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Storia Economica della cultura, Dispense di Storia Economica

Sbobinatura delle lezioni tenute dal prof. Fumi. Sono completi delle spiegazioni del professore e del riassunto di alcune letture a scelta, oltre che di quelle obbligatorie. Unità: 1 - TRA LUSSO E CULTURA: L’ALTA SOCIETà NELL’ANCIEN RÉGIME 2 - L’ECONOMIA DELL’ARTE 3 – CHIESA E BENI ECCLESIASTICI 4 – ARTE E SISTEMA DELL’ARTE NELL’Età DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE 5 – L’ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE. DALLA “RIVOLUZIONE DELLA STAMPA” ALLO SVILUPPO DELL’EDITORIA

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 29/04/2021

valentina-ricci-13
valentina-ricci-13 🇮🇹

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Scarica Storia Economica della cultura e più Dispense in PDF di Storia Economica solo su Docsity! UNITÀ 1 - TRA LUSSO E CULTURA: L’ALTA SOCIETà NELL’ANCIEN RÉGIME SOCIETà, CONSUMI, LUSSO NELL’ANTICO REGIME - La cultura deriva dalla struttura sociale, dai comportamenti che questa induce ad assumere, e dai termini di consumo. Con antico regime si individuano le società preindustriali europee che hanno preceduto l’avvento dell’economia e della società industriale e terziaria dal tardo medioevo fino al 7-800. Mitelli rappresenta la struttura sociale delle comunità preindustriali, definendola macchina del mondo, in cui ognuno cerca di stare sopra agli altri: è una struttura piramidale, rigida. Al vertice c’è la morte, al di sotto la nobiltà, a capo del potere politico: il re, l’aristocrazia (nobili con titoli più altisonanti), nobili non titolati, piccola borghesia (operatori economici: mercanti e artigiani - vivono del lavoro delle proprie mani ma dispongono di un patrimonio che permette di beneficiare di un certo livello di vita. Non sono vulnerabili alla congiuntura economica), lavoratori del braccio (operai e contadini, che vivono del lavoro della terra). Questi ultimi sono in balia dell’andamento dell’economia, più vulnerabili e più a rischio di passare da una situazione di normalità ad una di miseria, in cui non si ha di che vivere. L’aristocrazia e nobiltà (che può essere povera in caso di decadenza) pesa per il 2-3% della popolazione; così come le borghesie, ad eccezione di realtà particolarmente dinamiche in cui i ceti commerciali si sono espansi, che possono arrivare per il 10-15-20% (ad oggi invece i ceti medi hanno un’importanza centrale nella società). Alla base di tutto c’è lo strato più consistente rappresentato dai lavoratori e contadini, che possono arrivare a costituire il 50-60% della popolazione. La società d’antico regime ha una struttura in cui si individuano bene i rapporti fra i gruppi sociali, che si definiscono in ceti ed ordini (non classi), definiti sulla base di requisiti non economici. La nobiltà è un gruppo sociale a cui si appartiene per nascita. Il clero non è un gruppo sociale uniforme: alcuni godono di un livello di benessere comparabile a quello dell’alta nobiltà fino ad arrivare a casi di povertà (vivono di piccoli proventi o “benefici” della parrocchia). Il clero si definisce in quanto si viene ordinati. Le borghesie sono le più diverse, identificabili per la non appartenenza alla nobiltà né al clero, ma nemmeno al mondo del proletariato. Esiste un patrimonio che permette uno standard di vita maggiore e di godere di una maggiore sicurezza di fronte alle variabili della congiuntura economica rispetto al popolo minuto che, a fronte della scarsità di lavoro, rischia di cadere dalla povertà quotidiana ad una situazione di miseria e alla dipendenza dalle istituzioni assistenziali. L’ultimo gruppo sociale è costituito dai lavoratori e contadini: a volte sono proprietari di un appezzamento di terra, ma lavorano altri terreni presi in fitto da cittadini (che dovevano delegare lo sfruttamento del terreno). Sono vicini alla fonte dell’alimentazione, per cui godono di maggiore sicurezza alimentare. Questa struttura sociale rimane immutata nei secoli. La grande proprietà terriera è nelle mani del clero (ma non in qualità di singolo detentore). In questa struttura sociale la nobiltà, l’aristocrazia e l’alto clero mantenevano forti privilegi in termini di divario sociale ma anche in termini di disuguaglianza legale (partecipazione politica spettava solo alla nobiltà). La nobiltà detiene il potere economico-politico ed esercita forte attrazione nei confronti degli altri gruppi: si parla di rincorsa dei non privilegiati ad emulare, anche nel modello di consumo, la nobiltà. È un gruppo sociale molto chiuso: può avvenire persino la chiusura dei ranghi sociali della nobiltà, come nei casi di Venezia, Cremona: nessuna famiglia può essere ammessa alla nobiltà. È un requisito che si trasmette per sangue: a partire da un individuo si ammettono le famiglie, ma le immissioni sono sempre in numero esiguo. L’ammissione avviene con un lungo processo: bisogna dar prova di avere requisiti morali, economici e reputazionali che fanno sì che i nobili accettino l’entrata. È un processo che può durare decenni. Spesso questa ritrosia o chiusura della nobiltà fa sì che perda di vitalità in termini demografici: si assiste all’estinzione di casati. Una delle conseguenze della struttura sociale è la disparità nella distribuzione del reddito e nei consumi. La parte più rilevante della popolazione vive a livelli di sussistenza: consumi bassi e limitati ai bisogni essenziali. La concentrazione estrema del reddito e dei consumi era in un'élite molto ristretta, la quale seguiva un modello di consumo che prevedeva scarsissimi investimenti per rafforzare la base produttiva, dispone di grandi capitali che non destina alle attività produttive ma ai consumi, ad uno stile di vita eccessivo, ad investimenti legati al mondo artistico. I nobili hanno un atteggiamento di disprezzo verso l’attività economica: questo deriva da una concezione delle attività economiche come attività vili e meccaniche, contrapposte alle arti liberali. L’appartenenza alla nobiltà è incompatibile alla pratica delle attività economiche da cui la deriva le proprie origini economiche: vi sono casi di nobiltà le cui origini sono mercantili, ma con l’andar del tempo si è staccata da queste attività per poter ascendere ai livelli più alti della società. Vi è la propensione a trasformare la liquidità in beni immobili (fondiari o immobiliari). Non sono immobili produttivi, ma che permettono, quando non fruiti direttamente, di derivarne una rendita: permettendo di vivere di rendita (possesso non implica investimento). È un ceto che si percepisce molto alto e distante dagli altri e l’appartenenza alla nobiltà non è priva di oneri: noblesse oblige. In particolare l’ostentazione dei consumi vistosi ed eccessivi: da quest’obbligo derivano obblighi di investimento in attività culturali. Vi è la centralità del casato e della linea genealogica rispetto all’individuo (orizzonte temporale lungo). Questo va attribuito al primato del fondatore (o presunto tale) del casato e alla sua discendenza. Per questo basta guardare gli archivi della nobiltà per constatare l’importanza dei documenti dell’araldica (che contengono alberi genealogici ecc). L’attenzione al lungo periodo e all’attaccamento ai beni e al nome della casata si sviluppa in maniera orizzontale e longitudinale: nel breve periodo la gestione dei rapporti familiari è svolta in maniera gerarchica e patriarcale. Le scelte matrimoniali sono decise dai genitori per i figli e prevedono spesso forme di endogamia (fra esponenti della stessa classe sociale). Il matrimonio è un’alleanza, che regola anche gli aspetti economici nell’interesse della famiglia. La preoccupazione è quella di non disperdere il patrimonio nel passaggio fra le generazioni, dato che ogni matrimonio può portare a figli, che possono essere destinatari di patrimonio. È frequente infatti il mantenimento del celibato/nubilato. La nascita di figli porta il patrimonio a modificarsi: si ricorre ad una pianificazione in modo che la parte più consistente del patrimonio non si disperda nel passaggio generazionale ma si conservi nelle mani del primogenito o, se muore, secondo la linea del maggiorasco. Una seconda modalità è il fedecommesso: un vincolo stabilito su una parte consistente del patrimonio che passa di mano in mano ma con il vincolo dell’inalienabilità (strict settlement). Ma col tempo questo porta al formarsi di condomini, comproprietà appartenenti alla stessa famiglia: l’interesse di ciascuno diventa lato, per cui sono indotti a rimanere assenti rispetto alla gestione, in particolare se sono beni agricoli. Questo giustifica l’intervento di intermediari facoltosi, che saranno gli affittuari capitalisti. L’esclusione frequente delle donne dall’asse ereditario spiega la scelta della linea della primogenitura. A compensazione dell’esclusione, vi è la concessione di una somma monetaria che viene data come dote (che per le famiglie non benestanti ha valore simbolico). L’ECONOMIA DELL’ECCESSO E DEL SUPERFLUO - Caratteristiche dei ceti nobiliari sono i consumi opulenti di beni voluttuari e raffinati: lo si capisce dalle liste delle spese e degli inventari testamentari, che mostrano come i consumi della nobiltà siano variegati e raffinati. La domanda di questo ceto è distinta dagli altri, caratterizzata da dinamismo. Negli archivi nobiliari si notano delle voci di spesa che riguardano alberghi e ristoranti, consumi librari, periodici, le partecipazioni ad eventi culturali, accademie musicali, circoli per il tempo libero, la partecipazioni ad eventi e spettacoli, notevoli spese per l’alimentazione e la casa (pittori, decoratori), servizi esterni (gas, luce) ed interni (personale di servizio per la cucina, pulizia, cura delle persone). Si osserva anche notevole quantità di denaro liquido conservato in casa. Altri impieghi del denaro consistevano nel creare i palazzi in città, le ville fuori città; in una fortissima attività di committenza (artisti) e di mecenatismo, spettacoli e svaghi attraverso musica e teatro. Esisteva un’etica della ricchezza e dei consumi. L’ostentazione doveva contemperarsi con un invito alla moderazione e al decoro, che proveniva dalle autorità religiose e dalle prescrizioni etiche-religiose: l’invito a ricordare dei poveri, la condanna ai ricchi avidi e avari si traduce ad un invito alla carità. Vi sono periodi storici caratterizzati dalle campagne moralizzatrici: in particolare sotto attacco sono quelli che fanno del denaro una professione. In un contesto cristiano, che condanna il prestito di denaro ad interesse, godono coloro che hanno un’altra religione, come gli ebrei o gli ortodossi, che prestano denaro a tassi elevati: vengono presi di mira quando la società arranca come causa della povertà. Questo si traduce in campagne volte ad espellere gli ebrei e nella predicazione francescana (frate Bernardino da Feltri) perché i ricchi si convertano e diano prova di questo nel dono di denaro ad un fondo comune, il quale si occupa di prestare denaro ai bisognosi: sono i fondi di pietà. Questi prestano denaro a tutte le categorie anche dietro garanzia della consegna di un bene. Nasce un mercato di beni mobili, di pregio artistico, che vengono dati temporaneamente in cambio di un prestito. Un altro limite all’accumulo della ricchezza fine a se stessa è data dall’invito a dare quanto superfluo ai poveri: nasce una rete di istituzioni solidaristiche finanziate da Nel 700 alcuni storici osservano come la “città scimmiotta la corte” è la corte esterna alla capitale dello stato a rappresentare il centro motore e promotore di nuovi stili e mode culturali. Operativamente la società di corte è un concentrato di migliaia di persone organizzate secondo un’articolatissima divisione del lavoro, vi è una gerarchia molto rigida e la vita è scandita da cerimoniali e rituali. La vita di corte è una vetrina: ciò che avviene al suo interno stimola all’emulazione. La cultura che proviene dalle corti è materiale (beni di elevato livello e gusto), ma è composta anche da comportamenti e modelli di comportamento. Secondo studiosi (Elias) la società occidentale nasce dallo stato moderno, che disciplina la sfera pubblica (delegittimando l’uso privato della violenza), e dal disciplinamento del corpo e dei comportamenti privati. Dal 500 in avanti è importante l’etichetta o l’educazione dei costumi: molti testi pedagogici vengono dedicati già all’infanzia per educare all’autocontrollo dei comportamenti, che con il tempo diventa strumento e modo di civilizzazione (Della Casa - Il Galateo overo de’ costumi, Piccolomini - Della institutione morale libri XII, Guazzo - l’arte della civil conversazione, da Rotterdam - De civilitate morum puerilium). I comportamenti privati e pubblici diventano strumento di civilizzazione. La definizione di sistemi organici, di forme di cerimoniali dell’etichetta irrigidisce i comportamenti secondo canoni di civile educazione o buona creanza. Nella mentalità del tempo l’aspetto esteriore, il comportamento esprimono i valori personali: c’è correlazione tra esterno ed interno. La civiltà delle buone maniere si diffonde internazionalmente e finisce per distinguere ceti, classi, nazioni civili da quelle incivili: per la lingua (nel medioevo era il latino, poi la lingua colta diventa l’italiano e dopo ancora il francese), per l’assunzione di regole per la cura del corpo, del comportamento a tavola, nelle relazioni sociali. Durante il 7-800 un gruppo sociale che inizia a prendere le distanze da questa attenzione verso le convenzioni sociali, che inizia a considerare la “civiltà” un limite all’autenticità, alla profondità del pensiero e alla libertà individuale è quella degli intellettuali, che per la maggior parte dei casi sono borghesi. Sono esterni ma non estranei alla nobiltà: in Francia sono assimilati ai modelli aristocratici e per l’Illuminismo francese, ostile nei confronti delle convenzioni, la civilizzazione non è estranea alla cultura, poiché un affinamento dei costumi ne è preliminare. Quando Voltaire si reca in GB, e assiste agli spettacoli di Shakespeare li considera una forma di intrattenimento, diversamente dal vero teatro di cui fu autore ispirato alla drammaticità della tragedia greca. In Germania gli intellettuali sono borghesi ed estranei ai circoli aristocratici: questa condizione spiega l’atteggiamento polemico verso la nobiltà e i suoi modelli culturali. L’Illuminismo tedesco esprime una forte critica all’ideale aristocratico di cultura. Kant distingue tra l'incivilimento dalla vera cultura (espressione della natura umana), come poi faranno Schiller, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche. Fra 7-800 si assiste ad una democratizzazione dei galatei, e ad una regolazione dei comportamenti sociali. I galatei vengono proposti ai nuovi ceti sociali, soprattutto le borghesie: vanno quindi modificati nei contenuti. Gioia riscrive il galateo (“Nuovo galateo”) con l’intento politico di contribuire con l’autoregolazione dei comportamenti a costruire il nuovo cittadino. L’importanza di regole e forme nei comportamenti sociali cresce nell’800 fino ad un’esplosione dei manuali di savoir-vivre, dei galatei popolari, con intento di educare anche gli altri ceti sociali per contribuire alla costruzione di una nuova società. I contenuti di questi nuovi galatei sono ampi ma semplificati: si insegna come atteggiarsi in pubblico e privato, relazionarsi con l’altro sesso e comportarsi in società. Nel XIX secolo intervengono l’industrializzazione e modifiche negli ordinamenti giuridici e nelle strutture sociali. Gli anni francesi, in cui la Francia ha l’egemonia in Europa, i codici vengono recepiti direttamente o indirettamente da tutte le nazioni. Tra le riforme giuridiche del codice civile napoleonico vi è l’abolizione del fedecommesso: il vincolo sui beni dati in eredità che impediva agli eredi di alienare parte del patrimonio, il che aveva contribuito al mantenimento dei patrimoni intatti. Questo cessa con la restaurazione, ad eccezione del granducato di Toscana e Lucca. Il clima culturale è un clima per cui non si vuole più condizionare gli eredi, un clima di libertà che si nota anche sul piano di quelle che erano le disparità delle successioni ereditarie poiché si privilegiava il primogenito. Con i codici napoleonici si introduce una certa parità tra gli eredi: per legge tutti gli eredi devono ricevere una quota legittima. Sul piano delle alleanze matrimoniali c’è una nuova libertà: la percentuale dei single diminuisce fortemente e il matrimonio diventa un istituto personale, una scelta basata sull’affetto. Accanto a questa maggiore libertà degli individui nobili si nota che resta la volontà di vivere lussuosamente e non mancano occasioni nuove di spesa: ancora dopo l’unità d’Italia un grande numero di beni fondiari vengono immessi sul mercato dopo che furono espropriati ai precedenti possessori, soprattutto enti ecclesiastici, che vennero acquistati da borghesi e nobili, che si indebitano (per la nobiltà l’acquisto di beni immobili era più sicuro rispetto ad altri tipi di investimenti perché permetteva di vivere di rendita). Questo tenore di vita contribuirà alla crisi economica della nobiltà (a causa del noblesse oblige) che si palesa in diversi casi: il tracollo del patriziato veneziano. In alcuni casi la nobiltà cambia i suoi modelli di investimento e si borghesizza: nasce la borghesia imprenditoriale. Sul piano delle alleanze matrimoniali finisce l’endogamia e si sviluppa l’usanza di accasare i propri figli con ceti sociali inferiori. ASPETTI TEORICI: SPESE PRODUTTIVE E SPESE IMPRODUTTIVE (STUMPO) La distinzione fra spese e/o investimenti produttivi ed improduttivi, fra lavoro produttivo ed improduttivo ha pesato sulle scelte degli storici economici, ieri come oggi. La nobiltà, i patriziati cittadini e le aristocrazie sono stati condannati per il loro ruolo nel tradire gli ideali economici legati all’investimento, alle migliorie fondiarie, al commercio o alla banca, per dedicarsi alle spese voluttuarie, ai consumi di lusso, alle stravaganze. Uno degli aspetti più interessanti legati al tema del mercato dell’arte consiste nel comprendere e capire quando il committente si sia reso conto che l’acquisto di un bene artistico non fosse più una spesa fine a se stessa, ma anche un investimento. Un investimento legato alla consapevolezza che tale oggetto avrebbe conservato o aumentato il suo valore nel tempo. Smith ricorda la distinzione fra spesa voluttuaria e quella destinata all’acquisto di beni durevoli: “Il reddito di un individuo può essere speso o in cose che vengono consumate immediatamente, e nelle quali la spesa di un giorno non può né alleviare né sostenere quella di un altro giorno, oppure in beni più durevoli, che possono essere accantonati. [...] La magnificenza della persona che ha speso prevalentemente in merci durevoli aumenterebbe continuamente, dato che la spesa di ogni giorno contribuirebbe a sostenere e ad aumentare l’effetto di quella del giorno seguente. Inoltre avrebbe un fondo di oggetti che varrebbero sempre qualcosa”. Smith appare favorevole alla spesa in beni durevoli: “costituiscono spesso non solo un ornamento e un onore per i luoghi in cui si trovano, ma anche per l’intero paese al quale appartengono”. Questo tipo di spesa, “in quanto dà sempre luogo a un’accumulazione di merci durevoli di un certo valore, è più favorevole alla parsimonia privata e all’aumento del capitale pubblico e che, in quanto mantiene lavoratori produttivi, porta ad accrescere la pubblica prosperità”. Queste considerazioni erano presenti ai nobili, patrizi, mercanti o banchieri italiani fra Quattro e Cinquecento. Nell’analisi della domanda privata legata al mercato dell’arte nell’Italia del Quattro e Cinquecento andrebbe definita la capacità di spesa di una determinata famiglia o di una persona. Il lavoro migliore apparso nell’ambito della nobiltà europea è l’indagine di Stone sull’aristocrazia inglese da Elisabetta a Cromwell. Stone considera i consumi di lusso come uno dei fattori che causarono la decadenza di molte famiglie fra Cinque e Seicento, ma va considerato insieme ad altri fattori (campagne militari, risiedere a corte, funerali...). Nel caso di molti aristocratici la spesa in cavalli o cani da caccia appare effimera: ma non era infrequente trovare un grande nobile come Carafa che li allevava e rivendeva, facendo di un aristocratico passatempo una forma di investimento. È vero inoltre che molti nobili italiani ebbero spese militari molto rilevanti; molti altri fecero della propria professione militare uno strumento di arricchimento e di ascesa sociale. Stone sottolinea che: “I consumi di lusso hanno una funzione sociale come giustificazione simbolica dell’acquisto o della conservazione di uno stato sociale. Fino a quando la loro posizione è sicura e incontestata, le famiglie di più antica origine spendono senza alcuna ostentazione. È la nuova ricchezza che impone certi modelli di comportamento, [...] per la ragione che la ricchezza non è in sé una fonte sufficiente di onore. Ha bisogno di farsi pubblicità, e il mezzo normale è l’acquisto di beni strumentali, servizi e corredi inutilmente costosi”. Sottolinea inoltre che le spese per i consumi di lusso non fossero legate all’andamento del proprio reddito: aumentarono sotto Elisabetta, quando i redditi erano stagnanti e diminuirono sotto Carlo I, quando erano in forte espansione. «La spiegazione sta nel cambiamento dei modelli di valori, dei codici di comportamento, delle mode competitive da cui furono influenzate la corte e la campagna. I cardinali della Curia romana avevano raggiunto e maturato ideali e valori diversi dalla valutazione mercantile di un conto di profitti e perdite. I valori e gli ideali avevano agli occhi degli aristocratici del tempo un significato reale, profondamente sentito, anche quando imponevano mode e modelli di comportamento. Ogni famiglia aveva un reddito annuo che poteva essere utilizzato saggiamente o meno, ma imponeva delle scelte precise nelle spese, sia in quelle voluttuarie, sia in quelle legate alla professione ed in quelle indirizzate a valorizzare la propria casa o il proprio studio. PER UNA STORIA DELL’INDUSTRIA DI LUSSO IN FRANCIA. LA CONCORRENZA ITALIANA NEI SECOLI XVI E XVII (CIRIACONO) Sraffa ribadiva che “le merci di lusso [...] non vengono usate per la produzione di altre merci. Questi prodotti non hanno alcuna parte nella determinazione del sistema. La loro funzione è puramente passiva”. Le industrie di lusso hanno rappresentato un settore importante delle economie nazionali nell’epoca Preindustriale. De Mandeville, nella favola delle api, dopo aver annotato come il lusso desse da vivere a un milione di poveri, e la superbia a un altro milione, li definisce come la ruota che muoveva il commercio. Il pericolo più grave è stato quello di mescolare morale ed economia. Definendo il lusso come la spesa in eccesso, è evidente che il necessario muti a seconda del momento storico e di altre considerazioni legate al gusto, all’ambizione, al desiderio di ostentazione. Comprensibili appaiono la condanna popolare del lusso più sfrenato o i freni imposti dai governi al suo dilagare. Concentrandosi nel singolo prodotto di lusso una considerevole quantità di lavoro, di abilità tecnico- artistica, di materie prime di prezzo elevato, ne deriva che tale produzione ad alto valore aggiunto è quella che registra i maggiori margini di profitto, sopratutto nelle esportazioni. Per cui si può affermare che l’industria di lusso è quella che ha dato vita alle prime forme di organizzazione capitalistica. In un’economia largamente dominata dall’autoconsumo e da una debole domanda di beni industriali delle altre classi sociali, tali settori impressero degli impulsi decisivi al rinnovamento tecnico e all’organizzazione del lavoro. In una prospettiva di lunga durata, tuttavia, i prodotti di largo consumo, offerti a prezzi ridotti, rappresentarono effettivamente le linee di sviluppo del progresso economico. Le prime avvisaglie di tale processo si coglievano ad Anversa, dove a metà Cinquecento il valore di drappi, tessuti d’oro e d’argento e di seta grezza importati dall’Italia ammontava a tre milioni di corone d’oro, mentre quello dei drappi e carisee importati dall’Inghilterra raggiungeva i cinque milioni. Parimenti l’economia francese nel corso del XVI secolo incrementava le proprie produzioni pregiate: la Francia percorreva il cammino opposto rispetto al modello di sviluppo inglese, ponendosi su un piano di diretta concorrenzialità nei confronti dell’Italia, da lunga data fornitrice in Europa di beni di lusso. Iniziava, a partire dalla fine del XV secolo, quella sorta di nazionalismo francese che vedeva nell’artigiano italiano immigrato un dissipatore della ricchezza nazionale. A questa reazione, dettata da motivi economici (contenimento del deficit commerciale), si devono gli sforzi intrapresi dalla monarchia al fine di promuovere una politica di economia nazionale, specie nel settore dell’industria d’arte. Tutto il XVI secolo fu caratterizzato da facilitazioni e favori accordati agli artigiani e artisti che avessero introdotto in Francia nuove tecniche di lavorazione. La faïence fu uno di quei settori in cui maggiormente l’esportazione di tecnologia italiana risultò notevole, ma solo nel XVI secolo la maiolica francese conobbe un sensibile sviluppo, anche se occorrerà attendere il 1630 perché si affranchi dalla tutela tecnico-artistica italiana. La fusione dell’argenteria, ordinata da Luigi XIV per sopperire alla mancanza di liquidità, assicurava alla ceramica il principale ruolo di tesaurizzazione. Dall’inizio del Settecento saranno le porcellane di Cina e Sassonia che contesteranno alla maiolica italiana il primato in Francia. I merletti genovesi e veneziani rappresentarono un altro prodotto di lusso di larga vendita sul mercato francese. L’uso dei merletti, introdotto in Francia al tempo di Caterina dei Medici, era divenuto talmente Fallito l’avvio della «fabrique lyonnaise», era a Tours che nel 1470 si trasferivano i primi tessitori italiani stabiliti a Lione. Quello che doveva essere il primo tentativo di un setificio nazionale si riduceva ad un atelier ou, mentre Tours sarebbe dovuta divenire la nuova capitale economica del regno, ma occorse attendere il regno di Carlo VIII perché la fabbricazione delle sete nella città assumesse un peso maggiore che ritagliava con difficoltà spazio nel mercato internazionale. La produzione restava limitata a stoffe leggere, offerte a prezzi ridotti, sebbene lentamente ci si avviasse verso processi di lavorazione differenziati. La produzione del taffetas conosceva un incremento notevole, provocandone una caduta del prezzo, e nella prima metà del XVI secolo le maestranze sapevano tessere satins e velluti. Tuttavia i tessitori non avevano i mezzi tecnici per fare del façonné simile a quello che producevano le fabbriche italiane. Il relativo successo della manifattura di Tours non portò alcun pregiudizio alle importazioni dei façonnés italiani. Inoltre il setificio di Tours dipendeva pesantemente, per gli approvvigionamenti della materia prima, dai mercanti italiani residenti a Lione, e particolarmente dai lucchesi. Il controllo di Lione sui rifornimenti di Tours incodeva pesantemente sui costi di produzione nella seconda metà del Cinquecento, in un momento di lievitazione dei prezzi della seta. La produzione serica della città si mantenne su un buon livello qualitativo e quantitativo, anche in rapporto all’avviato setificio lionese, ma a partire dal 1550 la città conobbe una serie di difficoltà che sarebbero continuate nel tempo. Non meno grave fu la crisi che affliggeva la manifattura lionese a fine Cinquecento, avviata nel 1536, per decisione di Francesco I, la «fabrique» si era affermata nella produzione di stoffe per le quali esistevano degli adeguati sbocchi di mercato, cioè taffetas e velluti uniti. L’apparato produttivo della «fabrique», incentrato su piccoli ateliers indipendenti, era rimasto debole, e doveva rivelarsi à plein jour nei momenti di difficoltà. La fase di crescita del periodo 1536-1562 subì una brusca interruzione, la quale si sarebbe protratta sino agli inizi del XVII secolo. I fabbricanti indicavano nel 1582 nelle misure protettive – blocco delle importazioni italiane, dietro risarcimento diretto delle perdite che la dogana avrebbe subito – l’unico rimedio alla recessione. Ma il processo appariva irreversibile. Crollando la produzione interna, i grandi esportatori italiani riuscivano ad incrementare le loro vendite, nel momento più critico dell’economia della città. Con lo scopo di battere la concorrenza di Avignone, la città dei papi che vantava una consolidata produzione serica di qualità, era sorto il setificio di Nîmes. Per più di cinquant’anni tuttavia esso aveva languito, e alla fine del XVI secolo l’industria della seta risultava ancora marginale nell’economia della città, fondata sul lanificio. Tutto il Midi della Francia si era interessato alla seta: avevano partecipato all’espansione cinquecentesca anche i centri industriali del centro e del Nord della Francia. Tutti erano comunque coinvolti nella depressione di fine secolo. Per alimentare di filati le manifatture di Lione e di Tours, numerosi centri della regione lionese e della Touraine si erano specializzati nel mulinaggio, ma l’importazione dei filati italiani restava una necessità. Nella produzione diretta di sete gregge non mancarono tentativi di incrementare la coltura del gelso e l’allevamento del bombyx. I procedimenti impiegati restavano tuttavia mediocri, e se il gelso bianco si era esteso sufficientemente, restavano delle regioni cui i «vers à soie» erano nutriti prevalentemente da foglie di gelsi neri, con la conseguente cattiva qualità dei loro bozzoli. Enrico II e Caterina dei Medici tentarono di estendere la sericoltura a tutto il regno, organizzando una società diretta da Carras, «fileur et faiseur de soles du roi». L’impresa non sortì i risultati sperati, ma la coltura riceveva un nuovo impulso nel Lionese, in tutta la Lingua d’oca, continuando l’espansione fra 1580-1590. Ma lo sviluppo fu insufficiente ad assicurare gli approvvigionamenti interni, appariva di minore ampiezza rispetto a quello che parallelamente si svolgeva nel Nord e nel Sud della penisola italiana. La Calabria e la Sicilia si configuravano come i centri mediterranei di importanza fondamentale nel rifornimento di seta greggia del mercato francese ed europeo. Da serbatoio complementare del setificio d’oltralpe fungeva l’Italia settentrionale, la quale iniziava a metà Cinquecento quel processo che l’avrebbe portata ad incrementare in misura massiccia la produzione di filati. Il XVI secolo si chiudeva per la Francia in un totale fallimento nel fronteggiare la superiorità della produzione di lusso italiana nel mercato interno e internazionale. Le fasi decisive di questo conflitto erano rinviate al secolo successivo, segnato dalla decadenza italiana e i progressi dell’industria di lusso francese, del setificio in particolare. L’ARTIGIANATO TRA ARTE E MESTIERE - già in epoca preindustriale vi erano modi diversi di produrre manufatti: vi era la bottega artigiana (piccola impresa presieduta ed agita da un imprenditore anche lavoratore), la protoindustria (affidamento delle fasi più semplici a lavoratori a domicilio da parte dei mercanti imprenditori), le manifatture accentrate (di grande qualità, svolte da atelier che concentravano un certo numero di lavoratori con una elevata divisione del lavoro al loro interno). L’artigianato oggi ha valenza variegata: esistono piccole imprese artigiane che in realtà non producono beni di qualità, ma forniscono componentistica alla grande industria. L’artigianato d’arte in Italia dal medioevo all’età moderna era un settore e un mercato non marginale, ma sono le manifatture di beni legati ai consumi di lusso gli elementi fondamentali delle economie delle città e territori circostanti poiché attorno alla produzione di beni di lusso ruotano moltissime attività e si creano lunghe filiere che vanno dalla materia prima al prodotto finito. Le filiere sono caratterizzate da elevata specializzazione delle singole fasi; da un elevato valore aggiunto che il prodotto acquisisce man mano che passa lungo le fasi della filiera (manufatti di seta). Questa catena di lavorazione spiega il costo elevato dei prodotti d’arte che contengono moltissimo lavoro ed un’elevata qualità della competenza professionale. L’importanza di questa produzione è rilevante anche per il commercio, che riguarda la pensiola italiana, ma si allarga fino a diventare internazionale: questi beni avevano un peso elevatissimo nei mercati internazionali (non valeva la pena di trasportare beni di minor valore). Le aree interessate dei commerci internazionali erano: Spagna, Germania, Paesi Bassi, Francia. Per quanto riguarda l’importanza delle esportazioni, il settore delle manifatture di lusso è stato il laboratorio nel quale si sono sperimentate le prime politiche mercantilistiche orientate a riequilibrare i conti con l’estero quando fossero sbilanciati. ll caso francese è il più rilevante: un esempio di politiche organiche volte a sostituire le importazioni con lo sviluppo di capacità autonome interne. La finalità delle politiche francesi fu di rendere il popolo autonomo sul piano delle produzioni di manifatture di lusso. Molti di questi tentativi fallirono perché non era facile trapiantare in un contesto diverso le capacità sedimentate formate in anni di sviluppo delle manifatture in Italia. Nella nozione corrente di patrimonio culturale è compreso anche l’artigianato tradizionale (non quello di grande qualità, ma di beni più umili, che servivano a soddisfare i bisogni quotidiani delle persone). In passato non vi era concezione dicotomica tra arte e artigianato più umile, ma vi era un continuum (sia per chi realizzava i prodotti, sia per i consumatori). Ogni artista è anche un po’ artigiano perché deve possedere tecnica manuale: insieme al genio ci deve essere il mestiere; al contrario ogni artigiano è un po’ artista, in quanto sviluppa una cultura della creatività che trasfonde in abbellimenti del suo prodotto. Dal lato del consumatore c’è convergenza tra aspettative di funzionalità e di esteticità: i prodotti d’uso quotidiano erano ricercati in quanto funzionali e rappresentativi. Adesso vi è distinzione tra arte come creazione di prodotti unici e industria come creazione di prodotti in serie. Nell’artigianato, unicità e serialità si accompagnano: l’artista in senso stretto si dedicava a realizzare anche beni di lusso unici fino ad un certo punto, poiché attorno ad essi si sviluppavano mode in cui l’artista vedeva un possibilità di soddisfare una clientela più allargata producendo in piccole serie. Gli artisti si presentano come imprenditori di se stessi, si sanno autopromuovere. In entrambe le attività, sia strettamente artistiche che artigianali, importa il know-how. Era un sapere che veniva arricchito dall’esperienza ed era tacito, difficile da apprendere, non codificato. Il problema era la trasmissione delle conoscenze tra individui che lo apprendevano sul fare e tra le varie generazioni. La trasmissione della conoscenza avveniva attraverso lunghi percorsi di apprendistato, a volte formalizzato in contratti per l’insegnamento del mestiere. Il luogo di realizzazione dei beni, la bottega, era anche scuola, dove il maestro insegnava agli apprendisti. Gli studi storici hanno dimostrato che il know-how era tradizionale, ma si riscontrano momenti di innovazione e di circolazione dei saperi e di nuove tecnologie. Comune agli artisti e agli artigiani è che l’attività avveniva all’interno di organizzazioni corporative: tutti gli esercenti dell’attività erano raccolti in un ente con compiti diversificati, come quello di limitare l’attività, dare l’autorizzazione all’ingresso dell’esercizio di nuovi individui, regolare le modalità tecniche ed attribuire il marchio di qualità per mantenere alta la nomea. È un orientamento qualitativo cui le corporazioni si fanno tutrici che accompagnano l’artigianato tradizionale. Anche nelle le arti più creative e slegate dalle produzioni non c’è una gerarchia rigida. Sin dall’antichità vi erano dei settori considerati più importanti e più nobili, come l’architettura e la scultura, ma l’esempio di Cellini mostra come altre arti, come l’oreficeria e l’argenteria facciano parte del sistema artistico. In tutte le arti convivevano una componente di mestiere pratico ed una di talento naturale. A partire dal XVI sec nel mondo delle arti inizia una