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Storia ed estetica del cinema magistrale, Appunti di Storia Del Cinema

Storia ed estetica del cinema magistrale - La cultura dell'immagine mediatica - Filmografia: C.T. Dreyer, La passion de Jeanne d'Arc, 1928; L. Buñuel, S. Dalì, Un chien andalou, 1929; R. Montgomery, Una donna nel lago, 1947; H. Hawks, The Big Sleep, 1946; A. Hitchcock, La finestra sul cortile, 1954; Bergman, Il settimo sigillo, 1957; 5. F. Fellini, 81/2, 1963; S. Kubrick, 2001 A Space Odyssey, 1968; 10. N. Moretti, Habemus Papam, 2011; T. Malick, The Tree of Life, 2011

Tipologia: Appunti

2017/2018

In vendita dal 29/04/2018

marcyt94
marcyt94 🇮🇹

4.6

(30)

20 documenti

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Scarica Storia ed estetica del cinema magistrale e più Appunti in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! 1 Storia ed estetica del cinema magistrale Lunedì 5 febbraio La cultura dell’immagine mediatica: nuove vie della conoscenza, del pensiero e della sensibilità Con l’avvento della fotografia e del cinema viene posta in essere una nuova concezione dell’immagine e con essa una descrizione inedita della realtà. Il 18 dicembre 1895 nasce il cinema: i fratelli Lumière proiettano l’Arrivo del treno in stazione. L’immagine da statica diviene in movimento o, almeno, ne crea l’illusione: 24 fotogrammi al secondo riescono a ingannare l’occhio umano e a creare la percezione di movimento. Inizialmente, il cinema è pensato come mezzo per documentare la realtà, per registrarla e darne testimonianza. I fratelli Lumière, infatti, non sono artisti, bensì tecnici studiosi che, attraverso il loro lavoro, vogliono dare un contributo alla scienza nello studio della realtà. Con la nascita di questo tipo di immagini, che si discostano infatti dall’immagine pittorica, il rapporto dell’uomo con la realtà viene trasformato, ed egli può ora venire a conoscenza di cose e fatti fino ad allora sconosciuti: il campo delle conoscenze viene ampliato, la sfera del visibile diviene enorme. Si parla perciò di passaggio da una cultura logo- centrica/verbo centrica ad una cultura visuale o visiva, ossia da una trasmissione prevalentemente scritta ed orale del sapere ad una trasmissione incentrata sui media visivi. La nascita, la diffusione e l’incremento dei media visuali non hanno precedenti nella storia dell’umanità – non a caso si sono coniate nuove definizioni: cultura dell’immagine, società dello spettacolo e molte altre – ma ciò cui ancora non viene attribuita la giusta importanza è la difficoltà che il nostro sistema educativo incontra rispetto a tale cambia- mento. Si parla perciò di analfabetismo mediatico e iconico.  7h30 al giorno davanti a schermi in Europa: la maggior parte dei contenuti osservati è di carattere iconico. Il rapporto dell’uomo con il mondo non è più diretto ma anche mediato da uno strumento che si interpone tra la persona e la realtà.  4h davanti alla TV in Italia (dati Istituto Rosselli): lo schermo della TV mostra soprattutto/quasi completa- mente soltanto immagini. La diffusione di Internet e di altri dispositivi non ha perciò soppiantato la televisio- ne.  400.000 immagini (artificiali) al giorno oggi, 40 immagini nell’arco di una vita nel Medioevo. In questo quadro è evidente come le dimensioni sociale, tecnologica ed economico-industriale hanno subito dei cambiamenti profondi. È nata una vera e propria industria culturale all’interno della quale la cultura è il soggetto dell’industria, delle indagini di mercato, del marketing, del mondo del lavoro, etc. Tuttavia, il fatto che si abbia familia- rità di comprensione dell’audiovisivo non significa che:  Non sia culturalmente appreso: si tratta di abilità che sono state imparate, non sono innate;  Sia un medium semplice o più semplice di altri;  Vi sia consapevolezza della sua complessità; Filmografia d’esame 1. C.T. Dreyer, La passion de Jeanne d'Arc, 1928 L. Buñuel, S. Dalì, Un chien andalou, 1929 2. C. Chaplin, City lights, 1931 G. Cuckor, What Prize Hollywood? 1932 3. R. Rossellini, Roma città aperta, 1945 R. Montgomery, Una donna nel lago, 1947 H. Hawks, The Big Sleep, 1946 4. L. Visconti, Bellissima, 1951 A. Hitchcock, La finestra sul cortile, 1954 Bergman, Il settimo sigillo, 1957 5. F. Fellini, 81/2, 1963 S. Kubrick, 2001 A Space Odyssey, 1968 6. F. Fellini, Amarcord, 1973 E. Kazan, The last Tycoon, 1975 7. J.-L. Godard, Passion, 1982 W. Wenders, The state of things, 1982 8. P. Weir, The Truman show, 1998 T. Malik, The thin red line, 1998 9. P. Sorrentino, Il Divo, 2008 N. Moretti, Il caimano, 2006 10. N. Moretti, Habemus Papam, 2011 T. Malick, The Tree of Life, 2011 2  Si sia in grado di gestire questa complessità (limiti e potenzialità): Platone fu il primo a condannare l’immagine, quale rappresentazione fallace della realtà. Questa concezione ha caratterizzato per secoli il pen- siero europeo. Tuttavia, il linguaggio visivo, come tutti gli strumenti, può offrire il meglio o il peggio, secon- do il suo utilizzo e secondo quanto lo si conosce. Se è vero che siamo sottoposti a una quantità enorme di immagini, lo è altrettanto che ne produciamo a parimenti. È quindi così che abbiamo una responsabilità come spettatori, ma anche come produttori. Per questo, Gran Breta- gna, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Norvegia e Svezia hanno incluso nei piani di insegnamento umanistici ed edu- cazione civica una didattica relativa alla cultura dei media e dedicata all’alfabetizzazione iconica. I primi ad introdurre il termine cultura visuale furono Bela Balász (intellettuale, critico letterario ed autore di Uo- mo visibile), Lazlov Moholy-Nagy (artista che ha condotto numerose ricerche sulle forme espressive delle immagini di- gitali) e Jean Epstein (studioso di cinema che ha intuito e scoperto le peculiarità espressive molto in anticipo rispetto ad altri). Durante gli anni ’90, si parla poi di iconic turn, ossia avviene una svolta iconica nell’ambito degli studi, sotto una prospettiva interdisciplinare, transdisciplinare. Qualche domanda a cui risponderemo:  Perché si dice che oggi apprendiamo attraverso le immagini?  Come ci influenzano le immagini?  Come un autore gestisce l’attenzione, la percezio- ne, le emozioni ed il pensiero dello spettatore?  Quali processi di pensiero attiva l’accostamento delle immagini, ossia il montaggio? (montaggio intellettuale)  Perché un autore sceglie di rappresentare un dia- logo attraverso inquadrature d’insieme oppure primi piani? Martedì 6 febbraio Wim Wenders, L’immagine e il mondo « Il mondo esiste sette miliardi di volte negli occhi di ogni persona vivente. È un puzzle perennemente composto, scom- posto e ricomposto simultaneamente e di continuo da sette miliardi di sguardi. Il mondo è costantemente frazionato in miliardi di visioni. Ogni essere umano è un punto di vista ambulante, unico, solitario e connesso col tutto. Ogni singolo elemento dello spettro del mondo, tu, proprio ora, io, proprio ora Noi tutti i nostri sguardi e il mondo interiore da cui sorgono e il mondo là fuori … Immagina la somma di tutto ciò, questo gigantesco caleidoscopio dell’intera nostra percezione e consapevolezza umana! Sette miliardi di paia di occhi e altrettante coscienze dietro! Che cos’altro dovremmo chiamare “mondo”? » Questa suggestione è efficace nella metafora del caleidoscopio: il mondo costantemente e simultaneamente com- posto e ricomposto in milioni e milioni di immagini ogni giorno. L’immagine dell’immagine. Wenders, Salgado:  Il meta-punto di vista, la “libertà-responsabilità” dello spettatore  Il diritto e il dovere di vedere « Nessuno ha il diritto di mettersi al riparo dal tempo e dal mondo che vive, perché siamo tutti responsabili, ormai, di ciò che accade intorno a noi. » S. Salgado. In una società come la nostra, in cui si è creata una rete inedita di legami, nessuno può dirsi fuori da questo si- stema-mondo, da questa società-mondo. Proprio per questo, quindi, non abbiamo il diritto di non occuparci di ciò che accade all’interno di essa e della direzione che ha intrapreso, in quanto i legami che intratteniamo con essa ci rendono inevitabilmente responsabili. Tutto ciò che compiamo assume oggi un rilievo e delle conse- guenze a cui ancora non siamo abituati a pensare, ma che si verificano con un raggio d’azione molto ampio. 5 L’individuo non soltanto subisce l’influenza “del sistema”, ma concorre con la sua azione quotidiana a modificare la cultura e la società. Per esempio, la Guerra Fredda e la tragedia della bomba atomica hanno influenzato infinitamente la cultura e il sapere, trasformandole profondamente. È proprio l’influenza reciproca che fa sì che ci siano tradizione e innovamento all’interno di una stessa società, capaci di produrre cambiamenti, vivere fasi di stasi, accelerazioni, etc. Tuttavia, c’è un margine all’interno del quale è possibile muoversi all’interno di una stessa società; le stesse idee in cui crediamo offrono molte possibilità, ma contemporaneamente vincolano e rendono ciechi davanti all’evidenza dei fatti (es. le limitazioni imposte dalle ideologie: in passato, gli intellettuali della sinistra europea non hanno voluto accet- tare l’esistenza dei gulag per molto tempo, in quanto luoghi che contraddicevano la loro ideologia.). Libertà e responsa- bilità sono quindi legate alla corrispondenza di questi elementi. Parlando di globalizzazione della cultura, occorre aggiungere che la essa riguarda anche il modo di pensare, di condividere principi ed idee (l’idea che il denaro si fondamentale; l’idea della carriera, del successo; l’idea dell’agio e del benessere, etc.). Lo spettatore medio L’influenza di cui parliamo è sorta innanzitutto dal fatto che il cinema in primis ha tentato di rivolgersi a uno spet- tatore medio, il prodotto di un mix di valori e principi occidentali largamente condivisi che il mondo del cinema ha studiato in modo da poter raggiungere il pubblico più ampio possibile. Lo “spettatore medio” varia perciò in base al background culturale e sociale, in base alle caratteristiche della determinata società. Poiché astrazione, il concetto di spettatore medio è culturalmente determinato, sorto intorno agli anni ’20 nella fa- se di occidentalizzazione delle altre culture del mondo. Con la nascita di Hollywood, nacque infatti l’industria cultu- rale 4 , termine chiave per capire tutti quei processi creati a metà tra cultura ed economia. Attraverso questa formulazione di “ingredienti del successo”, Hollywood è riuscita (e riesce tuttora) a creare film semplici da comprendere, fatti di trame lineari, che non andassero contro le norme sociali e culturali, con alla base un’idea semplice da sviluppare che raggiungesse qualsiasi grado di istruzione dello spettatore. Ha infine cercato di an- dare in contro al gusto e al modo di pensare dello spettatore medio. Riprendendo un’affermazione di Wenders, se guar- diamo alla produzione di Hollywood di film dagli anni ’20 a oggi, vediamo un unico, grande, immenso spot a favore della cultura occidentale, nella fattispecie statunitense, in cui principi, ideali, valori, etc. vengono sponsorizzati sot- tilmente, in maniera implicita. Tutt’oggi, su 10 film che un italiano vede, 8 sono statunitensi, 1 europeo ed 1 italiano. Nell’arco di un secolo, quindi, generazioni e generazioni nel mondo si sono susseguite sotto quest’influenza. « Ogni tecnologia costituisce un medium, ossia un mezzo, uno strumento, nel senso che è un’estensione e un potenziamento delle facoltà umane. In quanto tale, il medium genera un messaggio che retroagisce con i messaggi dei media già esistenti in un determinato momento storico, rendendo com- plesso l’ambiente sociale. È perciò necessario valutare l’impatto dei media nella prospettiva culturale e nei termini delle implicazioni sociologiche e psicologiche. » M. McLuhan 5 , “Gli strumenti del comunicare”, 1964. Conseguenze sociologiche (sulla società) Conseguenze psicologiche (sull’individuo) Le influenze prodotte dalla cultura dei media non sono mai da considerare a senso unico, l’influenza è reciproca. Dunque è vero che dobbiamo concentrarci sulla cultura dei media, ma bisogna considerare che c’è un anello ricorsivo tra tutti gli elementi. Un concetto chiave in questo discorso, per vedere quali sono le implicazioni a livello individuale e collettivo di questa cultura, riguarda la trasformazione dei due parametri spazio e tempo. « Nelle ere della meccanica 6 , avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale 7 . Dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio 4 L’espressione industria culturale è stata coniata da due filosofi tedeschi, Horkheimer e Adorno, che scrissero Dialettica dell’illuminismo, nel quale mettono in luce, attraverso la formulazione di un pensiero critico, gli aspetti critici e problematici della società. Attenzione, essi non parlarono di spettatore medio, ma, applicando il loro pensiero al concetto di industria culturale, in primis di Hollywood, si spiega come l’astrazione dell’uomo medio sia sorta da quest’esigenza duplice: di tipo economico, rivolgendomi al massimo numero di consumatori, di tipo culturale, data la natura del prodotto. 5 Marshall McLuhan è uno degli intellettuali che per primi si sono occupati della cultura dei media, negli anni ’60. 6 McLuhan si riferisce all’epoca in cui si hanno una serie di novità nelle tecnologie di tipo meccanico, specialmente nell’ambito dei trasporti (es. nascita del treno, del velocipede, dell’automobile, etc.). 6 globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. » Con questo McLuhan si riferisce al cinema e alla televisione, ma sono affermazioni che tuttora valgono per quanto concerne Internet. In che modo il cinema e la televisione aboliscono lo spazio e il tempo? Facendo riferimento al cinema hollywoodiano e alla sua influenza sullo spettatore medio, esso estende il proprio raggio d’azione al di fuori dei confini nazionali, includendo il pubblico mondiale. L’abbraccio globale si è quindi effet- tivamente realizzato, come testimonia il perdurare dell’attività di Hollywood da un secolo. Anche per quanto riguarda la dimensione temporale, essa è cambiata: al momento di uscita di un film, esso raggiunge in breve tempo, se non istanta- neamente, tutti i Paesi. Se applichiamo tutto ciò alla televisione, ecco che le considerazioni sono ancora più significati- ve. Un evento importante nell’ambito della geopolitica è un evento cui tutti simultaneamente possono assistere grazie alla “visione a distanza”. Si pensi al viaggio sulla Luna, alle cui trasmissioni televisive tutto il mondo ha assistito. Tempo e spazio sono perciò stati aboliti: in qualunque posto gli spettatori si trovassero, simultaneamente assisterono all’evento, creando quindi una comunità di spettatori a livello globale. Altro esempio è stato l’omicidio del presidente Kennedy, a Dallas negli anni ’60; anche in quell’occasione, la sua comunicazione all’opinione pubblica è avvenuta i- stantaneamente, rendendo tutto il mondo spettatore. In passato perciò, prima dell’avvento dei media, l’esperienza dello spazio e del tempo, così come la cognizione che si aveva di essi erano completamente diverse da quelle che abbiamo oggi. Parlando di villaggio globale, espressione coniata da McLuhan negli anni ’60, spesso siamo propensi a credere che il termine globalizzazione sia sorto in seno all’economia, quando i mercati, con la caduta del muro di Berlino, si unifica- rono dando luogo alla diffusione del liberismo e del liberalismo. In realtà, con queste riflessioni, McLuhan è stato il primo a parlarne descrivendo la cultura, la società e ogni singolo individuo nel modo di esperire, di concepire il tempo e lo spazio. Villaggio globale è un ossimoro: il primo termine si riferisce a fenomeni umani estremamente circoscritti nello spazio, di tipo locale, mentre il secondo riguarda l’intero pianeta. Con questo termine McLuhan vuole essere provocato- rio e sollecitare una riflessione: a livello mondiale si è determinata una comunità che ha caratteristiche simili alle comu- nità che c’erano nei piccoli villaggi, con la differenza che essa include oggi l’intera specie umana. Ciò ha potuto realiz- zarsi poiché la condivisione di fatti ed avvenimenti in tempo reale è simile, nelle sue dinamiche, a quella che avveniva nei piccoli villaggi in cui, quando accadeva qualcosa, tutti ne venivano a conoscenza attraverso il passaparola delle per- sone. La stessa dinamica di condivisione di eventi, ma anche di istanze, principi, valori, etc. tipici di una cultura, oggi avviene per l’intera specie umana. Lunedì 12 febbraio I mutamenti dovuti alla diffusione dei media 1. Mutamenti della percezione dello spazio e del tempo: la percezione dello spazio è notevolmente mutata, giacché possiamo osservare, attraverso i media, fenomeni che avvengono a migliaia di chilometri dal luogo in cui ci troviamo. Benjamin afferma che l’avvento della fotografia e del cinema ci fa entrare in una relazione con le cose che distrugge la distanza, basti pensare alla rappresentazione ravvicinata che la fotografia può offrire o all’uso scientifico del cinema nella rappresentazione del microscopico. Nel ’36 Benjamin parla anche di come il primo piano, la rappresentazione ravvicinata delle cose, degli enti della natura, dei volti delle persone, costituisca una sorta di violenza, un’incursione che rompe quella guaina che aveva circondato fino a quel momento le cose, tenendole a distanza. Questa guaina è definita da Benjamin aura, un alone che idealmente protegge le cose, ne determina la loro sacralità, unicità, identità, etc. 2. Oltre alla percezione cambia inoltre il tipo di esperienza che si ha delle cose: essa non include soltanto la per- cezione visiva, ma, al contrario, porta con sé numerosi altri elementi e il modo di sentire le cose. È così che l’inviolabilità, la sacralità delle cose di cui parla Benjamin viene meno nell’arco di poco tempo. 