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Storia economica globale del mondo contemporaneo, Appunti di Storia Economica

Appunti di storia economica attuale. Si ripercorre la storia del commercio fino ai giorni nostri

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 27/11/2022

thiago.parisio.51
thiago.parisio.51 🇮🇹

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Scarica Storia economica globale del mondo contemporaneo e più Appunti in PDF di Storia Economica solo su Docsity! Storia economica globale del mondo contemporaneo – Fumian e Giuntini Introduzione Nel corso dell’ultimo ventennio la storia globale ha raggiunto una piena maturità in seno alla storiografia internazionale. La fine della Guerra Fredda (1991) e i successivi sviluppi degli scenari mondiali hanno costituito un formidabile trampolino di lancio anche per una profonda revisione del modo stesso di studiare la storia. Lo sguardo che lo storico rivolge al passato è fortemente condizionato dalla realtà che lo circonda e nella quale opera. Si sono così moltiplicati studi e riflessioni, hanno visto la luce riviste che fin dal titolo esplicitano il riferimento alla storia globale e sono nati, prevalentemente negli Stati Uniti ma non solo, centri di ricerca specializzati e cattedre dedicate. Quanto è stato fatto si deve soprattutto alle nuove leve di storici, spesso formatisi in ambito internazionale e più pronti a cogliere il senso della novità storiografica. Alcuni di loro sono fra gli autori di questo libro. Complessivamente però è ancora indubbio che i temi di storia nazionale ancora dominino il campo degli interessi di ricerca. Ciò è dovuto probabilmente anche alla scarsa propensione della disciplina a contaminarsi: troppo pochi sono gli scambi e le influenze con le storiografie di altri Paesi. Eppure la materia si presta in maniera del tutto conveniente ad un’analisi basata su un approccio globale. Studiare la storia economica globale non significa solo allargare il raggio geografico e confrontare diverse esperienze, ma anche rinnovare l’apparato concettuale. Sotto il profilo del metodo, la storia globale si connota innanzitutto per una scelta di campo molto precisa: l’abbandono dell’obsoleta visione eurocentrica che tendeva a porre in una posizione di preminenza la storia dell’Occidente, soprattutto europeo (relegando le vicende delle altre civiltà in una condizione gregaria, spesso addirittura trascurata fino alla sparizione dai libri di storia), a favore dunque di una nuova storia policentrica. Viceversa la storia globale diffida di ogni teleologismo: attraverso l’analisi di intrecci e interconnessioni e l’apertura a spazi più ampi possibile l’orizzonte geografico e tematico spostando il punto di vista usuale e fornendo al tempo stesso nuove angolazioni problematiche e interpretative, si attua il superamento del dogma dell’unicità del ruolo svolto dal mondo occidentale, a favore di una visione più articolata e rispondente alla complessità dei processi storici. Applicato in ambito economico un principio del genere ci spinge a rivedere la narrazione standard e a rifiutare le gerarchie analitiche tradizionali che privilegiano un plurisecolare cammino europeo verso il dominio del mondo. Lo sviluppo economico dunque non è visto più come frutto degli impulsi provenienti da un’unica area e da un’unica civilizzazione, bensì come risultato di contatti plurimi, che lo contaminano e lo piegano in una interazione reciproca costante. Il protagonismo e la mediazione occidentale non sono più, per la storia economica globale, la pietra angolare del cambiamento economico (pur senza nulla togliere alle peculiarità del percorso di sviluppo intrapreso dall’Europa a partire dalla fine del XVIII° secolo): essi piuttosto appaiono come le tessere di un mosaico composito, nel quale non si riconoscono primazie assolute. Ogni esperienza economica extra-occidentale offre un contributo indispensabile alla comprensione complessiva del percorso dell’economia senza preconcette distinzioni cronologiche né spaziali. Idee, fatti e processi economici circolano, si confrontano, si plasmano gli uni con gli altri, si ibridano e assumono forme diverse che, in ultima analisi, risultano leggibili solo con l’adozione di una visione per l’appunto globale. Se intendiamo le trasformazioni storiche in questo modo, allora il rapporto centro-periferia, così come è stato inteso finora, si ridimensiona e si trasforma in una dinamica continua di interconnessione fra spazi trasversali che non necessariamente ricalcano le logiche della sovranità e delle istituzioni politiche. Grazie a ciò altre aree del mondo oggi si guadagnano una visibilità maggiore e una pari dignità storiografica rispetto alle regioni e ai Paesi più avanzati. La storia economica globale rappresenta una liberazione dalla camicia di forza delle storie nazionali e dell’esplorazione delle vicende su una base di rigida compartimentazione, in nome di una ormai irrinunciabile prospettiva transnazionale. La visione di rete caratterizza in modo deciso la storia economica globale. Superare la logica della fissità degli spazi permette di capire come flussi e traiettorie – del commercio come dei capitali, della tecnologia come delle persone fisiche – disegnino le dinamiche globali nel corso degli ultimi secoli. In questo modo è possibile leggere compiutamente i processi transnazionali e gli scambi che evidenziano il protagonismo a lungo nascosto di attori prima trascurati. In sostanza la storia economica globale modifica le coordinate spazio-temporali della visione della storia. Le connessioni e le interazioni hanno modellato il mondo moderno a livello globale, cioè al di là di una visione bidimensionale o anche comparativa, offendo una storia assai più aggrovigliata di quanto si sia inteso finora. Ciò non cancella l’azione dello Stato nazionale, tradizionalmente inteso, nel governare i cambiamenti globali, ma obbliga a riconsiderarne l’operato. Lo Stato si trova ad essere soggetto che regola e decide, ma al tempo stesso oggetto dei flussi che lo attraversano. Lo scambio dinamico delle interdipendenze diventa il motore che ridisegna gli Stati e le loro decisioni, influendo anche sulla percezione che se ne ha, a partire dallo spazio e dalla distanza. Lo studio della storia economica globale contribuisce all’affermazione di una nuova coscienza globale che ci pare superi l’hortus clausus della disciplina e permetta la costruzione di strumenti essenziali per i cittadini di domani. Uno dei primi effetti dell’affermarsi delle ricerche di storia economica globale è stato quello di ridiscutere le periodizzazioni tradizionali. Il volume prende le mosse dal XV° secolo, in quanto tappa fondamentale della costruzione di una prima rete di connessioni de facto planetaria, in ragione delle esplorazioni geografiche e delle loro formidabili sequenze di ricadute di natura economica, sociale e culturale. ma gran parte dell’attenzione dei capitoli si posa, poi, sul periodo storico successivo quando scambi, interconnessioni e contaminazioni si fanno norma e prassi imprescindibile alle attività economiche di ogni parte del mondo. I saggi sono legati da un impianto comune di condivisione del taglio generale, anche se ad ogni autore è stata lasciata la massima libertà di espressione. Dato che il manuale aspira a coprire la totalità delle epoche, è necessaria una selezione delle tematiche ritenute più adatte a descrivere il cambiamento economico nel lungo periodo in una chiave globale: il lavoro e i movimenti di popolazione; le dinamiche delle disuguaglianze; la creazione dei mercati globali; la diffusione e la contaminazione dei processi di industrializzazione; la trama transnazionale degli investimenti esteri; le forme istituzionali (politiche ed economiche) di governo dei processi di globalizzazione; il ruolo della scienza e della tecnica; le dinamiche della mobilità in rapporto allo sviluppo economico. La vasta Bibliografia invita ad approfondire ulteriori per ognuna delle tematiche affrontate nei singoli contributi. Merci e scambi globali (1400-1800) di Andrea Caracausi I.I una prima globalizzazione dei mercati? Si può parlare di una globalizzazione dei mercati in quella che, secondo le categorie della storiografia moderna è chiamata "prima età moderna"? In proposito gli studiosi hanno manifestato opinioni divergenti. Alcuni autori individuano nel Cinquecento un momento di passaggio cruciale. Wallerstein (1978-1995) ha postulato la configurazione di un vero e proprio 'sistema-mondo', basato sulla divisione spaziale del lavoro a livello internazionale e sull’egemonia dell’Europa Occidentale nei confronti di aree semiperiferiche, fornitrici di semi-lavorati e forza lavoro semi-coatta, e periferiche, produttrici di materie prime per il centro grazie a sistemi di lavoro basati sulla schiavitù. Inoltre, secondo Flynn e Giraldez (1995), l’inserimento delle Americhe negli scambi mondiali, e in particolare la circolazione dell’argento su scala globale, avrebbe creato un sistema sempre più interconnesso, un fenomeno destinato a intensificarsi dopo il 1571, con l’apertura della rotta attraverso Manila (Filippine) e il collegamento diretto fra Americhe e Cina. Queste interpretazioni non hanno mancato di suscitare ampie critiche. O’Rourke e Williamson (2002, 2005) hanno sostenuto a più riprese come non sia possibile parlare di globalizzazione prima della fine dell’Ottocento, perché solo le innovazioni tecnologiche della seconda rivoluzione industriale avrebbero reso possibile una convergenza dei prezzi dei generi alimentari su scala intercontinentale. Altri studiosi, invece, hanno addirittura proposto cronologie di più lungo periodo. Secondo Abu-Lughod (1989), già a partire dal Duecento si sarebbero create intense relazioni di scambi e interazioni fra le aree più avanzate dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. Crosby (1988), invece, ha anticipato addirittura di 5000 anni le basi della importazione nel corso del Settecento passò da 1838 a 11343 tonnellate l’anno, con un tasso di crescita annuo del 2,7%. I tessuti di cotone indiani erano infine esportati sui mercati europei, africani e americani, diventando – secondo diverse stime – fra le merci più importanti nel commercio mondiale. La maggior parte dei tessuti era lavorata nelle regioni del Gujarat a Ovest, del Punjab e Pradesh a nord e del Coromandel a sud-ovest: si andava dai prodotti di bassa qualità, tipici delle regioni occidentali, ai tessuti più pregiati (del Coromandel prima e poi anche del Bengala). Diversi nei colori e nelle fogge si adattavano alle esigenze di specifici mercati, con forme concrete di ibridizzazione materiale (Riello, 2013). Non meno importanti dei tessuti indiani erano le porcellane cinesi, esempio classico di bene desiderato sul mercato europeo per la qualità unica e la superiore capacità artistica degli artigiani orientali. Provenienti da un unico centro produttivo, Jingdezhen nella provincia dello Jiangxi, nel corso del Sei e Settecento almeno settanta milioni di unità di vasellame arrivarono in Europa per soddisfare la domanda europea, anche se non si deve dimenticare la quota di prodotto venduta sui mercati giapponesi e in quella dell’Asia sud- orientale (Gerritsen, 2011). Durante i secoli in esame, l’Asia, e in particolare Cina e India, rappresentava un ampio mercato per un’altra merce globale: l’argento. Fino alla metà del XVI° secolo il metallo richiesto proveniva in larga parte dalle miniere dell’Europa centrale e del Giappone. In seguito sarà l’America spagnola, con le miniere del Potosì nell’attuale Bolivia, di Zacatecas nel Messico meridionale e di altri piccoli centri, a produrre circa l’85% dell’argento mondiale che, una volta trasportato in Europa o dirottato tramite Acapulco e Manila nelle Filippine, raggiunge la Cina. Molto si è parlato del ruolo svolto da questo metallo; qui è bene ricordare come esso non debba essere considerato un semplice mezzo di pagamento di cui gli Europei avevano bisogno per compensare le importazioni dall’Asia, ma quanto invece rappresentasse una vera merce di cui necessitavano gli Imperi cinese e Mughal per alimentare le proprie economie, al tempo altamente monetizzate (Pomeranz, 2004, pp. 240-3). Il quadro delle merci qui dipinto non è certamente esaustivo e molte altre potrebbero essere incluse. Prime fra tutte gli schiavi, nella forma del chattel slaves: furono almeno 10 milioni coloro che riuscirono ad attraversare il 'passaggio di mezzo', uomini e donne acquistati sulle coste della Guinea e della Sierra Leone per essere venduti come merce ai proprietari delle piantagioni al fine di lavorare i beni di consumo richiesti in Europa. Schiavi (PAR I.3) che erano comprati sia con manufatti europei (armi, perline in vetro, tessili), che asiatici (in primo luogo le cotonine indiane) e che quindi entravano a pieno diritto all’interno di uno scambio di merci a lunga distanza. E, oltre agli schiavi, altri prodotti, sia alimentari che durevoli, dalle pellicce del Nord America alle uova di struzzo africane. Che cosa rendeva questi prodotti così richiesti sui mercati? Quali elementi concorrevano a renderli delle merci globali? Per quei beni provenienti dall’Asia e destinati all’Europa e alle Americhe, la rarità, l’essere esotico e la superiore qualità giocarono un ruolo decisivo, soprattutto nel caso dei cotoni stampati e delle porcellane. Queste merci erano in grado di mettere in relazione diverse parti del mondo e andarono ad incidere nell’organizzazione dei commerci e nella competizione fra i diversi attori coinvolti. Infine, questi beni ebbero numerosi effetti nella sfera della produzione e del consumo in molte aree che furono toccate dal loro passaggio. I.3 Le vie di traffico Le merci descritte precedentemente viaggiavano in larga parte da est verso ovest, e in misura minore, in senso contrario. Fin dall’Antichità, con alterne fortune, la via commerciale più frequentata era la famosa Via della seta, un articolato complesso di strade e percorsi marittimi che facilitava il commercio dal Sud della Cina fino al Mediterraneo. A dispetto di cataclismi, guerre e scorribande, gruppi mercantili di diversa origine e religione continuarono a giocare un ruolo centrale per tutto il periodo considerato dal presente capitolo. Dalle ceramiche cinesi della dinastia Ming ai tessuti in cotone prodotti nel Gujarat, dai diamanti di Golconda all’indaco del Coromandel, tutti questi prodotti circolavano per lo spazio euro-asiatico attraverso tappe e ritmi regolati dai venti e dalle stagioni. Il percorso era terrestre e marittimo, grazie a due vie, una complementare all’altra. Dalla Cina, e in particolare dai porti di Macao, Guangzhou (Canton) e Quanzhou, prodotti come sete, porcellane e riso raggiungevano, attraverso la via carovaniera, il mar Nero (e in particolare Caffa), dove erano scambiati in gran parte con schiavi provenienti dall’Ucraina, dalla Polonia e dalla Russia. In alternativa, i prodotti cinesi erano inviati via mare – grazie all’azione dei mercanti fujianesi – verso le isole delle Molucche. Qui nelle famose 'isole delle spezie', e in particolare da Aceh e Malacca, sulla punta meridionale della Malesia altri prodotti come pepe, cannella, noce moscata e macis erano acquistati da altri mercanti dell’Indocina che in seguito li portavano in India. Nei numerosi porti presenti nella costa orientale, come Surat e Bengala, e occidentale Calicut e Goa, così come nell’isola di Ceylon (Sri Lanka), a questi prodotti se ne aggiungevano altri, come cotone, indaco e diamanti, che potevano prendere due strade. la prima si addentava nel golfo Persico attraverso Hormuz, Bassora e Bagdad, per poi raggiungere Damasco e Aleppo; la seconda guardava al mar Rosso, e tramite Aden, le merci raggiungevano Il Cairo e Alessandria. Passando per queste regioni, le merci dell’Asia Orientale incontravano tappeti persiani e altri prodotti pregiati delle ricche zone mediorientali. Sempre dal Gujarat, poi, mercanti locali organizzavano scambi con le città Swahili delle coste africane, da cui importavano schiavi, avorio e oro (Parker, 2012, pp. 96-103). Negli avamposti del Mediterraneo orientale giungevano a questo punto le merci 'europee'; in primo luogo argento (dall’Europa Centrale e, in seguito, anche dalle Americhe), oro (importato dall’Africa), ma anche schiavi, avorio, coralli e qualche tessuto in lana, un prodotto assai richiesto nell’Impero Ottomano. Una volta acquistati, i prodotti europei, e in particolare oro e argento, ripercorrevano in direzione opposta la via indicata, in direzione di India e Cina. Quali erano gli elementi centrali del sistema appena descritto? Il primo era la necessità degli Europei di importare le merci asiatiche: in questo periodo è l’Europa a ricercare i più pregiati prodotti orientali, mentre la Cina e l’India necessitano soprattutto di argento, che diventa così un elemento chiave per il funzionamento degli scambi. Il secondo elemento è il carattere policentrico del sistema. Diversi erano infatti i gruppi mercantili che coordinavano questi passaggi, via mare i via terra, e nessuno di loro poteva vantare una chiara egemonia. Si ritrovano così mercanti fujianesi nel Pacifico, Indiani (Gujarati) e musulmani nell’oceano Indiano, Persiani, Armeni e Arabi nelle altre zone. Per le relazioni fra Asia ed Europa, poi, l’intermediazione effettuata dalle regioni medio-orientali svolgeva un ruolo centrale per l’andamento dei prezzi e l’offerta dei prodotti (Abbattista, 2002; Parker, 2012, p. 98). A partire dalla fine del XV° secolo, questa complessa rete degli scambi a lunga distanza fra Asia, Africa ed Europa si articolò grazie ad una seconda via, legata alla circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, ad opera di Bartolomeo Diaz (1488), e alla prima spedizione fra Lisbona e Calicut, guidata da Vasco da Gama (1498-1499). I fattori che causarono questa riconfigurazione furono molteplici, interni ed esterni all’Europa. Partendo da lontano, non si può non ricordare il cambiamento nelle prospettive politiche ed economiche dell’Impero celeste nei confronti dei commerci marittimi (cfr. anche PAR. I.4), a causa degli alti costi finanziari, dell’aumento della pirateria nei mari cinesi e delle scorribande mongole a nord della capitale. Un altro fattore fu l’espansione ottomana, dall’Anatolia ai Balcani, culminata con la conquista di città quali Bursa, Adrianopoli, Costantinopoli (1453), Caffa (1475) e regioni chiave come l’Egitto e la Siria nel 1517, dopo la caduta del regno mamelucco. Agli scontri in atto con i Veneziani nei mari del Mediterraneo orientale, elemento che concorreva ad aumentare i prezzi delle spezie, si associarono fenomeni interni all’Europa, legati alle prospettive espansionistiche di Portogallo e Castiglia alla fine del Quattrocento. Già negli anni Quaranta del secolo, l’esplorazione delle coste africane aveva portato a doppiare il capo Bojador (1434) e a entrare in contatto con la costa occidentale africana, con i primi carichi di schiavi e oro. L’esplorazione delle coste andò in parallelo con la costruzione di fortezze e i viaggi verso le 'isole delle spezie' continuarono fino alla già ricordata esperienza di Vasco da Gama. Una serie di roccaforti fra Lisbona e Goa, una volta diventata capitale dello Estado da India (1510), sarà la spina dorsale delle vie di scambio che passavano per l’Atlantico e l’oceano Indiano. È certo che non si verificò un’improvvisa riconfigurazione degli scambi esistenti attraverso il Mediterraneo, il golfo Persico e il mare d’Arabia. Da un lato i Portoghesi non riuscirono a monopolizzare tutte le vie di scambio, anche a causa della mancata conquista di Aden. Dall’altro i mercanti arabi e indiani continuarono ad incidere sui commerci, minando il sistema di permessi (cartazas) che i Portoghesi avevano progettato per controllare la navigazione nell’oceano Indiano. Ciononostante, la notizia dell’arrivo del pepe a Lisbona e i successivi rialzi dei prezzi indicano già una sorta integrazione dei mercati che diversi gruppi di operatori finanziari e commerciali cercavano di controllare. Ancor prima del ritorno di Vasco da Gama dal suo viaggio nelle Indie Orientali, un genovese al servizio del Regno di Castiglia, Cristoforo Colombo, era sbarcato in quelle isole dei Caraibi (1492) che rappresentavano per gli Europei un nuovo continente, l’America. L’inserimento delle Indie Occidentali all’interno dei circuiti di traffico richiese tempi ancor più lunghi della rotta orientale, vuoi per la conquista di un territorio sconosciuto, vuoi per la lentezza con cui alcuni prodotti, in primo luogo l’argento, entrarono nei circuiti globali. Di certo la circumnavigazione del globo ad opera di Magellano (1522) fece capire l’importanza della sfericità nel mondo E delle possibili connessioni nel Pacifico che nella seconda metà del secolo gli Spagnoli cercarono di attivare. Grazie ai galeoni di Manila (1571), Filippo II° organizzò un traffico che prevedeva l’invio in Cina dell’argento del Potosì, con l’obbiettivo di eliminare per sempre l’intermediazione musulmana nei traffici europei con l’Asia. Si venne così a creare un primo 'commercio triangolare' fra Canton, Manila e Acapulco, governato dallo scambio argento-seta fra la Cina e la Nuova Spagna, con ampie conseguenze sia per l’economia cinese (intensificazione delle produzioni seriche nelle regioni costiere) che per quella dell’America spagnola (colpendo le nascenti industrie seriche nelle regioni del Messico e le possibilità d’espansione per le produzioni iberiche). Manila, infine, diventò un mercato di transito che diede origine ad una società multiculturale che collegava la diaspora cinese con i galeoni spagnoli in partenza da Acapulco (Tremml-Werner, 2015). L’ingresso delle Americhe – e dell’Atlantico – negli scambi globali avrà effetti a lungo termine per l’Europa che non possono essere trascurati. Dal punto di vista delle vie di traffico un primo elemento è lo sviluppo di un commercio triangolare a partire dal XVII° secolo: i beni manufatti in Europa (tessili, armi e vetri) vengono esportati in Africa per l’acquisto di schiavi; questi ultimi, una volta attraversato il 'passaggio di mezzo', erano venduti come forza lavoro per le piantagioni di zucchero, caffè e tabacco; i prodotti coloniali, infine, saranno qui acquistati per essere inviati in Europa (Klein, 2014). Il commercio triangolare è comunque solo un segmento di un circuito più ampio. Argento, schiavi e tutti i beni 'esotici' prima ricordati entrarono in una serie di scambi più ampi, quasi 'a punta di diamante',, visto che molti dei prodotti asiatici (tessili indiani soprattutto) erano venduti non solo in Africa, ma anche nelle colonie inglesi e francesi, dedite in larga parte a una produzione monoculturale per i mercati europei (Pomeranz, 2004, pp. 412-8; Riello, 2013, pp. 137- 51). I percorsi finora tracciati dipendono molto dalle conoscenze acquisite dalla storiografia, legate in gran parte alla storia europea. Ricerche recenti hanno invece insistito sull’importanza di vie commerciali disgiunte dai commerci europei, ma che riguardavano ampie regioni del globo. Così, le connessioni legate al commercio russo di pelli, il mercato degli schiavi interno all’Africa, gli scambi commerciali nel Pacifico e quelli centrati sulle Filippine antecedenti all’arrivo degli Spagnoli (e comunque attivi anche in seguito) mostrano la vitalità e le connessioni di un mondo che spesso si alimentava anche senza la presenza 'occidentale' (Junker, 1999). Tutti questi scambi erano regolati dai venti e dalle condizioni climatiche. Fino all’Ottocento inoltrato, quando la tecnologia permise di superare queste difficoltà, i ritmi del commercio globale erano governati dai monsoni nell’oceano Indiano (che spingevano da sud-ovest a nord-est in primavera ed estate e in senso contrario in inverno), dalle bonacce e dagli alisei nell’Atlantico, la cui noncuranza avrebbe comportato gravi opportuno constatare come reti e gruppi di persone siano riusciti a controllare, talvolta unendosi altre volte scontrandosi, determinati mercati, influenzando le rispettive economie, piuttosto che elaborare leggi immanenti, ma prive di legami con i rispettivi contesti. I.5 Mercanti, tribunali, reti Governare gli scambi su scala globale richiedeva coordinazione, ingegno e caparbietà. Bisognava far fronte soprattutto a lunghe attese: per il carico che s’imbarcava e che sarebbe tornato, il più delle volte, dopo un anno; per le voci che giungevano sulla piazza, talvolta portatrici di sventura per qualche naufragio o fallimento. Come potevano i mercanti controllare quegli scambi, in un mondo dove incertezza, informazioni limitate e costi di transazione erano sempre più alti? Ancora una volta la famiglia fu la soluzione più immediata, anche nel caso dei commerci transoceanici. Jean Pellet negoziante di Bordeaux, fondò una compagnia col fratello Pierre che andò a risiedere in Martinica. Dal 1718 al 1730 la società fece molti affari, che andarono aumentando dal 1733, quando il solo Jean coordinava una rete per la produzione del commercio del vino con numerosi porti europei e atlantici. Quando erano necessari ulteriori legami, come ad Amsterdam, la famiglia diventava ancora una volta uno strumento naturale e ricercato, grazie al cognato Guillaume Nairee, colà residente (Braudel, 1981, pp. 136- 7). Un figlio, un parente, un cognato: vincoli e legami familiari, tessuti talvolta tramite alleanze matrimoniali studiate a tavolino, si rivelavano gli strumenti più ricercati. Non sempre, però, erano sufficienti: non solo perché i membri della famiglia potevano potevano essere inetti e incompetenti, ma anche perché la fiducia poteva essere mal riposta, dando così origine a molte frodi e fallimenti. Infine il numero dei componenti della famiglia era talvolta limitato rispetto alle necessità spaziali e merceologiche del commercio. Come si poteva, dunque, ovviare a tutti questi limiti? Il contratto di agenzia e la figura dell’agente commissionario sono stati il mezzo più comune e diffuso nei commerci a lunga distanza. Tramite una procura o una semplice lettera, un Mercante conferiva a un corrispondente in un’altra piazza la facoltà di vendere o comprare una determinata merce. L’agente, che lavorava per più mercanti, era remunerato solitamente con una percentuale sulla vendita, a seconda della piazza o della merce trattata. L’aspettativa di guadagno e di future commissioni era l’elemento principe (Trivellato, 2016, pp. 207-9). Come, però, monitorare il corretto comportamento di un agente? E soprattutto quali erano gli strumenti che un mercante poteva metter in campo nel caso in cui un agente si fosse comportato in maniera sleale o fraudolenta? Negli ultimi trent’anni storici e storici economici si sono soffermati sul ruolo svolto da istituzioni formali come tribunali e gilde mercantili per lo sviluppo degli scambi impersonali e del commercio a lunga distanza. La possibilità di risolvere i conflitti in maniera imparziale grazie a un’istituzione pubblica avrebbe limitato comportamenti scorretti da parte di mercanti e agenti, i quali erano poi oggetto di ostracismo sulle piazze di mercato (Milgrom et al., 1991; Greif, 2006). Per i mercanti impegnati su commerci a lunga distanza, però, il ricorso ai tribunali era l’ultima risorsa a disposizione e spesso si rivelava insufficiente. Fino a gran parte del XIX° secolo, ma anche dopo, i gruppi mercantili si organizzavano per lo più sulla base di una comune origine, lingua o religione. Gli storici hanno spesso fatto ricorso al concetto di 'diaspora' per indicare la presenza di comunità mercantili disperse fra numerose città, che vivevano in una condizione di estraneità nelle società ospitanti e per le quali la comune origine o religione era un elemento che le manteneva in contatto, limitando l’incertezza e facilitando il successo degli scambi (Curtin, 1988, p. 3). Circuiti e reti che, come già ricordava Braudel (1977, p. 140), dominavano il commercio, appropriandosene e impedendo lo sfruttamento da parte di altri. Dai banchieri dello Shanxi ai mercanti di Osaka, dai Baniani dell’India settentrionale ai Toscani dell’Europa mediterranea, queste reti garantivano, talvolta grazie all’esistenza di vere e proprie nazioni o consolati, il corretto svolgimento dei commerci e la comunicazione con il potere politico dei territori a cui erano soggetti. Fra queste diaspore Armeni ed Ebrei sono stati al centro di numerosi studi. Originari della regione cuscinetto fra Persia, Turchia e Russia, i mercanti armeni cristiani furono deportati a Isfahan in Iran, nel quartiere di Nuova Giulfa dallo Scià Abbas il Grande. Nel corso del Sei e Settecento, estesero il loro commercio dall’India alle Filippine, dalla Moscovia a gran parte dell’Europa occidentale, specializzandosi in primo luogo nel commercio di balle di seta e gemme di diamanti, grazie a contratti di commenda e al ruolo dei loro tribunali, in primo luogo l’Assemblea dei Mercanti (Aslanian, 2011). Fra gli Ebrei, invece, la diaspora sefardita, in particolare dopo la cacciata dalla penisola iberica a fine Quattrocento, ampliò le sue maglie in Europa occidentale, da Amsterdam a Livorno, da Londra a Venezia, andando anche al di là dell’Atlantico e gestendo nicchie di commercio come lo scambio di coralli mediterranei e diamanti indiani. La sua fortuna si basò su un insieme di società familiari e in nome collettivo, contratti d’agenzia e ricorso ad agenti commissionari. Pur senza un’istituzione che sovrintendesse agli affari di tutti i mercanti della diaspora (come l’Assemblea dei Mercanti armena), il continuo scambio d’informazioni e alleanze matrimoniali calibrate consentì lo sviluppo di reti di cooperazione all’interno della diaspora e garanti strumenti di controllo della reputazione. Non si deve immaginare, però, questi gruppi diasporici come chiusi e omogenei, né si può credere a relazioni fiduciarie innate e immanenti al loro interno. Lo studio di Trivellato (2016, p. 365) mostra in modo chiaro come contesti, geografie e tipologie del commercio potessero influenzare lo scambio interculturale, con una miscela di norme informali e formali, strumenti legali e codici di comunicazione che ogni diaspora poteva mettere in gioco per controllare i propri agenti, si trattasse di parenti, correligionari o estranei. I.6 Conseguenze degli scambi globali Fra Quattrocento e Cinquecento le continue interazioni sui mari e sugli oceani delle diverse parti del mondo ebbero numerose conseguenze, dentro e fuori l’ambito commerciale. Come si è visto, la necessità di importare beni dall’Asia prima e dalle Americhe poi stimolò una continua competizione fra differenti gruppi mercantili. Spezie, diamanti, sete e tabacco, così come altri prodotti, viaggiavano attraverso le diverse vie dei commerci globali per soddisfare la domanda dei consumatori di diverse aree del mondo. Questi prodotti contribuirono a sperimentare nuove forme d’impresa: dall’accomandita alle società per azioni, dai monopoli statali alle compagnie privilegiate. Se queste innovazioni organizzative non sono da sottovalutare, non si deve leggere questi cambiamenti in un’ottica teleologica, lasciandoci offuscare dall’immagine del successivo predominio europeo. Un secondo effetto si ebbe nella sfera del consumo. L’arrivo dei beni dall’Asia e dalle Americhe stimolò, secondo l’interpretazione di de Vries (2008), un fenomeno di rivoluzione 'industriosa' da parte delle famiglie contadine e artigianali dell’Europa nord-occidentale. Il desiderio di acquistare questi nuovi beni, infatti, portò a una diversa allocazione del lavoro all’interno dei nuclei familiari, con il maggior coinvolgimento di donne e bambini nei circuiti della produzione. Questi nuovi rapporti di lavoro comportarono un aumento delle capacità di acquisto dei ceti medio-bassi che andò in direzione di beni non destinati al semplice sostentamento. Allo stesso tempo, i produttori europei misero in atto una serie d’iniziative volte a creare copie o imitazioni dei beni manufatti in Asia, così da raggiungere una quota sempre più rilevante di merato interno ed esterno, in particolare nelle Americhe (Berg, 2002). I beni importati, in particolare dall’Asia, portavano con sé però non solo nuove mode e desideri, ma anche conoscenze, un elemento che si rivelò ancor più strategico per i processi d’importazione e sostituzione delle tecnologie, in particolare nell’ambito dei tessuti indiani. Il lungo apprendistato nelle tecniche di stampaggio e disegno fu possibile grazie a quelle compagnie privilegiate di cui sopra ( in primis Portoghesi, ma soprattutto Olandesi e Inglesi), e alla migrazione di diaspore artigiane armene che, guarda caso, seguivano le rotte e le vie dei commerci governate da mercanti correligionari specializzati nel commercio di sete e materie tintorie. La conseguenza di questi scambi globali, dunque, permette di rivedere quel processo rivoluzionario che è alla base dell’industria europea del cotone; non già una rivoluzione, ma il risultato di secoli di continui, talvolta piccoli, cambiamenti, basati su connessioni profonde e di lungo periodo (Riello, 2013, pp. 8, 292). 2 Storia del lavoro e delle migrazioni (secoli XVI°-XXI°) di Christian G. De Vito Assumere una prospettiva globale sulla storia del lavoro e delle migrazioni, vuol dire tenere presente tre aspetti (Brass, van der Linden, 1997; Lucassen, 2008; van der Linden, 2008; De Vito, 2013). In primo luogo comporta di seguire le tracce dei fenomeni studiati in qualunque direzione esse portino, con un a sensibilità particolare per le connessioni prodotte dalla circolazione di lavoratori e delle lavoratrici, delle merci e dei capitali, delle tecnologie e delle idee sul lavoro. Un approccio globale non implica necessariamente di muoversi su spazi planetari o all’interno di macroregioni, né porta a mettere in secondo piano specificità locali, connessioni sulle brevi distanze e disconnessioni. Richiede, piuttosto, sul piano metodologico, di non considerare a priori gli Stati-nazione come le unità di analisi più appropriate (nazionalismo metodologico) e di non vedere nei percorsi storici seguiti da una determinata regione del pianeta un 'modello' al quale ogni altra esperienza storica debba necessariamente conformarsi (etnocentrismo). In secondo luogo, un approccio globale suggerisce di considerare il lavoro umano in tutte le sue forme, piuttosto che concentrarsi prevalentemente o esclusivamente su alcune di esse, quali il lavoro salariato o la schiavitù per esempio. Ne deriva che fanno parte della storia del lavoro globale tutte le forme di migrazione – 'volontaria' e forzata, 'interna' e internazionale, permanente e stagionale – e tutte le tipologie di organizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Infine, una prospettiva globale invita a studiare le esperienze del lavoro nel corso di tutta la storia umana – dalla 'preistoria' all’attualità – senza immaginare un’evoluzione lineare verso presunte forme di maggiore libertà e senza presupporre l’esistenza di cesure dal valore universale, quale a lungo è stata considerata per esempio la rivoluzione industriale inglese della fine del XVIII° secolo. Il punto di convergenza qui è dato dalla questione del controllo sulla forza lavoro e dalla dialettica che ne deriva: tensione tra l’esigenza padronale e dei policy-makers di sincronizzare tempi, luoghi e modalità della disponibilità della manodopera con le proprie esigenze produttive e geopolitiche, da un lato, e dall’altro la necessità dei lavoratori e delle lavoratrici di sottrarsi a tale controllo, di affermare una propria autonomia dentro e oltre la produzione, talvolta anche di costruire alternative di società non basate sulla mercificazione del lavoro. 