distinzione, un’ascesa di alcune arti rispetto ad altre e della figura dell’artista rispetto alla pluralità dell’industria delle attività creative. Alcune tappe di questa ascesa si hanno nella collocazione di Raffaello nel Pantheon o nella storia dei più eccellenti pittori e scultori e architetti ad opera del Vasari. Altri momenti saranno la collezione di disegni intesi come momento basilare della formazione delle arti: le arti si apprendono in quelle che diventeranno le accademie artistiche. Il processo proseguirà sino alla separazione tra le belle arti e quelle minori (intese come forma di artigianato di qualità). L’artigianato non perde di importanza reale. Nel 700 trova pieno riconoscimento nella descrizione delle tecniche e procedure anche grafica fatta all’interno delle grandi enciclopedie. È un riconoscimento anche culturale dell’imprenditorialità che sottostà all’artigianato dei suoi “spiriti animali”. Smith descrive l’impresa in termini tratti dall’impresa artigiana: il valore della competenza, la divisione del lavoro, il ruolo dell’imprenditorialità. Problemi all’artigianato si pongono con l’industrializzazione: ossia la produzione basata sulla centralizzazione in impianti sempre più grandi e utilizzando metodiche meccanizzate che portano alla standardizzazione della produzione. Durante la prima rivoluzione industriale nasce un dibattito sul fatto che l’industria possa aver causato una dequalificazione del prodotto e uno scadimento della qualità della società. Alcuni si chiesero come conciliare la produzione industriale (con vantaggi nell’accessibilità) con il gusto e la creatività. Nell’industria, alcuni imprenditori ispirati a idee riformatrici, o in settori che avevano per loro natura necessità di elementi grafici, si spinsero a favorire il recupero di cultura e creatività nella produzione: è l’alba del design, definita arte industriale, ingaggiando dei grafici o artisti che avevano sensibilità artistica ed estetica da porre al servizio della grande industria. Un altro momento di raccordo tra industria e cultura si ha con la nascita di nuove industrie culturali come il cinema. Il mondo dell’artigianato non resta passivo grazie a movimenti intellettuali (“Arts and Crafts”) che puntano a favorire la rivoluzione dell’artigianato tradizionale in piccole industrie artistiche grazie alla competenza professionale acquisita in scuole di disegno formale e geometrico o attraverso la costituzione di luoghi in cui vengono esposti modelli che il piccolo artigiano può osservare per stimolare gusto ed emulazione. In Italia si sviluppano progetti per rilanciare le città d’arte come capitali dell’artigianato. Nonostante l’industrializzazione sia pensata come produzione in grande serie, gli imprenditori non poterono ignorare che la domanda nell’800, con lo sviluppo economico e la nascita di nuovi gruppi sociali, si diversificava maggiormente. A livelli alti persisteva la committenza, che venne riferita alle antiche tradizioni artigiane, recuperando le tradizioni del medioevo o rinascimentali (a Milano i fratelli Bagatti Valsecchi; i Visconti di Modrone a Grazzano Visconti). Emerge una domanda borghese, mutevole, favorita dalla nascita dei grandi magazzini, i cui imprenditori saranno i sostenitori maggiori dello sviluppo dell’arte, con l’idea che anche in un’economia moderna l’arte possa svolgere un ruolo economico sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. UNITà 2 - L’ECONOMIA DELL’ARTE ALLE ORIGINI DELL’ARTE: COMMITTENZA E MECENATISMO - l’Italia è uno dei luoghi più affascinanti per la storia dell’arte e per testare i rapporti tra economia ed arte, non solo in ordine alla produzione artistica, ma anche al mercato. Anche all’estero l’Italia è sempre sembrata un repository, uno dei luoghi con un patrimonio fra i più attraenti. L’economia dell’arte è una prospettiva che si pone come crocevia tra tradizioni disciplinari diverse: quella propria della storia dell’arte e quella della storia economica. artisti. Quelli più rinomati vengono premiati con l’acquisto delle loro opere da parte dello stato. Inoltre i musei, per munirsi di collezioni, operano sul mercato acquistando opere anche di artisti contemporanei. IL COLLEZIONISMO - spesso il collezionista non è in relazione personale con l’artista. Il collezionismo assume una grande varietà di forme in età tardo-medievale e moderna; cambia dal punto di vista della composizione delle collezioni, della visibilità e delle sorti delle collezioni con il passaggio nelle mani dei successori dei collezionisti. Già in epoca antica si avevano le prime forme di collezionismo: erano costituite presso sovrani, grandi mecenati e notabili. Nel Medioevo si sviluppa in Occidente una forma di collezionismo che ha ad oggetto le reliquie: manufatti a cui si annette un valore spirituale, oggetto di commercio a punto tale che si arriverà a contrasti in materia. Uno dei più noti è quello che si svolse a Wittenberg, dove Federico III aveva creato ai primi del 500 un’imponente collezione di reliquie, di circa 20.000 pezzi, oggetto di devozione nella chiesa del castello. Questa collezione, nata anche da acquisizioni dirette da parte del sovrano durante viaggi in terra santa, fu criticata da Lutero, che alla vigilia della festa di Ognissanti del 1517, affisse sulla porte della chiesa le 95 tesi contro le indulgenze. Calvino prese di mira la questione delle reliquie facendone oggetto di sarcasmo; il concilio di Trento cercò di regolare questo fenomeno introducendo l'autorizzazione delle autorità ecclesiastiche in materia. Un secondo genere di raccolte preziose ha a che fare con le chiese, soprattutto le cattedrali e grandi abbazie, presso le quali si costituiscono collezioni di oggetti di ottima fattura che hanno uno scopo liturgico, che ne costituiscono il tesoro. Con la fine del 300, con l’emergere delle signorie e degli stati, presso le maggiori corti si costituiscono delle preziosissime raccolte frutto della sensibilità dei sovrani e dei circoli di artisti di cui si contornavano: una delle più note è quella del duca Jean de Berry a Parigi che creò una vastissima raccolta di libri miniati, vasi antichi, arazzi, monete, gioielli, ritratti, cammei. Nella fase dell’Umanesimo e Rinascimento si verifica una mania dell’antico, un cercare nel passato classico modelli di virtù e modelli tecnici e conoscenze del mondo. Questo si traduce in un interesse per tutto ciò che testimonia l’antichità: dai reperti materiali alle trascrizioni manoscritte dei saperi dell’antichità. Si costituiscono delle agglomerazioni di questi saperi e reperti in collezioni che hanno come elemento distintivo la presenza di frammenti dell’antichità. Non solo umanisti, ma anche nobili e mercanti sono accomunati in quest’interesse per l’antichità al punto tale da saccheggiare alcuni monumenti antichi per impossessarsi di qualche parte di esso. L’interesse per le civiltà antiche è tale da determinare una domanda internazionale che si avvale di intermediari in Italia per conto di sovrani e nobili di altri paesi. Un fenomeno diverso sono gli studioli o camerini principeschi: ambienti privati in un palazzo il cui possessore poteva ritirarsi segretamente per dedicarsi ai propri interessi culturali: è l’evoluzione dello studio dell’umanista che diventa sede di straordinarie raccolte d’arte. Ve ne sono diversi, di alcuni si conserva l’ambiente ma non più le mobilia e gli oggetti. Il più famoso è quello di Mantova, realizzato da Isabelle d’Este al Palazzo ducale. Il 5-600 e i principi del 700 vedono il modificarsi della natura di molte raccolte private che si arricchiscono di nuovi contenuti, significati e ruoli. Vengono chiamate “Wunderkammer”, camere delle meraviglie o gabinetti di curiosità: raccolgono prodotti dell’uomo (artificialia), oggetti di estremo gusto insieme a stranezze della natura (naturalia) a significare la ricerca dell’incognito, la curiosità che caratterizza questo secolo e anche le mostruosità, ciò che è ancora insondabile ma si vuole cercare di spiegare. Sono raccolte che innestano nella tradizione del collezionismo di stampo umanistico anche le nuove curiosità e sensibilità scientifiche dell’età. Questi materiali sono oggetto di ricerca attraverso corrispondenza di amatori di altri paesi, di viaggi diretti compiuti al seguito degli esploratori. Nasce anche una rete di procacciatori, di mercanti consapevoli che nella madrepatria vi sono persone curiose delle stranezze che provengono da nuovi mondi. Il pittore fiammingo Frans Francken II (il Giovane) si specializzò in quadri di piccolo e medio formato, con nature morte di fiori e frutta, ritratti, architetture, scene bibliche e soggetti mitologici e storici, realizzati per la creazione di gallerie d’arte personali (chambre of art and curiosities, cabinet d’amateur). Ci restano alcuni suoi quadri rappresentanti queste gallerie stesse. Alcuni di essi prefigurano la nascita di una funzione pubblica, di una prima apertura al pubblico di alcune raccolte. Un esempio è dato nel 500 in Veneto, dove a Padova nasce una collezione privata che poi dà vita ad un’istituzione: l’orto botanico. È al servizio della conoscenza naturalistica ed è opera di collezionismo privato e della passione di Pietro Antonio Michiel, un patrizio. L’imperatore Rodolfo II tra 5-600 raccoglie tra Vienna e Praga quella che diventa una delle maggiori camere delle meraviglie d’Europa, in cui circolano gli artisti di corte e gli scienziati. A Praga, nella camera delle meraviglie, studia la chimica e l’alchimia Keplero. A Milano, un ecclesiastico, Manfredo Settala è un accumulatore seriale di meraviglie; a Roma, un altro ecclesiastico, Athanasius Kircher, fonda una raccolta di antichità e curiosità nel Collegio Romano (istituzione che doveva formare i Gesuiti). In età barocca, i frutti della committenza e mecenatismo si traducono in grandi scenografie urbane, riti collettivi e celebrazioni, ma anche nella creazione di grandi raccolte. Grazie all’invenzione della camera ottica o camera oscura, sboccia il Vedutismo, che promuove una nuova immagine dell’Italia all’estero: non solo si esportano quadri, vengono richiesti quadri che rappresentano le città d’arte e i paesaggi italiani, ma anche gli artisti che li realizzano sono ricercati moltissimo. Questo contribuisce a creare un’immagine dell’Italia all’estero che produrrà il successo dell’arte italiana. L’epoca dei Grand Tour, il turismo elitario e culturale: si trattava di viaggi in Italia da parte delle élite europee che avevano lo scopo di educare all’arte e alla cultura, di affinare i comportamenti e le conoscenze, parte del bagaglio educativo delle élite. Il viaggio in Italia sostiene un grandissimo interesse e contribuisce a generare una forte domanda sia di prodotti artistici dell’antichità sia dell’età contemporanea da parte dell'aristocrazia britannica. La scoperta nel 700 dell’antica Ercolano e di Pompei, promossa dal sovrano dell’epoca, creò un interesse enorme, una volta che questi siti sono stati messi in luce e descritti, per l’arte antica, contribuendo a commissionare trafugamenti di reperti per le collezioni degli appassionati stranieri. Si sviluppa quindi l’archeologia classica, ma anche il confronto con l’antico, una visione dell’arte assoluta il cui ideale era l’arte classica, che, come descrisse Winckelmann, era “nobile semplicità e quieta grandezza”. Nel 6-700 si registrano molti cambiamenti nell’ambito delle gallerie e delle collezioni. Il primo è l’aumento del numero e delle dimensioni delle gallerie e delle collezioni personali poiché aumenta la produzione e circolazione delle opere d’arte o di reperti di antichità. Questo aumento induce a sviluppare delle metodiche di classificazione ed esposizione e nuovi strumenti descrittivi, cataloghi ed inventari: sono i primi passi della museografia. Non vi è solo il collezionismo di élite, ma in questi secoli e soprattutto nei paesi nordici, si sviluppa il piccolo collezionismo, espresso dai ceti medi, dalle borghesie medio-basse: questo significa per gli artisti avere nuove occasioni di reddito, passano dalla soddisfazione della domanda personale di grandi committenti alla produzione per il mercato. Infine, per quanto riguarda le camere delle meraviglie, relativamente agli oggetti di natura, si ha un’evoluzione che riguarda l’articolazione dei saperi, che tendono ad essere più specializzati: di conseguenza anche le raccolte tendono ad essere più specifiche e le singole collezioni non promettono più di essere rappresentative di tutto l’universo. Anche il metodo scientifico richiede più dell’osservare: è il passaggio dal laboratorio alla scienza sperimentale. IL MERCATO DELL’ARTE – i beni artistici nascono come beni durevoli. Nel lungo periodo affrontano molti passaggi di mano (acquisti/vendite/peripezie); quello delle opere d’arte è un commercio fin dalle origini di lunga distanza o internazionale in cui operano molti intermediari (non necessariamente specializzati soprattutto in età moderna, insieme al commercio di beni di qualche valore intrinseco commerciano anche beni di qualità artistiche ed opere d’arte) o brokers che giocano un doppio ruolo: ambasciatori e diplomatici presso stati esteri che operano anche come agenti e informatori culturali ed artistici per le aristocrazie del proprio paese. L’uso del termine mercato applicato alla storia, inteso come una relazione mediata dal denaro tra soggetti che non si conoscono in luoghi deputati e specifici è molto contemporaneo. La nascita dell’opera d’arte si spiega sulla domanda della committenza: la maggior parte della produzione e della compravendita di opere d’arte avveniva al di fuori del mercato (al contrario in epoca moderna). Arte e mercato coesistono da secoli: soprattutto nel caso del collezionismo. Il collezionista spesso è sostenitore nei confronti degli artisti; quando non conosce direttamente gli artisti e pone al centro la crescita della propria collezione, punta in direzioni diverse: non si limita alla produzione nuova, ma guarda al patrimonio che si è sedimentato nel tempo e si avvale di mediatori. Il collezionista non aspetta di veder crescere l’opera, ma la cerca e la acquista ed eventualmente la vende. Tracce di mercati artistici esistono già nel medioevo: si nota una distinzione tra le opere che vengono dal passato (soprattutto dall’epoca romana) che hanno una certa aura che deriva dallo scoprimento, dal non conoscere l’autore; si è consapevoli che hanno una storia di secoli. Vi sono anche opere prodotte per il mercato: sono manufatti di qualche pregio artistico, di cui si conosce l’autore (spesso venduti dallo stesso artista); sono dipinti che assecondano il pubblico nei temi (religiosi e profani), il cui formato è alla portata del pubblico (dipinti di modesta qualità o copie). Vi sono anche beni di lusso e di pregio artistico in materiali pregiati come l’avorio, smalti ed ori che sono oggetto di vivace mercato, poiché sono di piccola dimensione e di vita quotidiana anche se accessibili solo a famiglie che godono di un certo benessere. Sono anche beni commerciali e trasportabili, a volte prodotti su commissione. Vi sono poi altri esempi di mercati artistici di dimensioni internazionali: l’esportazione di dipinti sacri dalla penisola italiana o il commercio in aerea tedesca di sculture lignee, il commercio delle stampe a Parigi, l’esportazione di quadri da Anversa o di dipinti da Venezia e Roma. Le città al centro di un commercio internazionale di oggetti d’arte e di lusso sono Firenze, Venezia e Roma. A partire dal 500 si moltiplicano le presenze straniere su queste piazze: affluiscono gli artisti che competono per nuove commissioni, acquistare il materiale, avere uno stimolo dalle tradizioni artistiche del medioevo italiano. Qui trovano anche i luoghi dove vendere le proprie opere e servizi, poiché in Italia vi sono i committenti e collezionisti più famosi. Continuano fra 400/500/600 i commerci locali, i mercati locali d’arte rappresentato da intermediari come strazzaroli e rigattieri a Roma, organizzati in corporazione, i quali intermediano fra domanda e offerta per ogni genere di beni e per piccoli beni d’arte o di lusso che per il loro discreto valore venivano consegnati ai monti di pietà per avere un prestito su pegno. Nel caso in cui non venisse restituito il prestito, il monte alienava il bene per trarne reddito, che finiva in seconde mani. Anche nell'Europa centrosettentrionale alcune realtà urbane diventano centri attivissimi nel mercato internazionale delle arti e per la manifattura dei beni artistici: nei Paesi Bassi si troverà uno dei principali mercati internazionali in età moderna; le città principali sono Bruges e Anversa. A Bruges la corte dei Borgogna è molto attiva: acquista e commissiona beni in quanto vi sono delle confraternite religiose molto attente a commissionare opere d’arte ed esporle per ragioni catechetiche. Sono città mercantili, che fanno parte del consorzio delle città commerciali, la Lega Anseatica. È presente una borghesia che ha un forte desiderio di mostrarsi come un gruppo sociale capace di manifestare attraverso gli investimenti artistici il proprio benessere e capacità di governo. A Bruges ed Anversa vengono realizzati appositi spazi espositivi per gli artisti, per facilitare l’incontro tra domanda e offerta. In Germania, Francoforte, Norimberga e Augusta sono le città sede di attivi mercati d’arte. I soggetti attivi sul versante della domanda sono i grandi aristocratici, i ricchi collezionisti tedeschi. A questa domanda risponde una notevole abilità di queste realtà sociali sul piano dell’artigianato: i livelli di eccellenza raggiunti nell’oreficeria in quest’area sono ineguagliabili, grazie anche ad una forte presenza di corporazioni molto attente a mantenere un livello elevato nella qualità delle produzioni. L’area subisce un forte declino a causa della Guerra dei 30 anni; l’altro limite allo sviluppo dei mercati d’arte è che prevale ancora a lungo la commessa. Questo è anche l’esito di una struttura sociale che vede l’esistenza di una forte polarizzazione dei redditi accanto ad una élite che detiene enormi ricchezze e gusto, mentre d’altra parte vi è una popolazione che non è in grado di esprimere altro che una domanda di beni essenziali. Colbert, primo ministro di Luigi XIV, l’arte diventa uno strumento di governo, un modo per dare la massima visibilità ed espressione al monarca. Dal 1961 vengono costituite accademie pubbliche di pittura e scultura, musica, architettura. Il loro compito è di organizzare il settore di cui si occupano, di selezionare gli artisti sulla base del merito, di stabilire una gerarchia interna sulla base delle competenze; hanno il compito di regolare l’evoluzione dei contenuti dell’arte, delle tecniche, anche pubblicando appositi manuali e trattati. Hanno anche il compito di insegnamento, per forgiare un vivaio di artisti, per innalzare il livello qualitativo e creativo di una nazione. Si tentava di uscire dalla tecnicalità ed elaborare anche teoricamente il significato dei contenuti dell’arte stessa. Aveva anche una funzione operativa, quella di organizzare sistematicamente le esposizioni che si ripetevano circa una volta all’anno ma con cadenza non sempre regolare: i Salon, in cui gli artisti accreditati potevano esporre, vendere le proprie opere al pubblico e allo stato. Si è di fronte ad un patronage pubblico dell’arte in Francia. Gli effetti furono discussi: il sistema era estremamente centralizzato su Parigi, il resto della Francia era molto meno dinamico e dipendente dalla capitale; lo stato finiva per irreggimentare l’evoluzione dell’arte che risultava condizionata; il mercato dell’arte era limitato perché il sistema finì col privilegiare le compravendite pubbliche ai Salon o agli artisti accreditati dalle accademie senza intermediari. Anche in un sistema così strutturato e rigido come quello francese, il 700 registra degli scostamenti. Il sistema delle accademie artistiche vede ridimensionare il suo peso perché il mercato delle opere d’arte non è costituito solo da opere e artisti nuovi: nel 700 si ha la messa in vendita di collezioni di grandissima importanza per la quale i Salon non sono il luogo deputato. Questo dà spazio ai mercanti d’arte ed al sistema delle aste, numerosissime. Emersero nuovi commercianti d’arte, inizialmente commercianti di tutto (marchands merciers) che in città erano commercianti puri, che non si preoccupavano di far produrre e poi commercializzare, ma si occupavano soprattutto dell’intermediazione di oggetti di gusto, che rispondevano alle preferenze dei ceti urbani più benestanti. Dal 1740 si assiste ad una loro specializzazione nel settore delle stampe dei dipinti, facendo nascere nuovi canali per la commercializzazione delle opere d’arte. N.B. la prima casa d’asta si ebbe a Stoccolma nel 1674, poi in Inghilterra, Vienna e Parigi nel 700, in America nell’800. ARTE E SOCIETÀ (CASTELNUOVO-BIGNAMINI) Il committente - Il committente è colui che richiede all’artista l’esecuzione di un’opera e ne paga il prezzo. Il committente può riservarsi il diritto, spesso sancito da un contratto, di specificare il compenso e il termine di consegna, la tecnica, i materiali, le dimensioni e il soggetto dell’opera, facendo pesare le proprie preferenze. Come personaggio chiave della domanda e come finanziatore dell’artista, il committente ha svolto un ruolo capitale nella storia dell’arte e quindi la sua figura e il suo operare sono stati di frequente oggetto di studi, specie da parte di coloro che scorgevano in lui un elemento rivelatore del funzionamento sociale della produzione figurativa, un nesso del rapporto tra arte e società. Il committente è stato così uno dei punti forti della storia sociale dell’arte di tendenza marxista. Per Antal egli è il regista che, in funzione degli interessi e della cultura del suo gruppo sociale, decide una strategia delle immagini. Per Hauser agisce come portavoce del gruppo. Sia Antal che Hauser privilegiano il momento della domanda (il ruolo del committente) rispetto a quello dell’offerta (al ruolo dell’artista). Gombrich ha sottolineato come il committente influenzasse la produzione artistica, e come quest’ultima stimolasse la domanda fra i committenti, come i mutamenti stilistici riflettessero uno spettro ampio di problemi, come molti e diversi fossero i motivi che potevano spingere alla committenza e come il prestigio conferito dagli artisti ai committenti avesse portato a un parziale rovesciamento dei ruoli sociali. L’appello a un approccio che tenesse conto delle molte variabili che esistono nel rapporto tra committente e artista è stato raccolto da Haskell nel suo studio sulla committenza a Roma e a Venezia nel Seicento e nel Settecento. Per Goldthwaite non si può considerare questo tema senza ricorrere a un approccio che guardi al mecenatismo artistico come a una forma di consumo, legata ai valori complessivi dell’ambiente socioculturale di riferimento. In questo caso, data la natura di bene durevole del prodotto artistico, i benefici si distribuiscono nel tempo e quindi l’acquisto di un tale prodotto è anche una forma di investimento, il cui rendimento varia a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche. Si possono avere rendimenti simbolici di status, di potere. Bourdieuha introdotto il tema del mercato dei beni simbolici e ad una forma di rendita simbolica alludeva già Leon Battista Alberti in un passaggio del De re aedificatoria: «con tale frutto delle tue sostanze hai contribuito in modo cospicuo alla fama e allo splendore della tua famiglia, dei tuoi dipendenti e della città». Oltre che rendimenti simbolici i beni artistici possono produrre rendimenti finanziari. In tempi recenti la componente finanziaria è diventata preponderante, come indica la situazione del mercato dell’arte. Per un lungo periodo, invece, il pregio e il costo di certe opere d’arte dipesero dai materiali: agli inizi del Quattrocento il duca d’Angiò fondò un’oreficeria, che aveva commissionato al maestro Gusmin da Colonia, per ricavarne il metallo, mentre i francescani di Salisburgo mostrano, nel primo Settecento, di tenere in scarsa considerazione l’altare maggiore quattrocentesco della loro chiesa facendolo distruggere e recuperando una parte dell’oro che era stato impiegato nella fattura. Il nome del committente troneggia con varie appellazioni (auctor, aedifica- tor, fabricator, anche architectus), in opere medievali di architettura e di oreficeria ed è probabile che in alcuni casi l’intervento del committente ecclesiastico, educato in una scuola-cattedrale o in un monastero ed esperto in talune tecniche artistiche, sia andato al di là dell’aspetto economico, tanto da dar luogo a una simbiosi tra committente e artista, per cui il primo interveniva nelle scelte e nella fattura dell’opera. Il problema si pone diversamente a seconda del grado di cultura del committente e dello stato sociale e della cultura dell’artista. Mentre il committente ecclesiastico poteva disporre di un bagaglio culturale che gli permetteva di intervenire, di decidere programmi iconografici e altro, questo non era il caso dei committenti laici, accanto ai quali incominciarono ad apparire i consiglieri eruditi, che stabilivano temi e programmi, costituendo un terzo agente nella produzione dell’opera. La piccola committenza, di cui possiamo conoscere qualcosa attraverso i lasciti testamentari, è stata studiata poco. A partire dalla fine del Trecento, i lasciti testamentari rivelano un diffuso interesse per la pittura e nelle loro formulazioni possono essere rivelatori delle funzioni che a essa venivano attribuite. Gli studi sulla committenza si sono concentrati sul periodo rinascimentale: in particolare le corti. Si è tentato di imprimere una svolta allo studio della committenza calandola nel contesto del patronage, inteso sia come sistema di clientele che come mecenatismo inerente non solo alle arti figurative. Oltre ai casi di singoli committenti e di dinastie, si sono analizzati gli atteggiamenti di collettività, come gli ordini religiosi e i governi cittadini, con le loro istituzioni politiche ed economiche, e le strategie artistiche dei grandi Stati nazionali, delle corti e dei grandi centri di mecenatismo; si è guardato alla città e ai suoi edifici come a una summa dei rapporti tra committenti e artisti; si è individuata nella filantropia una fonte di committenza; si è indagato sul rapporto tra committenti e tipologie architettoniche; si è messa a fuoco la committenza per proiettare nuova luce sull’iconografia delle opere; si è cercata nella tipologia delle opere la chiave per studiare il comportamento dei committenti; si è analizzata l’insoddisfazione di questi. Dopo i secoli del Medioevo, in cui il rapporto tra committenti e artisti era fortemente squilibrato in favore dei primi, la situazione cambiò a vantaggio dei secondi: nell’Europa occidentale tra il Quattro e il Settecento l’attività artistica andò configurandosi sempre più come produttrice di beni di lusso, in quanto segni di distinzione portatori di alto prestigio, il che determinò una crescita dello stato sociale e del potere contrattuale di alcuni artisti rinomati. Alle opere d’arte viene affidato un ruolo di legittimazione e di dominazione simbolica nel corso dell’affermarsi degli Stati assoluti e ciò ha conseguenze particolari sulla posizione sociale di alcuni artisti. Una situazione nuova si verifica nell’Olanda del Seicento dove, in seguito alla rottura politico-religiosa con le Fiandre, viene a mancare la domanda di tradizionali committenti e si precisa la fisionomia dell’amatore- committente-collezionista, che acquista con continuità la produzione di un artista. Con la Rivoluzione francese i centri tradizionali di committenza scompaiono, per riapparire durante la Restaurazione. Si manifestano, accanto alle antiche, nuove forme di committenza, meno dirette ma non meno importanti, quali i musei e i salons. Haskell ha evidenziato il peso esercitato sulla situazione francese dalla nascita di un museo destinato ad acquistare e ad accogliere opere di artisti contemporanei: il Musée du Luxembourg. Analogo discorso può essere fatto per i salons, le grandi esposizioni ufficiali dove venivano attribuiti i premi e dove lo Stato si faceva acquirente di opere d’arte. Zola, in L’oeuvre, rappresenta nel personaggio di Lantier (ispirato a Cézanne) un artista ribelle e d’avanguardia che ha in mente una grande opera che lo renderà immortale. Sceglie per la sua tela dimensioni da salon ufficiale, ma nelle varie versioni rappresenta la realtà, un soggetto quindi da Salon des refusés. Il rifiuto della committenza ufficiale fu, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, un comportamento distintivo di gruppi di artisti che si riconobbero come una avanguardia, scegliendo una strategia di attacco che li indusse a cercare alternative. Questa strada ha condotto all’attuale sistema delle gallerie e dei mercanti d’arte, che ha sostituito le antiche strutture, senza determinare una sparizione della committenza, presente sotto forme diverse non solo nel campo dell’architettura e della scultura. Oggi si tratta di differenti tipi di interventi, diretti o indiretti, di organi governativi, enti, agenzie, fondazioni, musei, diverse istituzioni, gruppi, collettività, aziende. I collezionisti - Il collezionismo d’arte, coltivato in varie forme nell’età classica fu una tradizione della corte imperiale cinese, inaugurata da alcuni imperatori della dinastia Han (202 a.C.-220 d.C.), appassionati collezionisti d’arte. La tendenza degli imperatori cinesi a riunire in un solo luogo tutte le opere d’arte disponibili fu all’origine di gravi distruzioni: durante il regno di Ming-Ti la produzione artistica dell’intero regno fu riunita e quando la capitale venne saccheggiata, le distruzioni furono immense. In Occidente, il collezionismo artistico, durante il Medioevo, si manifestò nel culto delle reliquie, accumulazione di materie preziose, raccolta di suppellettili rituali nei ricchi tesori ecclesiastici delle cattedrali e delle grandi chiese abbaziali. Solo alla fine del Trecento, nelle maggiori corti europee si manifestarono autentiche forme di collezionismo artistico. Nel periodo rinascimentale e in quello barocco si sviluppano grandi raccolte: preziose le testimonianze sul collezionismo del primo Cinquecento nell’Italia settentrionale redatte dal veneziano Marco Antonio Michiel. Le Kunst- und Wunderkammern sono collezioni di singolarità naturali e artificiali. Il Settecento, secolo che, grazie al posto di primo piano assegnato alle arti nell’educazione del gentiluomo, vede l’affermarsi del grand tour, il viaggio che ha spesso per meta l’Italia, intrapreso a scopi educativi e culturali. Questo fenomeno è particolarmente legato alla calata dei britannici in Italia e ha dirette conseguenze sulla genesi e sull’accrescimento delle grandi collezioni dell’aristocrazia inglese, che in questo secolo conobbero il loro massimo splendore. Il piccolo collezionismo anonimo è difficile da individuare e da documentare eppure fondamentale per comprendere il passaggio dai grandi centri di mecenatismo al mercato, dal grande collezionismo al collezionismo diffuso che accompagnò l’espansione dei consumi, l’ascesa delle nuove professioni e l’affermarsi della moderna società borghese. Nell’Ottocento e nel Novecento il collezionismo si diffonde, contribuendo ad alimentare numerosi musei e fondazioni e a sostenere il mercato dell’arte. Il museo - dai teatri del mondo seicenteschi, dalle grandi gallerie di quadri, dalle raccolte di antichità, dalle collezioni di calchi di statue classiche discendono e nascono le prime collezioni pubbliche cui illuministi e rivoluzionari conferiranno il compito di educare moralmente e culturalmente i visitatori. Il grande museo moderno nasce con la Rivoluzione francese come risposta agli attacchi iconoclastici rivolti contro le immagini legate all’ancien régime, ma da taluni considerate parte del patrimonio culturale del paese e dell’umanità intera; una risposta che permette, attraverso l’estraniazione dal contesto, di trasformare le valenze delle immagini e di esorcizzarne il potere di dominazione simbolica. Il museo offre una parziale soluzione alla confisca delle collezioni reali e nobiliari e alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici e risponde alla volontà napoleonica di fare di Parigi la capitale dell’Europa, rendendola depositaria dei tesori artistici del continente. Nasce il Musée des monuments français, dove Lenoir raccoglie opere e monumenti in pericolo e suggerisce l’evoluzione della storia culturale della nazione, Nella Roma classica, la straordinaria importanza attribuita alle immagini come strumento di potere, a partire dall’età augustea, non ha conseguenze sulla posizione sociale dell’artista. Strettamente legata al prestigio di cui gode l’artista è la sua firma. La firma è un indizio significativo dell’autocoscienza dell’artista e del riconoscimento della sua individualità e dei suoi modi espressivi da parte dei committenti e del pubblico. I primi nomi di artisti giungono da aree del Mediterraneo e dell’Estremo Oriente pervenute a un certo grado di sviluppo e a una certa laicizzazione dell’attività figurativa. La firma dell’artista, diffusa nell’antichità in Grecia, viene apposta, per quanto riguarda la pittura, con continuità in Cina, in modo più sporadico e frammentario in India (dove il proliferare delle firme, accompagnato da importanti forme di collezionismo, caratterizzerà l’Impero moghūl) e regolarmente ad opere appartenenti al periodo classico Maya. Durante il primo Medioevo la firma dell’artista sparisce dall’Europa occidentale, per poi riapparire in Italia a partire dall’VIII secolo in opere di scultura e di oreficeria (Magister Ursus firma una lastra incisa a Ferentillo; l’orafo Vuolvinio firma l’altare d’oro di Sant’Ambrogio di cui è autore). Agli inizi del XII secolo un nuovo atteggiamento verso l’artista si fa strada in Italia: a Pisa e a Modena iscrizioni elogiative poste sulle mura delle nuove cattedrali ne lodano gli autori. La tomba di Buscheto, architetto della cattedrale di Pisa, è murata nella facciata dell’edificio, coperta da un’epigrafe che tesse le lodi dell’artista. I committenti celebravano i nomi degli artisti che avevano lavorato alle imprese da loro promosse, sottolineandone la capacità e la dottrina come qualità che portavano lustro a loro stessi e alla città. Frequente nell’opera di scultori e di orafi, la firma non appare spesso nel caso di pittori, anche se in Italia, nel XIII secolo, le firme dei pittori apposte a opere su tavola non sono rare. Nello stesso secolo, in Francia, la firma dello scultore scompare completamente, per lasciar posto nelle grandi cattedrali gotiche, al nome dell’architetto, a indicare il ruolo di grande importanza che questi ricopre nei nuovi cantieri. Quella dell’architetto è la prima figura di artista che assume un rilievo particolare nella società medievale. Contro l’offensiva della scolastica, che ribadisce il pregiudizio nei confronti delle arti meccaniche, Pierre de Montreuil, architetto di alcune delle maggiori imprese parigine del Duecento, è chiamato nella sua lastra tombale «doctor lathomorum» [dottore o maestro dei muratori] e Libergier è raffigurato a Reims vestito con una sorta di toga magistrale e con in mano il modello della chiesa da lui progettata, privilegio sinora riservato ai committenti. Le due iscrizioni autobiografiche di Pisano sul pulpito della cattedrale di Pisa annunciano una nuova posizione per l’artista. Aveva trovato posto nel sistema delle corporazioni, ma le vie che gli permetteranno di uscire dalla sua condizione di inferiorità saranno: l’ingresso nel sistema delle corti e l’alleanza con gli intellettuali e i letterati. Il termine «doctor», sulla tomba dell’architetto Pierre de Montreuil, era stato già usato per l’autore del grande mosaico duecentesco sulla facciata della cattedrale di Spoleto e termini come «doctus» o «doctissimus» indicano scultori e lapicidi tra il XII e il XIII secolo. Una sanzione della nuova situazione è rappresentata dal passo di Dante in cui i nomi di Cimabue e Giotto, e di due miniatori, Oderisi e Bolognese, vengono accomunati a quelli di due letterati. Nel corso del Trecento i letterati fiorentini si impadroniscono della figura di Giotto, la cui arte innovatrice andava conoscendo una straordinaria accoglienza europea, fino a farne un loro pari, un artista che appartiene a una élite da cui è compreso. Villani includerà Giotto e altri pittori nell’elogio degli uomini illustri della propria città. Questo processo di rivalutazione