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Storia Economica del Mondo Vol. II Dal XVIII secolo ai nostri giorni Rondo Cameron-Larry Neal, Dispense di Storia Economica

Il secondo volume traccia la storia dell'economia a partire dalla Rivoluzione industriale fino alla nascita dell'economia globale agli inizi del nuovo millennio.

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 04/11/2018

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Scarica Storia Economica del Mondo Vol. II Dal XVIII secolo ai nostri giorni Rondo Cameron-Larry Neal e più Dispense in PDF di Storia Economica solo su Docsity! STORIA ECONOMICA DEL MONDO CAPITOLO VII L’ALBA DELL’INDUSTRIA MODERNA All’inizio del ‘700, diverse regioni europee avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale, in gran parte nel settore tessile. Per descrivere il processo di espansione e di trasformazione di queste industrie, è stato inventato il termine protoindustrializzazione all'inizio degli anni '70 del nostro secolo. La sua prima applicazione si ha in relazione all'industria del lino delle Fiandre, un'attività rurale che si svolgeva in case di campagna ed era organizzata da imprenditori di Gand e altri centri commerciali, che ne esportavano la produzione verso mercati lontani, in particolare quelli dell'impero spagnolo. La forza lavoro era costituita da unità familiari composte da marito, moglie e figli. Successivamente il termine è stato esteso sia geograficamente che cronologicamente ed è arrivato a comprendere industrie dalle caratteristiche analoghe. Nel caso dell'industria cotoniera del Lancashire, è stato visto come preludio al sistema di fabbrica. In quello dell'industria del lino irlandese, invece, non si è verificata alcuna transizione di questo tipo. Le caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispersa, rurale, organizzata da imprenditori urbani che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto verso mercati lontani (la tradizionale industria rurale o domestica, invece, provvedeva esclusivamente a mercati locali). La protoindustrializzazione fa riferimento alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Prima dell'avvento del sistema di fabbrica nell'industria cotoniera, però, esistevano altre industrie di grandi dimensioni e ad alta concentrazione di capitale, che producevano beni capitale, intermedi o di consumo. Pensiamo alle “manufactures royales” francesi (situate in grandi strutture simili a fabbriche, dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore, ma non vi si impiegava energia meccanica). Analoghe protofabbriche furono organizzate da nobili proprietari terrieri, i quali assunsero un ruolo imprenditoriale anche nell'industria del carbone (estraevano il minerale localizzato nei propri terreni; il duca di Bridgewater fece costruire un canale che collegava la sua miniera di Worsley a Manchester tra il 1759 e il 1761). Inoltre, ferriere e fabbriche di piombo, rame e vetro impiegavano centinaia di operai ed erano spesso organizzate su larga scala, così come i cantieri navali (l'Arsenale di Venezia, fondato nel Medioevo, i Cantieri navali olandesi, l'Arsenale di Woolwich nato su iniziativa del governo inglese). Sebbene imponenti, queste realizzazioni furono eclissate nel XVIII secolo dalla nascita di nuove forme di attività industriale. Caratteristiche dell’industria moderna Una delle differenze più ovvie tra la società preindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura. Alla diminuzione della sua importanza, corrisponde una crescita enorme della produttività dell’agricoltura moderna, che le permette di sostentare una popolazione non agricola sempre più numerosa. Un'altra differenza è l’elevata percentuale di forza lavoro impiegata nel settore terziario, o dei servizi in epoche recenti. Nel periodo della vera e propria industrializzazione, che in Gran Bretagna va dall'inizio del XVIII secolo alla prima metà del XX, la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia è l’ascesa del settore secondario (industria estrattiva, manifatturiera e delle costruzioni), riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata che dei livelli di produzione. Questa trasformazione si rileva per la prima volta in Gran Bretagna, che è stata definita la “prima nazione industriale”, e successivamente in Scozia. Ad essa si associa anche il termine “rivoluzione industriale”, usato per indicare gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento: tale espressione è imprecisa e il suo uso distoglie l’attenzione dalle evoluzioni contemporanee ma differenti dei paesi dell’Europa continentale. Nel corso di questa trasformazione, chiamata più esattamente nascita dell'industria moderna, emersero alcune caratteristiche che distinguono in modo netto l’industria moderna da quella “premoderna”: • l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica; • l’introduzione di nuove fonti di energia inanimata (combustibili fossili); • l' impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura. • la dimensione più grande delle imprese. I miglioramenti più significativi dal punto di vista tecnologico furono quelli che videro l’utilizzo di macchine e di energia meccanica per l'esecuzione di a quest’ultima di sostentare una popolazione sempre maggiore e secondo standard nutritivi via via più elevati. Per circa un secolo, tra il 1660 e il 1760, essa produsse anche un surplus per l’esportazione. La popolazione rurale inglese, rispetto a quella del continente, si presentava più specializzata e dinamica e costituiva un buon mercato interno per beni di consumo, prodotti manifatturieri e attrezzi agricoli. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale di commercializzazione dell’intera nazione. Già nel XVI secolo Londra aveva cominciato a svolgere la funzione di “polo di crescita” dell’economia inglese. I suoi vantaggi erano sia geografici che politici. La commercializzazione interagì con la nascente organizzazione finanziaria della nazione. Le origini del sistema bancario britannico sono oscure, ma sappiamo che negli anni successivi alla Restaurazione del 1660 diversi grandi orefici londinesi cominciarono a svolgere le funzioni di banchieri. Rilasciavano ricevute di deposito che circolavano come banconote, e concedevano prestiti a imprenditori degni di credito. La fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694 costrinse i banchieri privati a rinunciare all’emissione di banconote, ma continuarono a svolgere le funzioni di banche di deposito, accettando ordini di pagamento e scontando cambiali. La provincia, invece, rimase priva di strutture bancarie formali. (le funzioni di banca venivano svolte da agenti d'affari e grossisti). La Banca d’Inghilterra non istituì filiali, e le sue banconote non circolavano fuori Londra. La Zecca Reale si rivelò inefficiente: il valore delle monete d’oro era troppo elevato perché queste potessero essere utilizzate per pagare i salari o nel commercio al dettaglio, mentre le monete d’argento o di rame erano insufficienti. Questa situazione di penuria di moneta spicciola incoraggiò l’iniziativa privata con l’istituzione di “banche di provincia”, in cui industriali e mercanti rilasciavano titoli cartacei e metallici. L’euforia della Gloriosa Rivoluzione (1688-89 si concluse con la deposizione di Giacomo II e l'ascesa al trono di Mary II e Guglielmo III d'Orange) portò alla creazione di numerose società per azioni, alcune delle quali per regio decreto e con la concessione di monopoli. Un'analoga euforia invase nuovamente il Paese alla fine della guerra di Successione Spagnola (Termina con il riconoscimento di Filippo V come re di Spagna) e culminò con il boom finanziario speculativo noto come “bolla del Mare del Sud”. L’episodio prese il nome dalla Compagnia del Mare del Sud, istituita per decreto nel 1711 con il monopolio ufficiale dei traffici con l’impero spagnolo. Ma la vera ragione della sua creazione era quella di raccogliere denaro per conto del Governo per finanziare la prosecuzione del conflitto. La bolla scoppiò nel 1720 quando il Parlamento approvò il Bubble Act. La legge proibiva la costituzione di società per azioni senza l’espressa autorizzazione del Parlamento. L’Inghilterra fece il suo ingresso nella rivoluzione industriale con uno sbarramento legale contro la forma azionaria dell’organizzazione capitalistica, condannando gran parte delle sue imprese alla proprietà individuale o alla condizione giuridica di società di persone. Si è discusso se questa restrizione abbia ostacolato o meno l'industrializzazione inglese. Il Bubble Act fu infine abrogato nel 1825. Un’altra importante conseguenza della Gloriosa Rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del Regno sotto lo stretto controllo del Parlamento; ciò ridusse il peso del debito pubblico e rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Sebbene il sistema tributario fosse molto regressivo, ovvero tassasse le persone a basso reddito in modo più pesante dei ricchi, anch'esso permise l'accumulazione di capitali da investire, ad esempio nei trasporti e nelle infrastrutture. Il movimento di grosse quantità di beni voluminosi, come cereali, legname,carbone e minerali richiedeva un sistema di trasporto affidabile e a prezzi ragionevoli. Prima dell'era delle ferrovie, furono le vie d'acqua a rappresentare le arterie più economiche ed efficienti. La Gran Bretagna dovette la sua precoce prosperità e la sua posizione di capofila nell’industria moderna alla sua natura insulare, che non solo le assicurava una protezione contro gli sconvolgimenti e le distruzioni causate dalle guerre continentali, ma anche un mezzo di trasporto a buon mercato. Nonostante i vantaggi naturali, quali porti e corsi d'acqua navigabili, la domanda di migliori servizi di trasporto crebbe a ritmo spedito: attraverso canali e fiumi, tutti i maggiori centri di produzione e consumo furono messi in comunicazione tra loro e con i porti principali. Le iniziative di canalizzazione furono organizzate sotto forma di società private a scopo di lucro, che riscuotevano pedaggi. Anche le strade, tradizionalmente curate dalle parrocchie, a partire dall'ultimo decennio del '600 furono oggetto di miglioramenti da parte di società che curavano la loro manutenzione e anche in questo caso gli utenti erano tenuti a pagare un pedaggio. Tecnologia industriale e innovazione Due innovazioni ebbero un impatto fondamentale sull’industrializzazione: il procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke, che liberò l'industria siderurgica dalla dipendenza dal carbone di legna, e l’invenzione della macchina a vapore atmosferica. Numerosi erano stati i tentativi di sostituire il carbon fossile al carbone di legna negli altiforni, ma le impurità del carbone grezzo li avevano condotti al fallimento. Nel 1709 Darby riscaldò il carbone in un contenitore chiuso per eliminarne le impurità in forma di gas e dal processo ottenne come residuo il coke, una forma quasi pura di carbonio, che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per produrre ghisa grezza. L’innovazione si diffuse solo lentamente. La scarsità del carbone di legna dopo il 1750, accompagnata dalla nascita del procedimento di puddellaggio e della laminazione di Cort, liberò definitivamente la produzione del ferro dalla dipendenza dal carbone di legna. Procedimento di Cort: Prevedeva la fusione di barre di ghisa grezza in un forno a riverbero, in modo che il ferro non venisse direttamente a contatto con il combustibile. Il ferro fuso veniva poi mescolato per facilitare l'evaporazione del carbonio in eccesso ed infine fatto scorrere lungo cilindri scanalati per liberarlo ulteriormente dalle impurità ed imprimere la forma desiderata. I proprietari delle ferriere ottennero delle economie di scala concentrando tutte queste operazioni in un unico luogo. Sia la produzione di ferro che la percentuale di esso ottenuta con l’impiego di combustibile crebbero in maniera spettacolare. La Gran Bretagna divenne un grande esportatore di ferro e di prodotti ferrosi. Il vapore: fu utilizzato per la prima volta nell’industria mineraria; espandendosi la domanda di carbon fossile e metalli, si intensificarono gli sforzi per estrarli da miniere sempre più profonde. Nel 1698, l'ingegnere Savery ottenne il brevetto per una pompa a vapore che chiamò “l’amico del minatore”. L’apparecchio fu installato nel decennio seguente specialmente nelle miniere di stagno della Cornovaglia, ma aveva diversi difetti (tendenza ad esplodere). Nel 1712, Newcomen, mercante di ferramenta e calderaio, decise di porre rimedio a questi difetti procedendo per tentativi e riuscì a costruire la sua prima pompa a vapore atmosferica in una miniera di carbone 1764 John Roebuck inventò un procedimento economico di produzione dell’acido solforico, che fu impiegato come sbiancante nelle industrie tessili al posto di sostanza naturali. Nell'ultimo decennio del '700 fu poi rimpiazzato dall'introduzione del cloro e dei suo derivati. Un altro gruppo di composti chimici largamente usati nei processi industriali furono gli alcali (soda caustica e potassa). Nel 1791 Leblanc scoprì un processo di produzione di questi ultimi che faceva uso di cloruro di sodio, successivamente utilizzato nella manifattura del vetro, del sapone e della carta. L’industria del carbone, la cui crescita era stata stimolata dalla scarsità di legname come combustibile, rimase per lo più un’industria ad alta intensità di lavoro che produceva anche sottoprodotti importanti, quali il catrame minerale e il gas illuminante. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo che ebbe diversi stadi preparatori. La sua principale antenata fu la macchina a vapore di Watt. A Richard Trevithick va il merito della costruzione nel 1801 della prima locomotiva, che tuttavia non si rivelò un grande successo dal punto di vista economico, dal momento che le strade non potevano sopportarne il peso. Nel 1804, questo ingegnere minerario ne costruì una seconda, destinata a percorrere brevi tratti su binari tra le miniere del bacino carbonifero del Galles meridionale: anche in questo caso, nonostante il buon funzionamento della macchina, i leggeri binari in ghisa non riuscirono a reggerne il peso. Fu Stephenson a perfezionarla nel 1813. La prima vera linea ferroviaria di trasporto al mondo, la Liverpool-Manchester, fu inaugurata solo nel 1830. Varianti regionali E’ importante prendere atto delle varianti regionali della industrializzazione inglese e dell’andamento eterogeneo che il cambiamento economico assunse nelle varie componenti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. All’interno dell’Inghilterra, il Lanchashire e i Midlands orientali divennero sinonimo di cotone, mentre quelli occidentali, lo Yorkshire meridionale e la regione attorno a New Castle si specializzarono nell'industria siderurgica. La Cornovaglia rimase la fonte primaria dello stagno e del rame e il Sud, con l'eccezione di Londra, rimase agricolo. Lo Staffordshire, infine, deteneva il monopolio dell'industria delle stoviglie. Nel Galles, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, i bacini carboniferi della regionale meridionale permisero la nascita di una forte industria siderurgica orientata all'esportazione. La parte nordorientale del paese beneficiò dell'influenza delle industrie delle zone adiacenti, quali il Lancashire e il Cheshire, ma le terre dell'interno rimasero montagnose e poco fertili. La Scozia, a differenza del Galles, conservò la sua indipendenza dall’Inghilterra fino all’unione volontaria dei parlamenti nel 1707. A metà del XVIII secolo era un paese povero e arretrato, ma meno di un secolo dopo ebbe un passaggio alla grande industria anche più veloce e spettacolare di quello dell’Inghilterra. I motivi della formidabile trasformazione scozzese sono stati oggetti di dibattito. In particolare, si considerano: la disponibilità di carbone, reperibile nella fascia pianeggiante compresa tra il Fifth of Forth e il Firth of Clyde; l’ingresso nell’Impero britannico, che le diede accesso non solo ai mercati inglesi, ma anche a quelli delle colonie nel Nord America e contribuì all’accelerazione del ritmo della vita economica; l'efficienza del sistema educativo, che andava dalle scuole parrocchiali a 4 antiche università e che assicurava una popolazione ben istruita; l'adozione di un sistema bancario differente da quello inglese e immune da regolamentazioni governative (offriva agli imprenditori locali un accesso relativamente facile al credito e ai capitali). L’Irlanda, in contrasto con la Scozia, non riuscì quasi ad industrializzarsi. Gli Inglesi la trattavano come una provincia conquistata. Quando la carestia di patate la colpì, a metà degli anni quaranta, la morte per fame e l’emigrazione la privarono in meno di un decennio di un quarto della sua popolazione. Aspetti sociali della prima industrializzazione La popolazione di Inghilterra e Galles crebbe rapidamente nelle prime fasi dell'industrializzazione (la crescita si registra a partire dal 1740, viene seguita da un'accelerazione negli anni '80 e raggiunge il culmine nei primi due decenni dell'Ottocento). L'aumento demografico non è esclusivamente legato