3. Mutamenti della cognizione di spazio e tempo: oggi tutto ci raggiunge dove siamo attraverso le immagini. Un tempo invece, l’immagine era qualcosa che osservava in un luogo deputato alla sua contemplazione. Per 7 Questi media, tipici dell’era meccanica, hanno ridotto le distanze, i tempi di spostamento nello spazio, hanno potenziato il corpo umano nella sua velocità. 7 esempio, per osservare la Gioconda bisognava trovarsi nel luogo in cui essa esposta. Oggi sono le immagini, i fenomeni che ci raggiungono. L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, W. Benjamin, 1936 Quando era l’osservatore a dover raggiungere i fenomeni o le immagini, le immagini erano dotate di quella guaina, di un’aura ed erano uniche e irripetibili. Ne conseguiva un rapporto auratico dello spettatore con l’opera e, inoltre, queste caratteristiche si legavano al concetto di hic et nunc. Il tipo di esperienza che ne sca- turiva era di tipo cultuale, ossia legata al senso di culto attribuito all’opera per la sua unicità e possedeva una sua carica emotiva, delle sue aspettative. Era un modo di fruire dell’immagine di tipo contemplativo. Oggi, con la riproducibilità tecnica non si parla più di valore cultuale, ma di valore espositivo: è importante che quello stesso film, fotografia, etc. siano fruibili al maggior numero di spettatori possibili. Martedì 13 e mercoledì 14 febbraio L’esperienza diretta riguarda fenomeni rispetto ai quali entriamo in relazione senza mediazioni, comportando l’impossibilità di ripetere una stessa esperienza più e più volte, come invece accade con l’immagine tecnologica. Il mu- tamento che interviene con l’esperienza immediata riguarda la dimensione del divenire di tutti i fenomeni e di tutte le cose, mutamento che invece, per ciò che concerne l’immagine tecnologicamente prodotta, non si può applicare: una vol- ta che un video è cristallizzato in quella forma, rimane immutabile e non è soggetto al divenire del tempo (cristallizza- zione del tempo, es. immortalare una fotografia). Tuttavia l’esperienza, diretta o mediata che sia, è sempre in divenire e cambia: posso vedere un film in un certo momento della vita e rivederlo dopo anni scoprendo in esso qualcosa di com- pletamente diverso, vivendo un’esperienza diversa. Quando siamo coinvolti nell’esperienza dell’immagine, siamo immersi in una dimensione altra che non è quella in cui è immerso concretamente il nostro corpo (dislocazione mente-corpo). È questa una delle questioni che più riguar- dano la nostra epoca. Il tempo passato davanti agli schermi si divide in due: il nostro corpo in un luogo e in un tempo, la testa in tutt’altra parte; siamo contemporaneamente presenti e assenti nell’una e nell’altra dimensione. L’accezione dell’hic et nunc è cambiata radicalmente, così come il concetto di “presenza”. Allo stesso modo, anche l’esperienza dell’immagine è molto meno intensa. Walter Benjamin, che già nel ’36 scriveva sulla perdita dell’esperienza diretta, notava che una delle conseguenze principali del venir meno dell’hic et nunc riguarda una percezione dell’immagine nella distrazione. Prendendo ad e- sempio l’opera della Gioconda, un tempo si verificava una forma di percezione visiva che imponeva in primis di essere fisicamente davanti all’opera, secondariamente uno spirito di osservazione particolarmente attento ed intenso, una capa- cità di contemplazione che oggi è invece perduta. Se si pensa oggi al tempo trascorso nell’osservazione di un quadro all’interno di un museo, si entra nell’ordine dei secondi. Questa percezione della distrazione è conseguenza principal- mente del cinema, che ci ha abituato allo scorrere veloce delle scene. Inoltre, è chiaro che nel corso degli anni il ritmo del susseguirsi delle scene è notevolmente aumentato, tant’è che vedere un film del passato è per noi oggi faticoso nella sua lentezza. Da qui, il conseguente pensiero di dire “ciò che non è della nostra epoca, è brutto” perché “ancora non e- rano arrivati dove siamo noi oggi”. Questo giudizio negativo ci classifica come consumatori prima ancora che spettato- ri. Nel corso del tempo abbiamo acquisito un’esperienza del tempo dell’immagine che ha subito numerose trasforma- zioni sotto vari profili (es. perdita dell’intensità della contemplazione, ma velocizzazione della capacità di interpreta- zione delle immagini). Tale processo è iniziato all’inizio degli anni ’80, con la diffusione di massa del telecomando. Quando facciamo zapping, nell’arco di pochi secondi, abbiamo acquisito la capacità di capire di quale tipo di immagine, di format, di film, etc. si tratta. In quei pochi secondi subentra inoltre la consapevolezza del piacere estetico, che ci fa continuare a vedere un programma o a cambiare canale. È quindi percezione nella distrazione, ma anche una capacità interpretativa che richiede delle competenze sull’immagine che prima dell’avvento della cultura visuale sarebbero state impensabili. Lo spirito del tempo e dello spazio, Edgar Morin, Lo spirito del tempo, 1962  La cultura dei meda introduce un’esperienza indiretta e condivisa del mondo;  Inedito rapporto con lo spazio e con il tempo (Qui/Altrove; Io/Altro). Immaginario e concreto. (Hic et nunc interiore. “Aura”, Benjamin) Le categorie qui e altrove sono messe in discussione, ridisegnate dalla dislocazione mente-corpo. L’esperienza mediata si avvale di una facoltà mentale: l’immaginario, utilizzato per proiettarsi, immergersi in quell’altrove. 10 impressione, quindi soprattutto ciò che è negativo. Ciò che è positivo non sempre suscita un’emozione tanto forte quanto un evento negativo. Ciò vale in ambito informativo, ma è lo stesso per quanto riguarda anche altri format (es. film, serie tv, fiction, etc.);  Interprete: struttura la conoscenza, organizza il sapere e il pensiero. Oltre alla selezione dei sapere, i media li organizzano in base ad alcuni principi (semplificazione, manicheizzazione, modernizzazione, attualizzazio- ne) (Morin). In ambito giornalistico, il notiziario ha una sua struttura. L’esposizione dei contenuti segue un ordine gerarchi- co, mira a strutturare la conoscenza e ad esporre un sistema di valori. Perciò, generazioni di pubblico che frui- scono delle informazioni in queste modalità si abituano ad esse facendo proprie quelle gerarchie di valori. Si dà per scontato, si considera naturale ciò che invece è un dato culturale. Quest’equazione implicita impedisce di sviluppare consapevolezza, autonomia di pensiero, indipendenza nel dare giudizio di valore alle cose. Diffi- cilmente lo spettatore riflette ed ha uno sguardo critico sui contenuti e sulle modalità con cui gli vengono sot- toposti. Specialmente nell’ambito delle fiction, la conoscenza viene strutturata selezionando e lavorando su determinati contenuti (in primis eros e thanatos). o Semplificazione: i concetti vengono semplificati in maniera che possano raggiungere il maggior pub- blico possibile. o Manicheizzazione: procedura utilizzata specialmente nelle fiction, operando una distinzione netta tra bene e male. o Modernizzazione11: tutto ciò che non riguarda il presente perde di interesse, come sottolineava Morin affermando che siamo inseriti in istanti presenti distaccati da passato e futuro. Es. nei film ambientati in epoche storiche passate, si commette l’errore di applicare alla società rap- presentata dei valori che all’epoca non erano condiviso, ma che sono facilmente comprensibili per noi oggi. o Attualizzazione: istant film/book12 creati nel tentativo di sfruttare l’attenzione su un particolare even- to. È importante entrare nell’ambito dell’attualità. Tali caratteristiche sono funzionali all’industria, costituiscono procedure alle quali sono sottese delle logiche di mercato. Da qui, derivano contenuti organizzati in modo specifico, ma che sono contenuti culturali e, in quanto tali, or- ganizzano il modo di pensare che sarà, perciò, più propenso alla semplificazione. Per esempio, nel ‘700, chi aveva rag- giunto un certo grado di cultura, non era propenso alla semplificazione, alla manicheizzazione … Con la diffusione dei media, le élite culturali guardavano con un certo disprezzo ai media. Ancora fino agli anni ’70 de ‘900, l’élite culturale giudicava la cultura dei media quale inferiore e degradata. È stato un pregiudizio duro da sradicare, tanto che ancora oggi persiste. Tuttavia, se siamo consapevoli che nei media cultura e industria sono collegate e spesso si confondono, allora sa- premo distinguere i procedimenti attraverso i quali tale tipo di cultura incentrata sulle regole di mercato funziona. Media, cultura e noosfera I Come l’atmosfera contiene gas di diverso tipo, tra cui anche inquinanti, ma ci nutre e di essa viviamo, allo stesso modo siamo inseriti in una noosfera, una sfera d’idee e di modelli, che non sempre sono giusti. Quanto siamo consape- voli dei contenuti che le immagini veicolano? I media ci propongono dei modelli di civiltà e cultura, ideali cui tendere, in una proposta che si presenta come pre- confezionata e immutabile, come fosse un dato di fatto. Allo stesso modo, nell’ambito dell’intrattenimento non è effica- ce soltanto la struttura nel veicolare determinati contenuti, ma la forma affascinante in cui essi sono proposti. Modelli di civiltà e cultura, che circolano nell’ambito dell’informazione e in quello dell’intrattenimento, sono proposti (non impo- sti) come “normali” e/o “ideali” e posseggono risvolti problematici:  Semplificazione dei concetti, al fine di raggiungere il maggior numero di spettatori possibili; 11 Modum = adesso, ora 12 L’instant film/book viene infatti creato in grande rapidità, caratteristica che non ne garantisce particolare qualità. 11  Manicheizzazione, operando distinzioni nette tra bene e male, specie per quanto riguarda l’ambito della fiction (i protagonisti sono i buoni, gli antagonisti i cattivi, etc.);  Modernizzazione: tutto ciò che non riguarda il presente non è interessante. Media, cultura e noosfera II  Presente (moderno, attualità, di moda, trend, ecc.);  Democrazia, laicità, realismo, tecnica, scienza, economia, materialismo, individualismo: elementi fonda- mentali e normali su cui si fonda la nostra società; fattori su cui si fonda il paradigma della società occidentale, considerati tutti ugualmente elementi indice della modernità, valori. Potere normativo: ciò che noi consideriamo normale diventa la norma a cui attenersi, ha un valore di tipo normativo, detta la regola. Tale normatività ha dei risvolti problematici impliciti in quanto impedisce che ven- ga messo in discussione anche solo uno degli elementi sopracitati.  Ideologia e mitologia della felicità: valori (salute, gioventù, ricchezza, potere, integrazione sociale) e loro cri- si;  Cultura del loisir: evasione, spettacolo; reale e immaginario. Lo svago di per sé è diventato un elemento chiave della nostra società, differentemente da quanto era in passato;  Eros e thanatos (sensazionalismo, spettacolarizzazione, shock, ampliamento sfera del visibile e dicibile): ci vengono presentati in forme sensazionalistiche e spettacolari, diventando per lo spettatore oggetto di intrat- tenimento;  Modello WASP e sua evoluzione: modelli che determinano un’adesione acritica ad essi e soprattutto ai giudizi di valore sui fattori che sono parte di questi modelli. Il modello WASP è il corrispettivo visivo di democrazia, economia e realismo, cui corrispondono una serie di principi, valori, idee della cultura dominante (quella americana). Martedì 20 febbraio 2018 Il modello WASP Il modello WASP rispecchia la cultura dominante, occidentalo-centrica. Ci riferiamo quindi all’influenza dell’Europa e degli Stati Uniti sulla cultura dei media. La dominanza dal punto di vista produttivo nei media è soprattut- to statunitense, in cui la cultura dominante corrisponde al modello WASP (bianco, anglosassone e protestante) e ad altre questioni correlate (democrazia, laicità, realismo, tecno scienza, economia, materialismo, individualismo). Il modello WASP si potrebbe definire quale la concretizzazione di tutta questa serie di questioni e implicazioni della cultura domi- nante, che oggi si espande in tutto il mondo. La tanto discussa globalizzazione è in primis un’occidentalizzazione del mondo che ha trovato storicamente nei media il proprio veicolo, grazie alla pervasività di azione che li caratterizza. I media costituiscono un fattore primario della globalizzazione ma, prima ancora, nel secolo scorso, la globalizzazione nasce come occidentalizzazione. Globalizzazione ≠ occidentalizzazione Globalizzazione Processo culturale che si colloca verso la fine del ‘900, conseguenza della globalizzazione economica che prende avvio con la caduta del muro di Berlino e con l’unificazione dei mercati. I sincretismi culturali si fanno via via più rilevanti e frequenti, per quanto restino tutt’oggi residuali. Occidentalizzazione Esportazione, diffusione di una cultura occidentale nel mondo che storicamente coincide con l’avvento della mo- dernità (fine del ‘400, inizio del ‘500), epoca in cui hanno inizio l’espansionismo europeo, i processi di colonizza- zione, etc. Il processo vive un’intensissima accelerazione con l’avvento e lo sviluppo dei media (cinema, televisio- ne). Con la diffusione della cultura occidentale, il processo di occidentalizzazione si trasforma anche grazie all’influenza di altre culture, ossia si determinano i sincretismi culturali. Tanto più si parla di sincretismi, tanto più si scivola dall’occidentalizzazione alla globalizzazione. Tuttavia, la globalizzazione è ancora l’esportazione del modello culturale occidentale in quanto l’apporto delle altre culture è ancora residuale. 12 Il modello WASP è l’espressione concreta, la manifestazione visibile di tutti i principi, i valori e gli ideali detti in precedenza. La predominanza, sia nell’ambito dell’informazione sia nell’intrattenimento, di personaggi che appartengo- no al modello è evidente nella scena mediatica mondiale. Certamente, c’è stata una trasformazione storica del modello, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60 quando ai protagonisti della scena mediatica hanno iniziato ad affiancarsi altri che non gli appartenevano. Questa trasformazione storica interviene senz’altro anche sull’onda delle rivolte giova- nili e di tutta una serie di affermazioni in direzione di una maggiore uguaglianza, emancipazione femminile, etc. Viene messo in crisi, sebbene debolmente, il modello WASP. Tuttavia, questa dimensione molto concreta dei protagonisti, che incarnano nel loro modo di essere, di agire, di parlare il modello WASP, è molto importante, se si pensa che la cultura dei media è incentrata sulle immagini. Principi, valori e ideali, che inizialmente ci appaiono astratti, trovano una loro manifestazione visiva attraverso l’incarnazione dei personaggi. La violenza simbolica Il concetto di “violenza simbolica” è stato introdotto dallo studioso Pierre Bourdieu, nel suo libro Meditazioni pa- scaliane. Si potrebbe definire quale una forma di violenza che si esercita attraverso l’imposizione o più spesso la propo- sta di categorie cognitive, paradigmi culturali, principi, ideali, etc. Secondo l’accezione di Bourdieu, il modello WASP, apparentemente innocuo, in realtà può essere considerato uno dei fattori attraverso i quali si esercita la violenza simbolica. Esso costituisce infatti una proposta di personaggi delatori di quei valori. Occorre specificare che non è atto a far propaganda della cultura occidentale, tuttavia chi detiene il potere produttivo nell’ambito dell’industria culturale, è occidentale e quindi propenso a vedere la realtà dal suo punto di vista (prassi spontanea). Star system: sistema creato negli anni ’20 secondo determinate strategie di marketing a Hollywood per soddisfare le e- sigenze produttive ed economiche, in modo da costruire dei personaggi capaci di incarnare certe qualità e, quindi, di piacere allo spettatore medio. L’astrazione legata allo spettatore medio rappresenta un arbitrio culturale: qualcuno, in un determinato momento storico e con un determinato background decide chi è e com’è lo spettatore medio. A partire da ciò, crea un universo di valori, principi e ideali affascinante e attraente tanto da permettere al modello si espandersi all’inverosimile. La violen- za simbolica viene quindi esercitata senza che chi la subisce se ne accorga. Concetto di Habitus Marcel Mauss, uno dei padri fondatori dell’antropologia, nel saggio Le tecniche del corpo, formula il concetto di habitus riguardo i comportamenti, gli atteggiamenti, le pratiche sociali “che indossiamo”. Essi non sono null’altro che la manifestazione visibile di un modo di pensare, di una cultura. Tali pratiche sociali sono ormai simili in tutto il mondo: la globalizzazione si manifesta concretamente come habitus. Certi comportamenti che attuiamo sono culturalmente ap- presi, non innati o naturali, e oggi il loro apprendimento avviene in primis attraverso l’esposizione alle immagini. Nel suo saggio, Mauss racconta che, durante la fine della Prima guerra mondiale, si trovava in un ospedale e, guardando le infermiere, si rese conto che il loro modo di camminare apparteneva al cinema. Nacque così l’idea di “tecnica del corpo” (, modi di agire, atteggiamenti, etc. socialmente appresi). I modelli di comportamento nel loro in- sieme determinano l’habitus sociale che si diffonde con la globalizzazione in tutto il mondo. Avviene un’introiezione: ciascuno assorbe in sé i modi di comportamento e si conforma alla società. È importante sottolineare che ciò che appa- rentemente ci sembra riguardare soltanto la superficie di noi stessi, il nostro corpo, ha in realtà delle implicazioni più profonde, che riguardano la diffusione di un modello culturale. Non imitiamo soltanto l’aspetto esteriore, ma aderiamo ad un determinato modello culturale e a tutte le istanze che ivi soggiacciono. Questa diffusione dell’habitus occidentale attraverso il processo di occidentalizzazione del mondo è stato del tutto evidente, sebbene lo diamo oggi per scontato (mutamento antropologico). Si è determinato un conformismo di tipo globale. L’habitus è uno degli strumenti attraverso cui si esplica la violenza simbolica. Non è un fattore che possiamo con- siderare come secondario. La vecchia cultura non aveva ancora a che fare con i media e con l’importanza delle immagi- ni. È straordinario che Mauss se ne accorga già alla fine degli anni ’10. 