2.I Mobilità e immobilizzazione della manodopera Nel periodo compreso tra il XVI° e il XXI° secolo si possono individuare cinque forme principali di mobilità geografica della manodopera, connesse ad altrettanti rapporti di lavoro. Benché spesso compresenti, fortemente intrecciate e talvolta sovrapposte all’interno di vari contesti storici, distinguerle analiticamente permette di fornire un quadro complessivo della connessione fra migrazioni e rapporti di lavoro. Una prima forma di mobilità è collegata al regime della corvée, o lavoro tributario attraverso il quale l’autorità costituita – intesa in senso lato, comprendendo imperi, Stati nazionali e chiefdoms locali – imponeva prestazioni di lavoro obbligatorio di varia durata ai soggetti subalterni, finalizzate soprattutto allo sfruttamento delle risorse naturali (agricoltura e attività estrattive) e all’esecuzione di lavori pubblici. Da essa derivava, in determinate circostanze, un obbligo allo spostamento geografico, come nel caso della mita di Potosì, il regime di lavoro tributario che costringeva annualmente decine di migliaia di indios del viceregno del Perù a lavorare nelle miniere d’argento di quella località, strategicamente importanti per gli scambi commerciali dell’impero spagnolo (Cole, 1985). La deportazione dei detenuti (convict transpotation) rappresenta una seconda modalità di spostamento coatto della forza lavoro, presente in regimi politici anche assai differenti tra di loro (Waley-Cohen, 1991; De Vito, Lichtenstein, 2014; Anderson, 2018). Tra il XVII° XIX° secolo, per esempio la dinastia Qing esiliò decine di migliaia di detenuti verso le frontiere dell’impero cinese – Manciuria, Mongolia e la regione occidentale dello Xinjiang. Parallelamente, l’Impero zarista utilizzò la manodopera detenuta nella colonizzazione e nello sfruttamento delle risorse della Siberia e dell’isola di Sakhalin. In quest’ultimo caso anche per prevenirne l’occupazione da parte giapponese. A sua volta, l’Impero giapponese Meiji attivò il meccanismo della deportazione penale per occupare l’isola di Hokkaido e impedire l’espansione russa. La migrazione forzata e lo sfruttamento della manodopera detenuta segnarono profondamente anche gli imperi occidentali, con spostamenti sia dalle metropoli alle colonie che tra queste ultime (più raramente, dalle colonie alle metropoli). Una stima recente, senza dubbio molto parziale, colloca a circa 600mila il migratori originatisi in una medesima regione o località – basti pensare all’intrecciarsi di flussi migratori 'interni' e 'internazionali' con origine nella penisola italiana durante il periodo studiato; alla composizione variegata (coolies, migranti volontari, rifugiati) dei 40 milioni di Cinesi che migrarono tra il 1840 e il 1940; e al fatto che, dei 71 milioni di permessi di migrazione concessi in Russia tra il 1891 e il 1900, solo il 2,6% riguardava spostamenti di lunga durata, mentre gli altri erano relativi a migrazioni stagionali (McKeown, 2010; Hoerder, 2002; Corti, Sanfilippo, 2013). Una volta reperita la forza lavoro, in loco o a distanze più o meno ampie, la necessità primaria dei datori di lavoro è quella di impedirne la dispersione. L’altra faccia della medaglia del controllo padronale sul lavoro è così rappresentata dal processo di immobilizzazione della manodopera. Ognuno dei rapporti di lavoro fin qui citati contiene in sé questa funzione di immobilizzazione dei lavoratori insieme a quella legata al loro spostamento attraverso lo spazio. La manodopera detenuta, ad esempio, era sottoposta a stretta sorveglianza nelle colonie penali e negli altri luoghi di detenzione e lavoro forzato. L’individuo ridotto in schiavitù era vincolato legalmente al suo proprietario e in alcune forme di schiavitù, come quella atlantica, tale rapporto di dipendenza era esteso ai suoi discendenti. Il lavoro tributario, pur permettendo lo spostamento dei lavoratori da una regione all’altra, si fondava sull’appartenenza dei lavoratori a specifici territori e sulla relativa dipendenza da determinate autorità locali. Altri rapporti di lavoro hanno svolto prioritariamente questa funzione di fissare i lavoratori e le lavoratrici nei luoghi di lavoro. Si pensi al vastissimo mondo della servitù rurale e domestica, nel quale la manodopera era legata legalmente alla terra o al nucleo famigliare del padrone (Cavaciocchi, 2014; Whittle, 2017). Da questa esigenza di immobilizzare i lavoratori e le lavoratrici deriva il ricorrere, anche in contesti assai distanti nel tempo e nello spazio, di alcuni meccanismi di controllo sulla manodopera, quali l’uso di procedimenti di identificazione – anche attraverso i tatuaggi (Anderson, 2004) – e il rilascio di 'passaporti' per monitorare e restringere la mobilità. Funzioni più ampie di disciplinamento della forza lavoro, sia volontaria che forzata, hanno avuto le pratiche repressive e le legislazioni contro il 'vagabondaggio' (Santiago-Valles, 1994; D’Angelo, 2016). Monumenti di questa storia sono tra gli altri le workhouses e gli hopitaux, ampiamente studiati per l’Europa occidentale ma meno nelle loro significative manifestazioni coloniali, e i vari tipi di 'depositi' nei quali gli schiavi e i coolies catturati dopo le loro fughe erano trattenuti in attesa di essere riconsegnati ai proprietari o di essere utilizzati come manodopera forzata a vantaggio dello Stato (Spierenburg, 2007). Istituzioni contemporanee legate alle politiche di controllo della mobilità sono rappresentate dalle estese reti di campi e centri di detenzione per migranti 'illegali' creati all’interno e attorno ai confini dell’Unione Europea, alla frontiera tra Stati Uniti e Messico, in Australia e in vari Paesi asiatici. Non finalizzate allo sfruttamento economico della manodopera migrante, esse svolgono tuttavia una funzione di regolamentazione indiretta del mercato del lavoro, sia attraverso l’espulsione di una parte dei migranti ceh mediante il rafforzamento simbolico della distinzione tra migrazione 'legale' e 'clandestina', e tra migranti e popolazioni 'autoctone' (Kaur, Metcalfe, 2006). L’ampia gamma di istituzioni e dispositivi sviluppati storicamente a partire dalla necessità di controllare la mobilità dei lavoratori e delle lavoratrici evidenzia il ruolo più generale dell’autorità costituita nella mobilizzazione e immobilizzazione della forza lavoro (Donoghue, Jennings, 2016). Lo Stato ha avuto una funzione diretta nel produrre e localizzare la manodopera forzata – come nel caso della corvée e del convict labour – e nel costruire quell’ampio bacino di interazione tra rapporti di lavoro (liberi e non) che è stato il lavoro militare (Zürcher, 2013). Attraverso istituzioni, regole e trattati esso ha altresì definito il quadro della gestione delle migrazioni: ha consentito e proibito la schiavitù, ha diretto i flussi dell’ indentured work e ha regolato l’accesso e l’esclusione dai mercati del lavoro nazionali, imperiali e sovranazionali. 2.2 Verso il lavoro salariato libero? Lavoro forzato, ambiguità della forma-contratto e precarietà del lavoro La diffusione dell’industrializzazione, l’emergere del movimento operaio e l’abolizione della tratta atlantica e della schiavitù africana nelle Americhe, avvenute nel XIX° secolo, hanno costruito l’immagine di una 'modernità' capitalistica associata all’ascesa del lavoro salariato 'libero' ('proletarizzazione'). Di conseguenza, la persistenza di altri rapporti di lavoro è stata vista come il segno della 'arretratezza' di alcune zone del globo, un 'ritardo' destinato comunque ad essere cancellato dalla marcia del capitalismo. A uno sguardo globale, tuttavia, questo assunto classico della storia del lavoro si rivela fuorviante. Il processo di industrializzazione ha avuto varie origini, che comprendono contesti nei quali prevaleva la manodopera coatta, come nel caso delle workhouses e delle manifatture tessili dell’America spagnola, dalla fabbrica di polvere da sparo di Ichapur (India, XVIII° secolo) e del lavoro di trasformazione della canna da zucchero nelle piantagioni caraibiche del XIX° secolo. La stessa organizzazione fordista del lavoro di fabbrica è stata influenzata dalla circolazione di saperi e tecniche di governo della manodopera forzata anche dopo che gli schiavi e altri lavoratori coatti hanno cessato di far parte direttamente della forza lavoro industriale e mentre gli operai, in molti contesti, erano soggetti a nuove forme di coercizione sia economica che extraeconomica (Fogel, Engerman, 1974, Salvucci 1987; Lucassen, 2012; van der Linden, 2018). Nel lavoro rurale l’abolizione della schiavitù nella regione atlantica è avvenuta solo negli anni Ottanta dell’Ottocento a Cuba e in Brasile, e ovunque è stata seguita dal periodo del cosiddetto 'apprendistato' (apprenticeship, apprentissage o patronato), che continuava a legare gli schiavi ai loro ex proprietari. L’abolizione degli altri sistemi schiavili è avvenuta più tardi, tra la fine del XIX° e la metà del XX° secolo, e in alcuni Paesi come la Mauritania e il Sudan, meccanismi di riduzione in schiavitù sono riemersi negli ultimi decenni in conseguenza di conflitti bellici. La fine dei sistemi di schiavitù agraria non ha comportato quasi mai una transizione lineare verso il lavoro salariato 'libero', ma ha portato all’affermarsi di combinazioni di rapporti di lavoro con tratti più o meno marcati di coercizione (Cooper, Holt, Scott, 2000). Nel mondo andino varie forme di contratti agrari (yanaconaje, pongueaje) prolungarono fino al XX° secolo inoltrato il regime di dipendenza personale della manodopera nativa instaurato dagli Spagnoli nel momento dell’abolizione della schiavitù indigena (Soliz, 2017). A Cuba prevalse il regime del colonato, ossia una forma di mezzadria non priva di aspetti di esplicita coazione (Helg, 1995). Negli Stati Uniti meridionali, nei decenni finali del XIX° secolo e all’inizio del XIX° secolo e alla fine del XX° secolo si fece ricorso in modo massiccio al convict labour, 'affittato' dallo Stato ai proprietari fondiari nell’intento di fissare gli ex schiavi alla terra. Negli anni del New Deal (1933-1937) emersero poi forme di peonaggio, in virtù delle quali i lavoratori entravano volontariamente nel rapporto di lavoro, ma non potevano rescinderlo, vuoi per il meccanismo dell’indebitamento con il datore di lavoro, vuoi perché soggetti alla minaccia e all’uso della violenza fisica (Lichtenstein, 1996; Pizzolato, 2018). A livello planetario la connessione tra conflitti bellici e l’introduzione di regimi di lavoro forzato è proseguita nel XX° secolo, assumendo anzi dimensioni assai maggiori che in precedenza, tra l’altro in virtù dei miglioramenti nella tecnologia nei trasporti. Si pensi alla deportazione di milioni di persone che nel corso delle due guerre mondiali, che anche nel caso del Reich nazista era funzionale allo sfruttamento della manodopera almeno quanto allo sterminio (Wagner, 2010). Durante la guerra civile spagnola, circa mezzo milione di individui passò per i campi di concentramento franchisti, molti di essi inquadrati nei Batallones de Trabajadores e costretti a lavorare nelle miniere e nei cantieri pubblici (Rodrigo, 2005). In molti casi, gli elementi di continuità con il passato prevalgono. Nella mobilità forzata della manodopera detenuta nei gulag staliniani è possibile vedere una prosecuzione del processo di colonizzazione della Siberia iniziato in epoca zarista; nello sfruttamento attuato dagli occupanti giapponesi sulla manodopera in Corea, Taiwan e nella costruzione della ferrovia thailandese-birmana durante la Seconda Guerra Mondiale vi è il prolungamento del progetto imperiale concepito all’inizio dell’epoca Meiji (Viola, 2007; Kratoska, 2015). Il persistere del colonialismo europeo fino agli anni Sessanta-Settanta del XX° secolo ha rappresentato una solida base per il mantenimento di regimi lavorativi caratterizzati da ampi livelli di violenza e coercizione extraeconomcia. Per altro verso, sistemi di sfruttamento della manodopera forzata hanno caratterizzato anche molti Paesi sorti dal processo di decolonizzazione, come nel caso dell’Indonesia e del Sud Africa. La cosiddetta 'guerra mondiale africana' (1998-2003) o 'seconda guerra del Congo' che ha provocato oltre cinque milioni di morti, è stata accompagnata dalla mobilitazione coatta della forza lavoro e dal reclutamento di massa di bambini negli eserciti e nelle milizie (Rosen, 2012). Considerato in un’ottica globale il Novecento (e l’inizio del XXI° secolo) non può quindi essere caratterizzato come il secolo del lavoro salariato 'libero'. Semmai si può osservare la tendenza, peraltro parziale, alla diffusione del regime contrattuale del lavoro, in linea con l’espansione dell’ideologia liberale e in connessione con la necessità di praticare un controllo più stretto e omogeneo sulla mobilità del lavoro (Moulier-Boutang, 2002; Banaji, 2010, pp. 131-54). Si è avuto così l’incanalamento all’interno della forma del contratto di una vasta gamma di rapporti di lavoro caratterizzati dalla dipendenza personale. Forme tradizionali di controllo della manodopera rurale, come la servitù e il lavoro tributario, sono state sussunte all’interno di molteplici contratti agrari mezzadrili. Una prozione del convict labour ha assunto nella seconda parte del XX° secolo una veste contrattuale, soprattutto per quanto riguarda i detenuti delle carceri occidentali (van Zyl Smit, Dünkel, 1999). Lo stesso lavoro salariato, legato storicamente a forme di reclutamento temporaneo e a condizioni fortemente precarie, è stato incluso in maniera crescente all’interno di regimi contrattuali più strutturati. Dietro la rappresentazione legale del contratto tra individui con i medesimi diritti si nasconde evidentemente non solo l’effettivo squilibrio di potere tra lavoratori e datori di lavoro, ma anche status e condizioni lavorative assai differenti tra i lavoratori stessi, in un continuum che va da forme di aperta coercizione e violenza fino a situazioni di relativa autonomia (Stanley, 1998; Steinfeld, 2001). Su di esse influiscono meccanismi di disciplinamento della manodopera previsti dal contratto stesso (ad esempio, durata del rapporto di lavoro; livello, frequenza e forma della remunerazione; orario di lavoro; norme disciplinari), come pure aspetti extracontrattuali, quali la percezione sociale del genere, dell’etnia e dello status. I limiti legali della cittadinanza svolgono un ruolo di primo piano rispetto alla condizione del lavoro migrante, nella misura in cui la divisione tra 'regolari' e 'irregolari' e la minaccia dell’uso di strumenti di detenzione ed espulsione spinge l’intera manodopera migrante ad accettare condizioni contrattuali e lavorative meno favorevoli e simultaneamente produce un mercato del lavoro 'nero', ossia non contrattualizzato. L’indebitamento infine ha continuato anche nel XX° e XXI° secolo a esercitare un effetto perverso sui regimi contrattuali. Pur in presenza di un accesso volontario al rapporto di lavoro, esso costringe infatti il lavoratore a una relazione di dipendenza rispetto al datore di lavoro che porta a situazioni di sovrasfruttamento e coercizione anche fisica, come pure all’impossibilità da parte del lavoratore o della lavoratrice di porre termine al contratto stesso. Il debt bondage contemporaneo, nelle sue forme, prolunga così le tradizioni di dipendenza personale tra lavoratori e datori di lavoro, mostrandosi allo stesso tempo perfettamente compatibile con il processo di accumulazione capitalista, come dimostrano il kafala system degli Stati del golfo Persico e vari esempi relativi all’India meridionale (Guérin, 2013; Damir-Geildorf, 2016). Questa pluralità di condizioni e status all’interno del lavoro contrattualizzato, e la molteplicità stessa delle tipologie contrattuali e dei meccanismi di contrattazione, rendono evidentemente fuorviante l’associazione del lavoro contrattualizzato tout court con il cosiddetto 'Rapporto di impego standard' (Standard Employment Relation – SER). Quest’ultima è la forma che presuppone non soltanto una coincidenza della durata del contratto con la vita lavorativa dell’individuo (contratti a tempo indeterminato) e l’inserimento della contrattazione in un sistema di rapporti di lavoro istituzionalizzati (contrattazione nazionale), ma anche uno stretto legame tra contratto e forme di sicurezza e prevenzione sociale, ossia con il welfare state. Benché spesso considerato appunto come lo standard del lavoro salariato e del regime contrattuale novecentesco, in una prospettiva storica e globale l’espansione di questa forma di rapporto di impiego appare limitata all’area nordoccidentale del mondo per il periodo compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Novecento (van der Linden, 2014; Breman, van der Linden, 2014). Per la verità, l’impatto del regime di pieno impiego, dei contratti a tempo indeterminato e del welfare state non è stato universale neppure all’interno di quelle aree, stante la sua limitata estensione alle donne e ai migranti anche in pienno cicclo fordista (Moulier-Boutang, 2002; Betti, 2016). Soprattutto a partire dagli anni Novanta del XX° secolo, la la diffusione di molteplici forme di contratti a tempo determinato, unita all’indebolimento della contrattazione collettiva nazionale e a processi di esternalizzazione e rilocalizzazione produttiva, ha portato alla crisi del SER all’interno dei Paesi occidentali. L’obbiettivo imprenditoriale è stato quello di abbassare il costo del lavoro e, contemporaneamente, riaffermare il controllo sulla manodopera, intervenendo congiuntamente sui meccanismi di reclutamento, sulle condizioni di impiego e sul processo di uscita dal rapporto di lavoro (licenziamento/dimissioni). Allo class, in altre parole, non coincide solo con il processo di formazione di una classe operaia di fabbrica negli Stati occidentali e non va concepita come una mera diffusione del lavoro salariato e della coscienza di classe dall’Occidente al 'resto' del mondo. Processi di formazione della classe lavoratrice sono stati individuati ad esempio anche nell’interazione tra schiavi e coolies nelle piantagioni cubane, nella solidarietà tra immigrati europei, schiavi e lavoratori a contratto impegnati nella costruzione delle prime ferrovie brasiliane, nella relazione tra schiavi e salariati nella Rio de Janeiro ottocentesca e, prima ancora, nella formazione nello spazio atlantico del Settecento di una 'idra dalle molte teste' fatta di marinai, pirati, coolies, salariati e schiavi (Linebaugh, Rediker, 2000; Badaró Mattos, 2008; Souza, 2015). In quanto storia di processi storici plurali e non di un’entità precostituita, la vicenda della working class è segnata da molteplici cesure, definizioni contrastanti e ridislocazioni nello spazio. Sotto questo profilo, due aspetti sono particolarmente interessanti in una prospettiva globale. Il primo riguarda il processo di definizione stessa dei confini della classe, ossia le dinamiche di inclusione ed esclusione di diversi gruppi di lavoratori, sia a livello concettuale che nelle pratiche. In base a mutevoli percezioni culturali, le organizzazioni artigiane e operaie tracciarono ad esempio linee di discrimine tra uomini e donne, adulti e minorenni, lavoratori metropolitani e coloniali, lavoratori specializzati o meno, operai e impiegati. All’interno di concezioni ideologiche più ampie, la classe operaia industriale ha avuto un ruolo centrale per molte correnti socialiste e comuniste, gli strati subalterni del mondo rurale sono stati inclusi nella classe all’interno della teorizzazione maoista, mentre l’accento è stato posto sui braccianti, sugli stati operai non qualificati e sui sottoproletari in una parte del pensiero anarchico. Si tratta peraltro di distinzioni destinate a divenire assai più fluide nei contesti storici specifici, anche in funzione dell’interazione con le dinamiche di esclusione e inclusione poste in atto dalla controparte padronale e in rapporto ai cicli di espansione e crisi economica. Così, anche l’ideale discrimine tra lavoro forzato e lavoro 'libero' ha lasciato posto in molti casi a relazioni assai più fluide tra schiavi e salariati, ad esempio per via del loro oggettivo intrecciarsi nei luoghi di lavoro e nei flussi migratori, ma anche per una convergenza nelle esperienze e percezioni di individui e gruppi, quando non anche nella vita del medesimo lavoratore o lavoratrice (Anderson, 2009; Barragan, 2015). Il secondo aspetto riguarda il versante geopolitico della definizione della classe, ossia la dialettica tra nazionalismo e internazionalismo (e tra distinte concezioni dell’internazionalismo) nei movimenti dei lavoratori. Generalizzando, si può dire che i movimenti dei lavoratori ispirati dalle denominazioni religiose e dalla socialdemocrazia hanno dato la priorità alla dimensione nazionale (e locale) della classe; i movimenti socialisti e comunisti hanno privilegiato idee e pratiche dell’internazionalismo mediate dall’organizzazione nazionale dei lavoratori; mentre il movimento anarchico ha praticato un’organizzazione su base translocale, connettendo cioè direttamente gruppi di lavoratori e lavoratrici dislocati in luoghi specifici. Si tratta tuttavia di distinzioni ideologiche che spesso, anche in questo caso, diventano meno nette nella realtà storica concreta. All’interno della diaspora anarchica di fine Ottocento e inizio Novecento, ad esempio, si manifestò spesso una tensione fra approccio internazionalista e organizzazione su base nazionale (Zapruder World, 2014; Bantman, Altena, 2017). Allo stesso modo se lo stalinismo si è definito chiaramente per la sua connessione con lo Stato nazionale (e quello sovietico in particolare), anche correnti marxiste più fortemente legate all’internazionalismo, come il trotzkismo, hanno prodotto organizzazioni radicate quasi esclusivamente in alcuni contesti nazionali, come in Argentina e in Bolivia. Alcuni eventi 'globali' – tra gli altri: 1848, la Comune di Parigi, la rivoluzione russa, il processo di decolonizzazione, il Sessantotto e il movimento altermondialista dei primi anni Duemila – hanno inoltre contribuito a rimescolare le carte, provocando un’accelerazione della circolazione di idee, attivisti e pratiche ben al di là delle ideologie di partenza. Pratiche translocali di organizzazione e conflittualità hanno caratterizzato alcuni settori della forza lavoro, in particolare quelli connessi alla mobilitazione delle merci (logistica): portuali, marittimi, ferrovieri, (auto)trasportatori. L’idea di incidere contemporaneamente su vari siti produttivi, di distribuzione e di consumo disposti lungo una singola catena di merci ha caratterizzato finora le campagne delle organizzazioni umanitarie e delle ONG, piuttosto che le organizzazioni dei lavoratori stessi. Infine, episodi di solidarietà e conflittualità coordinata in siti diversi all’interno di una medesima impresa transnazionale si sono sviluppati principalmente partire da (ovvero dalla minaccia di) processi di delocalizzazione produttiva. Rispetto alla dialettica tra internazionalismo e nazionalismo, una tendenza di lungo periodo è rappresentata dalla connessione tra rivendicazione di politiche protezionistiche e l’emergere di tratti xenofobi nel movimento dei lavoratori, in particolare in coincidenza con le fasi di crisi economica (Silver, 2003, pp. 20-5; Sandmeyer, 1991). Lo testimoniano, tra gli altri, molti statuti delle corporazioni artigiane, il movimento contro i lavoratori cinesi ed europei negli Stati Uniti dell’inizio del XX° secolo e il volgersi di parte del voto operaio verso partiti politici esplicitamente xenofobi nel corso degli ultimi decenni. Una linea di flessione evidente nell’internazionalismo dei lavoratori è stata inoltre legata al processo di 'socializzazione dello Stato', a partire dall’inizio del XX° secolo: l’istituzionalizzazione del movimento operaio ha favorito una crescente segmentazione della working class in rapporto alle divisioni nazionali e alla sua connessione con le politiche (sociali, militari, economiche) dello Stato nazionale (Silver, 2003, pp. 12, 177). Un analogo processo di 'nazionalizzazione' della classe si è avuto anche in rapporto alla costruzione degli Stati nazionali post-coloniali, sia nel corso dell’Ottocento (America Latina) che nel XX° secolo (Asia e Africa). La questione della riconfigurazione dello Stato nazionale di fronte alla nuova ondata di globalizzazione apertasi negli anni Novanta del Novecento assume così un valore centrale per comprendere il futuro dell’internazionalismo, benché questo dipenda evidentemente anche dal dispiegarsi di nuovi movimenti autonomi dei lavoratori e delle lavoratrici (Featherstone, 2008). L’analisi della definizione della classe rivela significative divergenze nelle ideologie e nelle pratiche dell’inclusione/esclusione di settori del mondo del lavoro dentro e oltre i confini nazionali. Assumere un approccio globale alla storia del lavoro non implica pertanto una mera descrizione dei mondi del lavoro su scala 'planetaria'. Invitando a un ripensamento della classe lavoratrice oltre il lavoro salariato e proponendo un’analisi non etnocentrica e non rinchiusa nei confini nazionali, gli storici globali del lavoro intervengono anche esplicitamente sui processi di costruzione di un’idea della classe, sulla definizione dei suoi confini. Dibattendo sul concetto più adeguato ('lavoratori subalterni', 'subalterni', labouring poors) per descrivere la working class plurale e mondiale del passato, essi producono strumenti interpretativi per comprendere quella, non meno complessa, del presente (van der Linden, Roth, '2014). 3 Povertà e ineguaglianza di Giovanni Gozzini 3.1 Problemi di definizione e misura «Chi scarseggia delle cose necessarie per una normale sussistenza»: questa è la definizione prettamente economica di 'povero' che troviamo nelle enciclopedie. Non è sempre stato così. Nella Bibbia e nel Corano i poveri sono indicati in termini sociali anziché economici, come gli esseri umani rimasti soli, privi di clan familiari e quindi di aiuto e protezioni: stranieri, orfani, vedove. La loro condizione di isolamento configura per la società religiosa del tempo, che comunque è tenuta ad accoglierli, un obbligo tassativo di solidarietà fissato percentualmente in base alla ricchezza posseduta (la decima per gli Ebrei, lo zakat per l’Islam). Viceversa per la religione cristiana la carità diventa un gesto gratuito, libero e volontario. La ragione storica di questa differenza è abbastanza chiara: per i popoli nomadi vige il principio di coesione organica che impedisce di lasciare indietro ogni elemento singolo del branco perché insieme si sopravvive meglio, soprattutto in un ambiente ostile come il deserto. Ma per chi si è ormai abituato a vivere in ambienti urbani, le ragioni della sopravvivenza (e della conseguente e necessaria solidarietà) passano inevitabilmente in secondo piano rispetto a quelle di preservare le gerarchie e l’ordine che in città si sono venuti stabilendo. L’elemosina, gesto paternalistico che forse allevia solo temporaneamente la condizione del povero, sostituisce la tassa di solidarietà. Secondo l’economista antropologo Karl Polanyi (1974) la vita sociale si sviluppa in tre sfere parallele e correlate: lo Stato (le regole istituzionali che fissano diritti e doveri dei cittadini), il mercato (i meccanismi dello scambio economico di beni e servizi) e la reciprocità (le interazioni non strettamente regolate dai primi due ambiti). La decima e lo zakat appartengono al primo ambito mentre l’elemosina rientra nell’ultimo. Ma tutte e tre servono allo stesso scopo: cercare di tenere insieme la società. Fanno in modo che l’ineguaglianza 'normale' tra famiglie e individui non degeneri in 'anormale' povertà ed emarginazione. Però non ci riescono. Almeno in Europa, nessun altro secolo discute tanto di pauperismo quanto l’Ottocento: perché le città continuano a pullulare di mendicanti. La carità si trasforma allora da gesto privato in azione di governo, traducendosi in leggi sui poveri che vietano l’elemosina, organizzando sussidi in denaro o in natura a domicilio e cercano di rinchiudere gli indigenti in ricoveri che li educhino al lavoro. Si conia il termine di 'carità legale', quasi un ossimoro (Himmelfarb, 1984, cap. 2; Sachsse, Tennstedt, 1980, V. I pp. 199 ss.). Alle spalle di questa trasformazione sta un’interpretazione moralistica dell’indigenza, che viene divisa in volontaria e involontaria: mentre la seconda è frutto di malattie e inabilità (perciò meritevole di soccorso), la prima è frutto di pigrizia e quindi reato. Le voci radicali che pure erano presenti nel filone illuminista e rivoluzionario, come Thomas Paine e Condorcet, che si ponevano il problema di una scomparsa della povertà, vengono dimenticate a tutto vantaggio di un dibattito paternalistico che riguarda più i doveri dei ricchi che non i diritti dei poveri (Sassier, 1990, pp. 299 ss.; Stedman, 2004). Ma l’Ottocento è anche il secolo in cui nascono grandi ideologie (anarchismo, socialismo) che invece connettono povertà e ineguaglianza: è una ingiusta distribuzione della ricchezza che divide la società in classi – innanzitutto tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori – e quindi genera mendicanti. È una contrapposizione destinata a durare fino ai nostri giorni. Nella classica visione liberale un moderato livello di ineguaglianza sociale fa parte dell’ordine naturale delle cose: risponde cioè alla libera espressione delle differenze individuali in termini di qualità e capacità. È invece la povertà, in quanto livello patologico di ineguaglianza che si traduce in esclusione tendenzialmente permanente, a dover essere oggetto di politiche economiche specifiche (Feldstein, 1998; Welch, 1999). Altri economisti non disdegnano di appoggiarsi anche all’autorità del padre fondatore dell’economia liberale classica, Adam Smith (1975, p. 169) per rilevare come eccessi di ineguaglianza tendono a tradursi in conflitti capaci di danneggiare la crescita economica: «nessuna società può essere fiorente e felice, se la maggior parte dei suoi membri è povera e miserabile» (Alesina, Rodrik, 1994; Persson, Tabellini, 1994; Perotti, 1996; Alesina, Perotti, 1996; Lee, Park, 2002). Il premio Nobel Amartya Sen (1981, 1992) compara tra loro carestie e crisi di sussistenza del passato e del presente per rilevare un fatto decisivo: quasi mai la fame delle persone è dovuta a una scarsità delle risorse alimentari data da cattivi raccolti, catastrofi o altre cause straordinarie. Quasi sempre la fame è il prodotto artificiale di deliberate politiche di esclusione ai danni di gruppi umani specifici (etnici, religiosi, politici) che vengono emarginati, perseguitati e impediti nell’accesso al cibo. Ne consegue una distinzione fondamentale tra ineguaglianza 'buona' frutto di pari condizioni di partenza e ineguaglianza 'cattiva' frutto di impari condizioni di partenza: anche la seconda, come la povertà, merita di essere oggetto di politiche redistributive. Solo all’inizio del Novecento il concetto di povertà esce dal regno delle impressioni per entrare in quello delle misure. Un industriale e riformatore sociale inglese, Seebohm Rowntree, studiando la cittadina di York elabora un concetto di poverty line, 'soglia della povertà', che riporta alla definizione enciclopedica di riferimento (Rowntree, 1902). Esiste un livello di reddito sotto il quale la 'normale sussistenza' diventa difficile. Per le famiglie che stanno più in basso nella scala sociale (cioè patiscono maggiori condizioni di ineguaglianza) i rischi di andare sotto diventano più alti in due fasi del ciclo di vita: quando nascono i figli e quando il capofamiglia lavoratore (normalmente unica fonte di reddito) invecchia e guadagna meno. Ancora oggi la Banca mondiale applica un concetto simile. La poverty line corrisponde alla quantità di denaro necessaria per comprare ogni giorno l’equivalente sui diversi mercati locali di 2.300 calorie, ritenute il fabbisogno minimo vitale dalla World Health Organization. È stata ritoccata più volte negli ultimi trent’anni allo scopo di definire con sempre maggiore precisione la quantità di potere d’acquisto (1,9 dollari internazionali al giorno, secondo gli standard fissati nel 2011). Sotto di essa si entra nella fascia della povertà primaria, dove anche la sopravvivenza è a rischio costante; sopra di essa (fino a 3,1 dollari al giorno) si rimane nella fascia di povertà secondaria, dove ogni imprevisto (malattie, siccità, gravidanze) pregiudica gli equilibri domestici (Ferreira et al., 2015; Chen, Ravallion, 2013). 