al processo d’industrializzazione; si trattò infatti di un fenomeno generale europeo. D’altra parte sarebbe scorretto affermare che non ci fu alcuna relazione; l’industrializzazione fu un elemento propizio alla crescita continua della popolazione. Non è possibile offrire una spiegazione adeguata dei meccanismi della crescita che si verificò nel XVIII secolo per carenza di dati particolareggiati. E’ necessario considerare molteplici fattori; la crescita del tasso di natalità, dipesa dalla riduzione dell'età matrimoniale; l'espansione dell'industria domestica e di quella di fabbrica permetteva alle coppie di formare un nucleo familiare senza dover attendere la disponibilità di una fattoria o il completamento di un periodo di apprendistato; un decremento del tasso di mortalità, dovuto alla costruzione di nuovi ospedali, ai progressi delle conoscenze mediche, dell'igiene personale e dell’agricoltura, che portarono ad una maggiore abbondanza nonché ad una maggiore varietà di cibi, migliorando l’alimentazione; un’accresciuta produzione di carbon fossile, che si tradusse in abitazioni meglio riscaldate; la popolazione totale risentì anche degli effetti dell’immigrazione e dell’emigrazione. Per tutto il XVIII secolo e nei primi decenni del XIX, le migliori opportunità economiche offerte dall’Inghilterra e dalla Scozia vi attirarono irlandesi di ambo i sessi. L’emigrazione interna alterò la distribuzione geografica della popolazione. Questo fenomeno produsse due mutamenti: l'aumento della densità nel nord-ovest a scapito del sud-est e la crescita dell’urbanizzazione. La crescita delle città non ebbe solo aspetti positivi; non mancavano le abitazioni cadenti, le infrastrutture sanitarie inesistenti (causa di colera e malattie epidemiche), le fognature inefficienti e le strade prive di pavimentazione. Tali condizioni erano frutto in parte della crescita estremamente rapida, ma anche della mancanza di esperienza delle autorità locali e dell'assenza di pianificazione. La rapida espansione delle città dipese interamente dall’immigrazione dalle campagne. Le pressioni economiche obbligavano gli individui a trasferirsi; i lavoratori delle fabbriche, grazie ad una maggiore produttività del lavoro dovuta all'uso delle innovazioni tecniche e alla maggiore quantità di capitale investito per singolo lavoratore, ricevevano salari più elevati dei braccianti e dei dell’industria, dei trasporti e delle comunicazioni queste limitazioni vennero state allentate. Risorse In seguito al cambiamento tecnologico e alla pressione dell'accresciuta domanda, risorse precedentemente sconosciute o di scarso valore acquisirono un’importanza determinante. Questo fu in particolare il caso del carbon fossile: le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbone divennero nel XIX secolo i siti primari dell’industria pesante. Le regioni prive di riserve indigene dovettero importarlo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste d’acqua, come Svizzera e Svezia, ottennero da questa fonte un nuovo vantaggio relativo. L’Europa era nel complesso relativamente ben provvista di risorse minerarie convenzionali, quali il ferro, altri metalli, sale e zolfo. Le necessità dell'industria moderna intensificarono la pressione per il loro utilizzo: il risultato fu una caccia sistematica a fonti d’energia ancora sconosciute e una ricerca scientifica e tecnologica dei migliori metodi di sfruttamento. In alcuni casi, con l’esaurirsi delle risorse domestiche, la ricerca di nuove fonti d’approvvigionamento si estese oltreoceano. Nel corso del XIX secolo la ricerca di materie prime spinse sempre più le nazioni europee ad estendere il controllo politico sulle regioni africane e asiatiche scarsamente organizzate o prive di un governo forte. Sviluppo e diffusione della tecnologia Simon Kuznets definì il periodo in cui viviamo come “l’epoca economica moderna”. A suo parere, un’epoca economica è determinata dalle applicazioni di “un’innovazione epocale”. Egli vedeva l’innovazione epocale della prima età moderna europea nello sviluppo delle tecniche di navigazione che resero possibile la scoperta dell’America e delle rotte marittime verso l'oriente. L’epoca economica attuale ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo e l'innovazione ad essa correlata fu l'applicazione della scienza ai problemi della produzione economica. Tuttavia, la conoscenza scientifica ebbe un'applicazione limitata nei processi produttivi, sia nel XVIII secolo che nella prima metà del XIX. Il periodo della storia della tecnologia che va dall’inizio del Settecento a circa il 1860 o 1870 è piuttosto l’era dell’artigiano-inventore. Successivamente, però, le teorie scientifiche divennero fondamentali per i processi produttivi, in particolare in industrie nuove quali quelle dell'elettricità, dell'ottica e dei prodotti chimici. La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese dai progressi tecnologici verificatesi in due industrie fondamentali: l’industria cotoniera e quella del ferro, sostenute dall'uso del carbon fossile come combustibile e dall'impiego della macchina a vapore. In alcuni casi, le scoperte scientifiche portarono alla creazione ex novo d’industrie precedentemente inesistenti. Molte innovazioni furono opera d’industriali continentali e americani, desiderosi di eguagliare o superare l’efficienza tecnica dei concorrenti britannici. Motori primi e produzione di energia Nonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue macchine avevano parecchie limitazioni come motori primi dell’industria: erano pesanti, ingombranti, soggette a frequenti rotture, lavoravano a pressioni relativamente basse e ciò limitava la loro efficacia. I successivi cinquant’anni videro molti importanti sviluppi nella tecnologia di queste macchine grazie alla disponibilità di metalli più leggeri e ad una più approfondita conoscenza scientifica della calorimetria e della termodinamica. La forza a vapore fu inoltre utilizzata per la propulsione di battelli e locomotive, con profonde conseguenze per l'industria dei trasporti. Il progresso tecnologico toccò anche la ruota idraulica. A partire dal 1760 furono introdotte forme nuove e più efficienti e, in conseguenza della discesa del prezzo del ferro, divennero comuni grandi ruote realizzate completamente in metallo. Negli anni '20-'30 dell'Ottocento, un gruppo di ingegneri francesi perfezionò la turbina idraulica, cioè lo strumento per convertire l'energia sprigionata dalla caduta dell'acqua in forza motrice. Nel terzo quarto del secolo l'energia idraulica raggiunse il suo massimo impiego e fu sorpassata dal vapore solo dopo il 1870. Elettricità: I fenomeni elettrici erano stati oggetto di osservazione sin dall'antichità, ma è solo all'inizio del XIX secolo, grazie al lavoro di Luigi Galvani, Alessandro Volta e Benjamin Franklin, che divennero oggetto di ricerche di laboratorio. La fase successiva del loro studio fu dominata dalle figure di Faraday, Oersted e Ampère. L'uso industriale dell'elettricità, tuttavia, era frenato dalle difficoltà insite nella progettazione di un generatore economicamente efficiente. Nel 1873, dopo numerose sperimentazioni, un fabbricante di carta francese collegò la turbina idraulica a una dinamo: questa semplice innovazione consentì a regioni prive di carbon fossile ma ricche di acqua di soddisfare i propri bisogni energetici. La creazione della turbina a vapore nel decennio seguente svincolò la generazione di elettricità dalla disponibilità di acqua e spostò la bilancia energetica nuovamente dalla parte del carbone e del vapore. Lo sviluppo dell'energia idroelettrica divenne fondamentale per i paesi poveri di carbone, dove fino a quel momento lo sviluppo industriale aveva ristagnato. Contemporaneamente furono sviluppate numerose applicazioni pratiche dell'elettricità: negli anni '40 essa aveva trovato utilizzo nell'industria della galvanoplastica e della telegrafia, e negli anni '70 le lampade ad arco venivano impiegate in fabbriche, negozi ed edifici pubblici. Il perfezionamento della lampadina elettrica ad opera di Edison rese obsoleta l’illuminazione con lampade ad arco e diede inizio al boom dell’industria elettrica. Per diversi decenni l’elettricità ed altri due materiali d’illuminazione da poco perfezionati, il gas di carbone e il cherosene, si contesero aspramente il campo. Nel 1879, il tedesco von Siemens inventò il tram elettrico, con conseguenze rivoluzionarie per i trasporti di massa nelle città. L’elettricità può inoltre essere usata per produrre calore, e per questo cominciò ad essere impiegata nella fusione dei metalli, in particolare l’alluminio, scoperto poco tempo prima. Il petrolio è un’altra delle grandi fonti d’energia che si affermò nella seconda metà del XIX secolo. Il petrolio liquido e il suo sottoprodotto, il gas naturale, furono usati soprattutto per l’illuminazione. Il petrolio greggio consiste di varie frazioni, tra cui il cherosene ed altri elementi utilizzati come lubrificanti, la cui domanda crebbe in parallelo alla diffusione di macchine con parti mobili. I residui più pesanti, furono trattati in un primo momento come prodotti di scarto e solo in seguito per il riscaldamento domestico ed industriale. Quelle più leggere e volatili, invece, quali nafta e benzina, furono considerate a lungo sostanze pericolose. Acciaio a buon mercato Mosca e alle frontiere con Austria e Prussia. In nessuna altra regione dell'Europa Orientale e Sudorientale si parlava di ferrovie nella prima metà del secolo. Paesi Bassi: videro un turbine d’iniziative a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, per effetto delle quali le maggiori città furono tutte collegate tra loro; i risultati finanziari furono però scarsi. Penisola italiana: alcune brevi ferrovie erano state costruite nel corso negli anni trenta e quaranta, ma registrarono scarsi progressi fino all’avvento negli anni cinquanta dello statista Camillo Benso di Cavour nel regno di Sardegna. Svizzera e Spagna: avevano inaugurato brevi linee ferroviarie negli anni quaranta, ma un serio programma di costruzioni cominciò solo dopo la decade successiva. La seconda metà del XIX secolo fu sia in Europa che altrove l’età dell’oro delle costruzioni ferroviarie. Gli ingegneri britannici, forti del loro vantaggio d’esperienza e del numero delle loro fonderie e officine meccaniche, costruirono alcune delle prime ferrovie del continente; in seguito furono responsabili della maggior parte delle costruzioni realizzate in India, America Latina e Africa meridionale. I continui miglioramenti nella progettazione di locomotive portarono alle enormi macchine del tardo Ottocento e primo Novecento, epoca in cui la trazione elettrica e i motori diesel avevano cominciato ad insidiare il primato delle locomotive a vapore. Il battello a vapore, sebbene fosse stato inventato prima della locomotiva, svolse un ruolo meno vitale di quest’ultima nell’espansione del commercio e dell’industria. Nella prima metà del secolo, i piroscafi contribuirono in particolar modo allo sviluppo del commercio interno. Fino alla guerra civile americana le navi a vapore oceaniche trasportarono principalmente posta, passeggeri e carichi costosi e leggeri. Altre innovazioni: La macchina per la fabbricazione della carta e la macchina da stampa cilindrica, usata per la prima volta dal “Times” di Londra ridussero notevolmente il costo di libri e giornali. Queste innovazioni misero la carta stampata alla portata delle masse e contribuirono alla loro progressiva alfabetizzazione. L’invenzione della litografia e gli sviluppi della fotografia resero possibile la riproduzione economica e l’ampia diffusione delle immagini visive. La Gran Bretagna introdusse il servizio postale nel 1840. Ancora più significativa fu l’invenzione del telegrafo elettrico da parte dell’americano Samuel Morse. Il telefono, brevettato da Graham Bell rese ancora più personale la comunicazione su lunghe distanze. L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, inventò il telegrafo senza fili. Nel campo delle comunicazioni d’affari l’invenzione della macchina per scrivere e d’altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e contribuire al flusso crescente d’informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. La macchina per scrivere contribuì inoltre all’ingresso della donna nella forza lavoro impiegatizia. L’applicazione della scienza L'applicazione della scienze ai processi industriali è uno dei caratteri fondamentali dell'industria moderna. Lo sviluppo tecnologico richiedeva la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti; svolse un ruolo vitale nell'industria dei coloranti artificiali e anche nella metallurgia. Inoltre, furono scoperti molti nuovi metalli tra cui zinco, allumino, nichel, magnesio e cromo; diversi scienziati e industriali trovarono il modo di impiegarli ed escogitarono metodi di produzione economici. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli; esempi di leghe naturali sono l’ottone e il bronzo. La chimica venne inoltre in soccorso delle industrie della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. Lo studio scientifico del terreno portò ad un notevole miglioramento delle pratiche agricole e all'introduzione di fertilizzanti artificiali. Il contesto istituzionale Lo scenario istituzionale in cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo, assicurava ampie opportunità all’iniziativa individuale, lasciava libertà di scelta in campo occupazionale e si fondava sulla proprietà privata; tuttavia la loro combinazione e l’esplicito riconoscimento loro accordato fecero sì che essi contribuissero in modo notevole al processo di sviluppo economico. Fondamenti giuridici La Gran Bretagna si era dotata di una struttura moderna ai fini dello sviluppo economico, adatta all'innovazione e al cambiamento. L' istituzione cardine era il sistema giuridico noto come diritto comune. Le sue caratteristiche distintive erano la sua natura evolutiva e il suo affidarsi alle consuetudini. Assicurava inoltre protezione alla proprietà e agli interessi privati contro le ruberie dello stato e allo stesso tempo proteggeva l'interesse pubblico dall'arbitrio privato. Fu trasmesso alle colonie: divenne infatti il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico. Nel Continente, la rivoluzione francese abolì gli ultimi residui dell'ordine feudale e istituì un sistema giuridico più razionale che fu successivamente incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine può essere considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il primo articolo proclamava che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti”, diritti che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza. La Dichiarazione elencava anche le garanzie necessarie per tutelare questi diritti: uniformità delle leggi, libertà di parola e di stampa. Furono le assemblee rivoluzionarie a porre i fondamenti giuridici del nuovo ordine: oltre ad abolire il regime feudale e ad instaurare la proprietà privata della terra, si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne, abolirono le corporazioni di mestiere e l’intero apparato statale di controllo dell’industria, proibirono i monopoli e sostituirono alle tasse arbitrarie e inique dell'Antico regime un sistema di imposizione razionale e uniforme. I Francesi esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre napoleoniche: il Belgio, gran parte dell’Italia, e per breve tempo l’Olanda furono tutti incorporati nell’Impero francese. Il regno di Napoli e l’intera Spagna,posti sotto la “protezione” francese, accettarono la maggior parte della legislazione rivoluzionaria. Le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva da Napoleone. La sintesi napoleonica tra le conquiste della rivoluzione da una parte e le tradizioni profondamente radicate sul territorio, raggiunse il suo culmine nell'opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’Impero. Il Dal punto di vista sociale, l’Europa dell’ancien régime era organizzata in tre ordini: la nobiltà, il clero e tutti gli altri. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari terrieri, che comprendeva anche non nobili, oltre agli strati più alti del clero. Il fondamento economico del loro potere politico e della loro condizione sociale era la proprietà della terra, che permetteva loro di vivere senza lavorare. Sul gradino successivo della scala sociale si trovava lo strato superiore della classe media, o alta borghesia, composto da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti come avvocati e notai, il principale fondamento della loro posizione erano le loro particolari conoscenze e abilità. Ad un livello ancora più basso della scala sociale era situata una classe media di rango inferiore, o piccola borghesia, comprendente artigiani, commercianti al dettaglio ed altri dediti ad attività di prestazioni di servizi. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i braccianti, tra le cui file erano molto numerosi i poveri e gli indigenti. Il passaggio dall'agricoltura alle nuove forme industriali e la crescita delle città determinarono la nascita di nuove classi sociali. All’inizio del secolo il gruppo di gran lunga più numeroso era quello dei contadini, anche se nelle aree più industrializzate il loro peso relativo era drasticamente diminuito. La loro partecipazione ai movimenti sociali d’ampia portata fu generalmente sporadica e limitata alla cura di interessi economici immediati. Negli anni immediatamente successivi a Waterloo, l’aristocrazia terriera continuò a godere di prestigio sociale e potere politico, nonostante gli effetti della rivoluzione francese. La sua posizione di guida fu però messa in pericolo dall'ascesa delle classi medie, che a metà del secolo erano riuscite ad ottenere posizioni di potere nella maggior parte dell'Europa occidentale. All’inizio dell’Ottocento i lavoratori urbani costituivano ancora una sparuta minoranza della popolazione, ma con il diffondersi del sistema industriale cominciarono a conquistare la superiorità numerica. Molte erano le gradazioni e le differenze all'interno delle classi lavoratrici: operai di fabbrica, operai specializzati che ricaddero nella manovalanza a causa dell'impiego di nuove macchine , lavoratori avventizi, come facchini o impiegati, che si guadagnavano da vivere vendendo le proprie prestazioni in cambio di un salario. Karl Marx profetizzò, a metà del XIX secolo, che la polarizzazione da lui osservata nelle società industriali avanzate dell’epoca sarebbe continuata fino a che solo due classi sarebbero rimaste,cioè la classe dominante dei capitalisti e il proletariato industriale. Gradualmente, tutte le altre classi intermedie sarebbero state sospinte nel proletariato fino a quando quest'ultimo, con la forza del numero, non si sarebbe sollevato in un moto rivoluzionario per rovesciare la classe dominante. Anziché produrre due classi reciprocamente antagoniste, la diffusione dell’industrializzazione ha visto l’enorme sviluppo di una classe media impiegatizia, artigianale e d’imprenditori indipendenti. Le forme più usuali di solidarietà e autodifesa operaia furono i sindacati di mestiere e successivamente i partiti politici delle classi lavoratrici. Nella prima metà del XIX secolo, erano deboli, circoscritti ad aree limitate e poco vitali di fronte all'opposizione di imprenditori ostili e di una legislazione sfavorevole. L’atteggiamento della maggior parte dei paesi occidentali nei confronti dei sindacati ha attraversato almeno tre fasi. La prima fase, quella della proibizione o repressione. Nella seconda fase, contrassegnata dalla Gran Bretagna dall’abrogazione delle leggi sull’associazione nel 1824-25, i Governi concessero ai sindacati una tolleranza limitata, autorizzandone la costituzione ma perseguendoli solitamente in caso di azioni aperte con scioperi. Una terza fase vide il riconoscimento ad operai e operaie del pieno diritto di organizzarsi e dedicarsi ad attività collettive. In Gran Bretagna, nel corso degli anni trenta, il movimento sindacale fu coinvolto in un più ampio movimento politico detto cartismo, il cui scopo era di ottenere il diritto di voto ed altri diritti politici per coloro che ne erano privi. Sconfitto sul piano politico, il movimento sindacale rimase fermo fino alla costituzione dell’associazione unitaria dei lavoratori meccanici, prototipo di un cosiddetto “nuovo modello” di sindacato. L’aspetto distintivo di questo nuovo tipo di sindacato era che raccoglieva esclusivamente gli operai specializzati sulla base del mestiere da loro svolto. Esso si poneva l’obiettivo di migliorare i salari e le condizioni lavorative dei propri membri attraverso pacifiche trattative con i datori di lavoro. Rifuggivano dalle attività politiche, raramente ricorrevano allo sciopero, se non in casi disperati. Sul continente, i sindacati fecero registrare dei progressi più lenti. Fin dall’inizio, i sindacati francesi furono strettamente collegati al socialismo. Le molteplici forme assunte da questa ideologia politica determinarono una frammentazione del movimento, la cui rappresentatività incostante rese impossibile l'organizzazione di azioni collettive su scala nazionale. Nel 1895 riuscirono a creare una Confederazione generale del lavoro, nazionale e apolitica, anch’essa però non comprendente tutti i sindacati attivi e frequentemente esposta a grosse difficoltà nel far rispettare le proprie direttive in ambito locale. Il movimento sindacale francese rimase dunque decentrato, individualistico e inefficace. Quello tedesco nacque negli anni sessanta e come quello francese, fin dall’inizio fu associato a partiti politici e campagne politiche; fu però più centralizzato e coeso. Si divideva in tre tronconi principali: i liberali, che attiravano soprattutto gli operai specializzati, i sindacati socialisti o “liberi”, con un numero d’iscritti maggiore; i sindacati cattolici o cristiani, nati con la benedizione del Papa in contrapposizione ai sindacati socialisti-atei. Nei paesi economicamente arretrati dell’Europa meridionale e dell'America Latina, nell’organizzazione delle classi lavoratrici prevalse il modello francese. Repressi dai datori di lavoro e dallo Stato, i loro risultati furono per lo più scarsi. I sindacati dei Paesi Bassi, della Svizzera e dell'Impero austro-ungarico seguirono il modello tedesco. Registrarono discreti successi a livello locale, ma le differenze etniche e religiose combinate con l'opposizione governativa pregiudicarono la loro efficacia come movimenti nazionali. Nei Paesi Scandinavi il movimento dei lavoratori sviluppò caratteristiche proprie: si alleò con quello cooperativo e con i partiti socialdemocratici e nel 1914 aveva ottenuto più di qualunque altra forza sindacale nell'alleviare le condizioni di vita e di lavoro dei propri iscritti. In Russia e negli altri paesi dell’Europa orientale i sindacati rimasero illegali fino a dopo la prima guerra mondiale. I primi tentativi di costituire organizzazioni sindacali di massa negli USA ebbero scarsi risultati per l’opposizione del Governo e dei datori di lavoro e per la difficoltà di ottenere la cooperazione tra lavoratori di capacità, d’occupazioni, religioni e origini etniche differenti. Negli anni '80 Samuel Gompers guidò una iniziativa di organizzazione di forti sindacati locali politiche si fecero più acute e tracimarono nella rinascita dell’imperialismo europeo, che provocò un grande allargamento del sistema di mercato mondiale, con l'Europa al centro. CAPITOLO NONO MODELLI DI CRESCITA: I PRIMI PAESI INDUSTRIALI Il processo di industrializzazione può essere considerato un fenomeno di dimensione europea, dal momento che interessa l'intero continente, ma anche regionale; le regioni in questione potevano far parte di un singolo paese, come nel caso del Lancashire meridionale, o superare le frontiere, come il bacino carbonifero austrasiano che si estende dalla Francia Settentrionale alla Germania Occidentale, fino al Ruhr. Un terzo modo di analizzare tale processo prevede il riferimento alle economie nazionali, dal momento che gran parte dell'attività economiche e delle politiche che ne influenzano direzione e carattere sono determinate proprio nell'ambito dei confini nazionali. La Gran Bretagna La Gran Bretagna fu la prima nazione industriale. Alla fine delle guerre napoleoniche produceva 1 quarto della produzione industriale totale ed era di gran lunga il maggiore paese industriale del mondo. Inoltre, la sua posizione di avanguardia nella manifattura e il suo ruolo di potenza navale le garantivano la possibilità di affermarsi anche come principale potenza commerciale mondiale. Conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale sia gli scambi commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio d’altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Alla vigilia della prima guerra mondiale, era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale, ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo, ed era tallonata dalla Germania e dagli Stati Uniti. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Nell' industria siderurgica raggiunse il suo massimo intorno al 1870, ovvero quando produceva oltre metà della ghisa grezza mondiale. Nel 1890 però fu superata dagli Stati Uniti, e nei primi anni del Novecento anche dalla Germania. In quella del carbone, invece, mantenne la sua posizione di capofila in Europa. Produceva infatti un surplus, proveniente soprattutto dal bacino carbonifero nordorientale e dal Galles meridionale, destinato all’esportazione. Inoltre, la domanda di pompe efficienti e trasporti economici ad esso collegata stimolò lo sviluppo della macchina a vapore e delle ferrovie. Queste ultime conquistarono un'importanza cruciale derivante dai collegamenti con le altre industrie e dalla domanda estera di consulenti, capitali e materiali britannici. L'industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e dal legno al ferro rappresentò un forte stimolo per la crescita economica. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore sia di quelle a vela nel corso degli anni '50 dell' '800. Nonostante questi risultati impressionanti, il ritmo e la misura dell’industrializzazione britannica non devono essere sopravvalutati: verso la metà del XIX secolo, l’agricoltura era ancora il settore che impiegava il maggior numero d’unità lavorative, seguita al secondo posto dai servizi domestici. L’apice della supremazia industriale venne raggiunto solo tra il 1850 e il 1870, ma successivamente il paese non poteva conservare la propria posizione di predominio, man mano che altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano ad industrializzarsi. Inoltre, considerate le immense risorse e la rapida crescita demografica degli Stati Uniti e della Russia, questi due paesi finirono per superare la piccola nazione insulare in termini di prodotto complessivo. Molte sono state le ipotesi addotte a spiegare il declino relativo del Regno Unito: per alcuni studiosi, i problemi possono essere dipesi, seppur marginalmente, dalla disponibilità di risorse naturali e dall'accesso alle materie prime. I giacimenti nazionali di metalli non ferrosi (rame, piombo e stagno) si esaurirono gradualmente o non furono più in grado di competere con i prezzi più bassi degli stessi materiali importati dall’estero. Un’altra possibile causa fu il fallimento della strategia imprenditoriale. Gli imprenditori del tardo periodo vittoriano non esibirono lo stesso dinamismo dei loro predecessori e la loro risposta alle nuove tecnologie fu lenta i incompleta. Il rallentamento industriale e l'insufficienza della classe imprenditoriale possono essere ascritti all'arretratezza del sistema educativo britannico: l'Inghilterra fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti, presupposto fondamentale per la formazione di una forza lavoro specializzata. Le poche grandi Università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica. In aggiunta, di tutti i maggiori paesi, la Gran Bretagna era quello maggiormente dipendente dalle importazioni e dalle esportazioni per il proprio benessere. Essa dipendeva dall’economia internazionale per la propria sopravvivenza in misura maggiore di paesi anche più piccoli. Possedeva la flotta mercantile di gran lunga più imponente e aveva investito molto all’estero, ricavando ingenti quantità di valuta estera. Fin dall’inizio del XIX secolo, nonostante l’importanza delle industrie che producevano per le esportazioni, aveva una bilancia commerciale “sfavorevole” o negativa. Il deficit era coperto dagli utili della marina mercantile e dagli investimenti. Nella seconda parte del secolo, il ruolo centrale di Londra nel sistema bancario e assicurativo internazionale gonfiò questi ricavi invisibili. Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro-capite dei cittadini britannici aumentò, la distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni d’assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa. Gli Stati Uniti L’esempio più spettacolare che rapida crescita economica nazionale nell’Ottocento è offerto dagli Stati Uniti. Nel 1870, la popolazione era cresciuta fino a quasi 40 milioni superando qualsiasi altro paese europeo. Sebbene l'America beneficiasse dell'immigrazione europea, gran parte della crescita demografica fu una conseguenza del tasso elevato di incremento naturale. La politica americana di quasi illimitata immigrazione, fino a dopo la prima guerra mondiale, conferì un'impronta definitiva alla vita della nazione. Il numero annuo di immigranti crebbe rapidamente, fino ad arrivare al milione di abitanti dei primi anni del XX secolo. Fino all'ultimo decennio dell'Ottocento la maggioranza proveniva dall'Europa nordoccidentale: intorno al 1900, però, gli elenchi cominciarono ad essere dominati da Italiani, Tedeschi, Olandesi e cittadini dell'Europa orientale. Reddito e ricchezza crebbero ancora più rapidamente. Fin dall’epoca coloniale, la Alla fine del secolo, attorno al 1890, la forza lavoro non agricola superò quella agricola, il reddito dell'industria manifatturiera cominciò a superare quello del settore agricolo e gli Stati Uniti divennero la maggior nazione industriale al mondo. Il Belgio La prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico fu quella che nel 1830 assunse il nome di Regno del Belgio. Le ragioni della rapida imitazione dell'esempio inglese vanno ricercate: - nella lunga tradizione industriale; le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno, Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad assimilare le tecniche commerciali e finanziare italiane nel basso medioevo. Pur avendo dovuto sopportare le conseguenze del dominio spagnolo, nel corso del XVIII secolo l’economia della regione si risollevò sotto l'amministrazione austriaca. Nelle Fiandre nacque un’importante industria rurale manuale del lino, mentre nello Hainant e nella Valle del Sambre-Mosa si sviluppò l'estrazione del carbone; - nelle risorse naturali belghe, che erano molto simili a quelle britanniche. Il paese possedeva giacimenti carboniferi facilmente accessibili e , nonostante la ridotta dimensione del suo territorio, fu in grado di produrre più carbone di qualunque altro paese del continente. Era provvisto anche di giacimenti di minerale ferroso e non mancava di piombo e zinco; - nelle infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e capitali stranieri, e della posizione di favore goduta in certi mercati esteri, in particolare quelli francesi. Il processo iniziò sotto l’ancien regime ed accelerò nel periodo della dominazione francese. La famiglia Biolley e Louis Ternaux si dedicarono all'industria della lana e attirarono altri immigrati tra cui William Cockerill, un abile meccanico, che aprì la sua officina per la fabbricazione di macchine filatrici. Nel 1720 l'irlandese O' Kelly costruì la prima pompa Newcomen sul continente per una miniera di carbone situata nei pressi di Liegi. Nel 1791 i fratelli Perier installarono la prima macchina sul modello di quella di Watt. Altre macchine di quel tipo venivano impiegate nelle miniere di carbone, che ne divennero le maggiori utilizzatrici, ma anche nelle industrie tessili e nelle ferriere. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese in generale. La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi, la cui costruzione era stata intrapresa sotto l’ancien regime ma era proseguita con i governi successivi, facilitò enormemente questo traffico. I capitalisti francesi giudicavano il carbone belga un investimento promettente. I grandi boom industriali degli anni trenta e quaranta e persino negli anni settanta, quando la produzione di carbone ebbe un’impennata, videro l’apertura di nuove miniere in Belgio con capitali francesi. L’industria cotoniera crebbe invece intorno a Gand. Già principale mercato dell'industria rurale del lino delle Fiandre, la città vide la fondazione, a partire dagli anni settanta del XVIII secolo, di diverse fabbriche di calicò dove non si faceva uso di energia meccanica. Gli incerti della guerra e ancor più la pace che seguì esposero l’industria a violente fluttuazioni che causarono il fallimento di molti imprenditori, l’industria stessa però sopravvisse e crebbe. I telai meccanici per la tessitura comparvero negli anni trenta, e alla fine di quel decennio l’introduzione della filatura meccanizzata del lino, sempre a Gand, segnò la condanna dell’industria rurale del lino. Nella valle del Sambre-Mosa e nella regione delle Ardenne esisteva un'industria siderurgica tradizionale, fondata sull'uso del carbone di legna. Essa svolse un ruolo importante nello sforzo militare e industriale delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche , ma rimase legate alle tecniche tradizionali. Intorno al 1815 la ditta di Cockerill cominciò a produrre macchine a vapore accanto al macchinario tessile; a questo scopo furono assunti parecchi operai specializzati inglesi. I Cockerill annunciarono già nel 1820 il progetto di costruire altiforni a carbon fossile, e nel 1823 ottennero a tal fine una sovvenzione dal Governo olandese. Alla vigilia della rivoluzione belga, la ditta Cockerill era indiscutibilmente la maggior impresa industriale dei Paesi Bassi, dava lavoro a quasi 2000 operai e il suo sistema di integrazione verticale funse da modello per altre imprese. La rivoluzione belga provocò una depressione economica derivante dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo Stato. La depressione si esaurì in pochi anni, e intorno al 1835 si assistette ad un vigoroso boom industriale dovuto alla combinazione di due fattori: da una parte, la decisione del Governo di costruire un’estesa rete ferroviaria a spese dello Stato, e dall’altra un’importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della finanza. Nel 1822 Re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, la Societe generale de Belgique, dotata di proprietà statali per un valore di 20.000.000 di fiorini, e aveva investito una parte consistente delle proprie ricchezze nell’acquisto di sue azioni. I risultati che riuscì a conseguire furono modesti. Dopo la rivoluzione, però, con un nuovo Governatore nominato dalle nuove autorità statali, essa stimolò un boom di investimenti senza precedenti sul continente. Tra il 1835 e il 1838 furono create 31 nuove Societes anonymes, altiforni e fonderie, la Compagnia di navigazione a vapore di Anversa, raffinerie di zucchero e vetrerie. Nel 1835 un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale azionario, cioè la Banque de Belgique. La nuova banca non perse tempo a emularla come banca di investimento e in pochi anni fondò nuove imprese industriali e finanziarie, miniere di carbone, fabbriche tessili e raffinerie di zucchero Nel 1840 il Belgio era il paese più industrializzato del continente e, in termini pro capite molto vicino alla Gran Bretagna. Per tutto il secolo la sua prosperità continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano determinato la crescita: carbone, ferro, acciaio, metalli non ferrosi, industria meccanica e tessili. La sua industria continuò a dipendere pesantemente dall'economia internazionale: un partner particolarmente importante era la Francia. La Francia A partire dal XIX secolo, una vasta letteratura ha cercato dispiegare l'arretratezza e il ritardo dell'economia francese. Tuttavia, ricerche empiriche più recenti hanno dimostrato che le analisi precedenti si basavano su premesse erronee. In effetti, sebbene il modello di industrializzazione francese differisse da quello britannico e di altri paesi, il risultato fu non meno efficiente. E’ opportuno considerare i fattori determinanti della crescita economica : direttamente che indirettamente. L'industria siderurgica completò la transizione al carbon coke negli anni '50, adottò i processi Bessemer e Martin negli anni '60 e '70 per un acciaio a buon mercato. Il commercio estero, favorito dai continui miglioramenti nei trasporti e nelle comunicazioni, crebbe notevolmente. La depressione che ebbe inizio nel 1882 durò più a lungo e costò alla Francia più di tutte le precedenti nel XIX secolo. Molti fattori intervennero a complicarla e protrarla nel tempo: le disastrose epidemie che provocarono gravissimi danni all’industria del vino e a quella della seta per quasi due decenni; le ingenti perdite di investimenti esteri per colpa di governi inadempienti o del fallimento di imprese ferroviarie, il ritorno al protezionismo e le nuove tariffe doganali, l’aspra guerra commerciale con l’Italia dal 1887 al 1898. Il commercio estero ebbe una contrazione e con la perdita dei mercati esteri anche l'industria nazionale entrò in stagnazione. La prosperità tornò finalmente, poco prima della fine del secolo, con l'estensione dei bacini minerari della Lorena e l’affermarsi di nuove industrie come quella dell’elettricità, dell’alluminio, del nichel e delle automobili. La belle époque, come i francesi chiamano gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, fu quindi un periodo di prosperità materiale e fioritura culturale. Aspetti chiave del modello di crescita francese: Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con il più basso ritmo di urbanizzazione. La causa principale di questo fenomeno fu la lenta crescita demografica complessiva, ma non bisogna trascurare la percentuale di forza lavoro impiegata nell’agricoltura e la dimensione dell’impresa industriale. Per quanto riguarda la dimensione e la struttura dell’impresa, la Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. Queste aziende si concentravano nei settori estrattivo, metallurgico e tessile. Tra le aziende di dimensioni ridotte, quelle con meno di dieci operai, si concentravano le tradizionali industrie artigianali, quali quella alimentare, dell’abbigliamento e della lavorazione del legno, mentre quelle con oltre 100 operai appartenevano di regola al settore industriale moderno: industrie chimiche, del vetro, della carta e della gomma, oltre che tessili, estrattive e metallurgiche. Non devono sfuggire due ulteriori caratteristiche della dimensione relativamente ridotta delle imprese francesi: l’alto valore aggiunto (articoli di lusso) e la dispersione geografica. Invece delle poche colossali conurbazioni dell'industria pesante tipiche della Gran Bretagna e della Grermania, la Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. Questa dispersione era determinata in parte dalla natura delle fonti energetiche a disposizione. La Francia era, tra tutti i paesi della prima ondata industriale, quello meno ricco di carbone. Nella prima metà del XIX secolo le miniere più importanti erano quelle situate nelle regioni collinari del centro e del sud del paese, distanti dai mercati e difficili da raggiungere. Fu tuttavia proprio giovandosi di queste risorse che che sviluppò la fusione del ferro mediante il coke. Negli anni '40, il bacino carbonifero del nord, prolungamento di quello belga e tedesco, cominciò ad essere sfruttato per alimentare la crescita dell'industria moderna dell'acciaio. Per ovviare alla scarsità di carbone si affidò all'energia idraulica. Grazie ai miglioramenti tecnologici, tra cui l'introduzione della turbina idraulica, questo tipo di energia rimase concorrenziale rispetto al vapore. Le caratteristiche dell’acqua come fonte di energia ponevano però forti limitazioni al suo impiego. I siti migliori erano generalmente molto distanti dai centri abitati. L’energia idraulica, perciò, nonostante tutta la sua importanza per l’industrializzazione francese, contribuì ad imporre un certo modello: aziende di piccole dimensioni, dispersione geografica e limitata urbanizzazione. La Germania Fra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo Stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. Solo in Renania, Sassonia e Slesia esistevano piccole concentrazioni industriali di tipo artigianale e protoindustriale. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico e l'esistenza di numerose entità politiche diverse, con sistemi monetari separati, politiche commerciali distinte e altri impedimenti agli scambi commerciali erano causa di ulteriori ritardi. Tuttavia, alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Impero tedesco unificato era la più potente nazione industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e derivati, dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La Germania era all’avanguardia nella produzione di vetro, strumenti ottici, metalli non ferrosi, tessili ed altri prodotti di manifattura. Possedeva inoltre una delle reti ferroviarie più dense, ed aveva un grado elevato di urbanizzazione. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in 3 periodi distinti: Il primo, che si estende dall'inizio del secolo alla costituzione dello Zollverein nel 1833, registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in Gran Bretagna, Francia e Belgio. Nel secondo, tra il 1830 e il 1870, assunsero consistenza le fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. Finalmente, la Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua ad occupare ancora oggi. Un vivace afflusso di capitali, tecnologie e iniziative estere contrassegnò il secondo periodo. In quello finale, il quadro fu dominato dall’espansione dell’industria tedesca nei mercati esteri. La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone, aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi. Anche la Prussia adottò, in forma modificata, molte istituzioni legali ed economiche francesi. L'editto del 1807 abolì il servaggio, permise ai nobili di dedicarsi al commercio e all'industria e abolì inoltre la distinzione tra proprietà nobiliare e non nobiliare, dando vita così al libero scambio della terra. Editti successivi eliminarono le corporazioni e abrogarono altre restrizioni alle attività commerciali e formarono il sistema fiscale e snellirono l’amministrazione centrale. Altre riforme diedero alla attuano altre pratiche monopolistiche e restrittive della concorrenza. Tali contratti o accordi, contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico, che vietavano le associazioni finalizzate a limitare il commercio, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge. I cartelli limitano la produzione per accrescere i profitti, ma tale predizione non si accorda con l'esperienza tedesca di rapida crescita della produzione proprie nelle industrie da essi dominate. Questo paradosso fu risolto dopo la conversione di Bismarck al protezionismo, attraverso una combinazione con i dazi. Grazie ad essa, i cartelli furono in grado di mantenere sul mercato interno dei prezzi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri, persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione. CAPITOLO X MODELLI DI CRESCITA: RITARDATARI E ASSENTI Prima del 1850 nelle altre regioni europee esistevano singoli nuclei di industrie moderne, ma non si può dire che vi fosse in atto un processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo. La prima ondata di industrializzazione fu legata al carbone, come emerge dalle cifre relative al consumo pro capite, ma l'esperienza degli Stati Scandinavi e della Svizzera mostra che fu possibile sviluppare industrie sofisticate e raggiungere un alto tenore di vita senza disporre di questo tipo di risorsa a livello locale. Non esiste dunque un unico modello efficace di industrializzazione. La Svizzera Sebbene la Svizzera avesse già acquisito, nella prima metà del secolo, diverse importanti risorse tra cui un basso livello di analfabetismo nella popolazione adulta, la sua struttura economica era ancora preindustriale. Nel 1850 più della metà della forza lavoro era impiegata soprattutto in attività agricole e la maggioranza degli addetti dell’industria lavorava in casa o in piccole officine non meccanizzate. Il paese, inoltre, era appena agli inizi dell'età delle ferrovie e non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, ad un’effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e ad uno standard uniforme di pesi e misure. Paese di estensione e popolazione limitate, la Svizzera è povera di risorse naturali, ad eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è priva di carbone. Le montagne precludono la coltivazione e rendono inabitabile 1/4 del territorio. Nonostante tutti questi svantaggi, gli svizzeri riuscirono a raggiungere all'inizio del XX secolo uno dei livelli più alti del mondo. Come è stato possibile? Il successo svizzero sulla scena internazionale fu dovuto ad un’insolita combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato di questa combinazione furono prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto, quali orologi, formaggi, cioccolato e macchinari complessi. Alta intensità di lavoro significava soprattutto alta intensità di lavoro specializzato: esisteva una forza lavoro abile, adattabile e disposta a lavorare a salari bassi. A ciò si aggiunse il contributo apportato dal famoso Istituto svizzero di tecnologia, fondato nel 1851, nel quale si formarono intelligenze addestrate alla risoluzione dei problemi tecnici dell'epoca. Il Paese poi possedeva già dal 1700 un’importante industria tessile cotoniera basata su lavorazioni artigianali e sul lavoro a tempo parziale. Nell'ultimo decennio del secolo l'industria della filatura del cotone fu virtualmente annientata dalla concorrenza britannica. Dopo gli alti e bassi del periodo napoleonico, l'industria si riprese e riuscì a prosperare. La combinazione di tecnologie usate era insolita: la filatura era meccanizzata (energia idraulica) e si avvaleva del lavoro di donne e bambini, mentre la tessitura era manuale. Ciò fu possibile in quanto gli Svizzeri si concentrarono sulla produzione di tessuti di alta qualità e ricamati e migliorarono lo stesso telaio manuale incorporando elementi di quello Jacquard. Anche l’industria della seta contribuì alla crescita economica, attraverso un processo di ammodernamento tecnologico. Le industrie della lana e del lino, infine, erano di piccole dimensioni e si dedicavano anch'esse alla realizzazione di prodotti di qualità. Il settore tessile dominò le esportazioni per tutto il secolo, ma alla vigila della Prima Guerra Mondiale fu sostituito dall’industria meccanica, dalla fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi, di prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone, evitò di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni, affidandosi all’importazione di materie prime dall’estero. Sviluppò invece un’importante industria di trasformazione dei metalli a partire dagli anni '20, che arrivò a comprendere la fabbricazione di ruote idrauliche, turbine, ingranaggi, pompe. Gli ingegneri svizzeri contribuirono alla crescita dell'industria con molte importanti innovazioni, in particolare nel settore idroelettrico. L’industria casearia, si trasformò da un’attività artigianale ad un processo di fabbrica. Inoltre, sviluppò la produzione di latte condensato (su brevetto americano) e diede origine alla produzione di cioccolato e quella di alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, quella della manifattura di orologi, fu caratterizzata dal lavoro manuale ad altissima specializzazione e da una minima divisione del lavoro. Sebbene furono inventate delle macchine per la produzione di parti standardizzate e intercambiabili, l’assemblaggio finale rimase manuale. L’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione. Tra il 1859 e il 1860, dopola scoperta dei coloranti artificiali, due ditte di Basilea cominciarono a produrne per rifornire l'industria locale dei nastri. Non potendo competere con le industrie tedesche nella produzione su grande scala, si specializzò in prodotti esotici e di prezzo elevato, nonchè in specialità farmaceutiche. Le ferrovie si rivelarono un cattivo affare: gli investitori locali presagirono la possibilità di fallimento e si dimostrarono riluttanti a impegnarsi, preferendo quelle statunitensi e lasciando le proprie a disposizione di capitalisti stranieri (in particolare francesi). La costruzione ebbe inizio negli anni '50, ma già negli anni '90 gli alti costi di realizzazione e gestione della scarsa densità di traffico fecero registrare bancarotta. Il governo le rilevò dai rispettivi proprietari nel 1898 e poco dopo ne intraprese l'elettrificazione. I Paesi Bassi e la Scandinavia Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svezia dopo aver perso terreno rispetto ai paesi più avanzati nella prima metà del secolo, registrarono un rapido balzo in avanti nella seconda, in particolare negli ultimi 3 decenni. Caratteristiche comuni: contesto di prosperità generale, caratterizzato da prezzi in crescita e da una domanda sostenuta, le massicce importazioni di capitali in Scandinavia e infine la rapida affermazione dell’industria elettrica, che permise lo sviluppo di industrie per la fabbricazione di metalli e macchinari senza disporre di carbone o di industrie metallurgiche importanti. Risorse naturali: la Svezia presentava ricchi giacimenti di ferro, fosforo, metalli non ferrosi, vaste distese di foreste da legname ed energia idraulica. Anche la Norvegia possedeva molto legname, alcuni giacimenti di metalli ed un enorme potenziale di energia idraulica. Quest'ultima fu un fattore significativo per lo sviluppo di entrambi i paesi, soprattutto dopo il 1890, con l'imbrigliamento dell'energia idroelettrica. Danimarca e Paesi Bassi erano quasi privi di energia idraulica, ma avevano a disposizione un ammontare non trascurabile di energia eolica L’Impero austro-ungarico L’Austria-Ungheria, ossia le terre sottoposte fino al 1918 al dominio asburgico, si è attirata la reputazione di arretratezza economica relativamente al XIX secolo. Questo marchio fu in parte conseguenza del fatto che alcune porzioni dell’impero erano effettivamente arretrate, e in parte dell’erronea associazione tra risultato economico e fallimento politico (lo smembramento dell’Impero dopo la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale). Tuttavia, la causa principale di questa incomprensione del reale risultato economico è l'assenza di ricerche sufficientemente documentate. Studi recenti, però, ci permettono di offrire un quadro più equilibrato dell'industrializzazione nei territori asburgici. L'impero, con le province occidentali (Boemia, Moravia e Austria) molto più avanzate economicamente rispetto a quelle orientali, era caratterizzato da profonde diversità regionali. Nelle province occidentali, inoltre, i primi segni di una crescita economica moderna potevano essere