continuerà nel corso del Quattrocento, mentre patrocinando imprese artistiche e stabilendo legami privilegiati con artisti, le corti di Borgogna, di Francia, di Napoli, d’Aragona, quella imperiale e quella papale, diversi centri italiani contribuiranno a eludere i regolamenti corporativi e a modificare l’immagine dell’attività artistica. La posizione raggiunta da artisti quasi divinizzati, il sorgere di una letteratura artistica, che trova il suo culmine nelle Vite del Vasari; la costituzione di accademie artistiche specifiche e autonome contribuiscono a modificare radicalmente la situazione. Molteplici studi sono stati dedicati ad artisti olandesi del Seicento: i rapporti tra artisti e società si presentano con una nettezza particolare e si diversificano da quelli in atto nella parte dei Paesi Bassi rimasta cattolica e imperiale dopo la secessione politica e religiosa della fine del Cinquecento. Esemplare la monografia di Montias su Vermeer, biografia e al tempo stesso microanalisi documentaria della vita urbana e della professione d’artista, illustrazione di mondi separati che convergono illuminando la vita e l’attività dell’artista, la sua produzione, l’accoglienza riservata alle sue opere. Studi recenti su Rembrandt vanno anch’essi nella direzione di una storia sociale dell’artista e della sua produzione. Con le rivoluzioni politiche, sociali, economiche e tecnologiche della fine del Settecento, la posizione dell’artista subisce bruschi mutamenti. In Francia David, con la sua multiforme attività di politico, di pittore, di creatore di nuove iconografie, di regista di inedite forme artistiche collettive, occupa un posto nuovo. Di fronte alla crisi del vecchio sistema di committenza e di produzione, gli artisti iniziano a legarsi in gruppi, comunità, movimenti. Si accentuano certe forme di comportamento: è questo il momento della nascita dell’artista bohémien. In Francia il sistema delle esposizioni pubbliche, legato all’insegnamento e alle giurie accademiche, propone agli artisti professionalizzati uno sbocco diverso e a un pubblico sempre più vasto e a una domanda in aumento un crescente numero di opere. Nel corso dell’Ottocento all’interno della cultura romantica si sviluppa anche per gli artisti l’ideologia della vocazione, del genio, che spinge all’adozione di certe forme di comportamento sociale che si erano manifestate in un gruppo di pittori fiorentini nel primo Cinquecento. Numerose si fanno le reazioni al sistema ufficiale, finché emerge il contrasto tra due strategie: quella di coloro che puntano alla grande diffusione e quella di chi invece mira a una diffusione limitata e selezionata. Incuranti dei favori del grande pubblico, coloro che si considerano d’avanguardia rifiutano il successo commerciale ottenuto attraverso gli abituali circuiti e cercano la propria legittimità nell’approvazione di un piccolo gruppo di intellettuali, di cui condividono giudizi e valori, e nell’appoggio di singoli mercanti. Di fronte alla temporanea crisi delle istituzioni ufficiali i critici, artefici della consacrazione e della diffusione delle opere, stringono con i mercanti legami sempre più stretti fino a costituire un sistema che governa il mercato. Il dilatarsi e il crescere d’importanza dell’universo dei media spingeranno poi l’artista a sviluppare nuove strategie. Le tecniche - sia a causa della svalutazione del mestiere nel corso della reazione antiaccademica novecentesca, sia in opposizione al determinismo di pensatori come Semper, che avevano legato troppo strettamente tecniche, materiali ed esiti formali, sia a causa dell’affermazione dell’onnipotenza dell’artista, per cui ogni vincolo tecnologico costituirebbe una limitazione, le tecniche non hanno ricevuto un’attenzione sufficiente al di fuori di un ambito strettamente specialistico. Mentre ci si è occupati molto della rappresentazione dello spazio, a causa del fatto che nella prospettiva è stata riconosciuta una forma simbolica che può caratterizzare il modo di sentire e di pensare di un certo tempo, pochissimo ci si è occupati della resa della luce o della superficie della materia. Scarso interesse è stato riservato ai problemi dell’abilità tecnica. Per molti secoli il criterio di classificazione fu quello della tradizione tecnica propria di determinati centri: lo dimostra la terminologia degli inventari medievali, in cui si parla di «opus lemovicense», di «opus veneticum», di «opus romanum», di «opus atrebatense», di «opus lucense» per indicare un certo tipo di smalto, di oreficeria, di arazzo, di tessuto. Anche l’«opus francigenum», termine con cui è stata indicata la costruzione gotica, venne inteso come una specialità tecnica in cui aveva larga parte un certo modo di tagliare e montare le pietre più che come uno stile. Nella tradizione anglosassone gli studi sulle tecniche nei loro aspetti sociali hanno avuto una certa importanza, specie quelli riguardanti la costruzione medievale. Un libro esemplare è stato quello di Summerson sulla Londra georgiana. Si soffermava sul tipo di mattoni utilizzati, sull’uso della pietra artificiale, sulla sua invenzione, sullo sfruttamento della patente che ne autorizzava la produzione, evocava i vincoli imposti alla fabbricazione di porte e finestre dalle norme approvate dal Parlamento, presentava gli architetti come costruttori edili e soci in affari degli industriali della pietra artificiale e i committenti come speculatori, costruttori, sfruttatori dei terreni da cui si ricavavano i materiali per l’edilizia. Al centro di quest’opera c’era il problema dei vincoli tecnologici nel loro rapporto con la produzione artistica. L’architettura è un’arte con forti vincoli tecnologici ed è in questo campo che si trovano le trattazioni più ampie e mature dei problemi che riguardano materiali e tecniche. La scultura, che per l’uso dei medesimi materiali e di analoghi strumenti di lavorazione ha molto in comune con l’architettura, è stata oggetto di importanti contributi. Un esempio è la sintesi di Montagu dei problemi riguardanti le tecniche, i materiali e la loro lavorazione nella scultura barocca romana. Altre ricerche che hanno messo in risalto il ruolo delle tecniche hanno riguardato la pittura e l’affresco, che, grazie alle grandi campagne di restauro del dopoguerra e alla scoperta delle sinopie (disegni preparatori nascosti sotto l’intonaco), ha conosciuto una grande fortuna negli anni Sessanta. Sono state studiate anche la miniatura e l’illustrazione di manoscritti, dove Pächt ha saputo leggere in modo sottile i complessi rapporti tra la pagina scritta e l’immagine. Il caso delle pitture fiamminghe su tela del Quattrocento, è stato recentemente oggetto di un’analisi esauriente. Le opere - le opere sono un deposito di relazioni sociali, il punto d’incontro delle strade percorse dall’artista, dalle tecniche, dai committenti, dal pubblico. Una volta compiute, le opere vivono nel tempo, fatte oggetto di un filtro sociale, reinterpretate, riviste, rivisitate. Significativa la constatazione della permanenza del richiamo esercitato da certe opere anche dopo che la società in cui sono nate è scomparsa e i modi di vedere e di pensare dei suoi produttori sono stati dimenticati. Il destino e la ricezione di un’opera possono essere rivelatori dei mutamenti di funzioni che ha conosciuto la produzione artistica. Considerando il destino di un’opera d’arte trecentesca, di un polittico dipinto, composto da diverse tavole che si ergeva sull’altar maggiore di una chiesa e che oggi, smembrato, è conservato in differenti musei e collezioni. Le tavole dipinte con immagini di santi o con storie della loro vita sono state fisicamente separate le une dalle altre; con la decontestualizzazione e lo smembramento si sono smarriti il senso e l’unità del messaggio iconografico e si sono perse l’integrità e la complessità dell’opera che, nata dalla confluenza di diverse tecniche, viene a essere ridotta alla sola dimensione della pittura. Le parti smembrate trovano accoglienza in musei e collezioni dove vengono proposte all’attenzione come opere autografe. Per molto tempo le possibilità di sopravvivenza si sono giocate sul frammento attraverso il quale per capolavori dell’arte classica e per opere appartenenti a epoche diverse, cui la funzione artistica conferita dalla nuova contestualizzazione museale assicura un richiamo diverso da quello originario, ma ancora operante, grazie al mutare delle funzioni, attraverso il tempo e lo spazio. Particolare interesse per intendere il modo in cui si guardava alle opere e i compiti loro affidati ha lo studio dei generi artistici e della loro gerarchia. L’emergere del ritratto, l’affermarsi di una pittura rivolta alle forme della natura, l’attenzione riservata alla resa di un paesaggio particolare e caratterizzato illustrano la funzione conoscitiva svolta dalla pittura tra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. In seguito alla nascita delle accademie, alla loro conquista del monopolio dell’insegnamento e alla professionalizzazione delle attività artistiche, si arrivò a una sistemazione istituzionale; per quanto riguarda la pittura si precisò una gerarchia al cui livello più alto era posta la riproduzione di scene storiche e in posizioni inferiori il paesaggio, il ritratto, la natura morta. Nel contempo si verificò una separazione tra pittura e illustrazione scientifica: quest’ultima continuò a perseguire l’indagine conoscitiva che non era stata distinta dagli altri compiti della pittura. Qualche opposizione al sistema dei generi venne dagli artisti; il Caravaggio sostenne che per lui il dipingere non conosceva distinzioni di contenuti. Significativo è il fatto che analoghe distinzioni si ritrovino nella gerarchia dei generi applicata dalla Académie Royale francese (storia, ritratto, animali, paesaggio, natura morta, ecc.) come nella accademica cinese (Buddha, uomini, paesaggi, uccelli, fiori). Queste categorie, ancora utilizzate nei salons ufficiali dell’Ottocento, vennero messe in crisi dal tramonto del sistema accademico e dalla priorità attribuita all’azione dell’artista. Il mercato - committenza e mercato sono i due destinatari cui si indirizza l’offerta dell’artista. A lungo sono coesistiti, fino a quando, nel corso degli ultimi due secoli, il mercato non ha preso il sopravvento. Due sono i principali mercati artistici: quello delle opere contemporanee e quello antiquariale (quello delle opere prodotte per il mercato e quello delle opere che passano attraverso il mercato pur non essendo state in origine progettate per questo scopo). Tra i due mercati sono sempre esistiti stretti contatti. Per molti secoli gli artisti hanno lavorato prevalentemente su commissione. Il mercato d’arte, già esistito in epoca classica, ricomincia a delinearsi in ambito europeo nel corso del Trecento. Si era già di fronte a un mercato che funziona sia per opere contemporanee sia per prodotti più antichi, già presente in precedenza per molti prodotti di piccole dimensioni e quasi se- riali. delle arti visive, sostenendo che i letterati non posseggono le competenze necessarie per intervenire nel campo. Prospettive - malgrado siano state scritte molte storie universali dell’arte, manca un’analisi comparata delle origini e degli sviluppi dei diversi spazi artistici quali sono stati determinati dai committenti, dagli artisti, dal pubblico, dalle opere, dalle diverse istituzioni. Ciò è dovuto: • all’assenza di un’adeguata e coerente storia dell’arte ‘mondiale (che non può essere affrontata senza un’identificazione e una distinzione degli elementi variabili nelle singole situazioni e senza la strumentazione sufficiente ad analizzarle); • alle compartimentazioni dovute alle diverse specializzazioni; • alle differenze degli indirizzi e dei criteri di ricerca e di inclusione propri delle varie discipline che si occupano della storia della produzione artistica; • alla particolare tendenza all’enfatizzazione e alla celebrazione dei fatti artistici da parte degli storici dell’arte. L’esaltazione dei prodotti artistici, la promozione dell’artista a personaggio mitico, l’affermazione dell’unicità dell’opera figurativa, non sono senza conseguenze pratiche, data l’esistenza di un mercato dell’arte vasto e internazionale, basato sulla rarità o sull’unicità dei prodotti. C’è da considerare i rovesciamenti di posizioni provocati dall’arte contemporanea, dai comportamenti e dai ruoli assunti dagli artisti, dall’avvento della multimedialità, della riproducibilità, tutti elementi che hanno alterato profondamente una situazione che per secoli non aveva conosciuto profondi cambiamenti. PER UNA STORIA DEL MERCATO DELL’ARTE NELL’ITALIA MODERNA. ASPETTI TEORICI E PROBLEMI DI RICERCA (STUMPO) Un nuovo tema di ricerca - nel 1993 la pubblicazione del libro di Goldthwaite, Wealth and the demand for art in Italy, 1300-1600, tradotto in Italia due anni dopo, ma passò quasi sotto silenzio. Otto anni dopo tale tema di ricerca era divenuto tanto attuale da convincere il comitato scientifico dell’Istituto Datini dell’opportunità di dedicare la XXXIII Settimana di studi ad «Economia e arte. Secoli XIII-XVIII». È un tema già affrontato in settori di studio diversi quale quello della storia dell’arte o quello della storia sociale e della storia moderna. Esso presenta tuttavia numerosi problemi di impostazione metodologica nonché alcuni aspetti teorici propri della storia economica che solo in parte sono stati considerati. Alcuni li ha ricordati Goldthwaite nell’Introduzione al suo lavoro: la necessità di considerare la produzione di oggetti artistici nell’ambito più vasto; di quella dei consumi; la mancanza di studi sui consumi nell’Italia moderna e più in particolare sui consumi di lusso; la difficoltà legata alla definizione di arte e di oggetto artistico. Tali elementi sono apparsi ancora più evidenti nel corso della XXXIII Settimana Datini. Un libro d’oro miniato della fine del Quattrocento era senza dubbio un oggetto artistico: esso era stato decorato a colori in oro, azzurro oltremarino e altri, con costi rilevanti, da un miniatore in una bottega, dopo essere stato copiato a mano da un anonimo copista. L’edizione in 5 volumi in folio delle opere di Aristotele apparsa a Venezia presso Manuzio nel 1498 e venduta per 11 ducati poteva essere considerata nello stesso modo: in quegli anni i volumi a stampa erano venduti sciolti, toccava al singolo acquirente fare rilegare i volumi con fogli di carta o di pergamena; o con costose legature in cuoio, decorate poi in oro o altri metalli preziosi, a volte anche con gemme. I costi dei materiali incidevano molto più della manodopera dei singoli artisti. Per fare un esempio Filippo Strozzi acquistò nel 1480 una copia dell’edizione a stampa della Storia naturale di Plinio eseguita su pergamena al prezzo di 12 fiorini; ma ne spese altri 60 per farla decorare con splendide miniature dalla bottega di Giovanni di Miniato a Firenze. La tiratura ordinaria dell’edizione fu stampata su carta e senza rilegatura o decorazioni. Oggi probabilmente anche una semplice copia di quella tiratura è considerata un oggetto artistico, ma non lo era per i contemporanei. Era probabilmente costosa, visto che il prezzo di 6 fiorini con il quale veniva venduta equivaleva al salario annuale di un domestico. La storia della sterminata produzione di oggetti artistici in Italia fra Quattro e Settecento ha interessato gran parte delle città italiane, anche quelle minori e talvolta anche molti centri di poche centinaia di abitanti. Ha innescato un complesso movimento commerciale tra Italia ed Europa, ma non solo, di materie prime importate e di oggetti esportati. Ha permesso di integrare l’economia manifatturiera di centri famosi come Firenze, Venezia, Genova o Milano con una produzione diversificata di oggetti non solo artistici ma sicuramente di lusso. Mercato dell’arte o consumi di lusso? - la vera e propria rivoluzione dei consumi ebbe luogo solo nel Settecento «quando i produttori stessi assunsero l’iniziativa di esercitare un controllo maggiore sulla domanda di massa [...]». Ma la storia del consumismo, che ha toccato paesi come la Francia, l’Inghilterra e l’America coloniale nel Settecento e l’Olanda nel Seicento, abbia trascurato l’Italia, che pure «sembra aver anticipato gli sviluppi generali dell’intera Europa» nel Rinascimento. Le impostazioni e i modelli di ricerca applicati dagli storici dell’arte possono essere diversi da quelli degli storici economici o degli stessi economisti. Le motivazioni della spesa vanno indagate con maggior attenzione che non quella di una troppo semplice classificazione fra produttivo e improduttivo, fra effimero e duraturo. Anche perché più si dilata l’arco temporale preso in considerazione più possono mutare i termini della questione. Muta il valore intrinseco di un piatto d’argento fra Cinque e Seicento, anche per il mutato rapporto oro-argento in tale periodo. Si deprezzano le armi da fuoco, per i progressi tecnici verificatisi in tale settore, ma forse aumenta il valore delle armi bianche decorate e istoriate. Molti oggetti conservano un proprio valore intrinseco, altri come i quadri lo acquistano nel tempo. Lo stesso concetto di arte o di artistico può mutare da epoca ad epoca. L’arte può essere intesa come qualsiasi forma di attività dell’uomo. E un tempo questo era il suo significato originale: un complesso di tecniche e metodi concernenti sia una realizzazione autonoma sia un’applicazione pratica nel campo dell’operare (arte militare) e in particolare di una professione (l’arte medica). Molti studiosi dell’arte hanno insistito nel sottolineare come sia l’artista del Quattrocento sia quello del Rinascimento fossero più artigiani che altro. «L’idea dell’artista come individuo di genio, che trasferisce sulla tela la sua personale e irripetibile visione è tutta moderna. L’artista rinascimentale era un artigiano a servizio dei potenti”. Era importante quindi essere ammesso nella corte di un signore ed essere regolarmente stipendiato. Chi voglia davvero comprendere il mondo di un pittore della prima metà del Cinquecento dovrebbe leggere il libro-giornale della bottega di Francesco e Jacopo dal Ponte da Bassano. Tale fonte riporta tutti i lavori e i pagamenti effettuati da una bottega di pittori noti, ma non famosi e celebri. Essi lavoravano per chiunque, facendo quadri e pale d’altare, valutate più per i costi delle materie prime che per il lavoro del pittore, ma anche e soprattutto gonfaloni, bandiere, stemmi araldici, cornici. Ogni acquirente poteva avere motivazioni diverse: così nell’ambito della pittura si diffonde in Italia la moda del ritratto. Secondo Jardine: «Per quanti commissionavano ogni genere di ritratto, l’opera d’arte assolveva ad almeno tre funzioni distinte. Soddisfaceva il desiderio dell’individuo di avere un’immagine di sé che potesse essere trasmessa alla famiglia, o di commemorare qualche occasione significativa della propria vita; era (se dipinta da un artista di prestigio) una preziosa opera d’arte il cui valore avrebbe potuto, se necessario, essere monetizzato; e poteva, in determinate cir- costanze, essere diffuso come emblema del potere e dell’autorità personali del soggetto ritratto». Quadri, medaglie, arazzi, armi erano anche oggetti di scambio, di dono, di propaganda. Nel 1532 a Venezia gli orafi di Rialto consegnano agli inviati del gran vizir del sultano Solimano uno straordinario elmo cerimoniale d’oro, decorato con pietre preziose (rubini, diamanti, perle, smeraldi) con quattro corone amovibili, costato la somma enorme di 144.000 ducati e utilizzato dal sultano come strumento di propaganda e fatto sfilare nel corso di una processione trionfale sotto le mura di Vienna, assediata dai turchi, nello stesso anno. Tre anni dopo, in seguito alla vittoriosa impresa di Tunisi, Carlo V commissionò una serie di arazzi per celebrare la grande vittoria; ma prima ancora una serie di stampe di propaganda realizzate dall’italiano Veneziano. Il lavoro di tessitura invece fu preceduto dai cartoni cui seguirono i dodici arazzi, intessuti con sete di Granata, fili d’oro e d’argento che vennero a costare solo per la manifattura 15.000 sterline fiamminghe. Gli arazzi vennero poi esposti a Londra nel 1554, in occasione del matrimonio del principe Filippo con Maria Tudor; quindi a Bruxelles e infine a Toledo. Gli arazzi, gli affreschi nei palazzi o nelle chiese, le grandi pitture veneziane avevano infatti lo scopo principale di diffondere un messaggio, una storia, un avvenimento. Erano strumenti didattici, pubblicitari, propagandistici: così come anche il palazzo del principe, il duomo o la cattedrale, il palazzo civico o quello del podestà. Ben presto all’idea di costruire un palazzo o una villa, come garanzia della fama duratura della propria famiglia, si unì quella di lasciare altre testimonianze: una preziosa antichità, una raccolta di libri, un quadro con il proprio ritratto, una pala d’altare nella cappella in questa o quella chiesa cittadina, una collezione di monete o di medaglie. Possiamo inserire tali opere nell’ambito di un concetto molto esteso di «consumi di lusso». Consumare vuol dire «finire a poco a poco con l’uso, logorare, esaurire» o anche «sfruttare qualcosa fino all’esaurimento». Più adatto sarebbe forse il termine consumatore, inteso come «utente di beni economici». E in questo caso la lingua inglese ha un termine molto adatto: quello di consumer benefit, per spiegare «la motivazione soggettiva all’acquisto di un bene da parte del consumatore». Gioielli, argenterie, statue in marmo, busti, libri e armi avevano un valore reale, intrinseco. Potevano essere venduti, dati come garanzia o pegno di un prestito, portati in zecca, scambiati con altri collezionisti. Uno dei primi grandi intenditori di oggetti artistici fu il cardinale Francesco Gonzaga. Mise insieme una splendida collezione di cammei, gemme e pietre incise nonché una stupenda raccolta di arazzi, con le storie di Alessandro. Dopo la sua morte la collezione delle gemme finisce presso la banca Medici a Roma, come garanzia di alcuni debiti contratti con Lorenzo il Magnifico dal cardinale. La stima del valore oscillava fra i 14.000 e 118.000 ducati di camera, ma il debito con i Medici era di 4.000 ducati e diversi tentativi vennero fatti da altri celebri collezionisti per acquistare le raccolte, ma invano. Allo storico economico tutto ciò potrà interessare: ma in particolare dovrà esplorare anche altri settori. Collocare tali spese nell’ambito della spesa generale del committente; raffrontarla con l’andamento del patrimonio e del reddito. Esaminare il valore intrinseco dell’oggetto artistico, ma anche il valore della manodopera dell’artigiano. Indagare il circuito più complesso che un determinato settore poteva mettere in movimento. Così come particolare attenzione dovrà essere dedicata all’andamento dei prezzi, al loro raffronto con il costo più generale della vita del tempo, come pure al rapporto con altri tipi di spesa. Infine determinare con precisione il periodo storico che si vuole studiare. Wackernagel ha scritto che non si può ancora parlare di un «mercato» dell’arte nel Quattrocento. Riferendosi alle vicende di Giovanni Battista della Palla, e definito «un acquirente sistematico di opere d’arte antica e contemporanea», ricorda che ciò rivelava «una funzione precedentemente sconosciuta all’artista celebre e all’opera stessa». Solo all’inizio del XVI secolo appaiono i primi intermediari: e cioè quando «clienti e committenti stranieri rivolsero il loro interesse al patrimonio artistico e al mercato d’arte fiorentini [...]». A questo punto i primi intermediari iniziarono a sostituire i mercanti o gli agenti politici utilizzati dalle corti del tempo. Se si dovesse tentare una prima definizione del sorgere di una consapevolezza fra i committenti e gli acquirenti di un preciso valore monetario delle opere acquistate, si deve arrivare almeno alla pubblicazione delle Vite del Vasari nel 1550. La grande fortuna di tale opera sancì a lungo in gran parte d’Europa la fama della pittura fiorentina ed italiana e ne divenne uno straordinario strumento di divulgazione. Fu il riconoscimento del valore storico e culturale di molti artisti e la consacrazione delle loro opere in ambito italiano, e da qui nel vasto circuito europeo. Altra data importante fu la vendita della collezione di quadri dei duchi di Mantova a Carlo I Stuart, nel 1629. Per la prima volta venne fatta una valutazione complessiva di opere eseguite da più di un secolo e acquistate dai vari duchi a prezzi decisamente molto inferiori a quelli valutati più tardi. La stima del 1629 fu quasi per ogni opera superiore al valore di acquisto originale, consacrando così il nuovo valore artistico ormai raggiunto dall’opera d’arte pittorica, al di là dei costi dei materiali, di quello della manodopera o delle cornici. La spesa nobiliare nel settore artistico - sarà necessario ricostruire la struttura più generale della spesa nobiliare: tutto sarà commisurato all’entità del patrimonio e della rendita annuale. Per quanto riguarda la conoscenza delle motivazioni delle spese effettuate dalla piccola nobiltà di provincia, dai patriziati cittadini locali, dal clero o dai cardinali romani attivi presso la curia, le fonti al riguardo sono praticamente inesauribili: si può partire dagli archivi delle famiglie private o da quelli degli quasi subito un «mercato» delle antichità, con gli acquirenti, gli intermediari, i restauratori e i prezzi dei singoli oggetti o di intere collezioni. I primi collezionisti furono gli stessi artisti come Botticelli, Raffaello o Mantegna; principi come i Gonzaga o gli Este; i vari pontefici a partire da Paolo II e in modo particolare i vari cardinali romani, che a Roma si trovarono in posizione strategica sia all’interno delle mura cittadine, sia nelle prime ville costruite «fuori porta». E al loro fianco si trovano anche vescovi dalle scarse risorse e nobili, mercanti, banchieri o avventurieri, pronti a trasformarsi in venditori per conto delle corti italiane. In genere, i primi collezionisti iniziano a raccogliere gemme, cammei e pietre incise, facili da trasportare, ma ben presto si interessano alle medaglie, ai bronzi e infine ai busti e alle statue. Le grandi collezioni romane furono ben presto sul nuovo mercato antiquario: Lorenzo il Magnifico acquistò parte di quella di Paolo II; i Medici acquistarono parte di quella dei Della Valle e Della Porta. I Farnese acquistarono quella di Agostino Chigi, mentre i Savoia ebbero quella del vescovo di Gallese Girolamo Garimberto. Questi fu uno dei più attivi «mercanti» del settore, ma fu collezionista egli stesso. Iniziata in Italia tale moda prese poi successivamente piede nel resto d’Europa. Sarebbe altrettanto importante seguire i tortuosi percorsi di molte antichità, spesso acquistate per Versailles, Dresda, l’Escorial. A Roma, nella seconda metà del Settecento, i mercanti più attivi erano gli inglesi: Hamilton e Jenkins, impegnati in grandi campagne di scavi a Tivoli e nei dintorni di Roma e intermediari fra la domanda inglese di tale settore e il mercato romano. Del resto già due secoli prima i mercanti antiquari erano forse ancora più numerosi: alcuni erano scultori, altri collezionisti in proprio; altri ancora fungevano da agenti o intermediari. Jacopo Strada fu il consulente della famiglia Farnese e di Alberto di Baviera. In un mercato come quello romano, dove le fortune di molte «nuove» famiglie erano strettamente legate al pontefice in carica, non è infrequente che le più antiche e ricche collezioni siano acquistate in blocco dal potente cardinale nipote di turno. D’altro canto la passione per le antichità aveva coinvolto principi e cardinali, patrizi, nobili o banchieri, allargandosi con il tempo fino a coinvolgere gran parte della nobiltà europea, ed anche artisti come lo stesso Rubens: inviò alcune opere valutate 4.000 fiorini e alcuni arazzi e ne pagò 2.000 in contanti e in cambio ebbe le sue «antiquità», che a suo avviso, potevano decorare una stanza. Marmi e stampe antiche in cambio di pregevoli dipinti di un artista celebre quale Rubens: non è più il semplice profitto, il guadagno o la speculazione a guidare gli acquisti, ma spesso la passione, il gusto, il desiderio di stupire, l’ansia di apparire o di essere ricercati, la rivalità fra le corti o le grandi famiglie. Si passa nel corso del Cinquecento alla «galaria», come quella ricordata nel 1505 nel castello di Ferrara. Rubens fu uno dei più grandi organizzatori della pittura del suo tempo: originali e copie a volte si confondevano nella sua bottega come in molte altre botteghe di pittura europee. Un mercato che a sua volta ne aveva generato un altro: quello della copia e del falso su cui ben poco si è scritto. Il successo del Rinascimento italiano generò una domanda continua che chiedeva un numero infinito di oggetti in tutta Europa. E là dove non era possibile trovare gli originali richiesti non si esitò a produrne copie, in quasi tutti i settori artistici del tempo. Tale domanda generò per almeno due secoli in molti centri italiani una produzione notevole in quantità (e in parte anche in qualità) di copie e di falsi. Venezia era già famosa per le falsificazioni numismatiche e per quelle delle gemme antiche, così come anche Roma. DISPERSIONE, DISTRUZIONE E TUTELA. IL MUSEO E LA FRUIZIONE PUBBLICA DELL’ARTE – la nozione di patrimonio culturale nasce dalla constatazione della sua delicatezza, del fatto che quanto pervenuto è tale in quanto è sopravvissuto a molte variabili e fattori negativi. Tra i fattori che rendono il patrimonio culturale vulnerabile ve ne sono alcuni naturali: il tempo, poiché i lunghi periodi comportano il degrado di materiali (insetti, mutamenti climatici) e l’ambiente; il ciclo di vita delle persone, dei collezionisti, raccoglitori. Infatti alla morte di colui che con grande passione ed impegno economico aveva prodotto la nascita di una collezione, gli eredi non sempre desiderano conservarla. Anche le famiglie si estinguono, il che a volte implica la dispersione del patrimonio (a Parigi, collezione Orléans, Roma collezione Stroganoff). A partire dal 600 si diffondono pratiche testamentarie, che per quanto riguarda le collezioni artistiche e i beni di valore artistico, adottano l’istituto del fidecommesso (divieto di alienare e dividere il patrimonio), che sta all’origine di alcuni musei, diventati la continuazione delle gallerie private sottoposte a vincolo fedecommissario. Per altre collezioni, nonostante il fedecommesso, la divisione della famiglia portò a richiedere alle autorità pubbliche la deroga rispetto al vincolo, il che comportò la dispersione patrimoniale. Addirittura il fedecommesso fu vietato dal 1865, dal primo codice civile del regno d’Italia. Un altro fattore critico ricorrente fu l’arte intesa come espressione del nemico, che viene fatta oggetto di distruzione nel nome di Dio, nell’idolatria. Vi è il ripresentarsi nel tempo di fasi di avversione nei confronti dell’arte percepita come violazione alla religiosità canonica. Questo portò ondate di distruzione nei confronti del patrimonio artistico percepito come idolatrico (impero bizantino, riforma protestante, rivoluzione francese, nazismo,). L’ultimo episodio è il fondamentalismo islamico che colpì l’arte considerata profana. Nei secoli, il patrimonio artistico, anche in ragione del suo valore economico, è stato oggetto di saccheggi e asportazioni: le truppe mercenarie avevano la facoltà di prelevare i beni artistici. L’arte in guerra ha comportato distruzioni, come nel caso dei bombardamenti delle città d’arte tedesche sotto il nazismo nel 1945. In Europa, per effetto della riforma calvinista o francese, si sono verificate soppressioni catastrofiche degli enti ecclesiastici con conseguente alienazione dei loro beni mobili e statalizzazione e privatizzazione di quelli immobili. In Italia si verificano diverse ondate nel periodo napoleonico, postunitario ed assolutistico nel tardo 700. Le catastrofi naturali hanno implicato forti conseguenze sul patrimonio artistico: terremoti, alluvioni (a Firenze nel 66), incendi. Sono fenomeni naturali che richiamano all’esigenza di prevenire i gravissimi danni su patrimoni. Lo stesso sviluppo dei mercati artistici presenta un lato oscuro: quello dei commerci illegali, i furti su commissione. Goethe riferisce dei tombaroli che saccheggiavano per mercanti e amatori inglesi le tombe di Pompei. Un altro fattore ancora è la pressione del turismo di massa in realtà delicate come le città d’arte: Venezia è uno dei più significativi. Data la numerosità e ampiezza dei fattori critici per la conservazione del patrimonio culturale, negli ambienti più ricchi di opere d’arte emerge una prima concezione volta a tutelare i beni culturali che, anche se scoperti da privati, appartengono alla memoria storica della comunità. Questi primi passi vengono compiuti nello stato pontificio, per la numerosità dei reperti che vengono alla luce dal sottosuolo di Roma, sia per la sensibilità che alcuni pontefici mostrano nei confronti della tutela dei beni artistici. È il caso di una bolla di Papa Pio II, umanista e poeta, (Piccolomini, ricordato per il progetto di città ideale nel 400): nel quarto anno di pontificato, Pio II emanò un provvedimento in cui poneva vincoli e divieti al riuso dei materiali antichi per farne materiali da costruzione. Questo non riguardava solo i monumenti propri della cristianità e i luoghi di culto, ma tutte le vestigia del passato in quanto davano a Roma dignità e splendore, ma non ebbe molta applicazione. Circa mezzo secolo dopo, Raffaello scrisse una lettera al pontefice denunciando come proseguiva la pratica di riusare parti degli edifici o monumenti del passato per adibirle ad altro uso o distruggendoli per riutilizzarne tutti i materiali. La stessa sensibilità emerge a Firenze per quanto riguarda i dipinti: nel 1602 viene emanato un divieto generale di esportazione dei dipinti senza l’autorizzazione delle accademie del disegno. Per una lista di pittori vigeva il divieto assoluto. Ai primi del 600 vi è un’analoga proibizione dallo stato pontificio verso l’esportazione di statue di marmo o metallo e una serie di altri oggetti d’arte. Viene previsto a carico di chi avesse trovato le opere nel sottosuolo l’obbligo di denuncia entro 24h e il divieto di alienazione o vendita o donazione nei primi giorni dopo la scoperta per permettere allo stato di esercitare la facoltà di acquisto. Il contesto da cui nascono questi provvedimenti fra 4 e 600 è quello di una penisola che costituisce l’epicentro del mercato artistico internazionale. Un periodo turbolento, che suscitò il rafforzamento, ripresa ed il rilancio dei provvedimenti di tutela dello stato verso il patrimonio culturale si ha tra fine 700 e inizio 800. Roma torna ad essere nell’occhio del ciclone: su stimolo del commissario pontificio per le arti e l’antichità viene emanato un provvedimento nel 1802, dopo che le truppe rivoluzionarie francesi, in altri stati della penisola italiana, hanno fatto razzia di patrimoni artistici, trasportandoli a Parigi. Analogo destino si avrà con Roma quando sarà occupata dalle truppe francesi e il Papa imprigionato, il suo patrimonio artistico trasferito a Parigi. Si ebbe poi ritorno festoso di molte di queste opere che, grazie alla collaborazione delle potenze che sconfissero Napoleone e grazie all’impegno di Canova, tornarono nelle sedi originali; ma altrettante rimasero in Francia. Questo si accompagna all’emanazione di un altro provvedimento, l’editto Pacca, che costituisce un altro caposaldo nella legislazione per la tutela e della funzione per la tutela, fatta di leggi e branche della PA. Per quanto riguarda il regno d’Italia unito, il patrimonio culturale avrà una sua legislazione nel 1909 con la prima legge organica per le antichità e le belle arti, che oltre ad essere di sistemazione di tutta la materia, è densa di contenuti innovativi. Parlare di musei dal punto di vista economico significa di parlare di un soggetto che statutariamente è votato al pubblico, alla fruizione dell’arte. Il museo si volge a favorire la nascita di una nuova fruizione e domanda dell’arte: uscendo dalla platea elitaria dei collezionisti e degli amatori che per secoli hanno favorito lo sviluppo delle raccolte che però non hanno permesso a lungo che la grande arte diventasse accessibile anche ai ceti sociali più bassi, che ne erano esclusi. Nel corso del 700 le grandi collezioni entrano in declino a causa dell’indebitamento degli esponenti delle famiglie nobiliari o per il declino delle casate. Vi è una crescita esponenziale