3.2 Convergenza e divergenza dopo la rivoluzione industriale Mentre la categoria di povertà si esprime in termini assoluti e universali (quanto denaro ci vuole per mangiare o sopravvivere), quella di ineguaglianza è una definizione relativa per sua stessa natura: mi definisco povero in relazione a qualcuno che è ricco. Gli strumenti più utilizzati in materia sono due. Il primo è l’indice di Gini (dal nome dello statistico italiano che l’ha inventato) che oscilla tra 0 (situazione di assoluta uguaglianza dove tutti percepiscono lo stesso reddito) e 1 (situazione di assoluta ineguaglianza dove uno solo percepisce tutto il reddito). L’indice di Gini considera quindi tutti i redditi e misura lo scostamento maggiore o minore da una situazione di uguaglianza: come tale è molto sensibile alle variazioni che avvengono nel mezzo della distribuzione, quella che interessa i redditi e i ceti sociali intermedi. L’altro strumento di misurazione è dato dal quoziente tra reddito medio del quinto più ricco e quelle del quinto più povero di una popolazione: un indicatore più semplice da calcolare (se si hanno i dati) che prende in esame solo gli estremi della stratificazione sociale. Non sono molti gli studi di storia economica globale che si cimentano col tema dell’ineguaglianza nella dimensione del lungo periodo (Bourguignon, Morrisson, 2002; Lindert, Milanovic, Williamson, 2010; van Zanden et al., 2014). Man mano che si risale all’indietro nel tempo diventano più rare e disperse, le estrapolazioni dai pochi dati disponibili sempre più acrobatiche, il rischio di errori anche madornali più alto. Siamo quindi in presenza di un fronte di ricerca storiografico ancora agli inizi ma i primi risultati appaiono abbastanza coerenti e muovono da un assunto metodico comune scomponendo l’ineguaglianza globale in due: ineguaglianza interna alle nazioni (tra ricchi e poveri dello stesso Paese) e ineguaglianza tra le nazioni (tra redditi medi pro capite di singoli Paesi o gruppi di Paesi). La prima ipotesi di ricerca a emergere dai dati è che la rivoluzione industriale inglese cambia radicalmente i termini della questione, attenuando l’ineguaglianza interna ai singoli Paesi e allargando le distanze tra i redditi medi delle nazioni. È un’ipotesi che si intreccia con il 'classico' dibattito della World History sulla Big Divergence: fino alla rivoluzione industriale salari reali e redditi medi erano più vicini di quanto si pensasse, almeno tra zone della Cina, dell’India e dell’Europa continentale (Pomeranz, 2004; Parthasarathi, 2011; Allen et al., 2011; Li, van Zenden, 2014). Ma la trasformazione industriale dell’Occidente cambia i destini anche del resto del mondo. La crescita economica non avviene solo per sviluppi endogeni interni ai confini nazionali (cultura scientifica, diritti di proprietà, mobilità individuale), così come è stata mirabilmente raccontata da Landes (2002), Mokyr (2016), McCloskey (2006, 2010, 2016). Avviene anche per flussi di merci e notizie, interazioni e conflitti che aprono e chiudono i mercati, mutano i fattori di sviluppo, determinano gerarchie e ineguaglianze tra le nazioni (Inikori, 2002; Austin, Sugihara, 2013). La supremazia industriale della Gran Bretagna, in altre parole, muta per tutti gli altri Paesi le condizioni per raggiungere la modernità: sia per quelli che devono proteggersi dalla concorrenza commerciale inglese, sia per quelli che sottostanno in termini politici e militari all’Impero britannico. Per lungo tempo la rivoluzione industriale disegna un modello di modernizzazione che si allarga all’Europa Continentale e al Nord America, ma scava un fossato tra Paesi ricchi e poveri del mondo. Per quanto riguarda la storia inglese, si confermano i risultati di un dibattito ormai anziano di molti decenni sui salari reali e sui livelli di vita nel corso del processo di urbanizzazione e modernizzazione industriale. Gli 'ottimisti' che vedono un rialzo dei salari reali e una conseguente riduzione dell’ineguaglianza nell’Inghilterra di fine Ottocento – la circostanza che spingerà Lenin a denunciare l’aristocrazia operaia compartecipe dei sovrapprofitti garantiti dagli imperi coloniali – appaiono ormai in maggioranza. Ci si divide semmai tra chi anticipa al 1820 l’avvio della fase di incremento dei salari reali (Clark, 2005) e chi invece la posticipa al 1860 (Allen, 2009). La ragione fondamentale del contendere risiede, non diversamente da oggi, nel calcolo del costo della vita. Concentrare l’attenzione sui redditi più alti (il decile o addirittura il percentile più ricco) prima delle tasse, come ha fatto Piketty (2014), rischia di portare fuori strada. Se Marx avesse fatto lo stesso, avrebbe descritto un’Inghilterra saldamente dominata da un’antica aristocrazia terriera di antico regime e avrebbe clamorosamente mancato il proprio appuntamento con la storia. I processi sociali da lui analizzati, quelli determinanti per cambiare l’Inghilterra dell’Ottocento, avvengono invece appena più in basso, nelle gerarchie sociali medio-alte abitate dai nuovi imprenditori manifatturieri. Nonostante apocalittiche descrizioni delle condizioni della classe operaia inglese – la più famosa è quella del sodale di Marx, Friedrich Engels (1899) – i nuovi posti di lavoro industriali sembrano migliorare la qualità di vita delle classi sociali più povere. Sul piano di metodo, poi, la banca dati elaborata da Piketty sui top incomes, i redditi del decile più ricco (http://wid.world/wid-world), non dialoga molto con altre banche dati più antiche, che invece si riferiscono all’insieme dei redditi come la United Nations University, World Institutefor Development Economics Research, World Income Inequality Database (www.wider.unu.edu/data) oppure Luxembourg Income Study (http://www.lisdatacenter.org/). Si sono tentati studi-ponte tra le diverse serie statistiche (Alvaredo, 2011; Burkhauser et al., 2012) ma a Piketty interessano poco. La seconda ipotesi di ricerca riguarda la fase di deglobalizzazione compresa tra le due guerre mondiali, che vede un simultaneo arrestarsi dell’ineguaglianza tra nazioni ricche e povere assieme a un moderato calo dell’ineguaglianza interna ai Paesi. Si verifica qui l’impatto delle politiche di welfare adottate nelle economie avanzate da regimi di segno politico opposto (i piani quinquennali sovietici, quelli quadriennali nazisti, il New Deal statunitense). Legislazione del lavoro, assicurazioni sociali, servizi sanitari gratuiti e allargati all’insieme della popolazione riducono le ineguaglianze. La deglobalizzazione economica e commerciale corrisponde alla globalizzazione culturale delle grandi ideologie novecentesche (fascismo, comunismo) che in modi opposti hanno al centro il tema della povertà e dell’ineguaglianza. D’altra parte, due guerre mondiali mettono seriamente in discussione la presunta superiorità della civiltà occidentale sancita dalla Rivoluzione Industriale. Appare sempre più difficile giustificare il dominio coloniale e allora l’idea di nuovo ordine mondiale che l’Occidente, vincitore ma in crisi di legittimazione morale, elabora per uscire dalla catastrofe recupera, per la priva volta su scala mondiale, l’argomento della coesione di gruppo tipica delle confessioni monoteiste dell’Antichità. Non si tratta soltanto di un problema morale, bensì e in misura ancora maggiore, di un problema politico ed economico, perché si può essere ben certi che qualsiasi essere umano preferirà sempre morire combattendo piuttosto che non avere alcuna speranza di una vita migliore. Se si vuole costruire una pace stabile e prosperosa, si deve mettere in campo azioni internazionali per migliorare le condizioni di vita di quei popoli che hanno perso il treno dell’industrializzazione nel XIX° secolo (Rosenstein-Rodan, 1944, p. 158). A guerra ancora in corso, Paul-Rosenstein-Rodan (uno dei padri della moderna economia dello sviluppo) rilancia il tema dell’equazione tra pace e eguaglianza negli stessi termini che stanno alla base anche della Carta atlantica, base programmatica della battaglia antinazista. E lo fa in termini che richiamano più l’obbligo 'giudeo-islamico' che non la facoltativa beneficienza cristiana: troppa ineguaglianza mina l’unità del genere umano. Il nuovo ordine mondiale o sarà più paritario o non sarà. Mezzo secolo più tardi la Millennium Declaration delle Nazioni Unite muove dal «dovere nei confronti dei più deboli» per assumere solennemente l’obiettivo non di un contenimento ma dell’eliminazione della povertà. «Abbiamo la responsabilità collettiva di difendere i principi della dignità umana, dell’uguaglianza e dell’equità a livello globale. Come leader abbiamo un dovere nei confronti di tutta la popolazione mondiale, specialmente dei più deboli e in particolare dei bambini del mondo cui il frutto appartiene […]. Non risparmieremo alcuno sforzo per liberare i nostri simili, uomo, donna, bambino che sia, dall’abietta e disumana condizione di povertà estrema, cui è oggi sottomesso più di un miliardo di loro (United Nations, 2000)». 3.3 Le tendenze dopo il 1945 Sul piano delle distanze tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tuttavia, la decolonizzazione non produce effetti immediati e visibili di convergenza dei Paesi poveri. Fino a metà degli anni Settanta entrambe le superpotenze propongono al Terzo Mondo modelli di sviluppo simili, fondati sulla grande industria: per l’Occidente lo studio di riferimento è quello di Rostow (1962. Ma le politiche di drenaggio delle risorse agricole (alle quali resta legata la grande maggioranza della popolazione dei Paesi poveri) a tutto vantaggio di accelerati processi di industrializzazione e urbanizzazione a guida statale, non sortiscono gli effetti sperati. Lo Stato da solo non basta, come invece pensava (e si illudeva) Nkrumah (1957, p. 164), leader del Ghana indipendente, parafrasando il Vangelo di Matteo (6,33): «cercate prima il regno e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta». Anzi. Quelle politiche generano perduranti urban biases, pregiudizi filourbani che dividono città e campagna, penalizzano fortemente la seconda e quindi restringono le basi di consenso dei leader indipendentisti, costringendoli a una generalizzata fase di involuzione autoritaria, con molti colpi di Stato militari in Africa, Asia, e America Latina, che immediatamente si traduce in stasi della crescita economica (Lipton, 1977; Jones, Corbridge, 2005). È un primo significativo campanello di allarme nei confronti degli schemi mentali occidentali, condensati dalla Curva di Kuznets. Già nel 1955 Simon Kuznets, esule dall’URSS e presidente dell’American Economic Association, disegna sulla base dei dati relativi alla distribuzione dei redditi si Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, uno schema secondo cui l’ineguaglianza evolve nel tempo lungo una curva a forma di U rovesciata. Aumenta quindi nel corso del processo di industrializzazione fino a toccare il proprio apice quando il settore manifatturiero supera quello agricolo, per poi riscendere con la diffusione dei consumi di massa (Kuznets, 1955). Lo sviluppo economico – è la tesi di Kuznets – procede a sbalzi, aggregandosi attorno a poli catalizzatori che attraggono capitale, lavoro, tecnologia: è lì che per tutta una fase iniziale si concentrano reddito, profitti, investimenti, prima che quasti ultimi diano i loro frutti redistribuendo ricchezza (il termine tecnico è trickle down, 'gocciolare verso il basso') al resto del corpo sociale sotto forma di posti di lavoro e salari. L’ineguaglianza è quindi un male necessario (connaturato al modo di produzione capitalistico) ma destinato a passare col tempo. Almeno fino al 1980 la storia dei redditi dei cittadini statunitensi sembra confermare la teoria (Lindert, Williamson, 2016). La curva di Kuznets contiene un’evidente implicazione politica. Ridurre le tasse ai ricchi va bene perché sono gli unici capaci di investire, cioè di rendere produttivo il denaro. Com’è noto, le politiche economiche di Reagan e Thatcher negli anni Ottanta e di Trump attualmente si ispirano a questa visione, spesso definita 'neoliberista' perché sposta il propulsore della crescita dallo stato sociale alla libera iniziativa privata. Ma in Africa e America Latina questo schema non funziona. Le politiche di structural adjustment ('regolazione strutturale') lanciate dal Fondo monetario internazionale negli anni Ottanta (che vincolano la concessione di crediti finanziari al pareggio dei conti pubblici e quindi al contenimento delle politiche sociali in campo sanitario e scolastico) non hanno grande effetto. I motivi sono diversi e riguardano sia la bassa qualità democratica e inclusiva di istituzioni spesso autoritarie, sia il correlato motivo economico della perdurante assenza di un ceto di imprenditori privati capaci di guidare lo sviluppo. Anzi, gli anni Ottanta diventano una lost decade: un decennio perduto, perché il nazionalismo economico – che pure aveva aiutato molti Paesi latinoamericani a uscire prima e meglio dalla crisi del 1929 grazie a politiche di sostituzione delle importazioni fatte di protezionismo e sussidi alle industrie – si nutre di regimi fiscali antirurali e sopravalutazione delle monete che portano alla stasi delle esportazioni, al decollo del debito estero e al prolungarsi delle ineguaglianze interne e delle correlate sacche di povertà (Mohan et al., 2000; Easterly, 2001). Se a metà degli anni Settanta la tendenza all’aumento dell’ineguaglianza tra Paesi si inverte nel suo contrario, non lo si deve né alle politiche stataliste, né al loro corrispettivo in ambito diplomatico e cioè alla defaticante e inutile trattativa che impegna per anni le Nazioni Unite attorno al New International Economic Order. Il tentativo di regolamentare i prezzi delle materie prime in senso favorevole ai produttori, infatti, sortisce l’effetto contrario: grazie alla meccanizzazione e al conseguente aumento di produttività, la quota di mercato dei prodotti agricoli detenuta dai Paesi ricchi cresce dal 50% del 1953 a circa il 70% degli anni Novanta (O’Brien, 1997, p. 119). A fare la differenza sono invece alcuni Paesi asiatici: prima le 'tigri' (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore), poi le 'anatre in volo', poi ancora i colossi di Cina e India. Il loro modello di sviluppo si fonda sull’esempio del Giappone, protagonista di una ripresa-miracolo dopo la sconfitta in guerra del 1945. Proprio capitali giapponesi finanziano a partire dalla fine degli anni Sessanta nuove industrie in quei diversi Paesi asiatici che esportano manufatti nei mercati occidentali. «Non esistono vittorie antiglobali da climatici avversi, come caldo e siccità. Una delle conseguenze più nefaste è la particolare incidenza di malattie epidemiche come la malaria e l’AIDS. Una storica bassa densità di popolazione si unisce al fatto che la maggioranza ha un accesso al mare reso più difficile dalla conformazione del paesaggio e dalla limitata navigabilità dei corsi d’acqua. Ma a distinguere in negativo il continente africano è anche la cattiva qualità della vita politica: minore legittimazione ed efficacia delle istituzioni statali significano minore capacità di includere cittadini e garantire sicurezza. Perduranti ed endemiche guerre civili, instabilità cronica, corruzione segnano in profondità la vita economica di troppi Stati africani (Austin, 2008; Prados de la Escosura, 2013; Marshall, Cole, 2014). Delle quattro aree di crisi umanitaria segnalate dall’ONU a inizio del 2017 per il blocco dei generi alimentari di prima necessità (Nigeria settentrionale, Yemen del Nord, Sud Sudan e Somalia) tre sono in Africa subsahariana e denotano una tipologia molto simile a quella descritta più di trent’anni prima da Amartya Sen. Seppure con la parziale anomalia dell’Africa subsahariana, la previsione di una convergenza fondata sull’intreccio di dati economici e demografici formulata da Korotayev e colleghi (2015) pare comunque più robusta e affidabile che non quella di Baldwin (2018) affidata allo sviluppo di Information and Communication Technologies, i cui effetti su ineguaglianza e povertà appaiono tutt’altro che univoci. Infatti le società occidentali mostrano invece una forbice interna crescente, tra l’arretramento relativo dei redditi più bassi e la crescita record dei super-ricchi. Con la significativa eccezione dei Paesi scandinavi e un andamento altalenante nel resto dei Paesi europei, le distanze tra ricchi e poveri si allungano a partire dagli anni Ottanta nei Paesi anglosassoni ma soprattutto nei Paesi comunisti ed ex comunisti. Nel 2015, l’Indice di Gini negli Stati Uniti (0,411) che pure è uno dei più alti nel gruppo delle economie avanzate, è comunque leggermente inferiore a quello della Cina (0,422) e della Russia (0,416)(United Nations 2016, p. 206, tab. 3; Brandolini, Smeeding, 2011). In Cina le differenze di reddito tra zone urbane e rurali, così come tra costa e interno, appaiono sopravanzate da quelle che attraversano internamente ciascuna regione: frutto della nuova libertà d’impresa ma anche della confusione tra ceto politico e ceto imprenditoriale, con tutte le ricadute negative in termini di corruzione e ristagno di salari e domanda interna che continuano a preoccupare i vertici del partito (Benjamin et al., 2008). In Occidente, invece, a differenza di quanto sostiene Piketty, non si tratta di un 'eterno ritorno dell’eguale' incarnato da una prevalenza di patrimoni accumulati e trasmessi per via ereditaria, solo temporaneamente repressi dalle politiche livellatrici originate dalla crisi del 1929. Basta un’occhiata alla lista delle persone più ricche o delle compagnie con fatturati più alti nel mondo per rendersi conto di prepotenti novità rispetto al passato: la presenza crescente dell’Asia, il peso altrettanto crescente del settore terziario (la grande distribuzione di Walmart e Amazon) e delle Information and Communication Technologies (come Google e Facebook), il ruolo invasivo della finanza testimoniato dalla crisi del 2008 (Baldwin, 2018; Greenwood, Scharfstein, 2013). Dal 1980 nei Paesi ricchi le differenze retributive tra lavoratori qualificati e dequalificati sono in costante aumento. Contrastando un diffuso senso comune, gli studiosi attribuiscono questa crescita dell’ineguaglianza solo in misura minore alla globalizzazione sotto forma di importazione dall’estero di merci e manodopera a costi più bassi (Wood, 1994; Blinder, 2009) e in misura maggiore all’innovazione tecnologica e alle più elevate competenze richieste alla forza lavoro, con la conseguente emarginazione di quanti non le possiedono (Cline, 1997; Acemoglu, 2002; Goldin, Katz, 2008; Lawrence, 2008; Goos, Manning, Salomons, 2009; Autor, Dorn, 2013; Ebenstein et al., 2014). Un esempio classico è la sostituzione degli operai portuali preposti al carico e scarico delle merci con addetti alle gru, che spostano in sincronia container dalla e navi ai camion e viceversa. Il declino di tassi di sindacalizzazione, che oggi interessa tutti i Paesi sviluppati (un po' meno quelli scandinavi grazie alla gestione dei sussidi di disoccupazione) appare come un effetto, anziché una causa, di tale processo. Il premio occupazionale e remunerativo derivante dalla qualificazione e dalla solidarietà introduce infatti nel mondo del lavoro un mutamento 'antropologico' più ampio, indotto dai media e dai consumi: l’emergere di un individualismo acquisitivo di massa, portato a far prevalere le ragioni della libertà su quelle della giustizia (Rosanvallon, 2013; Scott, 2011). Tecnologia e globalizzazione, in altre parole, tendono a rendere meno omogenee le condizioni di lavoro, meno automatica la percezione di sé in termini di classe sociale, più facile il ricorso a soluzioni individuali e quindi molto più difficile che in passato la riedizione a soluzioni individuali e quindi molto di più difficile che in passato la riedizione di ogni politica economica fondata sullo stato sociale. Il problema è che il ritorno in grande stile dell’ineguaglianza nelle società sviluppate mette radicalmente in discussione il modello della Curva di Kuznets e quindi il fondamento della teoria economica liberale relativo al trickle down della ricchezza. Soprattutto il mondo della finanza pare incarnare un capitalismo più autoreferenziale e privo di nessi con l’economia reale, parassitario rispetto al resto della società ma capace di arricchire e separare piccole minoranze privilegiate. Sono ormai molti gli studi che identificano le società nazionali più egualitarie in termini di reddito (le nordeuropee) come quelle contraddistinte anche da livelli maggiori di mobilità sociale e intergenerazionale, apertura, inclusività. In quelle più ineguali (i Paesi di lingua inglese) invece le gerarchie sociali tendono maggiormente a riprodursi per via ereditaria di padre in figlio e a ricomprendere tradizionali linee di faglia di gender e di razza (Frank, 2007; Pressman, 2007; Burkhauser, Nolan, Couch, 2011; Corak, 2013). Ciò che per decenni ha rappresentato il nucleo del 'sogno americano' – la mobilità sociale verso l’alto come opportunità aperta a ciascuno – sembra entrare irrimediabilmente in crisi. Società più ineguali sono – oltre che società più conflittuali – anche società più statiche. Ma non solo. Medici ed epidemiologi inglesi hanno constatato la correlazione statistica tra più alti livelli di ineguaglianza interna (con particolare riferimento ancora a Stati Uniti e Gran Bretagna) e più alti livelli di disagio sociale: delinquenza giovanile, gravidanza in età adolescenziale, alcolismo, omicidi, più bassa aspettativa di vita, più alta mortalità infantile, obesità. I Paesi scandinavi del Nord Europa contraddistinti da una minore dispersione dei redditi mostrano anche una minore incidenza di questi aspetti degenerativi (Wilkinson, Pickett, 2009). Società più ineguali sono anche società più malate. 4 Storia dell’industrializzazione in età contemporanea. Una prospettiva globale di Stefano Agnoletto Almeno a partire dal XX° secolo, la produzione di beni e servizi realizzata all’interno di un modello capitalista di azienda rappresenta la norma dominante, anche se non unica, di funzionamento dell’economia mondiale. In questo contesto, con una corsa iniziata a partire dalla metà del XVIII° secolo, la fabbrica è divenuta il luogo privilegiato e paradigmatico della produzione materiale. L’archetipo della fabbrica contemporanea è un’unità produttiva manifatturiera di grandi dimensioni, che riunisce un numero significativo di lavoratori sotto lo stesso tetto e dove di concentrano tutti i fattori di produzione, tra cui macchinari mossi da un’unica fonte di energia. Il soggetto la cui iniziativa è all’origine della produzione di fabbrica è l’imprenditore, rappresentato da un individuo o da una società che riassume il rischio di impresa. L’affermarsi del sistema di produzione capitalista e di fabbrica che ha progressivamente plasmato l’industrializzazione mondiale tra il XVIII° e il XX° secolo, i motivi di tale marcia trionfale, ma anche le ragioni delle diverse cronologie locali e delle gerarchizzazioni che l’hanno caratterizzata, saranno oggetto di approfondimento in questo capitolo. Tali temi vengono esaminati mettendo a confronto diversi approcci e interpretazioni che si sono succeduti nella letteratura sulla storia dell’industrializzazione contemporanea. Nelle prossime pagine viene proposto un percorso di riflessione storiografica che inizia con un richiamo alle analisi più tradizionali e anglocentriche sulla rivoluzione industriale, a cui segue la descrizione di interpretazioni di lunga durata fondate su concetti come industrious revolution o protoindustria e che si sono concentrate sulla ricerca dei fattori endogeni che avrebbero favorito l’avvento del sistema industriale di fabbrica in alcune aree piuttosto che in altre. La seconda parte del capitolo è dedicata ad approcci storiografici e autori che hanno focalizzato la propria attenzione verso i determinanti esogeni dei processi di industrializzazione e vengono anche richiamate le più recenti interpretazioni che esprimono letture non eurocentriche, o globali, del fenomeno. Infine, in una prospettiva di global history, viene proposta la presentazione di alcuni casi di studio di industrializzazione novecenteschi esterni all’area euro-occidentale allo scopo di evidenziare la necessità di riconsiderare le interpretazioni tradizionali che pongono in relazione il decollo industriale con i fondamenti della teoria economica classica e neoclassica. In particolare, viene messa in discussione l’idea originaria di Adam Smith della cosiddetta 'mano invisibile' del mercato e del laissez-faire come volani della modernità industriale, in quanto questi casi di studio evidenziano il ruolo strategico giocato da variabili come lo Stato e la pianificazione. È utile sottolineare che le riflessioni proposte in questo capitolo riguardano un arco cronologico definito tra il XVIII° e il XX° secolo e non affrontano le grandi sfide del XXI° secolo, i processi in atto e i nuovi equilibri mondiali che vanno definendosi. 4.1 La rivoluzione industriale inglese come paradigma Cosa sappiamo dei percorsi storici che hanno permeato il processo di industrializzazione globale che ha caratterizzato l’età contemporanea? Come prima approssimazione si può affermare che essi ebbero un loro epicentro spazio-temporale nella cosiddetta prima rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra a metà Settecento e poi diffusasi all’Europa Occidentale, all’America Settentrionale, al mondo. Può essere considerata una premessa o il punto di arrivo di un lungo percorso, una cesura fondamentale o un momento di passaggio più o meno significativo, ma certamente qualunque ragionamento sulla storia della produzione e dell’industria in età contemporanea non può prescindere dal confronto con quella che, grazie a Arnold Toynbee, chiamiamo la rivoluzione industriale inglese (Tiynbee, 1884) e gli innumerevoli dibattiti ad essa correlati. Essa rappresenta un prisma concettuale fondamentale nel dibattito storiografico. Nella letteratura, le riflessioni sulla rivoluzione industriale inglese e sulle forme dei processi seguenti di industrializzazione globali, così come sulle loro interazioni, hanno dato vita a visioni e narrazioni diverse della contemporaneità stessa, divenendone un asse portante. Esemplare è il noto approccio di Max Weber sulla presunta correlazione tra etica protestante, capitalismo e rivoluzione industriale. Esso rappresenta un caso paradigmatico di un’interpretazione dello sviluppo del capitalismo contemporaneo fondata sulla centralità dei fattori culturali e ideologici come pre-condizioni necessarie rispetto ai vincoli economico-strutturali. Altri autori hanno proposto approcci istituzionalisti, prime fra tutti le interpretazioni che guardano all’importanza dei diritti di proprietà come elemento che è stato capace di ridurre l’incertezza economica e i costi di transizione e in questo modo favorire l’espansione industriale inglese ed europea (North, Thomas, 1973). Spesso nella letteratura viene anche evidenziato il ruolo delle istituzioni politiche, come quelle nate dalla Gloriosa rivoluzione del 1688, in quanto funzionali a creare un ambiente favorevole alla crescita economica. L’approccio weberiano e in generale gli approcci istituzionalisti e neo-istituzionalisti, hanno definito alcune delle basi ideologiche fondamentali di varie interpretazioni eurocentriche ed endogene del progresso industriale e tecnologico. In questa prospettiva, molte analisi del fenomeno dell’industrializzazione sono fondate su dualismi che, seppur diversi, hanno in comune rappresentazioni lineari o potenzialmente progressive del suo affermarsi. Queste sono le narrazioni sull’industrializzazione che raccontano avanzamenti e arretramenti rispetto a una presunta best way, utilizzando alcune fra le seguenti interpretazioni dicotomiche: moderno contro premoderno, ascesa contro declino, sviluppo contro arretratezza, innovazione contro ritardo tecnologico. Alle origini di queste vi è l’idea dell’'eccezionalismo' storico dell’esperienza inglese, il suo ruolo di modello normativo e termine di paragone. In questa direzione divengono elementi fondamentali nel dibattito storiografico sull’industrializzazione alcuni concetti utilizzati per spiegare il caso inglese. Innanzitutto, il cosiddetto 'stile tecnologico' cioè l’insieme di tecnologie congruenti che diventa normale all’interno di una data società e che incorpora una specifica visione del mondo (Staudenmaier, 1985). Nel celebrare lo stile tecnologico della rivoluzione industriale inglese lo si identifica con lo 'spirito imprenditoriale' inteso come un insieme di valori economici e metaeconomici alternativi rispetto alle regole tradizionali dell’Antico Regime e capaci di informare tutte le attività di produzione e scambio: agricoltura, industria, comunicazione, credito, commercio (Carera, 1995, p. 58). L’imprenditore e la fabbrica vengono raccontati come gli attori primari, prodotti sociali di un processo complesso, ma descritto come unitario. Lo spirito imprenditoriale, combinazione virtuosa di capacità innovativa e ricerca del profitto in un mondo competitivo, avrebbe introdotto una spinta creativa irresistibile al cambiamento dei prodotti e alimentato per secoli vengono premiate dalla conquista del primato industriale globale e l’ascesa europea viene ancora una volta spiegata in maniera internalistica. Come ha segnalato Kenneth Pomeranz nell’introduzione de La grande divergenza, se da una parte questa storiografia gradualista ha smussato l’opposizione, ereditata dalla teoria della modernizzazione, tra Occidente moderno industrializzato e il suo passato, al contempo questi filoni sembrano suggerire che la contrapposizione tra Occidente avanzato e Occidente arretrato avesse radici storiche più profonde di quanto precedentemente teorizzato (Pomeranz, 2004). 4.3 Fattori esogeni e industrializzazione Il paradigma del presunto 'miracolo europeo' di lunga durata viene sfidato a partire da letture che guardano alla storia dell’industrializzazione da punti di vista esterni all’universo euro-occidentale. Alcuni importanti tentativi di proporre interpretazioni alternative alla teoria della modernizzazione secondo il modello di Rostow, hanno avuto i loro protagonisti in Immanuel Wallerstein, nei rappresentanti della teoria della dipendenza e nei cosiddetti post-colonial studies. Queste teorie sono accomunate dal tentativo di proporre spiegazioni esogene e sistemiche al perché della primogenitura e conseguente dominio industriale e tecnologico-produttivo europeo e occidentale e alla simmetrica arretratezza tecnologica e produttiva di altre aree mondiali. A partire dai primi anni Settanta Immanuel Wallerstein rappresenta una sfida per i teorici della modernità, contrapponendo ad astratte logiche di sviluppo una lettura del passato in una prospettiva globale. In particolare, Wallerstein propone una narrazione fondata sullo studio di rapporti sistemici tra economie- mondo, ponendo al centro i fattori esogeni e relazionali e non la ricerca di fattori endogeni di sviluppo (Wallerstein, 1978-1995). I teorici della dipendenza, soprattutto economisti e scienziati sociali latinoamericani, propongono una sorta di ribaltamento di prospettiva e concentrano i propri studi sulle 'periferie' del mondo industriale e quindi sulle rivoluzioni industriali mancate e/o ritardate e non sulla rivoluzione industriale per definizione. Il loro maggiore contributo intellettuale consiste nell’aver concepito povertà, regresso, arretratezza, mancata innovazione tecnologica, ritardo o assenza dell’industrializzazione, non come conseguenza di fattori endogeni delle società 'arretrate' e quindi non come risultato di tradizioni locali ipotizzate come 'non moderne' e 'non weberiane'. Al contrario, questi autori spiegano ritardi e sconfitte sulla strada della modernità come conseguenza di fattori esogeni non dipendenti dalle caratteristiche proprie delle società indagate. In particolare, individuano la causa dell’arretratezza nelle dinamiche dell’economia mondiale e nella disastrosa integrazione delle periferie nelle strutture del capitalismo globale e nei suoi rapporti di forza non paritari (Kay, 1989). Un filone che si è posto in alternativa a interpretazioni eurocentriche dei processi di modernizzazione, soprattutto dalla fine degli anni Settanta, sono i cosiddetti post-colonial studies, in particolare a partire dal volume Orientalismo di Edward Said (Said, 1999). Se i primi approcci, come quelli di Said, sono stati più attenti alla decostruzione dell’eredità culturale del colonialismo e quindi meno interessati alle tematiche economico-strutturali, pone il focus su una prospettiva relazionale ha aperto il campo a nuove interpretazioni sulla diversa cronologia e modalità dei processi di industrializzazione e innovazione tecnologica (Fank, Gills, 1993). In particolare, viene messo in evidenza come i processi di diffusione del capitalismo industriale contemporaneo e dell’innovazione tecnologica non avvennero in un mondo astratto dominato dalla mano invisibile di Adam Smith, ma in una realtà asimmetrica dominata dal colonialismo e dall’imperialismo (Conrad, 2015, p. 88). Inoltre, questi approcci rappresentano un’evoluzione teorica anche rispetto alle impostazioni di Wallerstein, il quale, pur riconoscendo il ruolo giocato da fattori esogeni nel determinare i processi industriali, non ha abbandonato definitivamente un approccio eurocentrico quando mantiene la dicotomia tra le 'periferie', come zone 'arretrate' per via della mancata integrazione, e il 'centro'. In generale, queste prospettive storiografiche aprono la strada a spiegazioni che ribaltano alla radice le riflessioni sulle origini e cause dei diversi percorsi di industrializzazione: il focus si sposta dalla disponibilità di risorse endogene all’esistenza di vincoli esogeni che indirizzano forzatamente la storia economica globale e locale. 