osservati già nella seconda metà del XVIII secolo. Altri fattori importanti da considerare sono la topografia, che rendeva difficili e costosi sia i trasporti interni che internazionali, e la scarsità delle risorse naturali. Gli esordi settecenteschi riguardano le industrie tessili, siderurgiche, del vetro e della carta che nacquero sia in Austria che in Boemia. Nel dettaglio, predominavano le industrie del lino e della lana, ma esisteva anche un embrione di industria cotoniera. La tecnologia impiegata fu dapprima di tipo tradizionale, con il sistema della lavorazione a domicilio. La meccanizzazione ebbe inizio nell'industria cotoniera alla fine del secolo, per poi diffondersi in quella laniera nei primi decenni del secolo successivo e in quella del lino con maggiore lentezza. La crescita economica dell’Austria ha incontrato molti ostacoli, tra cui la difficile conformazione del territorio, le istituzioni sociali avverse alla crescita, la scarsità delle risorse e la persistenza del servaggio fino al 1848. Con la sua abolizione, i contadini ottennero la libera proprietà della terra, e alle tasse pagate fino a quel momento ai signori feudali si sostituirono quelle dovute allo Stato. Grazie a questo provvedimento si registrò un miglioramento della produttività agricola. L’abolizione della frontiera doganale tra la metà austriaca e quella ungherese dell’Impero nel 1850 è stata vista da alcuni come un progresso e da altri come una perpetuazione dello status coloniale della metà orientale. Un altro ostacolo fu la politica commerciale estera della monarchia, che rimase rigidamente protezionistica per tutto il secolo. Le tariffe elevate limitavano non solo le importazioni ma anche le esportazioni, in quanto le industrie protette, caratterizzate da costi di produzione elevati, non erano in grado di competere nei mercati mondiali. La posizione geografica e la topografia dell’Impero contribuivano alla sua posizione modesta nel commercio internazionale, e l’unione doganale interna che abbracciava aree sia agricole che industriali controbilanciava l’accesso limitato ai mercati esteri e alle fonti di approvvigionamento. La politica commerciale deve tuttavia essere considerata una delle cause della situazione economica mediocre dell’Impero. Una delle ragioni della lenta crescita e dell’ineguale diffusione dell’industria moderna furono i livelli di istruzione e di analfabetismo, caratteristiche fondamentali del capitale umano. Nonostante gli ostacoli naturali e istituzionali, industrializzazione e crescita economica caratterizzarono la realtà austriaca per tutto l’Ottocento e quella ungherese nella seconda metà del secolo. In Ungheria, dopo la conquista dell'autonomia, la produzione industriale crebbe a ritmi ancora più elevati. I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppo economico dell’Impero. Poiché gran parte del paese era montagnoso, il trasporto terrestre era costoso e quello per via d’acqua inesistente nelle regioni montane. L’Austria-Ungheria disponeva di pochi canali. Solo a partire dagli anni '30, con l'avvento della navigazione fluviale a vapore, i corsi d'acqua poterono essere usati per la navigazione. Le prime ferrovie furono localizzate nell’Austria propriamente detta e in Boemia: esse consolidarono la divisione geografica del lavoro, già avviata con l'unione doganale, e furono utilizzate principalmente per il trasporto del grano e della farina. Il commercio di quest'ultima permise all'Ungheria di avviare l'industrializzazione: nella seconda metà del secolo, Budapest divenne il maggior centro europeo per la trasformazione del grano e cominciò a produrre ed esportare macchine per la macinatura. Inoltre, si dedicò anche alla produzione di beni di consumo, quali zucchero di barbabietola, frutta, birra e alcolici. L’Impero possedeva anche industrie pesanti (nella regione alpina esisteva un' industria siderurgica alimentare dal carbone di legna) che però scomparvero gradualmente con l’avvento della fusione del minerale ferroso mediante carbon coke. In Slesia e Boemia, più ricche di carbone e lignite rispetto al resto dell'Impero, industrie metallurgiche moderne cominciarono a svilupparsi a partire dagli anni '30. Esse comprendevano stabilimenti per la produzione di ghisa grezza e per la lavorazione del metallo, oltre a officine meccaniche e fabbriche produttrici di macchine utensili. Sorsero anche diverse industrie chimiche. L’Europa meridionale e orientale Caratteristiche comuni di questi paesi furono: l’insufficiente grado di industrializzazione fino al 1914, con conseguenti bassi livelli di reddito pro capite ed un’elevata incidenza di povertà, i livelli bassi di capitale umano, l’assenza di una riforma agraria significativa che incidesse sulla produttività ed infine il fatto che tutti furono soggetti a regimi autocratici, autoritari, corrotti e inefficienti. economicamente avanzate, centri di importanti industrie e traffici commerciali. Vennero separate dal resto del Paese dalle alte barriere tariffarie austriache. Il Regno di Sardegna era l'unico stato indipendente, ma languiva nelle acque stagnanti del feudalesimo: i proprietari terrieri non avevano interesse a migliorare i propri possedimenti e la popolazione era completamente analfabeta e viveva in condizioni di totale arretratezza. Il Regno dei Savoia apparteneva culturalmente e economicamente alla Francia. Genova aveva resistito per secoli come repubblica indipendente fino all’avvento di Napoleone. Il Piemonte era una continuazione geografica della pianura padana: prima del 1850 possedeva poche industrie, ad eccezione di alcuni setifici e qualche stabilimento di metallurgia, ma sotto la guida di diversi intraprendenti proprietari terrieri la sua agricoltura divenne la più avanzata e prospera della penisola. I differenziali economici regionali erano in Italia particolarmente marcati. Fu nel Nord, economicamente più progredito, che iniziò il movimento di unificazione. Dopo le rivoluzioni fallite e i moti degli anni '20-'30 e del 1848-49 repressi dagli Asburgo, nel Regno di Sardegna venne alla ribalta un personaggio eccezionale, il conte Camillo Benso di Cavour: proprietario terriero e imprenditore agricolo progressista, Ministro della Marina, del Commercio e dell’Agricoltura e dal 1852 anche primo ministro, sottolineò che l’ordine finanziario e il progresso economico erano le due condizioni indispensabili affinché il Piemonte potesse assumere la guida della penisola italiana. Per conseguire questi risultati egli riteneva necessaria l’assistenza economica degli altri paesi, e perciò anche la presenza di capitale straniero. Negoziò trattati commerciali con tutti i più importanti paesi commerciali e industriali d’Europa. Tra il 1850 e il 1855 le esportazioni crebbero e le importazioni triplicarono. Per il resto del decennio, la Francia costruì ferrovie, fondò banche e altre società a capitale azionario e investì nel crescente debito pubblico del regno. Una parte di quest'ultimo era stata contratta per liquidare le guerre del 1848-49, mentre l'altra per preparare lo scontro successivo nel 1859, in cui il Regno di Sardegna,appoggiato militarmente e finanziariamente proprio dalla Francia ,sconfisse l'impero austriaco e spianò la strada alla formazione del regno unificato. L’unificazione alleviò la frammentazione del mercato, che aveva ostacolato lo sviluppo economico, ed estese la legislazione progressista e il sistema amministrativo piemontese a tutto il territorio. Tuttavia permanevano il carattere arretrato delle istituzioni, la povertà di risorse naturali e l'assenza di trasporti. Gli sforzi di Cavour si rivelarono vani: i suoi successori infatti si dimostrarono manchevoli della sua comprensione delle questioni finanziarie ed economiche e l’Italia continuò a dipendere dagli investimenti esteri. Il Paese fu inoltre trascinato in una drammatica guerra tariffaria con la Francia, con conseguenze disastrose per entrambe le economie. Alla fine degli anni '90 nuove immissioni di capitali esteri tedeschi facilitarono una modesta accelerazione della crescita industriale, che durò fino a dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. La pressione demografica, infine, determinò una massiccia emigrazione specialmente in direzione di Stati Uniti e America Latina. L’Europa sudorientale I cinque piccoli paesi che occupavano l’angolo sudorientale del continente europeo (Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia) erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti avevano conquistato l’indipendenza dall’Impero Ottomano dopo il 1815, ma l’eredità del dominio ottomano si faceva sentire pesantemente sulle loro economie. All’inizio del XX secolo erano tutti paesi rurali e agrari. La tecnologia era primitiva, la produttività e il reddito erano bassi. Nonostante la loro povertà, l’alta natalità combinata con una mortalità in declino provocò un’esplosione demografica a partire dalla metà del XIX secolo. L’aumento della pressione demografica portò alla crescita del prezzo della terra coltivabile, alla fame di terra, all’emigrazione verso aree urbane e i paesi più sviluppati dell’occidente e ad un certa emigrazione verso i paesi d’oltremare. Le risorse naturali erano insufficienti ad alleggerire la pressione demografica: gran parte della terra era montagnosa e inadatta alla coltivazione. La Romania, pur avendo una maggiore estensione di terra arabile, possedeva esclusivamente tecnologie primitive. Esistevano alcuni piccoli giacimenti di carbone, insufficienti però a rendere uno qualsiasi di questi paesi indipendente dalle importazioni, nonostante una domanda interna molto ridotta. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale esistevano anche alcuni piccoli giacimenti di metalli non ferrosi, il cui sfruttamento era però appena iniziato, con capitale straniero. In accordo con il loro carattere agrario, il commercio estero consisteva in esportazioni di prodotti agricoli, come i cereali di Bulgaria eRomania, e importazioni di manufatti (beni di consumo). La Serbia, a causa di una inferiore disponibilità di terra arabile, esportava suini e prugne fresche e secche. La Grecia, penalizzata dalla natura montagnosa del proprio territorio, esportava uva, vino e brandy. In contrasto con la lenta diffusione della tecnologia agricola e industriale, la tecnologia istituzionale delle banche e dell’indebitamento estero si diffuse con rapidità. Nel 1885 gli Stati balcanici avevano la loro banca centrale con potestà esclusuva di emissione di banconote. Le banche a capitale azionario e le altre istituzioni finanziarie conobbero un rapido sviluppo, ma senza forti legami con la finanza industriale. I prestiti esteri furono destinati alla costruzione delle ferrovie e altri tipi di infrastrutture, in genere per conto dello Stato. Nel 1898 l'indebitamento estero della Grecia assunse dimensioni tali che il paese dovette accettare che una commissione finanziaria internazionale ne sorvegliasse le finanze. In ciascuno dei paesi si sviluppò dopo il 1895 un modesto settore industriale, costituito soprattutto da industrie produttrici di beni di consumo. La Russia imperiale All’inizio del XX secolo l’Impero russo era considerato una grande potenza grazie all’estensione del suo territorio e della sua popolazione. In termini economici complessivi, la Russia occupava una posizione ragguardevole: era 5 al mondo in quanto a produzione industriale totale e seconda nella produzione petrolifera, possedeva grandi industrie tessili (cotone e lino) e industrie pesanti. Tuttavia,questi grandi valori assoluti possono condurci fuori strada nella valutazione della sua reale forza economica: è necessario ricordare che la Russia era un paese ancora prevalentemente agricolo. L'agricoltura, infatti, dava da vivere ad oltre 2 terzi della popolazione e produceva più del 50 x 100 del reddito nazionale. La sua produttività era ostacolata da una tecnologia primitiva, dalla scarsità di capitali e dall'ostacolo istituzionale del servaggio legalizzato, rimosso solo nel 1961. Gli inizi dell’industrializzazione sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande. Le prime imprese industriali erano iniziative isolate legate ai bisogni dello Stato russo. L'industrializzazione divenne un fenomeno visibile solo a partire dagli anni '30 dell'Ottocento: gli operai era nominalmente di prodotto effettivo. Essa ebbe un effetto doppiamente benefico: da un lato assicurò al Governo un’entrata fissa, dall’altro garantì un migliore uso della terra, in quanto chi non riusciva a massimizzare i profitti l'avrebbe persa o sarebbe stato costretto a vederla. Il Governo intraprese la creazione di un nuovo sistema bancario ispirandosi al National Banking system degli Stati Uniti. Secondo questo sistema, le banche potevano essere fondate usando titoli governativi a garanzia dell’emissione di banconote, obbligatoriamente convertibili in moneta metallica. Con la rivoluzione di Satsuma, una sollevazione antigovernativa guidata da ex samurai, la dirigenza centrale fu spinta a gonfiare ulteriormente la circolazione sia di denaro governativo inconvertibile che di banconote, causando un'inflazione selvaggia. Il ministro delle finanze, il Conte Matsukata, stabilì che il difetto era nel sistema bancario e dopo avere realizzato una drastica deflazione monetaria, nel 1881 ricostruì la struttura bancaria. Seguendo il modello della Banque Nationale de Belgique, creò una nuova banca centrale, la Banca del Giappone, che ottenne il monopolio dell’emissione di banconote, mentre le banche nazionali persero i loro diritti di emissione e furono trasformate in normali banche commerciali di depositi sul modello inglese. Introdusse l’intera gamma di industrie occidentali. A questo fine, costruì e amministrò cantieri navali, arsenali e fonderie, officine meccaniche, fabbriche per la produzione di tessili, vetro, prodotti chimici e cemento. Inoltre, ospitò tecnici occidentali per istruire la forza lavoro locale e la gerarchia manageriale nell'uso delle nuove attrezzature. Tuttavia, si trattava di un'impresa che poteva essere realizzata solo nel lungo termine. Il Giappone disponeva di limitate risorse naturali e di una bassa percentuale di terra arabile data la natura del territorio. Il riso era la coltivazione di base e la componente principale dell'alimentazione. Tuttavia, fu proprio il settore agrario a dover sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a finanziare le importazioni. Le tradizionali industrie tessili della seta e del cotone ebbero un'evoluzione diversa: la prima sopravvisse anche grazie all'introduzione di macchine francesi,ma dovette fare i conti con gli alti dazi sui tessuti imposti dai paesi che ne costituivano i principali mercati, mentre la seconda, subito dopo l’apertura degli scambi, fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati provenienti dall’Occidente. L’altra grande fonte di esportazioni agricole era il tè, ma il suo peso relativo diminuì comunque gradatamente con la crescita della popolazione e del reddito nazionale. Lo stesso si verificò ed in misura ancora più accentuata con il riso. Sebbene l'introduzione delle tecnologie occidentali fosse dovuta all'iniziativa governativa, l'impresa privata non era proibita. Infatti, non appena le miniere e gli altri impianti moderni cominciarono a funzionare in maniera soddisfacente, il Governo le vendette a società e imprese private. L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi: nonostante l'impiego di macchinari semplici e di una forza lavoro a buon mercato e non specializzata,conquistò il mercato interno e quelli di Cina e Corea negli anni '90 del XIX secolo. Le industrie pesanti, ovvero quella siderurgica, dell'acciaio,meccanica e chimica, ebbero uno sviluppo più lento permesso da ingenti sussidi e protezioni tariffarie. La Prima Guerra Mondiale accrebbe in misura notevole la domanda dei loro prodotti e aprì nuovi mercati. Il disavanzo della bilancia commerciale negli ultimi anni prima della guerra era stato ingente, ma l’accresciuta domanda del periodo bellico permise ai produttori giapponesi di penetrare rapidamente nei mercati esteri. Entrando in guerra a fianco degli alleati, il paese riuscì a impadronirsi delle colonie del Pacifico e delle concessioni cinesi. La transizione economica ebbe anche conseguenze politiche. Nel 1894-95 il Giappone sconfisse la Cina entrando nel novero delle potenze imperialiste con l'annessione di Taiwan, e successivamente la Russia sia in mare che in terra affermando così la propria influenza. Questa impresa garantì al paese l'acquisizione della metà meridionale dell'isola di Sakhalin, delle concessioni russe su Port Arthur e della penisola cinese di Liaotung. CAPITOLO XI SETTORI STRATEGICI Per comprendere adeguatamente il processo di industrializzazione è necessario esaminare in maggior dettaglio tre aree di attività: l'agricoltura, il sistema bancario e la finanza, e il ruolo dello stato negli affari economici. Agricoltura Uno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatosi nel XIX secolo fu la diminuzione del peso relativo del settore agricolo. Ciò non vuol dire che l’agricoltura cessò d’essere importante. Presupposto di