentale dell’Africa. Alla fine del secolo avevano conquistato un territorio che battezzarono Africa occidentale francese. Nel 1912 completarono il loro impero nordafricano aggiungendovi un protettorato sulla maggior parte del Marocco. Nel frattempo importanti avvenimenti avevano luogo all’estremità orientale dell’Africa islamica. L’apertura del canale di Suez nel 1869 da parte di una società francese rivoluzionò il commercio mondiale e mise in pericolo la “linea di comunicazione vitale” della Gran Bretagna con l’India. L’obiettivo della politica estera britannica (assumere il controllo del canale) fu favorito dalle difficoltà finanziarie del kedivé (re) d’Egitto. Le ristrettezze finanziarie egiziane permisero verso la fine del 1875 a Benjamin Disraeli, primo ministro britannico, di acquistare per conto del governo del suo paese le azioni del kedivé nella compagnia del canale. Il risentimento egiziano per la dominazione straniera sfociò in vaste ribellioni, e per ristabilire l’ordine i britannici bombardarono Alessandria e inviarono un corpo di spedizione. Il liberale Gladstone assicurò gli Egiziani che l’occupazione sarebbe stata temporanea, i Britannici ereditarono dal Governo del kedivé la conquista incompleta del Sudan. Perseguendo questo obiettivo i Britannici si trovarono faccia a faccia con i Francesi che si stavano espandendo verso oriente. Le truppe rivali si fronteggiarono a Fashoda ma precipitosi negoziati scongiurarono un conflitto vero e proprio. Alla fine i Francesi si ritirarono. Uno ad uno gli Stati della costa nordafricana nominalmente vassalli del sultano turco erano stati strappati a quest’ultimo. Rimaneva solo Tripoli. Nel 1911 l’Italia prese a pretesto un contrasto con la Turchia che terminò con l’annessione di Tripoli all’Italia. L’Africa centrale fu l’ultima area del continente nero ad aprirsi alla penetrazione occidentale, la scoperta dei diamanti in Sud Africa stimolò le esplorazioni nella speranza di scoperte analoghe in Africa centrale. L’improvvisa corsa ai territori suscitò delle frizioni che avrebbero potuto condurre alla guerra. Per scongiurare questa possibilità Bismark e Jules Ferry (primo ministro francese) convocarono a Berlino nel 1884 una conferenza internazionale sugli affari africani. Le risoluzioni prese furono: abolizione del commercio degli schiavi e della schiavitù, il riconoscimento dello stato libero del Congo con a capo Leopoldo del Belgio e la regola secondo cui un paese doveva effettivamente occupare un territorio perché le sue pretese su di esso fossero riconosciute. Alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia e la Liberia conservavano la loro indipendenza. fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura; 5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era già la più produttiva d’Europa. La popolazione agricola offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. Analogamente, l’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e d’alcune materie prime, come la lana, l’orzo e il luppolo per l’industria della birra. Nella prima metà del XVIII secolo essa aveva prodotto persino un surplus di cereali per l’esportazione. Il periodo tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu anzi la grande età dell’agricoltura: l’agricoltura britannica raggiunse, contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione della coltura a rotazione e delle tecniche a lei associate. La ricchezza prodotta dalla terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso l’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu diverso da quello che essa ebbe in Gran Bretagna e variò da regione a regione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Il movimento delle recinzioni in Inghilterra può essere considerato un tipo di riforma agraria. Una riforma fondiaria di tipo differente fu quella della rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccole fattorie. Riforme simili a quella francese furono imposte in alcuni territori occupati dai francesi, come il Belgio e la riva sinistra del Reno. Le riforme prussiane dell’anno 1807 obbligarono i servi a cedere gran parte della terra da essi precedentemente coltivata ai vecchi padroni. La Svezia e la Danimarca abolirono il servaggio nelle seconda metà del XVIII secolo. Nella monarchia asburgica Giuseppe II tentò negli anni ottanta del XVIII secolo di alleviare il fardello che gravava sulla classe contadina, con risultati deludenti: la piena emancipazione dovette attendere la rivoluzione del 1848. In Spagna e in Italia, i tiepidi tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei Governi. Gli Stati balcanici, che avevano ereditato il loro assetto fondiario dal periodo di dominazione turca, non fecero seri tentativi di cambiarlo. La piccola proprietà contadina caratterizzava la Serbia e la Bulgaria. In Grecia e in Romania pur non mancando una classe di piccoli proprietari contadini, esistevano anche grandi proprietà coltivate da fittavoli. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma agraria. L’emancipazione dei servi, decretata con riluttanza nel 1861 in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, non mutò alla base la struttura dell’agricoltura russa. Gli ex servi pur essendo stati liberati dai loro padroni, appartenevano ora alla comune contadina, il mir; per lasciarla erano tenuti a munirsi di uno speciale passaporto, ma anche in caso di partenza essi erano tenuti al pagamento della loro quota d’imposta e di rate di riscatto. In tale circostanze non può sorprendere il fatto che la produttività rimanesse bassa e che si moltiplicassero le agitazioni contadine. Sull’onda della rivoluzione del 1905-06, il Governo abolì i residui pagamenti di riscatto e approvò la cosiddetta riforma Stolypin (dal nome del ministro che l’aveva ideata), che favoriva la proprietà privata della terra e il consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti. Questa fece sì che la produttività dell’agricoltura russa cominciasse a crescere; il paese fu però ben presto travolto dalla guerra e dalla rivoluzione. I risultati conseguiti nella rivoluzione francese sono altrettanto contraddittori e paradossali di quelli dell’industria francese. Patria classica della piccola proprietà contadina, frequentemente accusata di essere orientata alla sussistenza e tecnicamente arretrata, nondimeno la Francia possedeva anche molte aziende agricole moderne. Nel 1882, periodo in cui il morcel ement (il frazionamento delle proprietà) era al culmine. Queste prospere aziende agricole producevano un’eccedenza commerciabile sufficiente a sostentare la crescente popolazione urbana. Inoltre, nonostante il leggendario attaccamento del contadino francese al suolo, oltre 5 milioni di persone abbandonarono l’agricoltura per altri impieghi. Sembra che una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovasse sbocco in investimenti industriali, o nella realizzazione d’infrastrutture. Infine, l’industria vinicola era una delle voci principali delle esportazioni. In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una gran varietà caratterizzava la condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi. A sud-ovest erano numerosi i piccoli proprietari contadini sul genere francese. L’emancipazione dei Servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti. Con la crescita graduale della popolazione e il rapido aumento della domanda di lavoro e la popolazione fu ridistribuita da oriente ad occidente. La forza lavoro agricola continuò a crescere. L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che della Svezia, ma non della Norvegia. In tutti questi paesi il settore primario assicurò sia la quasi totalità dell’approvvigionamento alimentare che l’accresciuta disponibilità di manodopera per altri settori. Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo Stato, all’accumulazione di capitali attraverso l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni. Ridottosi il commercio d’avena, la Svezia cominciò ad esportare carne e latticini. Il legname era una voce importante anche per le esportazioni norvegesi superato però dall’industria della pesca. La Finlandia, sottoposta allo zar di Russia come granducato, viene talvolta accomunata ai paesi scandinavi. A differenza di questi ultimi, però, essa non registrò alcun mutamento strutturale significativo nel corso del XIX secolo. Rimase un paese prevalentemente agricolo, con un’agricoltura poco produttiva e bassi redditi medi. La voce più importante nelle sue esportazioni era il legname. La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. La popolazione contadina rappresentava un mercato consistente, se non dinamico, per i tessili ed altri beni di consumo. La metà ungherese dell’Impero esportava prodotti agricoli, in particolare frumento e farina. Il fallimento dell’Impero nel suo complesso nello sviluppo d’esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. La Spagna, il Portogallo e l’Italia non beneficiarono nel XIX secolo di una vera e propria riforma agraria. La popolazione non poteva rappresentare, in tali condizioni, un ricco mercato per l’industria, né rifornirla di capitali. I piccoli paesi dell’Europa sud-orientale rimasero impantanati, in misura ancora maggiore rispetto a quelli del Mediterraneo, in una agricoltura arretrata e improduttiva, che non apriva mercati all’industria né assicurava un’eccedenza di generi alimentari, materie prime o lavoro per i mercati urbani. Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, a gran prevalenza rurale e agraria. L’agricoltura svolgeva in Russia un ruolo piuttosto differente. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostentare il popolo russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la spinta all’industrializzazione. La Russia stava seguendo una traiettoria di sviluppo economico simile a quella percorsa dalle nazioni dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo dì industrializzazione statunitense e nell’ascesa degli Stati Uniti; forniva in abbondanza non solo i commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte delle esportazioni statunitensi. Le colonie meridionali mandavano in Europa tabacco, riso e indaco. Il New England e le colonie centrali scambiavano pesce, farina ed altri generi commestibili. Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il “re” delle esportazioni. Dopo la Guerra Civile, con l’apertura per mezzo delle ferrovie delle regioni occidentali oltre il Mississippi e il crollo dei noli di trasporto transoceanici, mais e frumento divennero le voci più importanti delle esportazioni. L’agricoltura americana fu orientata al mercato fin dall’inizio; nonostante esistessero casi di produzione domestica, gli agricoltori americani si rivolsero ben presto ad artigiani rurali e piccole industrie per gli utensili e gli altri manufatti. Prima della fine del secolo varie ditte di vendite per corrispondenza quali la Sears Roebuck e la Montgomery Ward scoprirono i vantaggi derivanti dalla fornitura alla popolazione rurale di beni di consumo standardizzati e prodotti in grandi quantità. Il rapido incremento naturale della popolazione rurale, fornì anche la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di manodopera fu integrata soprattutto a partire dagli anni ottanta, da emigranti provenienti dall’Europa. Anche il settore agricolo dell’economia americana contribuì in maniera molto positiva alla trasformazione industriale degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria, il Governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle regioni al di là degli Appalachi e l’acquisto della Louisiana. Forse in nessun altro paese l’agricoltura svolse un ruolo così vitale nel processo di industrializzazione quanto in Giappone. L’agricoltura giapponese a dispetto della scarsità di terra arabile, fu in grado di sostentare la popolazione per gran parte del periodo prebellico e di fornire la maggior parte delle esportazioni giapponesi. Attraverso la tassa sulla terra del 1873, l’agricoltura finanziò la maggior parte delle spese governative e di conseguenza una parte dell’accumulazione di capitali. Nonostante la loro povertà i contadini giapponesi rappresentavano il mercato più ampio per l’industria nel loro paese. Banche e finanza Il processo di industrializzazione del XIX secolo fu accompagnato da una proliferazione di banche ed altre istituzioni finanziarie necessarie ad assicurare i Nei primi anni della repubblica il conflitto tra hamiltoniani, che propugnavano un ruolo forte del governo federale, e i jeffersoniani, che preferivano lasciare le scelte politiche ai singoli Stati, si riflesse in modo evidente nella storia del sistema bancario. Ebbero dapprima la meglio gli hamiltoniani, che strapparono al Congresso lo statuto della prima banca degli Stati Uniti; alla scadenza della statuto, però i sostenitori dei diritti degli Stati e delle banche statali, già numerosi e sospettosi di istituti di maggiori dimensioni, ne impedirono il rinnovo. Una seconda Banca degli Stati Uniti dovette sopportare la stessa sorte. Alcuni stati ammettevano una “libera attività bancaria”, altri gestivano banche di proprietà statale, altri ancora cercarono di proibire del tutto le banche. Durante la Guerra Civile il Congresso istituì il National Banking System, che permetteva l’esistenza di banche federali a fianco delle banche statali. La concorrenza era sleale, in quanto il Congresso aveva imposto una tassa discriminatoria sull’emissione di banconote da parte delle banche statali, cosa che costrinse molte di esse a trasformarsi in banche nazionali. Sia il sistema bancario statale che quello federale subivano le conseguenze negative dell’eccessivo rigore delle leggi e dei regolamenti. L’istituzione di filiali era generalmente proibita. Le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale, ciò significava che l’ingente volume di importazioni ed esportazioni del paese era finanziato dall’Europa e dal numero relativamente modesto di banche d’affari private, che non erano ostacolate dalle restrizioni che colpivano le banche a capitale azionario. Alcuni ritenevano inoltre che l’assenza di una banca centrale esponesse maggiormente il paese al panico finanziario e alle depressioni che si verificavano con periodicità. Per porre rimedio a questo problema, nel 1913 il Congresso istituì il Federal Reserve System che alleggerì le banche nazionali del compito di emettere banconote e diede loro la libertà di occuparsi di finanza internazionale. Il ruolo dello Stato Il mito del laissez-faire significa che lo Stato oltre a promulgare e a far rispettare le leggi penali, si astiene da ogni interferenza nell’economia, secondo il concetto marxista il Governo agisce da “comitato esecutivo” della classe dominante, la borghesia. La funzione fondamentale del Governo nella sfera economica è la determinazione del contesto legale dell’iniziativa economica. La tipologia d’intervento dello Stato nell’economia comprende le attività di promozione non immediatamente produttive. Esse includono i dazi, le esenzioni fiscali, i rimborsi e i sussidi, nonché i provvedimenti di apertura di uffici turistici e di immigrazione, non tutte le attività che ricadono in questa categoria sono necessariamente favorevoli alla crescita. Simili sono le funzioni di regolamentazione, che vanno dai provvedimenti volti a proteggere la salute e la sicurezza di specifici gruppi di lavoratori al controllo dettagliato dei prezzi, dei salari, della produzione. Lo scopo di queste norme può essere quello di favorire la crescita, ma più spesso l’obiettivo non è in rapporto con la crescita, e l’intenzione è di eliminare le ingiustizie e lo sfruttamento, in quest’ultimo caso l’effetto può essere quello di ritardare la crescita. Lo Stato si può impegnare in attività direttamente produttive, che possono andare da iniziative benevoli come la fornitura di servizi educativi all’assunzione totale da parte dello stato della proprietà e del controllo di tutte le risorse produttive. La Gran Bretagna è considerata la patria del laissez-faire, o del minimo intervento dello Stato nell’economia. Il peso del settore pubblico nel Regno Unito era probabilmente rappresentativo dell’intera Europa. La maggioranza delle persone dà per scontato che una delle funzioni dello stato sia quello di consegnare la posta. Prima del XIX secolo il servizio postale privato era coesistito con un servizio pubblico incompetente e inefficiente. Il servizio postale moderno ebbe inizio nel 1840, quando il direttore generale delle poste del Regno Unito introdusse il servizio postale prepagato con la tariffa unica di un penny. In pochi anni sistemi simili furono adottati dalla maggioranza delle nazioni occidentali. Gran parte dei paesi continentali seguì l’esempio britannico, mentre negli Stati Uniti sia il telegrafo che il telefono furono lasciati all’iniziativa privata. Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India, “uno stato nello stato”. Dopo la rivolta dei sepoys del 1857, l’opinione pubblica divenne consapevole di quest’anomalia e pretese lo scioglimento della Compagnia. In nessun settore la Gran Bretagna era in maggior ritardo rispetto agli altri paesi occidentali che nel pubblico sostegno all’istruzione. La Scozia, invece, possedeva quattro antiche Università aperte a tutti i richiedenti diplomati. I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di paternalismo statale o étatisme. In diversi di essi lo Stato era proprietario di foreste, miniere e persino di imprese industriali, i francesi avevano le loro manufactures royales che fabbricavano porcellana, cristalli, tappezzerie. Nel XVIII secolo i Governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi della tecnologia britannica con lo spionaggio o con altri mezzi. Un esempio ancora più vistoso è quello offerto dall’industria estrattiva della Ruhr. In Prussia, come in Francia e in diversi altri paesi, l’attività estrattiva, persino nelle miniere private, doveva essere svolta sotto la supervisione di ingegneri del Regio Corpo delle miniere. Questa modalità era definita principio di direzione e si dimostrò sufficiente nella Ruhr fin quando l’attività estrattiva rimase confinata ai giacimenti relativamente superficiali della valle della Ruhr. Le nuove miniere richiedevano capitali maggiori per i pozzi più profondi, le pompe a vapore e altre attrezzature estrattive. Le società minerarie, amministrate in qualche caso da imprenditori francesi, belgi e britannici, intrapresero una lunga logorante battaglia con le autorità prussiane, che ebbe finalmente termine nel 1865 con l’introduzione del principio di ispezione in base al quale gli ingegneri statali si limitavano ad ispezionare le miniere per motivi di sicurezza. Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti comportò il coinvolgimento di tutti i governi. I britannici, fedeli alla loro tradizione di minima ingerenza, fecero il meno possibile, lasciando la promozione, la costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata. Negli altri paesi i Governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie. Negli anni ‘30 del XIX secolo lo Stato belga intraprese la costruzione e la conduzione per proprio conto di una rete ferroviaria di base. Dopo il suo completamento, esso permise a società private di costruire delle diramazioni. La politica ferroviaria dell’Impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali si passò ad una preferenza per le società private. Se l’Ottocento sembra un secolo in cui lo Stato fu meno invadente che nei secoli precedenti, ciò non significa che esso non svolse alcun ruolo. CAPITOLO XIII PANORAMA DELL’ECONOMIA MONDIALE NEL VENTESIMO SECOLO L’economia del XX secolo, assunse dimensioni enormi e senza precedenti, influenti in maniera particolare sulla dinamica della popolazione. Popolazione Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si assistette ad una crescita demografica, più lenta in Europa e più dinamica nel resto del mondo. Tale fenomeno fu in parte da attribuire alla diminuzione del tasso di mortalità. Una delle conseguenze della diminuzione del tasso di mortalità, è da attribuirsi al rapido incremento della durata media della vita. La speranza di vita cresce laddove vi sono redditi medi elevati, la popolazione è meglio nutrita, e gode di una migliore assistenza medica di quella appartenente a paesi con redditi sensibilmente inferiori. Secondo Foegel, nel XX secolo, è stata importante la stretta correlazione tra la diminuita mortalità infantile, il maggior input di lavoro e la crescita del prodotto procapite. Nel corso del XX secolo continuò quel processo di urbanizzazione del XIX secolo dell’Europa. Al contrario nei paesi del terzo mondo, la produttività ed i redditi furono alquanto bassi, e la disoccupazione dilagava su più fronti. La repentina crescita ha sottoposto paesi come quelli dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa, a pressioni non tollerabili. La crescita delle città è stata in primo luogo determinata dall’emigrazione interna, come la popolazione in più delle zone rurali e delle città di provincia che inseguiva le più ampie opportunità delle città. Si associa a questi fattori, l’emigrazione internazionale, motivata ancor di più nel XX secolo per l’oppressione politica in conseguenza di guerre e rivoluzioni. Nel XIX secolo l’Europa dopo aver visto il suo spopolamento, vide un’inversione di tendenza nel XX secolo. Poiché essa divenne l’asilo per rifugiati politici ed una terra di opportunità per le masse impoverite dell’Europa mediterranea, del Nord Africa e di parte del Medio Oriente. Il fenomeno dell’immigrazione in Europa, iniziò nel 1914, sui postumi della rivoluzione russa, che vide molti sudditi dello Zar recarsi in Francia anziché rimanere sotto il regime sovietico. Il fenomeno aumentò a dismisura dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la ridefinizione dei confini orientali. L’immigrazione in Germania provocò inizialmente un periodo difficile, ma con l’improvvisa crescita economica, risultò una benedizione per la mancanza di manodopera. Una diversa corrente migratoria fu quella degli ebrei europei, ed in seguito del resto del mondo: durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa delle atrocità dell’olocausto, gli ebrei cercarono rifugio presso i britannici che prima si opposero e poi, dopo la proclamazione del 1948 dello Stato di Israele, permisero l’entrata nel paese a milioni di ebrei. Risorse in atto anche da paesi del Terzo Mondo (ad es. l’America Latina), introducendo un elemento nuovo nelle relazioni economiche internazionali. Da qui numerose nuove organizzazioni internazionali sono state istituite per facilitare un dialogo costruttivo e per scongiurare aperte ostilità. Alcune di queste risalgono al XIX secolo: quali la Croce Rossa internazionale del 1864, l’Unione postale Universale nel 1874; ma è il XX secolo che ha visto la formazione di tutta una serie di organizzazioni, talvolta anche superflue, ma che hanno influenzato in maniera incisiva, l’andamento dell’economia mondiale. Tra queste la Società delle Nazioni, scaturente dal trattato di Versailles nel 1919 ad opera di Woodrow Wilson, con lo scopo del mantenimento della pace mondiale, che a causa della mancata ratifica da parte degli USA decadde. Ad essa successe l’Organizzazione delle Nazioni Unite con una storia leggermente più fortunata e con scopi economici affini. Da essa nacquero poi l’Organizzazione Europea per la cooperazione economica e l’Unione Europea. Il ruolo del potere pubblico Il potere pubblico nell’economia crebbe enormemente nel corso del XX secolo. Tale fatto affonda le sue origini nel XVII secolo dove i monarchi assoluti tentarono di piegare l’economia ai propri voleri senza però buoni risultati. Nel XIX secolo invece i Governi limitarono la loro partecipazione all’economia, fino la XX secolo quando, in parte per necessità finanziarie legate alla Seconda Guerra Mondiale, lo Stato ha avuto un ruolo preponderante nell’economia. Le attività direttamente produttive furono intraprese da o per conto dello Stato ed i trasferimenti, ossia la redistribuzione del reddito, per mezzo dell’imposizione fiscale. Infatti nel XX secolo le aziende statali divennero molto