4.4 Prospettive globali di storia dell’industrializzazione Negli ultimi decenni varie scuole di pensiero hanno sfidato gli approcci consolidati proponendo nuove ipotesi interpretative rispetto al perché vi siano vincitori e sconfitti nelle grandi divergenze scaturite dai processi di industrializzazione capitalista. In particolare, l’idea di un 'miracolo europeo' profondamente radicato in un eccezionalismo di lunga durata è al centro dell’azione revisionista agita dal principio del XXI° secolo da un gruppo di storici di quella che è stata definita la 'California school' (Goldstone, 2000). Il dibattito animato dagli storici della California School sulle performances economiche e sugli assetti socioistituzionali di alcune aree extraeuropee in età preindustriale, ha fatto emergere delle rappresentazioni non compatibili con l’idea di un eccezionalismo europeo con radici antiche. Ad esempio, Robert C. Allen segnala come all’inizio del XX° secolo la produttività del lavoro e i redditi in agricoltura in Inghilterra e nella regione del delta della Yangzi avessero valori simili (Allen, 2011a). in via generale, Kenneth Pomeranz ritiene che «la Cina dek XVIII° secolo (e forse anche il Giappone) si avvicinarono più dell’Europa Occidentale al modello neoclassico di economia di mercato» (Pomeranz, 2004). Si assiste al moltiplicarsi di ricerche comparative che presentano quadri di insieme sempre più distonici rispetto all’idea di un’industrializzazione a guida occidentale descritta come il risultato di 'meriti' endogeni. Inoltre, il recente imporsi dei filoni non eurocentrici della cosiddetta global history come uno dei nuovi paradigmi storiografici dominanti incentiva approcci di analisi che vanno oltre la mera comparazione nazionale e che facilitano il disvelamento di fenomeni prima invisibili alla ricerca storica. In particolare, l’attenzione sempre maggiore al livello regionale come ambito di indagine (Conrad, 2015) facilita lo studio della storia della produzione manifatturiera in aree del globo dove il modello statuale europeo si è imposto solo tardivamente. Il caso dell’Impero cinese sette-ottocentesco è emblematico di una realtà produttiva che rimarrebbe invisibile a studi che considerassero l’entità cinese alla stregua dello Stato-nazione dell’Europa occidentale. Il superamento del livello statuale come focus di analisi privilegiato ha anche incentivato lo svilupparsi di ricerche che hanno come oggetto di indagine macroregioni transnazionali. Ad esempio, gli studi dell’antropologo Jack Goody individuano nell’Eurasia lo spazio dove Oriente e Occidente si sono incontrati e alternati nel ruolo di leadership globale (Goody, 2010). In generale, negli ultimi anni si è diffusa la tendenza ad analizzare l’origine dei processi di industrializzazione moderna e i 'perché' delle prime rivoluzioni industriali europee in una prospettiva globale. Il focus del dibattito storiografico è sempre sul confronto tra fattori endogeni ed fattori esogeni, con l’evidenziazione delle relazioni tra processi di industrializzazione locale e regionale, alcuni fenomeni transnazionali (come il colonialismo o l’imperialismo), elementi casuali (ad esempio, la disponibil ità di risorse naturali), il rapporto tra innovazione tecnologica e analisi di economia comparata e i tradizionali fattori istituzionali e culturali endogeni di tradizione weberiana. Un esempio interessante dei cambi di paradigma storiografico è l’evoluzione che ha caratterizzato il dibattito sulle cause demografiche della 'grande divergenza' sette-ottocentesca. Il problema da risolvere era come è stato possibile per l’Europa, a differenza ad esempio dell’Asia, superare la cosiddetta 'trappola malthusiana' che caratterizzava l’antico regime preindustriale. Come fu inibito il meccanismo per cui gli effetti del progresso tecnico si annullavano perché gli incrementi nella popolazione distruggevano ogni possibile miglioramento nel reddito pro capite? Una spiegazione tradizionale individua in alcune istituzioni sociali europee, come ad esempio l’età di matrimonio relativamente alta, il meccanismo endogeno al sistema di vita europeo che riduceva il numero di figli per coppia e quindi rallentava il ritmo di crescita demografico (Hajnal, 1965). In tempi più recenti, Gregory Clark ha individuato un fattore esogeno come l’elemento che ha prodotto le condizioni demografiche favorevoli al successo europeo sette-ottocentesco: la peste nera e la sua lunga permanenza in Europa in termini di epidemie ripetute, con l’indotto strutturale di alta mortalità e con l’effetto paradossale di permettere l’aumento del reddito pro capite e incrementi nei salari reali (Clark, 2005). Inoltre, sempre più autori cercano di porre in relazione questa interazione complessa di fattori con un approccio esplicitamente non eurocentrico. Ciò significa innanzitutto approdare a una narrazione multicentrica dell’industrializzazione andando oltre una visione fondata su una presunta progressiva europeizzazione del mondo. Al contempo si vuole anche superare una 'lingua teorica' (Conrad, 2015, p. 98) falsamente universalistica che ha trasformato un’esperienza parziale (quella europea) nel modello teorico di riferimento per raccontare i processi di industrializzazione extraeuropei. Il percorso proposto è quello a prima vista paradossale, di 'provincializzare' l’Europa (Chakrabarty, 2004). Una questione fondamentale riguarda il tema delle cronologie. Ad esempio, un problema storiografico paradigmatico è rappresentato dal significato che assume il XIX° secolo in una storia globale dell’industrializzazione. Come ha evidenziato Paul Bairoch, fino agli anni Trenta dell’Ottocento la Cina è il Paese con la maggior quota percentuale di produzione manifatturiera a livello globale (Bairoch, 1993). Nel 1800 rappresenta più di un terzo della produzione mondiale, che si riduce a poco più del 6% un secolo dopo. Secondo Angus Maddison, nel 1820 la Cina era ancora il Paese più avanzato in termini di produzione manifatturiera pro capite (Maddison, 2013). Come spiega Junger Osterhammel, se nel Settecento la Cina era nel suo insieme una società preminentemente rurale, al contempo e fino ai primi decenni dell’Ottocento la sua bilancia commerciale era principalmente caratterizzata da una forte esportazione di manufatti (Osterhammel, 1992, p. 87). Questi dati segnalano come tra il Settecento e Ottocento la Cina è al culmine della propria capacità produttiva mentre il XIX° secolo è stato caratterizzato da un processo di ridimensionamento manifatturiero, in termini sia relativi che assoluti. Si può affermare che l’Ottocento, visto dalla Cina, fu un secolo di deindustrializzazione? Il problema non è sostituire un approccio eurocentrico con uno sinocentrico, ma ragionare sulla relatività di cronologie assodate. 4.5 La 'grande divergenza' sette-ottocentesca in una prospettiva di storia globale La 'scoperta' che non è possibile descrivere la modernizzazione industriale come un processo lineare di progressivo trionfo del modello euro-occidentale, lascia però aperta la questione del perché della 'grande divergenza' sette-ottocentesca, delle ragioni per cui alcune realtà statuali o regionali sono risultate vincenti e si sono incamminate per prime sulla strada dell'industrializzazione, mentre altre sono risultate perdenti o ritardatarie. Un approccio ispirato alle nuove dimensioni della global history consente di andare oltre interpretazioni consolidate sulle cause dell’arretratezza che ancora ispirano alla tradizione della teoria classica della modernizzazione che connette il ritardo industriale a presunte combinazioni di cause (colpe?) endogene che sarebbero proprie delle società 'sottosviluppate' o 'in via di sviluppo'. Un esempio emblematico è rappresentato dalla storia dell’industria cotoniera indiana e la sua relazione con l'esperienza coloniale. Nel XVIII° secolo l’India esportava filati e tessuti di cotone in Inghilterra. La combinazione di aumento della produttività dovuta alle innovazioni tecnologiche inglesi e il calo dei costi di trasporto concorsero durante l’Ottocento a un drammatico ridimensionamento dell’industria manifatturiera indiana del cotone. I differenziali salariali tra India e Inghilterra rendevano inoltre non convenienti l’applicazione delle nuove tecnologie in India. La logica dei costi comparti fece dell’India un Paese potenzialmente esportatore di cotone grezzo e importatore di filati e tessuti. Ad esempio, nella regione di Bihar la forza lavoro occupata nell’industria manifatturiera locale passò dal 22% del 1810 al 9% del 1901 (Bagchi, 1976). Come per la Cina, anche per l’India l’Ottocento fu il secolo della deindustrializzazione. Un punto importante è evidenziare come l’India, in quanto Paese colonizzato, non poté mettere in atto le politiche pubbliche che negli stessi anni protessero il Nord America e l’Europa continentale dalla concorrenza inglese: dazi protettivi delle industrie nascenti, sviluppo dell'istruzione universale e creazione di capitale umano con relativo incremento dei salari, sviluppo di sistemi bancari universali e di finanziamento (Allen,2011b). L’India, come tutte le altre colonie, non era in condizione di perseguire tali da sviluppare, le strategie imprenditoriali di investimento, l’organizzazione del lavoro, il commercio internazionale (Johnson, 1982). La Corea del Sud seguì un percorso simile: lo Stato pianificò gli investimenti e impose restrizioni sulle importazioni per proteggere le industrie nascenti, le imprese straniere furono marginalizzate dall’industria locale, la qualità e l’efficienza dei sistemi produttivi aziendali furono stimolati a sostegno di una strategia exported-oriented di una parte significativa della produzione (Allen, 2011a, pp. 150-1). Come ha recentemente evidenziato Luciano Segreto, anche i 'miracoli economici' di Hong Kong, Singapore, Taiwan, Malesia, Indonesia e Thailandia degli anni Settanta e Ottanta del XX° secolo furono la conseguenza di specifiche e pianificate politiche industriali pubbliche e, spesso, di strategie di protezione statale nei riguardi delle industrie nascenti (Segreto, 2017, p. 309). Il risultato è stato impressionante: tra il 1965 e il1996 l’Asia Orientale nel suo insieme ha avuto un tasso di crescita medio annuo del PIL pro capite intorno al 6%, a fronte di poco più del 2% dei Paesi cosiddetti sviluppati (Vaggi, 1998). Sul piano del dibattito interpretativo il turning point è rappresentato da uno studio della Word Bank del 1993 sui miracoli economici del Sud-Est asiatico. Questo studio prende atto dell’inadeguatezza di una spiegazione di impronta neoliberale che non considerasse il ruolo trainante, sebben diversificato, giocato dalle politiche di pianificazione e protezionistiche come volani per molti processi di industrializzazione di successo nel secondo Novecento (World Bank, 1993). L’esperienza storica dei processi di industrializzazione asiatici nel secondo Novecento riecheggiano quanto già evidenziato da Karl Polanyi nel 1944 a proposito del caso inglese: il laissez-faire e il libero mercato non ha nulla di naturale, esso stesso fu una scelta pianificata (Ploanyi, 1974, pp. 139-61) e storicamente non ha rappresentato necessariamente il contesto favorevole per l’imporsi di una società industriale. Un caso paradigmatico è rappresentato dall’esperienza della Cina a partire dal 1949. Per comprendere cosa sia avvenuto nella realtà cinese nel secondo Novecento basta un dato: tra il 1949 e il 2006 il PIL cinese pro capite è passato da 448 dollari a 6.048, un risultato migliore della gran parte dei Paesi asiatici, africani e latinoamericani (Allen, 2011a). Questo risultato è stato ottenuto in un Paese che nello stesso arco temporale ha vissuto una drammatica transizione da Paese agricolo a Paese industriale, così che nel XXI° secolo la Cina si sta avviando a essere, di nuovo, la più grande nazione manifatturiera del mondo. Quali sono i fattori che hanno permesso l’impressionante industrializzazione cinese? Oggi molti autori riconoscono che i successi ottenuti con le riforme attuate a partire dal 1978, con l’introduzione di un’originale forma di economia di mercato, in realtà sono stati possibili anche grazie al retaggio del precedente modello maoista con aziende agricole collettive, industrie statali e pianificazione centralizzata. Ad esempio, Allen ricorda l’elevata istruzione della popolazione, le grandi dimensioni del settore industriale, i bassi tassi di mortalità, un apparato scientifico con significative capacità di ricerca e sviluppo (ivi, p. 155). Un sistema economico non di mercato ha permesso lo sviluppo delle precondizioni per il decollo industriale cinese che si è poi definitivamente esplicitato con il cosiddetto 'socialismo di mercato' e l’originale sistema di relazioni Stato-partito-libera iniziativa degli ultimi decenni. Rimane una ulteriore questione interpretativa aperta: tutti i casi di studio qui descritti in questo paragrafo, tranne il Giappone, hanno sperimentato il proprio decollo industriale in un contesto politico diverso da quello democratico-liberale dominate nel medesimo arco temporale nell’area euro-atlantica. Per numerosi Paesi asiatici sembrerebbe che forme di governo politico non democratico abbiano rappresentato il contesto istituzionale favorevole, inteso come risorsa endogena, per un catching-up positivo rispetto a quel dominio industriale occidentale definitosi tra il XVIII° e il XX° secolo e che a sua volta deve molto del suo successo a fenomeni come colonialismo, imperialismo e schiavismo. Un altro elemento di differenziazione rispetto all’esperienza occidentale, che ha caratterizzato in particolare il caso cinese e, seppur con modalità differenti, il caso giapponese post-bellico, riguarda la diversa strategia politica internazionale sviluppata nelle fasi del proprio decollo industriale. Cina e Giappone hanno sviluppato modelli originali di soft power (Nye, 1990), che per i due Paesi asiatici ha significato la capacità da parte dello Stato di sostenere l’espansione economica e l’inserimento nel mercato globale con una strategia di valorizzazione della propria attrattività, che nel dopoguerra non ha ricalcato le orme dell’industrializzazione euro-americana. 4.7 Riflessioni conclusive Il dibattito storiografico sulla storia globale dell’industrializzazione tra il XVIII° e il XX° secolo si è caratterizzato per l’alternarsi di letture eurocentriche (o sino-centriche o 'altro-centriche') e interpretazioni multipolari di diffusione dell’innovazione tecnologica, dell’imprenditorialità e dell’industrializzazione. È emersa la pluralità di prospettive storiografiche sulle caratteristiche della cosiddetta rivoluzione industriale, sulle ragioni della grande divergenza tecnologico-produttiva sette-ottocentesca e sui significati dei successi e insuccessi di alcuni processi di industrializzazione tra XIX° e XX° secolo. Una questione fondamentale del dibattito storiografico riguarda il confronto tra interpretazioni endogene del decollo industriale di una data realtà e approcci che considerano anche fattori esogeni e relazionali. In questo capitolo i modelli endogeni di impronta weberiana, oppure legati alla tradizione della teoria della modernizzazione o all’idea dell’eccezionalismo inglese, sono stati posti a confronto con le letture provenienti dai filoni dei post-colonial studies o dall’universo storiografico della global history. Temi come il colonialismo, lo schiavismo e l’imperialismo, ma anche l’autoritarismo statalista di diversa natura, sono stati considerati come fattori significativi per la comprensione di una storia globale della società industriale. Nonostante il dibattito sia ancora aperto e non sia possibile proporre un bilancio storiografico definitivo, gli ultimi decenni hanno sicuramente apportato un definitivo cambio di rotta rispetto agli studi sull’industrializzazione. La necessità di considerare non solo letture endogene dei singoli casi di studio, ma di inserirle in contesti globali di relazioni è un assioma ormai consolidato. Emerge un apparente paradosso: la necessità di approcci storiografici globali e multipolari illumina la complessità di un quadro di insieme difficilmente intellegibile e meno interpretabile tramite l’applicazione di modelli universali. L’universalizzazione dell’oggetto di indagine ha deuniversalizzato i modelli interpretativi. Come hanno notato Francesco Boldizzoni e Pat Hudson nell’introdurre il recente Routledge Handbook of Global Economic History da loro curato (Boldizzoni, Hudson, 2016, p. 5), le nuove tendenze di storia globale stanno svuotando di significato varie dicotomie Est/Ovest o Nord/Sud che hanno caratterizzato per decenni la storiografia economica sull’industrializzazione e che proponevano interpretazioni lineari dei processi storici. Dicotomie cronologiche e/o geografiche basate su contrapposizioni come lavoro servile versus lavoro libero (van der Linden, 2008; Stanziani, 2014) o statalismo versus mercato (de Vries, 2008) sono oggi difficilmente accettabili. Ogni caso di studio riprende la sua dignità all’interno di processi di lunga durata. In questa prospettiva appare significativo concludere questo capitolo ricordando l’approccio proposto da Patrick O’Brien di trattare l’industrializzazione inglese come una fra le tante congiunture di una storia economica globale (O’Brien, 2010) e non il parametro per valutare 'ritardi' o 'differenze'. 5 Commercio mondiale e globalizzazioni tra XIX° e XX° secolo di Carlo Fumian 5.1 La 'rivoluzione commerciale' Il poderoso processo dell’industrializzazione mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, che ha giustamente attratto e continua ad attrarre l’attenzione degli storici, ha generato una sorta di paradigma industrialista che, ponendo al centro del processo di trasformazione la produzione, tende ad offuscare le dinamiche dello scambio, in qualche modo considerato come momento ancillare rispetto alla produzione di ricchezza. Una sottovalutazione che molto deve alla vulgata marxista – teorica e storiografica – centrata sul binomio valore-lavoro, e propensa a considerare i profitti delle transazioni post-produttive frutto di 'parassitismo' e 'speculazione'. In realtà un’imponente 'rivoluzione commerciale' ha accompagnato, talvolta preceduto e certamente integrato, i mutamenti degli assetti produttivi, offrendo un campionario di innovazioni tecniche e organizzative per nulla secondario o inferiore rispetto alla più famosa e nobile 'sorella'. Se il commercio a lunga distanza ha alle spalle una storia millenaria, è solo a partire dal XIX° secolo che commodities di largo uso e consumo sostituiscono i prodotti di lusso quali seta, spezie o porcellane, grazie all’adozione di originali e creative soluzioni a giganteschi problemi inerenti alla raccolta delle merci, al loro immagazzinamento, alla loro standardizzazione secondo riconosciute pratiche internazionali di classificazione, al trasporto, alla refrigerazione, alla congelazione, all’inscatolamento, su fino alla pubblicità e al marketing. Processi imponenti che determinano trasformazioni spesso 'immateriali' ma dalle enormi conseguenze politiche e sociali: si pensi alla determinazione del prezzo, ora del tutto svincolato dalle aree di produzione, o ancora alla creazione di strumenti organizzativi e societari e all’invenzione di strumenti finanziari e assicurativi (in primis i contratti futures da cui hanno origine gli odierni mercati dei derivati); o alla pratica di trattati e accordi commerciali (bilaterali e multilaterali) che hanno dato vita a istituzioni internazionali esplicitamente dedicate alla regolamentazione dei traffici internazionali. Né si può infine dimenticare un elemento di estrema rilevanza sul piano economico-sociale: il 'sistema' emerso dalla rivoluzione commerciale, certamente non privo di difetti e spesso foriero di diseguaglianze, ha comunque potentemente contribuito alla virtuale sparizione delle carestie di natura 'tecnica', ovvero legate all’assenza di risorse e all’impossibilità di raggiungere le aree colpite con i rifornimenti, che hanno contrassegnato come una tragica costante la storia preindustriale dell’umanità, perennemente sotto il tallone del clima e delle epidemie (Goldstone, 2010, p. 37). Se certamente le carestie hanno continuato a colpire molte aree del globo negli ultimi due secoli, esse derivano, assai schematicamente, da scelte politiche e non di mera assenza o irraggiungibilità delle risorse alimentari (Curan, Luciuk, Newby, 2015; Bulliet et al., 2014, p. 788; sulle carestie, De Waal, 2018, O Grada, 2009). 5.2 World Supply Chain Lo studio delle reti commerciali è comprensibilmente uno degli ambiti più immediatamente assimilabili alle ricerche di storia globale (Findlay, O’Rurke, 2017; Pomeranz, Topik, 2006; McCusker, 2006). I mercanti, accanto a esploratori, missionari e avventurieri, sono le figure più paradigmatiche della volontà – e della necessità – di superare i confini e creare global connections (Stearns, 2005; Coatsworth et al., 2015). La mappa delle reti commerciali via terra e via mare, dall’Antichità a oggi, restituisce il disegno fondamentale di tali connessioni, dalla fin troppo famosa Via della Seta (dalla Cina al Medio Oriente), ai percorsi terrestri dell’ambra tra Baltico e Mediterraneo, alle rotte marittime delle spezie, alle piste dell’incenso (tra Arabia e Mediterraneo) e le vie degli schiavi (le rotte atlantiche percorse da mercanti cristiani, tra le coste africane e i Caraibi, e le piste commerciali transahariane verso il Maghreb e i deserti del Mashreq, poi verso il mar Rosso e l’oceano Indiano, monopolizzate da mercanti islamici), alla pericolosissima via del tè e dei cavalli (scambiati tra la regione del tè e del Sichuan e Lhasa, la capitale del Tibet), o ancora alla rotta del rame, che già nel primo millennio avanti Cristo congiungeva la Cornovaglia alla Grecia e oltre. Precedenti di estrema rilevanza, nerbo delle cosiddette globalizzazioni arcaiche, ma è certo che solamente negli ultimi secoli (anche se già nella seconda metà del Settecento la ragnatela delle rotte del solo traffico britannico copriva fittamente l’oceano Indiano e l’Atlantico, FIG. 1), con un’evidente accelerazione dal primo Ottocento si assiste alla costruzione di una rete di connessioni commerciali sistemiche, regolari e organizzate che annichiliscono le distanze e modificano radicalmente l’intera struttura dei consumi quotidiani. Scriveva John Maynard Keynes in un famoso libro del 1919: «Quale straordinario episodio nel progresso economico dell’umanità fu quell’era che si chiuse nell’agosto del 1914! La più gran parte della popolazione lavorava, è vero, intensamente, pur godendo di uno standard di vita basso; ma era, secondo ogni apparenza, abbastanza soddisfatta di questo stato di cose. Era tuttavia possibile, per ogni uomo dotato di capacità o di carattere superiore alla media, di salire fra le classi medie o fra le classi alte, alle quali la vita Simili spettacolari avanzamenti tecnologici, così intimamente 'globalizzanti', possono in realtà offrire una visione fuorviante. Se la tecnica è decisiva, altrettanto e forse più lo è la politica. «La globalizzazione è fondamentalmente politica, non tecnologica», affermano con decisione Ronald Findlay e Kevin O’Rourke: «Per la prima volta nella storia, le navi a vapore e le ferrovie hanno reso possibile il trasporto di merci voluminose attraverso oceani e continenti, collegando regioni del mondo con dotazioni molto diverse di terra, lavoro e capitali. Di fronte all’invasione di grano a buon mercato proveniente dalla Russia e dal Nuovo Mondo, i governi di Francia, Germania e altri Paesi continentali hanno ceduto alle richieste protezionistiche dei loro collegi elettorali, aumentando significativamente le tariffe agricola. […] Le nuove tecnologie a vapore della rivoluzione industriale non avrebbero mai potuto esercitare simili effetti se non avessero operato nel contesto di un sistema geopolitico stabile all’interno del quale la Royal Navy garantiva per tutti la libertà di navigazione, all’interno del quale le guerre tra le principali potenze europee erano relativamente rare, e all’interno del quale quelle stesse potenze europee usavano la loro superiorità militare per imporre un commercio più o meno aperto alla maggior parte dell’Africa e dall’Asia. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale un simile sistema geopolitico fu distrutto e con esso la globalizzazione del XIX° secolo, nonostante che il progresso tecnologico sia continuato senza sosta durante il periodo tra le due guerre. E mentre nei Paesi ricchi dell’Europa Occidentale e del Nord America il periodo post-1945 vide una graduale ricostruzione dell’apertura commerciale, la deglobalizzazione caratterizzò gran parte del resto del mondo fino agli anni Ottanta grazie alla diffusione del comunismo e della decolonizzazione, che affondavano le proprie radici nelle due guerre mondiali del secolo, e nella disfatta economica che neseguì (Findlay, O’Rourke, 2008)». Altrimenti detto, con buona pace di Cobden, Montesquieu e Norman Angell, l’integrazione commerciale e l’interdipendenza (che può generare vulnerabilità e quindi 'paura') non garantiscono necessariamente la pace e l’ordine mondiale. Ma il rilievo dell’ordine politico internazionale è evidente nel processo che, nel corso dell’Ottocento, assegna all’Europa (e soprattutto alla gran Bretagna e alla sterlina) un ruolo egemone su scala mondiale: se è vero che anche precedentemente l’Europa interagiva con altre core regions a Sud come a Ovest e a Est, già nella prima metà del XIX° secolo la tradizionale struttura multipolare degli scambi si raccoglie in una struttura unificata in cui i diversi poli della produzione e del commercio sono in contatto tra loro e 'governati' da un efficace sistema monetario internazionale (Chase-Dunn, Kewano, Brewer, 2000; De Cecco, 1979). Più in generale, si può affermare che sui processi di globalizzazione le pur essenziali svolte tecnologiche in grado di abbattere i costi dei trasporti e delle transazioni incidono meno rispetto al quadro politico e alla stabilità garantita da riconosciute leadership mondiali e da istituzioni in grado di funzionare come camere di compensazione degli squilibri (prestatori di ultima istanza). Non a caso, l’intensa e distruttiva fase di deglobalizzazione negli anni tra le due guerre mondiali coincise con l’incapacità sia della Gran Bretagna a continuare ad assumere la guida del sistema commerciale e finanziario mondiale, sia degli Stati Uniti a subentrarvi, come dimostra – vero spartiacque dell’irreversibilità della Grande depressione – il fallimento decretato da Franklin Delano Roosevelt della Conferenza economica di Londra, ultimo tentativo di ripristinare il sistema degli scambi internazionali e di stabilizzare il sistema monetario (Kindleberger, 1998). Leadership che com’è noto verrà invece assunta dagli Stati Uniti già a partire dalla Conferenza di Bretton Woods del 1944, e che determinerà la cornice dell’espansione mondiale postbellica almeno fino al 1971 (Steil, 2015). 5.3 Dinamiche del commercio mondiale Se il commercio internazionale è vettore e misura dei processi di globalizzazione, è necessario riflettere sulla cornice temporale del fenomeno. Una consolidata e autorevole visione (O’Rourke, Williamson, 2005) riconosce alla seconda metà dell’Ottocento i caratteri di una moderna e matura globalizzazione, intesa nel più sterilizzato dei modi quale intensa e organizzata fase di scambi di uomini, merci, capitali e informazioni. Ma recenti accurati lavori cliometrici consentono di espandere tale periodo di crescita a tutto l’Ottocento post-napoleonico e di ridisegnare le grandi onde di espansione e contrazione del commercio mondiale negli ultimi due secoli in questo modo: «Le esportazioni mondiali hanno iniziato a crescere rapidamente dopo la fine delle guerre napoleoniche. […] Contrariamente ad una diffusa opinione, il commercio crebbe più rapidamente nel 1817-1866 che nel 1867-1913 […]. Se il commercio avesse continuato a crescere alla stessa velocità del periodo precedente il 1867, nel 1913 sarebbe stato più alto del 55%. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale provocò un calo delle esportazioni mondiali di circa un quarto. Tornarono al livello prebellico nel 1924 e continuarono a crescere, fino a superare nel 1929 di un terzo quello del 1913. Al colmo della Grande depressione, nel 1933, il commercio mondiale era del 30% inferiore rispetto al 1929 e del 5% inferiore al 1913. Nei quattro anni successivi recuperò circa due terzi del terreno perduto, tanto che nel 1937 era di un 'solo' decimo sotto il livello del 1929. Il commercio mondiale si riprese abbastanza rapidamente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1950 era già superiore del 10% rispetto al 1929 e crebbe a rotta di collo durante l’età dell’oro. Quindi, come mostra la FIG. 3 all’inizio degli anni Settanta il recupero era (quasi) completo e il commercio era di nuovo sul percorso di crescita pre-1913. Lo sviluppo ha subito un forte rallentamento negli anni Settanta, ma ha accelerato di nuovo dopo il 1980. Il commercio mondiale ha superato il percorso di crescita pre-1913 dalla metà degli anni Novanta e il suo tasso di crescita era significativamente più alto nel 1950-2007 (5,10) rispetto al 1817-1913 (3,62). La Grande recessione ha fatto sì che il commercio diminuisse molto meno che durante la Grande depressione, ma oltre un decennio dal suo inizio non c’è ancora un chiaro segnale di recupero (Federico, Tena-Junguito, 2016). La ricerca di Federico e Tena- Junguito ci ricorda dunque non solo che l’eccezionale espansione commerciale del XIX° secolo è stata la più lunga e durevole di quanto comunemente si sia creduto, andando all’incirca dalla fine delle guerre napoleoniche allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma che il commercio nelle fasi espansive tende a crescere più della produzione, come nel paradigmatico caso del secondo dopoguerra (FIG. 4), in ragione della diminuzione dei costi del commercio internazionale, in primis tariffe e noli. Se ciò è vero, è dunque necessario monitorare e interpretare molto attentamente le fasi in cui il commercio cresce meno della produzione: una raccomandazione che porta all’oggi, di fronte al brusco rallentamento seguito alla crisi del 2008, in un quadro di minacciate (e in parte intraprese) guerre commerciali. Con la crisi del 2008 il commercio mondiale è crollato del 20% rispetto al prodotto lordo globale, rovesciando bruscamente un trentennio di crescita, sostenuto soprattutto dal contributo della Cina e di altri Paesi 'emergenti' entrati nel mercato manifatturiero, coprendo il 25% del totale mondiale nel 2000 (ne 1929 il loro contributo era pari a zero)(Baldwin, 2009; Federcio, Tena-Junguito, 2016). Scrive Parag Khanna, a questo proposito: «La crisi finanziaria del 2008 ha colpito il commercio mondiale cinque volte più severamente di quanto abbia colpito il PIL mondiale. Prima il credit crunch ha creato uno shock della domanda, con relativo crollo degli acquisti di beni durevoli. Poi la riduzione dei magazzini si è allargata a macchia d’olio con il rallentamento all’unisono della velocità dei commerci, affondando i cicli produttivi industriali un pò dovunque, dalla Germania alla Corea e alla Cina. Lo stesso fenomeno si è verificato con la caduta del prezzo del greggio nel 2014 […]. Le supply chains sono linee di trasmissione: toccano chiunque sia connesso, disperdendo il dolore nell’intero sistema (Khanna, 2016, p. 29). In altre parole, la crisi finanziaria scatenata dal fallimento della Lehman Brothers e dalla virtuale nazionalizzazione della più grande società assicurativa mondiale (l’American Insurance Group, AIG, che nel settembre del 2008 riceve 85 miliardi di dollari dal governo americano in cambio dell’80% delle sue azioni), ha rapidamente condotto a una crisi commerciale globale. Come scrive Baldwin (2009, p. 12), «per la maggior parte delle nazioni del mondo […] questa non è una crisi finanziaria ma commerciale», con il commercio che agisce come meccanismo di trasmissione. Tutto ciò pone il serio problema storico del peso delle scelte protezionistiche sui processi di globalizzazione. In realtà, il rapporto non è univoco né semplice. Si può dire che dipende dal 'grado' del protezionismo e dal contesto. Storicamente, ad esempio, le svolte protezionistiche effettuate da molti Paesi dell’area euro- atlantica dopo il 1879 – tranne la Gran Bretagna – ebbero effetti di lungo termine blandamente negativi sulla crescita delle esportazioni: dopo l’introduzione di dazi anche Paesi come la Germania, la Francia e l’Italia (che comunque sperimentò una decennale, catastrofica guerra doganale con la Francia dopo il 1888), la Svizzera e la Danimarca conobbero periodi di crescita delle esportazioni superiori alle precedenti fasi 'liberiste', mentre la Gran Bretagna, campione del free trade, soffrì un declino delle sue esportazioni (Bairoch, 1998). Altrimenti detto, l’equazione liberalismo-globalizzazione non si appoggia su solide prove storiche (Lefranc, 1954): la Pax britannica – e la Pax americana, nel secondo dopoguerra – si sono rivelate cornici politiche e istituzionali essenziali per i processi di globalizzazione dei traffici (Findlay, O’Rourke, 2008). In particolari fasi del secondo dopoguerra, ad esempio tra gli anni Settanta e Ottanta, «L’America latina, l’Asia e l’Africa dove risiede la maggior parte dell’umanità, hanno iniziato ad aprirsi al commercio e agli investimenti del resto del mondo. La fine del XX° secolo era in gran parte dominata dal tentativo di industrializzazione dei paesi resisi indipendenti. Dal punto di vista economico, la fine del XX° secolo era in gran parte dominata dal tentativo di industrializzazione dei Paesi resisi indipendenti attraverso politiche di 'sostituzione delle importazioni'. Tuttavia, il periodo vide anche l’espansione senza precedenti della produzione e del commercio mondiale come conseguenza della liberalizzazione degli scambi e della crescita dei Paesi industriali, e della diffusione tecnologica verso 'i Paesi di nuova industrializzazione'. Ciò alla fine portò alla rapida crescita delle esportazioni manifatturiere da parte di questi Stati, in particolare Cina e india, e a un iniziale restringimento degli enormi divari di reddito pro capite che fin dai tempi della rivoluzione industriale, e probabilmente anche da prima, hanno separato queste un tempo prospere regioni dell’Europa Occidentale (ivi)». A ogni modo, negli ultimi duecento anni si assiste a un aumento molto significativo del peso del commercio esterno in rapporto al prodotto lordo mondiale: attorno al 1820 le esportazioni mondiali erano pari a circa l’1%, nel 1870 raggiungeranno il 4,6, nel 1913 il 7,9, nle 1929 il 9, nel 1950 il 5,5, nel 1973 il 10,5 e nel 1998 il 17,5% del prodotto lordo mondiale. Gli scambi mondiali sono incrementati soprattutto dall’aumento della circolazione delle materie prime: se nel 1820 carbone e grano contribuivano al 20% del tonnellaggio totale, nel 1893 le due voci raggiungono circa la metà. Le cifre sterilizzano mutamenti profondi delle strutture produttive: già a fine Ottocento molti mercati locali, fino ad allora 'protetti' dalle distanze, vengono bruscamente esposti alla concorrenza internazionale (Rogowski, 1989; Bairoch, 1997). Nel Novecento si verificano ulteriori, profondi mutamenti. Nuove materie prime entrano in gioco (petrolio, gomma, fertilizzanti ecc..), e soprattutto si accelera il distacco tra commercio totale e commercio dei prodotti agricoli: se tra 1913 e 1937 il commercio agricolo rimane circa la metà di quello totale, tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta del XX° secolo si riduce al 10%, con l’esplosione dello scambio manifatturiero (anch’esso legato alla containerization) e al fatto che molti prodotti agricoli non viaggiano più come tali ma come processed food. 5.4 Commodification. Vecchie e nuove materie prime È bene ricordare che l’esponenziale aumento del traffico commerciale in età contemporanea non è determinato da un incremento quantitativo, ma da complicati processi di sostituzione e innovazione, creatore di nuove materie prime e nuovi canali che spesso determinano giganteschi mutamenti ambientali, politici e demografici su scala continentale. Per alcune commodities ora si dispone di studi esaurienti, come per il cotone (Beckert, 2016; Riello, 2013). Ecco alcuni casi noti e altri meno istruttivi, relativi a commodities ancora strategiche e altre obsolete: anzi, la loro apparizione e seguente rapido