tale declino furono i progressi registrati nella produttività agricola: la capacità di una società di elevare i propri standard di consumo al di sopra di un livello di sussistenza e di trasferire una parte significativa della forza lavoro in altre attività dipende proprio da un aumento della produttività agricola . Un incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in 5 modi potenziali: 1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione in grado di dedicarsi ad occupazioni non agricole; 2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a sostentare la popolazione non agricola; 3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle industrie manifatturiere e dei servizi; 4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale, il settore agricolo può fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura; 5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria. All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era già la più produttiva d’Europa. Questo dato ebbe uno stretto rapporto con la posizione di avanguardia del paese nello sviluppo del sistema industriale. La popolazione agricola offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. Analogamente, l’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e d’alcune materie prime, come la lana, l’orzo e il luppolo per l’industria della birra. Nella prima metà del XVIII secolo essa aveva prodotto persino un surplus di cereali per l’esportazione. Il periodo tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu la grande età dell’agricoltura: l’agricoltura britannica raggiunse, contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I in investimenti industriali, o nella realizzazione d’infrastrutture. Infine, l’industria vinicola era una delle voci principali delle esportazioni. In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una gran varietà caratterizzava la condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi. A sud-ovest erano numerosi i piccoli proprietari contadini sul genere francese. A nord e a est, le grandi tenute coltivate da braccianti erano la regola. Tradizionalmente questi possedimenti erano stati esportatori di cereali in Europa occidentale dal '400: mantennero questo ruolo anche nel XIX secolo, fino al momento in cui le importazioni di grano americano e russo spinsero i prezzi al ribasso e determinarono il ritorno al protezionismo. L’emancipazione dei Servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti. Finchè i contadini rimasero nelle loro proprietà continuarono ad adempiere ai loro obblighi e ad esercitare i diritti consuetudinari, ma con la crescita graduale della popolazione e il rapido aumento della domanda di lavoro, la popolazione fu ridistribuita da oriente ad occidente. La forza lavoro agricola continuò a crescere fino al 1914. L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che della Svezia, ma non della Norvegia. In tutti questi paesi, il settore primario assicurò sia la quasi totalità dell’approvvigionamento alimentare che l’accresciuta disponibilità di manodopera per altri settori. Rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo Stato, all’accumulazione di capitali attraverso l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni. Ridottosi il commercio d’avena, la Svezia cominciò ad esportare carne e latticini. Il legname era una voce importante anche per le esportazioni norvegesi, superato però dall’industria della pesca. La quasi totalità delle esportazioni danesi, invece, consisteva di prodotti agricoli di alto valore aggiunto. La Finlandia, sottoposta allo zar di Russia come granducato, viene talvolta accomunata ai paesi scandinavi. A differenza di questi ultimi, però, essa non registrò alcun mutamento strutturale significativo nel corso del XIX secolo. Rimase un paese prevalentemente agricolo, con un’agricoltura poco produttiva e bassi redditi medi. La voce più importante nelle sue esportazioni era il legname. La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. All'inizio del XIX secolo la maggior parte della forza lavoro nella metà austriaca si dedicava ad attività agricole. La popolazione contadina rappresentava un mercato consistente per i tessili ed altri beni di consumo. La metà ungherese dell’Impero esportava prodotti agricoli, in particolare frumento e farina nella metà austriaca in cambio di manufatti. Il fallimento dell’Impero nel suo complesso nello sviluppo d’esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. La Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia non beneficiarono nel XIX secolo di una vera e propria riforma agraria. Con oltre metà della popolazione impiegata in agricoltura ancora all'inizio del XX secolo, la produttività e il reddito rimanevano tra i più bassi d'Europa. La popolazione non poteva rappresentare, in tali condizioni, un ricco mercato per l’industria, né rifornirla di capitali. Sebbene tutti e 4 i paesi esportassero frutta e vino, produzioni favorite dal clima, rimasero in parte dipendenti dalle importazioni per l'approvvigionamento di cereali. I piccoli paesi dell’Europa sud-orientale rimasero impantanati, in misura ancora maggiore rispetto a quelli del Mediterraneo, in una agricoltura arretrata e improduttiva, che non apriva mercati all’industria né assicurava un’eccedenza di generi alimentari, materie prime o lavoro per i mercati urbani. Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, a gran prevalenza rurale e agraria. L’agricoltura svolgeva in Russia un ruolo piuttosto differente rispetto all'Europa sudorientale o al Mediterraneo. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostentare il popolo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la spinta all’industrializzazione di fine Ottocento. La Russia stava seguendo una traiettoria di sviluppo economico simile a quella percorsa dalle nazioni dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo dì industrializzazione statunitense e nell’ascesa degli Stati Uniti al rango di potenza economica mondiale; essa forniva in abbondanza non solo i commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte delle esportazioni. Le colonie meridionali mandavano in Europa tabacco, riso e indaco in cambio di manufatti . Il New England e le colonie centrali scambiavano pesce, farina ed altri generi commestibili con lo zucchero e la melassa delle Indie Occidentali. Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il “re” delle esportazioni. Dopo la Guerra Civile, con l’apertura per mezzo delle ferrovie delle regioni occidentali oltre il Mississippi e il crollo dei noli di trasporto transoceanici, mais e frumento divennero le voci più importanti delle esportazioni. L’agricoltura americana fu orientata al mercato fin dall’inizio; nonostante esistessero casi di produzione domestica di articoli per la casa e di tessuti, gli agricoltori americani si rivolsero ben presto ad artigiani rurali e piccole industrie per gli utensili e gli altri manufatti. Prima della fine del secolo varie ditte di vendite per corrispondenza quali la Sears Roebuck e la Montgomery Ward scoprirono i vantaggi derivanti dalla fornitura alla popolazione rurale di beni di consumo standardizzati e prodotti in grandi quantità. Il rapido incremento naturale della popolazione rurale, fornì anche la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di manodopera fu integrata, soprattutto a partire dagli anni ottanta, da emigranti provenienti dall’Europa. Anche il settore agricolo dell’economia americana contribuì in maniera molto positiva alla trasformazione industriale degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria, il Governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle regioni al di là degli Appalachi e, dopo l’acquisto della Louisiana, della maggior parte del West. Fin dall'inizio il governo seguì una politica di libero mercato della terra: in un primo momento, i lotti minimi erano così estesi da scoraggiare individui con risorse modeste, ma con l'evoluzione verso lotti più piccoli e a prezzi ridotti si arrivò all'emanazione dell'Homestead Act del 1862, che accordava ai alcune funzioni di intermediazione non potevano supplire alla carenza di banche. Per ovviare a questo inconveniente, diversi imprenditori diedero vita a Parigi negli anni '30 e '40 a banche in commandite, che però non si rivelarono in grado di soddisfare la domanda di servizi bancari del paese. La Francia aveva comunque, nella prima metà del XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria, la haute banque parisienne, ovvero banche d’affari simili a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild fréres. Come a Londra, la principale attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio di valuta e lingotti, ma dopo le guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti governativi ed altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie. Dopo il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo impero l’anno seguente, Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli altri esponenti della haute banque con la creazione di nuovi istituti finanziari. Trovò volenterosi collaboratori nelle persone dei fratelli Emile e Isaac Pereire, che fondarono nel 1852 la Société générale de crédit fondier, un istituto di credito fondiario, e la Société générale de crédit mobilier, una banca d’investimento specializzata nel finanziamento di costruzioni ferroviarie. In seguito il Governo autorizzò la costituzione di altre banche a capitale azionario. Il sistema bancario francese della prima metà del XIX secolo,intralciato dal conservatorismo del governo e dalle politiche restrittive della Banca di Francia, non riuscì a realizzare tutto il suo potenziale di stimolo dello sviluppo economico; nella seconda metà del secolo il suo carattere fu un po’ più intraprendente ma senza eguagliare quello belga o quello tedesco. In Belgio, la Societe generale de Belgique e la Banque de Belgique favorirono l'industrializzazione del paese, ma furono poste in difficoltà dalla stessa ampiezza dei loro poteri, unita alla loro rivalità. Nel 1850 il governo creò la Banque nationale de Belgique come banca centrale con il monopolio dell'emissione di cartamoneta, permettendo alle altre banche e a quelle successivamente autorizzate di dedicarsi alle funzioni bancarie commerciali e di investimento. Gli Olandesi, invece, avevano perduto la posizione di preminenza nella finanza e nel commercio europei che avevano detenuto nel XVII secolo, ma conservavano riserve di potere finanziario. Quando nel 1814 il regno delle Province Unite prese il posto della repubblica olandese, la Nederlandsche bank si sostituì alla Banca di Amsterdam. Il sistema finanziario olandese comprendeva inoltre diverse solide banche private, le cui attività consistevano nella sottoscrizione di prestiti governativi, cambiavalute e agenti di sconto. Negli anni '50,dopo i successi della Societe generale de Belgique e del Credit mobilier, uomini d'affari olandesi si convinsero che istituzioni di questo genere potevano favorire l'industrializzazione del paese e proposero al governo la loro fondazione. Nel 1863 ne furono autorizzate 4, che parteciparono al decollo industriale olandese degli ultimi decenni del secolo. La Svizzera, che nel XX secolo si era affermata come grande centro finanziario mondiale, era molto meno importante prima del 1914. Ginevra era stata uno dei centri finanziari chiave dell'Europa del Rinascimento, ma le fondamenta della successiva grandezza furono poste nel corso dell'Ottocento. Negli anni '50,'60 e '70 furono create numerose nuove banche sul modello del Credit mobilier francese. Nella prima metà del XIX secolo in Germania non esisteva un vero e proprio sistema bancario. Gli stati sovrani, con i loro distinti sistemi monetari e di coniazione, impedivano l'affermazione di un sistema finanziario unificato. La Prussia, la Sassonia e la Baviera possedevano banche di emissione monopolistiche, che però erano controllate dai governi e si occupavano soprattutto delle finanze statali. Esistevano numerose banche private, in particolare nei centri commerciali di Amburgo, Francoforte, Colonia, Lipsia e Berlino, ma operavano come finanziatrici degli scambi locali e internazionali, o nell'investimento di capitali privati. A partire dagli anni '40, alcune di esse cominciarono a dedicarsi a operazioni di investimento, fondando o finanziando nuove imprese industriali, tra cui le costruzioni ferroviarie. L’aspetto distintivo del sistema finanziario tedesco, fu la banca “universale” o “mista” per azioni, impegnata sia in attività di credito commerciale a breve termine che in investimenti a lungo termine o in attività bancarie di promozione. Chiamate Kreditbanken, esse ripresero ed estesero le iniziative promotrici dei banchieri privati. Il primo esempio consapevole del nuovo tipo di banca fu la Bank fur Handel, fondata nel 1853. I suoi promotori avevano progettato di stabilirsi in quella città ma avevano ricevuto il rifiuto del Governo. In seguito avevano provato a stabilirsi nell’importante centro finanziario di Francoforte, ma erano stati respinti anche dal Senato della città libera, dominato da potenti banchieri privati locali. Il Governo del Granducato si rivelò più disposto a cooperare. La nuova banca seguì il modello del Crédit mobilier, dal quale ricevette assistenza tecnica e finanziaria. Di fronte al rifiuto del Governo prussiano di autorizzare statuti di società per azioni per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero alla società simile alla francese société en commadite, che non richiedeva l’autorizzazione da parte del Governo. Ne nacquero parecchie nel corso degli anni '50 e '60. Nel 1869, la Prussia adottò finalmente una legge modellata su quelle della Gran Bretagna e della Francia che liberalizzava la costituzione di società. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre 100 nuove Kreditbanken. La depressione che seguì nel 1873 ne eliminò la maggior parte, le più deboli e quelle più orientate alla speculazione; poi un processo di concentrazione e fusione, simile a quello che si verificò in Gran Bretagna, portò una decina di banche ognuna con una rete di filiali ed affiliate. Le più famose furono le “banche-D”, come la Deutsche Bank, con sede a Berlino. Esse non solo provvidero alle necessità dell’industria tedesca, ma facilitarono l’allargamento del commercio estero tedesco fornendo credito agli esportatori e ai commercianti stranieri. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione istituzionale, la Reichsbank fondata nel 1875. Anch’essa fu in parte una conseguenza della vittoria prussiana sulla Francia e dell’enorme indennità che questa fruttò. Essa era una semplice trasformazione della Banca di Stato prussiana, ma godeva del monopolio dell’emissione di cartamoneta e agiva come banca centrale. Lo sviluppo del sistema bancario tedesco nella seconda metà dell’Ottocento fu una delle più straordinarie concomitanze del rapido processo di industrializzazione. Furono molteplici gli elementi che contribuirono all’affermazione dell’industria tedesca, e quello stesso successo contribuì a sua volta al successo e alla prosperità del sistema bancario. All’inizio del XX secolo il sistema bancario tedesco era probabilmente il più potente al mondo. L'Austria sviluppò il proprio sistema bancario moderno nello stesso periodo della Germania. Aveva creato la Banca nazionale austriaca nel 1817, ma come istituto privilegiato nella gestione del caos della finanza pubblica dopo tedeschi questa volta: la Banca commerciale italiana a Milano e il Credito italiano a Genova. Entrambi gli istituti ebbero un ruolo importante nel boom industriale italiano degli anni precedenti la prima guerra mondiale. Negli anni '50, gli investitori francesi interessati alla fondazione di banche estesero all'Europa sudorientale la loro ricerca di concessioni, ma senza successo. Sia la Serbia che la Romania respinsero le offerte di fondare banche sul genere del Credit mobilier, ma nel 1863 quest'ultimo riuscì a concludere un accordo in tal senso col governo rumeno, la cui ratifica fu però bloccata dal parlamento. Solo nel 1881 i romeni ebbero una Societate de credit mobiliar sotto patrocinio francese. La guerra di Crimea denunciò l'arretratezza economica della Russia rispetto all'Occidente e spinse il governo zarista ad una campagna di costruzioni ferroviarie e all'emancipazione di servi. Essa condusse inoltre ad una revisione del sistema finanziario e bancario. La maggiore istituzione finanziaria era la Banca di stato, fondata nel 1860. Interamente di proprietà governativa, era sotto la supervisione del ministro delle finanze. Inizialmente non stampò banconote, ma quando il paese passò al gold standard nel 1897 ottenne il monopolio di emissione di cartamoneta. Essa controllava anche le casse di risparmio statali e creò la Banca fondiaria dei contadini, quella dei nobili e infine quella degli zemstva della città. Possedeva azioni della Banca persiana di prestito e sconto e della Banca russo-cinese, fondate per facilitare la penetrazione russa in questi paesi. Il sistema bancario comprendeva poi una varietà di piccoli istituti, come banche