15 visuale. Negli studi di Rudolf Arnheim, per esempio, si afferma il concetto di pensiero visivo: non esiste percezione senza pensiero; ogni atto percettivo è un atto di pensiero. La percezione è un atto di apprendimento. Ed è infatti a partire dal ‘900 che si inizia a concepire la conoscenza non soltanto come un processo derivante dal pensiero logico, ra- zionale ed empirico. Ancora oggi siamo abituati a concepire l’apprendimento quale un atto razionale e consapevole, secondo una con- cezione tradizionale profondamente radicata in noi fin dall’età scolare. Tale concezione riguarda la storia del pensiero occidentale ed è tuttora diffusa nel senso comune, tuttavia risulta ormai superata in quanto la conoscenza è stata indaga- ta anche secondo un’altra forma di pensiero: quello simbolico, analogico e mitologico. In questo senso, molto ha fatto la filosofia del ‘900:  Fenomenologia: Husserl, Merleau-Ponty, etc. hanno indagato il corpo dal punto di vista epistemico;  Esistenzialismo: Immagine e coscienza di Jean-Paul Sartre;  Ricœur e lo sviluppo dell’ermeneutica. Molto è stato detto anche dalle neuroscienze, per esempio, Antonio Damasio è un neuro scienziato che ha offerto contributi fondamentali. Il nostro cervello è diviso in due emisferi (destro e sinistro) caratterizzati da processi tanto di- versi da renderli opposti e, proprio in ragione di questo, complementari. Semplificando, all’emisfero sinistro corrispon- de il pensiero logico, razionale ed empirico; all’emisfero destro corrisponde invece il pensiero analogico, simbolico e mitologico. In questo senso, la conoscenza attuata dal pensiero logico viene definita come spiegazione. Comprensione Concreto Analogico Acquisizioni globali Predominanza della congiunzione Proiezioni Implicazioni del soggetto Primo impiego della soggettività La conoscenza che deriva dal pensiero analogico viene definita comprensione e riguarda la sfera del simbolico. Il linguaggio simbolico e linguaggio mitologico vengono impie- gati nella dimensione estetica, nelle arti in passato e oggi nella cultura visuale in cui non abbiamo a che fare con l’arte, ma in cui permane la dimensione estetica. La comprensione, quindi, è la forma di conoscenza opposta e quindi complementare alla spiegazione. Ha a che fare con ciò che è concreto e si fonda sulla percezione, ossia l’esperienza percet- tiva e sensoriale mette in moto una catena di processi conosciti- vi. Nel compiere l’esperienza, siamo propensi a mettere in moto un processo dominato dall’analogia, che è chiamata in causa in mol- ti modi, ma principalmente consiste nel tentativo di rapportare i dati dell’esperienza presente a quelli di esperienze analoghe già vissute in passato. Ciò avviene in un’operazione di cui non siamo consapevoli, ma che è fondamentale perché la conoscenza venga attuata come comprensione. Attraverso questo confronto, cercan- do nelle esperienze passate delle similarità, le acquisizioni che sono proprie della comprensione sono globali e non analitiche questo perché riceviamo diversi stimoli (visivi, uditivi, olfattivi, etc.), ma siamo portati non a distinguerli mentre facciamo un’esperienza, piuttosto li fondiamo insieme. La loro somma, la loro indistinzione ci dà l’esperienza complessiva. Spiegazione Astratto Logico Acquisizioni analitiche Predominanza della disgiunzione Dimostrazioni Oggettività De-soggettivazione Nell’ambito della spiegazione troviamo un pen- siero di tipo astratto, che opera e si rapporta ai contenuti in modo astratto (speculazione filosofi- ca, teorizzazione anche in ambito scientifico). Na- turalmente, è una forma di conoscenza fondata su una logica. Ci sono voluti alcuni secoli per svi- luppare tale tipo di pensiero (logica aristotelica, formazione del metodo scientifico nel ‘600, etc.) fino a che la logica è diventata una disciplina filo- sofica che molto ha a che fare con le strutture fondamentali del pensiero scientifico. Acquisizione analitiche: è un tipo di pensiero che procede sezionando, analizzando e creando delle categorizzazioni che, fin dai principi del pensiero occidentale sono state operate (si pensi alle categorie di Aristotele). Le categorie servono a creare delle distinzioni e, in quanto tali, operano sulla disgiunzione. È un tipo di conoscenza che si fonda sulla dimostrazione (soprattutto in ambito scientifico). Nell’ambito della conoscenza derivata dal pensiero logico, si è optato per la ricerca dell’oggettività, quindi conseguentemente cercan- do di escludere da ogni processo conoscitivo 16 Merleau-Ponty, a proposito della comprensione, afferma inoltre che è proprio dell’arte – e più in generale dell’estetica – il mostrare come, attraverso la disposizione nello spazio e nel tempo di elementi diversi, sorga il senso. Vale a dire che, nell’ambito di un film, viviamo un’esperienza percettiva, emotiva e anche del pensiero (episte- mica) durante la quale siamo sollecitati da una massa di stimoli visivi e uditivi che ci investono (forme, colori, ritmi, etc.). Tutto questo può avere un significato se viene disposto certi criteri da un autore in modo che la comprensione sia opportunamente sollecitata. Altrimenti, aggiunge Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario), il cinema sarebbe un flusso confuso di stimoli, forme e colori privi di significato. Il processo di identificazione Mentre il pensiero logico, razionale ed empirico si fonda sulle dimostrazioni, il pensiero analogico, simbolico e mitologico si fonda sul complesso composto da proiezioni e identificazioni, due processi che chiamano in causa i neu- roni specchio, la simulazione incarnata, etc. e non tanto il mimetismo sociale quanto piuttosto quello che è stato definito pensiero mimetico, una forma di pensiero e di apprendimento. Attraverso il processo di identificazione, la mia identità e l’identità di un altro entrano in uno scambio ormai defi- nito dalla psicoanalisi come transfert. È un processo che non può prescindere dalla soggettività perché il processo di chi comprende fa sì che, nel rapportarsi ad un altro soggetto, si possano condividere con esso tutta una serie di elementi che hanno a che fare dal livello esteriore e che fanno parte dell’acquisizione globale (tra cui il movimento, di cui oggi si occupano le neuroscienze), acquisizione che fa sì che la condivisione tra chi comprende e chi è compreso riguardi più in generale l’identità, quindi per esempio l’habitus, il modo di comportarsi e di pensare, insomma tutto ciò che ha una va- lenza sociale. Questo era già stato intuito da Ejzenštejn negli anni ’20, quando aveva applicato al cinema un paradosso affermando che “al cinema lo spettatore non piange perché è triste, ma è triste perché piange”, sulla scia della cor- rente americana del Comportamentismo. Imitando lo stato emotivo che vede nel corpo di un personaggio, attraverso i sistemi mirror, lo spettatore incarna e introietta quel pianto, sviluppando in un secondo momento il sentimento della tri- stezza; ossia l’atto di piangere avviene prima dell’atto di diventare triste. A questo proposito, già negli anni ‘50 del ‘900, sono stati fatti degli esperimenti. A Parigi venne mostrato a dei bambini un cartoon che aveva per oggetto la fiaba di Pinocchio. Premettendo che nei bambini i processi mimetici, la simulazione incarnata, etc. hanno una maggiore evi- denza, venne osservato come i bambini, mentre Pinocchio veniva inghiottito dalla balena, riproducevano il movimento della bocca della balena. Con questo è stato provato che i bambini non solo si identificavano con Pinocchio, ma anche con la balena. Risulta questo interessante nella misura in cui rivela come il processo di identificazione viene messo in atto non soltanto verso i personaggi rispetto ai quali ci riconosciamo in maniera consapevole (protagonisti ed eroi), ma Il filosofo Merleau-Ponty, uno dei principali esponenti della Fe- nomenologia, riflettendo sull’esperienza dello spettatore cinema- tografico, affermava a tal proposito che facendo esperienza di un film siamo raggiunti da una serie di stimoli percettivi diversi (vi- sivi e uditivi) che tuttavia non disgiungiamo. Ciò che ricaviamo è invece un’“impressione” globale. Soltanto a posteriori, quando analizziamo le acquisizioni, arriviamo a comprenderne i diversi fattori presenti nel film. Per questa ragione, nella comprensione domina la congiunzione: mettiamo insieme stimoli percettivi dif- ferenti e, anche davanti a una stessa scena, ricaviamo una serie di informazioni e significati, un senso e dei contenuti. Tutto ciò, tut- tavia, non lo ricaviamo operando delle categorie, ma lo acquisia- mo in modo globale e complessivo. Il problema dello spettatore è la non-consapevolezza di tutte queste procedure proprie della comprensione. La ragione princi- pale per cui nella storia del pensiero occidentale la comprensione non è stata indagata a fondo dipende proprio da questa non- consapevolezza. Soltanto verso la fine del ‘900, grazie agli studi che sono stati fatti, questa dimensione assume un’importanza maggiore e vengono date delle risposte al perché dinnanzi a de- terminate immagini reagiamo in un determinato modo. l’oggettività di chi conosce. Il problema, nel corso dei secoli, è stato quindi quello dell’oggettività e della de-soggettivazione, ossia di togliere la sog- gettività. È poi intervenuta, verso la fine del ‘900, anche in ambito scientifico, la consapevolezza che la soggettività dello scienziato influisce in parte sul processo. Tra i molti scienziati che han- no dato un grande contributo per mettere in di- scussione l’oggettività delle scienze c’è stato Heinz Von Foerster. 17 anche nei confronti degli antagonisti. Inoltre, tali processi non investono soltanto gli esseri umani, ma con tutto ciò che vene percepito come soggetto (es. la balena), in particolare tutto ciò che è vivente, naturale, etc. L’identificazione può poi investire più soggetti contemporaneamente anche se, chiaramente, è più semplice capire l’identificazione concen- trandosi sui protagonisti. Quando l’identificazione investe i protagonisti, si parla di identificazione primaria ed è un tipo di identificazione di cui siamo abbastanza consapevoli. Esistono poi delle identificazioni laterali o secondarie, che investono tutti gli altri personaggi (umani o non) che sono da noi percepiti come soggetti e persino gli antagonisti. L’identificazione, quindi, può anche svolgere il ruolo di dar sfogo, in una dimensione indipendente dal mondo reale, ai nostri impulsi so- cialmente inaccettabili. Entra qui in gioco il processo della proiezione. Il processo di proiezione È un processo tramite il quale gli spettatori attribuiscono ai personaggi un contenuto della propria interiorità. Se con l’identificazione lo spettatore assume il contenuto interiore dei personaggi (sensazioni, emozioni, pensieri, etc.), at- traverso il processo inverso attribuiamo a un personaggio emozioni, sensazioni, etc. che derivano dalla nostra identità e soggettività. Tale processo di proiezione si lega soprattutto allo sfogo delle pulsioni socialmente inaccettabili, che non troverebbero nella vita quotidiana un’espressione che invece può essere realizzata in una dimensione immaginaria attra- verso le immagini. Per esempio, la balena è un soggetto in cui alcuni bambini si sono identificati proiettando in quel modo la loro aggressività. Ciò vale a maggior ragione quando ci troviamo davanti alla rappresentazione di eros e thana- tos. Tuttavia, qui entrano in causa delle implicazioni problematiche del transfert che viene attivato. Infatti, restando nell’ambito infantile e adolescenziale, il più soggetto all’influenza dell’immagine, la rappresentazione della violenza può determinare quello sfogo di aggressività, che però non resta circoscritto alla durata della visione delle immagini, ma si protrae oltre in quanto in tale fascia d’età non è ancora fortemente determinato il principio di realtà, ossia la netta di- stinzione tra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Un primo sintomo del perdurare del transfert anche dopo la visione di un film è, per esempio, la richiesta di rivedere il film, elemento sintomatico della difficoltà del bambino nel ritornare alla realtà. Talvolta questa difficoltà può far sì che emozioni e sentimenti vissuti durante l’esperienza estetica si pro- traggano nell’esperienza quotidiana e, in questo caso, il transfert protratto dà origine all’effetto di suggestione, ossia la tendenza a rimanere suggestionati, a restare dentro quella dimensione immaginaria, con tutto il suo portato di emozioni e sentimenti che sono portatori anche di comportamenti. La casistica di adolescenti che hanno compiuto atti aggressivi a causa di questo processo è molto ampia. In sintesi, l’effetto di suggestione è più legato ad un’identificazione che si protrae nel tempo ed è più probabile che riguardi quella fascia di pubblico più “debole” che non ha ancora sviluppato una forte struttura della soggettività, che non ha ancora determinato in maniera forte il principio di realtà e che, anche per questo, è più soggetta al pensiero mi- metico e ai fenomeni di mimesi sociale. La catarsi La catarsi è un effetto di cui aveva parlato già Aristotele nella sua poetica. È l’effetto opposto rispetto alla sugge- stione, in quanto permette di liberarsi di impulsi socialmente inaccettabili lasciandoli confinati nella sfera dell’immaginario e non dando loro sfogo nella vita quotidiana. Questo effetto si esplica soprattutto in virtù del processo di proiezione. Prendendo ad esempio il test proiettivo di Rorschach, se il nostro cervello possedesse soltanto il pensie- ro logico, razionale ed empirico, nelle macchie non vedremmo altro che macchie. Invece, si proietta in essere il conte- nuto della propria identità, soggettività, storia personale e in questo modo, ciascuno vede in esse qualcosa di diverso, attribuisce loro elementi che non sono evidentemente delle macchie, ma suoi. Cesare Musatti, padre della psicoanalisi italiana, affermava che ogni film è un test proiettivo. Ce ne accorgiamo quando vediamo un personaggio che compie un’azione di cui non sappiamo comprendere il significato. Nel momento in cui si mette in modo il tentativo di comprensione, molto spesso si attribuiscono al personaggio elementi propri che non hanno gli appartengono. Il processo della proiezione è molto importante in quanto rende lo spettatore attivo e, non a ca- so, viene molto utilizzato dai grandi autori. Infatti, uno dei modi attraverso i quali l’autore richiede allo spettatore di fa- re uno sforzo ulteriore al fine della comprensione consiste nel sollecitare la sua proiezione, per poi iniziare a costruire un processo sempre più complesso di pensiero. 