declino descrive in modo gli alberi entrarono in produzione giusto per approfittare del boom di acquisti di gomma da parte dell’industria britannica e mondiale attorno al 1910. La Prima Guerra Mondiale rende il commercio sia del riso sia dell’ananas molto difficoltoso: Tan Kah Kee trasforma una fabbrica di ananas in uno stabilimento destinato alla produzione di numerosi manufatti di gomma (dalle suole per scarpe agli pneumatici per biciclette e per carri da tiro). Negli anni Venti sorgeranno altri suoi 9 stabilimenti in Malesia, ma il frugale e generoso multimilionario, creatore di scuole e università, fondatore di giornali, si scontrerà con il rapido declino del prezzo della gomma sui mercati mondiali dal 1926, finendo travolto dalla depressione mondiale e dalla concentrazione drammatica degli scambi e dei prezzi negli anni Trenta (Mackie, 2003). Oggi il 90% della produzione di gomma naturale proviene dall’Asia tropicale, i maggiori produttori mondiali di gomma sono la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia, l’India, la Cina, il Vietnam, le Filippine, la Costa d’Avorio, il Guatemala e infine il Brasile, da cui tutto ebbe inizio. Come giunge in Asia meridionale (e successivamente in Africa) l’albero della gomma (Hevea brasiliensis)? Dalla scoperta casuale della vulcanizzazione da parte di Charles Goodyear (1839) la gomma diviene un materiale essenziale per innumerevoli manufatti vecchi e nuovi. La pianta della gomma cresce spontanea nel bacino amazzonico, ma lo sviluppo di piantagioni dedicate è qui reso impossibile da un fungo patogeno che causa la ruggine fogliare. Nonostante questo, la raccolta di gomma assicurò al Brasile una posizione dominante fino alla Prima Guerra Mondiale, consentendo ai proprietari di accumulare ricchezze leggendarie come testimonia la fondazione della città di Manaus, nel cuore dell’Amazzonia (Dean, 1987). Il progetto di coltivare altrove gli alberi della gomma risale al 1855, ma solo nel 1873 l’India Office britannico (grazie ad un’articolata operazione di contrabbando) riuscirà ad individuare le specie migliori, acquistarne i semi, farne germogliare le piantine e inviarle a Calcutta, dove peraltro giunsero morte. Solo nel 1877 i primi 2.000 germogli raggiungeranno Ceylon con successo, e solo nel 1895 le piantagioni entreranno in produzione (Lefranc, 1954; Fumian, 2009). Spinta soprattutto dall’aumento del prezzo della gomma legato al boom automobilistico americano di inizio secolo, l’area asiatica delle piantagioni di gomma crebbe dai 15mila acri del 1901 ai 433mila del 1907, ai due milioni nel 1920; alla vigilia della Prima Guerra Mondiale la gomma coltivata sorpassò in volume di esportazioni quella brasiliana. L’espansione dell’area coltivata coincise con un boom nella costituzione di società (Drabble, 1973) e negli investimenti diretti delle società produttrici: Michelin in Indocina, Dunlop in Malesia. Già nel 1920 le piantagioni del Sud- Est asiatico producevano ormai l’80% della gomma consumata negli USA e il 90% dell’offerta mondiale (Tucker, 2006). Nel 1926 Harvey Firestone, in accordo con Henry Ford e il governo americano, creò in Liberia la più grande piantagione di alberi della gomma brasiliani (90mila acri). Memorabile fu il disastroso tentativo dello stesso Ford di controllare gli approvvigionamenti di gomma per i propri stabilimenti costruendo nel 1927 in Brasile una Company Town (Fordlandia) dedicata alla coltivazione della gomma (Grandin, 2009). Ad ogni modo anche l’Africa divenne esportatore di gomma, anche se la sua produzione e commercio soffrirono di dannose volatilità: è il caso del Congo Belga, che conobbe un boom nelle esportazioni di gomma, pari nel 1895 al 19% del totale, salite al 76% nel 1901, crollate al 14% nel 1916 e infine sparite del tutto nel 1930 (Vanthemsche, 2006). Le piazze principali in cui si determina il prezzo della gomma divennero Londra e New York, ma anche Anversa e Singapore (Drabble, 1973; Lubin, 1919). Il commercio internazionale della gomma era controllato da cartelli britannici e olandesi, con centro a Singapore e diramazioni ad Amsterdam e Londra. Ai radicali mutamenti ambientali e produttivi dell’area del Sud-Est asiatico corrisposero forti spostamenti di popolazione: ad esempio, nelle nuove piantagioni malesi solo nel periodo 1900-1922 giunsero un milione e mezzo di lavoratori indiani (poco meno della metà rimasero; Drabble, 1973). Dopo il 1945 nuovi Paesi produttori si affacciano al mercato: soprattutto Cina e India, ma anche Costa d’Avorio, Gabon, Camerun in Africa e Guatemala in America Centrale. Naturalmente, la produzione della gomma sintetica messa a punto tra le due guerre modificò nuovamente il quadro geoeconomico della produzione, cambiando la natura stessa della commodity, anche se è bene ricordare che la produzione di pneumatici radiali negli anni Sessanta (Michelin) aumentò nuovamente la domanda di gomma naturale (un altro breve boom del prezzo si verificò a ridosso della diffusione dell’epidemia di AIDS, che indusse una forte richiesta di latex concentrate per la produzione di guanti usa e getta). Oggi la produzione di gomma sintetica corrisponde a circa il 60% della produzione mondiale; è controllata da poche grandi società transnazionali, che ancora negli ultimi anni hanno dato vita a pricefixing conspiracies registrate dalle autorità antitrust americane ed europee (Fumian, 2009). Un esempio particolarmente significativo di creazione di una transnational commodity è offerto da guano, la cui raccolta e smercio iniziarono nel 1842 e furono monopolizzati per più di un ventennio dalla ditta britannica Antony Gibbs & Sons di Londra. Nel solo 1856 essa importò a Bristol e Londra, 211mila tonnellate di guano: i profitti consentirono a William Gibbs di diventare il più ricco tra i non nobili inglesi. Terminata la parabola del guano, la famiglia investì in miniere in Sud America e soprattutto si volse agli investimenti assicurativi e bancari (Hugs Gibbs sarà direttore della Bank of England dal 1853 al 1901, e finanziatore della costruzione della Great Eastern, il piroscafo utilizzato per la posa dei cavi transatlantici). Il commercio del guano condizionò sia le finanze pubbliche del Perù che le relazioni internazionali dell’area. La ricerca di guano spinse gli Stati Uniti a promulgare nel 1856 il Guano Islands Act: nell’arco di dieci anni una sessantina di isole soprattutto nel Pacifico, la cosiddetta 'American Polynesia' furono rivendicate e registrate dal Dipartimento di Stato come 'guano islands', mentre il commercio del guano dava vita a case commerciali americane destinate a trasformarsi rapidamente in grandi TNC, ad esempio la W.R. Grace & Co., affermatasi successivamente nel campo chimico. La produzione e il commercio del guano declinarono bruscamente dopo la scoperta, nella seconda metà dell’Ottocento, di miniere di nitrati e fosfati in Cile, Perù e America del Nord (alcune in produzione ancora oggi), che andarono ad alimentare la produzione mondiale di fertilizzanti chimici. Anche la raccolta del guano delle isole peruviane diede vita a spostamenti forzati di popolazioni del Pacifico: i governi peruviano e cileno utilizzarono prigionieri, lavoratori cinesi a contratto ( indentured) e rapirono e schiavizzarono la quasi totalità della popolazione delle isole polinesiane di Pasqua e Tongareva (o Penrhyn, nelle Cook Islands), prima che le proteste internazionali interrompessero il traffico (Melillo, 2012). Un esempio apparentemente erratico e bizzarro è offerto dall’olio di balena. La storia della commodification dell’olio di balena, da lungo tempo sparito dai mercati e consegnato a un avventuroso passato 'letterario' e romantico, in realtà illumina numerosi passaggi chiave (Davis, Gallman, Gleiter, 1997; Dolin, 2007). Senza entrare nel merito dei differenti tipi di olio che era possibile estrarre dalle balene, basti ricordare che tra fine Settecento e lungo tutto l’Ottocento un vero e proprio sistema industriale ruotava attorno allo sfruttamento di questi peculiari 'pozzi di petrolio galleggianti': a monte una fiorente industria cantieristica (ad esempio, lungo le coste del New England), a valle la produzione di candele pregiate, saponi, colori ed esplosivi, ma soprattutto di lubrificanti senza i quali, a detta di numerosi autori, le macchine della rivoluzione industriale europea difficilmente si sarebbero messe in moto. Nel XVIII° secolo uno dei mercati principali era comunque rappresentato dalla città di Londra che nel 1736 aveva introdotto l’illuminazione stradale a olio. Nel 1846 delle 900 navi baleniere che solcavano gli oceani, più di 400 provenivano da New Bedford (Massachusetts), soprannominata The City that Lit the World, che aveva ormai sopravanzato il porto e i cantieri di Nantucket (Dolin, 2007). Ma soprattutto l’estrazione dell’olio di balena era legata a filo doppio all’industria della juta, come bene racconta la traiettoria industriale della città scozzese di Dundee, a fine Ottocento tra i principali centri mondiali di produzione di tale fibra, utilizzata per produrre sacchi, teloni, rivestimenti in moquette e linoleum, fodere per tappezzeria, feltri per tetti, tela per vele, nastri, corde e tende. In realtà la produzione della juta, proveniente dall’India (o meglio, dall’attuale Bangladesh), era anche un by-product dell’industria baleniera locale, dopo che fu scoperto come la fibra grezza, intrisa del lubrificante, poteva essere più facilmente intessuta: fu la produzione di juta a sostenere il commercio di olio di balena fino agli anni Trenta del Novecento. Il virtuale monopolio inglese nella produzione della juta si rivelò strategico per l’Impero inglese nel primo conflitto mondiale, ad esempio per rifornire di sacchi i mercanti inglesi di grano attivi nella neutrale Argentina (dove la tecnologia degli elevators ancora non si era diffusa), nel contesto di una sorda guerra contro il gigante argentino della produzione e del commercio di grano, Bunge & Born (ma probabilmente a quel tempo il principale 'mercato di grano' al mondo, sospettato a ragione di essere legato alla Germania e di rifornirla attraverso prestanome via Scandinavia, Dehne, 2013). Facendo un passo indietro, è bene ricordare che il grano argentino, la cui produzione esplode dopo il 1880 giungendo a rivaleggiare con quella della Russia tra il 1908 e il 1913, era divenuto strategico per i rifornimenti dell’Intesa, anche in ragione di un altro elemento cruciale correlato alla globalizzazione dei mercati: la fine della 'stagionalità', ovvero la possibilità di rifornirsi pressoché tutto l’anno dai due diversi emisferi. Una 'merce' che va affermandosi come sempre più strategica è l’acqua, che nel maggio 2000 la rivista 'Fortune' prefigurò sarebbe divenuta nel XXI° ciò che il petrolio era stato per il XX°, ovvero «the precious commodity that determines the wealth of nations» (Heyneardhi, 2002). Che una risorsa essenziale come l’acqua si possa considerare una commodity come le altre è argomento di un fiero dibattito, ma comunque anche il mercato dell’acqua vede protagonisti alcune potenti Transnational Corporations (tra cui si distinguono RWE, Vivendi, Suez-Lyonnaise and Enron); è vero che all’inizio di questo secolo solo il 5% della popolazione mondiale acquista acqua dalle TNC, ma alla stessa data si stimava che l’industria dell’acqua consentisse guadagni pari al 40% di quelli ottenuto dall’industria petrolifera e tre volte maggiori di quelli estratti dal settore farmaceutico (Mann, 2016; World Bank, 2018). 5.5 La ragnatela dei trattati commerciali L’'industria invisibile' del commercio mondiale assomiglia, più che a una ordinata fabbrica, a un immenso brulicante formicaio, tali e tanti ne sono gli attori economici e politici. Una storia dei trattati commerciali su scala mondiale è virtualmente impossibile, basti pensare che solo tra il 1947 e il 2016 sono stati firmati più di 800 trattati d’ogni genere: bilaterali, regionali, multilaterali, PTA (Preferential Trade Agreements, ovvero accordi commerciali preferenziali. Una efficacissima esplorazione visuale in: http://ftavis.com/#2020_Worldwide). È semplicistico immaginare il sistema commerciale mondiale come chiaramente differenziato tra accordi preferenziali, regionali e multilaterali, così come, si è visto, contrappone schematicamente liberismo e protezionismo. Né è possibile immaginare una sorta di processo evolutivo, che conduce dagli accordi bilaterali a quelli regionali e poi a quelli preferenziali (per certi versi, tutti gli accordi sono 'preferenziali', stabilendo chi può farvi parte e chi no). La storia del secondo dopoguerra mostra chiaramente come queste modalità si intreccino costantemente. Ciò che fa veramente la differenza è la progettualità politica che, nelle diverse fasi storiche, sorregge gli accordi commerciali, ovvero la volontà di contenere o espandere le relazioni commerciali. A ogni modo, in epoca moderna, nel contesto dominante delle prassi e delle teorie mercantilistiche (ispirate dal rudimentale principio che bisognava esportare più di quanto si importasse), gli accordi commerciali erano determinati dalle sfere di influenza generate dalle potenze coloniali, e geograficamente limitati. La rottura dello schema mercantilista, molto sommariamente, giunge con l’abolizione delle Corn Laws del Regno Unito (1846) e successivamente con il famoso trattato Cobden-Chevalier del 1860 tra Francia e Gran Bretagna, sorretto dalla fondamentale clausola della 'nazione più favorita' (per l’appunto, una bilateralità che ha un forte contenuto 'preferenziale'). L’accordo condusse, in soli 15 anni, alla firma di altri 56 PTA: un’apertura commerciale ineguagliata fino alla fine degli anni Settanta, quando nell’ambito del GATT (General Agreement on Tariff and Trade), si concluse la sessione di negoziati, denominati Round, tenutasi a Tokyo tra il 1973 e il 1979. Anche il GATT era sostanzialmente un risultato degli accordi di Bretton Woods: era nato nel 1947 dall’accordo di 23 Paesi, ma fu subito indebolito dalla mancata ratifica da parte del Congresso americano. L’ultimo e più importante l’Uruguay Round (1986-1994), si concluse con la firma degli accordi di Marrakech e con la nascita del World Trade Organization (WTO), che ha allargato la propria area di intervento non solo allo scambio delle merci e alla diminuzione delle tariffe, ma anche al commercio dei servizi e alle regole 6.2 Imprese multinazionali, transazionali e globali Accanto al termine generale 'imprese multinazionali', esiste un dibattito sulle diverse forme di imprese internazionali e sulla loro definizione e su una loro possibile classificazione. L’ impresa multinazionale (MNE, Multinational Enterprise) identifica quelle imprese che compiono investimenti diretti (cioè non di portafoglio) all’estero e che li gestiscono centralmente dalla loro sede principale. Oltre alla MNE, esistono altri termini che spesso sono impiegati (Pitelis, Sudgen, 2000; Kozul-Wright, Rowthorn, 1998): l’ impresa transnazionale (TNE, Transnational Enterprise) o l’impresa globale (GE, Global Enterprise). Questi due ultimi termini descrivono situazioni in cui si registra un salto di qualità rispetto alla gestione degli investimenti internazionali di un’impresa. Se una MNE è un’impresa che sviluppa attività in almeno un secondo Paese rispetto a quello di origine, una TNE, invece, è un’impresa per cui, a seguito della moltiplicazione di investimenti esteri, il Paese d’origine non rappresenta più il principale mercato di riferimento. La GE, invece, caratterizza una fase di sviluppo in questa direzione ancora più marcato, in cui la nazionalità stessa dell’impresa viene offuscata dall’effettiva dimensione globale dei suoi affari. Secondo questa impostazione, a un investimento diretto estero (o FDI – Foreign Direct Investment – per usare un termine tecnico) non è sufficiente a caratterizzare una multinazionale, mentre non tutte le MNE possono essere considerate anche TNE o GE. A titolo di esempio, rispetto alle diverse casistiche teoriche affrontate fin qui, si può presentare sinteticamente il caso di Unilever, molto noto alla comunità degli storici d’impresa. Nata nel regno Unito come Lever Brothers, quest’impresa optò per la creazione di piantagioni di olio di palma nel Congo Belga già nel 1911, essendo questo prodotto necessario alla produzione di sapone, core business dell’impresa sin dalla sua fondazione. Il suo mercato di riferimento era all’epoca sostanzialmente quello domestico e la crescita della domanda la portò a divenire produttrice delle sue stesse materie prime (secondo una strategia di resource seeking e contando su una riduzione dei costi di transazione). Tuttavia, nel corso degli anni 1910 e 1920, Lever adottò strategie di espansione in altri mercati in tutta Europa e in Asia (Cina e India), per intercettare la domanda crescente nei confronti del suo prodotto principale (seguendo in questo caso strategie di market seeking). Nei Paesi in cui Lever riteneva una miglior scelta esportatore, creò una rete commerciale; dove riuscì a battere una concorrenza preesistente, rilevò vecchie unità produttive (investimenti brownfield), dove il mercato era ancora vergine, costruì unità di produzione nuove (cioè greenfield). Il salto di qualità giunse nel 1929, quando Lever si fuse con un suo grande competitore, l’impresa olandese specializzata nella produzione di grassi alimentari, Margarine Unie. Da questa fusione nacque Unilever, una TNE, che non possedeva più un grande mercato di riferimento, ma due (quello inglese e quello olandese), e che a lungo conservò persino due centri direzionali, uno a Londra e uno all’Aia (Fieldhouse, 1978). Nel corso degli anni, Unilever è divenuta progressivamente un’impresa globale, i cui prodotti (dai saponi ai generi alimentari più disparati) possono essere trovati sugli scaffali dei negozi di qualsiasi Paese, da New York a Nairobi, senza più essere percepiti come 'inglesi' o 'olandesi'. Molte delle dinamiche che sono trattate in questo capitolo sono legate alla grande impresa, cioè quel tipo specifico di impresa che emerge nel contesto della seconda rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie e i nuovi prodotti apparsi nella fase finale del XIX° secolo (dai metalli al petrolio, dai prodotti chimici all’elettricità, dalle automobili alle plastiche) crearono le premesse per la creazione di imprese che richiedevano enormi investimenti in produzione in scala, in integrazione e diversificazione dei loro prodotti e in gerarchie manageriali capaci di gestire con efficacia queste nuove organizzazioni (Chandler, 1994). Molte imprese globali sono passate attraverso fasi successive di internazionalizzazione (MNE e TNE), anche se questo non è un percorso scontato. Mentre alcune imprese non hanno mai compiuto il passaggio a una dimensione transnazionale o realmente globale, altre sono restate a lungo imprese di piccole o medie dimensioni pur registrando alti gradi di internazionalizzazione. Come ha fatto notare recentemente Andrea Colli (2016), si potrebbe far identificare l’emergere della grande impresa con la nascita della multinazionale, pensando che queste due forme siano praticamente coincidenti, se non per la loro estensione geografica. In questo capitolo si è preferito usare il termine di 'impresa globale', non tanto per riferirsi esclusivamente alla GE e rintracciare le dinamiche che conducono le imprese a diventare globali, ma piuttosto per proporre una lettura unitaria dell’approccio che le imprese hanno avuto verso l’economia globale e come l’economia globale e come essa abbia influito nelle dinamiche evolutive delle imprese. Come si vedrà, non si tratta solo di capire le scelte individuali delle imprese, ma di ricondurre queste scelte al contesto istituzionale (economico, politico e tecnologico) nel quale maturano. Nella storia delle multinazionali non c’è infatti un modello prevalente che le può rappresentare dal tardo XIX° secolo fino a oggi. L’operato delle imprese è variato in funzione del contesto generale, che si può pensare come formato da aspetti economico-istituzionali mutevoli, che Douglass North (1997) non esitava a definire come 'regole del gioco' dell’economia globale. Nell’approccio istituzionale di North, tra organizzazioni (come le imprese) e istituzioni (cioè le regole del gioco) esiste una dialettica specifica, che porta le organizzazioni più performanti ad adattarsi alle condizioni istituzionali o, viceversa, a plasmarle per renderle più adatte alle proprie strategie. In particolare, l’emergere di un sistema economico internazionale, basato su transazioni di mercato, commodity chains transnazionali e complesse, vasti flussi di investimenti esteri e fenomeni di trasferimento tecnologico, ha coinciso con l’emergere di una forma d’impresa operante contemporaneamente in diversi ambiti nazionali. Essa da un lato traeva beneficio dalle ondate successive di globalizzazione, mentre dall’altro non esitava a cercare di plasmare il contesto circostante. Le multinazionali svolsero infatti un ruolo 'cumulativo' nel processo di creazione di un’economia globale sostanzialmente interconnessa e interdipendente. Si può individuare dei comportamenti tipo che ci consentono di pensare a una periodizzazione che si sviluppa attraverso quattro grandi contesti istituzionali. Il primo è quello della Belle Époque, caratterizzato dall’imperialismo e dalla prima globalizzazione (1870-1914); il secondo è rappresentato dal backlash della globalizzazione del periodo tra le due guerre (1915-1945); quello successivo può essere considerato della nuova globalizzazione 'ordinata' di Bretton Woods (1946-1973); l’ultimo, infine, è rappresentato dalla 'deregolamentazione' degli ultimi quarant’anni. 6.3 Imprese, imperialismo e globalizzazione nella Belle Époque Un esempio paradigmatico del nesso tra multinazionali e imperialismo tardo ottocentesco proviene da un caso celebre della storia coloniale tedesca. Quattro mesi prima dell’inizio del Congresso di Berlino (novembre 1884-febbraio 1885), con il quale gli Stati europei si spartirono il continente africano definendone le sfere d’influenza reciproche, due regnanti locali della regione di Douala, il re della tribù dei Bell e il re della tribù degli Akwa firmarono un accordo con due imprese tedesche, Jantzen & Thormählen e Woermann & Co. Da questo trattato nasceva una delle più importanti colonie tedesche, il Camerun, rimasta sotto il controllo di Berlino fino alla fine della Grande guerra. Secondo questo accordo, firmato il 12 luglio 1884 negli uffici della Woermann a Douala, le due imprese ricevevano dai re africani la sovranità sui territori delle loro tribù (Duignan, Gann, 1975). Per certi aspetti, ciò potrebbe sembrare un’edizione tardiva, forse tra le ultime, delle compagnie di privilegio (o chartered companies) che caratterizzavano il commercio globale nell’epoca moderna. Invece, le due imprese tedesche si svincolarono dalle prassi delle compagnie di privilegio, agendo come multinazionali 'moderne'. Infatti, il giorno seguente all’accordo, la sovranità di questo territorio fu trasferita allo Stato tedesco. Abdicando da ogni ruolo amministrativo, Jantzen & Thormählen e Woermann & Co. ottennero in cambio un’adeguata protezione militare utile a conservare la posizione che avevano saputo consolidare nel tempo, non solo in Camerun, ma in tutta la regione dell’Ovest africano dall’attuale Liberia al Gabon. In questo vasto territorio, le due imprese non si occupavano esclusivamente di commercio costiero, ma anche di produzione e lavorazione di materie prime nell’entroterra, in particolare olio di palma, usato all’epoca come lubrificante per motori nautici, di cui la Woermann faceva largo impiego nella sua flotta. Gli storici hanno spesso sottolineato la connessione ambivalente tra commercio internazionale, imprese multinazionali e colonizzazione, di cui il caso indicato offre un esempio. Nei confronti dell’Africa e dell’Asia, in particolare, le imprese specializzate nel commercio internazionale giocarono un ruolo determinante nell’estensione dell’imperialismo di stampo coloniale. Con l’eccezione degli Stati uniti (che in realtà ebbero anch’essi una ridotta espansione coloniale a Porto Rico e nelle Filippine) e del Giappone (che si espanse a Taiwan e in Corea), il fenomeno coloniale fu sostanzialmente un processo europeo (Hobsbawm, 2000). Tuttavia, l’imperialismo europeo non fu la semplice causa dell’ascesa delle multinazionali. In questo contesto, le multinazionali cercavano di conseguire economie di scala crescenti svincolandosi dalla gestione politica dei territori. Naturalmente, questa interdipendenza non ha ridotto le differenze economiche e tecnologiche tra i diversi Paesi. Determinare in maniera univoca se le multinazionali abbiano o meno incentivato le disuguaglianze esula dallo scopo di questo di questo capitolo; tuttavia, è indubbio che esse sono state portatrici di scambi materiali e immateriali tra Paesi con livelli economici, tecnologici e sociali diversi, agendo su di essi in maniera differente proprio a seconda del loro grado di sviluppo e a seconda dello scopo che le portava a investire all’estero (Colli, 2016). La nuova economia globale che derivò dalle trasformazioni in atto a metà del XIX° secolo era sostanzialmente formata da due 'mondi' la cui esistenza determinò l’emergere sia dell’impresa multinazionale moderna come agente economico, che dell’imperialismo come condotta di gestione politica di questi territori (Fitzgerald, 2015). L’Europa e gli Stati Uniti si collocavano nel primo di questi due mondi, in cui risiedevano la produzione industriale e la sua tecnologia, i centri finanziari e i mercati istituzionali, una nascente società dei consumi e un’organizzazione industriale moderna. Tra questi Paesi, la Gran Bretagna era quello che possedeva, almeno alla fine del XIX° secolo, non solo l’economia più sviluppata e i livelli di urbanizzazione più estesi, ma anche la quota maggiore di mercati esteri e di investimenti internazionali. Il primato inglese era sottoposto alla pressione di Germania e Stati Uniti, che stavano emergendo come potenze industriali. Anche Paesi precedentemente isolati, come il Giappone, cominciavano ad affacciarsi nei mercati globali con attori specifici, le sogo shosha (traders specializzati in un vasto ventaglio di materie prime come Mitsui e Mitsubishi) che non esitarono a espandersi nei territori lontani dell’Oriente, spesso concorrendo con le imprese europee stesse in strategie di market e resource seeking (Yonekawa, 1990). Il gruppo di Paesi del secondo 'mondo' (il 'resto' seguendo l’interpretazione di Ferguson, 2011), invece, era formato da territori non industrializzati ed economicamente non sviluppati, privi di mercati rilevanti, delle istituzioni proprie dell’economia di mercato, di tecnologie, capitali e know- how per accedere in maniera autonoma agli scambi generati dal processo di globalizzazione dei mercati. Queste regioni erano sia colonie dirette (nel caso delle regioni africane e parte di quelle asiatiche), sia Stati autonomi, ma sotto l’influenza estera (come l’America Latina nel suo complesso e anche la Cina stessa). Le multinazionali si inserirono nell’economia di interscambi creata tra questi due mondi. In molti casi, queste interconnessioni favorirono strategie di resource seeking da parte delle imprese appartenenti al primo gruppo di Paesi che vedevano incrementare la frequenza delle transizioni con i territori appartenenti al secondo gruppo per una quantità crescente di approvvigionamenti. In precedenza, gli attori economici europei si limitavano, tranne rari casi, ad acquistare da intermediari specializzati materie prime esotiche che venivano a loro prodotte e reperite sui mercati locali, la cui produzione sfuggiva al controllo dei mercati stessi. Un esempio di intermediari può essere Jardine Matheson, un trader inglese specializzato nel commercio con la Cina, che giocò un ruolo centrale durante la prima guerra dell’oppio e nell’apertura della Cina agli interessi coloniali (a seguito del trattato di nanchino del 1842). La multinazionale, invece, si sostituì per molti versi a questa catena di intermediari successivi. Si possono fare diversi esempi a riguardo, provenienti da diversi settori merceologici. Nel quale delle imprese inglesi, potrebbe essere rappresentato da Cadbury o dal suo competitore Rowntree, che organizzarono piantagioni di cacao proprie nei Caraibi rispettivamente nel 1897 e 1899; nel 1909 Cadbry si espanse nell’odierna Costa d’Avorio (Fitzgerald, 1995). Per uscire dal quadro delle imprese di nazionalità inglese, un altro esempio può venire da Schneider, la grande impresa siderurgica francese, che all’inizio del XX° secolo investe nelle miniere di ferro in Marocco (Teicjova, et al., 1987). Altri esempi, sempre nel ramo minerario, provengono dalla Rio Tinto Company, creata nel 1887 da interessi inglesi e progressivamente entrata nella sfera d’influenza dei Rothschild di Londra per controllare le miniere spagnole di metalli non ferrosi, che successivamente reinveste anche nelle miniere di zinco e piombo della Sardegna meridionale (Harvey, 1981); oppure da Peñarroya, fondata America, Cina, Giappone, India e Sud Africa; la neutralità della Svezia durante il conflitto, inoltre, consentì a SKF di fornire entrambi i fronti (Fritz, Larlsson, 2007). Un caso particolare che serve a illustrare come la guerra e il periodo successivo contribuirono a modificare il panorama economico globale è rappresentato dall’industria del petrolio. Prima del conflitto, le diverse compagnie petrolifere (Nobel, Royal Dutch Shell, Standard Oil, Anglo-Persian Oil Company, poi divenuta British Petroleum) si erano già mosse verso la Persia e il Medio Oriente, in generale, facendo di Batumi (nell’attuale Georgia) uno dei primi hubs portuali per il commercio petrolifero al mondo, le cui caratteristiche furono poi ricalcate in molti altri porti globali più recenti. Il petrolio, prima della Grande guerra, era utilizzato soprattutto per l’illuminazione e il suo utilizzo come combustibile per il trasporto e, di converso, per i bisogni strategici della guerra, non era che agli albori. Durante la Grande guerra, invece, apparve in maniera sempre più chiara la rilevanza strategica di questo materiale, spingendo i governi a considerare le imprese come attori di diplomazia internazionale nelle loro espansioni estere, sia in America Latina che in Medio Oriente. Quando, nell’agosto del 1914, la Germania si trovò privata delle spedizioni provenienti da Batumi a seguito delle politiche di blocco strategico delle risorse da parte dei Paesi alleati, gli interessi tedeschi, pilotati da Deutsche Bank, si rivolsero allora verso la Romania, i cui giacimenti petroliferi erano rimasti largamente inesplorati, e verso l’Impero Ottomano. Questo resource seeking 'strategico', cioè legato alle domande di tipo militare, plasmò gli equilibri petroliferi mondiali nel periodo tra le due guerre (Di Gregorio, 2006). Gli interessi delle imprese petrolifere nell’Impero Ottomano poterono contare sull’alleanza con un imprenditore turco chiave, Calouste Gulbenkian (noto 'Mister 5%', perché questa era la percentuale che chiedeva alle imprese multinazionali per negoziare le concessioni di petrolio con l’Impero Ottomano). La sua impresa la Turkish Petroleum Company era, secondo Fitzgerald (2015), un archetipo di 'impresa cosmopolita': durante il conflitto stesso, parte delle sue azioni erano possedute da interessi privati e pubblici di entrambi i fronti. Entro il 1919, il 25% posseduto da Deutsche Bank fu venduto, sempre grazie all’intermediario di Gulbenkian, al governo francese, nel quadro di un complotto negoziato diplomatico scaturito a margine dei negoziati di pace (Sluytermann et al., 2007). I profitti conseguiti da molte grandi imprese durante la Grande guerra hanno rappresentato la base materiale per molti investimenti esteri negli anni Venti. Le capacità produttive conseguite durante il conflitto per sostenere gli sforzi bellici dei diversi Paesi belligeranti, inoltre, hanno spinto molte imprese a cercare sbocchi all’estero, culminando in strategie di market e resource seeking. Inoltre, i nuovi controlli fiscali e monetari ereditati dalla Grande Guerra e il rischio di incorrere in tassazioni straordinarie in caso di rimpatrio di profitti, hanno spinto molte imprese già multinazionali a reinvestire nei Paesi esteri anziché esportare capitali, sia attraverso operazioni greenfield, sia attraverso operazioni brownfield. Ad esempio, la già citata Lever, durante la guerra poté assorbire una serie di concorrenti in difficoltà finanziarie e si dotò di una flotta autonoma per incrementare il potere che potevano esercitare sul mercato (Fieldhouse, 1978). Un altro esempio è sicuramente anche quello di Nestlé, che espanse i mercati dei suoi prodotti, inizialmente concepiti quasi esclusivamente per l’alimentazione dei neonati, nell’approvvigionamento delle truppe. Quest’impresa, in maniera simile al caso già citato di SKF, investì negli USA per sfruttare le opportunità che questo mercato rappresentava e, in questo caso specifico, anche per sfuggire alle ristrettezze di approvvigionamenti che il conflitto provocava alle sue fabbriche europee. Questo investimento oltreatlantico non fu che un trampolino di lancio per trasformare l’impresa in una TNE, perché la portò successivamente ad espandersi anche in America Latina e Australia. Entro il 1921, Nestlé possedeva ormai 81 stabilimenti in tutto il mondo e il suo marchio era globale (Heer, 1991). Il periodo della Grande depressione comporta elementi di cambiamento nella storia delle imprese multinazionali. Sostanzialmente, le reazioni che la crisi globale scatenò nelle multinazionali sono due. Da un lato, la contrazione della domanda spinse le imprese ad adottare strategie di controllo dei mercati e di gestione della produzione che crearono forme di organizzazione anticompetitive: i cartelli. Dall’altro, la crisi incrementò notevolmente l’intervento pubblico in economia. I cartelli internazionali, in realtà, non nascono con la crisi degli anni Trenta. Accordi tra imprese formalmente indipendenti per la spartizione di mercati e quote di produzione esistono dalla seconda metà del XIX° secolo e per molti aspetti essi hanno svolto un cammino parallelo a quello delle multinazionali, attuando molti compiti di coordinazione economica internazionale che sono svolti anche dalle imprese multinazionali (allocazioni di risorse e produzione, ad esempio). Tuttavia, nel periodo tra le due guerre, i cartelli sono riemersi e si sono sviluppati in maniera molto più preponderante che in precedenza, facendo considerare questo periodo da molti storici dell’economia come età