delle aste in Francia nella seconda metà del 700: si tratta spesso di aste con un grande numero di pezzi derivanti da collezioni di grande rilievo. Nel contempo emergono nuove istanze di carattere più positivo, come nuove richieste di consumo dell’arte, del possesso dell’arte e di consumo da parte di ceti che non hanno la possibilità di acquistare intere collezioni, quindi di fruire senza possedere: nasce l’istanza del museo in un secolo che presenta sul piano culturale una crescente attenzione all’idea dell’educazione e della cultura attraverso la scuola, istituti artistici e la stampa. Agli inizi del 700 le collezioni che possono considerarsi pubbliche sono: raccolta di bronzi e statue antiche in Campidoglio (Roma, dalla donazione di papa Sisto IV); l’Antiquarium Grimani (Venezia, nella Biblioteca Marciana); il Museo naturalistico di Bologna (legato da Ulisse Aldrovandi e Ferdinando Cospi); l’Accademia Ambrosiana di Milano (da Federico Borromeo). Bisogna guardare a Parigi per trovare le origini del moderno museo, con funzioni particolari rispetto al collezionismo privato. Nel 700, il movimento illuministico ha posto in ogni campo del sapere l’enfasi sulla funzione che la luce della ragione può avere nel rischiarare le menti ed indurre un nuovo progresso dell’umanità. Agli intellettuali compete un programma politico, culturale e pedagogico, in cui rientrano i musei nazionali e pubblici. Un’accelerazione di questo programma si ebbe con la rivoluzione, che determinò dei rischi di distruzione dei monumenti nazionali. Dopo i primi anni dal periodo rivoluzionario si ebbe il trasferimento dei monumenti nazionali delle opere del passato realizzate per perpetuare la memoria dei grandi protagonisti della storia francese nel Museo nazionale dei monumenti francesi, pubblico già nel periodo rivoluzionario. Promosso da Alexandre Lenoir dopo le distruzioni del primo periodo rivoluzionario, raccoglie parte delle statue e tombe parte dei beni nazionali (espropriazioni rivoluzionarie) ed apre al pubblico nel 1795. Nel 1972 si decide l’apertura di un museo centrale delle arti nella residenza reale del Louvre, essendo la corte trasferitasi a Versailles, che era stato adibita a galleria d’arte, ma chiusa al pubblico. Il nuovo museo centrale delle arti non si limita a raccogliere le collezioni artistiche derivanti dalla fine della monarchia, raccolte dalle accademie, le opere confiscate alla chiesa, nobili ed emigrati politici, ma assume dei compiti nuovi, di educare la popolazione a comprendere la storia e la finalità della rivoluzione e quindi promuovere una crescita della repubblica. Con le vittorie della Francia, a Parigi affluiscono opere d’arte dai paesi conquistati. Non si tratta del diritto alla preda, ma vi è una precisa strategia volta a raccogliere e concentrare su Parigi tutte le collezioni reali dei paesi conquistati, comprese quelle pontificie. Fece epoca l’arrivo a Parigi dei più grandi capolavori conservati a Roma nel 1798. La repubblica francese promuove delle campagne archeologiche e trasferisce nella capitale i frutti di questi scavi. Viene elaborata una ideologia per cui non si tratta di spoliazione, di usurpazione, ma questi trasferimenti sono un risarcimento per i costi sostenuti per le guerre e rappresenta la liberazione del patrimonio culturale ed artistico universale da regimi oppressivi e tiranni. Alla crescita delle collezioni sull’onda dell’espansione politica e militare della Francia corrisponde l’espansione del concetto di museo: il Museo centrale delle arti viene ribattezzato Museo Napoleone, in onore dell’uomo che ha reso grande la Francia, che viene affidato a Denon (dopo il rifiuto di David e Canova di dirigerlo). Denon imposta l’organizzazione del museo secondo un ordinamento enciclopedico, dandogli la struttura di un’enciclopedia dell’arte universale delle immagini. La politica delle acquisizioni ne vede alcune regolari ed altre forzate: viene costretto il proprietario della collezione Borghese a Roma a cederla. Il concetto di museo universale è un concetto politico, serve a manifestare il potere politico e il primato culturale della Francia. Un primo processo può essere di appropriazione istituzionale e sociale della costruzione e manutenzione delle cattedrali in concomitanza della municipalizzazione e della crescita d’importanza dei comuni, che si traduce nel successivo ingresso ed ingerenza nella gestione e costruzione delle grandi chiese. A volte la municipalizzazione avviene in modo indiretto attraverso l’intervento delle organizzazioni corporative. Ad esempio a Bologna, il comune finanzia attraverso il prelievo fiscale il “tempio civico” in concorrenza con la cattedrale di S. Pietro che pertiene all’ecclesia. Diverso il caso di Torino, il cui Duomo è finanziato interamente dal vescovo; a caso di Milano, un ente, la Fabbrica del Duomo, diventa un’istituzione comunale a tutti gli effetti. Nella varietà delle situazioni prevalgono le realtà intermedie, la municipalizzazione parziale e i rapporti fra i vescovi, fabbricerie e comuni variano a seconda delle aree e dei periodi. Una seconda tendenza che si verifica in Italia riguardo alle fabbriche, gli enti che gestiscono la produzione e la manutenzione delle cattedrali, consiste nel fatto che queste vengono investite di compiti di carattere assistenziale (a Venezia o Bologna si occupano anche di gestire ospedali ed enti assistenziali; svolgono attività come la distribuzione di cibo fra i più poveri). Questi enti svolgono un ruolo importante anche nella definizione dello spazio urbano, nella progettazione e manutenzione della città: fabbricano le piazze monumentali, pavimentano le strade, ad espressione del carattere difensivo verso la città ne realizzano le opere di difesa (la Rocca di Orvieto) o realizzano strutture pubbliche (a Genova, il prelievo dai testamenti è finalizzato a finanziare le strutture portuali). La cattedrale è la madre dello spazio pubblico in alcuni casi: questo conferma la compenetrazione tra pubblico e privato, ecclesiale e laico che si afferma attorno alle cattedrali. Per finanziare le opere ed imprese, in molte realtà si assiste ad una fiscalizzazione, ossia al finanziamento delle spese per la costruzione e manutenzione mediante imposte. Questo permette di regolarizzare il gettito che perviene all’ente, che mantiene e gestisce la chiesa con delle innovazioni sul piano costruttivo ed architettonico (a Firenze, dal momento in cui S. Maria in Fiore è beneficiata da maggiori gettiti permette di chiamare gli artisti più noti e costosi, come Giotto). Anche per quanto riguarda i redditi della cattedrale, la maggior parte di questi hanno una provenienza fiscale. La cattedrale diventa un luogo di grande rilievo civico e si pone al centro di contese e conflitti per il controllo delle fabbricerie, i cui consigli di amministrazione erano luogo di contesa fra le élite urbane o trampolino di lancio per le singole famiglie, un canale del potere. Vi sono realtà in cui vengono introdotte tasse a favore della cattedrale, ma che costituiscono complessivamente una quota relativamente bassa delle entrate dell’ente fabbriceriale. In questi casi la manutenzione della cattedrale è finanziata da donazioni private. Vi sono molteplici soluzioni che permettono di far affluire nelle casse delle fabbricerie altre risorse che non siano imposte a favore delle cattedrali. A volte si tratta di redditi materiali, come nel caso del Duomo di Firenze, al cui ente vengono assegnate le foreste del Casentino a sud di Firenze: la vendita del legname permette per secoli entrate per la fabbricazione del Duomo; le cave di marmo di Candoglia vengono assegnate dai signori di Milano in proprietà al Duomo, il che permette di rifornire i laboratori di scultura della chiesa e di vendere parte del marmo a terzi. È ricorrente che il trasporto di materiali a favore delle cattedrali benefici delle esenzioni fiscali e dai dazi; vi sono ulteriori entrate da privati. Sono donazioni spontanee e non: a volte sono spontanee e a volte sollecitate fortemente, con campagne di fundraising in occasione delle feste civiche organizzate dalle corporazioni e tutti sono impegnati a contribuire, ciascuno con i propri mezzi e capacità. Al momento dei lasciti si invitano le persone a dare in eredità parte del proprio patrimonio, o ancora si obbliga i notai a suggerirlo ai testatori (Orvieto). Vi sono anche altri canali ecclesiastici, come le cassette di raccolta. Un ulteriore elemento che movimenta denaro verso le cattedrali: quando queste sono oggetto di grande devozione, si creano dei percorsi, itinerari della fede lungo cui fiorisce l’attività dell’ospitalità, il che ricade sull’economia della fede del territorio. Le cattedrali hanno un valore che deriva dal loro essere insieme luoghi religiosi e capitale economico, culturale e sociale. Dal punto di vista sociale e politico, la fabbrica della cattedrale diventa uno dei primi luoghi dove la comunità urbana sperimenta la propria capacità di autogoverno e diventa luogo in cui si forma la coscienza di essere comunità capace di autogovernarsi. Dal punto di vista fiscale, la costruzione del duomo legittima la formazione originaria dei sistemi fiscali, poiché con l’obiettivo di costruire le cattedrali si afferma come legittimo il prelievo di ricchezze private per destinarle ad un bene pubblico: è il primo passo per la formazione dei sistemi fiscali a base urbana. Le fabbricerie diventano un soggetto potente dal punto di vista economico-finanziario, in quanto finiscono per gestire grandi risorse e sviluppano al proprio interno delle tecniche contabili avanzate (la partita doppia o la distinzione della tesoreria, che gestisce i flussi di cassa, e la contabilità, che rendiconta). Sul piano dei volumi finanziari gestiti, la capacità finanziaria, quando elevata, fa sì che la fabbriceria sia un soggetto che fa credito ai comuni o concede garanzia sui prestiti tra privati; quando l’ente è in deficit i banchieri privati la finanziano. È un ente importante sul piano economico e sociale perché eroga salari e acquista materiali, diventa soggetto delle economie locali di notevole spessore. Spesso la principale impresa è il principale acquirente e datore di lavoro di una città. Le fabbricerie son interpretabili come centri di potere, tanto che vi è una rincorsa dei membri delle élite per far parte dei consigli che tengono questi enti, perché diventano modo per legittimare le ricchezze private e gli arricchimenti (le prime guglie del duomo di Milano sono finanziate da un mercante che divenne estremamente ricco, atto che compì per giustificarsi agli occhi della comunità). Altre forme sono i funerali solenni o le messe. À È POSSIBILE UN INVESTIMENTO DISINTERESSATO? ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL FINANZIAMENTO DELLE CATTEDRALI NELLE CITTÀ DELL’ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALI ALLA FINE DEL MEDIOEVO (BOUCHERON) La crisi delle economie contemporanee è lontana dall’aver prodotto tutti i suoi effetti, tanto che le sue conseguenze politiche e sociali restano ancora imprevedibili. È possibile però constatare il decesso della sua prima vittima concettuale: l’homo oeconomicus. E ciò non solo a causa del suo fallimento, ma anche perché abbiamo smesso di credere nella razionalità delle sue scelte economiche, considerate riflessi del perseguimento del suo interesse personale. Questo è l’esito delle crisi economiche: una perdita di colpi nella macchina di fabbricazione del consenso (lo storytelling) aggregante la fede e la fedeltà che fa sì che non ci si creda più. Di fronte ad una simile disillusione, è forte la tentazione di trovare rifugio nella nostalgia di un mondo al riparo dalla legge ferrea dell’interesse privato in un mondo colmo di credenze infantili e ostinate, un mondo antesignano della modernità cui la tradizione occidentale ha dato il nome di Medio Evo. Gli storici scoprono che al suo interno si tesseva in modo sordo la nostra razionalità economica mostrando le modalità indirette con cui i discepoli di San Francesco d’Assisi, teorizzando la rinuncia ai beni evangelici, giungono a elaborare una dottrina del mercato È doppiamente illusorio sia dal punto di vista della conoscenza delle società medievali che da quello della conoscenza critica del mondo contemporaneo immaginare una «sfera della credenza» (incentrata su una fede collettiva e generalizzata) completamente separata da una «sfera economica» (votata alla razionalità dell’interesse individuale). In questa prospettiva, le cattedrali rappresentano un osservatorio privilegiato a lungo presente negli spiriti e nelle analisi degli intellettuali, la concezione romantica di cattedrali partorite dagli slanci di generosità di popoli che offrono all’opera di Dio il loro lavoro gratuito è stata progressivamente affiancata, e poi soppiantata, da un’altra fascinazione: quella della «performance economica» di cantieri giganteschi, capaci di muovere una parte cospicua delle risorse economico-finanziarie, ed anche sociali e politiche delle città dell’Occidente medievale. Fondata su studi seriali dei copiosi costi di fabbrica giunti sino a noi, una simile concezione era più realista. Essa non era priva di ingenuità, nella misura in cui i ricercatori applicavano le nozioni contemporanee d’investimento e d’interesse forgiate dalla teoria economica liberale alla razionalità delle scelte degli attori medievali. Il pensiero va all’articolo di Roberto Lopez, il quale nel 1947 imputò alla costruzione di cattedrali la responsabilità di produrre una sterile pietrificazione della ricchezza, tale da distogliere risorse economiche e umane che sarebbero state più utili se impiegate in investimenti produttivi, nel momento in cui questi ultimi erano in preda ai primi sintomi della crisi generale attraversata dal feudalesimo nell’ultima parte del XIII secolo. In ragione della sua mancata conclusione e della sua grandezza apparentemente sovradimensionata, il Duomo di Siena sarebbe uno dei maggiori simboli del carattere a un tempo irrazionale e intempestivo di questi investimenti improduttivi. L’articolo di Lopez è datato 1947, un anno in cui l’Europa avvertiva il senso di vertigine dell’ampiezza dello sforzo finanziario richiesto dalla ricostruzione delle città distrutte dalla guerra, non era peregrino cercare di definire cosa fosse un investimento socialmente utile. Anche se si adotta il punto di vista di Lopez, la sua dimostrazione non è evidente, specie laddove postula che il finanziamento dell’edificazione delle cattedrali ebbe origini esclusivamente urbane. Resta il fatto che, tentando di mettere in rapporto la congiuntura economica e la cronologia delle costruzioni ecclesiastiche, Lopez ha posto una questione cruciale. La questione dell’effetto di traino di questi cantieri sulla congiuntura e sull’organizzazione dei circuiti produttivi e della commercializzazione dei materiali, così come della strutturazione della manodopera, ha stimolato e stimola numerose ricerche. L’impegno dei laici nelle fabbriche ed il loro ruolo crescente nella gestione dei cantieri delle cattedrali partecipano di un movimento generale: si pensi al massiccio coinvolgimento delle corporazioni nelle vetrerie di Chartres. E nonostante i maestri e i commercianti di Chartres elaborino una strategia ostentativa del loro impegno, la cattedrale resta comunque la chiesa del vescovo e del Capitolo. Fatta eccezione per il caso di Strasburgo, ove il consiglio cittadino assume il controllo dell’amministrazione del cantiere già dal 1282, in nessun luogo tranne che in Italia si osserva una tendenza così profonda alla municipalizzazione delle fabbriche delle cattedrali. Questa tendenza si accompagna ad un allargamento delle funzioni sociali di queste grandi imprese urbane, tale da riconfigurare l’idea di bene comune. La storia della progressiva messa sotto tutela delle fabbriche delle cattedrali italiane comincia negli anni 1160-1170, un decennio cruciale anche per l’implementazione dei sistemi urbani di prelievo fiscale. Come ha mostrato Ronzani, a Pisa la fabbrica della cattedrale sembra costituire il quadro concettuale e il luogo d’esercizio delle prime esperienze d’autogoverno della comunità cittadina. Lo stesso accade a Genova nel 1174, con la cattedrale di S. Lorenzo, la cui erezione è finanziata mediante il deceno di S. Lorenzo, un’imposta del 10% prelevata sui legati pii. Di lì, non v’è dubbio che l’esaltazione della cattedrale come fonte d’identità e memoria delle virtù civiche si sia sviluppata in stretta relazione alla politica del bene pubblico implementata dai comuni nelle loro fasi popolari. Il cantiere della cattedrale è un’impresa civica che si inscrive in un progetto generale di pianificazione urbana. Ciò è particolarmente evidente ad Orvieto, a partire dal 1295 e a Perugia cinque anni più tardi: la retorica civica che fa della costruzione della cattedrale un momento fondativo e quasi liberatorio della storia del «Popolo» è leggibile nel preambolo della delibera comunale che, il 22 marzo 1300, avvia ufficialmente la ricostruzione della cattedrale. A partire dal XIV secolo, le fabbriche delle cattedrali sono istituzionalmente, socialmente ed economicamente integrate nel funzionamento politico del governo urbano. È da osservare che l’intrusione dei poteri laici nella gestione dei cantieri religiosi non si limita alle sole cattedrali: investe anche gli edifici degli ordini mendicanti o stabili più modesti come le fabbriche delle chiese camaldolesi, strettamente sorvegliate dal comune. È mediante la leva finanziaria che l’autorità comunale riesce ad inserirsi nei consigli fabbriceriali. Le finanze della fabbrica sono distinte dalla gestione episcopale, e le istituzioni municipali non cessano di intensificare il loro controllo sui circuiti del finanziamento del cantiere, fino ad arrivare al 1420, anno in cui ottengono da papa Nicola V il riconoscimento del loro controllo politico sull’Opera Santa Maria. Eretto nel 1491, il Duomo di Torino resta interamente nelle mani del vescovo, Domenico della Rovere, i cui redditi finanziano quasi tutti i lavori. All’inverso, la Fabbrica di San Petronio a Bologna si afferma nel 1395 come un autentico «tempio civico» destinato ad entrare in concorrenza frontale con la cattedrale di San Pietro. Interamente finanziata dal prelievo fiscale, San Petronio s’impone nella città attraverso un gioco di marmi bianchi e pilastri rossi che richiama lo stemma comunale della croce rossa su fondo bianco. Fra questi due casi limite, si parla di una municipalizzazione parziale della fabbrica, come accade a Siena o a Pistoia, una municipalizzazione indiretta come a Firenze dove l’Arte della Lana ha dal 1331 l’intera responsabilità del cantiere di Santa Maria Maggiore, o una municipalizzazione paradossale e quasi intempestiva come a Milano, ove l’oligarchia cittadina, dal 1387, investe la Fabbrica del Duomo del ruolo d’istituzione comunale nello stesso momento in cui il profilo signorile del governo urbano ne sovverte i meccanismi. Questo generale movimento di appropriazione istituzionale e sociale si accompagna all’ampliamento delle funzioni sociali delle fabbriche, che assumono una parte rilevante della gestione urbana e del controllo sociale. Ciò vale per le politiche assistenziali: a partire dal XIV secolo, l’Opus di San Marco a loro fortuna economica in potere sociale. Ciò non esclude che partecipando alla costruzione della cattedrale questi personaggi ambiscano ottenere anche vantaggi materiali. A Milano, la Fabbrica del Duomo diviene una potenza finanziaria capace di creare le rendite necessarie a trasformare l’afflusso irregolare dei doni che le perviene nel pagamento costante di salari e materiali. Il primo tesoriere generale della Fabbrica è il potente banchiere Paolino de Osnago. Attraverso la gestione dei fondi del Duomo, le grandi imprese bancarie di Milano possono assicurarsi la disponibilità di grandi riserve finanziarie. Se la Fabbrica del Duomo è suscettibile di liberare cospicue riserve finanziarie, essa può servire anche da garanzia agli affari personali dei mercanti che la dirigono. E anche qualora i bilanci della Fabbrica chiudano in rosso, sono i primi ad accordare prestiti ad un’impresa che si dimostra solvibile. Si può supporre che i banchieri chiamati a gestire i fondi fabbriceriali favoriscano coscientemente un deficit che permette all’oligarchia milanese di prendere direttamente in carico l’amministrazione del debito, facendo giocare a proprio vantaggio la collusione fra i conti del Duomo e quelli delle istituzioni bancarie. Per quanto riguarda la costruzione delle identità sociali realizzata mediante la manipolazione della memoria civica, il caso più eclatante è quello di Marco Carelli, un grande mercante eletto nel 1388 fra le fila dei deputati della Fabbrica del Duomo. Egli compie una prima donazione di 270 lire e 10 soldi, per poi destinare tutto il suo patrimonio al Duomo con il suo testamento del 4 luglio 1393. Al seguito della liquidazione dell’eredità, la donazione di Carelli attinge la somma di 35.000 ducati. La solennità delle cerimonie civiche che accompagnano i suoi funerali e ne esaltano la generosità segna l’avvio del vasto movimento sociale d’investimento urbano sulla cattedrale. La città guadagna una grande festa civica in cui viene distribuito pane agli indigenti, e la trasformazione delle risorse private in ricchezza pubblica trova la sua più compiuta messa in scena. Quanto alla memoria del mercante, essa è letteralmente alzata sul pinnacolo, poiché la Guglia Carelli è la prima ad issarsi sul tetto del Duomo. Se la Fabbrica della cattedrale è un luogo d’invenzione della memoria civica, il suo finanziamento contribuisce alla costruzione d’identità sociali. L’oligarchia mercantile, investendo massicciamente nelle fabbricerie, si costruisce come gruppo sociale, esprimendo la sua appartenenza alla comunità urbana. Marco Serraineri, commerciante milanese di fustagni, a capo di una società che estende il suo campo d’azione fino in Provenza e Catalogna, nel 1407 devolve alla Fabbrica il suo patrimonio mediante testamento. Questo sacrificio economico evoca una «religione mercantile» che si esprime con slanci improvvisi di inquieta generosità. Altri personaggi sembrano avere un rapporto meno intenso con la Fabbrica. È questo il caso di Donato Ferrario da Pantigliate, la cui famiglia, cicina ai Visconti e integrata nei meccanismi delle istituzioni comunali sforna una grande quantità di deputati della Fabbrica del Duomo. Anche Donato è annesso al Consiglio, circostanza che favorisce il suo ingresso nelle magistrature pubbliche. Al momento di redigere le sue ultime volontà, egli lascia 10 lire alla Fabbrica. Donato consacra la seconda parte della sua vita al movimento confraternale e caritatevole, abbandonando i suoi affari per investire tempo e denaro nella fondazione di ospedali per indigenti. Le scelte testamentarie di Donato Ferrario da Pantigliate fanno supporre che la Fabbrica del Duomo abbia rappresentato per lui un luogo d’investimento politico. È quindi sulla complessità sociale della nozione di investimento – e sulla sottile varietà delle modalità d’impegno e partecipazione individuale che essa implica – che conviene concludere queste osservazioni. Le élites urbane hanno massicciamente investito nella costruzione di cattedrali. Con la gestione delle fabbricerie tentano di massimizzare i loro profitti, ma questi ultimi fanno fruttare il capitale in capitale economico, capitale sociale e capitale simbolico, secondo proporzioni che variano in funzione delle necessità del momento, dei contesti istituzionali, delle strategie degli attori. Studiando i comportamenti immobiliari della società romana dei secoli XIV e XV, Vigueur ha mostrato come un «mercato del profitto» potesse coesistere con un «mercato d’investimenti simbolici»: la casa non è una merce come le altre ed il suo scambio obbedisce a una serie di vincoli sociali, ma anch’essa può diventare un bene da cui gli attori attendono profitti immediati. Analizzando il mercato della terra in Abruzzo in età carolingia, Feller vi ha scorto un legame fra scambi fondiari, transazioni matrimoniali e rapporti di clientela, ma ha parimenti dimostrato come venditori e acquirenti non ignorassero il prezzo di mercato, a cui sceglievano di conformarsi o non conformarsi a seconda delle circostanze. Ricoprendo la forza delle passioni sociali e rivalutando l’irrazionalità dei comportamenti, oggi gli economisti stanno rielaborando la nozione di disinteresse. Proponendo di distinguere fra la preoccupazione disinteressata e la preoccupazione del disinteresse, Elster ha di formulato una teoria originale della razionalità delle motivazioni disinteressate, articolandola con il concetto di investimento. Considerare la cruciale importanza del finanziamento delle cattedrali nell’economia delle città italiane alla fine del Medio Evo conduce a prendere sul serio la razionalità delle tante forme d’interesse e disinteresse chiamate in causa dalla nozione di investimento. LE FABBRICERIE – le fabbricerie sono ancora un ente fondamentale per la chiesa cattolica: hanno il compito di tutelare, promuovere, custodire, mantenere gli edifici di culto e le loro opere d’arte. All’interno del diritto italiano, le fabbricerie sono persone giuridiche a cui è devoluta l’amministrazione del patrimonio di una chiesa; sono aziende con amministratori ed un patrimonio (immobiliare) il cui scopo è mantenere un edificio di culto, occuparsi della manutenzione ordinaria e straordinaria, e provvedere a ciò che serve per il culto (suppellettili religiose, abiti, candele). Le fabbricerie hanno un’origine antica: in una lettera di Papa Gelasio di fine V sec. viene descritto come vanno suddivisi i redditi di un ente ecclesiastico. Una parte andava al vescovo, una parte al clero, un’altra per aiuto ai poveri e un’ultima alla fabbrica della chiesa, gli enti che hanno il compito di curare l’edificio di culto (sacra tecta) e le luminarie (luminaria ecclesiae), unico strumento di illuminazione dei tempi. Il concetto di luminarie sarà esteso ad intendere tutte le suppellettili utilizzate per le funzioni liturgiche. Fra XII e XIV sec, nel contesto della nuova partecipazione della vita comunitaria, caratterizzata dalla nascita del comune italiano, questi enti assumono una loro specifica fisionomia: sono organismi collegiali costituiti da laici ed ecclesiastici che si inseriscono nel nuovo contesto partecipativo alla vita cittadina. Assumono una varietà di forme ed organizzazioni e prendono diversi nomi: nel nord Italia sono dette fabbriche, in Toscana opere, a Napoli cappelle, in Sicilia maramme, a Venezia procuratorie. Come sostiene Boucheron, in Italia si osserva una tendenza alla municipalizzazione di queste fabbriche, soprattutto quelle della cattedrale. Il ruolo di questi enti va oltre a quello di strumenti per la costruzione e manutenzione delle chiese, ma assumono un ruolo più importante e nuove funzioni sociali e diventano una delle istituzioni del comune medievale volte alla cura del bene comune. Il ruolo sociale delle fabbriche è variegato. La costruzione di un grande edificio, bello ed importante, dove si tiene la liturgia, è un momento fondativo della storia di un popolo e di una città: nel costruire una cattedrale, che sarà costruita da più generazioni, che deve essere più bella di quelle di altri comuni, il popolo trova la sua identità, un luogo dove tutti si possono riconoscere. Queste fabbriche crearono grandissimi cantieri in città relativamente piccole e quindi dovevano fungere da garanti dello spazio urbano, e dovevano gestire una grande fetta dello spazio urbano. Diventava uno dei luoghi in cui si costruiva il tessuto urbano di un comune. Erano cantieri molto costosi: così come iniziava a costruirsi una fiscalità municipale per tutte le istituzioni comunali, parallelamente si costituiva una fiscalità per sopperire alla ricerca di risorse per la costruzione della chiesa. Si sperimentavano nuove forme di prelievo fiscale. Questo fa intendere come fosse importante per le élite del comune partecipare attivamente all’amministrazione delle fabbriche: far parte del consiglio della fabbrica era una prima parte di una carriera politica, che poteva portare ai vertici della struttura comunale in quanto erano strutture amministrative complesse, al cui interno si creavano tecniche finanziarie e contabili nuove per gestire al meglio queste strutture che poi verranno copiate e mutate alla base delle tecniche finanziarie che serviranno agli apparati statali. Le fabbriche sono organismi collegiali costituiti in maggior parte da laici che tentano di mantenere una certa autonomia rispetto al mondo ecclesiastico. Le istituzioni ecclesiastiche possono controllare il lavoro delle fabbriche ma non possono intervenire: sono i laici che amministrano queste grandi aziende. Durante il Concilio di Trento, momento di massima espressione della volontà di porre nuove regole al mondo cattolico, all’interno dei decreti del concilio si parla anche di fabbriche e si mantiene la loro autonomia. Si pone solo l’obbligo di rendere conto ogni anno al vescovo della loro amministrazione. Il vescovo non può intervenire in maniera diretta nelle decisioni e nell’amministrazione delle fabbriche. Nella diocesi di Milano un momento fondamentale dell’azione normativa è quella condotta da s. Carlo Borromeo, raccolta negli Acta Ecclesiae Mediolanensis, in cui si descrivono le funzioni delle fabbriche e si mantiene l’idea di organi collegiali dotati di autonomia. Dopo il Concilio di Trento, nell’età moderna, il ruolo e l’organizzazione delle fabbriche rimane immutato fino al XIX sec, quando anche le fabbriche vengono coinvolte nella grande rimodulazione delle istituzioni pubbliche con la nascita dello stato nazionale e con i profondi cambiamenti nel rapporto tra il potere civile ed ecclesiastico: si crea una separazione tra potere politico e religioso sulla spinta delle idee liberali e si impone al potere religioso un controllo stringente da parte degli stati nazionali. Nel 1806 Napoleone istituì le fabbricerie: viene riconosciuta la personalità giuridica di questi enti all’interno dell’azione normativa napoleonica con la costituzione dei codici. Si stabilisce che queste istituzioni devono essere sottoposte al controllo dell’autorità pubbliche locali, che ne controlleranno i bilanci, la gestione e l’oculatezza di quest’ultima. Per quanto riguarda l’Italia, un momento di cambiamento è l’unificazione e le nuove norme emesse dal Regno d’Italia prendono il nome di leggi eversive (1866-1870), leggi con cui lo stato vuole regolare i propri rapporti con la Chiesa. Con le leggi eversive il regno incamera i beni delle istituzioni ecclesiastiche che venivano considerate inutili. Nonostante le fabbricerie fossero istituzioni ecclesiastiche vennero salvaguardate e continuarono ad esistere anche dopo le leggi eversive. Ne viene conosciuta l’utilità come strutture amministrative di beni importanti, anche se vengono posti limiti ai patrimoni immobiliari e imposte tasse straordinarie. Questo periodo di frizione tra stato e chiesa dura fino al 1929, fino ai patti lateranensi. All’interno delle norme create si stabiliscono delle regole per le fabbriche, che sono valide ancora oggi per quanto riguarda il fatto che queste fabbriche devono avere consigli formati da 7-5 membri, alcuni di nomina ecclesiastica, altri nominati dal ministero dell’interno, che controlla e sorveglia queste istituzioni. Tra la fine dell’800 e inizi del XX sec, in Italia, le fabbricerie diventano gli interlocutori delle nuove istituzioni che il Regno d’Italia e lo Stato italiano costruiscono per tutelare il suo patrimonio. Le fabbricerie avranno una fittissima corrispondenza con il ministero dell’istruzione, che all’epoca era il ministero che aveva il compito istituzionale di difendere il patrimonio culturale italiano e i beni culturali. Ancora oggi le fabbricerie hanno questo ruolo attivo di custodia e promozione. Negli anni 2000 sono state firmate intese fra il ministero dei beni e delle attività culturali e la conferenza episcopale italiana e le fabbricerie sono enti pienamente inseriti nel tessuto di tutela che nel patrimonio culturale italiano sia pubblico che privato, distribuito su tutto il territorio nazionale. I BENI CULTURALI ECCLESIASTICI – all’interno delle fabbricerie si sviluppa una cultura della tutela, la capacità di porre in atto le giuste forme amministrative, la capacità di gestione per tutelare un bene culturale, arricchirlo, proteggerlo, mantenerlo e trasmetterlo alle generazioni successive. La cura e la manutenzione di una chiesa richiede una costante capacità di reperire risorse. Nei consigli delle fabbriche si creano le condizioni perché le risorse siano sempre disponibili. Vi sono diversi sistemi di fundraising, alcuni abbastanza costanti: le fabbriche gestiscono grandi proprietà immobiliari, derivanti da lasciti testamentari, e all’interno del consiglio gli amministratori fanno fruttare questi beni con la compravendita e gli affitti. Un particolare tipo di queste proprietà sono quelle agricole fondiarie. Vi sono individui che sanno gestire queste strutture e sanno ricavarne rendite reinvestite nella cura e manutenzione delle chiese. Un peculiare sistema di raccolta fondi sono i legati di culto: una persona chiede nel suo testamento che vengano celebrate liturgie in sua memoria e per farlo lascia una rendita, usata per le spese per il culto e la liturgia e per il sostentamento dei sacerdoti. Più si separa il potere politico da quello ecclesiastico, più le fabbricerie cercano altri strumenti, come le campagne di raccolta di offerte straordinarie: si chiede ai fedeli di fare offerte specifiche per bisogni particolari nel mantenimento della chiesa. Nel XIX sec, man mano che si le competenze dello stato nei beni culturali, le fabbricerie stringono rapporti con gli enti statali e chiedono dei finanziamenti per sopperire a un bene che serve a tutta la comunità. Accanto alla capacità di reperire risorse, un’altra dote che devono avere i consiglieri di una fabbrica è il saper investire bene le risorse, facendo investimenti mirati per procurarsi al minor costo possibile i materiali che servono per curare l’edificio (come il caso del marmo di Candoglia per il Duomo di Milano, In questo momento in Italia nascono i primi embrioni di quelle che saranno le istituzioni che avranno il compito specifico di tutelare il patrimonio: nascono le prime commissioni, i primi strumenti legislativi, che poi porteranno alla formazione dei vari uffici del ministero per i beni e le attività culturali fino ad oggi. La prima legge eversiva è il Regio decreto n. 3036 del 07/07/1866: con questo decreto lo stato definisce la volontà di sopprimere gli enti religiosi e di incamerare i beni nel demanio. L’articolo 1 afferma che non sono più riconosciuti dallo stato alcuni enti, che sono soppressi. L’art 11 si riferisce alla devoluzione del demanio allo stato e l’obbligo di iscrivere a favore del Fondo per il Culto, un ente che nasce con questo Regio Decreto e che ha il compito di gestire questi beni incamerati e le loro rendite. L’articolo 20 sancisce che i fabbricati dei conventi soppressi saranno ceduti agli enti pubblici locali che faranno domanda entro un anno dalla pubblicazione della legge. Si è ancora in un’ottica funzionale di queste strutture; si è lontani da una considerazione del valore storico-culturale di questi edifici: gli enti locali devono dare un uso a questi fabbricati (scuole, opere, ospedali, opere di beneficienza). L’art 24 tratta dei beni mobili, definiti in maniera precisa: libri, manoscritti, archivi, oggetti d’arte che si troveranno negli edifici appartenenti alle case religiose si devolveranno a pubbliche biblioteche o musei nelle rispettive province. C’è una presa di coscienza del valore culturale di questi oggetti, che non possono entrare a far parte del demanio per essere alienati, ma devono essere devoluti a istituzioni pubbliche in modi che possano arricchire le collezioni, in modo da essere fruiti dai cittadini. C’è la volontà di conservare e tutelare, la presa di coscienza che sono beni che hanno valore generale per la nazione e che quindi devono essere messi a disposizione dei cittadini del Regno, si decide che debbano rimanere nelle province in cui sono stati creati. L’articolo definisce le funzioni e competenze di 2 ministeri che dovranno gestire questa devoluzione: il Ministero dei Culti (sovrintendeva ciò che aveva a che fare con gli enti religiosi) e il Ministero della Pubblica Istruzione, che acquista le competenze