20 La focalizzazione è per il momento interamente incentrata sul protagonista: quello che sappiamo è esattamente ciò che sta scoprendo lui. L’identità degli altri personaggi viene manifestata sia attraverso le forme visive, sia verbali: noi sappiamo molto di questa ragazza a partire da ciò che ci racconta il padre. Questo tipo di presentazione delle identità è piuttosto canonico nel cinema: attraverso una serie di battute ci viene descritta la storia precedente, le identità dei perso- naggi e le relazioni che si stanno instaurando tra essi, sempre tutto focalizzato sul protagonista. Martedì 27 febbraio Nel cinema di largo consumo e specialmente nel cinema hollywoodiano classico, è tipica la capacità di intrattenere lo spettatore senza impegnarlo oltremodo, di renderlo partecipe facendolo sentire a suo agio. Le qualità del personaggio talvolta destano l’ammirazione dello spettatore, che vorrebbe essere anch’esso arguto come si mostra Bogart nel Gran- de Sonno. Dunque, la partecipazione che viene richiesta è un’adesione al personaggio che renda intensi i processi di i- dentificazione, mentre i processi di proiezione sono lasciati in secondo piano. L’identificazione sollecitata nel cinema di largo consumo è stata definita in ambito della psicoanalisi del cinema “identificazione di consolazione”: lo spettatore si consola dei propri limiti nei confronti della vita e della società identi- ficandosi in personaggi che mostrano altre caratteristiche e che propongono le loro debolezze con un certo distacco, con un’ironia che mette a proprio agio lo spettatore. In realtà, quello di Humprey Bogart è un caso particolare in quanto è il primo caso di un divo che mette appositamente in rappresentazione i propri difetti dal punto di vista fisico. Più in gene- rale, ciò non era mai accaduto e non avverrà fino agli anni ’60. Questa attenzione per la “parte ombra” dell’essere umano si acuisce a partire dagli anni ’60, non tanto nel con- testo statunitense quanto in quello europeo. Nel cinema d’autore europeo, infatti, si apre una grande stagione di produ- zione artistica assai rilevante. L’inizio degli anni ’60 è un periodo particolarmente corto. I grandi autori del cinema eu- ropeo sono Fellini, Visconti, Pasolini, Bergman, Buñuel, Truffaut, Godart e molti altri della Nouvelle Vague. È un mo- mento molto importante: tali autori e molti altri introducono delle grandi novità, destinate a trasformare la storia del ci- nema e della cultura visuale più in generale. Avviene una vera e propria svolta nell’esplorazione della soggettività. 8 1/2 , Federico Fellini, 1963 Se prendiamo il film 8 1/2 di Fellini, ci troviamo davanti ad un’opera che fa dell’esplorazione della soggettività il suo perno. L’opera è del ’63, Fellini si è già fatto notare a livello internazionale con La dolce vita con cui ha incomin- ciato a sperimentare nell’esplorazione dell’essere umano. Uno degli aspetti introdotti da Fellini ne La dolce vita è la scomposizione della storia. Ispirandosi al Cubismo analitico di Picasso degli anni ’10, Fellini elimina la rappresenta- zione lineare dei fatti. Nella prima immagine si può distinguere il volto di un uomo con la barba, gli occhi chiusi, una scomposizione at- traverso la quale Picasso cerca di rendere lo spostamento del punto di vista di chi osserva il volto, come se ogni fram- mento fosse uno sguardo diverso posato su quel volto. Sguardo diverso non di persone differenti, ma perché chi osserva si sposta nello spazio. A questo Fellini si è ispirato per La dolce vita: secondo lo stesso metodo artistico, ha scomposto un pezzo di vita di un personaggio, Marcello, che non è nient’altro che l’alterego di Fellini. È Fellini che osserva se stesso attraverso questo metodo analitico con cui scompone momenti diversi della sua esperienza di vita di quel perio- do, durante il quale era giornalista e si trovava a vivere in una Roma mondana, in una società rispetto alla quale dappri- ma provava desiderio di appartenenza e di inclusione e da cui, in seguito, facendo emergere il suo stato di disagio e di crisi, si accorge di volersi distaccare, di non volerne fare più parte. Attraverso la scomposizione analitica viene osservato un periodo dell’esistenza di Marcello: il periodo viene scomposto in scene di vita, esperienze che in quel periodo sono state importanti per compiere la transizione dal deside- rio di inclusione sociale fino al desiderio di esser escluso da una società corrotta, vacua, etc. La scomposizione vie- ne effettuata al fine di eliminare i nessi che ci sono a livello di struttura drammaturgica: la storia non ha uno sviluppo consequenziale, ma è scomposta in momenti salienti dal punto di vista del percorso interiore del protagonista. Non è un percorso durante il quale l’autore voglia esporre dei fatti nel loro logico sviluppo, nei loro rapporti di causa-effetto; la prospettiva è interiore. Tali momenti salienti vengono quindi esposti non in ordine cronologico, ma secondo il flusso della crisi. In 8 1/2 , la ricerca compie un passo in avanti. «Otto e mezzo è una delle opere più importanti del Novecento per- ché insegna la difficoltà, lo sforzo, il dolore e la gioia di dire: “Io”». La ricerca di Fellini va oltre: tutto è affidato all’esperienza soggettiva del protagonista, nuovamente interpretato da Mastroianni, nuovamente l’alterego del regista. Il processo è ancora più esplicito perché Marcello è un regista: la questione della soggettività è quindi posta in una pro- 21 spettiva autobiografica, è esplicita. Lo spettatore sa che quello che sta vedendo è una rappresentazione di se stesso fatta dall’autore. Fellini si mostra al pubblico in una profonda crisi; condivide con esso una rappresentazione di sé piuttosto impie- tosa: non ha veli nel mostrare i propri vizi, le proprie manie, le proprie ossessioni, anche le più intime e inconfessabili. «L’unico criterio per giudicare un’opera è dire se è vitale». Con vitale è da intendersi una porzione di vita che l’autore regala al suo pubblico con l’intento di condividerla e, proprio perché questa rappresentazione mette a nudo vizi, manie, etc., è una rappresentazione che vuole essere messa a disposizione del pubblico. Tutti, prima o poi, si sono trova- ti, si troveranno in una situazione analoga, quindi che fare? Questa è la soluzione che Fellini propone. Il carattere au- tobiografico è chiaro: Fellini riflette allo specchio e lo specchio è il film. La mise en abîme Il protagonista, interpretato da Mastroianni, è un uomo in crisi, ma è anche un artista in crisi creativa che dovrebbe realizzare un film. Il fatto di vedere la realizzazione del film, con tutto ciò che comporta, ci pone la questione del meta- cinema, il cinema che riflette su se stesso. È innanzitutto una riflessione sull’esistenza umana, ma è anche una riflessio- ne sulla di crisi di un artista, attraverso la quale si osservano le storture del mondo cinematografico, l’umanità che circo- la in esso, le debolezze umane del cast, della troupe, delle case di produzione. È una riflessione sul mondo del cinema e sul fare cinema. La scomposizione è qui più complessa che ne La dolce vita perché non riguarda solo la struttura di sviluppo della storia, non investe soltanto l’esperienza di un determinato punto della vita. La profondità della psiche viene approfondi- ta e sondata maggiormente. In 8 1/2 la storia non esiste più, siamo nel mezzo della confusione, dove quello che conta è quanto mai l’esperienza soggettiva. Ne La dolce vita, le diverse esperienze erano i momenti salienti di un preciso momento della vita del protagonista. Questa definizione è riduttiva se applicata a 8 1/2 , che costituisce un vero e proprio flusso di coscienza nel quale manca una distinzione tra esterno ed interno: è tutto osservato all’interno, mentre l’esterno sembra essere un riflesso di ciò che avviene all’interno della psiche. Conseguentemente, il conscio e l’inconscio si confondono e l’inconscio ha un’importanza maggiore del conscio. Scena di Guido nell’auto Il patto di verosimiglianza viene meno: non siamo nella realtà, ma in una dimensione altra che non sappiamo an- cora identificare, ma che ha molto dell’onirico. Il processo di identificazione attraverso inquadrature in soggettiva, ma anche perché possiamo ascoltare il respiro affannoso, osservare le sue mani sul vetro. La sensazione di soffocamento e il suo tentativo di salvarsi sollecitano nello spettatore il processo di identificazione, anche perché egli è l’unico perso- naggio su cui si è incentrata la rappresentazione. Gli altri personaggi sono di contorno, non si sa nulla di loro, si muo- vono nella totale indifferenza. È questo un altro elemento che rafforza l’idea che si tratti di un sogno. Oltre alla dimensione onirica, sono altresì presenti momenti di rêverie, in cui Guido sogna ad occhi aperti. Mercoledì 28 febbraio C’è un continuo passaggio fluido da uno all’altro piano tanto che spesso risulta difficile comprendere in quale di- mensione ci si trovi, se nella realtà, nel sogno o in uno stato di rêverie. Tale passaggio fluido rende estremamente effi- cace la comprensione della psicologia di Guido, delle istanze che si agitano profondamente nella sua psiche, dei pro- blemi che affronta e rimanda al flusso di coscienza, che funziona per associazioni libere (es. Guido si trova con l’amante e all’improvviso dei ricordi della sua infanzia con la Saraghina gli ritornano alla mente). La resa della soggettività del protagonista viene resa attraverso due strategie:  Inquadrature in soggettiva nel mondo esterno: es. scena dell’incontro con il cardinale. I personaggi sono osservati dal punto di vista di Guido e sono visti come degli estranei, stravaganti e peculiari nel modo di affrontare le situazioni. La diversità di ciascuno di essi viene posta in evidenza quasi in modo ca- ricaturale, enfatizzata in maniera molto forte. La tecnica della caricatura è cara a Fellini, che si formò come artista dapprima accanto a pittori e nell’adolescenza studiò come caricaturista, per lavorare poi in un giornale in questo ruolo. Questa tecnica è diventata poi un metodo artistico: prima di elaborare una storia, Fellini creava i personaggi. Nella sua ottica, la storia scaturiva dai 22 personaggi, dai loro dati caratteriali: solo un dato personaggio, in un determinato momento della sua vita, in determinate circostanze, può reagire in un preciso modo, che appartiene soltanto a lui. (Vedere appunti triennale). Martedì 6 marzo Edgar Morin sostiene che non vi è momento in cui siamo più capaci di comprendere l’altro se non al cinema. Qui, la condizione in cui ci troviamo, l’importanza della percezione visiva e la possibilità di osservare il mondo come se lo stessimo spiando da una finestra, fanno sì che lo spettatore sia in una condizione ideale per trascendere se stesso e met- tersi nei panni dell’altro, di entrare nella sua mente e scoprire processi fondamentali, sentimenti, emozioni universali a tutti gli uomini e quindi anche a se stesso. Tra gli strumenti per indagare l’argomento troviamo:  La soggettiva: assumere il punto di vista dell’altro sia dal punto di vista percettivo del suo sguardo, sia della sua visione del mondo (sguardo e pensiero).  Ripresa ravvicinata del volto (primo piano): il campo dell’immagine viene suddiviso in più piani a seconda della distanza che un oggetto o un personaggio ha rispetto al piano della visione. Tale suddivisione in piani è fatta partire dalla profondità: ciò che è più vicino al nostro sguardo è in primo piano; ciò che si allontana leg- germente è in secondo piano, etc. La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954 Relazione tra il primo piano e la soggettiva Il volto del protagonista e l’inquadratura di ciò che sta osservando si intercalano in una sequenza ABAB che ci permette di comprendere gli oggetti della sua attenzione, il modo in cui li osserva, le reazioni che suscitano in lui, il tempo che egli dedica a osservarli. Il film, attraverso il gioco di sguardi del protagonista sul cortile su cui si affaccia la sua finestra ripropone la questione che egli sta affrontando nella sua vita, ossia la relazione di coppia: tutte le scene che egli osserva nel cortile sono diverse manifestazioni della vita di coppia o questioni sentimentali (giovani sposi, ballerina con molti corteggiatori, donna di mezza età che sogna di incontrare l’anima gemella, coppia di condomini che dorme sul balcone, uomo che uccide la moglie). La compagna del protagonista vorrebbe il matrimonio, ma incontra le resi- stenze del protagonista. Perciò, ciò che egli sta vivendo nella sua vita, un amore tormentato, disparità di punti di vista sul futuro, viene costantemente osservato nel cortile. Le considerazioni sono sviluppate ed espresse non attraverso i dia- loghi, ma con le immagini e le reazioni del protagonista alle scene di vita affettiva altrui. Osserviamo ora la relazione che si instaura tra l’inquadratura in soggettiva e il primo piano. Hitchcock, nella cele- bre intervista con François Truffaut racconta di essersi ispirato a un esperimento cinematografico che venne fatto nel ’26, attraverso il quale venne esplorata una delle peculiarità e delle potenzialità espressive dell’immagine dinamica, nel- lo specifico, l’immagine di montaggio. Proprio nell’epoca del cinema muto, si cercava di esprimere significati attra- verso le immagini prima ancora che attraverso le parole, si cercava di scoprire le forme espressive del cinema, che lo differenziano da qualunque altra forma artistica. Durante gli anni ’20, le ricerche delle avanguardie artistiche (futurismo, dadaismo, etc.) contribuirono largamente ad approfondire gli ambiti citati. Oltre ad esse, i formalisti russi furono fondamentali, soprattutto per indagare ciò che concerne il montaggio e i principi su cui fondare l’accostamento delle immagini per creare senso e per creare nello spet- tatore comprensione. Era un momento in cui si cercava di scoprire quali fossero le reazioni degli spettatori alle immagi- ni, i processi di pensiero che le immagini sollecitavano e conseguentemente, conosciuto tutto ciò, dar vita a delle tipolo- gie di montaggio capaci di guidare l’interpretazione dello spettatore non solo prevedendola, ma costringendola dentro percorsi percettivo-interpretativi già fortemente preordinati. Questa necessità nasceva non soltanto dal bisogno di farsi comprendere, ma anche dal fatto che i formalisti russi erano, oltre che teorici del cinema, registi che volevano impiegare il cinema come strumento di propaganda, in un contesto storico e politico nel quale l’ideologia marxista trovava nel ci- nema uno degli strumenti per essere diffusa. Tale cinema di propaganda non era commissionata da nessuno, ma era la forte appartenenza ideologica dei registi a spingerli a operare in questo modo. Tra questi autori, Lev Kulešov effettuò l’esperimento conosciuto come effetto Kulešov. Nel ’26 le ricerche si concentrano intorno al montaggio perché si inizia a riconoscere il montaggio quale potente mezzo di espressione del senso e di guida dei processi interpretativi dello spettatore. Durante le loro ricerche, i formali- 25 Discorso finale del papa La scena è incentrata soprattutto sulla ripresa del volto del protagonista, su cui si muovono emozioni dalla com- mossa tristezza, a un momento di contentezza fino alla commozione triste, in mutamenti radicali e repentini. È altresì importante la relazione reciproca che si crea tra le inquadrature che compongono la sequenza, che sono di tre tipi: il primo piano del protagonista, la ripresa degli alti prelati, la ripresa del pubblico. In ognuna di tali inquadrature, ciò che conta è il volto. Anche per quanto riguarda i prelati sono importanti i volti che dimostrano un senso di compiacimento, di soddisfazione, reazioni di senso opposto. È importante notare come il volto si stagli su uno sfondo in cui non ci sono molti altri elementi importanti. Tra i prelati, sono i visi a distinguerli, tanto più che indossano gli stessi abiti religiosi. Il rapporto figura-sfondo è quindi im- portante. In questa sequenza non a caso il volto del protagonista si staglia su uno sfondo nero, privo di elementi che possano attirare l’attenzione dello spettatore (gioco chiaro-scuro, cromatico, figura-sfondo). Anche quando l’inquadratura si sposta sulla folla, ciò che spicca sono le espressioni: i volti risaltano in quanto illuminati rispetto ai corpi, nonostante il caos e la fugacità dell’inquadratura. Attraverso queste strategie l’autore invita lo spettatore a fare egli stesso dei primi piani all’interno delle inquadra- ture. È una forma di guida che viene impiegata fin dall’inizio del film, come a educare lo sguardo dello spettatore in modo che sia attento ai volti anche laddove non ci sono primi piani. Le reazioni sui volti, e quindi tra le tre tipologie di inquadrature, dei vari presenti sono tutte legate dalle parole che il papa pronuncia, andando a creare un campo-controcampo. La musica contribuisce a rendere la resa della condizione interiore di tutti, lo sgomento dei fedeli, lo stato di disagio del papa. Incipit La presentazione dei personaggi viene fatta sia dalla voce fuoricampo del giornalista, sia dallo spostamento delle inquadrature. Interessante la presentazione originale e coraggiosa della psiche dei cardinali in un momento così delicato come quello della scelta di un papa. La rappresentazione è laica e fa uso di un’ironia che insinua molti dubbi su come vanno queste cose nella realtà. Le tipologie di inquadrature presenti sono:  Riprese ravvicinate di volti che si alternano a riprese ravvicinate di mani e gesti.  