dell’oro per questo tipo di organizzazione industriale (Barjot, 1994; Schröter, 1996). Sia le dislocazioni produttive generate dalla Grande guerra, che quelle generate dalla crisi globale, sono alla base del tentativo dei cartelli di gestire i mercati in maniera unitaria, proprio come una multinazionale. Esempi significativi di cartelli che nel periodo tra le due guerre controllano efficacemente i mercati, gestendo produzione, domanda e investimenti, provengono dall’industria del vetro (Daviet, 1989), dello stagno (Hillman, 2010), dell’acciaio (Barbezat, 1989), dell’alluminio (Bertilorenzi, 2016), dei coloranti (Schröter, 1998) e delle fibre sintetiche (Cerretano, 2012), per non citare che gli esempi più noti e significativi. Rispetto al nostro ragionamento di fondo, sembra interessante notare che cartelli e multinazionali sono molto prossimi. Innanzitutto, le imprese che partecipano a un cartello internazionale sono quasi tutte multinazionali e spesso i beni industriali che interessano questi schemi di controllo del mercato sono globali. Il caso dello stagno, ad esempio, include i Paesi dell’Est asiatico e dell’America Latina, quello dei coloranti nasce come accordo tra produttori europei e giapponesi, mentre quello dell’alluminio comprende la totalità della produzione globale di questo metallo con clausole specifiche per il mercato indiano, giapponese e persino russo. Secondariamente, i cartelli sembrano più che altro in antagonismo con l’altra dinamica che ha caratterizzato la fase degli anni Trenta: l’intervento dello Stato in economia (Fear, 2008). Per quanto riguarda l’iniziativa pubblica, gli anni Trenta hanno visto un crescente interessamento della sfera politica in quella economica: quest’interessamento trova le sue ragioni nel ventaglio di politiche che i diversi governi hanno adottato nel quadro della gestione dei mercati e dell’allocazione delle risorse. A mano a mano che i governi adottavano schemi di controllo e di pianificazione per motivi di ordine militare, monetario o di welfare (come il contenimento della disoccupazione), gli schemi di controllo di mercati e produzione dei cartelli o delle multinazionali potevano collidere con gli interessi nazionali stessi. Allo stesso modo, la trasformazione economica e politica degli anni Trenta ha chiesto alle imprese multinazionali una notevole capacità di adattamento rispetto alle condizioni che avevano caratterizzato il contesto in cui gli investimenti erano maturati. Un buon esempio proviene da Alusuisse. Quest’impresa era il pioniere dell’industria dell’alluminio ed era una multinazionale dalla fine del XIX° secolo, quando aveva investito in Germania e nell’Impero austro-ungarico. Nel periodo tra le due guerre aveva maturato nuovi investimenti esteri, che l’avevano condotta a investire nell’emergente mercato italiano. Fino alla fine degli anni Venti, la sua capacità produttiva restava maggioritariamente ubicata in Svizzera e quest’impresa era soprattutto una grande esportatrice nei mercati globali. Negli anni Trenta, invece, Alusuisse ridusse la sua produzione svizzera (del 75%) per concentrarsi in quella italiana (dove la produzione fu incrementata di otto volte) e, soprattutto tedesca (dove la produzione fu incrementata di dieci volte); in questi due Paesi la multinazionale poteva contare sulle ingenti commesse legate alle politiche di riarmo. Ciò trasformò completamente la natura di Alusuisse: da multinazionale svizzera, divenne un attore transnazionale (italo- tedesco per l’appunto). Tuttavia, la nazionalità neutrale di Alusuisse le permise anche di evitare un’associazione esclusiva con le politiche dell’Asse: nel 1938, dopo la Conferenza di Monaco e l’annessione tedesca dell’Austria, Alusuisse firmò un contratto di fornitura con il governo francese, riattivando parte della sua produzione svizzera e, soprattutto, investì nel Regno Unito, in joint-venture con alcune imprese locali, per soddisfare il piano di riarmo inglese che prevedeva l’avvio di una produzione in serie di 'Spitfires' interamente metallici (Bertilorenzi, 2016; Rauh, 2009). L’autarchia e i controlli monetari adottati in tutti i Paesi dopo la fine della convertibilità della sterlina nel 1931 hanno disarticolato le strategie globali delle imprese multinazionali, riducendo la possibilità di spostare capitali, beni e risorse da un Paese all’altro. Qualche impresa perse parte della sua spinta globale. Ad esempio, per svincolarsi dai rischi del nuovo contesto, un’impresa leader del settore chimico come l’americana Dupont, che aveva investito largamente in Europa negli anni Venti, abbandonò completamente la Germania, dove IG Farben – il cartello tedesco dei produttori chimici in cui partecipavano imprese del calibro di BASF, Bayer e Hoescht – poteva ormai contare su un vantaggio economico e politico schiacciante sulla concorrente americana (Abelshauser, et al., 2004). Invece, diverse imprese multinazionali cercarono opportunità di investimento dove i rischi politici erano inferiori. Ad esempio, Standard Oil negli anni Trenta preferì l’Italia al Messico come obbiettivo per gli investimenti e approdò con diverse raffinerie (Yergin, 2008). Molte imprese camuffarono invece la loro reale nazionalità, adottando la forma societaria di imprese appartenenti ai Paesi dove investivano o addirittura a Paesi neutrali, come la Svizzera, l’Olanda o la Svezia. Così fece IG Farben, che riorganizzò i suoi interessi oltreatlantico attraverso una società holding svizzera. ALCOA, il gigante americano dell’alluminio e concorrente della già citata Alusuisse, creò un’impresa canadese ALCAN alla fine degli anni Venti, con diverse sedi in Asia, America Latina ed Europa per gestire i propri affari «in Italy to do it by Italians in an Italian manner, and to do it in Germany by Germans in a German manner, and so on» secondo le parole del suo presidente dell’epoca Arthur V. Davis. Parte dell’alluminio con il quale furono costruiti gli aerei che bombardarono Pearl Harbour nel 1941 proveniva da una joint-venture che nel 1932 ALCAN fondò con Sumitomo, sogo sosha giapponese che si era diversificata nei metalli non ferrosi per soddisfare i bisogni crescenti del suo Paese. 6.5 Le imprese multinazionali nella globalizzazione di Bretton Woods Il sistema nato con la Conferenza di Bretton Woods sostanzialmente prevedeva la messa in opera di una serie di istituzioni internazionali che dovevano evitare il ripetersi della disintegrazione economica che aveva seguito il primo conflitto. In particolare, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il General Agreement on tariffs and trade (GATT, poi divenuto World Trade Organization) servivano a ricreare e a mantenere un livello adeguato d’integrazione economica, agendo sulle valute, sulle tariffe e sugli spostamenti di capitali e merci. Questo processo fu concomitante e accompagnato all’emergere dell’egemonia economica, militare e tecnologica degli Stati Uniti, da un lato, e dal progressivo smantellamento dell’imperialismo europeo, che aveva giocato un ruolo importante – anche se non esclusivo – nel processo di creazione delle imprese multinazionali. Il sistema di Bretton Woods durò fino al 1975, anche se già nel 1971 la fine della convertibilità del dollaro in oro aveva minato uno dei capisaldi del sistema (James, 1999). L’impresa americana era già emersa nel periodo precedente come massimo livello di organizzazione industriale (basti pensare al taylor-fordismo), ma la sua dimensione globale era ancora relativamente limitata. Invece la 'sfida americana', come definiva lo scrittore e politico francese Jean- Jacques Servan-Schreiber (1968) l’espansione all’estero delle imprese statunitensi nel corso degli anni Sessanta rappresentò un’intera nuova fase nella storia delle multinazionali. Tuttavia, il sistema economico di Bretton Woods non significava deregolamentazione: il ruolo che i poteri pubblici avevano assunto nel corso degli anni Trenta non fu azzerato, anzi in certi casi fu esteso e le politiche di welfare dei diversi Paesi rappresentarono una compagine importante del processo di crescita economica che caratterizzò gli anni del 'miracolo economico' o del 'trentennio glorioso' come l’economista francese Jean Fourastié (1979) definì questi anni. Il mondo 'globale' di questo periodo è anche fortemente plasmato dalla Guerra Fredda e dai confini politici che essa poneva. Le multinazionali, infatti, non avevano praticamente contatti col blocco sovietico e con altri Paesi comunisti e spesso le strategie di investimento ricalcavano le alleanze della Guerra Fredda stessa. A ciò bisogna ancora aggiungere che l’impianto economico globale era caratterizzato dall’emergere di zone di libero scambio su base regionale, di cui la Comunità economica europea sicuramente rappresenta l’esempio più durevole e significativo. L’economia globale di questo periodo era dunque plasmata da questi fattori: egemonia americana, rilevanza a livello nazionale dei poteri politici, basi regionali di sviluppo non avulse dalle logiche strategico-militari della Guerra Fredda. Il tema dell’americanizzazione dell’economia internazionale ha per molto tempo attirato l’attenzione degli storici dell’impresa (Amatori, Jones, 2003). L’impatto degli aiuti americani legati all’European Recovery Program (ERP o Piano Marshall) e delle 'missioni di produttività', cui i manager europei erano sottoposti per apprendere a produrre e vendere 'all’americana', sono parte dell’egemonia economica e politica che caratterizza il quadro istituzionale del trentennio che seguì il secondo conflitto mondiale (Kipping, Bjarnar, 6.6 Epilogo. Uno sguardo alle multinazionali all’epoca della deregolamentazione Gli ultimi quaranta anni possono essere considerati un periodo di ulteriore rottura istituzionale, con impatti profondi sulle imprese multinazionali. I punti di cambiamento rispetto al periodo precedente sono sostanzialmente due. Il primo è rappresentato dalla modificazione sostanziale del ciclo economico. Questo periodo è infatti caratterizzato da un susseguirsi di crisi globali, come il primo shock petrolifero del 1973, il secondo del 1979, la recessione del 1989-92, la crisi asiatica del 1997 e quella iniziata nel 2008 dei 'sub- primes' (Reinhart, Rogoff, 2010). Il secondo cambiamento è dato dalla profonda deregolamentazione dell’economia, che ha portato a eliminare progressivamente non solo dazi e tariffe doganali, ma anche controlli sui trasferimenti di capitali, merci e tecnologia. Questa deregolamentazione ha coinciso anche con lo smantellamento degli investimenti pubblici nell’economia, con la privatizzazione di molte imprese statali nei Paesi europei (Toninelli, 2000) e con l’ascesa di quella che va sotto il nome di finanziarizzazione (Epstein, 2005). Dal punto di vista politico, la fine del blocco sovietico e l’apertura dell’economia internazionale della Cina dal 1978 in poi hanno creato le basi per l’imposizione di una vera economia globale, senza i confini e i conflitti che erano stati creati dalla Guerra Fredda. Instabilità, finanziarizzazione e privatizzazioni sono il nuovo contesto globale in cui si muovono le multinazionali. Non solo le vecchie multinazionali di materie prime e manufatturiere hanno trovato strade per sviluppi straordinari, ma si è assistito anche all’emergere di multinazionali nuove, provenienti dal mondo della finanza e dell’hi-tech, in molti casi da Paesi emergenti, come Cina, Corea del Sud e Russia. Le imprese multinazionali risposero alle nuove sfide dell’economia globale e deregolamentata con alcuni cambiamenti di strategia rispetto agli anni precedenti. Se le multinazionali operano precedentemente soprattutto investimenti greenfield e con strategie 'multidomestiche', le joint-ventures e gli investimenti brownfield sono riapparsi alla fine degli anni Settanta. Molto importante è anche il fenomeno delle ondate di fusioni e acquisizioni oltre confine. Mentre non sono disponibili dati per gli anni Ottanta, si sa che le operazioni di fusione e acquisizione internazionali ammontavano a 151 miliardi di dollari nel 1990, mentre erano salite a quasi 1150 miliardi agli inizi degli anni Duemila. Questo processo non è caratterizzato solo da un incremento quantitativo, ma anche da un cambiamento qualitativo nella strategia delle imprese. Le multinazionali non esportavano solamente tecnologia, ma spesso adoperavano fusioni e acquisizioni anche per ottenere tecnologie estere. Un esempio recente potrebbe essere rappresentato dall’acquisto di Nokia nel 2013 da parte di Microsoft, che desiderava affacciarsi nel mondo dei telefoni cellulari. Un altro esempio interessante proviene da un settore molto lontano dallo hi-tech: quello della birra. L’impresa di birra Heineken, fondata nel 1860 era già un’impresa altamente internazionalizzata sin dagli anni tra le due guerre, con strategie di investimento all’estero e di commercializzazione internazionale. Ad esempio, il primo carico di birra arrivato legalmente negli Stati Uniti dopo la fine del protezionismo nel 1933 era proprio un carico di Heineken. Alla fine degli anni Settanta, l’impresa olandese avviò una strategia di fusioni e acquisizioni che la portò a impadronirsi di alcune birre 'storiche' degli altri Paesi, acquisendo nuovi marchi e nuovi know-how. Questa tendenza è cresciuta nel corso degli anni Ottanta e Novanta: Birra Moretti ad esempio è sotto il controllo Heineken dal 1996. Uno dei suoi principali concorrenti, la multinazionale danese Carlsberg, ha adottato una strategia simile: per questo, il settore della birra rappresenta un esempio significativo, non solo per le imprese multinazionali, ma anche per il cosiddetto global brand. Secondo questa visione, le multinazionali non sono interessate tanto ai prodotti, quanto al valore finanziario del marchio stesso (Da Silva Lopes, 2007). Non si potrebbe concludere questa escursione storica senza citare altri tre esempi, che esprimono la complessità che avvolge il business globale degli ultimi quaranta anni. Il primo riguarda le multinazionali dei Paesi emergenti, come la Cina, l’India e la Corea del Sud (Goldstein, 2007). Il secondo riguarda invece le multinazionali delle materie prime e la loro nuova visione finanziaria; il terzo le multinazionali finanziarie vere e proprie. Per quanto riguarda il primo esempio, all’inizio degli anni Ottanta la Cina divenne un territorio molto interessante, sia per le imprese che erano attirate dal suo vasto mercato interno, sia per quelle che volevano sfruttare il vantaggio competitivo di una manodopera a bassissimo costo. L’apertura di questo vasto territorio era per molti aspetti politicamente difficile e la penetrazione delle imprese occidentali fu messa in opera da un attore presente nella regione da moltissimo tempo, Jardine Matheson, che svolse il ruolo di intermediario tra interessi occidentali e orientali. Dopo essersi insediato in Cina a metà del XIX° secolo, Jardine Matheson abbandonò questo Paese dopo l’arrivo al potere di Mao Zedong, ma restò nella regione, basando a Hong Kong la propria attività commerciale. Questo trader intuì l’interesse crescente per le imprese multinazionali verso la Cina e funzionò da intermediario per la creazione di contratti di franchising per Starbucks, Pizza Hut, 7-11 e Ikea, che si installarono in Cna durante gli anni Ottanta. Tuttavia, questa regione non è stata semplicemente terra di conquista per le imprese occidentali. Le imprese cinesi (China Investment Corporation oppure Huawei), indiane (come Mittal) e coreane (come Samsung) hanno sfruttato le opportunità della nuova economia globale per espandersi a Occidente, spesso rilevando assets strategici (questo è il caso di Mittal che ha assunto il controllo della siderurgia francese nel 2006, a seguito della fusione con Arcelor). Un secondo aspetto che merita attenzione è il caso delle materie prime. Nel corso degli ultimi decenni, i traders sono tornati a svolgere un ruolo chiave nella gestione delle risorse naturali e minerarie. Un esempio è Glencore, impresa svizzera che è stata definita «la più importante impresa di cui non si è mai sentito parlare». Essa fu creata nel 1994, riprendendo l’impero commerciale che un trader americano, Marc Rich, era riuscito a creare sin dalla metà degli anni Settanta. L’impresa conobbe una crescita inesorabile in quasi tutte le materie prime: nel 2010 Glencore era il trader più importante al mondo. Essa aveva il controllo sul 60% dello zinco, sul 50% del rame e con interessi vari e multipli, come ad esempio una partecipazione importante nel gigante dell’alluminio russo Rusal e in Umicore, che la portò al controllo del rame del Congo (la vecchia HMHK). Infine, dagli anni Ottanta in poi è emerso un nuovo tipo di multinazionale: quello finanziario. L’abbandono dei controlli che limitavano il trasferimento di capitali negli USA nel 1974 e nel Regno Unito nel 1979, ha spinto tutti i Paesi a liberalizzare la finanza nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Da questo processo sono emersi attori globali, simili a quelli della fine del XIX° secolo, come Morgan Chase, Barclays, Goldman Sachs o Merrill Lynch (Cassis, 2006). 7 Stato e istituzioni nell’economia globale nei secoli XX° e XXI° di Daniela Felisini 7.1 Introduzione Questo capitolo si occupa di stato e istituzioni nell’economia: una questione vastissima e di lungo periodo, spesso sottovalutata nei più recenti approcci storiografici oltreché nelle analisi del presente. La natura e i caratteri della statualità sembravano prestarsi assai poco alla prospettiva interpretativa globale, concentrata sulla più mobile storia delle reti economiche e sociali transnazionali e attenta a prendere le distanze da approcci considerati eurocentrici. Inoltre, sin dalle ultime decadi del XX° secolo, il processo di globalizzazione ha messo in discussione la centralità e la capacità dello Stato nazionale nel governo dell’economia, e si sono moltiplicate le tesi sul suo irreversibile declino. A metà degli anni Novanta lo studioso e manager giapponese Kenichi Ohmae ha descritto gli Stati nazionali come dinosauri in via di estinzione, ormai disfunzionali a organizzare le attività economiche in un mondo senza confini. Negli ultimi decenni del XX° secolo politologi e filosofi hanno sottolineato il venir meno dell’ordine mondiale costruito circa quattro secoli fa e basato, appunto, sullo Stato-nazione, che sembrava non rispondere più alle sempre più strette interdipendenze del mondo contemporaneo. In particolare, l’architettura istituzionale dei regimi democratici risultava, e risulta, indiscutibilmente sfidata dalla globalizzazione. Eppure Stato e istituzioni rimangono attori fondamentali sulla scena economia globale. Lo rivelano i dati quantitativi: nei Paesi del G20, ad esempio, la media della spesa pubblica sul prodotto interno lordo si è moltiplicata per quattro nel periodo considerato. E non solo. Sono ancora gli organismi pubblici (a livello centrale e locale) che forniscono ad un enorme numero di abitanti nel mondo beni e servizi quali sicurezza e controllo del territorio, infrastrutture e trasporti, educazione. Si tratta di elementi fondamentali nella vita dei cittadini che pure agiscono, sia come produttori che come consumatori, in mercati globalizzati. Pare opportuno richiamare qui la significativa elaborazione di Karl Polanyi: in assenza di uno Stato – e della regolazione in nome degli interessi collettivi che questo può assicurare – il mercato non può sopravvivere né prosperare. Discostandosi dalle letture globaliste, si sta affermando un concetto rinnovato di cosmopolitismo, che attribuisce allo Stato nazionale un ruolo tutt’altro che secondario o ancillare – pur se radicalmente mutato – nello scenario globale (Polanyi, 1974). Lo Stato è infatti un attore che ha giocato e gioca ancor oggi molte parti in commedia: assicura il rispetto delle leggi, governa le politiche fiscali e attua la redistribuzione delle risorse tra i cittadini, svolgendo, potenzialmente, un ruolo importante per ridurre le disuguaglianze che si formavano nel mercato; concorre (anche se sempre meno) alla formulazione delle politiche monetarie e alla regolamentazione dei mercati finanziari; interviene con varie modalità e gradi nei flussi commerciali; realizza e partecipa – anche attraverso normative di carattere territoriale – alla gestione di infrastrutture e servizi collettivi, compresi quelli di protezione sociale; stabilisce il quadro normativo in cui le imprese operano e talvolta ne sostiene le attività, orientando in tal modo le attività produttive, alle quali può anche partecipare in veste di imprenditore. E questo elenco non è gerarchico né esaustivo. Nel periodo considerato l’attuazione di questi compiti ha conosciuto profondi mutamenti, che verranno esplorati nelle pagine seguenti attraverso l’illustrazione di specifiche esperienze secondo un filo diacronico. Si va dai massicci interventi messi in campo tra le due guerre all’affermazione del ruolo dello Stato come motore di sviluppo, con i Developmental States del secondo dopoguerra. E si giunge all’attuale ridimensionamento di tale ruolo, in taluni casi più apparente che reale, come dimostra il caso della Cina. Nel mondo contemporaneo, peraltro, una serie di importanti problemi economici, sociali, ambientali, non appare più affrontabile dai singoli governi nazionali: per questa ragione si è tentato e si tenta di costituire in molti settori forme di regolazione sovranazionale e sono cresciuti i compiti delle istituzioni internazionali. Il ruolo dei diversi attori, che verrà esaminato nelle pagine conclusive, appare tanto più necessario in uno scenario globale caratterizzato da crescenti tensioni. 7.2 Tra due guerre mondiali La Prima Guerra Mondiale (1914-1918) segnò una cesura nella storia della modernità che innescò trasformazioni radicali nelle strutture socioeconomiche come nelle mentalità e nei comportamenti, individuali e collettivi; lo Stato entrò prepotentemente nel sistema economico e sociale. I dirompenti connotati di una guerra di massa e industrializzata comportarono una dislocazione straordinaria di risorse verso la produzione bellica. Furono create apposite istituzioni in cui si fusero competenze pubbliche e private, come il Dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime per uso bellico (KRA, Kriegsrohstoffabteilung) istituito in Germania e diretto dall’imprenditore Walter Rathenau, capo del colosso elettromeccanico AEG, successivamente ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, ucciso nel 1922 da terroristi di estrema destra. La marcata espansione dell’iniziativa statale nei sistemi produttivi nazionali da un lato alimentò una crescita enorme della spesa pubblica, dall’altro favorì rilevanti sviluppi degli apparati industriali e stimolò l’introduzione di innovazioni tecnologiche. L’esperienza della Prima Guerra Mondiale lasciò, anche sotto il profilo dell’intervento dello Stato nell’economia, una durevole eredità negli anni seguenti, segnati dall’avvento della società di massa e dall’affermazione di regimi autoritari e totalitari. Tra questi, l’esperienza dell’Unione Sovietica, nata dalla rivoluzione bolscevica del 1917, fu il primo caso di economia socialista, in cui lo Stato assunse il pieno controllo dei fattori produttivi e dell’allocazione delle risorse, affidata alla pianificazione. Nei primi anni il comunismo di guerra (1918-21) basato sulla nazionalizzazione delle industrie e la requisizione dei raccolti agricoli, diede risultati fallimentari; fu introdotta allora la Nuova Politica Economica (NEP, 1921-28), che prevedeva forme di autonomia aziendale e la coesistenza di quote statali e libero mercato in agricoltura, e consenti all’economia sovietica di rimettersi in moto. Nel 1928, dopo l’ascesa al potere di Stalin, fu varato il primo 'piano quinquennale', che prevedeva la collettivizzazione forzata delle terre e l’avvio di un processo di rapida industrializzazione. Amministrati dalla Gosplan, i piani che si succedettero sino agli anni Quaranta portarono a una straordinaria crescita della produzione industriale, in particolare nei settori metallurgico e siderurgico, soprattutto convinti che il piano avrebbe rafforzato la leadership statunitense in funzione antisovietica, decisero di non aderire e così fecero i Paesi del blocco orientale. Il piano sostenne effettivamente la ripresa delle economie dell’Europa Occidentale nella difficile fase della ricostruzione, rafforzando l’egemonia statunitense nell’ambito della Guerra Fredda. Attraverso il piano – alla cui attuazione collaborarono centinaia di esperti statunitensi ed europei – arrivarono non solo macchinari e materie prime, ma un nuovo modello economico e di impresa. Innovazione tecnologica e organizzativa, obbietti di produttività e iniziativa imprenditoriale si coniugarono al tentativo di inserire una logica più concorrenziale nelle economie europee, in una fase di aperture commerciali e di impulso all’integrazione. Durante la Golden Age, nei Paesi dell’Europa Occidentale concorsero alla crescita sia le forze del mercato sia un’attiva presenza dello Stato, in un sistema definito di 'economia mista'. I governi si impegnarono in grandi investimenti infrastrutturali, materiali e immateriali, e nell’attuazione di progetti di sviluppo in specifiche aree arretrare, come il Mezzogiorno d’Italia. Investimenti e progetti furono spesso affidati a grandi imprese pubbliche (come l’Autostrada del sole e la rete di telefonia fissa, realizzati in Italia dall’IRI), attive in settori ad alta intensità di capitale e nei servizi di pubblica utilità, spesso con un elevato grado di innovazione tecnologica e sede di formazione di culture manageriali. Non si trattava di un sistema uniforme, ma era il risultato di visioni convergenti di gruppi politici e sociali diversi, accomunati dalla convinzione che allo Stato spettasse il compito di sostenere la crescita e la stabilità dell’economia, redistribuendone al tempo stesso i benefici attraverso l’offerta di capitale fisso e sociale (ad esempio, le infrastrutture di trasporto) e la creazione di estesi sistemi di protezione sociale (ad esempio, nel campo della sanità). Il welfare svolse un ruolo essenziale nell’alleggerimento delle tensioni provocate dall’intensità e dalla rapidità della crescita economica e dalle profonde trasformazioni sociali e demografiche che l’accompagnarono (disgregazione del tessuto rurale, migrazioni e crescita urbana, trasformazione della famiglia, nuovo ruolo della donna). Al tempo stesso le politiche sociali richiesero una spesa pubblica sempre più imponente che ha alimentato nel tempo una quota rilevante di attività economiche, in termini di occupazione e di domanda di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione, ma che in questi ultimi anni incontra crescenti problemi di sostenibilità rispetto ai bilanci pubblici. Nel tempo si è stabilito un nuovo rapporto tra Stato e cittadino, sui cui si è fondato il modello di 'economia sociale di mercato', pilastro – assieme all’integrazione dei mercati – del processo di unificazione europea. Questo si è sviluppato per tappe, nella ricerca, ambiziosa e ancora non completata, di un modello alternativo di statualità basata su un insieme di norme e istituzioni sovranazionali tese ad assicurare il funzionamento di un mercato unico sempre più ampio, e tanto più necessarie in quanto permettono una cooperazione difficile da mantenere spontaneamente, considerate le differenze fra le diverse aree e le forze centripete che ne derivano. 7.4 Imprese pubbliche e Developmental States Anche al di fuori dell’Europa, molti dei processi di crescita innestati in quella stagione furono il risultato della sinergia tra presenza pubblica e iniziativa privata. Numerosi governi utilizzarono imprese statali per potenziare e presidiare settori strategici, come quello energetico: il Brasile fondò la Petrobas nel 1953, e il Sudafrica nel 1951 fondò la South African Oil and Gas Corporation (SASOL), con l’obbiettivo di ridurre la forte dipendenza del Paese dall’importazione di carburanti e stimolare in tal modo lo sviluppo industriale. Obiettivi di sostituzione delle importazioni furono perseguiti anche dal governo indiano, attraverso il protezionismo e la creazione di imprese pubbliche nei settori elettrico e carbosiderurgico. All’indomani dell’indipendenza prevalse la linea del primo ministro Nehru (1947-1964), convinto che la crescita dell’apparato industriale avrebbe garantito non solo la modernizzazione dell’India ma anche il consolidamento della sua posizione internazionale. Un elaborato sistema di autorizzazione delle attività delle imprese private (Permit Raj) si accompagnò all’estensione del settore pubblico, con cui i grandi imprenditori indiani cercarono forme di complementarietà e di integrazione verticale; essi lo considerarono una valida risposta istituzionale per superare i limiti nell’accesso alla tecnologia che l’India, come altri Paesi del Terzo Mondo, si trovavano ad affrontare. In diversi Paesi dell’Asia Orientale i governi si impegnarono nell’innescare meccanismi di catching up tecnologico e nel perseguire l’efficienza del settore manifatturiero. Il caso del Giappone – che aveva già conosciuto nel periodo Meiji (1868-1912) una rapida modernizzazione economica e istituzionale e una notevole crescita produttiva e infrastrutturale – è uno dei più precoci e ha rappresentato un modello per altri Paesi. Un ruolo cruciale fu giocato dal MITI (Ministry of International Trade and Industry): fondato nel 1949 nella difficile fase della ricostruzione, divenne uno dei più potenti organismi governativi; negli anni Cinquanta e Sessanta attuò politiche industriali selettive con l’obbiettivo di rafforzare la compagine industriale del Paese. Favori l’importazione e l’adozione di tecnologie chiave e protesse le imprese giapponesi, finché non raggiungevano la capacità di competere sui mercati internazionali. Questo mix tra obiettivi di sviluppo e meccanismi di mercato fu emulato con successo da altri Paesi asiatici come Taiwan, Singapore, Hong Kong e Corea del Sud. Negli anni Cinquanta, dopo il dramma della guerra (1950-1953), quest’ultima era una delle economie meno sviluppate del mondo e la sua posizione geopolitica, stretta tra tre nazioni comuniste (Unione Sovietica, Cina e Corea del Nord) durante la Guerra Fredda, la poneva in una condizione di costante tensione. La crescita economica fu considerata un mezzo necessario a preservare l’indipendenza e la sopravvivenza stessa del Paese. Negli anni Sessanta il governo sudcoreano lanciò politiche di industrializzazione basate in primo luogo sulla costruzione di infrastrutture di trasporto e sull’adozione e l’adattamento di know-how tecnologico e manageriale. Un ruolo fondamentale fu svolto da una comunità di tecnocrati, che funsero da architetti nella progettazione e realizzazione del sistema nazionale di innovazione. Come in Giappone, lo Stato si impegnò nel garantire un efficace coordinamento con i gruppi industriali privati, depositari di un rapido accumulo di conoscenze (Felisini, 2017). Consolidare un’indipendenza faticosamente conquistata e tenere unito un Paese povero e dalle mille sfaccettature, risorgere da una guerra conclusasi con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, sopravvivere come un poverissimo Paese dell’Asia Orientale durante la Guerra Fredda, queste le motivazioni che dettarono politiche economiche di sviluppo in India, Giappone, Corea del Sud. Matrici politiche e condizioni di partenza diverse accomunate nella realtà dei cosiddetti Developmental States, governi con obbiettivi prioritari di sviluppo industriale che li portava a promuovere la crescita tecnologica e a orientare in diversa misura l’azione delle imprese private. 7.5 Dagli anni Settanta a oggi. Nuovi attori e nuove gerarchie sulla scena globale L’economista statunitense Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, data l’inizio dell’attuale ondata di globalizzazione a partire dagli anni Settanta, quando la crisi delle economie e delle società occidentali si unì agli esiti decisivi del processo di decolonizzazione, che stava portando numerosi Paesi a lottare per l’indipendenza politica o per assumere il controllo delle proprie risorse. La crisi del dollaro e la fine del sistema monetario internazionale sorto nel 1944 a Bretton Woods ridusse la stabilità dei mercati monetari e finanziari, alimentata altresì dall’emergere di nuovi investitori. Dalla fine degli anni Settanta si affermò un nuovo paradigma economico neoliberista, che, basandosi sulle distorsioni e i fallimenti dell’intervento pubblico, mise in discussione il ruolo dello Stato nell’economia, mettendo in moto un ampio e controverso processo di privatizzazioni e di liberalizzazioni. Tali orientamenti che ebbero come rappresentanti principali Margaret Thatcher (Primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990) e Ronald Reagan (Presidente USA in carica dal 1981 al 1989), si consolidarono ulteriormente dalla fine degli anni Ottanta, dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del suo modello politico ed economico. La diffusa deregolamentazione si unì all’impatto delle nuove tecnologie ICT (Information and Communication Technology) nel contribuire allo sviluppo esponenziale dei mercati finanziari, interessati da ulteriore instabilità. Al tempo stesso, la globalizzazione portava con sé anche processi di ristrutturazione produttiva su scala planetaria, con l’avvento di nuovi modi di produzione. L’intreccio di tutti questi elementi ha portato alla ridefinizione delle gerarchie economiche e politiche globali, i cui alcuni Paesi hanno assunto un ruolo diverso rispetto al passato e si sono affermati nuovi potenti attori, come le grandi imprese multinazionali e i fondi sovrani. 