cooperative, comunali, di credito fondiario e banche commerciali per azioni. La prima di queste ultime fu la Banca commerciale privata di San Pietroburgo, fondata nel 1864. Un altro aspetto caratteristico di queste banche fu la misura dell'influenza straniera: molte di esse erano amministrate da francesi,tedeschi e britannici. Le banche per azioni russe, in collaborazione con le loro associate straniere, contribuirono notevolmente all'industrializzazione della Russia dopo il 1885. I finanzieri europei offrirono la loro esperienza nel settore anche ai paesi del Medio e Vicino Oriente. La prima banca a capitale azionario fondata in questa regione fu quella d'Egitto, che cominciò ad operare nel 1855. La sua attività suscitò l'opposizione dei banchieri privati francesi di Alessandria, che protestarono con il console ma senza successo. Un'evoluzione simile si registrò nell'impero ottomano: nel 1856 un gruppo di capitalisti britannici organizzò la Banca ottomana di Costantinopoli come banca di credito ordinario. Alcuni anni dopo, essa sollecitò la concessione di uno statuto che la proclamasse unica banca di emissione, ma i ministri dell'epoca volevano collegarsi al mercato finanziario francese e la obbligarono a fondersi con un gruppo francese in un nuovo istituto noto come Banque imperiale ottomane. Quest'ultima associava alle funzioni di banca centrale con monopolio dell'emissione di cartamoneta quelle di banca di credito ordinario e di investimento. Ad essa fu attribuito inoltre il compito di ritirare la cartamoneta e la moneta di cattiva lega e di finanziare il debito pubblico. Prosperò nei decenni prebellici. La Persia possedeva un'istituzione simile, la Banca imperiale di Persia, fondata con capitali britannici nel 1889. I promotori avevano progettato di usarla per finanziare le costruzioni ferroviarie, ma il governo russo, temendo una penetrazione britannica, esercitò pressioni diplomatiche sullo scià per evitarne la costruzione. Contribuì ben poco allo sviluppo economico del paese. A partire dagli anni '50, molte banche con statuti e capitali britannici furono fondate oltreoceano, soprattutto in India e America Latina e Asia. La loro funzione principale era il finanziamento degli scambi internazionali, ma si dedicarono anche alla distribuzione di titoli di società e governi stranieri. Negli Stati Uniti il sistema bancario ebbe nel XIX secolo una evoluzione variegata. Nei primi anni della repubblica il conflitto tra hamiltoniani, che propugnavano un ruolo forte del governo federale, e i jeffersoniani, che preferivano lasciare le scelte politiche ai singoli Stati, si riflesse in modo evidente nella storia del sistema bancario. Ebbero dapprima la meglio gli hamiltoniani, che strapparono al Congresso lo statuto della prima banca degli Stati Uniti; alla scadenza della statuto, però i sostenitori dei diritti degli Stati e delle banche statali, già numerosi e sospettosi di istituti di maggiori dimensioni, ne impedirono il rinnovo. Una seconda Banca degli Stati Uniti dovette sopportare la stessa sorte. Alcuni stati ammettevano una “libera attività bancaria”, altri invece gestivano banche di proprietà statale, altri ancora cercarono di proibire del tutto le banche. Durante la Guerra Civile, il Congresso istituì il National Banking System, che permetteva l’esistenza di banche federali a fianco delle banche statali. La concorrenza era sleale, in quanto il Congresso aveva imposto una tassa discriminatoria sull’emissione di banconote da parte delle banche statali, cosa che costrinse molte di esse a trasformarsi in banche nazionali. Sia il sistema bancario statale che quello federale subivano le conseguenze negative dell’eccessivo rigore delle leggi e dei regolamenti. L’istituzione di filiali era generalmente proibita. Le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale: ciò significava che l’ingente volume di importazioni ed esportazioni del paese era finanziato dall’Europa e dal numero relativamente modesto di banche d’affari private, che non erano ostacolate dalle restrizioni che colpivano le banche a capitale azionario. Alcuni ritenevano inoltre che l’assenza di una banca centrale esponesse maggiormente il paese al panico finanziario e alle depressioni che si verificavano con periodicità. Per porre rimedio a questo problema, nel 1913 il Congresso istituì il Federal Reserve System, che alleggerì le banche nazionali del compito di emettere banconote e diede loro la libertà di occuparsi di finanza internazionale. Il ruolo dello Stato Il mito del laissez-faire significa che lo Stato, oltre a promulgare e a far rispettare le leggi penali, si astiene da ogni interferenza nell’economia. Secondo il concetto marxista, il Governo agisce da “comitato esecutivo” della classe dominante, la borghesia. Il governo può svolgere una varietà di ruoli nelle questioni economiche: La sua funzione fondamentale nella sfera economica è la determinazione del contesto legale dell’iniziativa economica. Essa può variare da una politica radicale di non ingerenza ad una di totale controllo statale. La seconda tipologia d’intervento dello Stato nell’economia comprende le attività di promozione non immediatamente produttive. Esse includono i dazi, le esenzioni fiscali, i rimborsi e i sussidi, nonché i provvedimenti di apertura di uffici turistici e di immigrazione. Non tutte le attività che ricadono in questa categoria sono necessariamente favorevoli alla crescita. Simili a queste attività sono le funzioni di regolamentazione, che vanno dai provvedimenti volti a proteggere la salute e la sicurezza di specifici gruppi di lavoratori al controllo dettagliato dei prezzi, dei salari, della produzione. Lo scopo di queste norme può essere quello di favorire la crescita, ma più spesso l’obiettivo non è in rapporto con la crescita, e l’intenzione è di conduzione per proprio conto di una rete ferroviaria di base. Dopo il suo completamento, esso permise a società private di costruire delle diramazioni, ma quando queste si trovarono di fronte a problemi finanziari negli anni '70, le estromise previo rimborso. In Francia si svolse un lungo dibattito sulla questione della proprietà statale o privata: alla fine ebbero la meglio i sostenitori della proprietà privata, ma con numerose clausole che lasciarono ampio spazio all'iniziativa statale. Gli Stati tedeschi seguirono invece politiche variegate: alcuni costruirono per proprio conto, altri lasciarono spazio a società private. Successivamente, Bismarck istituì l'Ufficio imperiale delle ferrovie , la cui funzione era di rilevare le società private e di impiegare le ferrovie come strumento di politica economica, concedendo ad esempio tariffe di favore alle merci destinate all'esportazione. La politica ferroviaria dell’Impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali passò ad una preferenza per le società private. Negli Stati Uniti il governo federale lasciò la politica ferroviaria agli Stati fino alla guerra civile, ma subito dopo rilasciò vaste concessioni di terre a società private per stimolare la costruzione delle ferrovie transcontinentali. l’Ottocento sembra un secolo in cui lo Stato fu meno invadente che nei secoli precedenti, ma ciò non significa che esso non svolse alcun ruolo. CAPITOLO XII LA CRESCIA DELL’ECONOMIA MONDIALE L’importanza del commercio di lunga distanza crebbe enormemente nel corso del XIX secolo. Per tutto il secolo l’Europa controllò almeno il 60% del totale sia delle importazioni che delle esportazioni. Il periodo di massima crescita si ebbe tra l’inizio degli anni quaranta e il 1873. Crebbe rapidamente, con l'emigrazione e gli investimenti, anche il movimento internazionale delle persone e dei capitali. All'inizio del XX secolo era possibile parlare di un'economia mondiale cui partecipava ogni regione abitata, sebbene l'Europa fosse la più importante. Essa era infatti il centro propulsivo che stimolava tutto l'organismo. All’inizio del secolo erano due i principali ostacoli, uno naturale, l’altro artificiale ,che rallentavano il flusso del commercio internazionale. L’incidenza di entrambi declinò significativamente col passare degli anni. L’ostacolo naturale (alto costo dei trasporti, in particolare quelli terrestri) si arrese alla ferrovia e ai miglioramenti della navigazione. Allo stesso modo furono annullati gli ostacoli artificiali (le tariffe sulle importazioni e le esportazioni), anche se alla fine del secolo si verificò un “ritorno al protezionismo” che determinò l’introduzione in molti paesi di più alti dazi sulle importazioni. La Gran Bretagna adotta il libero scambio Argomentazioni intellettuali a favore del libero scambio a livello internazionale erano state avanzate anche prima della pubblicazione del trattato di Adam Smith La ricchezza delle nazioni. Anche considerazioni di carattere pratico spinsero i governi a rivedere i loro divieti e gli alti dazi: nel XVIII secolo il contrabbando era un’attività redditizia, che intaccava le entrate statali e i legittimi profitti degli imprenditori . Il Governo britannico aveva cominciato a modificare il proprio atteggiamento protezionistico nel tardo Settecento, ma lo scoppio della rivoluzione francese e le guerre napoleoniche ne differirono gli sforzi. Il blocco britannico ed il Sistema continentale rappresentarono delle forme estreme di interferenza nel commercio internazionale. La perorazione di Smith a favore del libero scambio internazionale fu una conseguenza della sua analisi dei vantaggi derivanti dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro tra le nazioni oltre che tra gli individui. Essa si basava sulle differenze tra i costi assoluti di produzione, come ad esempio tra i costi di produzione del vino in Scozia e in Francia. David Ricardo, nei suoi Principi dell’economia politica, suppose erroneamente che il Portogallo avesse rispetto all’Inghilterra un vantaggio assoluto nella produzione sia delle stoffe che del vino, ma che il costo relativo di quest’ultimo fosse inferiore. Egli dimostrò che sarebbe stato vantaggioso per il Portogallo specializzarsi nella produzione vinicola ed acquistare stoffe dall’Inghilterra. Questo era il principio del vantaggio relativo, il fondamento della moderna teoria del commercio internazionale. Sia l’argomentazione di Smith a favore del libero scambio che quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche. Per avere effetti pratici in politica esse dovevano riuscire a convincere gruppi consistenti di individui influenti che il libero scambio avrebbe loro portato dei vantaggi. Uno di questi gruppi era quello dei mercanti coinvolti nei traffici internazionali; nel 1820 un gruppo di mercanti londinesi presentò al parlamento una petizione che invocava il libero commercio, ma essa non ebbe alcun effetto. Nello stesso periodo conquistarono posizioni di preminenza nel partito tory al Governo uomini il cui obiettivo era modernizzare le procedure arcaiche di Governo. Uno di questi fu Robert Peel, che in qualità di ministro dell'Interno ridusse il numero dei delitti capitali e creò una forza di polizia metropolitana, i cui membri furono chiamati bobbies o peelers. Un altro dei cosiddetti “tory liberals” fu William Huskisson, che semplificò il dedalo di restrizioni e tasse che ostacolavano lo sviluppo del commercio. La riforma parlamentare del 1832 estese il diritto di voto alla classe media urbana, in gran parte favorevole al libero scambio. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette Corn Laws, le leggi sul grano che imponevano dazi sulle importazioni. Esse erano state notevolmente rafforzate alla fine delle guerre napoleoniche su istanza dei proprietari terrieri, fortemente rappresentati in parlamento. Dopo vari tentativi di abrogarle o modificarle, Richard Cobden diede vita nel 1839 alla Anti-Corn Law League e intraprese una vigorosa campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica. Nel 1841 il Governo whig allora in carica propose una riduzione delle tariffe sia sul grano che sullo zucchero: di fronte alla bocciatura dei provvedimenti proposti, il Governo indisse nuove elezioni generali. In precedenza le leggi sul grano e il protezionismo in genere non avevano figurato tra le questioni di partito, in quanto i proprietari terrieri rappresentavano la maggioranza sia tra i tories che tra i whigs. In questa campagna elettorale, questi ultimi proposero un ridimensionamento delle leggi sul grano, mentre i tories si batterono per il mantenimento dello status quo. La vittoria arrivò per i tories, ma il nuovo primo ministro, sir Robert Peel, aveva già deciso un’ampia revisione del sistema fiscale che prevedeva l'abolizione delle tasse sulle esportazioni, l'eliminazione o riduzione di molte tasse sulle importazioni e l'introduzione di una imposta sul reddito per compensare la diminuzione delle entrate. Nel 1845 l’Irlanda fu colpita dalla disastrosa carestia di patate, che ridusse alla fame gran parte della popolazione irlandese. Allora Peel presentò un progetto di legge per l’abrogazione delle leggi sul grano, che fu approvato La “Grande Depressione” e il ritorno al protezionismo Un’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Nell'economia preindustriale le brusche fluttuazioni dei prezzi erano state fenomeni di carattere locale o regionale, provocate da cause naturali che si ripercuotevano sui raccolti. Con lo sviluppo dell'industrializzazione e del commercio internazionale le fluttuazioni cominciarono ad essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. La statistica ha distinto diverse varietà di “cicli economici”: cicli delle scorte di breve durata (2-3 anni), relativamente miti, oscillazioni di più ampio respiro (9-10 anni), concluse frequentemente da crisi finanziarie seguite da recessioni e infine tendenze secolari di lunga durata (20-40 anni). Causa delle fluttuazioni sono le complesse interazioni di fattori monetari e reali. Fluttuazioni della produzione accompagnavano le fluttuazioni dei prezzi, anche se le cadute della produzione erano generalmente di breve durata. In quasi tutti gli Stati europei, i prezzi raggiunsero il culmine all’inizio del secolo, verso la fine delle guerre napoleoniche. Le cause furono sia reali (la penuria determinata dalla guerra) che monetarie (le esigenze della finanza di guerra). Dopo di allora, la tendenza secolare fu al ribasso fino alla metà del secolo. Le cause furono nuovamente sia reali (innovazioni tecniche, miglioramenti nell’efficienza) che monetarie (pagamento delle riparazioni di guerra da parte di Governi). I prezzi aumentarono negli anni '50 a causa della scoperta dell'oro in California e in Australia, per poi oscillare per 20 anni senza una direzione definita. Nel 1873 un panico finanziario colpì Vienna e New York per poi propagarsi nella maggior parte dei paesi industrializzati. La susseguente caduta dei prezzi durò fino alla metà degli anni '90 e divenne nota in Gran Bretagna come “Grande Depressione”. Essa fu attribuita a torto dai grandi industriali all’accresciuta concorrenza internazionale, frutto dei trattati commerciali, e avanzarono nuove richieste di protezione. Il settore agricolo si associò a questa richiesta. Prima del 1870 essi non erano stati disturbati dalla concorrenza dei paesi d’oltremare, in quanto i costi del trasporto via mare di merci voluminose avevano rappresentato una protezione sufficiente. Negli anni settanta le spettacolari riduzioni dei costi di trasporto dovute alla costruzione di nuove ferrovie, combinate con le riduzioni dei costi di trasporto oceanici per effetto dei miglioramenti apportati alla navigazione a vapore, incoraggiarono la messa a coltura di vasti tratti di praterie vergini. Per la prima volta gli agricoltori europei si trovavano a fronteggiare una dura concorrenza sui propri mercati. La situazione dell’agricoltura tedesca era molto critica. La Germania era divisa all’epoca essenzialmente in un occidente in via di industrializzazione ed un oriente agricolo. Gli Junker della Prussia orientale, proprietari di vasti possedimenti, si erano dedicati da tempo all’esportazione di grano in Europa occidentale attraverso il Baltico. Era questa la maggiore eccezione all regola per la quale fino agli anni settanta del XIX secolo i costi di trasporto rendevano non conveniente trasportare il grano su lunghe distanze. I Junker erano favorevoli al libero scambio nella loro veste di esportatori. Chiesero tuttavia protezione non appena cominciarono a subire le conseguenze della caduta dei prezzi del grano provocata dalle importazioni da America e Russia. La popolazione tedesca stava crescendo rapidamente, e con l’industrializzazione anche le città stavano espandendosi velocemente. Gli Junker volevano conservare l’esclusiva del grande e crescente mercato. Otto van Bismark, creatore e cancelliere del nuovo impero tedesco, colse questa opportunità. Gli industriali della Germania occidentale da tempo reclamavano una protezione tariffaria: ora che anche gli Junker prussiani si erano schierati al loro fianco, Bismark decise di “accedere “ alla richiesta, denunciò i trattati commerciali dello Zollverein con la Francia ed altre nazioni e diede la sua approvazione ad una legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria che l’agricoltura. Fu questo il primo grande passo sulla strada del ritorno al protezionismo. Gli interessi protezionistici francesi ripresero forza sul piano politico dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana e con i dazi tedeschi del 1879. Nel 1881 essi riuscirono ad ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo. I sostenitori del libero scambio conservarono però un notevole peso politico, e nel 1882 nuovi trattati commerciali con diversi paesi europei ribadirono i principi fondamentali del trattato Cobden-Chevalier. I dazi del 1881 non avevano accolto le richieste protezionistiche degli agrari: l'agricoltura francese, a differenza di quella prussiana, era dominata da piccoli proprietari terrieri contadini, dotati di diritto di voto e potere politico. Dopo le elezioni del 1889, la maggioranza favorevole al protezionismo riuscì a far approvare nel 1892 la famigerata tariffa Méline. Questa tariffa era espressione di un “protezionismo raffinato”: pur accordando protezione ad alcuni settori dell'agricoltura, essa conteneva elementi condivisi dai partigiani del libero scambio. Una guerra tariffaria con l’Italia, dal 1887 al 1898, arrecò gravi danni al commercio francese, e ancora maggiori a quello italiano. L’Italia aveva seguito l’esempio tedesco nel ritorno al protezionismo, e per ragioni politiche aveva deciso di discriminare in particolare le importazioni francesi. La mossa fu poco saggia, in quanto la Francia rappresentava per l’Italia il maggiore mercato estero. I francesi imposero a loro volta dei dazi discriminatori e per oltre un decennio il commercio tra i due paesi crollò. Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi: l’Austria-Ungheria, che aveva una lunga tradizione di protezionismo, negoziò dei trattati con la Francia e con altri paesi, ma conservò un grado di protezione più elevato rispetto ai suoi vicini. La Russia non era mai entrata nella rete di trattati commerciali inaugurata dall'accordo Cobden-Chevalier e nel 1891 introdusse dazi virtualmente proibitivi. Gli Stati Uniti, fino alla guerra civile, avevano oscillato tra dazi molto alti e molto bassi, ma nel complesso, grazie all'influenza dell'aristocrazia dei piantatori meridionali che dipendevano dalle esportazioni di cotone, avevano seguito una politica di dazi contenuti. Dopo la guerra, con il radicale ridimensionamento dell'influenza politica del Sud e l'aumento di quella degli interessi manifatturieri del Nordest e del Midwest, divennero uno dei paesi più protezionistici e tali rimasero fino a dopo la seconda guerra mondiale. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio: tra queste la più notevole fu la Gran Bretagna. Sorsero dei movimenti politici che si battevano per un “commercio giusto” e una “preferenza imperiale”, tuttavia essi non riuscirono a mietere alcun successo fino alla Prima Guerra Mondiale. Il successo dei commercianti e industriali conseguente inflazione, esse limitarono i loro acquisti di argento per poi eliminarli del tutto, ritornando ad un regime aureo puro. La prima nazione ad adottare ufficialmente il regime aureo dopo la Gran Bretagna fu il nuovo Impero tedesco. Il Governo adottò una nuova unità di conto, il marco aureo, e istituì la Reichsbank come banca centrale e unica agenzia di emissione. Dato che il peso del paese nel commercio internazionale era in crescita, altre nazioni aderirono al movimento verso il regime aureo. Prima della Guerra Civile negli Stati Uniti vigeva tecnicamente un regime bimetallico. Durante la guerra, sia il Nord che il Sud emisero moneta inconvertibile. Le emissioni della Confederazione persero ogni valore, ma i greenbacks del nord continuarono a circolare. Nel 1873 il Congresso approvò una legge secondo la quale essi sarebbero stati convertiti in oro a partire dal 1879. Da allora cominciò a vigere il gold standard. La Russia aveva adottato nominalmente il regime argenteo per tutto il XIX secolo, ma in realtà, a causa della precaria posizione finanziaria del governo, aveva fatto ricorso a ingenti emissioni di cartamoneta inconvertibile. Nell’ultimo decennio del secolo il conte Witte (ministro delle finanze) decise che il paese doveva adottare il regime aureo, cosa che avvenne nel 1897. Quello stesso anno il Giappone, che aveva estorto alla Cina un’enorme indennità dopo la guerra del 1895, usò il ricavato per creare una riserva aurea nella Banca del Giappone e per adottare il regime aureo. All'inizio del XX secolo tutte le principali nazioni avevano adottato il gold standard. Movimenti migratori e investimenti internazionali Nel XIX secolo si verificò, oltre al più libero movimento delle merci simboleggiato dall'età del libero scambio, un considerevole aumento del movimento internazionale di uomini e capitali. L’emigrazione avvenne anche entro i confini europei, ma la sua dimensione più significativa fu quella transoceanica. Le isole britanniche fornirono il maggior numero di emigranti, che si diressero principalmente verso gli Stati Uniti e i dominions britannici. L'America Latina, invece, accolse molti cittadini dalla Spagna e dal Portogallo. La seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX secolo registrarono una massiccia emigrazione dall’Italia e dall’Europa orientale. Gli Italiani si recarono nelle Americhe, in particolare in Argentina. Gli emigranti provenienti dall'Austria-Ungheria, dalla Polonia e dalla Russia si rivolsero invece soprattutto agli Stati Uniti. Questo immenso fenomeno migratorio ebbe effetti benefici: alleggerì le pressioni demografiche nei paesi di provenienza, allentando la tendenza al ribasso dei salari reali, e fornì ai paesi ricchi di risorse ma poveri di manodopera un afflusso di lavoratori volenterosi a salari più elevati di quelli che avrebbero potuto ottenere nei loro paesi di origine. Infine, attraverso legami umani e culturali, si favorì l’integrazione dell’economia internazionale. L’esportazione di capitali, l'investimento estero, rafforzò ulteriormente l’integrazione dell’economia internazionale. Le risorse disponibili per essere investite all’estero derivarono dal sensazionale aumento di ricchezza e del reddito provocato dall’applicazione delle nuove tecnologie. Ma, a differenza di quello in patria, l’investimento estero richiede risorse speciali generate dal commercio e dai pagamenti esteri. Esistono due principali categorie di fondi: quelli derivanti da una bilancia commerciale favorevole e quelli frutto di esportazioni “invisibili” (i servizi di spedizione,i profitti delle attività bancarie, le rimesse degli emigrati e gli interessi ). Queste fonti possono operare in svariate combinazioni a seconda delle circostanze. La principale motivazione dell’investimento estero è l’aspettativa da parte dell’investitore di un saggio di profitto più elevato che in patria. I meccanismi dell’investimento estero consistono in una serie di strumenti istituzionali per il trasferimento di fondi da un paese all'altro: mercati dei cambi, delle azioni e dei titoli, banche private e azionarie. Molti di questi strumenti conobbero una notevole espansione nel corso del XIX secolo. La Gran Bretagna fu di gran lunga in testa negli investimenti esteri fino al 1914. A quest’ultima data gli investimenti esteri britannici ammontavano al 43% del totale mondiale. Questa situazione si era prodotta nonostante il fatto che per la maggior parte del secolo la Gran Bretagna avesse avuto una bilancia commerciale “sfavorevole”, ossia avesse importato merci per un valore superiore alle esportazioni. Per la Gran Bretagna, dunque, gli investimenti esteri furono resi possibili quasi esclusivamente dalle esportazioni invisibili. All'inizio del secolo gran parte della bilancia dei pagamenti era costituita dai proventi della marina mercantile britannica, ma con il passare del tempo un contributo più cospicuo all'eccedenza fu fornito dalle attività bancarie e assicurative internazionali e dagli investimenti esteri effettuati in precedenza. Fino al 1850 gli investitori britannici acquistarono titoli governativi di diversi paesi europei e investirono in società private, come le ferrovie francesi. Furono inoltre acquirenti delle obbligazioni emesse dagli stati americani, impegnati in vasti programmi di miglioramenti interni, nonchè dai paesi dell'America Latina. Le rivoluzioni del 1848 sul continente scoraggiarono ulteriori investimenti, che si riversarono su ferrovie, miniere e ranch nord e latinoamericani e dei dominions. La Francia figurava al secondo posto in quanto a investimenti esteri. L’inizio dell’Ottocento la vide indebitarsi con l’estero, soprattutto con Gran Bretagna e Olanda, per saldare le pesanti riparazioni imposte dagli alleati dopo la sconfitta da Napoleone.Ben presto però si stabilizzò una notevole eccedenza delle esportazioni negli scambi commerciali, da cui furono ricavate le risorse per gli investimenti fino agli anni settanta. Nella prima metà del secolo gli investimenti francesi si volsero principalmente verso i vicini più prossimi, cioè all’acquisto di obbligazioni dei governi sia rivoluzionari che reazionari di Spagna, Portogallo e dei diversi stati italiani, in Svizzera, Austria e negli Stati tedeschi. Tra il 1851 e il 1880 gli investitori francesi si assunsero l’onere di costruire la rete ferroviaria di gran parte dell’Europa meridionale e orientale. Dopo l’alleanza francorussa del 1894, i Francesi investirono somme enormi nell’acquisto di titoli russi pubblici e privati finchè il governo di Lenin ripudiò tutti i debiti contratti sotto il regime zarista. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, oltre un quarto di investimenti esteri francesi era concentrato in Russia. A differenza dei Britannici, i Francesi destinarono meno del 10% dei loro investimenti alle colonie. Il contributo francese allo sviluppo economico dell’Europa fu considerevole, nonostante le gravi perdite subite a causa di guerre, rivoluzioni e catastrofi naturali. ed americani e la maggior parte di loro cominciò a dipendere da uno o pochi beni di prima necessità: frumento, carne in Argentina, caffè e gomma in Brasile. Nitrati e rame in Cile. A differenza dei paesi scandinavi, essi non si dedicarono alla lavorazione delle proprie materie prime, per poi esportare un prodotto a più alto valore aggiunto. La rinascita dell’imperialismo occidentale Gli sterminati continenti dell’Asia e dell’Africa parteciparono solo marginalmente all’espansione commerciale del XIX secolo. Sebbene parti dell'Asia, in particolare l'India e l'Indonesia, fossero state aperte all'influenza e alla conquista europee all'inizio del XVI secolo, gran parte del continente era rimasto isolato. Cina, Giappone, Corea e principati dell'Asia sudorientale tentarono di rimanere in disparte dalla civiltà occidentale, considerata inferiore. Rifiutarono di accettare i rappresentanti diplomatici occidentali, esclusero o perseguitarono i missionari cristiani e ridussero drasticamente gli scambi. In Africa il clima opprimente, la quantità di malattie sconosciute, la scarsità delle comunicazioni, l'inaccessibilità del territorio, l'assenza di stati organizzati secondo il modello europeo e il basso livello di sviluppo economico rendevano il continente poco interessante agli occhi di commercianti e imprenditori europei. Tuttavia, una combinazione di numerosi fattori condusse, alla fine dell'Ottocento, al coinvolgimento di queste aree nell'economia mondiale in rapida evoluzione. Africa La colonia del Capo, all’estremità meridionale dell’Africa, era stata fondata dagli olandesi alla metà del XVII secolo come stazione di vettovagliamento per gli uomini della Compagnia delle Indie orientali diretti verso l'Indonesia. La Gran Bretagna la conquistò durante le guerre napoleoniche e vi incoraggiò in seguito gli insediamenti britannici. Le politiche britanniche (in particolare l’abolizione della schiavitù nel 1834), irritarono i boeri o afrikaaner, discendenti dei coloni olandesi. Per sfuggire all'interferenza britannica, i boeri cominciarono nel 1835 la loro lunga marcia verso il Nord, dando vita a nuovi insediamenti tra i fiumi Orange e Vaal e sulla costa sudorientale, ma i conflitti continuarono per tutto il secolo. Oltre a combattere tra loro, entrambi i gruppi vennero spesso in urto con le tribù africane che furono sterminate e ridotte in schiavitù. Dapprima sia gli insediamenti boeri che quelli britannici ebbero carattere agrario, ma la scoperta dei diamanti nel 1867 e quella dell'oro nel Transvaal alterarono completamente le basi economiche delle economie e intensficarono le rivalità politiche. Questi avvenimenti contribuirono inoltre all’ascesa al potere di CecilRhodes, una delle personalità più’ influenti della storia africana. Egli giunse in Africa nel 1870 e fece fortuna nelle miniere di diamanti. Nel 1887 organizzò la British South African Company e nel 1889 ottenne dal governo britannico una patente che gli concedeva ampi diritti e poteri i governo su un vasto territorio a nord el Transvaal, che assunse poi il nome di Rhodesia. Successivamente divenne un ardente patrocinatore dell’espansione imperialistica. Nel 1880 entrò nel corpo legislativo della colonia del Capo e ne divenne in seguito primo ministro. Una delle sue maggiori ambizioni era la costruzione di una ferrovia “dal Capo al Cairo”, tutta su territorio britannico. Il Presidente della Repubblica sudafricana Kruger rifiutò. Rhodes allora organizzò un complotto, che fallì e lo costrinse a dare le dimissioni. Nell’ottobre del 1899 ebbe inizio la guerra sudafricana o angloboera. I Britannici subirono dapprima diversi rovesci, ma poi invasero sia il Transvaal che lo Stato libero dell’Orange. Subito dopo il Governo britannico passò da una politica di repressione ad una di conciliazione, ristabilì l'autogoverno e incoraggiò il movimento favorevole all'unione con la colonia del Capo e il Natal. Nel 1910 l’Unione sudafricana raggiunse il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda tra i dominions autonomi dell’Impero britannico. Prima del 1880 il solo possedimento europeo in Africa, se si escludevano il Sud Africa britannico, era l’Algeria francese. Carlo X intraprese nel 1830 la conquista dell’Algeria nel tentativo di guadagnare il sostegno popolare, ma lasciò ai suoi successori solo gli strascichi di una conquista incompleta, che fu portata a termine solo nel 1847. Nel corso degli ultimi decenni dell'Ottocento i francesi avevano iniziato l'espansione partendo dai loro insediamenti sulla costa occidentale. Alla fine del secolo avevano conquistato e annesso un territorio enorme, che battezzarono Africa occidentale francese. Nel 1881 razzie di confine di tribù tunisine fornirono il pretesto per invadere la Tunisia e stabilire un protettorato. Nel 1912 completarono il loro impero nordafricano stabilendo un protettorato sulla maggior parte del Marocco. Nel frattempo importanti avvenimenti avevano luogo all’estremità orientale dell’Africa islamica. L’apertura del canale di Suez nel 1869 da parte di una società francese rivoluzionò il commercio mondiale e mise in pericolo la “linea di comunicazione vitale” della Gran Bretagna con l’India. L’obiettivo della politica estera britannica, cioè assumere il controllo del canale e dei suoi accessi per impedire che cadessero nelle mani di una potenza ostile, fu favorito dalle difficoltà finanziarie del kedivé (re) d’Egitto. Nel tentativo di trasformare il paese in grande potenza, di dare avvio all'industrializzazione e di intraprendere la conquista del Sudan, costui e i suoi predecessori avevano contratto debiti enormi con investitori europei. Le ristrettezze finanziarie egiziane permisero verso la fine del 1875 a Benjamin Disraeli, primo ministro britannico, di acquistare per conto del governo inglese le azioni del kedivé nella compagnia del canale. Per riportare ordine nelle finanze del paese, furono nominati dei consiglieri finanziari che ben presto ne divennero il governo effettivo. Il risentimento egiziano per la dominazione straniera sfociò in vaste ribellioni. Per ristabilire l’ordine e proteggere il canale i britannici bombardarono Alessandria e inviarono un corpo di spedizione. Il liberale Gladstone assicurò gli Egiziani che l’occupazione sarebbe stata temporanea, ma presto si rese conto di aver ereditato dal Governo del kedivé la conquista incompleta del Sudan. Perseguendo questo obiettivo, i Britannici si trovarono faccia a faccia con i Francesi che si stavano espandendo verso oriente. Nel 1898 le truppe rivali si fronteggiarono a Fashoda, ma precipitosi negoziati scongiurarono un conflitto vero e proprio. Alla fine i Francesi si ritirarono, spianando la strada al dominio britanico. Uno ad uno gli Stati della costa nordafricana nominalmente vassalli del sultano turco erano stati strappati a quest’ultimo. Nel 1911, approfittando di un contrasto con la Turchia, l'Italia annesse Tripoli e la ribattezzò Libia l'anno successivo. L’Africa centrale, caratterizzata dall'inaccessibilità, dal clima inospitale e da flora e fauna esotiche, fu l’ultima area del continente nero ad aprirsi alla penetrazione occidentale. Prima del XIX secolo le uniche pretese sulla
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