Riprese d’insieme nelle quali però, se sono frontali abbiamo una certa importanza attribuita ai volti, se non sono frontali i gesti, che fanno emergere il nervosismo e lo stato interiore dei personaggi, assumono maggiore rilevanza. C’è un gioco interessante di rapporto tra il singolo e gli altri. In genere, lo schema compositivo pre- vede che una singola persona dia cenno di nervosismo e gli altri lo seguano, come nel caso picchiettare la pen- na sul tavolo. Anche qui, la musica esprime la soggettività, l’interiorità dei protagonisti e la loro tensione psi- cologica. La voce fuoricampo pronuncia “non io, Signore” mentre le inquadrature si susseguono. Tutti stanno pensando la stessa cosa. Per ciò che concerne il passaggio dei piani, dall’inizio, quando le inquadrature includono più personaggi di cui non vediamo il volto o non gli danno importanza, man mano le inquadrature si concentrano sempre più sui volti, fino a quando una voce fuoricampo ci presenta i personaggi, facendoceli conoscere. È un modo abbastanza consueto di inizia- re un film: da una ripresa da lontano, di contesto che situa l’azione di un luogo preciso, fino a un avvicinamento pro- gressivo che approda alla ripresa in primo piano. Giovanna d’Arco, C. T. Dreyer, 1928 La fonte d’ispirazione di Nanni Moretti per questo film – ma più in generale per tutti quei film in cui ci sia una vo- lontà di compiere un’introspezione psicologica – è C. T. Dreyer, regista danese che nel 1928 realizza un film sorpren- dente per l’epoca: Giovanna d’Arco, in cui viene rappresentato il tormento della protagonista, un tormento in primis psicologico. Si tratta di una rappresentazione della relazione sociale tra il singolo e la collettività. Il film è muto ed è stato realizzato in un periodo nel quale la sperimentazione investiva l’immagine dinamica e il volto. È costituito interamente da primi piani, in questo consiste la sua originalità. La soggettività di Giovanna viene messa in relazione con quella degli inquisitori: le inquadrature sono di due tipi:  In soggettiva sull’altro: Giovanna osserva i volti dei suoi inquisitori e viceversa;  Primi piani sul volto di Giovanna mossi da intenzioni diverse da quelle degli inquisitori: è lo sguardo dell’autore del film che si posa su di lei chiedendo a noi di osservarla con analoga comprensione. 26 Dal min. 3:05 al 10:36 L’impiego delle immagini dinamiche è completamente diverso da quello a cui siamo abituati oggi. Tuttavia, il film è stato studiato ed analizzato profondamente da grandi autori. Nel ’28 non era stato ancora concepito da nessuno che un film potesse essere costituito soltanto da primi piani. L’intento del film è quello di far conoscere chi fosse la vera Giovanna, non di rappresentarla come un’eroina con elmo e corazza. Contadina, analfabeta, Giovanna è al cospetto di un gruppo di uomini istruiti e dotati di una prospettiva molto lontana da quella della realtà vissuta lei. La dialettica dei primi piani mostra quindi l’incomunicabilità che sussi- ste tra due ordini di interpretazione della realtà inconciliabili. Giovanna non può essere compresa dai giudici, il cui atteggiamento è inquisitorio e che son mossi da pregiudizi e disprezzo nei confronti della semplicità, ingenuità e della sua condizione di giovane contadina analfabeta. L’espressione che Giovanna assume, i suoi occhi sbarrati mostrano la paura di chi ha già capito di essere condannata già a priori. È intimorita dalle domande dei giudici, dal loro atteggia- mento e dal loro aspetto un po’ come lo siamo noi spettatori. L’autore ha infatti scelto con grande accuratezza gli attori. La costruzione segue una sorta di crescendo che porta all’esito che tutti conosciamo. La rappresentazione del pro- cesso non è altro che il tentativo di comprendere quest’“incomprensione”. L’autore chiede allo spettatore di trovare in ciò che vede, in ogni dettaglio, gesto, espressione del volto, altrettanti indizi che facciano ben comprendere l’incomunicabilità di questi due mondi posti a confronto (la Chiesa e una giovane contadina analfabeta). Gli indizi che l’autore propone sono ai nostri occhi fin troppi; non solo la recitazione è enfatica, ma l’insistenza su tutta una serie di elementi è tale da apparire ridondante al nostro sguardo di spettatori contemporanei. Oltre alla scelta accurata dell’aspetto dei personaggi e alla recitazione enfatica, troviamo anche un uso delle in- quadrature che costituisce un ulteriore elemento di significato:  Riprese dal basso, quando si tratta degli inquisitori, al fine di dare evidenza a una figura che incombe su di noi;  Riprese dall’alto o di Giovanna che guarda in alto, che sottolineano il suo status inferiore. In altre inquadrature ancora, il volto di Giovanna viene proposto sotto lo sguardo dell’autore: essa è una donna di- sarmata, impaurita, la cui unica risorsa è la sua fede. Inoltre, il rimando all’iconografia dei santi è molto esplicito. Lunedì 12 marzo Soggettività e astrazione La ripresa ravvicinata ci permette di capire meglio come funziona la dimensione del simbolico nell’ambito dell’immagine audiovisiva. È una dimensione chiave sia dal punto di vista creativo, sia da quello della fruizione dell’immagine, sia per quanto riguarda l’influenza dell’immagine sul nostro modo di guardare le cose. Finora abbiamo parlato di pensiero analogico, dell’analogia che si crea fra noi e il personaggio attraverso i pro- cessi di proiezione e di identificazione (analogica dell’io), che sono tanto più intensi quanto più vengono sollecitate af- fettività ed emotività, le quali sono infatti intimamente connesse al pensiero analogico, simbolico e mitologico. Uno dei mezzi che più di tutti ha una forte capacità di presa sullo spettatore nell’esprimere la soggettività e farla condividere allo spettatore è il primo piano. Perché? A partire dagli anni ’20 il primo piano si è imposto come un mezzo inedito, che non aveva precedenti nella storia delle arti figurative. I primi spettatori, di fronte alla visione ravvicinata del volto hanno vissuto un vero e proprio shock, rimanendo impressionati da questa separazione tra il volto e il corpo. A riguardo, Béla Balázs rivela che lo shock era proprio di tutti gli spettatori di tutti gli anni ’20, indipendentemente dal loro grado di cultura. Quando ci troviamo dinnanzi a un primo piano, siamo costretti a vedere solo ciò che appare nel campo dell’inquadratura. Questa costrizione ci impone di focalizzare la nostra attenzione su quell’elemento particolare che è il volto. Come notava, già negli anni ’10 lo psicologo americano Hugo Münsterberg, la ripresa ravvicinata riproduce un modo della visione alquanto consueto: l’attenzione selettiva, la focalizzazione su un elemento particolare inserito in un insieme di altri elementi, che vengono momentaneamente posti sullo sfondo (es. quando cerchiamo un oggetto in una stanza). I parametri percettivi su cui si fonda la nostra visione sono culturalmente determinati, come affermava Benja- min; sono le tecniche della rappresentazione visiva che determinano storicamente i nostri modi di osservare la realtà. André Bazin a proposito della ripresa ravvicinata « Arte dello spettacolo, iperbole dell’incarnazione per la mostruosa prossimità fisica dell’immagine, il cinema, la sua grandezza, la sua manifestazione più vistosa della sua essenza è l’astrazione attraverso l’incarnazione. » – André Bazin. 27 André Bazin era uno dei principali intellettuali francesi che negli anni ’40-’50 si è dedicato al cinema offrendo importanti contributi. In questa sua citazione, Bazin riflette su una dialettica che sussiste nell’immagine cinematografi- ca. Essa non può far altro che mostrarci qualcosa che precedentemente è stato ripreso dalla realtà. La grande novità è stata infatti quella di rappresentare la realtà non attraverso la mano dell’uomo (pittore, scultore, etc.), ma cristallizzan- dola con una macchina. Questa riproduzione meccanica della realtà ha determinato per molti decenni una sorta di pregiudizio nella cultura che osservava il cinema; si diceva che il cinema potesse soltanto riprendere la realtà più concreta, che quindi non potes- se trasfigurare la realtà e che, per questo, non avrebbe potuto raggiungere il pensiero astratto. Negli anni ’20, Freud so- steneva non si potesse fare un film sulla psicoanalisi perché essa è una disciplina introspettiva volta ad analizzare i pro- cessi di pensiero, emotivi ed essi non possono esser rappresentati visivamente, in maniera concreta e realistica com’è invece riteneva fosse il cinema. Quando Bazin formula questa riflessione, sostiene che il mezzo attraverso cui si può trascendere il tangibile è innanzitutto l’incarnazione, il corpo e, quindi, il volto. Nel ’46, il filosofo Merleau-Ponty scrive un testo sul cinema rivelatorio, Il cinema e la nuova psicologia destina- to a compiere una rivoluzione nella cultura visuale, ribaltando quel pregiudizio. Egli afferma che, in fondo, per conosce- re l’interiorità dell’uomo non è necessario compiere un lavoro introspettivo come nell’ambito psicoanalitico, non è ne- cessario l’impiego di tecniche specifiche per attingere alle profondità dell’inconscio, la nuova psicologia è quella che studia l’interiorità dell’uomo a partire dal suo comportamento, dalle sue espressioni, dai suoi gesti, etc. Questo nuovo orientamento della psicologia era di fatto quello del comportamentismo; la fenomenologia era, in quegli anni, una cor- rente che metteva in relazione il corpo alla psiche, dopo una storia millenaria della cultura occidentale in cui questi due elementi erano stati considerati opposti ed antagonisti (Aristotele, Cartesio, etc.). La psiche diviene qualcosa di visibile sul corpo, sul volto, nelle espressioni mimiche, nel tremore, nei gesti, etc. Merleau-Ponty insiste sul ruolo che il cinema ha avuto in questo itinerario della conoscenza che, nel corso del ‘900, sal- da quella frattura millenaria tra il corpo e la psiche. La paura, la felicità, ecc. non sono astrazioni, sono osservabili, si manifestano nel corpo, sono il corpo. Ed esso non è l’involucro esterno che trasmette gli stati interiori, è ciò che fa sus- sistere quegli stati, che permette di esperire la gioia, il dolore, e così via. Gli stati non sono più definibili come “interio- ri”, ma semplicemente “dell’essere umano”. Ciò a cui allude Bazin riguarda, oltre gli stati transitori (es. le emozioni), quegli stati che nel loro insieme defini- scono una personalità, un carattere, l’identità. Si riferisce a ciò pensando al divismo cinematografico: ogni divo, in fondo, è l’incarnazione di un certo modo di essere, di pensare, di un certo carattere; è un manifesto: attraverso il suo corpo e il suo volto, ogni divo dà rappresentazione visiva di un’identità e di un carattere. Non a caso il sistema divisti- co, lo star system, è sorto a partire dall’esigenza di creare diverse identità e personalità che fossero eterogenee le une dalle altre, in modo da offrire al pubblico una vasta gamma in cui riconoscersi. Ciò che ci interessa dei divi è la loro particolarità, la loro soggettività. Soggettività e astrazione Uno dei primi a dare dei contributi cruciali per comprendere l’essenza della cultura visuale fu Jean Epstein, che diceva « Il dolore è a portata di mano, qui, se tendo le mani, lo tocco. Intimità, conto le ciglia della sofferenza, potrei sentire il gusto delle lacrime. Mai un volto si è proteso così sul mio. Esso mi perseguita ma sono io che lo inseguo fron- te a fronte. Io lo mangio, esso è in me come un sacramento, massima acutezza visiva. »  Il dolore a portata di mano, sembra di poterlo toccare, la ripresa ravvicinata in qualche modo mette in campo la nostra capacità sinestesica, quella di chiamare un altro senso, il tatto, oltre quello della vista.  Conto le ciglia della sofferenza, sento il gusto delle lacrime, mai un volto si è proteso così sul mio, Epstein si riferisce all’esperienza della sala cinematografica, parlando del grande schermo e racconta un effetto psicolo- gico di grande effetto.  Esso mi perseguita ma sono io che lo inseguo, racconta l’effetto di reciprocità, il transfert, lo scambio. Sembra che il volto del personaggio mi perseguiti, sembra perché sono io che proietto sul personaggio il mio sentire, il mio sentirmi perseguitato.  Io lo mangio, esso è in me come un sacramento, è un’espressione che allude al fatto che il primo piano del vol- to è una modalità della rappresentazione che, proprio per via dell’evidenza che dà all’umano, sembra innalzare l’umano a uno stadio di sacralità, in cui l’umano sembra trascendere l’immanenza e raggiungere il livello dell’astrazione. Questa annotazione è interessante perché è poi ripresa negli anni ’60 e ’70 da Pier Paolo Pasolini. 30 3. Astrae dal contesto spazio-temporale, dalla realtà. La durata dell’esperienza, intesa in senso lato, è però qual- cosa di reale. 4. Trascende il concreto: l’astrazione dal concreto permette allo spettatore di compiere quello che Metz defini- sce “salto mentale” in un’altra dimensione, quella interiore, apparentemente irrappresentabile. Come rappre- sentare ciò che è astratto? Era questo il pregiudizio di Freud e di tanta intelligenze almeno fino agli anni ’60 del ‘900. Una serie di citazioni …  W. Benjamin: il primo piano del volto: “ultima trincea dell’aura”  P. P. Pasolini: il primo piano e la sacralità dell’umano: epifania  G. Deleuze: il primo piano è sempre un’immagine-affezione: astrazione fondata sull’emotività  C. G. Jung, psicanalista: nel volto vi è il nostro stato di abbandono, il nostro esilio. Il volto manifesta l’ombra. È un archetipo che reca un messaggio di vulnerabilità. L’impossibilità di avere un controllo totale, su qualsia- si cosa, rivela la debolezza umana, i suoi limiti.  E. Lévinas: il volto esprime una “lacerante provocazione” nel suo darsi in espressione: “Prima di qualsiasi e- spressione particolare c’è la nudità e la miseria dell’espressione in sé, cioè l’inermità e la vulnerabilità ostenta- te dal volto: misteriosa derelizione umana”. Questo è un po’ il senso di tutta la riflessione morale di Lévinas: il volto è un’occasione per ricordarci la fragilità di esseri umani, da vedere rispecchiata nell’altro come in noi stessi. In effetti, il cinema che ci permette di osservare il volto in certe circostanze ci offre questa opportunità. Non importa quale sia l’espressione che si manifesta sul volto, è l’espressione in sé che è già manifestazione di un reagire dell’uomo, di una risposta agli eventi, di una sua certa passività agli eventi. L’uomo è infatti inserito in un ambiente a cui può solo adattarsi e reagire. E. Lévinas: “Il volto è un mezzo tramite cui l’invisibile che è nell’uomo si fa visibile ed entra in rapporto di scambio con noi”.  Il primo piano intensifica l’identificazione e la proiezione dello spettatore e il transfert tra ego alter e alter ego: analogica o dialogica dell’io.  E. Morin: vedere nell’altro un nostro alterego e assistere a questo scambio, questo transfert dato dai processi di identificazione e proiezione.  J. Hillman, psicanalista: “Il volto offrendosi, donandosi, mi chiama fuori da me stesso”. Quando ci soffer- miamo a guardare il volto di un altro, ci distraiamo da noi stessi, concentriamo quell’attenzione prima rivolta solo a noi stessi, all’altro.  E. Lévinas: “L’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama. Il volto apre il discorso originario la cui prima parola è responsabilità”. Qui entra in gioco la dimensione etica: nel momento in cui ci riconosciamo simili perché entrambi deboli, in una condizione di fragilità, chi osserva il volto di qualcuno è più portato alla comprensione, invece che alla condanna, alla responsabilità nei confronti dell’altro. Anche senza interagire con lui, questo sviluppo della comprensione può diventare più responsabile. Al cinema la responsabilità di un artista, specie se è grande, ci mette nelle condizioni di osservare l’essere umano con uno sguardo che non è di condanna, ma di un’artista, capace di proporci nuovi punti di vista, una nuova conoscenza che riguarda noi e la nostra vita. L’esperienza che ne deriva è mediata, proprio in virtù di un personaggio che osserviamo nella sua vita. L’osservazione non è però distaccata, ma partecipe e di permette di compiere un’esperienza da cui ricaviamo una maggiore conoscenza di noi e della vita, anche quando tale conoscenza non è razionale.  Il primo piano è uno dei mezzi più potenti per attivare la comprensione.  E. Lévinas: “Il volto è una forza capace di convincere anche chi non vorrebbe ascoltare”.  J. Hillman: “Il volto pretende sempre una risposta”. Il concetto di “doppio”, E. Morin Quando diciamo che il personaggio può diventare l’alterego dello spettatore, viene chiamato in causa il processo originario del “doppio”: l’altro è il mio doppio, in lui posso vedere qualcosa che mi riguarda. Quando ci riferiamo però al doppio, ci troviamo dinnanzi ad un processo che alle origini aveva dei tratti più manifesti. Nell’ambito estetico e dell’arte, tale questione è molto interessante, basti pensare al Ritratto di Dorian Gray. Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1957 31 Riprendendo il tema del doppio, Bergman ha realizzato Il settimo sigillo, in cui riflette sulla contemporaneità. In epoca post-bellica, in piena guerra fredda, nel ’57, mentre la gente risponde con un’euforia data dalla ripresa economi- ca, gli artisti riflettono su ciò che è accaduto, su ciò di cui è capace l’essere umano. Il film esprime in maniera simbolica questa riflessione. La minaccia dell’uomo a se stesso, che si è manifestata in forme estreme, richiama in Bergman il riferimento all’apocalisse, all’uomo che è fautore del suo destino funesto. Bergman crea il personaggio della morte, che non è nient’altro che il doppio del protagonista del film, ossia il cavaliere. Bergman si ispira all’incisione Il cavaliere, la mor- te, il diavolo di Albrecht Dürer, un’artista di inizio ‘500. Nel film, la presenza di un personaggio che incarna la morte è giustificata da un contesto storico ben preciso: Ber- gman riflette sulla realtà post bellica attraverso un film ambientato nel tardo Medioevo in Svezia. Il cavaliere torna da una crociata e trova la peste. Così come accadeva nel Medioevo che le pestilenze decimassero le popolazioni, in periodo post-bellico la minaccia di morte ha altre cause (Olocausto, Hiroshima). In Svezia, il cavaliere apprende dell’epidemia di pesta vedendo attorno a sé un clima e un’atmosfera di morte.  