di tutela e sorveglianza del patrimonio culturale italiano. Manterrà queste competenze fino al 1975, quando nascerà il Ministero dei Beni e dell’Attività Culturali. Questo articolo è un po’ la causa delle decontestualizzazioni: infatti i beni che sono nati in un luogo preciso, creati per una funzione specifica, vengono decontestualizzati e portati all’interno di musei anche distanti e che perdono quel legame che avevano con il luogo d’origine. Si cerca di evitare totalmente questa decontestualizzazione cercando di preservare i beni creati specificamente per il culto nelle chiese, dove si continuerà ad officiare, anche se le congregazioni sono state sciolte. Nell’art 33 si attua una precisazione di ciò che è patrimonio culturale. Nell’articolo si stabilisce che il governo deve provvedere direttamente alla conservazione degli edifici, delle loro adiacenze e di altri stabilimenti ecclesiastici riconosciuti importanti per il loro valore monumentale e per il fatto che oltre all’edificio hanno un complesso di tesori artistici e letterari che custodiscono. Con questo articolo lo stato inizia a definire cosa siano i beni culturali, per comprendere cosa sia un patrimonio storico che costituisce l’identità di una nazione e perché lo stato si deve fare carico del patrimonio, in quanto deve essere coinvolto nella sua gestione. In questo articolo si vede l’embrione di questa riflessione, del processo culturale, legislativo e operativo che porta alla definizione e conservazione del patrimonio culturale italiano. L’attuazione del Regio Decreto 3036 ebbe molti errori: molti edifici che andavano tutelati vennero ceduti in maniera superficiale. Ma in questo contesto iniziarono ad operare le prime istituzioni dedicate al patrimonio culturale: le Commissioni Consultive di belle arti, create nel 1864, in diverse province del Regno, che operarono elenchi di beni incamerati dallo stato che possono essere devoluti alle province o alienati. Queste commissioni fecero il primo vero censimento dei beni culturali italiani, anche se parziale perché legato solo al contesto dei beni ecclesiastici soppressi, ma comunque iniziò un processo di conoscenza approfondita del diffuso patrimonio culturale italiano. Nel 1867, nel ministero della pubblica istruzione, venne costituita la Giunta delle belle arti, che nel 1881 venne denominata Direzione Generale delle antichità e belle arti, che ha il compito di informare il ministro sullo stato di tutto quello che riguarda le belle arti: è il nucleo fondativo dell’amministrazione pubblica dedicata a cercare modi e soluzioni per la salvaguardia del patrimonio culturale. Venne emanata la legge n. 3848 del 15/08/1867, nota come la legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico. In questo modo vengono soppressi altri enti ecclesiastici: con questa legge vengono soppressi enti del clero secolare, e vengono esclusi solo i seminari, le cattedrali, le parrocchie, i canonicati e le fabbricerie. I beni degli enti soppressi vengono attribuiti ufficialmente al demanio e vengono definite le modalità con le quali i beni saranno liquidati, venduti: si definisce come vendere i fabbricati non richiesti dagli enti pubblici. Viene imposta una tassa straordinaria del 30% sul patrimonio del Fondo del Culto e sugli enti ecclesiastici sopravvissuti. Questo fu un casus belli: molti enti ecclesiastici si organizzarono per combattere questa tassa straordinaria che andava ancora di più a colpire il patrimonio ecclesiastico. Questo momento delle leggi eversive fu un momento di dispersione del patrimonio culturale, in cui lo stato non riuscì ad esercitare un’azione di tutela capace di preservare in maniera adeguata il patrimonio. Questo anche perché le commissioni consultive erano degli enti nati da troppo poco tempo e quindi non avevano ancora la competenza tecnica e la forza istituzionale per imporsi davanti a processi di dispersione o distruzione del patrimonio. Le leggi eversive avevano anche il compito di portare denaro nelle casse dello stato e quindi era uno degli interessi che spingeva verso l’alienazione dei beni ecclesiastici. Molti di questi beni erano stati acquisiti dagli enti pubblici locali per costruire delle scuole, per cui avevano bisogno di demolire dei pezzi per renderli funzionali. Una parte consistente degli edifici presi in carico dal demanio vengono venduti ai privati dopo la scadenza del termine per le richieste di cessione agli enti locali, che ne dispongono come vogliono e non ci sono leggi per preservare il patrimonio culturale in mano al privato. Si possono riconoscere dei beni monumentali su cui lo stato può opporre la propria gestione ma ancora manca la possibilità di limitare la proprietà privata, come poi nel corso della storia dello stato italiano venne a delinearsi con delle leggi specifiche. Le leggi eversive danno però l’avvio anche al processo di nascita dei musei locali, che accolgono le collezioni di beni mobili degli enti soppressi e che nascono in un momento in cui si sviluppa la volontà privata di collezionare e donare alle istituzioni pubbliche beni artistici e culturali. Questi due processi – pubblico di soppressione e privato di acquisizione e donazione – portano all’origine di musei locali, che sono un momento fondamentale nella storia della tutela del patrimonio artistico sia per il suo significato culturale (vengono costituite collezioni che ancora oggi possono essere fruite) che per gli esiti istituzionali, la presa di coscienza degli enti pubblici locali dell’importanza della tutela del patrimonio pubblico, che nei loro territori ci sono beni culturali e che la tutela e promozione di questi è una delle competenze fondamentali di questi enti. Soprattutto in centro Italia ci sarà un fiorire di musei civici, che saranno considerati un pezzo importante dell’identità dei territori. Un’altra conseguenza positiva delle leggi eversive fu la nascita dei monumenti nazionali: ai sensi dell’art 33 del Regio Decreto, il ministero della pubblica istruzione aveva la facoltà di riconoscere la monumentalità di un edificio, il che preservava l’edificio dalla devoluzione al demanio e dalla possibilità che fosse sottoposto a riuso. Veniva garantita la custodia e gestione diretta da parte dello stato. Il ministero si mosse in questo senso, chiese informazioni su quali fossero gli edifici che dovevano essere salvaguardati. La dichiarazione di monumentalità costituisce l’embrione di quella che oggi è la dichiarazione di interesse culturale, che permette allo stato di sottoporre ad una serie di norme, codici e garanzie i beni culturali in mano ai privati. Questo è uno degli aspetti del progresso di una cultura della tutela all’interno dello stato italiano che ha la loro origine nella soppressione degli enti ecclesiastici con le leggi eversive. UNITà 4 – ARTE E SISTEMA DELL’ARTE NELL’Età DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE L’800 E IL CASO FRANCESE – il mercato primario è quello in cui l’artista è vivente, quindi tratta di arte contemporanea. Questo non significa che l’artista non si avvalga di intermediari: Van Gogh si avvalse di intermediari, soprattutto mercanti e galleristi. Nel mercato primario si fissa il valore economico iniziale dell’opera. Il secondario consiste delle transazioni successive senza coinvolgimento dell’autore, riguarda opere di ogni epoca (anche contemporanea se non se ne occupa l’artista) ed è gestito da figure professionali (gallerie, mercanti, case d’asta). Vi sono enormi differenze di prezzo nei passaggi di un’opera d’arte. Si segnala un aumento delle vendite all’asta: nei primi dell’800 iniziò a diventare un canale importante in GB e Francia nelle transazioni delle trattative di oggetti d’arte. L’attenzione alle aste e ai prezzi di vendita e aggiudicazione delle opere è cresciuta negli ultimi decenni, quando gli economisti del mondo della finanza hanno guardato all’arte come un mercato interessante dal punto di vista degli investimenti. Si è posta la questione di elaborare delle banche dati e degli indicatori che dessero il polso dell’andamento del mercato dell’arte. I prezzi d’asta sono considerati come l’elemento informativo più interessante in questo mercato per l’alto numero di transazioni e perché sono definiti con un sistema apparentemente più trasparente, anche se a volte dietro questi sistemi di vendita pubblica vi sono anche delle collusioni volte a gonfiare il prezzo, soprattutto oggi in quanto la trasparenza e pubblicità dell’asta è venuta meno con le aste online. Oggi disponiamo di enormi database dei prezzi delle opere d’arte e dei beni di lusso di ogni genere. Uno degli studiosi che per primo si è cinto a raccogliere dati dei prezzi di aggiudicazione delle opere all’asta è Reitlinger. Vi sono dei database retrospettivi, nei quali sono inserite le informazioni delle aste storiche a partire dal 600-700, ma per quanto queste lunghe serie di dati possano essere significative, storicamente, per lungo tempo, è prevalso il metodo della trattativa privata. Vi furono grandi cambiamenti riguardo al contesto in cui l’arte si svolge, caratterizzato da mutamenti strutturali, economici, sociali e culturali. Cambia anche il rapporto tra economia e società. È stata enfatizzata l’emersione di un nuovo protagonista del cambiamento sociale, l’alta borghesia. Questo nuovo soggetto si pone come nuovo committente con orizzonti culturali, aspettative, volontà di autorappresentazione diverse dalle antiche élite nobiliari e del clero. La committenza quindi cambia di contenuto, con richiami a nuovi valori, simboli e soggetti. Un secondo macrocambiamento sono i contenuti: l’arte sceglie la contemporaneità, affiancando ai classici contenuti allegorici, mitologici, storici dell’arte colta, contenuti più aperti alla rappresentazione della realtà. L’artista diventa un protagonista del suo tempo ed è partecipe con la sua attività nella vita politica: il rapporto tra arte e potere cambia a seconda del grado di possibilità e libertà garantiti all’artista. La massima adesione tra l’arte e i cambiamenti politici si ha durante la rivoluzione francese, in cui vi è notevole impegno degli artisti a difesa o contro il disegno rivoluzionario, soprattutto nel periodo assolutistico di Napoleone, quando egli riesce a catalizzare attorno a sé artisti e letterati diventando un’icona. Un terzo elemento di cambiamento tra i rapporti tra arte e società che emerge nell’800 è l’ingresso dei ceti popolari. Anche nel 6-700 la rappresentazione pittorica non escludeva le figure dei marginali. Ora vi entra anche il lavoro nelle sue forme prosaiche o idealizzate. Nella seconda metà dell’800 gli artisti si fanno carico di rappresentare il lavoro per denunciarne la marginalità, sposando poi ipotesi e progetti di cambiamento sociale: l’artista diventa il protagonista dei movimenti collettivi, il che porta cambiamenti nei contenuti, con una forte propensione al realismo durante il Romanticismo e il Verismo. Il compito dell’artista non è distaccarsi dalla realtà, ma di attenervisi. Manca una finalità di tipo progressista, ma piuttosto se ne ha una antiaccademica. È la Francia l’ambiente che permette di cogliere le trasformazioni su vari livelli in ordine al sistema dell’arte. Già nel 700 la Francia era il punto di incrocio tra le correnti di commercio delle opere d’arte che venivano dalle zone fiamminghe, dall’Olanda e Italia. Era emersa anche l’importanza del polo londinese, basata sull’attività di gallerie, commercianti, intermediari e case d’asta. La apparente erosione della Francia come crocevia degli scambi d’arte si accelera a causa degli avvenimenti rivoluzionari. La rivoluzione dell’89 produce un forte impatto negativo sul mercato d’arte perché questo si reggeva ancora sulla committenza, e nobiltà e clero sono le prime vittime della rivoluzione: cessa la loro committenza e le loro collezioni si dissolvono o vengono nazionalizzate. Inoltre gli investimenti in arte diminuiscono a causa dell’inflazione e al crollo della fiducia dovuto alle turbolenze politiche che produce degli effetti non positivi. Questo fino alla caduta del regime napoleonico: in seguito si ha una forte espansione degli scambi delle opere di antichi maestri (per pittura e scultura); ma la novità più importante è lo sviluppo del mercato dell’arte contemporanea. Questo è un sistema fortemente monopolizzato dalle accademie d’arte e sottoposto ad un patronage statale. Nella seconda metà dell’800 si avrà la nascita di un mercato indipendente che si regge sull’azione e sull’intraprendenza; sulla capacità di imprenditori, galleristi, mercanti e di luoghi privati indipendenti (esposizioni private). figurative e avanguardie fu data dal successo che nel 1914 ebbe un’operazione volutamente speculativa, volta ad acquisire opere d’arte per rivenderle una volta che il mercato garantiva quotazioni più elevate. Questo venne fatto ad opere di Level, che non avendo capitali sufficienti per avviare la sua esperienza di investimenti in arte, creò il primo fondo di investimento in arte: un’associazione di 13 soci che acquisì in 10 anni opere di artisti emergenti e poi le rivendette con grande successo. Negli anni 20 si vive una grande euforia dettata dalla ripresa dopo la guerra, dalla liquidità internazionale e dall’emergere negli USA di una domanda di amatori, collezionisti disposti a pagare grandi somme pur di acquisire opere sia antiche che avanguardie. Euforia che terminò con la crisi del 29, quando anche il mercato dell’arte subì un’interruzione per effetto della recessione mondiale. NASCITA E SVILUPPI DEL MERCATO DELL’ARTE CONTEMPORANEA INTERNAZIONALE (POLI) Il sistema accademico in Francia. I Salon ufficiali - la struttura del mercato dell’arte contemporanea, basata sul sistema delle gallerie private, nasce in Francia, negli ultimi decenni dell’Ottocento in opposizione alla chiusura e alla rigidità dell’organizzazione ufficiale delle arti plastiche dominata dall’Académie des Beaux-Arts (sezione dell’Institut National de France). Un’istituzione statale incapace di stare al passo con i tempi, con gli sviluppi più vitali della società borghese e delle sue nuove istanze culturali emergenti. Già verso il 1830 l’affermarsi della concezione romantica incomincia a indebolire il suo monopolio per quello che riguarda la legittimazione dei valori artistici. È questa la fase del grande scontro fra Classicismo e Romanticismo, che nella pittura è sintetizzato dalla emblematica opposizione fra Ingres e Delacroix (e fra artisti, critici e collezionisti divisi in due fazioni). Il primo domina l’Académie dal 1825 al 1867, mentre il secondo viene eletto nel 1857, quando ormai non è più in grado di incidere sulle scelte estetiche. Nel saggio Teoria dell’arte d’avanguardia (1962), Renato Poggioli dimostra che i primi germi dello spirito d’avanguardia incominciano a emergere proprio in rapporto al Romanticismo, sottolineando come l’opposizione fra l’arte accademica e le nuove forme d’arte indipendente sia evidente anche nell’uso di termini quali «scuola» e «movimento». Il concetto di scuola è statico e classico, quello di movimento è dinamico, aperto all’evoluzione continua. La scuola presuppone un maestro, un metodo e modelli precisi; il criterio seguito è quello della continuità con la tradizione e dell’accettazione del principio di autorità, sul piano dei valori culturali e su quello dei canoni linguistici. Al contrario, la nozione di movimento si collega a una visione vitale e dinamica della creatività, a processi di sviluppo ed evoluzione delle ricerche artistiche. In Francia l’Accademia di belle arti, fondata nel 1648 a Parigi da Colbert (Académie Royale de peinture et sculpture), arriva al massimo della sua evoluzione con Napoleone che ne rafforza il potere centrale. L’Accademia aveva come suo più alto obiettivo quello di difendere la teoria estetica, ponendosi come l’istanza più alta di legittimazione dello status d’artista. Questo significava un potere di controllo dispotico, da parte dei membri ufficiali dell’istituzione, su tutti gli aspetti e livelli dell’organizzazione dell’arte, innanzitutto sulla formazione artistica. Tra i suoi membri venivano scelti gli insegnanti dell’École des Beaux-Arts e il direttore dell’Accademia di Francia a Roma, e anche le scuole d’arte in provincia erano sotto la sua supervisione. I membri accademici erano in grande maggioranza nella giuria per l’accettazione delle opere e il conferimento dei premi al Salon, e quindi avevano il potere di escludere le opere non ritenute valide, tra cui anche quelle degli artisti innovatori che non si adeguavano alle loro direttive. Inoltre selezionavano anche i dipinti e le sculture degli artisti viventi da far acquistare ai musei e alle istituzioni pubbliche, ed erano determinanti per l’attribuzione delle committenze di maggior peso. Lo statuto dell’Accademia vietava agli artisti ufficiali di fare direttamente commercio nei loro studi, ma oltre alle committenze pubbliche e agli acquisti in occasione dei Salon, le loro opere erano vendute tramite l’intermediazione di courtiers o mercanti titolari di gallerie che proponevano quadri e sculture antiche e moderne. Per un giovane artista, a partire dall’accettazione all’École, la carriera ufficiale doveva passare obbligatoriamente attraverso una serie di tappe, tutte controllate dal sistema accademia: dalla menzione d’onore alla medaglia, dal Prix de Rome all’acquisto di opere da parte dello Stato, fino ad arrivare eventualmente all’elezione come membro dell’Accademia. Dunque, fin quando il potere dell’Accademia era dominante, l’artista, per far carriera, anche dal punto di vista del successo commerciale, doveva preoccuparsi innanzitutto dell’avanzamento istituzionale, come un funzionario di Stato, piuttosto che lavorare a strategie di autopromozione nel mercato libero. In particolare, il successo ai Salon (determinato dalle menzioni e dalle medaglie ufficiali e dai giudizi della critica conformista più influente) rappresentava l’indispensabile mezzo per essere accettato dal gusto dominante del grande pubblico e dell’alta borghesia che comprava le opere. Il successo al Salon aveva poi una ricaduta anche sulla vendita attraverso altri canali. Verso la metà del secolo a dominare i Salon erano gli artisti ufficiali riconosciuti come Bouguerau, Cabanel, Gérôme, Meissonnier, Decamps, Couture, ma il prestigio degli accademici incominciava ad essere conteso dagli artisti innovatori che cercavano di costruire la loro carriera nel mercato libero, in fase di sviluppo. La polemica contro i Salon. Le prime mostre d’arte indipendente - data dell’inizio della svolta è il 1855, l’anno dell’Esposizione Universale di Parigi. In quella occasione Courbet decide di installare davanti all’Esposizione il suo Pavillon du Réalisme, con un’ampia selezione di propri quadri, tra cui la grande tela Lo studio (rifiutata dalla giuria della mostra ufficiale). La polemica esplode successivamente nel 1863, con la prima edizione del Salon des Réfusés, voluto da Napoleone III per permettere di esporre anche agli artisti esclusi dal Salon ufficiale. Ma dato che la giuria selezionatrice era sempre quella del Salon ufficiale, le scelte erano state fatte per dimostrare l’inferiorità qualitativa di questa nuova esposizione, che fu considerata anche dal grande pubblico e dalla maggioranza della critica come una selezione di artisti falliti. E per non compromettere la loro carriera futura molti artisti rifiutarono di esporre. Tuttavia Manet accettò coraggiosamente la sfida presentando Le déjeuner sur l’herbe, oggetto di derisione da parte della maggioranza, ma opera ammirata dalla minoranza più vitale e innovatrice del mondo artistico, così come Olympia, esposta al Salon nel 1865. E così Manet diventa il capofila della nuova generazione di artisti indipendenti. Intorno a lui, sulla base delle esigenze artistiche comuni, nasce il gruppo degli impressionisti. Manet, pur continuando a sostenere questi nuovi artisti, non esporrà mai in nessuna delle loro mostre indipendenti. Il suo obiettivo era quello di riuscire a imporsi a livello ufficiale, attraverso le esposizioni del Salon, cosa che alla fine gli riuscirà (poco prima di morire nel 1883, riceverà la Legion d’Onore). Comunque tutti gli altri impressionisti tenevano molto a esporre ai Salon, anche se spesso venivano rifiutati. Soltanto Cézanne non fu mai accettato, pur continuando a mandare ogni anno i suoi quadri al Salon. Dopo il fallimento del Salon des Réfusés, bisogna aspettare fino al 1884 per veder nascere i Salon des Indépendants, senza premi e giuria, organizzato dalla Société des Artistes Indépendants. È il prototipo di tutte le altre manifestazioni espositive europee indipendenti, tra cui le Secessioni di Vienna e Monaco. Successivamente, nel 1903, a Parigi nasce il Salon d’Automne, indipendente, ma con una giuria selezionatrice: una manifestazione che intendeva orientare il gusto del pubblico e dei nuovi collezionisti. Obiettivo attuato con grande efficacia. È visitando questo Salon annuale che collezionisti come André Level (presidente dell’associazione La Peau de l’Ours) e Leo e Gertrude Stein, oppure mercanti come Wilhelm Uhde e Daniel Henry Kahnweiler, iniziano a interessarsi all’arte contemporanea. È qui che hanno luogo eventi espositivi di storica importanza come la sala dei Fauves (1905), la retrospettiva di Cézanne (1907), la sala dei Cubisti (1912), ed è qui che de Chirico espone per la prima volta a Parigi. La svolta impressionista. Paul Durand Ruel - gli impressionisti non determinarono semplicemente una rottura con le norme estetiche dell’accademia. Accoppiando la loro nuova estetica con la fondazione di un sistema commerciale e critico di supporto alla loro arte, essi crearono il movimento dell’Impressionismo, ma anche le condizioni materiali per lo sviluppo dei movimenti moderni che avrebbero dominato l’arte del XX secolo. Verso il 1890 gli sforzi concertati degli impressionisti, dei critici amici (come Castagnary, Duranty, Chesneau e Zola), dei primi collezionisti e del loro principale mercante, Paul Durand Ruel, arrivano a creare una rete internazionale, che negli anni successivi determinerà il grande successo culturale ed economico del movimento. Paul Durand Ruel (1831-1922) rappresenta il prototipo del nuovo mercante innovatore, sul piano delle scelte artistiche e su quello delle strategie commerciali. Dopo aver lavorato nella galleria del padre, alla fine del 1862 ne eredita l’attività, sviluppando in particolare un interesse per Courbet e per gli artisti della scuola di Barbizon (Daubigny, Diaz de la Peña, Millet e Théodore Rousseau, di cui compra in blocco settanta quadri). Il suo rapporto con gli impressionisti incomincia nel 1870 a Londra, dove tramite Daubigny, conosce Monet e Pissarro. Questi vengono inclusi nella prima mostra della sua galleria londinese, dove successivamente espongono anche Manet, Degas, Renoir e Sisley. Nello stesso anno Durand Ruel acquista, nello studio di Manet, ventitré opere, base del primo stock di opere della nuova tendenza. Dopo una grossa crisi finanziaria che lo costringe a vendere gran parte delle opere del suo magazzino, verso il 1880 ricomincia a comprare opere degli impressionisti. Nel 1886 organizza a New York la prima mostra degli impressionisti all’American Art Association e subito dopo apre una sua succursale nella città americana. È grazie al mercato americano che ottiene i suoi maggiori successi economici. Le caratteristiche innovative della sua attività sono: • Interesse per la valorizzazione di una nuova pittura non ancora richiesta dal mercato. • Volontà di aver il monopolio su questa produzione artistica (per controllare e imporre le quotazioni), attraverso l’accumulazione di opere in magazzino e la stipulazione di contratti con i suoi artisti. • Allestimento di una serie di mostre personali, dal 1883, che rappresentava quasi una novità. • Apertura di proprie filiali all’estero e organizzazione di mostre anche in altri spazi espositivi per costruire un mercato internazionale. • Valorizzazione critica della nuova arte attraverso la fondazione di riviste: «La Revue internationale de l’art et de la curiosité» (1869) e «L’art dans les deux mondes» (1890-1891). Con la crescita del successo degli impressionisti, la sua posizione di monopolio è messa in crisi dalla concorrenza di altri mercanti. Per esempio George Petit, che fonda nel 1882 la sua Exposition internationale e incomincia ad avere rapporti con impressionisti come Monet. Tuttavia la strategia commerciale e critica di Durand Ruel si può considerare come il modello di riferimento su cui si strutturerà il nuovo mercato d’avanguardia internazionale. Ambroise Vollard. Daniel H. Kahnweiler - tra i grandi iniziatori di questo sistema vanno citati almeno due altri mercanti. Innanzitutto Ambroise Vollard (1867-1939) è una figura chiave di collegamento fra la generazione degli impressionisti e quelle successive fino a Picasso. È il principale mercante di Gauguin e di Cézanne. Nella sua galleria (aperta nel 1894 in rue Lafitte) si possono vedere le prime mostre personali di Cézanne (1895), di Picasso (1901) e di Matisse (1904). Vollard comprava anche direttamente negli studi degli artisti, ma senza contratti. Matisse stipula il suo primo contratto nel 1909 con la Galerie Bernheim Jeune e Picasso si lega a Kahnweiler, ma per entrambi l’esperienza con Volland è fondamentale per la gestione dei loro successivi rapporti con il mercato. Picasso confesserà quarant’anni dopo a Françoise Gilot di basare ancora le sue manovre mercantili sulle tattiche di Vollard. L’altro personaggio chiave è Daniel Henry Kahnweiler (1884-1979), il mercante del Cubismo, che apre la sua galleria a Parigi nel 1907 (in rue Vignon). Decide di comprare opere di artisti innovatori, incominciando a sostenere il lavoro di Derain, Braque e Picasso. Nel 1908 espone le opere di Braque rifiutate dal Salon d’Automne; è in questa occasione che si parla per la prima volta di Cubismo. Sono suoi clienti l’americana Gertrude Stein, i russi Sergei Shchukin e Ivan Morozov, lo svizzero Hermann Rupf, il ceco Vincec Kramar e il francese Roger Dutilleul: tutti esponenti di quel ristretto ambiente d’élite internazionale che rappresenta il primo nucleo del collezionismo d’avanguardia, caratterizzato dalla passione per l’arte nuova, anche se l’interesse economico non è assente. Kahnweiler sviluppa ulteriormente la strategia di Durand Ruel sistematizzando l’uso dei contratti in esclusiva e strutturando meglio la sua posizione di monopolio, in modo tale da creare le migliori condizioni per operazioni commerciali vincenti a lungo termine. Nel 1912 stipula contratti scritti con Braque, Picasso e Derain e l’anno dopo con Vlaminck e Léger. Successivamente, dopo il suo ritorno a Parigi nel 1920 (durante la guerra, in quanto tedesco, si era stabilito in Svizzera e tutto il suo magazzino era stato sequestrato) rinnova i contratti sulla parola data e la reciproca fiducia, con Braque, Léger, Derain, uno dei mercanti più importanti di arte europea, sostenendo il lavoro di artisti come Mirò, Chagall, Tanguy, Giacometti, Dubuffet e Balthus. Durante la guerra il mercato riprende quota, soprattutto perché la pittura, insieme ad altre categorie di oggetti rari e preziosi, viene acquistata come bene rifugio contro l’inflazione e fuori da controlli fiscali. Il mercato in Francia dopo il 1945 - nel dopoguerra e negli anni Cinquanta il mercato in Francia riparte con notevole vitalità. Tuttavia, gli sviluppi più importanti sono quelli del sistema delle gallerie di New York, che si avvia a diventare il centro mondiale dell’arte contemporanea, scalzando la leadership di Parigi con il successo dell’Espressionismo Astratto e con il trionfo mondiale della Pop Art. A Parigi, insieme alla riapertura di gallerie già attive nei decenni precedenti, si impone un nuovo gruppo di gallerie, tra cui la Galerie Aimé Maeght (nata nel 1946, come sviluppo di una stamperia d’arte), la Galerie de France (fondata nel 1942), Louis Carré (dal 1938), la Galerie Friedland (dal 1942-43), Denise René, Da- niel Cordier, e René Drouin. Quest’ultimo apre il suo spazio nel 1939 e si interessa all’arte astratta, esponendo artisti come Sonia e Robert Delaunay, Klee, Kandinskij, Mondrian, Arp, Magnelli, Pevsner, Van Doesburg, Herbin, Doméla, Freundlich. Inoltre, importanti per l’avvio della tendenza informale sono le mostre di Jean Fautrier (1943) e di Jean Dubuffet (1944). Insieme al successo consolidato dei grandi nomi delle avanguardie storiche, negli anni Cinquanta, a Parigi, il mercato porta al successo le nuove generazioni (Michaux, Soulages, Mathieu, De Staël, Le Moal, Singier, Manes- sier, Bazaine, ecc.), le cui opere raggiungono alte quotazioni, spesso frutto di effimere operazioni mercantili speculative. Il caso più clamoroso di gonfiamento dei prezzi è quello del mediocre Bernard Buffet, in seguito più che ridimensionato. In ogni caso, salvo poche eccezioni (tra cui Fautrier, Dubuffet, e poi negli anni Sessanta alcuni Nouveaux Réalistes), i nuovi artisti sostenuti dal mercato parigino non hanno retto a livello di concorrenza internazionale, a dimostrazione che non è sufficiente un solido sistema mercantile e abili strategie per imporre l’arte nuova, quando questa non è più espressione di un contesto socioculturale capace di stimolare le ricerche artistiche più innovative. Il mercato dell’arte contemporanea negli Stati Uniti - l’Armory Show di New York del 1913 è considerato come l’evento espositivo fondamentale per la nascita della cultura d’avanguardia americana e per lo sviluppo museale ad essa connesso. Prima dell’Armory Show pochi erano gli americani interessati alle ricerche artistiche più avanzate, tutti in rapporto diretto con l’ambiente artistico di Parigi, dove la casa di Gertrude Stein rappresentava uno dei principali punti di riferimento. L’unica galleria di punta a New York era la Photo-Secession Gallery al 291 della Quinta Strada, fondata da Alfred Stieglitz con la collaborazione di Edward Steichen, entrambi fotografi. I due fondarono anche la rivista «Camera Work». La galleria e la rivista, anche grazie al collegamento con Man Ray e Duchamp, svolgeranno un ruolo cruciale nell’ambito dell’avanguardia artistica, oltre che nel campo della fotografia. Nel 1911 vengono organizzate due personali di Picasso e di Cézanne. Di Cézanne viene venduta una sola opera all’artista americano Arthur Davies. Quest’ultimo è l’ideatore dell’Armory Show, sostenuto da John Quinn, avvocato, collezionista e uomo di grande cultura, e da ricche signore entusiaste come Lili Bliss e Gertrude Vanderbilt Whitney (che fonderà nel 1930 il Whitney Museum of American Art). Davies, come responsabile della Association of American painters and sculptors, con l’aiuto di Walter Kuhn e con la collaborazione di molti fra i maggiori mercanti europei organizza l’esposizione mettendo in scena un’ampia selezione di opere dall’Impressionismo e Postimpressionismo al Cubismo e all’Espressionismo tedesco (unica assenza di rilievo i futuristi italiani), insieme a una rappresentanza di nuova arte americana. Il modello di questa esposizione era, l’esposizione tedesca del Sonderbund del 1912. All’inaugurazione (17 febbraio 1913) nell’edificio dell’armeria del Sessantanovesimo Reggimento sono presenti quattromila persone, e negli altri giorni una media di diecimila. Dopo New York la mostra si sposta a Chicago e a Boston. L’evento suscita grandi polemiche, ma l’interesse del pubblico è grandissimo. Anche le vendite furono di una certa consistenza e soprattutto dimostrarono l’enorme potenzialità del mercato americano anche in questo settore dell’arte. Dopo l’Armory Show le prime gallerie che incominciano a interessarsi di arte d’avanguardia europea e americana sono quelle di Charles Daniel, N.E. Montross, Stephen Bourgeois, la Carrol Gallery e la Modern Gallery, gestita da Marius de Zayas e fondata da Walter Arensberg (che diventerà il maggior collezionista di Duchamp). Durante gli anni Venti e Trenta a New York tra le poche gallerie attive nel contemporaneo sono da ricordare la Valentine Dudensing Gallery, J.B. Neumann, la Brummer Gallery, Pierre Matisse, le Ferragil Galleries, e Julian Levy. Ma è soprattutto negli anni Quaranta che il mercato newyorkese incomincia a strutturarsi veramente con gallerie come quella di Sam Kootz, di Betty Parsons, di Charles Egan e quella di Peggy Guggenheim, «Art of this century». Guggenheim, Parsons e poi Janis diventano i principali galleristi dell’Espressionismo Astratto americano. All’inizio degli anni Quaranta le gallerie a New York erano circa una dozzina, all’inizio del decennio successivo circa trenta e dieci anni più tardi circa trecento. New York è ormai il centro mondiale del mercato dell’arte di punta. Di fondamentale importanza per la legittimazione e lo sviluppo dell’interesse per l’arte contemporanea negli Stati Uniti è la nascita di musei come il Museum of Modern Art nel 1929 (diretto da Alfred Barr), il Whitney Museum of American Art (1930) e il Guggenheim Museum per l’arte astratta (aperto nel 1939, ma legato alla Salomon R. Guggenheim Foundation nata nel 1937). Peggy Guggenheim è uno dei personaggi principali per quello che riguarda la formazione del mondo artistico d’avanguardia a New York, durante la guerra per il fatto di essere una miliardaria entusiasta dell’arte contemporanea, vitalmente coinvolta nell’ambiente letterario e artistico parigino e ben guidata nelle sue scelte collezionistiche e nelle sue iniziative espositive da consiglieri come Marcel Duchamp. Nel 1938, consigliata anche da Herbert Read, apre a Londra la galleria Guggenheim Jeune, con successo culturale e mondano ma non commerciale, e accresce la sua collezione con l’intenzione di dar vita a un suo museo. La sua galleria era in Cork Street dove si trovavano altre due gallerie, la Mayor Gallery e la London Gallery, le quali insieme alle New Burlington Galleries rappresentavano il mercato d’avanguardia nella capitale britannica. Nel 1941 la Guggenheim si trasferisce a New York, dove l’anno successivo apre la galleria «Art of this century», nel la quale espongono artisti europei, in particolare surrealisti, fuggiti dall’Europa in guerra, ed anche i principali protagonisti della nuova avanguardia americana dell’Espressionismo Astratto (Baziotes, Hoffmann, Motherwell, Pollock, Rothko, Stili). Chiusa la galleria nel 1947, sceglie come sua residenza principale Venezia, dove nel suo palazzo allestirà la sua collezione aperta al pubblico. Alla sua morte il palazzo diventa Fondazione, ed è ora una delle sedi all’estero del Guggenheim Museum. Leo Castelli (1907), il più importante mercante americano d’avanguardia, apre la sua galleria a New York solo nel 1957. Nato a Trieste, si laurea in legge a Milano e nel 1932 si sposa con Ileana Shapira (poi Sonnabend), figlia di un grande industriale rumeno, con la quale a Parigi incomincia nel 1935 a frequentare il mondo dell’arte e dove nel 1939 diventa socio della galleria di René Drouin, inizialmente in stretto rapporto con i surrealisti e poi interessata a maestri dell’arte astratta come Mondrian e Kandinskij. Nel dopoguerra a New York collabora con Drouin, ma anche con Sidney Janis, pur rimanendo soprattutto un collezionista. Nel 1957 apre la galleria, dove l’anno successivo propone due personali di Rauschenberg e Jasper Johns, che precedono l’avvio del successo della Pop Art, di cui Castelli è il principale regista mercantile (lavorano con lui dall’inizio Lichtenstein, Rosenquist, Chamberlain, e subito dopo Warhol). Castelli diventa il regista di gran parte dell’arte americana d’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta: oltre agli artisti della Pop, sono lanciati da lui anche i principali protagonisti del Minimalismo (Stella, Judd, Flavin, Morris) e dell’arte processuale e concettuale (Serra, Nauman, Sonnier, Weiner) e vari altri artisti. Attraverso una rete internazionale di gallerie a lui collegate (per esempio Ileana Sonnabend e poi Yvon Lambert a Parigi, Konrad Fischer a Düsseldorf, Sperone a Torino) e attraverso mostre in musei americani ed europei da lui promosse, Castelli è stato il principale artefice della leadership culturale e mercantile dell’arte americana a livello mondiale. Ancora oggi, dopo la sua morte, la galleria resta importante nel sistema internazionale dell’arte contemporanea. Germano Celant spiega come New York, verso il 1970, rafforzi la sua leadership sul mercato mondiale dell’arte contemporanea attraverso una formidabile operazione di concentrazione di gallerie nel quartiere di Soho, che diventa così il «cervello centrale» di