comuni. Già il tedesco Bismarck nel XIX secolo aveva introdotto l’assicurazione dei lavoratori ed un sistema pensionistico per i disabili, e da qui l’imitazione di altri paesi e la formazione di stati assistenziali. Forme d’impresa Agli inizi del XX secolo, solo le grandi imprese avevano la struttura di S.p.A., mentre le attività di piccole dimensione assumevano carattere familiare. Ma la tendenza di lungo termino, favoriva la forma di S.p.A., soprattutto con la formazione delle holding companies la cui attività era correlata al possedimento di altre imprese. L’uso di forme organizzative fu poi utilizzato per fini fiscali, anche da liberi professionisti come medici ed avvocati. La sperimentazione di tali organizzazioni ebbe inizio nel XIX secolo negli USA, ma poi trovarono spazio nel XX secolo in Europa. Ciò permetteva alle imprese di competere con un altro sviluppo tipicamente americano, cioè le multinazionali. Organizzazioni sindacali Nel XX secolo le organizzazioni dei lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro soprattutto in GRAN BRETAGNA ed in Germania. A cavallo delle due guerre mondiali, si assistette ad un aumento delle iscrizione alle organizzazioni sindacali, con una conseguenza positiva sullo sviluppo di quest’ultimi. Sia negli USA che in Europa ci fu una crescita delle iscrizioni, con la differenza però che in Europa le organizzazioni sindacali ebbero una identificazione politica. Ad esempio in Gran Bretagna il sindacato sostenne il partito laburista fino al 1945, fino a quando cioé alcune aziende non furono messe sotto il controllo socialista per la vittoria politica di Winston Churchill, durante la cui politica ci fu l’introduzione di una corrente conservatrice e la successiva nascita del partito socialdemocratico. In Germania quest’ultimo fu preminente fino all’avvento del nazismo che abolì sia i partiti politici che i sindacati. La disciplina del lavoro fu mantenuta attraverso il Fondo Del Lavoro, guidato da membri nazisti. In Italia e in Unione Sovietica, si ebbero sviluppi analoghi con la differenza che in Unione Sovietica questi erano utilizzati per inculcare la disciplina lavorativa e di partito. CAPITOLO XIV DISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE Conseguenze economiche della Prima Guerra Mondiale Prima di divenire nota come guerra mondiale e in seguito come Prima Guerra Mondiale la guerra del 1914-18 fu nota come Grande Guerra. La sua distruttività concentrata superò quella di qualunque altro avvenimento della storia fino alle massicce incursioni aeree e alle bombe atomiche della Seconda Guerra Mondiale. Gran parte dei danni furono subiti dalla Francia settentrionale, dal Belgio, da una piccola area nell’Italia nord orientale e dai campi di battaglia dell’Europa orientale. Non è compresa la mancata produzione dalla carenza di manodopera e di materie prime per l’industria, dall’eccessivo deprezzamento ed esaurimento degli impianti e delle attrezzature industriali prive di adeguata manutenzione. Ancora più nocive per l’economia furono l’interruzione e la disorganizzazione delle normali relazioni economiche i cui effetti non cessarono con la fine delle ostilità ma continuarono, ad esempio con la riscossione di pedaggi nel periodo tra le due guerre. Nonostante alcune restrizioni il grosso dell’attività economica sia nazionale che internazionale era regolata dal libero mercato. Durante la guerra i Governi imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza lavoro: questi stimolarono taluni settori dell’economia limitandone degli altri. Un problema ancora più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di guerra economica cui fecero ricorso i paesi in guerra, in particolare Gran Bretagna e Germania. Prima della guerra Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti, all’avanguardia tra i paesi industriali e commerciali, erano anche i migliori clienti e fornitori reciproci. Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri naturalmente si interruppero subito, mentre gli Stati Uniti, si sforzarono di mantenere relazioni normali. La Gran Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose immediatamente un blocco dei porti tedeschi. La flotta britannica non si limitava a sbarrare i mari alle navi tedesche, ma perseguitava il naviglio neutrale confiscandone il carico. Ciò provocò degli attriti con gli Stati Uniti, che furono però controbilanciati dai provvedimenti presi dai tedeschi. Incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica i Tedeschi fecero ricorso ai sommergibili nel tentativo di arrestare l’afflusso in Gran Bretagna di rifornimenti dall’estero. I sommergibili evitavano il più possibile la flotta britannica. L’affondamento nel 1915 del transatlantico britannico Lusitania, provocò una vibrata protesta da parte statunitense. Per qualche tempo l’alto comando tedesco moderò la propria politica, ma nel gennaio del 1917 diede il via ad una guerra sottomarina illimitata. Questo fu uno dei motivi principali dell’entrata dell’America in guerra. La perdita dei mercati esteri rivelò effetti ancora più durevoli nel tempo. La Germania era completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare. Persino la Gran Bretagna, forte del suo controllo dei mari e di una grande flotta mercantile, fu costretta a dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Molti paesi d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da paesi extraeuropei le merci che in precedenza avevano acquistato in Europa. Gli Stati Uniti e il Giappone conquistarono mercati considerati riserva esclusiva delle manifatture europee; i primi inoltre aumentarono le esportazioni verso gli Alleati e i paesi europei neutrali. La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale, determinando un notevole aumento della domanda di generi alimentari e materie prime in un’epoca in cui alcune regioni non producevano o erano tagliate fuori dai mercati. Gli agricoltori americani aumentarono la superficie coltivata a frumento acquistando nuove terre a prezzi gonfiati dall’inflazione bellica, quando i prezzi cominciarono a scendere molti si trovarono nell’impossibilità di estinguere le ipoteche e fallirono. Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di entrate nel settore delle spedizioni marittime e dei servizi. L’offensiva sottomarina tedesca causò pesanti perdite alla flotta mercantile britannica, mentre gli Stati Uniti, in virtù di un programma bellico di costruzioni navali finanziato dal Governo, si affermarono per la prima volta dalla guerra civile americana come un temibile concorrente. Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti all’estero. Prima della guerra la Gran Bretagna, la Francia e la Germania erano i più importanti investitori. La Gran Bretagna e la Francia furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l’acquisto urgente di materiale bellico. Gli investimenti tedeschi nei paesi belligeranti furono confiscati durante la guerra, e successivamente liquidati a titolo di riparazione. Gli Stati Uniti, da paese debitore netto si trasformarono in creditore netto in conseguenza del rapido aumento dell’eccedenza delle esportazioni e degli ingenti prestiti concessi agli Alleati. Le pressioni finanziarie della guerra costrinsero tutti i paesi coinvolti, ad eccezione degli Stati Uniti, ad abbandonare il gold standard. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione dei prezzi anche se non tutti nella stessa proporzione. La grande disparità nei prezzi, rese più difficile la ripresa del commercio internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico. Conseguenze economiche della pace minatori di carbone tra i lavoratori britannici furono i più radicali: già nei primi anni dopo la fine della guerra avevano organizzato diversi grandi scioperi. Di fronte alla prospettiva di un taglio dei salari in conseguenza del ritorno al gold standard, il primo maggio del 1926 i minatori scesero in sciopero e persuasero molti altri sindacati ad unirsi a loro in quello che avrebbe dovuto essere uno sciopero generale. Nonostante i problemi britannici, alla fine degli anni ‘20 la maggior parte dell’Europa prosperò. I più urgenti e immediati problemi post-bellici erano stati risolti; e con l’istituzione della Società delle nazioni sembrava che fosse albeggiata una nuova era nelle relazioni internazionali. La Grande Contrazione (1929-1933) A differenza dell’Europa gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Essi erano passati da paese debitore netto a creditore netto, avevano strappato ai produttori europei nuovi mercati sia in patria che all’estero e godevano di una bilancia commerciale estremamente favorevole. I critici sociali che insistevano nel denunciare le vergognose condizioni degli slums urbani e rurali, o che facevano notare che la nuova prosperità era distribuita in modo estremamente ineguale tra le classi medie urbane. Durante il boom speculativo del “grande mercato degli acquisti allo scoperto” numerosi individui con redditi modesti furono tentati dall’acquisto di titoli a credito. Il 24 ottobre del 1929 il “giovedì nero” un’ondata di vendite per panico nel mercato azionario fece crollare i prezzi dei titoli e cancellò milioni di dollari che esistevano solo sulla carta. Una seconda ondata di vendite si ebbe il 29 ottobre, il “martedì nero”. Gli Americani che avevano investito in Europa bloccarono ogni ulteriore investimento e vendettero quanto possedevano per riportare in patria i capitali. I mercati finanziari si stabilizzarono, ma i prezzi delle merci erano bassi e continuavano a scendere. Il crollo del mercato azionario non fu la causa della depressione ma fu un chiaro segnale che la depressione era in atto. La Creditanstalt austriaca di Vienna, una delle banche più grandi e importanti dell’Europa centrale, sospese i pagamenti. Nonostante il Governo austriaco congelasse i patrimoni bancari e proibisse il ritiro dei fondi, il panico si diffuse. Diversi paesi duramente colpiti dalla diminuzione dei prezzi dei prodotti primari avevano già abbandonato il gold standard. Le decisioni di sospendere il gold standard e di imporre i dazi e contingenti erano state prese dai Governi nazionali senza consultazioni o accordi internazionali. Nonostante gli Europei fossero d’accordo sul porre fine alle riparazioni, e con esse ai debiti di guerra, l’accordo non fu mai ratificato. Le riparazioni e i debiti di guerra perciò caddero semplicemente nel dimenticatoio; toccò a Hitler nel 1933 porre fine alla “schiavitù degli interessi”. L’ultimo grande tentativo di dar vita ad una cooperazione internazionale che ponesse alla crisi economica fu la Conferenza monetaria mondiale del 1933. Il ruolo degli Stati Uniti in tale conferenza era ritenuto essenziale. Roosevelt assunse la carica nel momento peggiore della depressione; uno dei suoi primi atti ufficiali fu quello di disporre una chiusura delle banche di otto giorni per permettere al sistema bancario di riorganizzarsi. Essi compresero tra le altre l’abbandono da parte degli Stati Uniti del gold standard, cosa che nemmeno la Prima Guerra Mondiale era stata in grado di imporre. Roosevelt rilasciò una dichiarazione secondo la quale la prima responsabilità del Governo americano era di riportare il paese alla prosperità e che egli non avrebbe potuto sottoscrivere accordi internazionali che potessero interferire con questo compito. Cosa provocò la depressione? Un’interpretazione eclettica è quella che non vede responsabile un singolo fattore bensì una sfortunata concatenazione di eventi e circostanze, sia monetari che extramonetari, che concorsero a determinare la depressione: il crollo del gold standard e lo sconvolgimento dei commerci. Prima della guerra la Gran Bretagna, il paese guida a livello mondiale nel commercio, nella finanza e nell’industria, aveva svolto un ruolo determinante nel dare stabilità all’economia mondiale. La sua politica di libero scambio significava che le merci provenienti da ogni angolo del mondo potevano sempre trovare un mercato. Dopo la guerra la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere questa funzione di guida. Meritevoli di nota sono anche le conseguenze della depressione nel lungo periodo. Alcune di esse furono la crescita dell’intervento statale nell’economia, un graduale mutamento di atteggiamenti verso la politica economica. La depressione contribuì inoltre, per le sofferenze e l’inquietudine che provocò, all’affermazione di movimenti politici estremistici sia di destra che di sinistra, in particolare in Germania. Tentativi diversi di ricostruzione Quando Roosevelt entrò in carica come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, la nazione era in preda alla peggiore crisi dall’epoca della Guerra Civile. L’industria era praticamente ferma, mentre il sistema bancario era sull’orlo del collasso totale. E la crisi non era solo economica. Nei suoi discorsi elettorali Roosevelt aveva invocato un “New Deal” per l’America. Nei quattro anni del suo primo mandato il numero di leggi approvate superò in effetti quello di qualsiasi precedente amministrazione. Si trattò soprattutto di leggi di risanamento economico e di riforma sociale nei settori agricolo, bancario, monetario, del mercato dei titoli, del lavoro, della sicurezza sociale, sanitario, abitativo, dei trasporti, delle comunicazioni, delle risorse naturali. La legge forse più caratteristica dell’intero periodo fu il National Industrial Recovery Act. Esso istituì una National recovery administration (Nra) con il compito di sovrintendere alla stesura di “norme di concorrenza leale” per ogni industria da parte dei rappresentanti delle industrie stesse. L’Nra aveva inoltre sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia. Era essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata con supervisione governativa per salvaguardare l’interesse pubblico e garantire il diritto del mondo del lavoro di organizzarsi e contrattare collettivamente. Nel 1935 l’Nra fu dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Gli Stati Uniti tornarono in guerra. Nessuna nazione dell’Occidente aveva sofferto per la guerra più della Francia. Gran parte dei combattimenti sul fronte occidentale aveva avuto luogo nella sua regione più ricca. Non sorprende, perciò, la pretesa della Francia che la Germania pagasse per la guerra. Il Governo francese intraprese immediatamente un esteso programma di ricostruzione materiale delle aree danneggiate dalla guerra, che ebbe incidentalmente l’effetto di stimolare l’economia a nuovi record produttivi. La depressione moltiplicò la protesta sociale e produsse una nuova infornata di organizzazioni estremistiche. Nel 1936 tre partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali si coalizzarono nel fronte popolare e vinsero le elezioni di quell’anno, dando vita ad un Governo guidato dal venerabile esponente socialista Léon Blum. Il Governo del fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti di riforma in materia di lavoro. I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale, subirono tutti le conseguenze della depressione ma non tutti allo stesso modo. Negli anni venti, quando la Gran Bretagna e la Francia tornarono al gold standard, molti paesi minori adottarono il sistema della libera convertibilità con le monete a parità aurea. Dopo l’abbandono del gold standard da parte della Gran Bretagna molti paesi che con essa avevano intensi scambi commerciali abbandonarono la parità aurea e allinearono le loro valute alla lira sterlina. Nacque così il “blocco della sterlina”. Esso comprendeva gran parte dei paesi del Commonwealth. Con l’accordo monetario tripartito del 1936 i Governi britannico, francese e statunitense si impegnarono a stabilizzare i tassi di cambio tra le rispettive monete per evitare svalutazioni a fini concorrenziali e per contribuire in altro modo ad una restaurazione dell’economia internazionale. Nell’Europa centrale ed orientale, come pure in Spagna, gli sviluppi politici, l’affermazione delle dittature fasciste, oscurarono i fenomeni prettamente economici. Benito Mussolini si affrettò a consolidare il suo potere ricorrendo a metodi polizieschi. Mussolini