7.6 I Paesi protagonisti delle nuove gerarchie economiche globali: i produttori di petrolio Come è noto, gli anni Settanta furono marcati da ben due shock petroliferi, uno nel 1973 e uno nel 1979. Il primo fu innescato dalla cosiddetta guerra del Kippur (ottobre 1973) tra Israele, Siria ed Egitto. In occasione del conflitto, i Paesi arabi membri dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), imposero un embargo verso i Paesi occidentali considerati filoisraeliani. Il coordinamento realizzato dall’organizzazione portò nel 1973 a una progressione riduzione della produzione di greggio, con conseguente aumento dei prezzi, che nel giro di un anno quadruplicarono (da 3 a 11,5 dollari al barile). Nel 1979-1980 si verificò u secondo shock in seguito alla rivoluzione khomeinista in Iran e allo scoppio della guerra con l’Iraq, quando il prezzo raggiunse i 34 dollari al barile. Senza soffermarsi sui gravissimi effetti della crisi energetica sul ciclo economico mondiale e in particolare sulle economie occidentali, è interessante qui mettere a fuoco le conseguenze sui Paesi produttori di petrolio. E fare della loro vicenda il paradigma di una nuova categoria di Stati, con un ruolo rilevante nelle attuali gerarchie economiche globali. A partire dagli anni Settanta, grazie ai successivi aumenti del prezzo del greggio, i Paesi produttori si trovarono a disporre di ricchissime risorse finanziarie denominate inizialmente pe in valuta statunitense (i cosiddetti petrodollari). Tali risorse vennero reimpiegate solo in piccola parte negli stessi Paesi produttori, la maggior parte fu (ed è tuttora) investita nel sistema finanziario internazionale, con l’acquisto di valuta e titoli esteri e, in taluni casi, è confluita nella costituzione di fondi sovrani (cfr. infra). Mutuando un termine dalla storia economica di antico regime, questi Paesi sono stati definiti Rentier States (Beblawi, Luciani, 1987), in quanto la loro economia dipende sostanzialmente dalla rendita generata dall’esportazione di un bene primario di valore strategico sui mercati mondiali. I gruppi dirigenti al governo di tali Paesi sono i principali beneficiari della rendita, con forme che evocano la concezione patrimoniale e dinastica dello Stato diffusa in Europa nei secoli XIV°-XVII°. Solo una piccola parte della popolazione attiva è coinvolta nella generazione di tale rendita, che viene reinvestita in misura molto limitata nella creazione di un tessuto produttivo interno diversificato. Un simile profilo economico, pur alimentando il prodotto interno lordo di questi Paesi, non può non avere conseguenze sui loro assetti politici e sociali, in particolare sullo sviluppo della società civile e sui processi di partecipazione democratica. 7.7 I BRIC Nel 2001 l’economista britannico Jim O’Neill, in uno studio per la banca di investimento Goldman Sachs, usò prima volta la sigla BRIC, per definire i quattro Paesi Brasile, Russia, India e Cina, che a suo avviso avrebbero dominato l’economia mondiale per tutta la prima metà del nuovo secolo (O’Neil, 2011). I quattro hanno caratteri comuni importanti: un territorio vastissimo, abbondanza di risorse naturali strategiche, demografia imponente (insieme essi contano infatti circa il 40% della popolazione mondiale), e sono stati accomunati da tassi di crescita elevati (almeno sino alla crisi iniziata nel 2008). Ma al tempo stesso le loro vocazioni economiche sono profondamente diverse e la crisi ha evidenziato le differenze. Bastano poche cifre per capirlo: nel 2000 la quota dei BRIC sul totale della produzione manifatturiera mondiale era il 13%, valore che nel 2015 è arrivato al 34%, di cui però oltre i due terzi vanno attribuiti alla Cina, della quale ormai si parla di 'officina del mondo', alla maniera dell’Inghilterra nella metà dell’Ottocento. Altrettando profonde sono le differenze tra i sistemi politici e sociali dei quattro Paesi, peraltro accomunati, con premesse e intensità diverse, dalla progressiva sostituzione dei processi allocativi del mercato a quelli della pianificazione. La definizione di O’Neill ha comunque colto un elemento fondamentale: il loro impetuoso sviluppo ne ha davvero modificato la collocazione economica e geopolitica. L’acronimo ha avuto altresì una straordinaria fortuna mediatica, contribuendo a creare l’immagine di un gruppo coeso, rafforzata dai tentativi dei BRIC di stabilire delle sinergie (anche nella loro versione di BRICS, in cui la S rappresenta il Sudafrica): dal 2009 Un caso di particolare interesse è quello di Temasek Holdings. Costituito nel 1974 dal governo della città- Stato di Singapore, rappresenta la saldatura tra una costellazione d’interessi politico-amministrativi e imprenditoriali. Il suo unico azionista è il Ministero delle Finanze, e il Capo dello Stato esercita il diritto di veto sulla nomina degli amministratori, ma il governo non è direttamente coinvolto nella gestione, pur esercitando un importante ruolo d’indirizzo. Temasek coordina l’amministrazione di numerose imprese a partecipazione statale (le cosiddette GLC, Government-Linked Companies) e, al tempo stesso, opera come un’investment house autonoma: acquista partecipazioni, spesso di controllo, a livello planetario nei settori dei servizi finanziari, delle telecomunicazioni e dei media, dei trasporti, dell’energia, dell’agroalimentare. Uno dei maggiori Fondi sovrani al mondo è il China Investment Corporation (CIC – capitale 400 miliardi di dollari), costituito nel 2007 dal Ministero delle Finanze di Pechino per investire parte delle ingentissime riserve valutarie accumulate grazie all’enorme surplus commerciale del Paese (l’esatta composizione di tali riserve è un segreto di Stato). Ispirato al modello di Temasek, il CIC compie investimenti a lungo termine in grandi imprese pubbliche nazionali, ad esempio nella cantieristica, e cospicui investimenti all’estero, diversificati per area e settore. Il dato più noto è relativo agli acquisti di titoli di Stato statunitensi, che fanno della Cina il maggior investitore straniero, con circa il 20% di tutti gli US Treasuries detenuti da non Americani. Questi esempi spiegano le notevoli preoccupazioni destate dalla forza dei fondi sovrani: il loro capitale complessivo ha superato, nel 2015, i 10.000 miliardi di dollari; sarebbe sufficiente l’intervento di alcuni di loro per condizionare il mercato di materie prime cruciali. Sono temute soprattutto le possibili interferenze da parte dei Paesi detentori dei fondi, con regimi politici spesso non democratici, nella gestione delle imprese e, più ampiamente, delle economie in cui i fondi investono; interferenze che possono spingersi a minacciare la sicurezza nazionale. Notevoli perplessità desta poi l’opacità delle loro gestioni, anche sotto il profilo fiscale. In risposta a questi timori, nel 2008 sotto l’egida del Fondo monetario internazionale è stato stilato un codice di condotta per i fondi sovrani noto come 'Principi di Santiago' (GAPP, Generally Accepted Principles and Practices). Si tratta ancora solo di un elemento di soft-law, una forma di autoregolamentazione, perché i fondi restano subordinati alle rispettive normative nazionali in mancanza di un’autorità internazionale di verifica e sanzione. Tutto ciò proprio mentre i fondi accrescono la propria influenza e capacità di penetrazione; durante i primi anni della crisi finanziaria 2007-2008, infatti, molti di essi hanno concorso alla ricapitalizzazione di banche e società finanziarie in difficoltà. La possibile commistione di obiettivi economico-finanziari e strategico-politici fa dei fondi sovrani una figura ibrida, che ricorda le compagnie privilegiate del XVII° secolo: di proprietà di azioni privati, òe compagnie operavano in regime di monopolio dietro autorizzazione statale e furono uno degli strumenti chiave dell’espansionismo degli Stati europei nei territori d’oltremare. Sorte nella fase del mercantilismo, le compagnie finirono col concentrare nelle proprie mani un potere enorme, tanto da entrare nel tempo in conflitto con il Parlamento, come nel caso della Compagnia delle Indie Orientali. 7.9 Istituzioni internazionali e governance globale In conclusione, si può affermare che la globalizzazione sta producendo una profonda trasformazione del ruolo degli Stati nazionali nel governo dell’economia, che spesso appare non più adeguato in un mondo di crescenti interdipendenze. Dall’ambiente alla salute pubblica, dalla sicurezza ai mercati finanziari, si sono moltiplicate le questioni che richiedono azioni collettive globali; ciò ha aumentato il peso delle istituzioni internazionali e ha suggerito la necessità di regole in grado di imporsi agli Stati così come ai soggetti privati all’interno dei rispettivi confini territoriali. Gli Stati nazionali si sono impegnati in forme di cogestione di specifici settori nell’ambito d istituzioni intergovernative, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), creata nel 1995 come erede del GATT. Impegnato nella riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale di beni e servizi e nella promozione di accordi multilaterali basati sulla clausola della 'nazione più favorita', il WTO ha avuto un potente effetto di liberalizzazione del commercio mondiale e, più ampiamente, del processo di globalizzazione. Nel 2017 contava 164 membri, ed è sede di elaborazione di normative e di risoluzione di dispute internazionali sul commercio. La sua azione non è stata esente da critiche, come nel caso dell’ammissione della Cina, avvenuta nel 2001, al termine di un negoziato durato oltre 15 anni. L’ingresso di un gigante come la Cina, con i suoi vantaggi competitivi come il basso costo del lavoro e il largo uso di pratiche di dumping (ossia di esportare merci a prezzi molto più bassi di quelli praticati sul mercato interno, o anche sottocosto), ha provocato – si è detto – uno shock nell’offerta mondiale di prodotti manifatturieri, creando squilibri nei mercati del lavoro locali. Vi sono poi organismi internazionali come gli istituti specializzati delle Nazioni Unite, con cui l’ONU stringe 'accordi di collegamento' per azioni in specifici campi; si tratta di enti intergovernativi con una sfera d’azione potenzialmente universale. Ne fanno parte la FAO (Food and Agriculture Organization), che si occupa della sicurezza alimentare ma soprattutto della lotta alla fame nel modo, e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che sostiene la cooperazione internazionale nella lotta contro le epidemie e il miglioramento della salute dei popoli. Ma anche enti con mission più direttamente vocate all’economia, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Gli scopi basilari di quest’ultimo sono quelli originari, ma strumenti e interventi sono cambiati nel tempo col mutare dei contesti politici e delle culture economiche di riferimento. Il suo operato ha ricevuto nell’ultimo ventennio severe e autorevoli critiche, come quelle mosse dagli economisti Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz. Quest’ultimo ha accusato il Fondo di avere un approccio dogmatico e di prescrivere a tutti i Paesi una ricetta standardizzata di riforme strutturali senza un attento confronto con le singole aree in cui viene effettuato l’intervento, con conseguenze in taluni casi fortemente negative. Tra gli esempi citati dall’economista statunitense vi è la terapia shock applicata in Russia nel corso della transazione dall’economia pianificata sovietica all’economia di mercato, che ha avuto pesanti conseguenze sui livelli di vita della popolazione; inoltre, il Fondo ha appoggiato un processo di privatizzazioni troppo repentino che, in assenza delle necessarie forme di regolamentazione, ha favorito un’oligarchia di politici corrotti e uomini d’affari spregiudicati. Molti di questi organismi internazionali furono fondati, come si è detto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale; nella loro capacità di adeguare la propria visione e la propria azione alle nuove istanze risiede oggi la base della loro legittimazione a livello globale. Descritte come centri di diffusione di culture e pratiche transnazionali, e dunque come sedi di formazione di una nuova classe dirigente globalizzata, le istituzioni internazionali hanno avuto negli ultimi decenni un’enorme crescita quantitativa, oltreché del loro ruolo e della loro autonomia (Iriye, 2014). Dopo un’iniziale spinta alla deregulation, legata all’espansione dei mercati globali, è ormai condivisa l’esigenza di una ri-regolazione sopranazionale, o quantomeno internazionalmente armonizzata, che di tali mercati possa assicurare il funzionamento. Il politico statunitense Henry Kissinger ha scritto che la nostra epoca è alla ricerca insistente, a volte quasi disperata, di un’idea di ordine mondiale (Kissinger, 2015). È nata la global polity, ossia l’insieme delle istituzioni e delle regolazioni presenti nell’arena globale: gli Stati, le organizzazioni internazionali, i network transnazionali composti da regolatori nazionali (ad esempio, il gruppo di governatori delle banche centrali che nel 1974 ha dato vita al BCBS, Basel Committee on Banking Supervision), le Organizzazioni Non Governative (ONG). A tutto ciò si aggiungono nuovi apparati giuridici in progress, composti da accordi, trattati e regole, che includono quella che è stata definita come una nuova lex mercatoria, ossia un corpo di norme ispirate da contratti privati che vede protagoniste le grandi imprese multinazionali (Cassese, 2013). Si tratta di un sistema molto frammentato – da alcuni paragonato a una nuova forma di feudalesimo – che rende ancor più cruciale il problema della legittimazione dei decisori e della loro accountability. Queste sono le sfide per Stati e istituzioni nell’epoca globale. 8 Scienza e tecnica. Approcci storiografici e dinamiche globali di Elena Canadelli 8.1 Riflessioni introduttive: nuove storiografie sulla scienza globale Quando si parla di storia globale e di processi di globalizzazione nel mondo moderno e contemporaneo la scienza e la tecnica rivestono un ruolo centrale. E a ragion veduta. Non vi è dubbio che oggi, come in passato, i saperi tecnico-scientifici contribuiscano in vari modi a delineare e plasmare in profondità il mondo. La scienza, infatti: «È coinvolta nei processi economici globali; è incorporata nelle infrastrutture globali e nei regimi di governo ed è parte dei prodotti culturali globali. La sua rilevanza per i sistemi politici, economici e sociali è indicata dal fatto che la sua mera esistenza può portare a reazioni globali in questi sistemi, come i cambi di valore nelle azioni, o episodi di migrazioni, summit o perfino guerre» (Renn, Hyman, 2012a, p. 492). Temi come la scoperta di nuove specie grazie ai viaggi d’esplorazione o l’invenzione di nuove tecnologie rappresentano quindi un punto d’osservazione privilegiato per lo studio delle dinamiche di globalizzazione e disseminazione della conoscenza sia che si guardi alla società globale del terzo millennio sia che si rivolga lo sguardo ai secoli passati, quando, almeno a partire dalla prima età moderna, si è assistito a una progressiva definizione della pratica scientifica e a una crescita del ruolo della scienza e degli scienziati nei processi socioeconomici e industriali. Come ha riconosciuto lo storico Christopher A. Bayly (2009) in un best-seller della storia globale, La nascita del mondo moderno 1780-1914, negli ultimi anni gli storici della scienza hanno dato un contributo importante per ripensare i rapporti tra la cultura europea e il resto del mondo, allargando lo sguardo al ruolo che Asiatici, Africani e altre popolazioni non europee hanno avuto nella creazione dei saperi con cui la società globale ha compreso e modificato il mondo naturale (Wendt, Renn, 2012, pp. 53-4). In effetti, ormai da qualche decennio, in molti settori della storia della storia della scienza si sta lavorando a una rilettura dei concetti cardine della disciplina – comprese le stesse idee di scienza, modernità, rivoluzione scientifica, progresso – di cui si ricostruiscono la genesi e le stratificazioni. Si tratta di un lavoro necessario se si vuole comprendere il posto occupato dal sapere scientifico nelle dinamiche politiche, sociali ed economiche alla base del mondo moderno. Troppo spesso, infatti, si è guardato alla scienza come a un fenomeno astorico, sganciato dal contesto concreto della sua produzione e diffusione, aprioristicamente legato a concetti di universalità, oggettività, modernità e cosmopolitismo. Nel 2006, sul primo numero del 'Journal of Global History', lo storico dell’economia Patrick O’ Brien ha scritto che «la scienza non riconosce confini e si è sempre battuta per una conoscenza universale» (p. 7). Senza farsi ingannare dai successi della scienza moderna, è però importante ricordare insieme alla storica della scienza Lissa Roberts – che commentava proprio questo passaggio dal sapore astorico di O’Brien – che anche le istituzioni scientifiche, i saperi e le visioni della natura si «sono formati e allo stesso tempo formano il contesto globale in cui si sono sviluppati. In virtù del suo potere pratico, in altre parole, la scienza è un fenomeno storico, che è simultaneamente un elemento costruttivo e un prodotto di una più generale storia su scala globale». Alla luce di queste riflessioni e proprio perché la scienza è tradizionalmente considerata uno dei principali fattori in gioco nei processi globali, anche quelli economici, si ritiene utile fornire al lettore italiano un assaggio del vivace dibattito storiografico in corso a livello internazionale nel campo della storia della scienza; un dibattito ancora in fieri, dalle voci diverse, che aiuta a decostruire un certo modo di guardare alla scienza occidentale nel contesto globale, esplorando nuovi approcci e indicando nuove direzioni, in chiave non eurocentrica. È un fatto che negli ultimi anni la storia della scienza e la storia globale abbiano sempre più intrecciato le loro strade alla ricerca di fonti e metodologie in grado di mutare lo sguardo nei confronti della formazione e della circolazione dei saperi e delle pratiche scientifiche su scala mondiale (Sivasundaram, 2010b; Renn, Hyman, 2012a). Lo dimostrano i lavori pubblicati soprattutto a partire dagli anni Duemila da storici della scienza come James Delbourgo, Jürgen Renn, Simon Schaffer, Sujit Sivasundaram, Kapil Raj, Antonella Romano e la stessa Roberts, solo per citare alcuni tra i più noti (Fan, 2012). A giudicare da questa produzione, ci si trova nel bel mezzo di un vero global turn della storiografia, che vede gli studiosi interrogarsi sulle peculiarità del contributo della scienza alla globalizzazione nel corso dei secoli e sui complessi processi di negoziazione, connessione, confronto attraverso cui le varie discipline e istituzioni stesso tempo universale, ma come il risultato di una dialettica di incontri locali e circolazione globale – dove un ruolo importante lo giocano anche gli intermediari anonimi (Schaffer et al., 2009) – in un intreccio di dinamiche spaziali e trasferimenti di idee, persone, testi, pratiche, strumenti e procedure. In Europa come in Cina, la scienza appare quindi il frutto di processi di negoziazione e dialogo (o non dialogo) tra saperi globali e tradizioni locali. Ed è in quest’ottica che è bene considerarla quando ci si interroga sul ruolo della scienza nei processi di globalizzazione in relazione a fattori economici, politici e sociali. 8.2 Botanica, biogeografia, commerci e politiche coloniali: dinamiche di globalizzazione tra Settecento e Ottocento In età moderna scienze naturali come la botanica si svilupparono in stretta connessione con gli interessi politici ed economici dei grandi Stati europei e delle potenti Compagnie delle Indie Orientali come quelle olandese o inglese. In un intreccio complesso tra genuina curiosità scientifica e interessi coloniali, la scoperta di una pianta da frutto fino ad allora sconosciuta in Europa, di un fiore esotico ornamentale o di una specie animale potevano rivoluzionarie le economie, le abitudini e i gusti alimentari di intere aree, spostando l’ago della bilancia negli equilibri mondiali. Sullo sfondo delle politiche coloniali di Francica, Olanda, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, naturalisti, medici, esploratori, missionari, mercanti e cercatori di piante viaggiarono ai quattro angoli del globo, dall’Africa all’India, dall’Estremo Oriente all’America meridionale, su vascelli governativi o commerciali innescando importanti processi di scambio tra saperi, pratiche e conoscenze che ebbero un forte impatto economico e demografico, oltre che scientifico, in diverse aree del mondo (Gunn, 2003, pp. 59-84). Dopo la scoperta dell’America l’introduzione in Europa di nuove specie come la patata, il mais e il cacao ebbe effetti importanti e di lungo periodo sull’economia, l’agricoltura e gli stili di vita di vaste aree del Vecchio Continente. La scoperta, lo studio e l’acclimatazione di nuove piante erano dunque vitali in una logica di competizione tra imperi coloniali che andava ben oltre i confini dell’Europa, trasferendosi nei domini asiatici, africani e americani. L’introduzione di nuove piante commestibili poteva fare la differenza in caso di carestie o epidemie di specie autoctone ed era strategica per il dominio delle rotte commerciali. A Macao, ad esempio, l’introduzione ad opera dei Portoghesi di mais, arachidi, papaya, ananas e zucca cambiò in maniera rilevante le abitudini alimentari e i paesaggi coltivati di quelle zone. In Giappone la patata dolce originaria dell’America centrale arrivò all’inizio del Seicento, passando probabilmente dalla Cina, mentre gli Spagnoli l’avevano precedentemente importata nelle Filippine (ivi, p. 69). Agli Europei si deve l’introduzione in Asia di altre piante originarie dell’America centro-meridionale: i Portoghesi portarono sull’isola di Timor mais, fagioli, manioca e papaya; la pianta del tabacco, osservata per la prima volta durante la spedizione di Cristoforo Colombo e coltivata in Brasile dai Portoghesi nel corso del Cinquecento e raggiunse nel corso del Seicento varie aree dell’Asia, da Taiwan al Giappone e alla Corea, attraverso rotte diverse, compresa quella che dal Messico portava alle Filippine. Dall’altra parte dall’Asia si diffusero in Europa e nel resto del mondo piante come la canna da zucchero, originaria dell’India e del Pacifico, la cui coltivazione venne in seguito introdotta nelle Americhe; la soia cinese, una pianta già nota agli Europei, i cui semi giunsero però al Jardin des Plantes di Parigi solo nel 1739; o la pianta del caffè, diffusa e consumata in Etiopia, Arabia e nell’Impero Ottomano, che dal Settecento iniziò ad essere coltivata dagli Olandesi a Ceylon e Java, dai Francesi nell’isola delle Antille in Martinica, dai Portoghesi in Africa, a Timor e in Brasile e dagli Spagnoli nelle Filippine (ivi, pp. 71-4). Come ha sostenuto Gunn: «agli albori della globalizzazione, il traffico in specie esotiche fu sempre in due direzioni»: se da una parte le spezie dall’Asia, dalla noce moscata al rabarbaro e al tè, trasformarono le abitudini sociali e le diete in Europa, dall’altra, le piante originarie del Nuovo Mondo, come il mais, la patata dolce o la manioca, portate in Asia dagli Europei, divennero ben presto delle piante indigene (ivi, p. 82). L’interesse medico o botanico nei confronti delle piante e delle loro proprietà nutritive o terapeutiche andava quindi ben al di là del mero interesse scientifico. Da piante e frutti passarono le grandi rotte commerciali dell’età moderna, i monopoli e i profitti degli imperi, nonché la costruzione di network globali attraverso cui gli oggetti naturali e i saperi che li riguardavano potevano circolare al di qua e al di là degli oceani. Sullo sfondo dell’età delle esportazioni e del colonialismo, gli studi botanici ricevettero grande stimolo a partire dal Rinascimento. Non bastava infatti scoprire nuove specie. Per sfruttarle appieno e introdurle con successo in climi diversi da quelli d’origine, era necessario studiarne le proprietà, conoscerne gli usi locali, sperimentarne le diverse varietà. Dalla metà del Cinquecento nacquero così in Europa i primi orti botanici, con i loro erbari e le loro ricche biblioteche, per lo studio della medicina e delle piante medicinali, come l’orto botanico dell’università di Padova fondato nel 1545, queste istituzioni scientifiche, insieme ai giardini zoologici d’acclimatazione, diventarono cruciali per lo studio delle piante esotiche tra Seicento e Ottocento. Al Jardin des Plantes di Parigi, istituito nel 1635, finirono molte delle piante scoperte dagli esploratori francesi in ogni angolo del globo, mentre nel 1638 anche Amsterdam, tra i maggiori centri per il commercio mondiale delle spezie, inaugurò il proprio orto botanico. A partire dal 1772, sotto la direzione del naturalista Joseph Banks, che aveva partecipato alla leggendaria spedizione nel Sud del Pacifico di James Cook, prosperarono invece i Kew Gardens di Londra, destinati a giocare un ruolo di primo piano nelle politiche coloniali dell’Impero inglese. A testimonianza dell’importanza economica e scientifica delle piante e dell’intreccio tra le ragioni della scienza e quelle del commercio, i giardini botanici d’acclimatazione si diffusero ben presto anche nelle colonie grazie alle iniziative dei governi o delle potenti Compagnie delle Indie: nel 1652, nei giardini allestiti dalla Compagnia olandese delle Indie al Capo di Buona Speranza, si testavano piante commestibili o ornamentali provenienti dall’Africa, dalla Cina e da Giava; nei giardini botanici reali di Peradeniya, fondati a Ceylon intorno al 1821, gli Inglesi facevano esperimenti con la coltivazione del caffè, del tè, e della china; e mentre i Francesi acclimatavano gran parte delle specie asiatiche alle Mauritius per importarle nel resto dei propri domini, la Compagnia inglese delle Indie Orientali fondò nel 1787 il giardino botanico di Calcutta, nato allo scopo di coltivare spezie commercializzabili e trasformatosi in seguito in un’istituzione di natura scientifica. La società di orticoltura e le compagnie commerciali si appoggiavano anche a missionari o cercatori di piante, che spesso davano vita a casi di spionaggio botanico, tanti erano gli interessi in gioco. Nel Settecento il fenomeno raggiunse il suo apice, con figure come quella del missionario francese Pierre Poivre che muovendosi tra India, Java, Cina e Indocina fu coinvolto in numerose avventure commerciali riguardanti ogni genere di piante e spezie. A fare gola erano anche le piante ornamentali, come dimostra il caso di Robert Fortune, raccoglitore in Cina per conto della società di orticoltura di Londra e poi della Compagnia inglese delle Indie Orientali, a cui a metà Ottocento si deve l’introduzione della peonia arbustiva e di alcune varietà di camelie in Europa e Stati Uniti (ivi, p. 77). Tra Settecento e Ottocento gli orti e i giardini botanici disseminati in tutto il mondo diventarono i nodi di un’ampia rete scientifica, che era al contempo espressione di un dominio coloniale politico ed economico, come mostra in maniera esemplare il caso dell’Impero britannico. Sull’onda del grande impulso fornito dal rinnovamento della sistematica da parte del medico e botanico svedese Linneo e del suo Systema Naturae (I ed. 1735), i naturalisti del Settecento percorsero il globo in cerca di nuovi organismi da classificare, mentre i commerci prosperavano. Gli stessi botanici per poter studiare la flora dei Paesi lontani erano spesso obbligati ad imbarcarsi in spedizioni governative, ad esempio come medici a bordo, o a lavorare per conto delle potenti compagnie delle India. È il caso del naturalista tedesco Georgius Everhardus Rumphius, soprannominato il Plinio indiano, che spese gran parte della sua vita come impiegato nella Compagnia olandese delle Indie Orientali sull’isola di Ambon nell’arcipelago delle Molucche, di cui descrisse la zoologia e la flora; o come il botanico svedese Carl Peter Thunberg, uno dei migliori allievi di Linneo, dal 1771 al servizio della Compagnia olandese delle Indie Orientali, grazie a cui poté recarsi prima in Sudafrica e poi in Giappone, dando alle stampe una fondamentale Flora japonica (1784). «Se la scienza vuole avere successo – ha sostenuto lo storico Sivasundaram (2010b, p. 158) – deve viaggiare e affidarsi a dei mediatori per essere portata in altri luoghi». Nel caso delle scienze naturali, non furono solo le piante, gli animali, i fiori e i frutti a muoversi su reti globali. Anche i naturalisti sfruttarono a fini scientifici le vie commerciali e coloniali, portando con sé conoscenze che andarono a confrontarsi con i saperi del luogo, in una dialettica tra locale e globale. Per queste ragioni, per molto tempo i naturalisti viaggiatori hanno agito come fondamentali mediatori, permettendo a saperi diversi d’incontrarsi sul terreno dello studio della natura, con importanti ricadute commerciali e politiche. I loro libri ebbero la duplice funzione di far conoscere la flora esotica e i saperi indigeni nel Vecchio Continente e di portare il sapere e la pratica europea fuori dall’Europa. Il medico e farmacista portoghese Garcia d’Orta in India tra il 1534 e il 1564, fondò per esempio a Bombay un giardino botanico dove studiava i ritrovati della farmacologia locale, facendo conoscere in Europa grazie ai suoi Coloquios dos Simples, e Drogos he Cousas Mediçinais da India (1563) piante medicinali, piante commestibili come il mango o spezie come il cardamomo. Circa un secolo dopo, l’olandese Reede tot Drakenstein descrisse la flora del Malabar, in India, attraverso un’impresa collettiva che vide Europei e Indiani lavorare insieme utilizzando varie lingue, dal latino al sanscrito, dall’arabo al tamil, per descrivere le specie della zona nell’Hortus Indicus Malabaricus (1683-1703). In questo modo, importanti nozioni di botanica coloniale raggiunsero l’Europa, arrivando quasi certamente nelle mani dello stesso Linneo, che le utilizzò nel suo Species plantarum (Gunn, 2003, p. 62). La botanica non è stata l’unica scienza ad essersi sviluppata in chiave globale in relazione a interessi economici e coloniali. Tra Settecento e Ottocento, anche la biogeografia, la disciplina che studia la distribuzione delle piante e degli animali sulla superficie terrestre, ricevette un grande impulso dalle politiche coloniali, come mostra in maniera esemplare il caso inglese. In quegli anni, la biogeografia britannica prosperò grazie a una rete globale di musei di storia naturale, giardini botanici, stazioni d’acclimatazione e piantagioni sperimentali, che ne fecero la scienza dell’impero per eccellenza, il cui cuore pulsante era Londra, con la società zoologica, quella di orticoltura, il museo di storia naturale e i Kew Gardens. Come per la botanica, anche la biogeografia crebbe grazie alle osservazioni di 'agenti' sparsi in tutto il mondo, dai naturalisti freelance come Banks e Charles Darwin, agli ufficiali militari, dai diplomatici ai giardinieri. Esemplari di questa commistione tra scienza, politica ed economia sono figure come quella del botanico Joseph Dalton Hooker, dal 1865 alla direzione dei Kew Gardens, il centro del network coloniale dell’impero, o del naturalista Hugh Falconer, di stanza prima nel Bengala come assistente chirurgo per conto della Compagnia delle Indie Orientali e poi a Calcutta, dove diresse l’importantissimo giardino botanico, occupandosi al contempo di affari governativi relativi alla gestione delle coltivazioni di tè, china e gomma (Browne, 1992, p. 463). L’ideologia dell’impero informò dall’interno molti dei concetti e del linguaggio di una disciplina che mentre studiava la distribuzione di flora e fauna, si concentrata sull’utilità di piante e animali per la madrepatria, importando nello studio degli organismi naturali metafore politiche e sociali come quelle di economia e guerra della natura e insistendo sui rapporti tra centro e periferia, madrepatria e colonie. Fu proprio grazie alla presenza di questo network e di naturalisti, diplomatici, missionari, emissari governativi, mercanti, ingegneri minerari, viaggiatori, semplici gentiluomini o gentildonne disseminati in tutto il globo che uno dei maggiori naturalisti dell’Ottocento come Darwin poté raccogliere ingenti quantità d’informazioni da utilizzare nelle sue opere. In vista della pubblicazione nel 1872 dell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Darwin, ad esempio, preparò e distribuì in tutto il mondo un questionario sulle espressioni delle emozioni nelle diverse popolazioni del pianeta. Come emerge anche visivamente dal mappamondo disponibile sul portale del Darwin Correspondence Project dell’università di Cambridge (http://www.darwinproject.ac.uk/world-map/Expression%20questionnaire), le risposte arrivarono da ogni angolo della Terra, dall’Australia al Borneo, dalla Cina a Calcutta, dal Sudafrica al Nord America, e mostrano quanti stretti fossero nei territori i legami tra scienziati e agenti del colonialismo, a cui in molti casi si rivolgevano i naturalisti contattati da Darwin. Il 28 febbraio 1867, il padre della teoria dell’evoluzione scrisse per esempio a Ferdinand von Mueller, direttore dei giardini botanici di Melbourne, per chiedergli se conoscesse un missionario o anche solo un 'acuto colono' all’interno dell’Australia, che potesse fornirgli informazioni sulle espressioni delle emozioni degli aborigeni (http://www.darwinproject.ac.uk/letter/? docId=letters/DCP-LETT-5424.xml). Per le modalità di raccolta dei dati, il questionario antropologico globale di Darwin era quindi filtrato dallo sguardo europeo, sfruttando a fini scientifici l’ampia rete coloniale britannica. 