tutte le principali strategie promozionali e commerciali delle nuove tendenze e dei nuovi artisti a livello internazionale. Questa operazione mette in crisi anche i musei e le gallerie europee che sono costrette ad aprire delle sedi a Manhattan. Con la nascita e lo sviluppo di Soho, il quartiere degli artisti e delle gallerie d’arte la cultura americana dal 1910 ha compiuto un altro passo verso la regolamentazione e il monopolio dell’arte moderna e contemporanea. Soho è diventata infatti la sede centrale del traffico artistico; il luogo dove si determinano tutte le correnti e gli scambi del mondo dell’arte. Con un apparato espositivo capace annualmente di catapultare sui milioni di visitatori e di turisti che scendono a downtown, circa 2800 mostre personali o di gruppo e di fatturare, attraverso le vendite e le attività indotte, oltre seimila miliardi, questo agglomerato artistico ha superato l’impatto informativo dei musei americani ed europei, incapaci di tenere un ritmo così accelerato nella presentazione di artisti e movimenti, e ha trasformato le considerazioni critiche e storiche e mercantili del lavoro degli artisti e del comportamento dei collezionisti, così da sconvolgere e da ridisegnare il sistema dell’arte. Lo spostamento a Soho delle gallerie ha luogo verso il 1970. Ad aprire la strada sono Leo Castelli, Ileana Sonnabend, John Weber e André Emmerich, e cioè i più importanti mercanti dell’arte americana dell’Espressionismo Astratto, della Pop Art, del Minimalismo e delle tendenze processuali e concettuali. In poco tempo si concentrano in poche decine di edifici oltre duecento gallerie. Dal 1973 arrivano anche gli europei, tra cui i tedeschi Onnash, René Block di Berlino, Ariadne, Heiner Friedrich di Monaco (che diventa direttore della Dia Foundation, finanziata dai petrolieri texani De Menil), Michael Werner collegato con Mary Baone, e l’italiano Gian Enzo Sperone che si associa con Westwater Fischer. Nel 1973 si contano settantadue riviste d’arte con sede a New York. Nei primi anni Ottanta si assiste alla nascita di moltissime nuove gallerie per l’arte giovane, per lo più piccole e di durata effimera. Il boom del mercato artistico dell’arte nuova arriva al suo massimo negli anni Ottanta. Giovani artisti come Clemente, Schnabel, Fischl, Salle, Haring, Basquiat, Koons, Sherman, raggiungono un successo immediato, con quotazioni altissime e un curriculum di mostre nei maggiori musei del mondo messo insieme in pochissimo tempo, cosa inconcepibile anche per gli artisti più noti delle generazioni appena precedenti, i cui tempi di consacrazione erano molto più lenti. La crisi del mercato all’inizio degli anni Novanta ha creato serie difficoltà a questo sistema, dove l’euforia speculativa, sollecitata da una moda culturale gonfiata dai media, è arrivata a determinare la storicizzazione quasi istantanea delle nuove star. Per molti artisti a una fase di velocissima ascesa è seguita una caduta altrettanto rapida. Ma una volta messa in moto una dinamica di mercato di questo genere, è difficile cambiare rotta, si aspetta che la gente dimentichi e che ritorni una nuova fase favorevole, per ricominciare da capo. E questo è avvenuto negli anni successivi con uno sviluppo ancora più dinamico, e con un ulteriore aumento del numero delle gallerie. Anche se oggi New York non ha più la centralità dei decenni precedenti per quello che riguarda la creazione delle nuove tendenze internazionali, il suo sistema dell’arte rimane fondamentale per la legittimazione e l’affermazione mercantile in particolare degli artisti di maggior successo, grazie alla presenza delle gallerie più potenti (come per esempio Gagosian, Marian Goodman, Barbara Gladstone, Deitch Project) che sono anche le più strettamente collegate ai musei di maggior prestigio. Gli inizi dell’arte d’avanguardia in Germania - senza dimenticare il ruolo svolto da personaggi come Cassirer, il principale mercante di Van Gogh, e poi segretario e direttore operativo della Secessione di Berlino (un gruppo di artisti coordinato da Liebermann), si può dire che l’avvenimento emblematico che segna l’avvio dell’arte d’avanguardia in Germania è la grande esposizione del Sonderbund del 1912. Il Sonderbund è un’associazione di artisti, collezionisti e storici dell’arte fondata nel 1909 a Colonia, con lo scopo di valorizzare l’arte nuova e di promuovere la collaborazione fra artisti «produttori» e «consumatori», collezionisti e amatori d’arte. La sua quarta esposizione, del 1912, costituisce la prima grande rassegna delle tendenze internazionali successive all’Impressionismo. È da notare che quasi tutte le opere esposte (circa seicento) fanno parte di collezioni private, e che il catalogo si propone come una guida per orientarsi attraverso le nuove correnti artistiche. La sezione retrospettiva presenta opere di Cézanne, Van Gogh e Gauguin. La Francia è rappresentata da artisti come Signac, Cross, Bonnard, Braque, Derain, Herbin, Matisse, Maillol; l’Olanda da Van Dongen e Mondrian; la Svizzera da Amiet e Hodler; l’Ungheria da Pascin; l’Austria da Kokoshka e Schiele; la Russia mantenere la continuità di questa istituzione è quello della costruzione di padiglioni stabili per ciascuna delle principali nazioni, spazi espositivi con propri commissari. Contro la Biennale, gestita dal segretario Antonio Fradeletto in modo troppo ufficiale e tradizionale, senza aperture verso le nuove ricerche, si sviluppa una forte reazione dei giovani artisti tesi verso nuove ricerche. Feroci sono le critiche di Ardengo Soffici su «La Voce», dove si legge che l’esposizione «non sarà mai altro che un mercato, e dei più turpi, un mercato di anie (anitre)», e dove si propone ai giovani migliori di disertare e formare un gruppo ristretto di punta, con intenti artistici comuni. La posizione avanguardistica del critico e artista toscano si concretizzerà solo nel Futurismo, il primo vero movimento d’avanguardia italiano (a cui parteciperà anche lui, sia pure in posizione autonoma). Più moderata invece, in termini che si possono definire secessionistici, è l’opposizione dei giovani artisti protagonisti della fase più vitale di Ca’ Pesaro a Venezia, che partecipano alle mostre organizzate dal segretario Nino Barbantini, dal 1909 al 1914 (in cui le opere erano in vendita). Tra questi artisti: Gino Rossi, Arturo Martini, Garbari, Semeghini, Moggioli, Casorati, Oppi, Wolf-Ferrari, Zecchin, Marussig e anche Boccioni. Dopo le polemiche per la mostra del 1913 (in particolare per i quadri di Rossi e le sculture di Martini) l’edizione dell’anno successivo viene bloccata e gli artisti organizzano una esposizione autonoma dei «rifiutati» dalla Biennale all’Excelsior del Lido. Ma tutto questo non dà vita a un vero movimento d’avanguardia. Un’altra iniziativa aperta alle nuove ricerche è l’esposizione internazionale della Secessione romana, con edizioni dal 1913 al 1916. Il Futurismo è il primo vero movimento d’avanguardia italiano, anche per quello che riguarda l’aspetto organizzativo, promozionale e commerciale, grazie soprattutto alla regia (e ai finanziamenti) del suo fondatore Marinetti, che imposta l’operazione di lancio del movimento direttamente su scala internazionale, fin dal primo Manifesto futurista pubblicato nel 1909 su «Le Figaro» a Parigi. Oltre a dirigere una rivista, «Poesia», Marinetti utilizza tecniche di propaganda politica, dai manifesti alle serate in teatro e alle azioni «di piazza» e per quello che riguarda specificamente la pittura predispone, insieme a Boccioni e agli altri artisti firmatari del Manifesto Tecnico della Pittura Futurista del 1910 (Carrà, Russolo, Severini, Balla), una strategia espositiva in un circuito di spazi espositivi d’avanguardia in vari paesi d’Europa. Il debutto del gruppo dei pittori futuristi avviene nel febbraio 1912 alla Galerie Bernheim Jeune, una delle principali gallerie di punta parigine. Nello stesso anno vengono organizzate mostre alla Sackville Gallery di Londra, alla galleria diretta da Herwath Walden a Berlino, alla Galerie George Giroux a Bruxelles e, nel giugno dell’anno successivo, a Rotterdam. A Berlino, tramite Walden, vendono in blocco tutte le opere al dottor Borchardt (a un prezzo molto basso), il quale tenta un’operazione speculativa e fa girare i quadri di sua proprietà in varie altre gallerie (non più controllate direttamente dal gruppo futurista). In questa prima fase l’autodisciplina di gruppo prevede la divisione dei guadagni in parti uguali, mentre i costi organizzativi sono in parte recuperati attraverso i biglietti d’ingresso (l’entrata alle mostre era a pagamento). Anche se il ricavato economico è quasi fallimentare, grande è il successo culturale dell’operazione, nel senso che permette in brevissimo tempo di inserire i futuristi nel contesto più vitale dell’avanguardia internazionale, con influenze su molti artisti tra cui i futuristi russi e i vorticisti inglesi. La prima mostra ufficiale del gruppo futurista in Italia è quella al Ridotto del Teatro Costanzi di Roma nel 1913 (a cui partecipa anche Soffici). Nello stesso anno la rivista «Lacerba» organizza una mostra di gruppo alla Libreria Gonnelli di Firenze e Boccioni una sua personale di sculture alla Galerie La Boetie di Parigi, che viene presentata a Roma nella nuova Galleria Sprovieri. Quest’ultima diventa centro dell’attività futurista nella capitale, proponendo esposizioni, conferenze, concerti (un modello che sarà ripreso poi dalla Casa d’arte di Bragaglia). Nel 1914 è qui che viene allestita la I’Esposizione libera futurista internazionale. Nei decenni fra le due guerre la situazione del mercato dell’arte contemporanea in Italia ha un certo sviluppo, ma con pochi collegamenti internazionali, per quello che riguarda l’attività delle gallerie. La circolazione (e la vendita) all’estero di opere degli artisti italiani avviene nella maggioranza dei casi attraverso le mostre ufficiali, in particolare quelle organizzate dal movimento del Novecento italiano, gestito da Margherita Sarfatti. La Biennale di Venezia (il cui segretario è dal 1920 al 1928 Vittorio Piea, e poi fino alla guerra Antonio Maraini) rimane la principale ribalta internazionale di confronto fra artisti italiani e stranieri, e anche un’importante occasione di mercato. Alla Biennale si aggiunge nel 1931 la Quadriennale di Roma, che rappresenta la più importante rassegna di arte italiana contemporanea, al vertice della rinnovata organizzazione gerarchica delle attività espositive locali, trasformate in una rete di mostre «sindacali», gestite dagli esponenti del Sindacato fascista degli artisti. Una parte consistente delle vendite degli artisti avviene all’interno di questa rete espositiva ufficiale. Un certo numero di artisti italiani negli anni Venti si trasferisce a Parigi. Tra questi i fratelli de Chirico e Savinio, De Pisis, Campigli, Tozzi (che organizza mostre degli «italiani a Parigi»), che continuano comunque a essere presenti alle manifestazioni espositive italiane. Tra le esperienze più significative va citata quella nata intorno a «Valori Plastici» (1918-1922), la rivista diretta da Mario Broglio, che diventa strumento di promozione a livello europeo dell’effimero gruppo della Metafisica (de Chirico, Savinio, Carrà, Morandi), anche se i protagonisti si stanno già avviando in direzione di un ritorno ai valori della tradizione classica e dell’arcaismo. La rivista è attenta anche alla situazione artistica internazionale. Il ruolo di Broglio è importante, oltre che per la rivista, per il suo impegno come organizzatore di mostre in Italia e all’estero (di grande rilievo quella alla Galleria nazionale di Berlino, del 1921) e come mercante. Insieme a dei soci, Broglio acquista consistenti gruppi di opere di vari artisti tra cui quarantuno Morandi, ventidue Carrà e ventisei de Chirico. Dal punto di vista del mercato dell’arte contemporanea i centri principali erano Milano e Roma. Tra le gallerie private di Milano, le principali sono la Galleria Pesaro e la Galleria Milano, entrambe interessate agli artisti di area novecentista, collaborando direttamente con la Sarfatti nell’organizzazione delle sue mostre. Tra Milano e Roma si sviluppa l’attività di Pier Maria Bardi: dopo l’esperienza milanese alla Galleria di Via Brera, si trasferisce nel 1930 a Roma aprendo la Galleria di Roma, presentando tra l’altro i Sei di Torino, Scipione e Mafai, De Pisis, ma anche stranieri come Kokoschka e Dix. Nel dopoguerra Bardi si trasferirà in Brasile, dove dal 1947 diventa direttore del Museo di San Paolo. Altre gallerie di rilievo a Roma sono quella di Dario Sabatello e la Galleria della Cometa, creata dalla contessa Letizia Pecci Blunt e diretta da Libero De Libero e Corrado Cagli, dove tra il 1935 e il 1938 espongono molti tra i migliori esponenti della nuova arte italiana. Nel 1937 viene aperta a New York una succursale della Cometa, con una mostra collettiva di artisti italiani. La principale galleria d’avanguardia negli anni Trenta è la Galleria del Milione, nata nel 1930 (e diretta per il periodo iniziale da Edoardo Persico e poi da Gino Giringhelli) soprattutto in quanto punto di riferimento dell’arte astratta italiana (Reggiani, Rho, Radice, Soldati, Melotti, Fontana, Licini, Veronesi), in collegamento col movimento internazionale di Abstraction Création di Parigi (presenta tra l’altro mostre di Kandinskij, Albers, Vordem- berge-Gildewart). Sempre a Milano non va dimenticata l’attività della Galleria della Spiga, centro espositivo del movimento di Corrente (dal 1938 al 1941), e della Galleria Gian Ferrari, che continuerà a occuparsi nel dopoguerra dei maestri italiani del Novecento. Per quello che riguarda in generale gli acquisti, c’erano in primo luogo quelli pubblici: lo Stato che comprava per la Galleria nazionale d’Arte moderna, i comuni per le gallerie civiche e il Sindacato degli artisti a livello nazionale e locale. Tra i collezionisti privati si possono ricordare: Jucker, Jesi, Mattioli, Feroldi a Milano; Gualino, Accame, Mastrangelo a Torino; Suppo e Della Ragione a Genova; Della Seta a Palermo. Nel dopoguerra il mercato dell’arte contemporanea in Italia, dopo la fase di chiusura del ventennio, si aprirà all’arte internazionale, a partire dagli anni Cinquanta, con la stagione dell’Informale. A Milano in quel periodo svolgono un ruolo importante gallerie come il Naviglio, diretta da Renato Cardazzo, Il Milione, la Galleria Bergamini, la Galleria dell’Annunciata e la Galleria Blu (dal 1956, diretta da Peppino Palazzoli). A Torino sono da ricordare La Bussola (fondata nel 1946, diretta fino al 1953 dal critico Luigi Carluccio e poi da Giuseppe Bertasso) e, per quello che riguarda l’Informale internazionale, all’inizio degli anni Sessanta, l’International Center of Aesthetic Research, che aveva come consulente il critico francese Michel Tapié. A Roma sono gallerie di spicco la Galleria del Secolo e la Galleria dell’Obelisco (fondata nel 1946 da Gaspero Del Corso), ma non vanno dimenticate l’attività dell’associazione culturale Art Club e quella della Galleria La Margherita. Negli anni Sessanta, a Milano, la Galleria Pater propone le prime mostre di Manzoni e di arte programmata del Gruppo T; la Galleria Azimut (fondata insieme alla rivista «Azimuth» da Manzoni e Castellani) ha una vita breve ma significativa, per i rapporti con l’avanguardia europea (in particolare il Gruppo Zero); la Galleria Apollinaire, di Guido Le Noci, espone Klein e poi gli altri artisti del Nouveau Réalisme; la galleria di Arturo Schwarz (legato all’ambiente surrealista) ha il merito di proporre opere di Duchamp; e infine la Galleria dell’Ariete, di Beatrice Monti, si occupa di artisti americani come Noland, Louis, Rauschenberg, Frankenthaler, Dine, e di italiani come Novelli, Tancredi, Castellani, Dorazio, e dal 1966, con la personale di Paolini, sposta l’attenzione sulle emergenti ricerche concettuali e poveriste. Queste ultime tendenze saranno sostenute poi anche da nuove gallerie che iniziano l’attività verso la fine del decennio, come la Galleria Toselli e la Galleria Françoise Lambert, mentre lo Studio Marconi ha interessi più vari. A Roma La Tartaruga di Plinio De Martiis, in rapporto con New York grazie a Cy Twombly e a Salvatore Scarpitta, espone lavori di Kline, Rothko, Rauschenberg, e si interessa al gruppo della Pop romana e dei suoi sviluppi (Schifano, Festa, Angeli, Cerali, Pascali, Kounellis); la Galleria La Salita espone artisti come Schifano, Festa, Uncini, Lo Savio, esponenti del Gruppo Zero e del Nouveau Réalisme, ed è tra le prime a interessarsi all’arte processuale e concettuale con mostre di Paolini e Richard Serra. L’Attico di Fabio Sargentini, in particolare con la mostra «Lo spazio degli elementi. Fuoco, immagine, acqua, terra», diventa uno dei principali punti di riferimento dell’Arte Povera, anche con significativi collegamenti internazionali, soprattutto per quello che riguarda performance di danza e musica. Sempre a Roma si apre una filiale delle Marlborough Galleries (diretta da Carla Panicali), che tratta artisti già affermati come Rothko, Kline, Sutherland, Bacon, Pomodoro, Dorazio. A Torino, la Galleria Notizie, di Luciano Pistoi, si interessa ad artisti come Wols, Fantrier, Tobey, Twombly, Burri, Jorn, Gallizio, Fontana ed espone tra i primi Merz, Paolini e Fabro; la Galleria Sperone, di Gian Enzo Sperone, collegata con Castelli, inizia esponendo la Pop americana e diventa il principale centro dell’Arte Povera e delle tendenze processuali e concettuali internazionali in Italia. Sempre a Torino sono da citare la Galleria Stein, che dagli anni Settanta incomincia a gestire i principali artisti dell’Arte Povera. Infine, non va dimenticata l’attività di punta della Modern Art Agency di Lucio Amelio, a Napoli. La relativa debolezza del sistema dell’arte contemporanea in Italia in questo periodo (e anche successiva- mente) rispetto a quelli di paesi europei come la Germania, la Svizzera, l’Olanda, la Francia, e degli Stati Uniti è dovuta anche alla mancanza di musei d’arte contemporanea. I soli musei attivi in questo ambito sono la Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma (diretta all’epoca da Palma Bucarelli) e la Galleria civica d’Arte moderna di Torino. IMPRENDITORI ED ARTE – nella GB della prima rivoluzione industriale, nel 1857, a Manchester, la capitale industriale della GB, nasce un libro citato come testo fondativo dell’economia dell’arte scritto da Ruskin. Ruskin è un critico d’arte, poeta e pittore, intellettuale, uomo di grande sensibilità che compie diversi viaggi sulla scia del Grand Tour in Italia. Tenne due conferenze all’Art Treasure Exhibition, in un paese in cui l’amore per l’arte si è diffuso anche nei ceti medi, tanto che venne visitata da un numero di persone quattro volte maggiore rispetto alla popolazione di Manchester, e raccolse 16.000 opere d’arte. Ruskin evidenzia come la GB sia diventata molto ricca ma che anche l’arte è fonte di ricchezza, anzi forse l’arte è la ricchezza per eccellenza e che bisognava tenerne viva la produzione e conservazione. Usa le categorie e il lessico mutuate dalle scienze economiche, ma i valori che propone sono molto diversi. L’elemento polemico è rappresentato dagli effetti del capitalismo moderno, che in GB ha prodotto una disumanizzazione del lavoro industriale e ha perso ogni componente etica: rifiuta l’avidità, antagonismo, spreco. Mette in contrapposizione l’utile e il bello, mettendo fine alla sintesi tra utilità e i valori che non sono direttamente utilitaristici. In una realtà così orgogliosa della propria potenza, intelligenza creativa e talento non si possono creare, ma si possono sostenere con una serie di strumenti: remunerazione degli artisti viventi, il lavoro, riconoscimento pubblico. Il critico e artista inglese ha di fronte un pubblico numeroso: la GB oltre ad essere l’officina del mondo è anche il paese con il più alto numero di lettori, amanti d’arte, visitatori delle mostre ed eventi culturali. Non si impegnano in questo settore solo le grandi imprese e settori più noti, trainanti dello sviluppo economico: esiste una piccola committenza basata sulla comunicazione aziendale. Coinvolgere un artista diventa importante anche per le imprese medio-piccole per realizzare almeno l’insegna o il marchio dell’impresa, o per le campagne pubblicitarie, nel packaging del prodotto fino al fenomeno delle collezioni d’impresa (Corporate art collections), legate all’impresa stessa: alcune imprese investono nel creare musei di impresa per valorizzare le collezioni formatisi nel tempo. LA NASCITA DEL DESIGN IN ITALIA – il disegno industriale è la progettazione di oggetti destinati ad essere prodotti industrialmente, tramite macchinari e in serie (produzione di massa). Questo è meglio espresso dalla locuzione “industrial design”, grazie alla distinzione che l’inglese fa tra design (progetto) e drawing (disegno): quando si parla di industrial design ci si riferisce alla progettazione dell’oggetto o del prodotto industriale. In Italia, il designer, il progettista di modelli prodotti su vasca scala si sviluppa nel secondo dopoguerra, quando il paese vive una fase di espansione industriale. Già nel primo 900, nasce una particolare attenzione verso l’oggetto e l’industria, più attiva in paesi come Germania, GB e USA, affiancata dalla presenza di piccola e media impresa e dall’artigianato sempre più meccanizzato e di serie che costituiscono gran parte del tessuto industriale italiano. I primi a porre attenzione all’industria e al prodotto dell’industria, l’oggetto di uso quotidiano, sono gli artisti appartenenti al movimento futurista. Il primo a introdurre la nozione di oggetto è Galante nel 1917: con oggetto si intende qualunque cosa dal palazzo alla forchetta. Nell’oggetto convivono 2 elementi: forma e funzione. La forma è costituita dall’aspetto decorativo e dal materiale e dal colore; l’aspetto decorativo non deve contrastare con la funzione di oggetto d’uso quotidiano. Si andava diffondendo l’idea che i processi produttivi industriali portassero ad una degenerazione del gusto, alla realizzazione di un prodotto scarno e grossolano, la cui forma era legata solo alla funzionalità. Da qui l’impegno dell’arte a diffondere i valori estetici ad ogni tipo di oggetto: la possibilità di una diversa produzione dell’oggetto era stata ipotizzata da Marinetti nel primo manifesto futurista del 1909 in cui veniva elogiata la forma del cofano di un’auto da corsa e la solidità della materia di cui era fatto l’oggetto. Forma, funzione, aspetto decorativo, materiale ed uso sono gli elementi fondamentali su cui si concentra il lavoro del progettista creatore dei primi del 900 o il protodesigner, il quale prende forma nel Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo, firmato da Balla e Depero nel 1915, in cui si esplica che con il futurismo l’arte diventa arte-azione, presenza e nuovo oggetto, una nuova realtà creata con gli elementi dell’universo nella quale le più tradizionali arti figurative lasciano il posto all’arte decorativa. Della contemporaneità i futuristi colgono l’essenza tecnica e vanno a replicarla nella progettazione di interni, nella realizzazione di elementi d’arredo, con lo scopo di ricostruire l’universo. Nei loro laboratori, case d’arte, Depero, Balla e Prampolini propongono un mix tra talento creativo e manualità artigiana, creando manufatti non più solo merci, oggetti d’uso, ma oggetti artistici. Con l’etichetta di “pionieri” si sono individuati quegli architetti e artisti che per primi si sono impegnati in progetti per l’industria, avendo alle spalle una formazione nelle accademie di belle arti, nelle quali la sezione di architettura non si era staccata per affiancarsi alla facoltà di ingegneria. Pioniere del design industriale italiano è Nizzoli, aderente al movimento futurista. Aveva organizzato un laboratorio personale in cui realizzava cuscini e arazzi eseguiti in seta e lana con ricami dal tema floreale in cui si intrecciano la conoscenza pittorica e la pratica artigianale. Dopo i primi anni di produzione personale, incontra Persico e iniziano un lavoro comune per la divulgazione di una nuova disciplina artistica dal quale escono numerosi progetti a 4 mani. Nel 1938 Nizzoli inizia la collaborazione con Olivetti come designer, che porterà l’industria a diventare una palestra di industrial design, grazie alla visione del suo proprietario, attento alla modernità del prodotto sia alla qualità che all’ambiente. Il primo prodotto su cui si concentra Nizzoli è la Summa 40, la calcolatrice meccanica manuale costruita dal 1960, messa a punto con il meccanico Cappellaro e presentata alla VII triennale di Milano. Dal 1946 al 48 Nizzoli affiancherà l’ingegnere Beccio nella progettazione della macchina da scrivere meccanica Lexicon 80, fino alla macchina da scrivere portatile Lettera 22 del 1950. Da qui nasce uno stile Olivetti ed una metodologia Nizzoli, che comportano la ricerca di una forma funzionale derivata da una cura tecnologica del prodotto, per la cui realizzazione è necessario che si stabilisca tra designer e uomini della produzione una comprensione umana, che riesce a trovare un punto di incontro tra necessità tecniche, proprie dei meccanici e degli ingegneri e volontà formali, proprie del protodesigner. Dagli inizi degli anni 20 sia i protodesigner legati alle arti decorative che le aziende sentono la necessità di valorizzare e mettere in mostra il proprio lavoro. La richiesta viene accolta dal consorzio Milano-Monza- Umanitaria, che decide, nella cornice della villa reale di Monza, di inaugurare l’Istituto superiore delle industrie artistiche, considerato il Bauhaus italiano, che annovera docenti come Pagano, Persico e Nizzoli. Nel 1923, decide di dar vita alla prima edizione della Biennale, coordinata da Marangoni. Nell’esposizione di Monza si valorizza la capacità produttiva italiana caratterizzata da un artigianato di lusso rivolto all’alta borghesia. Un posto particolare lo ha la Sala Tridentina di Depero, mentre nella seconda biennale si sottolinea la vocazione italiana alle arti decorative. Un anno particolarmente ricco di manifestazioni è il 1928: la Casa degli Architetti all’interno della mostra futurista sottolinea quanto il polo intellettuale e industriale riescano a coordinarsi, mentre la fabbricazione in serie di mobili per case operaie è il tema del concorso bandito dall’Opera nazionale dopolavoro e dall’Ente nazionale artigianato e piccole industrie (ENAPI). A vincere è la Rinascente con Domus Nova, un catalogo di mobili progettati da Ponti e Lancia, pensati per fornire alla classe borghese un arredo fresco, rinnovato e semplice ma studiato nei minimi particolari e di facile esecuzione per la produzione. L’11 maggio 1930 si inaugura la IV triennale, ultima manifestazione monzese del periodo tra le due guerre, che sancisce un cambiamento di periodicità, una istituzionalizzazione nazionale e il riconoscimento internazionale grazie all’iscrizione all’ufficio per le esposizioni di Parigi. Affidata alla direzione degli architetti Novello e Ponti e il pittore Sironi, viene presentata la Casa Elettrica, sponsorizzata dalla Edison. Un edificio in cui vengono esposti tutti gli apparecchi elettrici destinati a rendere più semplice e confortevole la vita in un’abitazione moderna. Si trovano i prodotti italiani della Scaem, una consociata della Marelli, le cui campagne pubblicitarie facevano leva sulla pulizia, estetica, necessità di utilizzare al meglio lo spazio, la sicurezza. Nella V triennale del 1933 fu posta grande attenzione sui nuovi materiali, come il linoleum e l’acciaio, a cui fu dedicato il progetto della casa d’acciaio, a parco Sempione, che oltre a presentare l’acciaio nell’architettura, presenta l’utilizzo di questo materiale nell’arredo interno. Componenti d’arredo che non trovano grande consenso perché risultano troppo rigidi, conferendo all’ambiente un aspetto troppo freddo e informale. Nel 1936 si aprì la VI edizione che vedeva Pagano e Frette impegnati nella mostra sui materiali nell’edilizia, la prima rassegna completa dei materiali per l’architettura. Nel 1940 si apre la VII triennale di Milano, che grazie alla mostra internazionale organizzata da Pagano, vede esposta una serie di oggetti realizzati da un avanzato artigianato meccanizzato. Per la prima volta in Italia si usa il termine produzione di serie. Tra le prime industrie italiane che si legano al concetto della serialità e si avvalgono del contributo del designer, oltre all’industria automobilistica v’è quella della ceramica, come Ginori che negli anni 20 collabora con Ponti, che interviene sul rinnovo del decoro. Bialetti, progettista e imprenditore, nel 1933 mette a punto la prima caffettiera espresso per la casa dal contenitore in conchiglia di alluminio, con la caratteristica forma sfaccettata; progettista e imprenditore è anche Alessi, al quale si devono rinnovati servizi da caffè e da the in metallo, diventati dei classici di modernariato. La Alessi dal 60 ad oggi ha puntato gran parte delle fortune aziendali sul design dei suoi prodotti, dalla caffettiera Alessi allo spremiagrumi disegnato da Starck, prodotto nel 1988 e realizzato in alluminio presso, fuso e lucidato, esposto al museo di arte moderna di New York. In questa edizione esordirono anche i fratelli Castiglioni e Dominioni, curatori della mostra dell’apparecchio radio. Con la loro proposta contrapponevano all’apparecchio radio racchiuso in un mobile un oggetto dalle ridotte dimensioni e dall’elevata qualità tecnica e funzionale, disponibili in vari colori che poteva essere appeso al muro o posto su una superficie. In questa occasione viene presentata l’addizionatrice Summa 40. Nel secondo dopoguerra i personaggi del design italiano vengono chiamati per affiancare la ripresa e la ricostruzione del paese e dell’industria. Invenzioni italiane sono i mezzi di locomozione “poveri”, ossia lo scooter e l’auto di piccola cilindrata, gli elettrodomestici bianchi e bruni. La Fiat aveva contrattato con le grandi case straniere il settore dell’utilitaria destinata ad una fascia medio-bassa, trovando una via italiana per l’automobile. Nel 1953 produce la Fiat 600 sostituita nel 57 dalla Fiat 500, modello all’insegna della miniaturizzazione dimensionale ma con la massima efficienza delle prestazioni e degli spazi. La Fiat fu la prima macchina degli italiani firmata Giacosa e vincitrice del Compasso d’Oro nel 59. Alla ricostruzione è dedicata l’VIII triennale, che contribuì alla rinascita di Milano con la costruzione del Quartiere Triennale Ottava (QT8), con al suo interno il Monte Stella, un’altura artificiale, costituita con i detriti crollati durante il conflitto e con materiale proveniente dalla demolizione degli ultimi tratti dei bastioni. Con il convegno internazionale di design organizzato dal Centro studi della triennale, durante la X triennale del 54, si cercò di dare una definizione del concetto di disegno industriale e delle sue potenzialità, focalizzandosi sui rapporti tra forma e i momenti della produzione: funzione, struttura, metodo di fabbricazione, mercato. Gli elementi fondamentali si caratterizzano per lo spiccato legame con la produzione di massa, mantenendosi viva la presenza dell’artigianato di qualità e di serie e la presenza della piccola-media impresa. Negli anni del miracolo economico sempre più aziende stringono rapporti con i designer della seconda generazione. Nel 48 la Pavoni chiama Ponti per riprogettare e ridefinire le macchine per fare il caffè nei bar. Nel 53, Necchi coinvolge Nizzoli per la progettazione della macchina da cucire e viene lanciata la Necchi BU Supernova, la Livia nel 55 e la Mirella nel 56. La Supernova viene considerata un gioiello tecnologico: possedeva funzioni che la rendevano un laboratorio automatico grazie a memorie meccaniche che guidavano l’esecuzione dei ricami. Vince il Compasso d’Oro nel 54, mentre la Mirella nel 57 ed entra a far parte della mostra permanente del Moma di NY. L’attenzione per i materiali diventa sempre più importante: nel 49 per migliorare la qualità degli oggetti di uso domestico, utilizzando le materie plastiche nasce Cartel, fondata a Milano da Castelli. A dar loro forma ci sarà Colombini, che guadagnerà 4 Compassi d’Oro in 5 anni: lo scolapiatti smontabile vince il compasso d’oro nel 60. Negli anni della ricostruzione gli oggetti casalinghi erano realizzati in ferro smaltato o in vetro. Il nuovo materiale è facilmente lavabile, resistente agli urti e leggero. La produzione avviene per stampe ad iniezione, una tecnica che necessiterà di molta ricerca e sviluppo per ridurre al minimo gli scarti. Una riconversione è quella che le materie plastiche permettono ai fratelli Guzzini, di Recanati, che passa dal proporre oggetti per la casa nei primi del 900 in corno di bue ad oggetti in plexiglass nel 38, materiale rivoluzionario. Nuove tappe tecnologiche caratterizzano la ricerca e sviluppo di nuovi materiali negli anni 50 da parte dell’azienda, come la produzione di lastre bicolore, per colata diretta, brevettata nel 58. Sono lastre di polimetilmetacrilato con effetto bicolore a cui viene affiancata la stampa ad iniezione di termoplastici pregiati tra il 55 e 60. Inizialmente sono opachi, ma poi diverranno trasparenti o traslucidi, il che garantisce all’azienda l’originalità di far somigliare il materiale plastico alla ceramica smaltata. Negli anni 60, il Sole 24 ore titolerà “gli elettrodomestici sono per l’Italia quello che per gli orologi sono per la Svizzera”. L’impego delle materie plastiche nel mondo dell’elettrodomestico bianco porterà una profonda innovazione, soprattutto la stampa in ABS dei rivestimenti interni a sostituzione della lamiera verniciata. Nel 54 Zanuso disegna un frigo per la Homelight, e Valle è chiamato a collaborare nella progettazione della serie di apparecchi Rex di Zanussi, che si contrappongono per innovazione tecnologica al bombato frigorifero Fiat, poiché assemblati mediante laminati plastici irrigiditi grazie all’iniezione di schiuma poliuretanica. Nel 58 Spadolini progetta per Radiomarelli un frigo in plastica. La prima lavabiancheria made in Italy la propongono i fratelli Fumagalli, che avevano fondato nel 57 Candy, un nome assunto a sinonimo dell’elettrodomestico per lavare i panni, ispirato al motivetto americano “My sugar candy”. Con elettrodomestici bruni si intendono radio e tv. Radiomarelli nel 54 chiamò Spadolini a studiare i modelli di televisori 17 pollici e nel 56 il portatile Monovision. Fonola si affidò a Berizzi, Buttè e Montagni che ne progettarono un tipo a schermo orientabile, che separava gli organi riceventi e di comando dal video con la carrozzeria metallica e le gambe incorporate e avvitabili. Dal produrre radio a televisioni passerà anche Brionvega, un’azienda che si caratterizza per l’aver puntato sull’immagine dei propri prodotti, con la collaborazione di Zanuso e Sapper, che realizzerà nel 64 l’Algol 11, in cui lo schermo si inclina per permettere la visione anche quando l’apparecchio è posato a terra. Il Black nel 69 rappresenta progettista, ma anche art director, agente di artisti, mediatore nella compravendita dei loro progetti e delle loro opere. L’ipotesi di aprire delle filiali all’estero, a Parigi, Berlino, New York con la sponsorizzazione, in parte, dello Stato, nella considerazione di come l’immagine italiana ne sarebbe stata promossa. Nel suo insieme, questa anticipatrice organizzazione di promozione del made in Italy si sarebbe dovuta chiamare «La Via». È necessario valorizzare e mettere in mostra il lavoro e la produzione soprattutto all’interno dell’Italia, ed è da questa esigenza, sentita sia dai designer che dalle aziende, che nasce la Biennale delle arti decorative di Monza, destinata a tramutarsi poi in Triennale e a trasferire la propria sede nel capoluogo lombardo, che ha rappresentato il punto di partenza di una serie di proposte e riflessioni che all’estero avevano già trovato ambiti di discussione e canali di sbocco ma che in Italia non si erano ancora espresse in termini espliciti e istituzionali. Manifestazione internazionale voluta e patrocinata dal Consorzio Milano- Monza-Umanitaria, essa rappresentò la concretizzazione di una politica attenta alla cultura materiale avviata già alla fine dell’Ottocento dalla milanese Società Umanitaria, un’istituzione che ha dato un contributo alla crescita della cultura del progetto con il suo obiettivo di una formazione tecnica e umana del lavoratore e di una umanizzazione dell’industria. La I Biennale fu inaugurata il 19 maggio 1923 e pubblicizzata da un proprio organo di stampa, «Le Arti