si avvalse del filosofo Giovanni Gentile per una razionalizzazione del fascismo. Il fascismo glorificava l’uso della forza, vedeva nella guerra la più nobile delle attività umane, denunciava il liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’individualismo guardava con disprezzo al benessere materiale e considerava le disuguaglianze umane non solo inevitabili ma desiderabili. Il fascismo aveva bisogno di una forma distintiva di organizzazione economica. Mussolini inventò lo stato corporativo, una delle innovazioni più pubblicizzate e meno riuscite del regime. In linea di principio, lo stato corporativo era l’antitesi sia del capitalismo che del socialismo. Tutte le industrie del paese furono organizzate in dodici “corporazioni” che erano grosso modo l’equivalente di associazioni del settore. Vi erano rappresentanti dei lavoratori, dei proprietari e dello Stato. Tutti i sindacati precedentemente esistenti furono soppressi. Le corporazioni agirono principalmente da associazioni capitalistiche di settore il cui scopo era di accrescere il reddito degli uomini d’affari e degli amministratori di partito a spese dei lavoratori e dei consumatori. L’Italia soffrì durante la depressione. La Germania nazista fu il primo grande paese industriale a conseguire un completo risanamento. Nel processo la Germania realizzò il primo sistema autostradale moderno e rafforzò ed estese enormemente le proprie industrie, cosa che le assicurò un vantaggio decisivo nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale. Abolirono le contrattazioni collettive tra lavoratori e proprietari sostituendole con comitati di “amministratori” del lavoro con pieni poteri in materia di determinazione di salari, orari e condizioni di lavoro. Gli industriali furono persuasi a cooperare con il nuovo regime industriale. I nazisti non ricorsero ad una massiccia nazionalizzazione dell’economia per raggiungere i loro fini si affidarono alla coercizione e ai controlli. Uno dei principali obiettivi economici dei nazisti era rendere autosufficiente l’economia tedesca nell’eventualità di una guerra. La Germania aveva adottato controlli sui cambi per evitare la fuga di capitali. Furono siglati inoltre diversi accordi commerciali con paesi dell’Europa orientale e dei Balcani che prevedevano il baratto tra manufatti tedeschi e prodotti alimentari e materie prime, evitando in tal modo il ricorso all’oro o a valute estere di cui c’era atomiche. Le capacità economiche e soprattutto industriali dei belligeranti acquisirono una nuova importanza. L’arma segreta finale dei vincitori fu l’enorme capacità produttiva dell’economia americana. I costi pecuniari della guerra sono stati stimati superiori ai mille miliardi di dollari per le spese militari dirette, ed è una stima per difetto. Essa non prende in considerazione il valore dei danni alle cose, né comprende gli interessi sul debito nazionale indotto dalla guerra, il valore delle vite perdute o mutilate, sia tra i civili che tra i militari. Milioni di altri individui furono feriti, rimasero senza casa o morirono di fame causa di malattie legate all’alimentazione. Per la Russia si calcolano oltre 15 milioni di morti, la Cina ebbe oltre 2 milioni di caduti tra i soldati, più di centomila giapponesi morirono per effetto diretto delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima Guerra Mondiale, a causa soprattutto dei bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti furono le infrastrutture di trasporto, ferrovie, porti e bacini. Alla fine della guerra in Europa le prospettive economiche erano deprimenti. Oltre i danni alle cose e alla perdita di vite umane, milioni di persone erano state sradicate e separate dalle loro case e dalle loro famiglie. La struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni, la ricostruzione non sarebbe stata agevole. CAPITOLO XV LA RICOSTRUZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE La ricostruzione dell’economia mondiale Alla fine del conflitto l’Europa giaceva prostrata e quasi paralizzata. Tutti i paesi belligeranti, ad eccezione della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica, erano stati sconfitti militarmente e occupati dal nemico. Vincitori e vinti erano accomunati dalla loro povertà. Le necessità più urgenti erano gli aiuti di emergenza e la ricostruzione. Gli aiuti, provenienti in gran parte dall’America, vennero attraverso due canali principali. Durante l’avanzata degli eserciti alleati attraverso l’Europa occidentale, nell’inverno e nella primavera del 1944-45, vennero distribuiti razioni di emergenza e medicinali alle provate popolazioni civili, sia dei paesi nemici che di quelli liberati. Altro canale di soccorsi fu l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA). Dopo il 1947 l’opera dell’Unrra fu proseguita dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati, l’organizzazione mondiale per la sanità ed altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite. A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Lo stesso accadde per il Canada, gli altri paesi della Commonwealth e l’America Latina. Le loro industrie e la loro agricoltura trassero vantaggio dalla forte domanda bellica. Molti economisti temevano che alla guerra sarebbe seguita una grave depressione, ma dopo l’abolizione del razionamento la domanda fino allora repressa di beni resi scarsi dalla guerra determinò un’inflazione postbellica che nel 1948 aveva portato al raddoppio dei prezzi. Pianificazione dell’economia postbellica Uno dei compiti più urgenti che attendevano i popoli europei era il ripristino della normalità nella giustizia, nell’ordine pubblico e nell’amministrazione statale. Molti dei paesi che erano stati vittime dell’aggressione nazista avevano formato governi in esilio a Londra durante la guerra. Tali governi rientrarono in patria sulla scia degli eserciti alleati riprendendo subito le loro normali funzioni. Sul continente un ruolo consistente nella politica postbellica fu assunto dai dirigenti delle opposizioni clandestine alla Germania nazista, ed il cameratismo di quei movimenti, nei quali socialisti e comunisti avevano ricoperto un ruolo di prima grandezza, fu un fattore determinante nello scongiurare l’antagonismo di classe prebellico e nel portare figure nuove in posizioni di potere. La ricostruzione prevedeva un ruolo dello Stato nella vita economica e sociale molto più ampio che non nel periodo prebellico. Vi fu una diffusa domanda da parte dell’opinione pubblica di riforme politiche, sociali ed economiche. Nella sfera economica la risposta a questa domanda assunse la forma della nazionalizzazione di settori chiave dell’economia quali i trasporti, la produzione di energia e segmenti del sistema bancario. Negli stessi Stati Uniti l’Employment Act istituiva il comitato dei consiglieri economici del presidente. A livello internazionale la pianificazione del dopoguerra era cominciata durante il conflitto stesso. Già nel 1941 Roosevelt e Churchill avevano firmato la Carta Atlantica che impegnava i rispettivi paesi nel tentativo di ripristinare un sistema mondiale di scambi multilaterali in luogo del bilateralismo degli anni trenta. Ma era solo una dichiarazione d’intenti. Successivamente nel 1944 al Fondo monetario internazionale (FMI) veniva attribuita la responsabilità di gestire il sistema di tassi di cambio tra le varie monete mondiali ed inoltre di finanziare eventuali squilibri a breve termine nei pagamenti tra i vari paesi. La Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, nota anche come Banca Mondiale, doveva concedere prestiti a lungo termine per la ricostruzione delle economie devastate dalla guerra. Ma per anni la loro efficacia rimase limitata. I partecipanti alla conferenza di Bretton Woods avevano previsto inoltre la creazione di un’organizzazione internazionale per il commercio, l’International Trade Organization (ITO), che avrebbe dovuto formulare le regole di scambi equi fra le nazioni. Ulteriori conferenze furono organizzate a questo fine, ma il meglio che si poté ottenere fu un molto più