Il settimo sigillo – intro https://www.youtube.com/watch?v=NL0UZJ3o1Ho  Il settimo sigillo – partita a scacchi con la morte https://www.youtube.com/watch?v=d2S9VVeGNkA L’incontro tra il cavaliere e la morte avviene fin dal principio del film ed è un incontro sorprendente per più motivi, in primis in quanto tra i due si instaurano un dialogo, anche piuttosto realistico, ed un gioco. Ciò che è ancora più sorprendente è la scelta di Bergman di esprimere l’ansia, la disperazione del cavaliere appena torna- to da una guerra. Angoscia, terrore, etc. assumono le sembianze umane (antropomorfizzazione di elementi astratti), diventano un personaggio attraverso un processo di manifestazione esterna, che è un processo prima- rio dell’uomo. I sentimenti vengono personificati, anche se in un modo arcaico. L’efficacia di tale procedimen- to è data dalla naturalezza e dalla spontaneità del dialogo tra i due. Il piano della realtà concreta e il piano dell’astrazione si incontrano. Il film gioca tutto il visibile e ciò che non lo è. L’uomo vestito di nero non è solo un uomo è la morte, il cavaliere che torna dalla guerra non è solo un cavaliere, rappresenta l’umano. Il gioco tra queste due dimensioni è stimolato da Bergman che ne fa un invito allo spettatore. Il settimo sigillo, Ingmar Bergman, 1957 L’individualità: Kierkegaard e i tre stadi dell’esistenza  Il saltimbanco e lo stadio estetico: l’artista è colui che vive pienamente l’immediatezza dell’istante e bandisce dalla vita noia, tristezza e monotonia. La riflessione è posta alla periferia della vita. Immediatezza, esteriorità e mutevolezza mettono in luce come nello stadio estetico non sia possibile né la scelta né la libertà. L’artista la- scia che le circostanze e il caso decidano per lui. (cfr. pure Starobinsky e Jung).  Lo scudiero e lo stadio etico: l’uomo morale, anziché lasciarsi possedere dal tempo, tenta di possederlo, af- fermando di continuo l’impegno e il sacrificio, non la fuga dalla responsabilità. Egli esprime nella ripetizione la riconferma del “coraggio etico della vita” attraverso il quale costruisce la propria identità.  Il cavaliere e lo stadio religioso: l’angoscia che può cogliere l’uomo etico diviene per l’uomo religioso senso di colpa e pentimento che, tramite il “salto di fede”, sono rivolti a Dio. La fede consiste quindi nel rischio e nell’accettazione della prova che rinnova la fede in una “ripresa” continua, in una rigenerazione della credenza. Solo dinnanzi a Dio e nella dimensione religiosa della “scelta assoluta” si afferma l’identità. Ma la scelta è sempre sacrificio, dunque, negazione di sé: in ciò il “paradosso” e lo “scandalo” della fede. Cristo è l’incarnazione del “paradosso” e dello “scandalo” della fede che si impone sempre come testimonianza e mai come dimostrazione. In ogni esperienza, in tutto ciò che gli succede, il cavaliere chiede a Dio una prova della sua esistenza. È quindi una fede tormentata e ricca di dubbi. Solo alla fine di questo percorso, sarà lui a voler testimoniare la presenza di Dio con le sue azioni. Il cavaliere: “Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto … non si può cogliere Dio con i propri sensi”. La scelta assoluta del cavaliere è nel suo aiuto alla famiglia di artisti. 32 La potenza del simbolico investe ogni personaggio del film, i quali incarnano diversi aspetti e diversi stadi dell’essere umano.  La messa in scena degli attori e la predica dei flagellanti https://www.youtube.com/watch?v=DA_ktBfVou0 La prima scena, come la seconda, è una messa in scena. Il saltimbanco e la moglie sono manifestazione di gio- ia, vitalità, pulsione di vita in senso lato. Ciò che più conta in questa sequenza è il legame tra la messa in scena della vita e la messa in scena della mor- te, data dai flagellanti. Facendo caso a come sono rappresentati i flagellanti, all’ostentazione della sofferenza, si può cogliere una nota d’ironia, lo sguardo dell’autore, che si rende conto dell’eccesso. La predicazione è ca- ratterizzata anch’essa da una retorica molto enfatica, propria delle manifestazioni dell’epoca, che si palesa og- gi, nella tarda modernità, come eccesso. Il cavaliere osserva tutta la messa in scena con un certo distacco, una certa perplessità, non vi partecipa attiva- mente, né vi reagisce. L’impiego del primo piano Nel film, che è di carattere introspettivo, il primo piano è un elemento dominante che investe in primis il cavaliere, ma che investe altre forme (es. volto della morte, del Cristo, delle statue). Molto interessanti anche gli accostamenti tra il volto del cavaliere e gli altri volti che sono rappresentati con la ripresa ravvicinata e messi in risalto attraverso giochi di luce che sono da intendersi in maniera simbolica: il costante sconfinamento tra uno stato di crisi e uno di speranza corrispondono alla disperazione religiosa, alla fede e alla saggezza. Le ombre esprimono il dubbio, la condizione di in- determinatezza tra due dimensioni opposte. Più in generale, il volto è incarnazione dell’astrazione, tanto più che i personaggi sono rappresentazioni simboli- che. Il volto dello scudiero, per esempio, è l’incarnazione simbolica dello stadio etico dell’uomo, del rigore morale. Mercoledì 14 marzo Concetto di fotogenia Tale concetto non ci è di immediata comprensione perché, in primis, abbiamo l’abitudine di impiegare l’aggettivo fotogenico in un modo improprio. In realtà, la fotogenia non dipende da chi viene fotografato, ma riguarda i mezzi tec- nici, le risorse della ripresa (utilizzo dell’illuminazione, distanza dal soggetto, angolazione della ripresa, utilizzo di filtri), che vengono gestite dal regista insieme al direttore della fotografia di un film. Il gioco di chiaroscuri, come ab- biamo visto ne Il settimo sigillo, esprime il dubbio tra due dimensioni opposte; in Giovanna d’Arco, il gioco di angola- zioni mette in evidenza il parallelismo tra il volto di Giovanna e quello dei santi. I mezzi tecnici sono quindi mezzi espressivi e la fotogenia non riguarda soltanto l’essere umano, ma tutto ciò che viene ripreso. Tutto ciò che è soggetto a rappresentazione può quindi essere trasfigurato con delle finalità di tipo espres- sivo (esprimere significati), trasmettere una certa atmosfera e una certa emozione, etc. La fotogenia è uno degli stru- menti più potenti della metamorfosi 16 estetica: le cose vengono trasfigurate, cambiano forma. Nel libro L’uomo immaginario, parlando di fotogenia, c’è anche un riferimento alla nozione di magia. Edgar Mo- rin lo utilizza in ambito antropologico, in cui son stati condotti numerosi studi in merito. La magia ha a che fare con le manifestazioni umane nelle quali si impiegano dei processi propri del pensiero analogico, mitologico, etc. Questi pro- cessi, in questo senso, sono gli stessi che riguardano proprio la trasfigurazione della realtà, la possibilità di vedere nella realtà qualche cosa d’altro. Nel pensiero magico è in atto una tendenza a non vedere nella realtà qualcosa di oggettivo, per esempio negli elementi dell’ambiente: nel pensiero magico, la montagna non è solo una concrezione geologica, ma può assumere una valenza sacra. Se osservata in quest’ottica, si possono scorgere delle figure o cogliere in essa un a- spetto di imponenza che ci sovrasta e che – proprio per le sue dimensioni e per la sua forza intrinseca che viene avverti- ta – può essere considerato come sacro. Questo tipo di pensiero mette in campo la proiezione, ciò che l’uomo proietta nell’ambiente e che gli fa vedere la realtà in un modo altro rispetto a quello oggettivo. Come afferma Morin, qualsiasi ente della realtà viene caricata da potenze affettive (es. un anello nuziale ha una valenza simbolica importante). È interessante notare come questo pensiero sia il frutto di un’evoluzione durata millenni e che deriva dal pensiero magico mitologico. In effetti, il titolo L’uomo immaginario allude al fatto che l’uomo non è solo sapiens (ossia logico, 16 Metamorfosi: trasformazione delle forme. 35 Le fasi della struttura drammaturgica di Aristotele 1. Protasi: prima fase, corrisponde alla presentazione del principio drammatico; 2. Epistasi: una volta conosciuto il principio drammatico, ossia il conflitto, viene individuato l’obiettivo da rag- giungere per superarlo, l’assoluzione che i personaggi intravedono ma che non hanno ancora raggiunto. Il prin- cipio non dev’essere per forza interno, ma può anche essere sociale o comunque proveniente dall’esterno. In questa fase in cui entriamo nel vivo del il rapporto tra i personaggi e il conflitto, le modalità con cui lo affron- tano. Fase parossistica: Spesso assistiamo a una sorta di crescendo musicale di tipo emotivo, in cui la tensione au- menta fino a raggiungere il picco più alto dell’emotività, il massimo punto di conflitto, di disagio, in cui si tro- vano i personaggi; 3. Catastrofe: anche in questo caso, dobbiamo riportare la parola al suo senso etimologico. Il termine origina- riamente significa rivolgimento, non necessariamente qualcosa di drammatico e tragico, ma una trasformazio- ne radicale, una metamorfosi. In questo momento, che il conflitto sia stato superato con una conciliazione data dal raggiungimento di un obiettivo o meno, approdiamo ad una conclusione che proprio nel modo in cui avvie- ne rivela la metamorfosi dei personaggi che è avvenuta. Questi modi di trovare le soluzioni ai conflitti, di rimettere in discussione il proprio punto di vista, etc. è la com- prensione, quella forma di conoscenza del pensiero analogico, mitologico. Le strutture delle storie permangono grosso modo invariate, esattamente come le strutture del nostro vivere e sono le stesse dei miti. Quali altre possono essere le ragioni per cui la scena delle fragole è così nota?  La fotogenia, la composizione degli elementi nella scena: richiami a Le déjeuner sur l’herbe di Manet e ad altre tradizioni arti- stiche. È il momento più lieve del film, tuttavia notiamo un simbolo di morte, il teschio, sullo sfondo in senso letterale e figurato: per un attimo la questione della morte viene tralasciata, ma non è eliminata del tutto. È inoltre il momento più luminoso del film, normalmente dominato da toni cupi. Si fa inoltre riferimento alla primavera come alla migliore delle sta- gioni, il momento in cui giunge a compimento il ciclo della vita (e quindi di morte) e la natura rinasce. Il cavaliere sta uscendo dalla sua crisi: una parte di lui è morta ed egli sta entrando in una nuova fase.  Le fragole e il latte: le fragole sono il primo frutto che appare in primavera, il primo regalo della natura che rinasce. Ne Il posto delle fragole, un anziano professore torna sui luoghi della sua infanzia che egli definisce “posti delle fragole” perché lì le coglieva da giovane. Il riferimento riguarda una vita nascente, quella della fa- se dell’infanzia, e il tornare in quei luoghi significa rigenerarsi, superare una crisi. Anche in questo caso, dap- prima il cavaliere rifiuta l’offerta della famiglia dei saltimbanchi con quel gesto di rifiuto tipico di chi si è rin- chiuso in se stesso per tanto tempo, poi accoglie il dono. Le fragole hanno quindi una valenza del tutto simbo- lica, di metamorfosi in atto dell’interiorità del cavaliere. Il latte è uno degli elementi che più sono stati caricati di valenze simboliche: il bianco del latte è simbolo di purezza; il latte è simbolo di maternità (e anche in questo caso, la moglie del saltimbanco lo offre al cavaliere, quasi a sottolineare il ruolo della donna nel nutrire di vita). Le fragole e il latte sono quindi pregne di significati altri, che emergono proprio dalle parole pronunciate dal cavaliere: “porterò questo ricordo con me delicatamente come una coppa di latte appena munto che non si vuole versare”. Attraverso le parole avviene un’esplicitazione della valenza simbolica del latte e delle fra- gole e più in generale di tutto ciò che compare nella scena. Avviene uno spostamento di piano: piuttosto che cercare Dio nelle prove concrete, l’importanza viene data a ciò che semplicemente c’è (i volti illuminati dal so- le, la musica della cetra, il bambino che dorme nel carro, le fragole e il latte). È questo che ora conta per il ca- valiere: è una consapevolezza da assumere con delicatezza; l’acquisizione più importante, che fa cambiare il suo punto di vista. Il percorso viene suggellato, viene superata la crisi. Come spesso accade, il superamento della crisi avviene con una rivalutazione delle cose più semplici, della vita concreta e reale. 36 Il finale del film sarà comunque un finale di terrore. Quando il cavaliere si troverà di fronte alla morte, è da leg- gersi come confronto diretto con la morte. Ma la sua paura più grande, in principio, non era la morte, piuttosto il non trovare un senso alla sua vita e oscillare tra speranza e disperazione. Bergman è volontariamente ambiguo: il silenzio di Dio non è l’assenza di Dio. Il regista lascia un’apertura a più interpretazioni possibili: nel caso di un credente, potrebbe essere interpretato come il trovarlo nelle piccole cose, dargli per primi testimonianza; nel caso di un agnostico, il silenzio di Dio potrebbe equivalere a una possibile non-presenza. Il paesaggio circostante è un paesaggio bucolico che appartiene anche ad una certa iconografia tradizionale. Non è un paesaggio aspro e grullo che trasmette sentimenti negativi, anzi il clima è positivo e tutti gli elementi che ne fanno parte sono importanti in quanto espongono lo spettatore a un certo stato emotivo, in cui riecheggia la condizione di armonia dei personaggi. È questa una modalità rappresentativa tipica: nel paesaggio riverbera la condizione interiore dei personaggi; negli oggetti c’è una valenza simbolica, così come nella luce. C’è inoltre un’interrelazione tra forme iconiche e forme sonore: gli elementi entrano in una relazione reciproca gli uni con gli altri. Mentre inizialmente non tutto è interpretabile nella sua valenza simbolica, avviene poi un’evoluzione in crescendo per cui tale valenza simbolica è sempre più esplicita. L’evoluzione nel tempo determina il significato che l’autore vuole trasmetterci a più livelli, innanzitutto a livello analogico, simbolico e mitologico e poi at- traverso le parole, a livello razionale. Certamente, quando Bergman concepisce la scena, ci accompagna per mano, ci offre tutti gli elementi per farci comprendere ciò che sta accadendo e tali elementi sono concordanti e convergono nella trasmissione di un unico significato. Quando guardiamo la scena, non siamo così consapevoli, ma dobbiamo fare un la- voro per capire come funziona la nostra comprensione a partire da forme iconiche e sonore. Tuttavia, è l’insieme di queste forme che viene concertato dall’autore e che, evolvendosi nel tempo, veicola dei significati. Come spesso acca- de, l’esplicitazione verbale arriva alla fine, dopo che tutte le forme iconografiche e sonore sono state esposte e hanno messo in campo la nostra comprensione. In questo caso, abbiamo in primis una complementarietà fra tutti gli elementi: uno completa l’altro e concorre a veicolare un senso; talvolta essi possono essere posti in una condizione di antagonismo. Quando il cavaliere parla delle fragole, del latte, della luce, etc., già ci stiamo rendendo conto che tutto ha una valenza simbolica e che non dobbiamo interpretare ciò che vediamo soltanto alla lettera. Quando però il cavaliere pronuncia la frase “porterò questo ricordo con me delicatamente come una coppa di latte appena munto che non si vuole versare”, ci viene confermato che la no- stra interpretazione precedente delle immagini era corretta. L’uomo e il cosmo Riprendendo la relazione che si istituisce tra l’uomo e il cosmo, in questo caso abbiamo assistito a una scena nella quale le fragole, il latte, etc. sono elementi naturali che assumono una valenza simbolica, ossia sono visti in rapporto allo stato interiore dei personaggi. È questa una delle manifestazioni dell’antropomorfismo. Il primo riferimento che ci viene in mente a tal proposito è il disegno animato: nei cartoons, vediamo gli animali che parlano e cantano, gli utensili che ballano, etc. Anche qui, le fragole sorridono, il latte accoglie il cavaliere, la luce accarezza i volti, l’ambiente è confortevole. Riflettendo in generale su questo processo, ci rendiamo conto che il cine- ma, come afferma Morin, non fa che dare rappresentazione a un fenomeno universale e rivela la fisionomia antropomor- fica di ogni oggetto. È un processo che ha origine con l’origine stessa dell’umanità: è la prima forma di astrazione del pensiero, la prima forma di attribuzione di un senso altro agli oggetti del cosmo, è una forma di pensiero prima ancora dell’utensile. All’antropomorfismo si accompagna sempre il cosmo morfismo, ossia la tendenza opposta: caricare l’uomo di tendenza cosmica. Ed è proprio ciò che vediamo nella scena delle fragole: il cavaliere non si scopre in solitudine nel mondo, ma parte dell’universo; finalmente si rende conto di questa relazione reciproca che c’è tra gli esseri umani e il cosmo. I due processi non sono mai disgiunti. Anche in questo caso si tratta di un transfert: sono in atto i processi di i- dentificazione e proiezione solo che, invece di investire altri esseri umani, investono altri enti e l’ambiente. Si parla per- ciò di antropo-cosmo-morfismo. I due processi, antropomorfismo e cosmo morfismo non sono separati ma fanno parte entrambi, come lo definisce Morin, di un unico processo dialogico. È da questo che nasce tutta la retorica del linguaggio audiovisivo. Tutte le figu- re retoriche, la sineddoche, metonimia, la metafora, etc. (tropi visivi) utilizzate nel linguaggio audiovisivo, sono delle traslazioni del senso. 