decorative», diretto da Guido Marangoni, artefice principale dell’intera operazione, nella Villa Reale di Monza, a fianco dell’appena aperto Istituto superiore di industrie artistiche (ISIA), considerato il Bauhaus italiano. La I Biennale censisce le capacità produttive regionali, dal punto di vista iconografico ancora tradizionali, e ospita la sala tridentina allestita con taglio innovativo da Fortunato Depero. Il programma della II Biennale sottolineava come, a differenza dell’esposizione parigina che si sarebbe svolta lo stesso anno, Monza sarebbe restata «fedele al suo programma schiettamente artistico [sviluppandolo] verso sempre più alte finalità», verso un artigianato di lusso per la borghesia italiana. E questa tensione a un prodotto comunque d’élite, destinato e apprezzato solo da una fascia limitata d’utenza, resterà caratteristica dell’oggetto d’uso italiano, quasi sempre proposto con il nome del progettista come a qualificarlo. È il 1928 un anno particolarmente ricco di manifestazioni importanti per il disegno industriale italiano, anno in cui esce a Milano il primo numero di «Domus» e del «La Casa Bella», che negli anni modificherà la testata fino al definitivo «Casabella», divulgatrici delle produzioni, delle nuove esperienze e del dibattito sul design intercorso tra le due guerre; nel marzo-aprile a Roma, s’inaugurava la I Esposizione italiana di architettura razionale mentre, in ottobre, a Torino, l’Esposizione Universale per il Decennale della Vittoria offre agli architetti italiani la possibilità di esercitarsi in un gusto nuovo, parallelamente alla Mostra dell’architettura futurista, Enrico Prampolini si cimentava con un padiglione dimostrativo. Voluta per sottolineare la ripresa produttiva, l’Esposizione documenta efficacemente la rinascita economica nei padiglioni realizzati nel parco del Valentino, registi Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini. Ma è la Casa degli architetti che concretizza un «messaggio di rinascita industriale e artistica affidato al coordinamento tra polo intellettuale tecnico e industriale» . La fabbricazione in serie e in quantità di mobili per case operaie è il tema del concorso bandito dall’Opera nazionale dopolavoro e dall’Enapi: 246 gli iscritti, quarantuno gli ammessi al giudizio finale, cinque le ditte vincitrici, tra le quali La Rinascente, con la proposta Domus Nova, Meroni e Fossati di Lissone (un progetto di Larco e Rava), e la Società del linoleum. Ultima manifestazione monzese del periodo tra le due guerre sarà la IV Triennale, inaugurata l’11 maggio 1930, che sancisce un necessario cambiamento di periodicità, un’istituzionalizzazione nazionale e il riconoscimento internazionale grazie alla sua iscrizione al parigino Bureau des Expositions. Affidata alla direzione di Alberto Alpago Novello, architetto, di Gio Ponti, architetto e protodesigner, e di Mario Sironi, pittore, la Triennale sarebbe riuscita a eludere l’autarchia e a promuovere e ospitare esperienze che sarebbero state determinanti per la crescita del Movimento Moderno e avrebbero rappresentato una delle vie al disegno industriale. Di particolare interesse la Casa Elettrica, sponsorizzata dalla Società Edison, a supporto e divulgazione dell’applicazione dell’energia elettrica anche tra le pareti domestiche, pensata per esporre tutti gli apparecchi elettrici destinati a sostituire nelle varie funzioni domestiche il personale di servizio e ad allietare e rendere sempre più gradevole l’abitazione moderna. Gli apparecchi elettrici esposti erano per lo più di fabbricazione straniera, anche se non mancavano esempi di prodotti italiani, della Scaem, una consociata della Marelli le cui campagne pubblicitarie facevano leva sulla pulizia, l’estetica, la necessità di ben utilizzare lo spazio e la maggior sicurezza. La Casa Elettrica è progettata dal Gruppo 7 (Figini, Pollini, Frette e Libera) cui si affianca Piero Bottoni. Sono giovanissimi architetti milanesi che già in questa uscita offrono un contributo al progresso e si cimentano con il sogno dell’elettrificazione che sarebbe divenuto realtà. Un altro luogo di particolare rilevanza quando si analizza la crescita della produzione nazionale, ma anche quella del disegno industriale italiano, sono le Fiere Campionarie Internazionali di Milano. La prima edizione fu annunciata il 1° novembre 1919, varata nell’aprile del 1920, e rappresenta per decenni, un’opportunità di sperimentazione per tutti i progettisti, riflettendo via via le tensioni futuriste, le ricerche dei razionalisti, le innovazioni della grafica pubblicitaria, le realizzazioni di exhibit design. Gli allestimenti effimeri degli spazi interni ed esterni di quest’ultimo permisero ricerche materiche e linguistiche e avvicinarono gli artisti al mondo della produzione. Motore dell’avvicinamento un giornalista, Marco Bolaffio, primo segretario generale dell’Ente, che ritroviamo anche editore di numerose testate, nonché gallerista e organizzatore di uno spazio dedicato al mobile di serie, dotato anche di un catalogo di vendita per corrispondenza. Dal 1932 anche la Fiera campionaria, come la Triennale, rappresenta un’occasione per non perdere i contatti con gli ambienti d’oltralpe. Quell’anno Pagano fu chiamato a realizzare modelli di ambienti moderni nello stand della Società del linoleum. Nell’aprile 1942 s’inaugurò l’ultima edizione fra le due guerre poi per tre anni i cancelli della Campionaria sarebbero restati chiusi. La prima generazione del disegno industriale italiano - con l’etichetta di pionieri si sono voluti individuare quegli architetti e artisti che per primi si sono impegnati in progetti per l’industria, anche meccanizzata, avendo alle spalle una formazione nelle Accademie di Belle Arti, nelle quali la sezione Architettura non si era ancora staccata per affiancarsi alla Facoltà di Ingegneria. Sono le aziende artigiane comunque le prime a coinvolgere, già tra le due guerre, artisti e architetti ma anche figure provenienti da altri settori, che s’intrecciano alle vicende del processo d’industrializzazione italiano, elaborando proposte non convenzionali e di fatto un linguaggio nuovo che darà una precisa dimensione, anche culturale, oltre che formale, alla produzione industriale italiana. Tra le prime aziende, quelle della ceramica, naturalmente legate a un concetto di serialità, così come quelle vetrarie, che ambiscono a salvaguardare la tradizione artigiana-artistica nel passaggio a una produzione industriale, fatta salva ovviamente la qualità del prodotto. E sono le industrie ceramiche che si rinnovano e la loro produzione viene censita in più occasioni alla Triennale. La Ceramica di Laveno chiama l’architetto Guido Andlovitz, mentre la storia di Richard Ginori si intreccia con quella di Gio Ponti, il quale intervenne soprattutto sul rinnovo del decoro sottolineando come secondo lui l’industria fosse l’attore principale del XX secolo e che quindi l’«arte applicata moderna non si può prescindere dall’industria che è il perno della nostra costituzione sociale». Pioniere del disegno industriale italiano è Marcello Nizzoli, pittore e aderente al movimento futurista di Nuove Tendenze, aveva organizzato già nel decennio Dieci un laboratorio dal quale escono, su suo disegno, cuscini e arazzi eseguiti in seta e lana, oltre che ricami dove nel decoro floreale s’intrecciano la ricerca cromatica e pittorica con una sapiente pratica artigianale. Da qui prendono le mosse le prospettive industriali del Nizzoli, protodesigner e designer, unico tra gli operatori di questa formazione, ad approdare alla progettazione per la grande serie: punto di forza la sua «formazione diretta, quasi manuale, caratteristica dote dell’operaio-artigiano italiano». Continuerà questa pratica anche nel decennio Venti e significative sono le sue presenze alle Biennali di Monza. La sua ricerca poi «si fa veramente autonoma, il nuovo impegno operativo blocca il furore creativo degli anni precedenti e lo costringe a reperire nuovi compagni di ricerca», da qui l’incontro con Persico e l’inizio di un lavoro comune per la divulgazione di una nuova disciplina artistica, dal quale escono numerosi progetti a quattro mani. Qualche anno di lavoro da solo, dopo la morte di Persico, e poi la chiamata da parte di Leonardo Sinisgalli nel 1938 all’Olivetti come visual e product designer. Primo prodotto la Summa 40, presentata alla VII Triennale, messa a punto con il meccanico Nicola Cappellaro. Dal 1946 al ‘48 gli studi per la Lexicon 80, affiancando l’ingegnere Giuseppe Baccio, la macchina da scrivere per eccellenza, di poco precedente alla portatile per antonomasia, la Lettera 22 del 1950. Un incontro di Nizzoli con Olivetti che permette un’esperienza di lavoro esemplare e che porterà l’industria di Ivrea a diventare una palestra d’industrial design e ad assumere l’universalità di una Bauhaus, in cui tutto quello che si produce, frutto di una collaborazione collettiva, conserva l’impronta di una matrice unica. Da qui nasceranno uno stile Olivetti e una metodologia Nizzoli che comportano la ricerca di una «forma funzionale, derivata dalla natura tecnologica del prodotto, forma [che] è quella che unifica ed esprime tutti gli aspetti anche talvolta contrastanti che caratterizzano un prodotto», e per la cui realizzazione è necessario che «si stabilisca tra designer e gli uomini della produzione una vera e fondamentale comprensione umana» che riescano a coniugare la tecnica esecutiva con la volontà di forma e superfici del designer- artista. Per quanto riguarda il decennio Venti, ma soprattutto il Trenta, si definisce protodesign quel nuovo rapporto arte-industria e disegno-prodotto che comincia a toccare ambiti nuovi o tradizionalmente non interessati a instaurare un rapporto esplicito con il progettista (artista-architetto), ovvero una produzione in serie attenta anche alle valenze dell’esteticità. In questi anni non si può parlare di disegno industriale per la carenza dell’industria, essendo la produzione in serie realizzata per lo più da un artigianato meccanizzato presente e vivo in particolare intorno a Milano e nell’Italia settentrionale. Il termine industria costringe al Nord, a Torino e a Milano dove si trasferiscono negli anni Trenta personalità trainanti come quelle di Persico e Pagano. Di produzione industriale si può parlare per diversi settori dove i designer italiani furono pionieri come ad esempio quello automobilistico e, come ha sottolineato Koenig, «per universale riconoscimento fummo i primi nel mondo per il design aeronautico» alimentato da «ingegneri-designer maestri nel disegno». Si disegnano in questi anni anche i nuovi apparecchi per comunicare: l’apparecchio radio e telefonico. Il primo telefono firmato arriverà soltanto nel 1959, quando Lino Saltini, pittore e designer, progetterà per la Sit Siemens il modello unificato. Progettista ma anche imprenditore è Alfonso Bialetti a cui si deve la prima caffettiera per la casa: nel 1933 mette a punto la caffettiera espresso dal contenitore in fusione in conchiglia d’alluminio con la caratteristica forma sfaccettata, rimasta quasi immutata a tutt’oggi e che incontrerà straordinaria fortuna commerciale soprattutto nel decennio Cinquanta, andando a sostituire nel costume degli italiani la classica napoletana di Eduardo. Progettista e imprenditore anche Carlo Alessi, al quale si devono servizi dà caffè e da thè in metallo diventati dei classici di modernariato. La Alessi, dal decennio Sessanta a oggi, ha puntato poi gran parte delle sue fortune aziendali sul design dei suoi prodotti. Produzione industriale anche per altri oggetti casalinghi, negli anni Trenta, che coinvolgono nella loro progettazione artisti e architetti. Ne nascono prodotti dalle linee semplificate, dalle raffinate e particolari modalità esecutive, in materiali spesso pregiati. Ed è sempre la Triennale che li espone e propone: per Sambonet, Krupp, Calderoni disegnano Ponti, Caccia Dominioni, i fratelli Castiglioni, i Bbpr. È nel decennio Trenta che i giovani architetti italiani, formatisi in quelle Facoltà d’Architettura, che solo a chiusura del decennio Venti si staccheranno dalle Accademie di Belle Arti e si affiancheranno alle Facoltà di Ingegneria dando luogo alla fondazione dei Politecnici, avevano avuto modo di conoscere dal vivo le proposte del Razionalismo europeo attraverso le riviste e le Triennali. In particolare la V Triennale, del 1933, in cui fu molto stimolante la Mostra di ambienti moderni che proponeva soluzioni per case e uffici, così come la Casa d’acciaio, arredata con mobili costruiti dalla ditta Dassi di Lissone progettati da Pagano, Camus, Albini, Palanti. Prodotti che allora non tutti gli architetti applaudono sulla rivista del sindacato nazionale fascista architetti, «Architettura», Renato Pacini firma un servizio in cui si stigmatizzano «i mobili [dalle] sagome fisse», ribadendo come sia necessario invece «cercare d’abolire più che sia possibile quel carattere di meccanicità che purtroppo si tende a dare ad ogni abitazione moderna sotto il pretesto della praticità e dell’economia». Anche la Mostra sui materiali per l’edilizia curata da Giuseppe Pagano e Guido Frette in seno alla VI Triennale di Milano (1936), prima rassegna completa di materiali per l’architettura, rientra nella riflessione sul disegno industriale. Per Pagano, attento alle innovazioni dell’industria più che alle possibilità di evoluzione dell’artigianato artistico, questo particolare campo del progetto rientra nella problematica della standardizzazione e dell’industrializzazione. I materiali nuovi furono imposti dall’autarchia, ma non solo: la ricerca era finalizzata alla sostituzione di materiali d’importazione ma rispondeva anche ad esigenze precedenti, di crescita e di attualizzazione della produzione. Già nel 1924, Gli anni del “miracolo economico” - gli anni Sessanta furono tempi di forte crescita economica e culturale per l’Italia e fra gli attori del cambiamento ci fu il mondo del disegno industriale, sempre più direttamente coinvolto nella produzione a cui fornisce il proprio contributo innovativo e apporta le proprie logiche, contribuendo in modo decisivo all’affermazione commerciale del made in Italy in campo internazionale. Tra gli elementi propulsori del disegno italiano agiscono in questi anni i luoghi della Triennale. Si affermano i cosiddetti “maestri della seconda generazione”. Sono nomi come quelli di Zanuso, Castiglioni, Bellini, Sottsass jr., Mari, ancor oggi di fama internazionale, che operano per aziende industriali allora alla testa del processo volto a diffondere un modo nuovo di pensare al prodotto. Nel decennio Sessanta si concretizza quanto Dorfles aveva affermato già nel 1953: «Una nuova entità artistica è sorta: quella in cui l’opera creativa dell’uomo si è manifestata non più direttamente, ma attraverso la mediazione della macchina» e si è arrivati all’affermazione di quel fenomeno essenziale del disegno industriale. Ormai è generalizzato il rivolgersi, da parte dell’industria, ad artisti, architetti e progettisti per mettere a punto i prodotti, ma anche per fornire un’immagine coordinata dell’azienda attraverso una rivisitazione estetica dell’intera sua produzione. Il caso Olivetti non è più isolato: anche aziende produttrici di macchine per fare il caffè nei bar o per cucire, come Pavoni o Visa di Voghera, che chiamano Gio Ponti già nel 1948, o come Necchi, che dal 1952 coinvolge Nizzoli per la progettazione della BU, la Mirella del 1957. Le aziende del mobile sono le prime a riscuotere successo per aver scelto progettisti di alto livello, per firmare i prodotti e le componenti d’arredo e per far parlare di sé e dei propri oggetti sulle pagine delle riviste di settore. Continua a mietere un meritato successo il car design, ma anche il settore degli elettrodomestici scende in campo e si rivolge agli industrial designer. L’inserimento del designer nell’industria dovrebbe avvenire però «a livello direzionale [...] in forma di consulente»: così auspica Rosselli nel tratteggiare le responsabilità del designer industriale, anticipando quella che sarà la tendenza del design management che si riproporrà quasi come autonoma branca del disegno industriale nel decennio Novanta. Il ruolo delle Triennali e la nascita dell’Adi - la Mostra internazionale dell’industrial design organizzata nel 1957 nell’ambito dell’XI edizione della Triennale, testimonia «una compiuta maturità» del disegno industriale, come ha scritto Enzo Frateili. Vi erano stati ordinati i prodotti dell’ultimo triennio che si riteneva meglio illustrassero e meglio permettessero di valutare la situazione internazionale. Il taglio della mostra voleva documentare il ciclo della cultura materiale, dai prodotti dell’artigianato a quelli frutto delle tecnologie più avanzate: si apriva così con un’introduzione articolata in tre parti che metteva a fuoco il contesto produttivo e culturale in cui opera il progettista, le diverse metodologie d’approccio al progetto, le motivazioni funzionali e ambientali che determinano la richiesta dei prodotti, le diverse possibilità d’espressione linguistica e le eterogenee formazioni dei designer. Questa Triennale ebbe a protagonisti i designer della seconda generazione. Il tema fu un pretesto per un confronto, mentre la Triennale perdeva sempre più di significato per gli italiani come spazio merceologico soppiantato da altri nuovi canali quali i Saloni del mobile. Ed è proprio in questo contesto favorevole che nasce l’Associazione per il disegno industriale. L’origine dell’Adi è documentabile con l’articolo Manifesto per il disegno industriale pubblicato da «Domus» nel 1952, in cui si legge che la situazione italiana era «specialissima, stranissima, paradossale, perché se da un lato vi è l’inesistenza “ufficiale” della professione del “disegnatore industriale”, simultaneamente vi è – accanto alla presenza di produzioni che raggiungono gradi elevatissimi di stile per carattere e coerenza estetica – la presenza addirittura di personalità che proprio nel disegno industriale si impongono nel mondo». Si annunciava che a Milano i progettisti Mario Revelli, Ernesto Rogers, Marco Zanuso, Gio Ponti, e gli industriali Romualdo Borletti, Gianni Mazzocchi, Adriano Olivetti, avevano gettato le basi per la fondazione di una Associazione per i disegnatori industriali della quale erano stati invitati a far parte «significativi organismi produttivi italiani», sia di «produzione e creazione che di diffusione» e che già vi era stata l’adesione della Fiat, della Montecatini, dell’Olivetti e della Pirelli. Si voleva promuovere un ambiente più favorevole agli sviluppi di questa disciplina anche in Italia allargando le conoscenze specifiche che concorrono a questi scopi. La particolarità di questa istituzione è che si associano progettisti e industriali, tradizionalmente controparti negli altri paesi. Nell’Associazione si rispecchiano la crescita e le profonde mutazioni che caratterizzano la cultura del progetto e vi riecheggiano le polemiche che si catalizzano anche in ambiti esterni. Rosselli, direttivo della Associazione, conferma questa caratteristica unitaria e spiega anche la necessità: «ci è sembrato il caso che fosse necessario uscire da una tradizione sbagliata che non ha fatto fin ad oggi che accrescere il disagio di un isolamento dannoso per tutti, per l’industria, per l’arte e per la cultura in generale. È scoraggiante ed inutile ricercare da soli la soluzione dei problemi che per loro natura richiedono contemporaneamente interventi che provengono da più parti. Il disegno, la qualità di un oggetto industriale, ce ne accorgiamo ogni giorno di più, è oggi molto meno competenza della tecnica o dell’arte o della organizzazione, quanto di quel particolare ambiente in cui tecnica arte ed organizzazione abbiano trovato modo di essere perfettamente assimilabili». Già nei primi dibattiti interni, spesso ripresi da «Stile Industria» pubblicata dal ’54 al ‘63, emergono problematiche che si sarebbero sempre più manifestate: la formazione del designer tramite l’istituzione di scuole di Disegno Industriale in modo che questa attività acquisti l’efficienza, l’autorità e la possibilità di tutela di una professione autorizzata, l’importanza di una Mostra permanente della produzione e di un Museo del design in cui custodire i prodotti premiati o segnalati nelle edizioni del Compasso D’Oro, la possibilità di istituire un marchio di qualità per i prodotti. Centinaia sono state le mostre organizzate dall’Adi in Italia e nel mondo, alcune vissute come punti di riferimento, un’occasione di riflessione, altre di carattere più merceologico; numerosissimi i convegni, le conferenze, i seminari sulla cultura del progetto e sulle metodologie progettuali. Due anni prima della fondazione dell’Adi, nel 1954, veniva istituito il premio Compasso D’Oro ad opera de La Rinascente. L’azione svolta da quest’ultima sin dall’Ottocento, legata alla tecnica organizzativa di Ferdinando e Luigi Bocconi, trasformava il concetto d’impresa commerciale in relazione ai profondi mutamenti sociali ed economici che intanto venivano affermandosi. Nel 1917 il grande magazzino venne acquistato da Senatore Borletti e cambiato nella sua nuova denominazione suggerita da D’Annunzio con opportuno senso dell’invenzione linguistica e delle sue implicazioni simboliche; infatti con tale nome la Rinascente connetteva la sua vicenda ad una speranza di rinascita nazionale, ma con le sue stesse iniziative stimolava l’aggiornamento della società italiana ai livelli europei. L’attività della Rinascente consisteva nella promozione e vendita di un’ampia gamma di prodotti aventi la più alta qualità di manifattura e di gusto, la necessaria quantità, il giusto prezzo, le tre classiche caratteristiche dell’industrial design. In più si avvaleva della diffusione pubblicitaria ad opera della grafica di Marcello Dudovich e all’appoggio della stampa, soprattutto di «Domus». Già nel 1952 le viene riconosciuto un ruolo di «leadership culturale: proprio in assenza di altri organismi distributivi del prodotto di serie, le si attribuì la possibilità di incidere in alcune scelte produttive e di svolgere quindi un’educazione al gusto nella direzione biunivoca, della produzione e del mercato. Nasce quindi in questo ambito l’idea di un premio» al merito per cui progettisti e quegli industriali che più si impegnano a coniugare aspetti estetici di forma ad aspetti tecnico-produttivi. L’espressione Compasso D’Oro si riferisce a un compasso realizzato in modo da poter determinare facilmente la sezione aurea del segmento limitato dalla sua aertura. L’oro del compasso ha un significato tecnico e matematico, alludendo alla proporzione definita divina da Luca Pacioli nel titolo del suo trattato del 1509. Il premio si riallaccia attraverso il nome a un modello ideale di armonia codificato dai matematici dell’antichità classica. Il compasso, oggetto del premio, in oro 18 carati, del peso di circa cento grammi, fu disegnato da Marco Zanuso e Alberto Rosselli, ispirandosi al modello che nel 1893 Adalbert Goeringer ideò per misurare la sezione aurea. In una pubblicazione edita da La Rinascente, alla voce Scopo e finalità del premio, si legge: «istituzioni famose premiano ogni anno, in Italia ed all’estero, opere ed autori nei campi delle scienze, delle lettere, delle arti, della tecnica. La Rinascente, riconoscendo l’importanza sempre crescente con la quale si vanno affermando in Italia ed all’estero le attività creative e tecniche nazionali dedicate all’estetica del prodotto, istituisce con il 1954 il Premio La Rinascente Compasso D’Oro. Col “Compasso D’Oro” si vogliono onorare i meriti di quegli industriali, artigiani e progettisti, che nel loro lavoro, attraverso un nuovo e particolare impegno artistico, conferisono ai prodotti qualità di forma e di presentazione tali da renderli espressione unitaria delle loro caratteristiche tecniche, funzionali ed estetiche» Dal 1959 si assisterà all’affiancarsi dell’Adi nella organizzazione del premio per effettuare un più preciso controllo culturale dei suoi contenuti, fino al passaggio definitivo nel 1965. Rispettoso della sua scadenza annuale fino al 1962 il Compasso d’oro sarebbe poi stato assegnato con scadenze discontinue (1964-1967- 1970) motivate dall’impossibilità di individuare ogni anno innovazioni tecnologiche e linguistiche veramente significative. La rivoluzione dei prodotti e dei materiali - anche il tema degli apparecchi da cucina - in gergo si definisce bianco tutta la serie di apparecchiature che trovano spazio in questo ambiente della casa - viene affrontato dal design fin dal decennio Cinquanta. I produttori di elettrodomestici, per lo più self-made men, colgono le possibilità offerte dal disegno industriale più dei mobilieri e coinvolgono i progettisti, mettendo a punto uffici tecnici e uffici stile. Nonostante la presenza sul mercato italiano di aziende a capitale straniero, alcuni giovani imprenditori, grazie all’apporto del disegno industriale e la messa in funzione di Centri Stile interni, metteranno a punto prodotti made in Italy che andranno a conquistare anche il mercato europeo. La nascita di questa industria corrisponde alla richiesta di meccanizzazione della casa che, sull’onda delle tendenze americana, vede nel frigorifero, nella televisione e in una nuova impostazione dell’ambiente cucina uno status symbol. Il consumatore italiano, visto il potere d’acquisto ancora molto limitato alla fine del decennio Cinquanta, tendeva ad acquistare un prodotto americano, dal costo contenuto e dalla lunga durata, ricco all’apparenza e comunque ben disegnato. L’impiego delle materie plastiche anche nel mondo dell’elettrodomestico bianco verrà inoltre profondamente innovato con la stampa in Abs di tutti i rivestimenti interni, a sostituzione della lamiera verniciata. Così, nel 1954, Marco Zanuso disegnerà un frigorifero per la Homelight e Gino Valle sarà chiamato a collaborare nella progettazione di apparecchi della serie Rex di Zanussi che si contrappongono per innovazione tecnologica poiché assemblati mediante laminati plastici irrigiditi grazie all’iniezione di schiuma poliuretanica al bombato frigorifero Fiat. Nel 1958 Pier Luigi Spadolini progetta per Radiomarelli un frigorifero in plastica. Alla prima edizione della Fiera Campionaria di Milano del settembre 1946, è presente la prima lavabiancheria made in ltaly, la propongono i fratelli Fumagalli che hanno fondato nel 1947 Candy, un nome assunto a sinonimo dell’elettrodomestico per lavare i panni ispirato dal motivetto americano My sugar Candy. I piccoli elettrodomestici sono progettati da Marco Zanuso, che nel 1959 disegna per Subalpine un macinacaffè elettrico, dai fratelli Castiglioni, che progettano un aspirapolvere per Rem nel 1956, lo Spalter. Numerosissimi quelli messi a punto da Giuseppe De Goetzen, la spazzola elettrica Elchim il cui successo fu sancito dal proliferare delle imitazioni. Da sottolineare la nascita degli elettrodomestici San Giorgio, che testimoniano l’intelligente riconversione postbellica di un’azienda dei primi del Novecento sorta per la produzione di periscopi e strumenti ottici per la marina. A La Spezia, agli inizi del decennio Cinquanta, si iniziarono a produrre ventilatori, aspiratori d’aria, stufe elettriche e il Proteus, antesignano dei robot tuttofare, che si caratterizzarono per l’eleganza del disegno, per la grazia del colore, per la semplicità d’uso e per l’affidabilità. Anche il tema della depurazione dell’aria venne affrontato fin dal decennio Cinquanta da Vortice, un’azienda fondata da Attilio Pagani nel 1954, che prenderà nome dal suo primo prodotto, un aspiratore per cappe disegnato da Pagani con Alberto de Matteis e al quale si andranno ad affiancare anche una serie di prodotti che conquisteranno il mercato sotto l’etichetta di «tecno-design», disegnati da Marco Zanuso. Altro oggetto di grandissima importanza, protagonista di una vera e propria rivoluzione, è il televisore che subì una prima svolta quando l’impiego delle materie plastiche per la scocca gli conferì un’immagine di macchina andando a sostituire il mobile in legno o finto legno che lo aveva fino ad allora contenuto, e una seconda svolta quando diventa portatile grazie al transistor. Radiomarelli, coerente con l’impegno nella produzione dell’apparecchio radio firmato, nel 1954 chiamò Pier Luigi Spadolini a studiare i modelli di televisori 17 pollici e, nel 1956, il portatile Monovision. Phonola si affidò a Sergio Berizzi, Cesare Buttè e Dario Montagni che, sempre nel 1956, ne progettarono un tipo a schermo orientabile che separava gli organi riceventi e di comando dal video, con la carrozzeria metallica e le gambe incorporate e avvitabili. Dal produrre radio al produrre televisioni anche Brionvega, un’azienda che dalla nascita si caratterizza per l’aver puntato tutto sull’immagine dei propri prodotti con la collaborazione di Zanuso che disegnerà con Richard Sapper l’Algol 11, nel 1964, dove lo schermo si inclina sempre di più per permetterne la visione anche quando l’apparecchio è posato a terra. Il Black nel UNITà 5 – L’ORGANIZZAZIONE DEL SAPERE. DALLA “RIVOLUZIONE DELLA STAMPA” ALLO SVILUPPO DELL’EDITORIA LE ORIGINI DELL’”ECONOMIA DELLA CONOSCENZA” IN EUROPA NEL MEDIOEVO – gli economisti e storici economici si dividono tra sostenitori di radici lontane, nel Medioevo, della nascita di una cultura favorevole allo sviluppo economico e coloro che sostengono che una svolta culturale più favorevole allo sviluppo economico si ebbe nel 6-700 in Europa. La cultura è un fattore importante dell’economia, della produzione, e della tecnologia: è un fattore di produzione. Esiste una dimensione economica della cultura: se le conoscenze sono un fattore produttivo, è giusto studiare l’economia delle conoscenze (la produzione/la domanda di conoscenze/i costi). Lo sviluppo economico è nato e si è sviluppato a lungo in Europa, mentre gli altri continenti che potevano vantare qualche primato non sono rimasti al passo rispetto all’accelerazione vissuta dall’economia europea fra 7-800. Dopo molte analisi volte a studiare lo scarto dell’economia europea con la rivoluzione industriale, gli storici dell’età moderna (4-500) hanno sottolineato che anche questo periodo contribuiva a spiegare con sue dinamiche interne il suo sviluppo economico. Vi fu la diffusione di quella categoria che i modernisti definiscono rivoluzione industriosa: un miglioramento delle attività economiche sotto il profilo tecnico, dell’organizzazione economica attraverso una più efficiente divisione smithiana del lavoro, la diffusione nelle campagne con la protoindustria. Negli ultimi anni, alcuni studiosi hanno sottolineato che tra i fattori che spiegano il primato dello sviluppo dell’economia europea vi sono dei fattori situati cronologicamente nel tardo medioevo, e in particolare del formarsi in Europa, quando ancora l’economia era precapitalistica, di un’economia della conoscenza che costituisce un fattore di sostegno allo sviluppo economico. Questa economia della conoscenza si riscontra in 3 livelli: 1. gli investimenti in capitale umano. Con capitale umano si intende un’accezione con cui si guarda alla qualità delle persone in ordine alla loro prestazione. Tra medioevo ed età moderna si riscontra in Europa un’attenzione all’istruzione e alla formazione culturale che passa principalmente attraverso la cultura scritta (prima manoscritta e poi con l’invenzione della stampa) che permette di acquisire conoscenze e capacità che modificano qualitativamente le loro abilità in ordine al lavoro, all’economia. C’è anche un’attenzione al numero delle persone: nasce una tendenza matrimoniale europea tra il 5-600 a limitare il numero dei nati su base volontaria attraverso un aumento dell’età matrimoniale e una propensione alla singletudine, per evitare una prolificità eccessiva rispetto ad un progetto di vita che voleva che ai figli si desse più attenzione: meno figli ma con doti maggiori. 2. la creazione di istituzioni economiche efficienti. Con istituzioni ci si riferisce alle “regole del gioco” di carattere giuridico o informali, che presiedono alle attività e alle relazioni sociali. L’esistenza di organizzazioni come le corporazioni, dei notai, figure professionali a cui viene riconosciuta la facoltà di attribuire ad un atto giuridico tra privati un valore pubblico, permettono di acquisire la certezza del diritto. Si diffusero i contratti agrari, che davano regole certe che attribuiscono alle parti diritti e doveri. Le istituzioni efficienti diventano la garanzia del buon funzionamento delle attività e delle relazioni economiche e sociali. 