limitato accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) firmato a Ginevra nel 1947. I firmatari si impegnavano ad estendere reciprocamente la clausola della nazione più favorita, a cercare di ridurre le tariffe, a non ricorrere a restrizioni quantitative e a consultarsi prima di ogni importante cambiamento di politica. Il Piano Marshall e i “miracoli” economici Verso la metà o la fine del 1947 buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, ad eccezione della Germania, era tornata ai livelli prebellici di produzione industriale. Nel caos monetario e finanziario degli anni trenta praticamente tutti i paesi europei e molti altri extraeuropei avevano adottato controllo sui cambi. Questi controlli vennero protratti per tutta la durata della guerra. Dopo il conflitto penurie di ogni tipo sembrarono imporre una continuazione di tali controlli. Il denaro concesso dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti e sovvenzioni per il risanamento contribuì ad alleviare questa penuria di dollari, ma nella primavera del 1947 era sempre più evidente che l’immediato risanamento postbellico correva seriamente il pericolo di fallire. Inoltre la crescente “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e l’Urss e il ruolo dei partiti comunisti nella vita politica di diversi paesi dell’occidente europeo (Francia e Italia) davano alle autorità americane motivo di preoccupazione sulla stabilità politica in Europa occidentale. Il 5 giugno del 1947 il generale Marshall, nominato segretario di Stato dal presidente americano Truman, pronunciò un discorso in cui annunciava che se i paesi europei avessero presentato una richiesta di assistenza congiunta e coerente il Governo statunitense avrebbe risposto in modo soddisfacente: fu così che nacque il cosiddetto “piano Marshall”. Il 12 luglio 1947 si incontrarono a Parigi rappresentanti di sedici nazioni dell’Europa occidentale, autodefinitisi Commissione di Cooperazione Economica Europea (CCEE). Oltre ai principali paesi europei, compresa l’Islanda, troviamo: Svezia, Svizzera, Austria, Portogallo, Grecia e Turchia. Finlandia e Cecoslovacchia avevano mostrato interesse a parteciparvi, ma erano state richiamate all’ordine dall’Unione Sovietica. Né questa né gli altri paesi dell’Europa orientale erano rappresentati. La Spagna franchista non fu invitata e la Germania, ancora sottoposta ad occupazione militare, non aveva un Governo da inviare. Dopo la deliberazione del Congresso la Ccee si trasformò nell’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) responsabile, insieme con l’ECA (Economic Cooperation Administration), della distribuzione degli aiuti americani; i paesi membri dell’Oece erano inoltre tenuti a raccogliere fondi supplementari nelle rispettive valute da distribuire con il consenso dell’Eca. Nel complesso l’ERP (European Recovery Program) aveva distribuito all’inizio del 1952 circa 13miliardi di dollari di aiuti economici sotto forma di prestiti e sovvenzioni statunitensi all’Europa. Vi furono diverse importazioni di generi commestibili, beni capitali, materie prime e combustibili. La Germania in un primo momento occupò una posizione anomala nell’Erp. Dopo la sua sconfitta nel maggio del 1945 i capi di Stato di Stati Uniti, Regno Unito e Urss si incontrarono a Potsdam per decidere del destino della Germania: il risultato finale fu la divisione della Germania in due stati distinti, la Repubblica Federale Tedesca (Germania Occidentale) e la Repubblica Democratica Tedesca (Germania Orientale), anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino est, capitale del Rdt, e Berlino Ovest, appartenete alla Rft. La suprema autorità nominale era il Consiglio Alleato di controllo. La conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle altre industrie pesanti tedesche, il pagamento di riparazioni ai vincitori, rigorose limitazioni alla capacità produttiva tedesca e un vigoroso programma di denazificazione, che prevedeva processi ai capi nazisti come criminali di guerra. Nei fatti solo l’ultimo obiettivo fu realizzato come originariamente inteso. Dopo un breve tentativo le potenze occidentali compresero che l’economia tedesca doveva essere lasciata integra non solo per sostentare il popolo tedesco ma anche per contribuire alla ripresa economica dell’Europa occidentale. Capovolsero perciò la loro politica e invece di limitare la produzione tedesca, presero misure atte a incoraggiarla. Per stimolare la ripresa economica nel 1948 le potenze occidentali attuarono una riforma della moneta tedesca, rimpiazzando lo svalutato e disprezzato Reichsmark nazista con il Deutschemark ad un rapporto di 1 nuovo contro 10 vecchi marchi (la riforma fu facilitata dal fatto che prevedevano solo che la Polonia dovesse avere un’amministrazione “temporanea” della regione a est della linea Oder-Niesse. Ma vi fu immediatamente l’espulsione di milioni di tedeschi residenti nella regione per accogliere vari milioni di polacchi. Nei trattati di pace con i satelliti tedeschi dell’Est europeo la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria, furono incluse clausole territoriali che seguivano un consolidato modello storico. La Romania riottenne dall’Ungheria la Transilvania ma dovette restituire all’Unione Sovietica la Bessarabia e la Bucovina settentrionale e alla Bulgaria la Dobrugia. L’Ungheria subì le perdite maggiori, in quanto dovette cedere una piccola area alla Cecoslovacchia. Tutti e tre i paesi sconfitti furono obbligati al pagamento delle riparazioni. I trattati di pace non affrontarono in alcun modo il problema della scomparsa dei paesi baltici della Lettonia, della Lituania e dell’Estonia. Già appartenuti all’Impero zarista del 1917, furono invasi nel 1941 e rioccupati in seguito dall’armata rossa nel 1944-45. Infine furono annessi senza clamore dall’Unione Sovietica come “repubbliche autonome”. Nel gennaio del 1949 l’Unione Sovietica creò il Consiglio di aiuto economico reciproco (COMECON) nel tentativo di dare maggiore coesione alle economie dei suoi satelliti dell’Est europeo. Vi entrarono a far parte l’Albania, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Germania Orientale. L’Urss se ne servì per accrescere la dipendenza economica dei paesi satelliti. Alla morte di Stalin nel 1953 il blocco sovietico in Europa aveva un aspetto monolitico. Ciascuno dei paesi satelliti era più o meno una riproduzione in miniatura dell’Unione Sovietica, ma dietro la facciata dell’unità si nascondevano tendenze disgregatrici. Presto questi paesi furono percorsi da una ventata di irrequietezza, che assunse una tale gravità da costringere le autorità sovietiche che ancora li occupavano a reprimerli con la forza delle armi. Nel 1956 in Ungheria divenne primo ministro Nagy, un “nazionalcomunista” che promise ampie riforme e libere elezioni. Egli annunciò che l’Ungheria si sarebbe ritirata dal Patto di Varsavia e chiese alle nazioni Unite di garantire la neutralità perpetua dell’Ungheria sulla stessa base di quella austriaca. Questo era troppo per l’Unione Sovietica che inflisse all’Ungheria distruzioni paragonabili a quelle della Seconda Guerra Mondiale. Anche dopo che i russi ebbero riportato la situazione sotto controllo molti continuarono la lotta sulle colline con azioni di guerriglia. La rivolta ungherese mostrò chiaramente che persino una Russia destalinizzata non era preparata a rinunciare al suo impero comunista. Il movimento per un socialismo autenticamente democratico ebbe il massimo sviluppo in Cecoslovacchia. Nel gennaio del 1968 il partito comunista ceco guidato da Dubcek avviò un programma di riforme che prevedeva tra l’altro un maggiore ricorso al libero mercato, l’allentamento della censura di stampa e una buona misura di libertà personale. In un primo momento i governanti del Cremlino cercarono di persuadere i dirigenti cechi a ritornare a politiche comuniste ortodosse, ma senza successo. Alla fine, nell’agosto del 1968, l’esercito e l’aviazione sovietici invasero la Cecoslovacchia e proclamarono la legge marziale. Ancora una volta, come nel 1953 in Germania