37 Tropo = traslazione del senso da una dimensione letterale ad un piano altro, di astrazione per cui, ad esempio, nel cine- ma è più palpabile: il visibile e l’invisibile dialogano. I sensi, declinati al plurale, sono tutta l’astrazione cui allude il vi- sibile e che è sempre invisibile. Si dice, appunto, per quanto riguarda l’immagine estetica, che il simbolico è una rela- zione tra il visibile e l’invisibile. L’antropocosmomorfismo è una relazione che potremmo definire di tipo sistemico: l’uomo è parte del mondo e il mondo è all’interno dell’uomo. Tutto questo è possibile perché, oltre al pensiero razionale, siamo dotati di un immagi- nario che lavora dentro di noi. Martedì 20 marzo Sia l’autore sia lo spettatore impiegano le procedure del pensiero analogico, simbolico e mitologico. I processi ine- renti il transfert tra l’uomo e il cosmo sono possibili grazie al fatto che, attraverso il nostro pensiero analogico, simboli- co e mitologico, diversamente da quanto accade con il pensiero empirico e razionale, compiamo operazioni diverse. Immaginario e pensiero 1. Pensiero logico, razionale ed empirico: distingue fra immagine e reale. Il pensiero logico, razionale ed empirico mantiene viva la consapevolezza che avvertiamo davanti a scene di film particolarmente impressionanti; 2. Pensiero analogico, simbolico e mitologico: unifica analogicamente e simbolicamente la realtà e la sua immagine, reifica le proprie immagini, dà corpo e vita reale ai personaggi della sua invenzione, li installa nel suo spazio e nel suo tempo che non sono quelli consueti. È viva l’analogia tra ciò che vediamo e la vita: i personaggi ci si presenta- no nella loro realtà. Reificazione della realtà: le immagini non sono più strumenti per porci in comunicazione della realtà, ma sono la realtà stessa. I personaggi sono avvertiti come persone, con una loro psicologia, una loro cultura, appartenenti a una determi- nata società. Il modo in cui ci rapportiamo allo spazio e il tempo, tuttavia, mette in moto in noi delle reazioni anche di tipo cenestesico. Il tempo è tutto psicologico, è interiore, è dei personaggi; non è il tempo oggettivo che scorre in manie- ra continua, ma è soggetto a una serie di trasformazioni e di variazioni che tendono a incidere sulla nostra emotività e del senso del significato. È interessante notare come, durante la visione di un audiovisivo, entrambe le forme di pensiero sono attive in noi, complementari, per quanto antagoniste ed opposte. La distinzione che attuiamo tra l’una e l’altra forma di pensiero è a fini didattici, per spiegarne le finalità. L’immagine tecnologica, come abbiamo detto, ci offre un’“illusione/impressione di realtà”: già il termine ci mostra un binomio, l’illusione e la realtà, opposte ma compresenti. Effetto stereo cinetico: effetto percettivo che ci offre un’illusione di profondità (stereo) a partire del movimento (cine- si). Fondamentale nell’ambito del cinema, è stato studiato attraverso esperimenti: in una stanza completamente buia è stata mostrata l’immagine di un cerchio colorato con il centro anch’esso colorato. Quando il cerchio, montato su un di- sco di cartone, veniva fatto ruotare, si produceva quell’illusione ottica che è appunto l’effetto stereo cinetico. L’illusione ottica consisteva nel vedere non tanto il cerchio con il punto in mezzo, ma un cono che, a seconda del fatto che la rota- zione avvenisse in senso orario o antiorario, aveva la punta che sprofondava e si allontanava dallo spettatore o vicever- sa, sembrava avere una sua tridimensionalità. Perciò, posto che il disegno della circonferenza e del punto sono su una superficie bidimensionale, il cono in che spazio si colloca? Nella nostra mente, anche se l’input proviene dal reale. Si tratta di una sorta di “allucinazione”, di un’illusione ottica. Il pensiero analogico installa i personaggi nel suo spazio, che non è quello reale e concreto. Il modo in cui perce- piamo quello che sta nell’immagine si posiziona sul confine tra la realtà tangibile e la dimensione dell’immaginario, che molto ha a che fare con l’illusione. Edgar Morin definisce l’immagine come l’atto costitutivo del reale e dell’immaginario e non semplicemente il loro punto d’incontro: l’immagine vive di questa relazione tra immagina- rio e reale. 3. Pensiero estetico e pensiero magico: cinema come medium magico: il movimento opera una trasfigurazione e per- ciò una risignificazione delle cose e del mondo che si rivela funzionale alla comprensione soggettiva del cosmo e 40 proche e viviamo una vera e propria esperienza sensoriale che ha un suo correlato emotivo: le sensazioni fisiche sono necessariamente legate alla dimensione emotiva. Entra altresì in gioco la dimensione empatica, ossia quella forma di emotività in sintonia con l’immagine. Hans-Georg Gadamer e l’esperienza di verità Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco, parlava a questo proposito di risonanza, per esempio tra il ritmo veloce delle immagini e la predisposizione umana all’agitazione. Nel secondo livello di comprensione, ciò a cui il nostro sensorium è esposto sono forme colte nel loro significato, in un processo che chiama in causa il processo logico, razionale ed empirico. Viene sollecitata una riflessione su quanto viene visto e spesso – siccome si tratta di un’esperienza empatica e siccome entrano in campo l’analogia e la soggettivi- tà – ciò su cui riflettiamo non lo avvertiamo come distaccato da noi, ma la riflessione diviene un modo per riflettere su noi stessi. Al terzo livello della comprensione, dopo il cogliere in sé, avviene qualcosa che non si verifica spesso, si acquisi- sce la consapevolezza che ciò che abbiamo visto può cambiarci. Gadamer definisce tale comprensione di terzo livello quale esperienza di verità. Se pensiamo ai libri o ai film che hanno cambiato la nostra vita, che ci hanno aperto nuove prospettive, sono pochi, a testimonianza del fatto che questo terzo livello di comprensione si verifica raramente. Quando c’è un comprendere molto profondo, si radica nella propria identità qualcosa di nuovo. Ciò avviene non tanto attraverso lo studio, l’applicazione del pensiero logico, razionale ed empirico, ma come forma di esperienza (mediata, ma “di veri- tà”). Ma che cos’è quest’esperienza? Gadamer la definisce “la nozione meno definita e forse tra le più studiate in tutta la storia della filosofia”. Ciò che ormai è chiaro è che essa ha una sua forte realtà nel sensorium, nell’emotività, nell’interiorità, ha una sua concretezza. Gadamer aggiunge che è un’esperienza di verità: in quel momento, la verità viene vissuta come parte di una serie di altre esperienze di vita che si fanno, con l’unica differenza che il rapporto con il mondo non è diretto, ma mediato. Gadamer ne parla in Verità e metodo (1960), testo molto importante nell’ambito degli studi sull’ermeneutica, che investono discipline diverse, dalla giurisprudenza alla teologia alle scienze umane (spe- cialmente nel contesto dell’estetica è nato un ambito di studi di tipo ermeneutico). Che rapporto c’è tra l’esperienza e la verità? Quando usa la parola metodo, Gadamer si riferisce alle scienze, al sapere scientifi- co, ma tralasceremo questo aspetto. È però importante soffermarci su questo terzo livello della comprensione, che viene studiato nell’opera di Gadamer. «Nell’esperienza dell’arte vediamo attuarsi un’esperienza che modifica realmente chi la fa. In questo modo, si ripropone, in una maniera inedita, il problema della verità di quel comprendere che perseguono le scienze dello spirito.» Il vero di cui parla non può es- sere il vero delle discipline scientifiche, speculabile in maniera oggettiva, ma è comprensibile attraverso la soggettività che, quando viene così tanto coinvolta, viene modificata dall’esperienza. «Il comprendere è il modo d’essere stesso del design.» Siamo implicati dentro un “accadere di fatti” che percepiamo non in maniera distaccata, ma come un qualcosa che ci riguarda e ci coinvolge, che comprendiamo fino ad un trasformare noi stessi. Paul Ricœur, l’estetica e la “rivelazione” Anche Paul Ricœur si è posto il problema dell’“esperienza di verità”. «Grazie alla finzione e alla poesia, si aprono nella realtà quotidiana nuove possibilità di essere nel mondo.» Il mondo non è quello che normalmente siamo portati a vedere, ma è trasfigurato, diventa altro da sé (es. la ciotola di latte non contiene una certa quantità di liquido bianco, etc., ma allude a tutt’altro, è un simbolo, una nuova possibilità di vedere ciò che normalmente è invisibile nella realtà). Ricœur si riferisce all’esperienza estetica in senso lato. Quando parla di poesia, non intende a una composizione in ver- si, si riferisce all’estetica in generale e alla sua capacità di trasfigurare la realtà, di mostrarcela attraverso il pensiero analogico, simbolico e mitologico. «Finzione e poesia mirano all’essere non più sotto la modalità dell’esser-dato [di oggettivo, che dobbiamo pren- dere così com’è] ma sotto la modalità del poter-essere. La realtà quotidiana subisce una metamorfosi in favore di ciò che si potrebbe chiamare variazione immaginativa che opera sul reale.» Contatto audiovisivo con l’immagine (relazione complessiva)  Coinvolgimento emotivo ed empatico  Riflessione logica, razionale, empirica (terzo livello di comprensione)  Comprensione e trasformazione di noi stessi (verità) 41 «L’acquisizione del senso del testo è una proposizione del mondo.» Una delle innumerevoli possibili interpreta- zioni del mondo non è mai da intendersi soltanto come l’intenzione dell’autore nascosta dietro al testo, non c’è soltanto l’autore ad offrirci un significato, ma ci sono innanzitutto Io, lo spettatore che in quel momento, per vedere l’invisibile, sono coinvolto appieno e vivo un’esperienza. L’interpretazione ricavata molto spesso dipende più dallo spettatore che non dall’autore; l’impiego della soggettività è talmente forte che tutta la propria cultura, il proprio passato, le condizioni del momento entrano nel gioco interpretativo e lo influenzano. Quell’interpretazione che io do, quindi, mi dice qualcosa di me e del mio modo di vedere il mondo, oltre che dell’autore e del suo modo di vederlo. La parola testo non è necessariamente legata ad un testo scritto, ma in questo caso è legata al testo audiovisivo. Questa interpretazione non è un qualcosa di recondito da andare a scovare nelle intenzioni dell’autore, ma è una rive- lazione che presuppone il coinvolgimento dello spettatore (o del lettore, in base alla tipologia di estetica). «Comprendere, dunque, è innanzitutto comprendere se stessi grazie al testo. Comprendersi significa ricevere dal testo le condizioni per l’emergere di una trasformazione di sé.» L’opera crea delle condizioni percettive e sensoriali che ci dispongono a loro volta in una condizione specifica affinché siamo coinvolti appieno nella nostra soggettività. Quan- do questo coinvolgimento è completo, ne discende un’ulteriore condizione: la trasformazione di noi. «Il momento del “comprendere” risponde dialetticamente all’essere in situazione come progetto dei possibili più propri entro le situazioni stesse entro cui ci troviamo.» Siccome stiamo facendo un’esperienza e la stiamo farcendo con la nostra specifica soggettività, emerge una delle infinite e possibili interpretazioni. Se rileggessimo dopo anni il libro che ci ha cambiato la vita, forse lo leggeremmo con occhi diversi e magari non ci darebbe quello che ci ha dato un tem- po; questo perché le circostanze della nostra vita sono cambiate. Quando facciamo l’esperienza mettiamo in relazione il testo con la nostra esistenza, la nostra soggettività di quel momento. E se ciò cambia per una persona stessa, figuriamoci da una persona all’altra. Il termine chiave di questa citazione è essere in situazione: in un certo momento della mia vita ho una certa disposizione di interesse e di attenzione verso determinati problemi della mia esistenza e del mondo, ho una certa sensibilità. Altro concetto chiave di Ricœur è quello di arco ermeneutico o circolo dell’interpretazione: la spiegazione e la comprensione si influenzano reciprocamente nell’interpretazione. Interpretare dipende molto dal comprendere però an- che, in parte, dallo spiegare. «Comprensione e spiegazione non si oppongono come due metodi separati.» : la compren- sione accompagna la spiegazione e la include; viceversa, la spiegazione sviluppa la comprensione. Un metodo per comprendere l’audiovisivo Questi tre livelli vanno da una dimensione più generica e superficiale verso una dimensione più profonda, che si radica nel mio modo di essere fino a cambiarmi. Riprenderemo questi livelli per acquisire un metodo: l’interpretazione per l’audiovisivo. 1. Comprensione di primo livello (cogliere l’insieme, percezioni sensoriali, percezione empatica). Quando parliamo di sollecitazione per- cettiva e sensoriale, parliamo innanzitutto delle forme che costituiscono lo stimolo del nostro sistema percettivo e sensoriale. Le forme dramma- turgiche (composizione dell’inquadratura, fotogenia, dimensione musica- le, etc.) investono il nostro sensorium. Per esempio, anche il ritmo è una forma in quanto la forma non è soltanto una configurazione visiva, ma può essere anche di tipo sonoro, in ogni caso ha a che fare con lo spazio e con il tempo. Il ritmo può essere anche visivo, se adattato allo scorrere delle immagini e può trasmettere sensazioni di inquietudine o rilassatezza. Questo livello di relazione con l’audiovisivo si ha specialmente nell’età infantile, quando non si hanno ancora la capacità e le competenze per rintracciare una storia al di là delle sollecitazioni sensoriali date dalle immagi- ni. Come afferma Morin, se ci fosse in noi solo questo primo livello di comprensione, l’esperienza sarebbe nient’altro che vedere il dispiegarsi di forme in un flusso senza senso. Oltre a ciò, in questo livello entra in gioco anche un’esperienza di tipo empatico, che appartiene ad un livello di comprensione più complesso. Identificazione e proiezione, infatti, sono già in atto e investono tanto i per- sonaggi quanto gli enti del cosmo. Entra subito in gioco la dimensione emotiva: i personaggi diventano dei soggetti a cui reagiamo in un modo empatico; entriamo in risonanza con ciò che vediamo. 3. Comprensione di terzo livello: l'esperienza di verità 2. Comprensione di secondo livello: l'esperienza cognitiva, la riflessione razionale 1. Comprensione di primo livello: sollecitazione visiva e sensoriale, empatia 42 2. Comprensione di secondo livello, l’esperienza cognitiva: entrano in gioco il pensiero logico, razionale ed empirico e la storia. Il nostro pensiero è chiamato a capire i nessi di causa-effetto tra le azioni e le tematiche trattate. Gli strumenti fondamentali di questa fase sono: a. La parola, elemento chiave con cui il pensiero logico, razionale ed empirico reagisce; b. Il montaggio, che pone in una successione logica le azioni e gli eventi. Per essere coinvolto questo tipo di pensiero, ciò che accade dev’essere dotato di verosimiglianza altrimenti il coinvolgimento difficilmente sortisce effetti positivi. Come affermano Gadamer e Ricœur, c’è poi il gioco dei possibili, le possibilità dell’interpretazione dipendono da variabili infinite. La storia può andare in una direzio- ne che è sempre al confine tra il regno della probabilità e quello della possibilità: non tutto ciò che è impro- babile è impossibile. La dimensione estetica è quella propria non tanto del probabile, ma soprattutto del possi- bile: è la finzione, una dimensione altra, un’apertura ai possibili che non necessariamente sono probabili che ci fa trascendere la realtà bruta delle cose, i dati di fatto, è l’apertura creativa. Per esempio, nell’86, Wenders ela- bora il progetto del film Il cielo sopra Berlino, film in cui egli immagina qualcosa che allora era inimmaginabi- le, ossia la caduta del muro di Berlino. E lo fa non tanto rappresentando la caduta reale del muro, ma mettendo in scena tutta una serie di attraversamenti immaginari che degli “angeli laici” compiono. Wenders ha dovuto creare questo artificio di finzione per far accettare al pubblico qualcosa che all’epoca era considerato inimma- ginabile, improbabile e quindi impossibile: la caduta del muro. Da lì a due anni, la storia gli ha dato ragione: l’improbabile è diventato impossibile. Nel ’43 era impensabile e quindi improbabile che Hitler cadesse, ma la storia lo ha reso possibile. In questo senso, bisogna quindi tracciare una distinzione tra ciò che è improbabile e ciò che è impossibile: da sempre, l’arte è considerata l’ambito dell’immaginario, l’ambito delle cose possibili anche se improbabili (co- me affermava Ricœur). 