3. la nascita di centri propulsori e diffusori delle conoscenze. Ci si riferisce a 2 istituzioni di grande importanza: i monasteri e le università. I monasteri o abbazie nacquero con la trasformazione del monachesimo eremitico a monachesimo cenobitico. I primi monasteri che svilupparono un’attività di conservazione e copiatura con gli scriptoria, laboratori in cui operavano monaci dediti all’attività di copia dei testi scritti. Si svilupparono a partire da Montecassino, con San Benedetto. Uno dei più rilevanti fu il Vivarium, fondato da Flavio Cassiodoro, attivo dal 555 al 630 e che ebbe un’importanza straordinaria nella conservazione della cultura antica greca e latina (opere di filosofia, botanica, cultura). Fece copiare anche testi di autori pagani: le devastazioni della guerra gotica avevano messo in pericolo la sopravvivenza della letteratura pagana e cristiana, anche gli scriptoria erano decimati. Dunque Cassiodoro iniziò un lavoro di trascrizione e traduzione dei testi latini e greci con l’intento di salvarli e tramandarli. La copia dei manoscritti era lasciata ai religiosi inesperti o fisicamente infermi ed era eseguita in base al capriccio dei monaci alfabetizzati. Grazie a Cassiodoro il sistema monastico adottò un approccio rigoroso, regolare nella riproduzione dei documenti, visti come parte integrante dell’attività del monastero. Il monastero di Bobbio, fondato da San Colombano fu il maggior centro di produzione libraria in Italia in età longobarda e carolingia. I monaci irlandesi che vi lavoravano nei primi tempi introdussero lo stile dell’arte insulare per le miniature ed un sistema di abbreviature. Importante anche il monastero di San Gallo in Svizzera; e Citeaux, la cui diffusione del modello istituito da Bernardo da Chiaravalle arrivò in tutt’Europa: a seguito del rilassamento della regola benedettina, con gli scriptoria più protetti e riscaldati, Bernardo impartì disposizioni più severe, anche sulla decorazione dei manoscritti (“lettere di un solo colore e non decorate”). Nello stesso periodo i monaci furono tenuti ad osservare la regola del silenzio per il tempo che trascorrevano nello scriptorium, ma due secoli più tardi fu concesso loro di eseguire il lavoro di scrittura nelle proprie celle. Infatti, il modus vivendi dell’ordine certosino prescriveva il lavoro nella solitudine della propria cella. Questi centri replicavano modelli unitari, in cui grande importanza aveva l’attività intellettuale e manuale della copia dei testi. I monasteri erano anzitutto un luogo di consumo di testi manoscritti, occorrenti per l’attività liturgica, che in qualche caso venivano anche miniati. Poi la loro attività andrà oltre la conservazione e produzione di testi per l’uso proprio: conserveranno e divulgheranno testi che avranno un’importanza straordinaria per la ripresa della cultura occidentale. Con lo sviluppo delle università nasce un artigianato laico, fatto di copisti e di botteghe di carattere commerciale. Le università sono minori dei monasteri, ma la loro funzione di promozione dell’attività di produzione e circolazione del libro è notevole, per la vocazione e lo statuto dell’università, un po’ per il carattere itinerante del mestiere del docente che dello studente. Le caratteristiche delle scriptoria erano: • Il luogo: una vasta sala illuminata da numerose finestre (spesso la sala capitolare). La luce artificiale era proibita per paura che potesse danneggiare i manoscritti. Nella stessa stanza potevano lavorare fino a trenta amanuensi. • Le persone: calligrafi, che si dedicavano alla produzione di libri preziosi; copisti, che svolgevano la produzione di base e la corrispondenza; correttori, che componevano i fogli scritti e confrontavano il lavoro finito con il manoscritto da cui era stato prodotto; miniatori/pittori, che dipingevano le illustrazioni, a volte con piccoli fogli d'oro; rubricatori, che dipingevano le lettere di rosso; alluminatori, si occupavano di posizionare le foglie d'oro; legatori, si occupavano alla fine del lavoro di rilegare il codice o il manoscritto. • Il materiale di scrittura: dopo la conquista islamica dell'Egitto (metà sec. VII) il papiro non era più disponibile. Fino alla diffusione della carta il supporto più usato fu la pergamena (ricavata dal trattamento delle pelli di mucche e vitelli, pecore, capre, attraverso varie fasi: taglio dei fogli, foratura, rigatura, levigazione). • Gli strumenti di lavoro: penne, inchiostro e temperini, righelli, punteruoli (per praticare minuscoli fori utilizzati come riferimenti per tracciare linee dritte sul foglio), leggio. La miniatura necessitava di altri utensili e materiali. Tutto il materiale era fornito dall'armarius (il bibliotecario del monastero), vero regista dell'operazione di copiatura. • L’attività di copiatura: posto il foglio vuoto sul leggio, la prima operazione consisteva nel tracciare righe orizzontali (generalmente 26), affinché la scrittura fosse diritta, e definire gli spazi da lasciare disponibili per le miniature. L'amanuense copiava quindi il testo sulla pagina rigata. Il lavoro non si limitava alla copia di testi antichi, bibbie o commenti ai testi sacri, ma venivano scritte anche opere originali. Alcuni scriptoria svilupparono usi grafici diversi fra loro. • L’attività di miniatura: era eseguita separatamente dopo la redazione del testo (ma prima della legatura del libro) spesso in altri ambienti e a distanza di tempo (anche qualche mese). • Scriptoria e botteghe commerciali: gli scriptoria fornivano libri per i monasteri, sia per uso interno sia come manufatti di scambio. Producevano inoltre i libri destinati alla ristretta fascia di laici alfabetizzati. Da metà sec. XIII la concorrenza delle botteghe laiche divenne molto forte, sia per il tipo di letteratura proposta (non più soltanto edificante o di preghiera) sia per la lingua con cui era scritta (non più in latino ma in volgare). Le botteghe scrittorie laiche avevano inoltre sistemi di copiatura più rapidi (es. il sistema della pecia in ambito universitario). La mentalità del monaco amanuense era diversa dallo scriba laico che copiava un'opera a scopo di guadagno. Comunque per vari secoli gli scriptoria monastici rimasero il perno della produzione di testi liturgici per i monasteri stessi, almeno fino alla diffusione della stampa. Per quanto riguarda la produzione di testi scritti nel medioevo, il materiale scrittorio divenne la pergamena (che sostituisce il papiro egiziano), ossia pelle di animale opportunamente trattata. Grazie a questa sostituzione ed una organizzazione che permetteva di disporre di questi materiali, nei monasteri avveniva la produzione di codici, non solo documenti di pochi fogli, ma di libri, dato che si passò alla cucitura in un volume di questi fogli manoscritti. A facilitare la crescita dei codici manoscritti vi furono delle innovazioni, che velocizzarono l’attività di scrittura e copiatura a mano. Nei monasteri e nelle cancellerie, dove si redigevano i testi dei documenti sovrani, fu inventata la scrittura carolina minuscola, che rese più veloce l’attività di scrittura. In epoca successiva, nelle università si usò il sistema della pecia: i testi venivano divisi in più fascicoli, che venivano dati a dei librai ufficiali, gli stazionari, e chi desiderava avere copia del libro affittava il singolo pezzo o pecia del libro e lo affidava a dei copisti. Questo sistema velocizzò la produzione: il costo dei testi si ridusse progressivamente, facilitando la produzione e circolazione dei testi. La domanda inizialmente fu rappresentata da ecclesiastici, sia nelle città sia nei monasteri. Cresce lentamente dopo il 1000 una domanda accademica e cresce la domanda dei ceti commerciali dopo il risveglio dell’economia europea, che erano dotati di requisiti culturali di cui gli altri ceti erano sprovvisti: sapevano far di conto e sapevano leggere, e usavano per necessità dei libri contabili, dunque compravano libri che usavano compilare per la propria attività. Alla fine del medioevo, la popolazione alfabetizzata è cresciuta dall’1% al 12% in mezzo millennio della popolazione europea. Questa popolazione sa leggere, più raramente sa scrivere, abilità più complicata della lettura. Il 12% è una quota ancora limitata perché i progressi dell’alfabetizzazione non sono omogenei, ma si concentrano in alcune aree, soprattutto urbane dell’Europa occidentale e nei ceti ecclesiastici e pochi laici. Nella grandissima parte dei casi sono gli uomini ad essere acculturati. Una delle cause e conseguenze della bassa alfabetizzazione è la scarsa diffusione del libro: è vero che la cultura scritta si diffonde e si conserva, ma il libro come manufatto è ancora molto costoso, non alla portata di tutti. Per conseguenza tra il basso numero di alfabetizzati e il costo della cultura scritta, il risultato è che il mercato librario è molto limitato. Il commercio del libro è anche soggetto a regole censorie severe. Anche se l’economia della conoscenza ha dei limiti, non manca in parte dell’Europa un distinguo dal resto del mondo in termini di concentrazione: nell’Europa carolingia (da Londra a Genova) si aveva la maggiore concentrazione, in termini demografici, economici e culturali. Questa sovrapposizione tra domanda e popolazione, attività economiche e conoscenze sarebbe all’origine della successiva crescita dello sviluppo economico. Gli studiosi, che hanno voluto ricercare e documentare le origini medioevali del primato economico europeo, tendono a identificare l’Europa carolingia con la rappresentazione che alcuni economisti e sociologi hanno fatto di una parte d’Europa definita la Blue Banana, perché dal satellite di notte emerge una forte concentrazione di attività economiche e di insediamenti urbani in questa striscia. Le critiche a questa rappresentazione per l’attualità hanno sottolineato l’esclusione della regione parigina e tedesca. Si vogliono intravedere le permanenze sotterranee di lungo periodo dei fattori storici e l’importanza della cultura in relazione allo sviluppo economico. IL LIBRO A STAMPA E L’EDITORIA IN Età MODERNA. LA “RIVOLUZIONE” DELLA STAMPA – il libro esisteva da secoli in forma manoscritta. È un medium di importanza straordinaria in quanto veicolo di contenuti. Produce effetti che vanno oltre la diffusione e la conservazione di cultura. È con l’invenzione del libro a stampa che si ha una svolta: da un lato nasce l’uomo tipografico, che si approccia al sapere con uno sguardo particolare, e dall’altro nasce la “galassia Gutenberg”, in cui il sapere dell’umanità si è accumulato. dall’uso che si aveva di legare con una catena i libri perché fossero ricollocati, e presso le università. Si tratta di collezioni di codici manoscritti e di altri materiali manoscritti. A partire dall’Umanesimo, si ha una diffusione delle biblioteche private presso le case di importanti famiglie, che fanno del libro e del libro manoscritto un oggetto di collezione. Alcune collezioni private furono talmente rilevanti da diventare il nucleo fondativo di biblioteche ancora esistenti, e che nel loro nome denotano l’origine privata della collezione. Questo vale per la biblioteca trivulziana, che origina dalle collezioni della famiglia dei Trivulzio, oggi proprietà del comune di Milano e ospitata presso il Castello Sforzesco, che possiede opere a partire dall’ottavo secolo. Sono frutto di un’attività di raccolta derivante da uno spirito collezionistico, oltre che dall’amore e passione per la cultura. Molte delle opere della trivulziana sono editiones principes, ossia la prima versione a stampa di antichi codici manoscritti. La biblioteca Magliabechiana di Firenze costituisce la parte più pregiata e antica della biblioteca nazionale centrale di Firenze, derivante dal collezionismo e dalla cultura di Antonio Magliabechi, un erudito e collezionista e lasciò a Firenze la sua raccolta di 30mila volumi, con il compito di destinarla alla funzione pubblica. Ancora la biblioteca Medicea Laurenziana, sempre a Firenze, deve questo nome al fatto di derivare dal collezionismo librario della famiglia Medici e dall’essere accessibile dai chiostri della Basilica di San Lorenzo (laurenziana). Ciascuna di queste biblioteche e raccolte ha una specificità: nel caso di quella medicea ci si trova di fronte ad una biblioteca che è cresciuta nel tempo, ma che dall’origine conserva un nucleo straordinario di codici manoscritti del passato. È anche la più grande collezione di papiri egiziani in Italia. Nel 5-600 le biblioteche diventano oggetto di riorganizzazione anche architettonica, e nascono delle biblioteche ospitate in edifici appositamente costruiti, ad esempio la biblioteca medicea laurenziana, ospitata in un edificio costruito da Michelangelo. Lo stesso discorso vale per la biblioteca marciana di Venezia e quella vaticana di Roma. Queste grandissime biblioteche, centri unici del sapere e di conservazione del sapere, non esauriscono il collezionismo librario, che con la diffusione del libro e l’abbassamento del suo costo, l’aumento delle opere e la diffusione della cultura contagiò anche delle personalità appartenenti di estrazione sociale media. La proliferazione delle biblioteche private è denotata dalla diffusione di istruzioni per la raccolta e conservazione dei libri, oppure dal fatto che nei lasciti ereditari si trovino a volte piccole, medie o grandi collezioni di libri. L’età dell’oro delle biblioteche è fra 6-700 e non avrà fine: diventa l’istituzione più qualificata per conservare il sapere scritto. Il 6-700, come anche per i musei d’arte, è il secolo in cui si passa dalle grandi collezioni private a nuove funzioni da parte delle biblioteche. La biblioteca ambrosiana, a Milano, fu fondata dal cardinale Federico Borromeo nel 1609 per rendere disponibili a chiunque sapesse leggere e scrivere, con uno scopo di servizio universale, una raccolta di tutti i prodotti culturali a stampa il cui nucleo originale era costituito dalla collezione della famiglia Borromeo. Creò anche un’istituzione permanente, la Veneranda biblioteca ambrosiana, e la dotò di mezzi per il suo funzionamento, oltre che costruire una sede propria, presso l’Unicatt. Grazie ai finanziamenti, la biblioteca poté costituire delle nuove raccolte, mandando degli emissari per il mondo a raccogliere manoscritti stampati e disegni di ogni area culturale. L’apertura al pubblico avvenne in dicembre, all’epoca il patrimonio conteneva circa 30mila opere a stampa e 8mila manoscritti. Questo indica che al di là delle finalità di godimento individuali e di crescita delle conoscenze individuali, l’obiettivo era di creare un crocevia fra culture, tant’è che nello stesso palazzo della biblioteca venne creata una pinacoteca e un’accademia di studi con lo scopo di favorire lo studio delle culture in senso lato. Il 6-700 è anche il periodo in cui nasce la biblioteconomia, una disciplina che si occupa degli aspetti pratici e teorici legati alla conservazione e all’accessibilità delle informazioni scritte, e quindi nell’epoca digitale di oggi, le biblioteche con le loro competenze nel campo documentario, stanno assumendo una funzione decisiva nella validazione della qualità della documentazione, per fini culturali o scientifici. Si occupa anche dell’organizzazione fisica dello spazio: con l’esplosione delle raccolte i libri diventano inaccessibili qualora non ci siano modalità di esposizione che ne garantiscano la buona conservazione nel tempo (volumi di grande pregio) e la catalogazione, e la predisposizione di servizi al pubblico, allora limitati, ma che poi crescerà e oggi comprende una variegato insieme di lettori. Un’altra evoluzione si ha nel 6-700-800 delle collezioni reali o palatine in biblioteche nazionali, che avevano a loro volta un’altra funzione, di conservare nel tempo tutta la produzione culturale in forma scritta di un Paese. Per questo fu creato, in tempi diversi, l’istituto di deposito legale: ogni stampatore ha l’obbligo di depositare un certo numero di copie presso la biblioteca nazionale. Mentre le biblioteche nascono prevalentemente da iniziative private, individuali e poi si trasformano in istituzioni pubbliche, il libro incontra anche la reazione delle autorità laiche ed ecclesiastiche. Un tipo di intervento nei confronti del libro e del suo potere culturale è stato regolatorio e censorio, quasi usato come strumento di politica culturale, prevalentemente in negativo. Altri strumenti invece che vennero usati dalle autorità per promuovere il nuovo medium sono stati la concessione ad editori di brevetti e privilegi librari. Un’istituzione influente in materia di editoria è stata la censura. Anche oggi esistono limiti alla libertà di pubblicazione, per esempio a difesa della privacy, che non vengono applicati necessariamente dalle autorità pubbliche: magari gli stessi motori di ricerca o i social media censurano i contenuti violenti o offensivi. Il tema della censura è quindi persistente, che regola e condiziona la circolazione e produzione dei materiali culturali, in particolare a stampa. La censura si pone al crocevia tra i rapporti fra politica e cultura, tra religione e scienza, tra istituzioni e morale pubblica. La censura è talmente influente da suscitare a volte l’accondiscendenza e altre la resistenza di librai e tipografi perché pone limiti sia nella fase di produzione editoriale e di stampa, sia nel possesso di libri da cui prendere spunto. La censura ha diverse fonti: c’è una censura ecclesiastica durata secoli, che oggi non opera quasi più e che aveva diverse motivazioni, diverse anche da quella pubblica. La chiesa temeva l’eresia, le dottrine non conformi all’ortodossia, o anche la magia e l’occultismo, quelle pratiche e teorie connesse con l’esistenza supposta di forze e poteri oscuri, non conoscibili né spiegabili scientificamente. Ancora l’intervento restrittivo della chiesa era legato alla conservazione della moralità, al timore che i lettori leggano direttamente le sacre scritture e che non avessero gli strumenti per interpretarle rettamente, per cui occorreva il filtro delle autorità religiose e degli ecclesiastici, che avevano una formazione ad hoc. Di conseguenza per secoli la lettura e il confronto diretto delle scritture non fu autorizzato. Fra gli strumenti per gestire la cultura e applicare forme di censura da parte della chiesa vi è l’inquisizione, un’istituzione di origini medioevali che nel 500 si struttura più solidamente nella forma dell’inquisizione romana, che ancora oggi ha il compito di vigilare che le dottrine dei fedeli ed ecclesiastici siano fedeli all’ortodossia. L’inquisizione ha una storia che è consistita anche nell’applicazione di metodi violenti, tortura, condanna a morte di un notevole numero di persone “eretiche”, ma la sua storia è fatta anche di procedure formali, di processi che prevedono l’intervento di testimoni, l’acquisizione di prove, la loro dimostrazione in un consesso pubblico. L’altro strumento usato era l’indice dei libri proibiti: elenchi di libri prescritti dalle autorità religiose, come l’indice paulino, promulgato nel 59 e altri elenchi diocesani (l’indice pubblicato a Venezia nel 1564, un indice approvato al Concilio di Trento applicabile a tutte le diocesi). Anche il mondo protestante non è stato esente da censura nell’epoca delle guerre di religione. Questa censura si rivelò altrettanto intollerante di quella cattolica ma mancando un’unica autorità che vigilasse su tutta la cristianità, fu meno efficace e fu possibile più spesso da parte dei tipografi e stampatori aggirarla. L’elenco dell’Indice Paolino (Cathalogus librorum haereticorum) era diviso in tre parti: autori (proibite tutte le loro opere), libri (126 titoli di 117 autori) e opere anonime (332 opere). Vi erano inoltre elencate tutte le Bibbie nelle lingue volgari, in particolare le traduzioni tedesche, francesi, spagnole, italiane, inglesi e fiamminghe. Veniva condannata l'intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi) di cui erano proibiti tutti i libri, anche quelli riguardanti argomenti non religiosi, in qualsiasi lingua e di qualsiasi autore, così da scoraggiare gli editori a pubblicare autori protestanti di lingua tedesca. Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di magia cerimoniale. Tra i libri inizialmente proibiti c'erano: il Talmud, tutte le opere di Luciano di Samosata, di Agrippa Nettesheim (ritenuto principe dei maghi neri e degli stregoni, anche se riuscì a sfuggire all'Inquisizione; nella sua opera principale, il De occulta philosophia, descrive la magia «la vera scienza, la filosofia più elevata e perfetta, in una parola la perfezione e il compimento di tutte le scienze naturali»), di Ortensio Lando, di Guglielmo di Ockham, di Niccolò Machiavelli, Il Novellino di Masuccio Salernitano, il Decameron di Giovanni Boccaccio e il De Monarchia di Dante Alighieri. Diverse erano le motivazioni della censura laica e gli strumenti: si è di fronte ad una restrizione della libertà di stampa. In GB la libertà di stampa fu concessa solo a stampatori di Londra, Oxford e Cambridge. La preoccupazione dei governi laici si accentua con la nascita dei giornali, che si occupano di questioni concrete e di opinioni politiche. Hanno una circolazione tale da preoccupare le autorità: di conseguenza furono messe in atto forme di controllo molto più incisive. Anche il teatro fu materia di preoccupazione: nell’800 tra il pubblico sedevano commissari di polizia e prima di mettere in scena un’opera le autorità pubbliche vigilavano. Questo perché le opere teatrali erano rivolte anche a pubblici non alfabetizzati, e potevano veicolare idee sediziose. La presenza costante della censura laica ed ecclesiastica fa sì che non si percepisca, ma inibisce gli autori e i creativi che mettono in atto preventivamente forme di autocensura. La storia del libro è fatta anche di sistematiche violazioni delle restrizioni: molti studi approfondiscono come libri anche proibiti circolavano in forme diverse, anteponendo il frontespizio di un’altra opera. Si parla di contrabbando librario: circolano in forma nascosta opere proibite o per contenuti licenziosi o politici. Vi sono anche canali ufficiali per bypassare la censura: le biblioteche universitarie erano autorizzate a possedere i libri proibiti per ragioni di studio. L’assunto era che gli eruditi avevano gli strumenti per studiare ma non cadere in errore. IMPRESE E MERCATI DEL LIBRO NELL’EUROPA MODERNA – attorno al libro si sviluppa una lunga filiera (le fasi che si distinguono in imprese che conducono al libro finito o ad altri prodotti a stampa finiti) che prende avvio dalla produzione delle materie prime, quindi dalla produzione della carta, e che si regge sull’operato di professioni intellettuali sia antiche che nuove. Intellettuale è anche la professione dei tipografi, o di quelle figure che affollano le botteghe della tipografia: i torcolieri, che gestiscono il torchio, il battitore, che dà l’inchiostratura o il compositore, che compone il testo con i caratteri mobili. Altra figura importante, che presiede al design tipografico è il punzonista, che disegna e fonde i caratteri mobili, spesso di provenienza dall’oreficeria. Poi vi sono i correttori di bozze: la delicatezza del lavoro del tipografo sta nel fatto che l’errore, non corretto, si riproduce in centinaia o migliaia di copie. A valle della produzione del manufatto tipografico vi sono poi coloro che lo smerciano, i librai, e che ne promuovono le vendite; con la nascita delle biblioteche, la figura del bibliotecario, dei conservatori e dei gestori dell’informazione. Con la proliferazione dei nuovi media, come i giornali, nasce la figura del giornalista. Il libro regge un settore vastissimo di professioni e di attività, di strumenti di carattere culturale, intrinseco alla storia della cultura. È una vera impresa: la tipografia prevede un’articolata divisione del lavoro al suo interno, descritta dalle tavole, dalle descrizioni delle enciclopedie 700esche. Fino al 700, dal punto di vista dei ruoli dell’imprenditore, il tipografo è anche editore e stampatore e libraio, cioè colui che si occupa dell’impressione, della stampa della produzione fisica del libro, è anche colui che seleziona gli autori, ed è colui che smercia e colloca il prodotto. La figura più rilevante è quella dell’editore-stampatore anche libraio, cioè nella sua bottega o nelle filiali smercia i prodotti da lui stesso stampati e promossi. L’imprenditore si pone rispetto al prodotto stampato e ad alto valore culturale come ad una merce: ne segue tutte le fasi e deve sviluppare una competenza su molteplici fronti di carattere tecnico (inchiostratura, scelta dei caratteri, fusione dei caratteri), ma deve reperire anche i capitali; si occupa di mantenere le fila dei rapporti tra tutti i soggetti della filiera e con le autorità, che hanno un occhio particolare di riguardo e diffidenza verso i libri, e con le istituzioni corporative, cioè le organizzazioni di settore a cui tutte le tipografie devono fare riferimento, gli spedizionieri e i lettori. A monte di tutto spesso è anche un uomo di cultura, quindi può essere definito “imprenditore culturale”. Dall’invenzione della stampa a caratteri mobili all’età moderna l’editoria ha fatto enormi progressi, determinati dall’evoluzione della letteratura, della cultura, dalle condizioni economiche e dalle vicende politiche. Si possono notare delle linee di tendenza dell’evoluzione del prodotto tipografico, nella storia materiale del libro. Questa evoluzione va attribuita ad alcune importanti figure di tipografi innovatori: Aldo Manuzio a Venezia nel 500 e Giambattista Bodoni nel 7-800. Il loro ruolo nel definire nuovi formati editoriali e nuovi caratteri di stampa è talmente importante che le loro edizioni sono ancora definite edizioni aldine e bodoniane. In generale, la stampa è servita per permettere una crescente articolazione del sapere, nei formati, nei prezzi, nei destinatari. Questa diversificazione depone a favore del ruolo della centralità delle immagini è totale nel caso delle enciclopedie settecentesche. Nell’economia di queste opere le immagini hanno un ruolo chiarificatore delle descrizioni narrative e testuali. Vi sono prodotti tipografici diversi dal libro: stampe popolari, spesso commercializzate dai venditori ambulanti, immagini di santi, stampe satiriche destinate alla popolazione analfabeta. Nel campo delle stampe rientrano anche le carte geografiche e gli atlanti. In età moderna nasce il settore della stampa periodica. È un fenomeno molto ampio, che sta vivendo oggi una rivoluzione passando al digitale, e che non solo ha visto il moltiplicarsi delle iniziative editoriali, ma ha visto crescere esponenzialmente il pubblico dei lettori, anzi ha creato il pubblico. L’origine delle pubblicazioni periodiche sta nelle prime gazzette e corrieri, negli avvisi o giornali letterari. Sono tipologie diverse: i giornali letterari o scientifici si rivolgevano ad una élite di culti. Le gazzette e i corrieri erano più ufficiali e nascono inizialmente per comunicare notizie che riguardano la vita politica, soprattutto le notizie sugli altri Paesi. Gli avvisi contenevano notizie più spicciole e utilitaristiche. Alcune caratteristiche comuni di queste comunicazioni periodiche: • i contenuti, che potevano essere di breve durata, poiché le pubblicazioni erano periodiche e si prestavano anche a dibattere opinioni e controbattere immediatamente, quindi diventava luogo di formazione del dibattito pubblico; • la periodicità, che ha implicazioni in ordine dei contenuti e della costruzione di questo strumento perché presuppone una redazione stabile, dei compilatori stabili, una rete di corrispondenti. L’impresa della stampa è diversa da quella del libro: chi compila un giornale, il redattore, deve essere impegnato continuativamente, da qui ha origine la professione del giornalista. Diverse anche le modalità di lettura perché, essendo notizie di breve durata, la lunghezza di questo strumento è molto breve e da un giorno all’altro la notizia è destinata a invecchiare e il giornale gettato. Nel 7-800 aumentano le notizie utili a qualunque fosse il pubblico, relative all’organizzazione delle fiere e dei mercati, le loro date, all’oscillazione dei cambi delle valute oppure alla pubblicazione di avvisi provenienti dalle aste e compravendite, o comunicati dei tribunali commerciali per la messa all’incanto di terreni, imprese fallite, famiglie senza eredi. Nel 700 il mondo dei periodici diventa la piattaforma su cui si svolge e che permette di amplificare il grande movimento dell’Illuminismo, di cui i periodici amplificano le eco. A maggior ragione questo avverrà con la rivoluzione francese e i relativi cambiamenti politici. Il 7-800 vedono l’incremento del numero di testate e delle tirature. Dal punto di vista economico e imprenditoriale, quello della stampa diventa un settore impegnativo, a sé stante, ha proprie imprese, tecnologie e imprenditori. Se si segue la proliferazione delle testate, si osserva che è sempre maggiore la specializzazione: nell’800 vi sono giornali che hanno contenuti mirati e dedicati. Il “Corriere ordinario” è la più antica gazzetta pubblicata in italiano in territorio asburgico. Uscì dal 1671 al 1721, dapprima per cura di Hacque e successivamente presso van Ghelen, cognato del precedente. Per qualche decennio i medesimi tipografi produssero anche il «Cursus ordinarius», gazzetta pubblicata parallelamente al «Corriere ordinario» e da considerare come versione latina del foglio italiano, a conferma dell’importanza che a Vienna si attribuiva alla diffusione regolare di notizie in una lingua differente dal tedesco. Ogni settimana, il mercoledì e il sabato, uscivano due unità periodiche: il Corriere ordinario, dedicato quasi esclusivamente agli eventi internazionali, e l'annesso Foglio aggiunto all'ordinario che riportava notizie sull’Impero e sulla stessa Vienna, assieme ad altre informazioni estere. Seguiva a volte un Foglio (o Foglietto) straordinario, che raccoglieva ulteriori notizie o spesso una lunga relazione su un unico evento particolarmente rilevante. Ciascuna delle tre componenti della gazzetta era costituita da una singola carta in-folio, impressa a una o due colonne. Per la conservazione in volume si stampava ogni anno un frontespizio intitolato Avvisi italiani, ordinarii e straordinarii. Il «Corriere ordinario» era sostanzialmente una gazzetta ufficiale, protetta da privilegio di stampa e contenente una selezione di informazioni fortemente controllate dalla censura. Queste, non da ultimo grazie all’unione nella medesima gazzetta di notizie internazionali ed interne, rappresentavano l’Impero e l’Austria come aree coese sul piano politico e culturale. Le notizie interne, prevalentemente incentrate sulla vita di corte e non di rado attente alla segnalazione di spostamenti di personaggi illustri dalla capitale o verso la capitale, potevano comprendere anche la registrazione di eventi periferici, ad esempio cronache locali. In Italia il foglio austriaco (come altre pubblicazioni non periodiche stampate a Vienna) fu una risorsa importante per conoscere notizie sull’Europa Centrale e Orientale. Venne utilizzato anche come fonte per compilare altre gazzette, a partire da alcuni periodici specializzati in informazioni di tipo militare in cui sovente si ristampavano le notizie o le relazioni che, nei periodi di guerra, occupavano assiduamente le pagine del «Corriere ordinario», diffondendo corrispondenze dettagliate dalle zone di operazione. LA GEOGRAFIA DELLA PRODUZIONE EDITORIALE – uno dei centri principali della produzione editoriale fu Venezia. L’industria veneziana del libro era molto articolata: nel 500 si arriva a 500 stampatori ed editori. Emerge un’organizzazione capitalistica, nel senso di un collegamento stretto tra finanziatori e imprenditori, anche di un’impresa culturale, ove lo scopo culturale e la natura del business del libro. Anche i mercanti finanziano quest’attività capitalistica nel senso della vasta proiezione nei mercati della produzione dei libri veneziani. Venezia beneficiò anche nel settore della tipografia dell’immigrazione dall’estero, essendo un ponte tra Oriente e Occidente. Ospitò tipografie che producevano per tutto il mondo: è una produzione multilingue consona ad una città che era un porto di mare verso il mediterraneo e l’Oriente. L’interesse per l’oriente, che si traduce in pubblicistica di tipo naturalistico, legata alle esplorazioni geografiche, cresce con la scoperta del nuovo mondo, che suscita molta curiosità e determina l’afflusso nelle città di porto, che fungevano da poli nei nuovi porti tra le nuove terre, di un’enorme quantità di informazioni, che i tipografi intercettavano e traducevano in opere scritte. L’industria del libro tipografica fa da trampolino di lancio per queste informazioni che giungevano da lontano diffondendole in Europa. Tra i molteplici stampatori che avevano una proiezione internazionale, uomini colti e raccordati al mercato, emerge il più celebre stampatore ed editore di tutta l’età moderna, Aldo Manuzio, che aprì la sua tipografia nel 1490 a Venezia, e che è ricordato per una serie di innovazioni: • il libro tascabile per divulgare i classici latini e italiani, con apparati di corredo modesti o assenti per ridurne il costo. • L’introduzione del corsivo, insieme all’artigiano Francesco Griffo; • l’idea di presentare anche lontano l’insieme delle proprie edizioni attraverso un catalogo a stampa; • il carattere despecializzato delle imprese tipografiche veneziane. Coltiva la clientela più facoltosa con edizioni lussuose ancora commercializzate nel mercato d’antiquariato per la loro altissima qualità. Libri de re rustica (Venezia, 1514) è uno degli ultimi lavori del celebre stampatore veneziano. Si tratta di una raccolta di testi agronomici classici (dal sec. II a.C. al sec. IV d.C.) che in passato era circolata in forma manoscritta. Contiene i lavori: Marcus Porcius Cato [Catone] De agricultura; Marcus Terentius Varro [Varrone]. Rerum rusticarum libri tres; Lucius Junius Moderatus Columella [Columella], De re rustica; Rutillius Taurus Aemilianus Palladius [Rutilio Palladio], De re rustica (1514). I testi erano circolati anche singolarmente in forma di preziosi codici miniati. Manuzio non fu il primo: la raccolta dei quattro testi agronomici dell’antichità fu data per la prima volta alle stampe nel 1472, a Venezia, a cura di da Jenson. Dopo essere stati veicolo di cultura, libri come questo divennero oggetto di interesse antiquario. Venezia è stata sede di grandi novità: qui fu pubblicato il primo Corano in arabo, il primo talmud ebraico, il primo libro in armeno, in greco, cirillico e bosniaco. Si pubblicano i primi libri in tantissime lingue e caratteri del mondo. Ha visto la luce a Venezia anche il primo libro di musica stampato con caratteri mobili, il primo trattato di architettura illustrato, il primo libro di giochi e il primo libro pornografico, il primo libro di cucina, di arte militare, cosmetica, geografia a stampa. Venezia era in grado di stampare in qualsiasi lingua e qui vennero pubblicati per lungo tempo la metà dei libri pubblicati nell’intera Europa. Questo era dovuto ad una tradizione di tolleranza culturale che permetteva l’affluire di culture, lingue, persone appartenenti ad ambienti diversi. Questa tradizione si interruppe a metà 500 per effetto della controriforma e a causa dell’imposizione di durissime limitazioni alla stampa e dell’avvento di un clima di sospetto con gli interrogatori ai librai, dell’emigrazione di stampatori, del trasferimento degli investimenti dei mercanti verso altri settori meno pericolosi, come i libri di devozione, la grande tipografia veneziana si stava orientando per un mercato più periferico, più nazionale e regionale. L’inquisizione, nei primi decenni, colpì ingiustificatamente anche settori che non avevano nulla di eretico. Nel 1547 viene istituita l’Inquisizione; nel 1548 si segnalano roghi di libri; nel 1549 viene stilato il Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia (149 opere tacciate di eresia: teologi protestanti, primi riformati italiani e di area valdese, classici della polemistica antipapale). La proibizione non fu applicata per l'opposizione di librai e tipografi. Tra gli stessi inquisitori non mancarono riserve, come nel caso del domenicano Michele Ghislieri (futuro papa Pio V). Il clima di Venezia viene controbilanciato durante il 600 dall’ascesa economica, culturale ed editoriale dell’Olanda e della sua capitale Amsterdam, che diventa l’equivalente di Venezia con dei tratti particolari. Il legame più evidente è quello con il commercio internazionale: ad Amsterdam, come a Venezia, affluiscono informazioni, ad Amsterdam si guarda per avere notizie da tutto il mondo conosciuto. Vi è un legame stretto tra le espansioni geografiche coloniali e lo sviluppo dell’industria della stampa. Il secondo fattore è legato all’assetto politico-culturale: l’indipendenza conquistata dalla Spagna permette all’Olanda di rivendicare una sua specificità culturale nel segno della tolleranza, della multiculturalità e del multilinguismo. Amsterdam diventa il principale centro di pubblicazione di libri in Europa e di giornali, che diventano la nuova modalità di comunicazione, in cui si tratta anche di politica, nei quali fa la sua prima apparizione l’opinione pubblica: è uno spazio pubblico destinato a discutere gli argomenti considerati dal potere come pericolosi. Ad Amsterdam nascono i primi giornali o gazzette che poi faranno scuola in tutto il mondo. Un altro elemento particolare è l’importanza della produzione editoriale peculiare degli atlanti: è un genere che presuppone competenze, informazioni, informatori e attrezzature, perché la stampa di atlanti richiede tecniche diverse da quella dei libri o altri materiali. La conferma dell’importanza della cartografia a stampa in grandi formati la si nota in molte rappresentazioni artistiche e dipinti, nei quali, dietro al soggetto principale c’è una carta geografica a parete, stampata e poi colorata a mano. Un terzo centro che assume una rilevanza internazionale è Londra nel 700. I motivi di questo primato sono simili a quelli per cui Amsterdam e l’Olanda erano divenuti nel 600 importanti centri di produzione del libro: i livelli di ricchezza, il numero di lettori, una vita culturale più vivace, la necessità di fornire ad un impero molto vasto dei mezzi di comunicazione, l’afflusso a Londra di una quantità continua di informazioni provenienti dal resto del mondo, la struttura politica che permette una certa libertà di discussione, una monarchia parlamentare. Queste ragioni politiche ed economiche portano gli editori a sviluppare anche delle peculiarità: una progettualità ambiziosa, cioè la messa in cantiere di edizioni di grandi opere in molti volumi e con molti collaboratori da remunerare e con tavole illustrate che richiedevano un lavoro grafico di incisori e disegnatori. Il costo di queste opere non poteva essere sostenuto dal singolo imprenditore e tipografo e di conseguenza si svilupparono delle associazioni o società di stampatori che sostenevano queste grandi opere. Per cautelarsi dal rischio dell’invenduto, questi progetti furono proposti raccogliendo sottoscrizioni prima che l’opera fosse realizzata: in questo modo ci si garantiva del collocamento di un certo numero di copie dell’opera. Il carattere organizzato di queste opere rese necessario assoldare degli autori che curassero la loro implementazione. Insieme ai giornali, le grandi opere diventano l’occasione per la professionalizzazione del mestiere dello scrittore. Il richiamo a Parigi mostra come la storia della filiera del libro si intreccia con le vicende generali della società e della politica. L’importanza di Parigi dal punto di vista editoriale è legata alla vivacità della vita culturale della città. L’aristocrazia è interessata ai dibattiti culturali: sono numerosi i salotti letterari, i circoli, frequentati dall’aristocrazia che fa delle discussioni di argomenti più diversi una dei comportamenti distintivi. Prima della rivoluzione, Parigi è sede di pubblicazione di diversi giornali: la produzione polemistica in forma di pamphlet accelera in concomitanza degli eventi rivoluzionari dell’89, il che contribuisce a generare quello spazio di discussione permanente dell’opinione pubblica. Questo si traduce in elementi comuni all’Olanda e GB, ma ha anche elementi particolari: l’importanza dell’Illuminismo e poi delle idee rivoluzionare producono riflessi anche sul piano editoriale. Il monumento
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