orientale e nel 1956 in Ungheria i fatti dimostrarono che l’impero comunista russo poteva essere mantenuto integro solo con la forza. La Repubblica Popolare cinese, pur non appartenendo al blocco sovietico, fu per breve tempo alleata dell’Unione Sovietica. La Seconda Guerra Mondiale aveva inflitto sofferenze tremende ad un paese già povero. Nel corso del conflitto i comunisti cinesi avevano collaborato con il leader nazionalista Chiang Kai-shek nella resistenza ai giapponesi. Alla fine del conflitto si rivoltarono contro Chiang e nel 1949 lo cacciarono dal continente a Taiwan insieme ai suoi seguaci. Il primo ottobre 1949 i comunisti guidati da Mao Tse Tung e Chun en–lai proclamarono formalmente la repubblica popolare cinese con capitale Pechino. I comunisti estesero rapidamente il loro dominio all’intero paese: consolidato il controllo politico il nuovo Governo intraprese la modernizzazione dell’economia e la ristrutturazione della società. Dopo una prima fase in cui fu tollerata la proprietà privata sia in agricoltura che in maniera limitata nel commercio e nell’industria, nel 1953 il Governo cominciò a incoraggiare la collettivizzazione dell’agricoltura e intraprese una generale nazionalizzazione dell’industria. Ma il programma si tradusse in un fallimento. Nel 1961 il Governo ridimensionò i propri obiettivi, in quelli principali della dirigenza comunista cinese: dare una nuova struttura alla società e riformare i processi di pensiero, il comportamento e la cultura. La vestigia della struttura di classe “feudale” e “borghese” furono eliminate con i semplici espedienti delle espropriazioni e delle esecuzioni. Nel 1966 Mao varò una grande rivoluzione culturale contrassegnata da tre anni di terrorismo e violenze, durante i quali molti intellettuali furono costretti a lavorare come contadini e operai comuni. Fin dall’inizio l’Unione Sovietica aveva accordato alla Repubblica Popolare cinese assistenza economica, tecnica e militare ma i cinesi rifiutarono di conformarsi alle direttive sovietiche. Dopo una serie di scontri di confine, le due superpotenze del mondo comunista arrivarono sull’orlo di un conflitto aperto. La Cina conseguì nel 1964 il suo maggiore trionfo tecnologico con l’esplosione di una bomba atomica. Per compensare l’ostilità sovietica i cinesi intrapresero un processo di riavvicinamento all’occidente che culminò nel 1971 con il ritiro da parte statunitense delle obiezioni all’ammissione della Repubblica Popolare cinese nelle Nazioni unite. Dopo la morte di Mao nel 1976 i contatti con l’occidente si intensificarono, il Governo guidato da Teng Hsiao-ping permise una limitata reintroduzione del libero mercato e della libera impresa. L’Unione Sovietica possedeva in Asia altri tre satelliti o stati vassalli. La Repubblica Popolare mongola fu il primo stato comunista dopo l’Urss. Divenne membro del Comecon nel 1962. Nel 1978 il primo segretario del partito comunista annunciò che il paese era stato trasformato da agricolo-industriale a industriale-agrario. Dopo la sconfitta del Giappone truppe americane e sovietiche occuparono congiuntamente la Corea. La Repubblica Popolare Democratica di Corea, o Corea del Nord, possedeva un’economia di tipo sovietico che in confronto con la maggior parte dei paesi dell’est asiatico appare estesamente industrializzata. Nonostante i danni subiti durante la guerra di Corea, la sua industria fu rapidamente ricostruita con l’aiuto sovietico e cinese. La Repubblica Socialista del Vietnam è l’erede della Repubblica Democratica del Vietnam fondata nel 1945 da Ho Chi Minh. Terminato il conflitto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il paese fu diviso in un Vietnam del nord comunista e un Vietnam del sud anticomunista. Nella tragica guerra civile che seguì negli anni sessanta e settanta il Sud rimase sconfitto nonostante i massicci aiuti militari ed economici degli Stati Uniti. L’economia era tradizionalmente agraria, l’industrializzazione è stata incoraggiata dal Governo, che possiede e dirige praticamente tutte le imprese. Il solo Stato socialista dichiaratamente alleato dell’Unione Sovietica nell’emisfero occidentale era la repubblica di Cuba. Fidel Castro, il leader rivoluzionario che rovesciò l’autoritario dittatore Fulgencio Batista il 1° gennaio del 1959, in un primo momento non si proclamò marxista, ma la politica anticastrista degli Stati Uniti, culminata nel 1961 con l’appoggio alla disastrosa invasione della Baia dei Porci, lo gettò tra le braccia dell’Unione Sovietica. Tagliata fuori dai suoi mercati tradizionali ma pur sempre dipendente dal suo tradizionale prodotto d’esportazione, lo zucchero, Cuba ricevette la maggior parte dei manufatti dal blocco sovietico. Nel 1972 divenne membro del Comecon. Economia della decolonizzazione La Seconda Guerra Mondiale inflisse un colpo mortale all’imperialismo europeo. Le Filippine, le Indie orientali olandesi, l’Indocina francese, la Birmania e la Malaysia britanniche caddero sotto il dominio giapponese. Altrove in Asia e in Africa la sconfitta della Francia del Belgio e dell’Italia e la preoccupazione dei Britannici per lo sforzo bellico lasciarono le dipendenze coloniali in balia di se stesse. Alcune di esse proclamarono l’indipendenza, altre videro la nascita di partiti indipendentisti che si battevano contro il dominio coloniale. Nell’immediato dopoguerra le potenze imperiali ripresero il controllo della maggior parte delle ex colonie ma la debolezza causata dalla guerra e la forza crescente dei movimenti indipendentisti condussero ad un graduale abbandono dei poteri imperiali. L’indipendenza concessa dalla Gran Bretagna al subcontinente indiano determinò la nascita non di uno ma di sue stati: l’India e il Pakistan, il primo di religione indù e il secondo musulmano. L’anno dopo fu la volta dell’isola di Ceylon (nello Sri Lanka). Il Pakistan era diviso in due parti: il Pakistan Occidentale, di lingua urdu, sul fiume Indo e il Pakistan Orientale di lingua bengalese, dall’altra parte del fiume Gange. I pakistani dominarono gli orientali fino alla rivolta che culminò con la fondazione del Bangladesh. Questi paesi sono tutti poveri, hanno poche risorse naturali, alti livelli di analfabetismo e governi instabili con disordini razziali e religiosi. Altri paesi che ottennero l’indipendenza furono: la Birmania, l’Indonesia, il Laos, la Cambogia, Singapore, Borneo, la Malaysia e le Filippine. Tutti questi paesi hanno caratteristiche comuni, quali il clima, la topografia, sono rurali e agrari, alti livelli di analfabetismo e di crescita demografica. Seppure nominalmente repubbliche, le forze della democrazia sono deboli e molti di essi hanno dovuto sottostare a lunghi periodi di dittatura. Anche le colonie africane, dopo anni di rivolte ottennero l’indipendenza. Tutti i paesi nordafricani sono prevalentemente agrari con un’agricoltura di tipo mediterraneo ma possiedono anche importanti risorse minerarie. In particolare, il petrolio e il gas naturale scoperti in Algeria poco dopo l’indipendenza hanno dato a questo paese sia mezzi per sviluppare l’industria che quelli per svolgere un certo ruolo nella politica mondiale. All’inizio degli anni cinquanta molti osservatori ritenevano che l’indipendenza delle popolazioni nere dell’Africa subsahariana avrebbe richiesto un periodo di una o più generazioni; in realtà nel volgere di un decennio dai vecchi Imperi, britannico, francese e belga erano nati più di venti nuovi stati. Questo sorprendente sviluppo fu dovuto solo in parte alla forza dei movimenti indipendentisti indigeni. Altrettanto importanti furono le difficoltà interne delle potenze imperiali, che le resero meno disponibili a sopportare gli alti costi (economici, politici e morali) della conservazione del dominio su popoli stranieri contro la loro volontà. Una volta iniziato il processo di emancipazione questo continuò come una reazione a catena. Alla metà degli anni ‘60 tutte le ex potenze coloniali europee avevano concesso l’indipendenza a quasi tutte le loro dipendenze
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