8.3 L’internazionalismo scientifico tra Ottocento e Novecento di una comunità scientifica sovranazionale al servizio dell’umanità e un gruppo di scienziati al servizio della nazione, tra la ricerca di un linguaggio comune e la competizione tra gruppi diversi. Le accademie scientifiche che videro la luce nel corso del Seicento – dalla Royal Society di Londra (1660) all’Académie royale des sciences di Parigi (1666) – furono ad esempio degli importanti luoghi di scambio e circolazione del sapere grazie alla nomina di socie stranieri, anche durante i periodi di guerra. Le loro riviste, come 'Philosophical Transactions' o i 'Mémoires de l’Académie Royale des Sciences', permisero a una comunità scientifica in via di formazione di condividere i risultati delle proprie ricerche, interpretando l’ideale baconiano della Nuova Atlantide di una comunità di specialisti protesa alla realizzazione di una società guidata dalla scienza e dalle sue applicazioni. D’altra parte, non si deve dimenticare che queste accademie furono anche un’emanazione e un’espressione dei governi che le avevano sostenute a ornamento e progresso di ciascun Paese. Con l’avvento di Napoleone, la scienza in Europa diventò sempre più una questione patriottica e di prestigio nazionale. Il successo militare si accompagnava ai risultati ottenuti in campo scientifico, mentre le accademie e i musei facevano a gara per conquistarsi premi e collezioni. Il peso del nazionalismo scientifico era destinato a rafforzarsi nel corso dell’Ottocento, in un momento decisivo per l’istituzionalizzazione, professionalizzazione e specializzazione della ricerca scientifica in Europa in relazione allo sviluppo economico e industriale e alle politiche coloniali dei principali Stati europei. Fu nell’Ottocento che la scienza occidentale acquisì una conformazione simile a quella odierna, con la fondazione e diffusione di laboratori di ricerca, di una rete di politecnici, di società e riviste specializzate, di congressi scientifici, di standard comuni di sperimentazione. Nel corso del secolo la scienza ebbe un impatto significativo sulla società in stretta connessione con i sistemi economici, tecnologici, industriali e militari. Molte industrie poggiavano il proprio profitto sulla ricerca scientifica, come nel comparto farmaceutico, chimico, elettrico ed energetico, oltre che militare. L’economia delle risorse e l’economia della conoscenza s’intrecciano sempre di più (Renn, Hyman, 2012a). Lo stesso termine 'scienziato', dopo anni di terminologia incerta, si affacciò introno agli anni Trenta dell’Ottocento ad opera di pensatori come l’inglese William Whewell, andando a sostituire termini più vaghi come natural philospher e savant (Ross, 1962). Verso la metà del secolo videro inoltre la luce organismi internazionali quali l’International Bureau of Weights and Measures, creato nel 1875 a seguito della convenzione firmata a Parigi dai rappresentanti di 17 nazioni, che oggi sono diventate 58, allo scopo di garantire precisione e uniformità delle misurazioni fisiche in tutto il mondo, ad esempio con la creazione del sistema internazionale di unità di misura, con rilevanti ricadute e economiche (Page, Vigoureux, 1975). Fu sempre in questi anni che si affermò un articolato sistema di riconoscimento, anche legale, dei brevetti tra Europa e Stati Uniti. In una società sempre più industrializzata, questo fenomeno testimonia il crescente impatto economico e sociale delle invenzioni di tecnici, scienziati e 'uomini e donne di grande ingegno'. In una logica di internazionalizzazione, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’allargamento dei mercati e l’espandersi delle ferrovie in Europa e dei collegamenti marittimi verso il Nuovo Mondo, gli inventori cercavano di brevettare le proprie invenzioni non solo nel Paese d’origine, ma anche all’estero. Molti Italiani, ad esempio, si rivolsero al Patent Office degli Stati Uniti, che dal 1836 aveva rimosso i vincoli e le limitazioni legate alla nazionalità di appartenenza (in precedenza erano ammessi solo gli stranieri residenti negli Stati Uniti da almeno due anni o chi dichiarasse l’intenzione di diventare cittadino americano), anche se agli stranieri si applicava ancora una tassazione maggiore: dall’inventore piemontese Clemente Masserano per la locomotiva mossa dalla forza di animali del 1851 all’abate Giovanni Caselli per il pantelegrafo nel 1863, dall’ingegnere Corradino D’Ascanio per l’elicottero nel 1934 al Centro di ricerca per la frutticoltura di Roma che nel 2010 ha brevettato un nuovo tipo di pianta di lampone chiamata Erika (Marchis, 2011). In un mondo che stava allargando i propri confini, emergeva quindi la necessità di sottoscrivere le prime convenzioni internazionali a protezione della proprietà intellettuale come quella di Parigi del 1883 per la tutela della proprietà industriale. Tra i simboli di una società dove scienza, tecnica e industria erano sempre più intrecciate tra loro, con significative ricadute sulle politiche economiche e militari, rientravano anche eventi come le esposizioni universali organizzate periodicamente tra Europa e Stati Uniti dal 1851, con la Great Exibition di Londra. Nei padiglioni di queste monumentali città effimere Stati e industrie si mettevano in mostra per qualche mese, mobilitando capitali e grandi masse di persone. La diffusione di tecnologie come il telegrafo e di sistemi di infrastrutture come le ferrovie aumentarono le possibilità di connessione e di incontro tra una comunità scientifica sempre più specializzata e in rapida trasformazione. Mentre il concetto di autorialità scientifica prendeva forma, l’ideale dell’internazionalismo si accompagnava alla diffusione di una forma di 'patriottismo' scientifico spesso venato da motivazioni politiche. Le numerose società scientifiche nazionali, dalla chiara vocazione internazionale, che sorsero a partire dai primi dell’Ottocento in tutta Europa, dalla Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Ärtze (1822) alla British Association for the Advancement of Science (1831), davano voce sia a una domanda di cosmopolitismo – incentivando gli scambi tra scienziati di diversi Paesi e diverse discipline – sia a un impegno a favore della creazione di una comunità scientifica nazionale o dei processi di unificazione politica, come in Germania e in Italia. Il caso della proliferazione delle società per l’avanzamento delle scienze (AAS) in tutto il mondo, da quella svizzera del 1816 a quella indiana del 1890, mostra in maniera esemplare il ruolo avuto su scala globale da queste associazioni, che accompagnarono tra l’altro la trasformazione dello scienziato da amatore a professionista (Fumian, 1995). I congressi organizzati periodicamente da queste società furono tra le principali manifestazioni collettive di una scienza alla ricerca di criteri e linguaggi comuni. Nel 1822 il naturalista Lorenz Oken, che sognava di dar vita a un 'parlamento di scienziati', organizzò in Germania il primo congresso della Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Ärtze. Nel 1828 fu la volta di Alexander Von Humboldt, che a Berlino riuscì a riunire all’insegna dell’interdisciplinarietà più di 400 scienziati provenienti da vari Stati tedeschi e dal resto d’Europa, tra cui il chimico Jöns Jacob Berzelius e il matematico Charles Babbage. Anche in Italia, durante gli anni Quaranta dell’Ottocento, furono organizzate le Riunioni degli scienziati italiani, che ebbero un ruolo importante in questa dialettica tra iniziativa nazionale e sovranazionale sullo sfondo delle rivendicazioni risorgimentali, a partire dalla prima riunione organizzata nel 1839 a Pisa (ibid.). All’inizio del Novecento le unioni scientifiche sorte in tutto il mondo erano così numerose che nel 1899 vide la luce l’Associazione internazionale delle accademie con la funzione di riunirle e coordinarle sotto un unico cappello (Somsen, 2008, p. 366). Tra il primo e il secondo conflitto mondiale, le guerre e le divisioni politiche ebbero un impatto significativo sulla comunità scientifica, obbligata a prendere posizione. Un caso esemplare è quello dei rapporti tra la Germania e le altre nazioni vincitrici dopo il Trattato di Versailles (1919). I Tedeschi, infatti, furono esclusi dall’International Research Council (IRC) istituito alla fine della guerra e nel 1926, quando gli venne chiesto di farne parte, rifiutarono. Negli stessi anni in cui Puricelli progettava una rete europea di autostrade, era ancora una volta Haber a parlare a nome della Germania, rivendicando un posto scientifico di primo piano, nonostante la sconfitta e le difficoltà economiche. Più in generale, tra il 1918 e il 1939 si assistette da una parte a una disintegrazione e a un arresto della cooperazione internazionale con politiche di isolazionismo e autarchia in campo economico, dall’altra a tentativi di dar vita a numerose organizzazioni internazionali come la Croce Rossa o la Lega delle Nazioni. In un contesto complesso e stratificato, la scienza diventò un potente strumento ideologico, come accadde per esempio in Italia, dove durante il Fascismo la scienza rappresentò sia uno strumento di rivendicazione nazionale sia un veicolo d’internazionalizzazione; ma entrambe le modalità erano funzionali a sottolineare il ruolo di primo piano dell’Italia fascista. Sullo sfondo di articolati processi sociali, politici ed economici di globalizzazione e connessioni transnazionali, nel corso dell’Ottocento e del Novecento le categorie di nazionalismo e internazionalismo scientifico si configurano quindi come due facce di una stessa medaglia, seguendo due strade opposte ma parallele: da una parte, la comunità scientifica andava alla ricerca di legami internazionali, mossa da ideali cosmopoliti di cooperazione sovranazionale, alla ricerca di sedi e occasioni d’incontro; dall’altra, gli scienziati e i tecnici ebbero un ruolo centrale nei processi di costruzione della nazione, impegnati in prima linea nella modernizzazione dei propri Paesi. Mentre prendeva forma un network scientifico internazionale, gli scienziati erano anche, più o meno animati da sentimenti nazionalistici, al servizio del prestigio, della politica e dell’economia nazionali per risolvere i problemi della fame, delle malattie, delle infrastrutture e dello sviluppo economico dei propri territori. In quest’ottica, fenomeni come le società per l’avanzamento delle scienze, i congressi scientifici internazionali e le grandi esposizioni universali possono essere letti allo stesso tempo come vetrine dei progressi tecnico-scientifici nazionali, come occasioni di scambio e come manifestazioni di forza. Perfino i premi Nobel, che come si è visto rappresentano a partire dal 1901 il simbolo più esplicito del consesso scientifico mondiale, sono in realtà specchio dei delicati equilibri che esistono tra le diverse comunità scientifiche nazionali e quella internazionale sia per quanto riguarda i candidati, sia per quanto riguarda i responsabili delle assegnazioni (Crawford, 1992). Queste due tendenze non sono però contraddittorie, dato che in fin dei conti «le conquiste nazionali possono essere misurate solo con standard internazionali» (Somsen, 2008, p. 366). In altre parole, senza competizione internazionale non vi sarebbe nemmeno prestigio nazionale. 8.5 Riflessioni conclusive: tra Big Science e società globale Dal secondo dopoguerra a oggi, l’impatto della scienza e della tecnologia sull’economia e sulla politica globale è aumentato esponenzialmente. Dopo il Progetto Manhattan degli Stati Uniti per la messa a punto della bomba atomica, i progetti di Big Science sono cresciuti per importanza e investimenti, rispecchiando spesso interessi politici, economici e militari di governi e gruppi di investitori dalle rilevanti conseguenze sul piano industriale e tecnologico. D’altra parte, i grandi programmi nel campo della ricerca fisica, astronomia, biologica e genetica hanno sempre più bisogno di strumentazione sofisticata e di istituti di ricerca che vedono la partecipazione e la collaborazione tra scienziati a livello internazionale, come il CERN (Conseil européen pour la recherche nucléaire) di Ginevra, il più grande laboratorio al mondo per la fisica delle particelle, fondato nel 1954. E fu proprio al CERN che nel 1991 fu sviluppato il World Wide Web. Questo sistema ha consentito la crescita esponenziale degli utenti di internet (inventato nel 1969), che all’inizio del 2018 su una popolazione totale di 7593 milioni di persone ammontano a più di quattro miliardi in tutto il mondo (http://digitalreport.wearesocial.com/), contribuendo alla formazione della società globale in cui siamo oggi immersi senza poterne ancora comprenderne appieno le conseguenze. In uno scenario sempre più connesso, anche le sfide e i problemi da risolvere sono diventati globali, richiedendo la nascita di organismi scientifici internazionali preposti allo studio di questioni come il riscaldamento globale, con l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change istituito nel 1988, il reperimento di fonti energetiche, la scarsità delle risorse idriche, lo smaltimento dei rifiuti, la lotta alla malnutrizione, la protezione della natura, con la IUCN, l’International Union for the Conservation of Nature, nata nel 1948. Tali questioni richiedono azioni sinergiche su scala globale, contribuendo ad avvicinare ulteriormente il mondo della scienza alle agende della politica e dell’economia (Renn, Hyman, 2012b). Come era già avvenuto in passato, cooperazione e competizione rimangono due facce della stessa medaglia: mentre la comunità scientifica si muove al suo interno in direzione della collaborazione internazionale e di una standardizzazione del proprio funzionamento, la competizione economica mondiale continua a giocarsi anche sul terreno della conoscenza e dell’innovazione scientifico-tecnologica riguardante settori chiave come quello della mobilità, delle infrastrutture, della comunicazione e dell’informazione. In un processo che affonda le sue radici fin nel Rinascimento, la scienza continua a essere centrale per le dinamiche di globalizzazione, configurandosi come una variabile impossibile da trascurare. 9 La mobilità dalle origini alla quarta Rivoluzione industriale di Simone Fari Tradizionalmente, i trasporti e le comunicazioni sono stati considerati un oggetto di studio privilegiato da parte della storia economica contemporanea, la quale ha dedicato molte pagine all’evoluzione dei mezzi, delle infrastrutture e dei servizi associati. Tuttavia, recenti studi nell’ambito delle scienze sociali ci obbligano a sostituire la categoria di 'trasporti e comunicazioni' con il più moderno concetto di mobilità. Come hanno ben spiegato Zygmunt Bauman e John Urry, la mobilità deve intendersi come l’insieme dei flussi di persone, oggetti e informazioni (Bauman, 2002; Urry, 2007). Attraverso i millenni, l’uomo ha forgiato la sua società, e quindi anche la sua economia, in conseguenza della propria mobilità. Con il passare dei secoli le modalità della mobilità umana si sono radicalmente modificate e la sua velocità si è via via moltiplicata fino a rendere possibile, al giorno d’oggi, le A partire dal Basso Medioevo il trasporto marittimo tornò ad essere molto importante. Sebbene le tre invenzioni più rilevanti dell’epoca – la bussola, la polvere da sparo e la stampa – provenissero tutte dall’impero cinese, la navigazione a vela in mare aperto si innovò profondamente sia in Europa che in Asia. Gli Stati europei furono in grado di costruire imbarcazioni di piccola stazza ma dalla grande capacità di carico, resistenti e capaci di navigare in mare aperto per migliaia di chilometri. Dall’altra parte del mondo, i Cinesi costruirono una flotta costituita da imbarcazioni enormi, capaci di ospitare centinaia, se non migliaia di persone, e in grado anch’esse di navigare indenni in pieno oceano. Il risultato di queste innovazioni tecnologiche fu che sia gli Europei sia i Cinesi arrivarono sulla costa orientale africana nel XV° secolo. Qui si pone un grande enigma della storia economica: se i Cinesi possedevano una tecnologia marittima uguale, o superiore, a quella degli Europei, per quale ragione furono questi ultimi a giungere in Asia e poi in Cina e non il contrario? Sebbene molti storici affidino un ruolo rilevante alle istituzioni cinesi, in particolare alla religione e allo Stato, che avrebbero disincentivato i viaggi intercontinentali e favorito l’isolazionismo, probabilmente furono gli incentivi economici e commerciali degli Europei a essere determinanti. I mercati dell’Asia offrivano prodotti di lusso che gli Europei non erano in grado di fabbricare: la porcellana, la seta e le spezie. In cambio gli Europei erano in grado di offrire solo materie prime e schiavi, beni che i Cinesi avrebbero trovato ovunque. In altre parole, i mercanti europei erano stimolati a scoprire nuove rotte verso Oriente; al contrario, i Cinesi non avevano alcuna buona ragione per mettere a rischio la propria vita e le proprie risorse economiche per arrivare in Europa (Ferguson, 2014). La tecnologia marittima (le vele) si associò presto ai cannoni e alle armi da fuoco che ne seguirono. I cannoni rivoluzionarono la velocità e la modalità della guerra: poche navi equipaggiate di cannoni potevano distruggere le mura e le fortificazioni a difesa di un’intera città e, quindi, farla capitolare nel giro di poche ore. Fu in questo modo che Stati relativamente poco abitati, come il Portogallo, la Spagna, l’Olanda e l’Inghilterra divennero delle potenze imperiali globali nel giro di pochi secoli e con l’utilizzo di pochi soldati (Cipolla, 2003). I secoli XV° e XVI° vengono spesso ricordati come l’epopea delle grandi scoperte geografiche e delle conseguenti colonizzazioni. Tuttavia, la 'ri-scoperta' di nuovi continenti implicò anche uno straordinario movimento intercontinentale di persone e di beni. La colonizzazione bianca delle Americhe e dell’Oceania è quasi senza paragone: l’arrivo degli Europei in questi continenti provocò la diminuzione radicale, e in certi casi la totale estinzione, delle popolazioni autoctone. In questo caso fu determinante l’esportazione involontaria da parte degli Europei di batteri e virus sconosciuti nel continente americano. Gli indigeni vennero presto rimpiazzati dagli schiavi africani decisamente più economici. Il risultato di questa mobilità umana è evidente nella composizione della popolazione di ex colonie dell’Impero britannico come il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda che prevede una netta prevalenza di 'bianchi', discendenti dagli antichi coloni europei. Al contrario, nazioni che furono colonie in cui si impiegò massicciamente la schiavitù nelle piantagioni, come ad esempio gli Stati Uniti, le isole dai Caraibi, hanno oggi una proporzione elevata di persone di colore, discendenti dagli schiavi africani (Livi Bacci, 2005; Diamond, 2014). Impressionante è anche la qualità e la quantità di beni che vennero trasportati e scambiati a livello intercontinentale durante l’età moderna. In primo luogo, i metalli preziosi come oro e argento, la cui importazione massiccia da parte della Spagna innescò un’inflazione secolare nel corso del XVI° secolo. In secondo luogo, l’importazione europea di nuovi alimenti che avrebbero poi caratterizzato la sua cucina dei secoli successivi: il mais, la patata, il pomodoro, il tacchino, il cioccolato. I flussi non furono poi unidirezionali: gli Europei, ad esempio, introdussero molti animali domestici nei 'nuovi continenti' ma quello che ebbe l’impatto maggiore sulle popolazioni indigene fu sicuramente il cavallo nelle pianure delle Americhe del Nord. Qui le tribù degli indiani d’America introdussero rapidamente il cavallo all’interno della propria cultura nomade e, insieme alle armi da fuoco, divennero i tratti caratterizzanti di nuove controinvasioni delle colonie bianche, su un modello simile a quello delle popolazioni nomadi delle steppe. Infine, non va sottovalutata nemmeno la diffusione dell’informazione. Durante l’età moderna essa viaggiò ancora alla stessa velocità dell’uomo sulle imbarcazioni o trasportata a piedi o a cavallo. Tuttavia, l’informazione poté contare su un’invenzione che ne amplificò l’impatto sia nello spazio sia nel tempo: la stampa a caratteri mobili, erede di quella a caratteri fissi inventata dai Cinesi. I libri stampati aiutarono i missionari a diffondere la religione cristiana in America del Sud e nel resto del mondo, ma permisero anche ai nuovi coloni di insegnare ai propri figli la cultura e la letteratura dei Paesi d’origine. Oggi lo spagnolo è la lingua ufficiale in molti Paesi del Sud America, il francese è lingua ufficiale in molte nazioni africane e l’inglese lo è nella maggior parte delle nazioni prima appartenenti al Commonwealth. Ciò fu possibile grazie alla diffusione della lingua scritta da parte dei colonizzatori, sicuramente agevolata dai libri e dalle riviste pubblicate a stampa (Ferguson, 2009). 9.4 La prima rivoluzione industriale Sebbene non vi sia un accordo unanime, in genere, la storia economica individua tre rivoluzioni industriali durante l’età contemporanea: la prima avvenne nel Regno Unito fra il 1760 e 1830, la seconda in molte nazioni occidentali fra il 1850 e la Prima Guerra Mondiale, la terza, caratterizzata dall’informatica è cominciata nel 1970 con l’invenzione del microprocessore. Questa periodizzazione non coincide con quella delle rivoluzioni tecnologiche relative alla mobilità che invece spesso seguirono di qualche decennio le rispettive rivoluzioni industriali, probabilmente sotto l’impulso di un’esigenza collettiva tesa al miglioramento nel trasporto di persone, oggetti e informazioni. La prima rivoluzione industriale rese possibile la produzione di una quantità enorme di beni, prevalentemente tessuti. Il trasporto delle materie prime e delle risorse necessarie alla fabbricazione di questi beni e la loro successiva commercializzazione richiedevano il miglioramento radicale delle vie e dei mezzi di comunicazione esistenti. In generale, la prima rivoluzione industriale portò al perfezionamento di trasporti e comunicazioni che già esistevano da secoli. Il Regno Unito favorì la nascita di highroads e di canali costruiti e gestiti da enti privati in modo da collegare fra loro città industriali e porti. Simultaneamente, la tecnologia marittima si era via via migliorata fino alla costruzione dei clippers, velieri leggeri, resistenti e veloci, in grado di attraversare l’oceano Atlantico in poche settimane. L’insieme di queste innovazioni non costituì però un cambiamento radicale nei trasporti e nelle comunicazioni, il quale sarebbe invece cominciato intorno alla metà del XIX° secolo. Probabilmente fu proprio l’accumularsi della capacità produttiva con conseguente aumento delle esigenze commerciali, unito al prodigioso aumento demografico e salariale, a incentivare la ricerca di mezzi di trasporto e comunicazione più veloci ed economici (Allen et al., 2011). La macchina a vapore era stata introdotta nelle fabbriche per muovere dei macchinari statici, tuttavia era troppo ingombrante e poco potente per essere applicata alla locomozione. Solo nei primi decenni del XIX° secolo furono costruite le prime macchine ad alta pressione, compatte e dotate di grandissima potenza, in altre parole perfette per poter essere utilizzate come motori per i mezzi di locomozione. In questo modo, già negli anni Trenta-Quaranta vennero costruite le prime ferrovie e i primi battelli a vapore solcavano fiumi e mari. Sempre durante gli stessi anni, vennero effettuati i primi studi sull’elettricità dinamica. Partendo da essi, alcuni inventori, autonomamente e in diverse nazioni, realizzarono un rivoluzionario mezzo di comunicazione a distanza, il telegrafo elettrico. Introdotto sperimentalmente negli anni Quaranta, si diffuse a livello nazionale e internazionale negli anni Cinquanta e, un decennio più tardi, vennero posati i primi cavi sottomarini intercontinentali (Mokyr, 1995). L’impatto del telegrafo elettrico fu enorme: fino a qualche giorno prima della posa del cavo transatlantico nel 1866, un messaggio postale partito dal Regno Unito impiegava almeno quattro settimane per raggiungere gli Stati Uniti, dopo la sua posa, il telegramma arrivava istantaneamente sul continente americano (Foreman Peck, 1999). Tecnicamente con l’introduzione del servizio telegrafico nascono le telecomunicazioni, le quali si distinguono dalle comunicazioni tradizionali perché il messaggio non viene trasportato fisicamente da un uomo, ma trasmesso istantaneamente a grande distanza per mezzo di dispositivi tecnici (Carey, 1989). Sebbene, per molti decenni, gli studiosi abbiano considerato separatamente le telecomunicazioni dai trasporti, ultimamente, grazie all’elaborazione del cosiddetto 'paradigma delle mobilità', John Urry e Mimi Sheller hanno evidenziato l’impossibilità di separare concettualmente i due aspetti (Sheller, Urry, 2006). Ad esempio, è impossibile considerare l’enorme sviluppo delle ferrovie senza l’adozione simultanea del telegrafo. Nel Regno Unito, l’introduzione di un sistema di monitoraggio costante basato sul telegrafo consentì la costruzione di ferrovie a binario unico, con un enorme risparmio di costi fissi, da cui conseguì un autentico boom degli investimenti nel settore ferroviario. Allo stesso modo, sono molti gli studiosi, come James Beniger che riconoscono nella simbiosi tecnica ed economica fra ferrovie e telegrafi una delle armi segrete dello sviluppo industriale degli Stati Uniti nella seconda metà del XIX° secolo. Da una parte, il telegrafo permetteva di stipulare contratti a grande distanza, dall’altra il servizio ferroviario consentiva la rapida spedizione della merce contrattata. In questo modo, gli Stati Uniti poterono sfruttare l’enorme mercato interno a loro disposizione, ne sono una testimonianza concreta la costruzione delle prime linee ferroviarie coast to coast (dall’Atlantico al Pacifico), insieme alle linee telegrafiche ad esse associate (Beniger, 1995). 9.5 La seconda rivoluzione industriale Anche nel caso della seconda rivoluzione industriale, i primi decenni videro un progressivo miglioramento ed evoluzione delle tecnologie inventate precedentemente. La mobilità della seconda rivoluzione industriale si sviluppò in due direzioni: la mobilità urbana e la mobilità interurbana o a grande distanza. A livello urbano, la seconda metà del XIX° secolo fu il periodo dell’introduzione dei principali servizi cittadini, spesso municipalizzati, nelle principali città di tutto il mondo. Vennero installati tubi del gas per l’illuminazione pubblica, nuove condutture idriche e fognarie permisero la distribuzione di acqua in molti edifici, l’installazione di cavi permise la costruzione di uffici telegrafici in tutti i quartieri, la costruzione di strade ferrate urbane consentì l’attivazione delle prime linee di tram e, successivamente, l’entrata in servizio delle prime metropolitane. L’esplosione dei servizi di erogazione e trasporto all’interno delle città fu una conseguenza diretta dell’urbanizzazione che era seguita all’industrializzazione. Molte fabbriche si erano infatti installate nelle città più importanti al fine di essere più vicine ai porti o alle stazioni ferroviarie da cui sarebbero partite le enormi quantità di beni che si producevano. In questo modo, molti contadini si erano trasferiti dalle campagne e si erano convertiti in operai, andando a formare enormi quartieri dormitorio. Di conseguenza, sorse fin da subito l’esigenza di garantire a tutti i quartieri i servizi igienici minimi (acqua e luce) e, allo stesso modo, di consentire gli spostamenti dei lavoratori attraverso dei mezzi pubblici, autentica novità (Giuntini, Hertner, Nuñez, 2004). A livello interurbano furono due i mezzi di trasporto che caratterizzarono la seconda rivoluzione industriale: ferrovie e battelli a vapore. Continue innovazioni ingegneristiche relative alla costruzione delle infrastrutture ferroviarie (cavalcavia, tunnel, valichi, ponti) consentirono lo sviluppo di autentiche reti ferroviarie intercontinentali di cui la transiberiana (che collegava l’Europa alla Russia), e le linee coast to coast negli Stati Uniti sono i due esempi più conosciuti. Dall’ altra parte, la tecnologia dei battelli fece progressi enormi arrivando all’introduzione di motori a vapore più compatti e potenti e alla sostituzione della ruota laterale con l’elica posteriore, che consentiva un miglioramento radicale nella manovrabilità dei grandi vascelli (Smil, 2005). L’enorme capacità di carico e trasporto di ferrovie e battelli a vapore consentì, da una parte, la distribuzione dei prodotti industriali dei Paesi occidentali in tutto il mondo e, dall’altra parte, l’emigrazione di decine di milioni di persone in cerca di lavoro da Europa e Asia verso il continente americano. A questi due flussi di cose e persone, tradizionalmente, si aggiunge quello dei capitali: enormi quantità di denaro provenienti dai Paesi industrializzati vennero investiti per la costruzione di grandi opere infrastrutturali in tutto il mondo. Questa enorme espansione del mercato dei beni, del lavoro e dei capitali è stata denominata 'la prima globalizzazione' (O’Rourke, Williamson, 2005). A cavallo fra XIX° e XX° secolo, quindi con il consueto ritardo di qualche decennio, le innovazioni caratterizzanti la seconda rivoluzione industriale cominciarono ad applicarsi direttamente alla mobilità, in dettaglio: l’acciaio, l’elettricità e il motore a scoppio che utilizzava i derivati del petrolio. Durante la seconda rivoluzione industriale, l’acciaio venne prodotto industrialmente, e quindi a prezzi relativamente bassi. Questo favorì il suo impiego massiccio in quasi tutti i settori. Ad esempio, l’uso delle strutture d’acciaio nell’ edilizia consentì la costruzione di altissimi grattacieli nelle metropoli degli Stati Uniti, dando così origine a Gli studiosi ci comunicazione, riferendosi a questo periodo descrivono una tendenza chiamata 'convergenza dei media', secondo cui tutti i media progressivamente verrebbero assorbiti da un unico nuovo mezzo di comunicazione di massa: internet. Internet, oggi perlopiù concentrato nel palmo di una mano attraverso una vasta gamma di smartphone e tablet, rappresenta una realtà virtuale alla quale si può accedere con qualsiasi dispositivo elettronico e nella quale sono concentrate tutte le forme di comunicazione inventate dall’umanità. Teoricamente, si potrebbe consultare qualsiasi forma di comunicazione scritta o audiovisiva semplicemente accedendo a una connessione internet senza la necessità di comprare una televisione, una radio, un giornale o un libro. A rendere la convergenza dei media ancora più straordinaria è il fatto che le comunicazioni sono istantanee e poco costose; inoltre l’accesso alle informazioni, di qualsiasi genere, avviene spesso in modo gratuito (Staiger, Hake, 2009). Ovviamente, lo sviluppo della rete oltre a incentivare enormemente le capacità di condivisione dell’informazione fra i vari cittadini del mondo, ha creato anche un nuovo livello di esclusione sociale: da una parte chi può connettersi e dall’altro chi non lo può fare. Si è così coniato il termine di digital divide per indicare chi per ragioni anagrafiche (troppo vecchio per imparare le nuove tecnologie) o per ragioni economiche (troppo povero per permettersi un accesso a internet) rischia di rimanere escluso dai vantaggi della rivoluzione digitale (Bauerlein, 2011). Dal punto di vista dei trasporti, negli anni Ottanta e Novanta del XX° secolo è emerso un altro concetto fondamentale: l’intermodalità. Gradualmente, sia a livello locale che a livello internazionale, i principali sistemi di trasporto e di comunicazione si sono integrati fra di loro. Nelle grandi città le stazioni degli autobus e dei treni sono spesso contigue e a loro volta strettamente collegate con l’aeroporto e con il sistema della metropolitana; gli aeroporti di modeste dimensioni sono collegati a scali nazionali, che a loro volta sono connessi con scali internazionali; in prossimità di stazioni e aeroporti sono spesso disponibili grandi aree di parcheggio a pagamento e sono quasi sempre presenti fermate di taxi. In altre parole, la mobilità in tutte le sue diverse forme sembra integrarsi progressivamente sempre più al fine di garantire al 'viaggiatore' la massima libertà possibile sia su brevi che su lunghe distanze (Rodrigue, Slack, 2017). In realtà, anche per i secoli precedenti, le telecomunicazioni e i trasporti hanno sempre costituito un unico sistema di mobilità. Di conseguenza, si dovrebbero sommare fra loro gli effetti contemporanei, ma studiati in discipline differenti, della convergenza dei media e dell’intermodalità: oggi è possibile prenotare biglietti di qualsiasi mezzo di trasporto direttamente da internet; si possono controllare eventuali ritardi e pianificare soluzioni alternative, proprio grazie all’integrazione di sistemi di trasporto e comunicazioni differenti. 9.8 E domani? Molti studiosi concordano sul fatto che siamo ormai entrati in una quarta rivoluzione industriale la quale si caratterizzerà per l’impiego massiccio della robotica, dell’intelligenza artificiale, della stampa tridimensionale, della genetica, della nanotecnologia e della creazione di nuovi materiali. Il futuro è per definizione poco prevedibile. Negli anni Cinquanta, ad esempio, si pensava al Duemila come un’epoca in cui tutti avrebbero utilizzato delle automobili volanti per spostarsi quotidianamente. Tuttavia, sulla base delle innovazioni che oggi sono agli albori, si possono azzardare alcune ragionevoli previsioni. Innanzitutto, dal punto di vista della mobilità, la rivoluzione concettualmente più rilevante verrà dalla stampa a tre dimensioni e da tutto ciò che ne conseguirà. Fino ad ora, a partire dall’invenzione del telegrafo, solo le informazioni si sono potute muovere alla velocità della luce, indipendentemente dal trasporto effettuato da una persona. Con la stampa 3d, un oggetto, un mobile o addirittura una casa potrebbero presto essere ricostruiti a distanza senza necessità di trasporto fisico. La stampa 3d è poi applicabile a moltissimi campi differenti, tra cui quello medico: oggi è possibile riprodurre piccole parti di tessuto o di osso ma nel prossimo futuro si potranno ricostruire interi organi. In altre parole anche 'pezzi di persona' potranno muoversi alla stessa velocità con cui oggi si muovono le informazioni (Anderson, 2013). L’intelligenza artificiale, a sua volta, rivoluzionerà il concetto stesso di trasporto: merci e persone potranno essere trasportati senza un pilota, un autista o un 'accompagnatore' umano. Amazon sta impiegando sperimentalmente dei droni per la consegna dei pacchi. Tesla e Google sperimentano ormai da anni le driveless car. In altre parole, nel giro di pochi decenni, il trasporto di cose e persone potrebbe finire nelle mani di robot guidati da intelligenza artificiale. In questo caso, l’integrazione fra telecomunicazioni e trasporti sarebbe completa (Brynjolfsson, McAfee, 2015). Infine, ancora una volta nella storia, una vecchia tecnologia sta tornando in auge: il trasporto pneumatico. Nel corso del XIX° secolo si era infatti sperimentata la ferrovia pneumatica, la cui trazione si basava sul vuoto creato dalla suzione dell’aria da alcuni tubi sigillati. Lo stesso principio si applica a Hyperloop una sorta di metropolitana a lunda distanza, in cui alcuni vagoni vengono letteralmente sparati ad altissime velocità su distanze di centinaia di chilometri. Il risultato sarà quello di trasportare passeggeri su grandi distanze, in pochi minuti e con un consumo energetico bassissimo (creare il vuoto è un’azione che non richiede il dispendio di grandi quantità di energia). Hyperloop è attualmente in costruzione in California, in Cina e nella penisola araba e il loro varo è previsto a breve. Tuttavia, spesso si è verificato durante una rivoluzione industriale, le vecchie tecnologie tornano di moda con le opportune modifiche: negli ultimi anni si è verificata una vera e propria esplosione dei servizi low cost di trasporti tradizionali associati all’uso di internet: compagnie aeree, parcheggi, autobus specializzati in grandi distanze, trasporti condivisi come Uber o BlaBlaCar. È prevedibile che nei prossimi anni anche i trasporti di beni e persone, oltre che le informazioni, registreranno una massiccia tendenza all’abbassamento dei costi, o in alcuni casi alla gratuità di tali servizi. Il futuro della mobilità potrebbe quindi essere anche quello del facile accesso a mezzi di trasporto urbani ed extraurbani prevalentemente gratuiti o condivisi (Sundararajan, 2016).
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