3. Comprensione di terzo livello, esperienza di verità: l’esperienza di verità sembra sia più probabile, possibile quando lo spettatore riconosce, ha coscienza che quello che sta vivendo lo riguarda. Talvolta questa consape- volezza deriva da una riflessione anche di tipo autocritico (es. mi riconosco in quel personaggio che ha com- messo quell’errore e sta cercando di rimediare). Si tratta di guardarsi da un punto di vista altro, superiore, tale da offrire una prospettiva molto ampia. Lunedì 26 e martedì 21 marzo, mercoledì 4 aprile Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968 Kubrick è uno dei registi più importanti della tarda modernità in ambito cinematografico. La sua cultura è molto influenzata dalla filosofia di Nietzsche e Heidegger, ed egli ha uno sguardo molto critico sulla società e sulla cultura oc- cidentali. Per questo, affronta tematiche estremamente vaste e complesse, di cui una delle più tipiche della sua poetica è quella della violenza, declinata in numerosi film in modalità molto diverse le une dalle altre. La sua filmografia è infatti vasta e variegata.  Barry Lindon: ambientato nel ‘700, il tema della violenza è affrontato attraverso la figura del protagonista, im- pegnato in una delle più grandi guerre d’Europa;  Il dottor Stranamore: film sulla guerra e sulla bomba atomica;  Arancia meccanica: riflessione molto vasta sulla violenza sociale, che si esprime nella quotidianità;  Shining, Full metal racket, Orizzonti di Gloria, etc. Ogni volta, nella sua ricerca, Kubrick sperimenta modi differenti di affrontare il tema, in diversi contesti storici, in diverse guerre che hanno afflitto la storia umana, nella quotidianità. La violenza viene studiata non soltanto nella sua manifestazione più evidente, ossia quella fisica, ma anche sotto il punto di vista psicologico, nelle dinamiche iper- soggettive, sociali, in tutte le sue sfumature più subdole. La violenza è quindi indagata a più livelli. In Barry Lindon, per esempio, il contesto è di guerra, ma la violenza appartiene è anche alla società in sé per sé, in quanto è coatta, censura e determina un’esistenza misera per chi ne fa parte. Kubrick sperimenta diversi generi: il film storico, il genere bellico, il film drammatico, la commedia (es. Il dottor Stranamore), il genere fantascientifico (come accade apparentemente in 2001, Odissea nello spazio). In effetti, la spe- rimentazione che l’autore opera nell’ambito di generi cinematografici, registri espressivi, stili, rivela come egli voglia 45 Lunedì 9 aprile Riferimenti a Così parlò Zarathustra di Nietzsche  L’eterno ritorno;  La morte di Dio;  Il ruolo della scienza nella conoscenza dell’uomo;  La colonna sonora di R. Strauss è ispirata al libro di Nietzsche. L’importanza dello sguardo Le ragioni per cui 2001, Odissea nello spazio è un film attuale è la messa in prospettiva della questione dello strumento inteso quale potenziamento delle facoltà umane, prima fra tutte la vista. L’insistenza sull’occhio va riportata a due questioni nietzschiane: 1. La volontà di potenza: l’occhio che osserva e controlla, è lo strumento umano che più di altri manifesta la vo- lontà di potenza. Superata la fase primaria del potenziamento delle facoltà umane (ossia, superata la fase dell’osso) si arriva alla constatazione dello strumento che più di altri costituisce manifestazione della volontà di potenza: lo schermo. In seguito, Kubrick inizia a intraprendere con lo sguardo dello spettatore un gioco molto complesso: è come se invitasse lo spettatore ad osservare gli occhi, gli sguardi, l’infinita presenza di monitor. Interviene, a fronte di tutta questa insistenza, una strategia che investe l’occhio stesso dello spetta- tore: è in gioco non soltanto l’occhio come oggetto della nostra attenzione, non c’è solo la volontà dell’autore di focalizzare l’attenzione dello spettatore su degli elementi. La strategia di Kubrick riguarda lo sguardo dello spettatore stesso, che è investito attraverso le immagini. La lentezza del film è dovuta al fatto che l’autore vuole creare un disagio nello spettatore che di conseguenza lo ponga nelle condizioni di riflettere, porsi delle domande. L’apparizione del monolite L’apparizione del monolite non è casuale. L’accostamento di immagini, la forma di montaggio che ha tre funzioni: 1. Rappresentare in maniera lineare un’evoluzione La prima funzione è quella di rappresentare in maniera lineare un’evoluzione che porta alla cre- azione, all’intuizione, all’idea di strumento come arma di offesa che permette all’uomo di com- piere quel passaggio cruciale dall’essere erbivoro a carnivoro. Questo tipo di montaggio, il più semplice, è stato definito negli anni ’20 da “montaggio narra- tivo”, in quanto rappresenta una storia. Kulešov, Pudovkin e Ejzenštejn parlavano di “montag- gio epico”: quell’accostamento di inquadrature tenendo a mente la loro successione, ossia i rap- porti temporali di causa-effetto che determinano lo sviluppo dei fatti. (“Epico” perché è un montaggio che ha a che fare con l’épos, la storia da rappresentare). Nell’efficace metafora che Ejzenštejn impiega, potremmo dire che le inquadrature sono consi- derabili come i vagoni di un treno, gli anelli di una catena. 2. Funzione simbolica Nella scena dell’osso, Kubrick mette in campo un tipo di montaggio simbolico. Interrompe la sequenza “epica” per inserire inquadrature chiave, in cui vediamo innumerevoli significati. È ciò che accade anche qualche istante dopo quando l’osso volteggia nel cielo e improvvisamente si trasfigura in astronave. È un tipo di montaggio che mette in campo il pensiero simbolico, analogico e mitologico. Quel- lo che accende questa dialogica è ciò che Ejzenštejn definiva come l’azione reciproca che lega le inquadrature. La serie di inquadrature che abbiamo analizzato come montaggio epico, senza questo tipo di inquadratura avrebbe perso moltissimo significato, per non parlare dell’immensa ellissi temporale che trascorre tra l’inquadratura dell’osso e l’astronave. L’inquadratura precedente esercita sull’inquadratura che segue un’azione reciproca: le inqua- drature entrano in una relazione di influenza reciproca che Ejzenštejn chiamava “dialettica” (ri- facendosi alla dialettica hegeliana e marxiana). Quando vediamo le inquadrature in questo ordi- ne, siamo portati a cercare i nessi che le legano. Ci accorgiamo che i nessi non sono soltanto temporali, ma hanno un portato simbolico molto più ampio. 46 3. Funzione intellettuale Ejzenštejn parlava del principio del montaggio intellettuale o principio drammatico. Quanto messo in campo dal regista, il tipo di inquadrature scelte e il loro ordine, mira a sollecitare il pensiero logico, razionale ed empirico. Ejzenštejn aveva intuito che – mentre il pensiero analo- gico si fonda sulla similarità e sulla congiunzione – il pensiero logico, razionale ed empirico si fonda sulla disgiunzione, sul conflitto. È il tipo di montaggio che chiama in causa il monolite. Quello a cui esso allude, inserito in una sequenza di questo tipo, è il pensiero, che costituisce una svolta nell’evoluzione e da cui deri- vano quelle immense conseguenze oggetto del film. La drammatizzazione è all’origine di ciò che fa scaturire la riflessione ed è ciò che permette il passaggio da un livello letterale, concreto e materiale ad un livello di maggiore astrazione in cui entriamo nell’ambito del pensiero e delle idee. Ma come si realizza questo salto? Ejzenštejn lo spiega rifacendosi alla storia della nascita degli ideogrammi cinesi: l’ideogramma è una forma di rappresentazione che diventa scrittura. Il passaggio è qui cruciale perché l’ideogramma racchiude in sé già una raffigurazione che rimanda al significato. Come si può, con un ideogramma, rappresentare qualcosa di astratto e che sarebbe quindi di per sé irrappre- sentabile? Ejzenštejn ritrova in questo qualcosa di molto utile per il linguaggio visibile. Per esempio, l’atto di abbaiare deriva dalla sovrapposizione di altri due ideogrammi, corrispondenti a “bocca” e “cane”. Bocca + cane = abbaiare. L’accostamento di due elementi molto concreti dà origine ad un’idea che di per sé sarebbe irrappresentabile graficamente, ossia l’atto di abbaiare. È il con- flitto che si determina tra la bocca e il cane a dare origine ad un’idea che è di un grado diverso rispetto alle due immagini impiegate. In effetti, se con il montaggio epico la sequenza somma insieme tante inquadrature e fornendo infine una storia, con il montaggio drammatico quello che abbiamo non è una somma, ma un prodotto. Bocca x cane = abbaiare. Il frutto di questo accostamento è ad un livello altro, quello dell’astrazione. Allo stesso modo, è la diversità delle inquadrature che genera quel conflitto moltiplicatore di significati che trasla i significati da un livello letterale ad un livello astratto. Martedì 10 aprile Anche nelle pubblicità contemporanee tali modalità vengono utilizzate, sebbene con significati meno importanti di quelli contenuti il 2001, Odissea nello spazio. Il monolite A una prima interpretazione, il monolite ci appare in conflitto con il contesto primitivo in cui è inserito. La sua forma lo qualifica quale un prodotto costruito con tecniche estremamente avanzate (è levigato, regolare, etc.), in una civiltà avanzata. Il monolite riappare poi una seconda volta in un momento in cui sembra che uno degli ominidi stia pensando. Ci pare allora che si possa costruire un nesso tra il processo di pensiero dell’ominide, momento segnerà il passaggio a homo sapiens sapiens, con il monolite. Se inizialmente i primati avevano un certo terrore del monolite (per via della sua imponenza e del suo colore), se- condariamente esso è inserito in una parte dell’epistasi del film (la parte centrale) che si svolge tra l’astronave e il pia- neta Clavius. Gli astronauti e il monolite Le modalità di avvicinamento degli astronauti al monolite sono le stesse dei primati dinnanzi ad esso. In un paio di inquadrature ravvicinate, la mano dell’ominide e la mano dell’astronauta, che sfiorano con cautela il monolite, ven- gono legate da un’analogia. Sono passati milioni di anni, ma non molto è cambiato: anche se ha già conquistato la terra, anche se ora si accinge a conquistare lo spazio, l’uomo è sempre mosso da emozioni simili a quelli dell’ominide (paura, conquista, etc.). Ma di cosa si è dotato l’uomo per dispiegare appieno la sua volontà di potenza e per tenere a bada que- sta paura? Lo sguardo, la tecnica. Infatti, appena l’astronauta vede il monolite, lo fotografa. 47 Tuttavia, l’incontro non ha conseguenze, non vi sarà sviluppo alla vicenda, come non sapremo più nulla delle foto e delle immagini riprese. L’autore non ci dota di indizi sufficienti per progredire nell’interpretazione di che cosa il mo- nolite rappresenti, né determina delle implicazioni. Ossia, ciò che segue questo incontro non ha nulla a che vedere e il mistero del monolite rimane quindi intatto. Anche questa è una delle forme di disagio che Kubrick impone sottilmen- te allo spettatore. Ciò che guardiamo e ciò che ci riguarda Gli anni ’60 sono anche gli anni, in ambito artistico, del minimalismo. Tony Smith, scultore appartenente a questa corrente, ha prodotto innumerevoli opere tra cui I dieci elementi che, dal punto di vista formale, sono difficili da interpretare. Abbia- mo delle analogie visive e formali evidenti, ma Nel ’66, due anni prima di 2001, Odissea nello spazio, Smith realizza The wall. Il ruolo che Tony Morrison ha assegnato a queste composizioni era quello di fare ir- ruzione nella cultura visuale con qualcosa che si sottraesse alle interpretazioni logi- che, razionali ed empiriche ma anche analogiche, simboliche e mitologiche. Qualsiasi tipo di interpretazione viene a priori invalidata. L’intento è quello di proporre, di in- trodurre nella cultura visuale un’anomalia irriducibile a qualsiasi tipo di discorso, spiegazione, comprensione. Secondo l’efficace formula di uno di questi artisti, Franck Stella: what you see is what you see. Che cos’è Dio, l’ignoranza, il mistero, la morte? Tutte queste cose o forse no. Quello che vedi ha molto a che fare con ciò che ti riguarda: se sei credente e nell’opera vedi Dio, allora sarà così. È una sfida a quella cultura visuale che vuole trovare risposte ed ha fame di conoscenza e, quindi, di controllo. Anche la cultura visuale, così come per Nietzsche era la scienza, è animata dalla medesima volontà di potenza: di capire, di possedere con la mente, come se tutto potesse essere spiegato. Il riferimento implicito è ad una delle più gran- di acquisizioni di tutti i saperi scientifici della tarda modernità: l’acquisizione dei limiti della conoscenza. Viene messa in discussione l’idea di un progresso e sviluppo infinito della conoscenza, in ambito scientifico come umanistico (Gian- ni Vattimo, il paradigma del pensiero debole). Riprendendo 2001, Odissea nello spazio, la didascalia “Oltre l’infinito” dichiara la catastrofe del film (intesa in senso aristotelico la metamorfosi, il capovolgimento). Finale del film https://youtu.be/Qkf5AvU1uWY Sul finale, la navicella approda in una casa neoclassica con il pavimento illuminato. Avvicinandoci alla capsula ci affacciamo all’oblò e vediamo David in piedi davanti a noi, in mezzo agli schermi. Ma c’è qualcosa di strano, sembra un po’ invecchiato e poco sereno; guardiamo i suoi occhi atterriti, la sua pelle rugosa e cerchiamo di capire il perché delle sue condizioni. È questa un’inquadratura tipo di spalla che ci mostra il personaggio immerso in un contesto e ciò che sta vedendo: è il suo punto di vista sull’ambiente circostante. Da quando è uscito dalla capsula, non è più la nostra visione oggettiva, ma il punto di vista di David. David si guarda allo specchio e subito capiamo che nello specchio c’è qualcosa che Kubrick vuole mostrarci. Si osserva con una certa pre- occupazione, con quello stesso senso di estraneità che abbiamo provato prima nel vederlo così invecchiato e atterrito. Che si stia guardando allo specchio lo capiamo dal fatto che, attraverso l’inquadratura, continuiamo ad avere una sorta di inquadratura di spalla. L’inquadratura si allontana poi, non sembra più essere allo specchio e lo vediamo in maniera oggettiva. Sta guardando da qualche parte, il suo sguardo è diretto verso un oggetto di attenzione abbastanza lontano. Effettivamente, si è accorto che c’è qualcuno seduto lì al tavolo con lui. L’uomo si alza, si avvicina e guarda David. Gli somiglia. E iniziano a sorgere dei sospetti. Poi si volta e c’è un altro uomo nel letto, un vecchio. Questi, morente, con le ultime forze indica qualcosa. È un monolite, che è appena comparso davanti a lui. Come l’inquadratura si volta, sul letto il vecchio è scomparso e c’è un feto all’interno di una placenta. David guarda se stesso in diverse fasi della vita: nel momento in cui ci si guarda allo specchio, ci si riflette e si riflette. David, infatti, rappresenta simbolicamente l’essere umano, nella sua storia. Filogenesi e ontogenesi vanno quindi di pari passo, la storia dell’umanità e la storia individuale – specialmente a questo punto del film, nel finale, in cui si raggiunge la massima densità di significato e si tirano le fila del discorso – hanno una loro corrispondenza. È qui che emerge la catastrofe, la metamorfosi: l’uomo guarda se stesso, sconcerto sulla propria debolezza, vecchio e chi- no sul tavolo. Quando l’ultimo David, morente, con l’ultimo slancio vitale, riesce ad indicare il monolite – immenso e inquietante, in un ambiente chiaro e luminoso – Kubrick fa finalmente un’enunciazione. Quel monolite, che all’inizio aveva segnato il passaggio da homo habilis a homo sapiens, adesso è il Limite: della conoscenza, della volontà di po- tenza… è il limite umano di chi in realtà è caduco e transitorio. In punto di morte, in extremis, questa consapevolezza viene raggiunta e frena la volontà di potenza umana di sapere, conquistare, etc. In effetti, tutto inizia con il guardarsi allo specchio. Ed è proprio da qui che prende avvio un nuovo inizio. Mettendo insieme tutti questi fattori – minimali- The wall, 1966, Tony Smith 50 campo lasciano immaginare un monologo interiore. La voce fuoricampo femminile, invece, la attribuiamo alla madre del protagonista. L’esperienza sensoriale ed empatica che facciamo fin dalle prime immagini del film è voluta- mente resa non del tutto intelligibile perché l’autore privilegia piuttosto la nostra condivisione di uno stato di confusione interiore del personaggio. Senza indagare sulla struttura drammaturgica, i nessi, etc., ad un livello base di interpretazione, ricaviamo un’impressione di caos e confu- sione, malessere e disagio. In questo consiste l’esperienza che l’autore vuole farci vivere per coinvolgerci. Attraverso l’alternanza di sequenze, di contesti e di piani della rappresentazione, siamo immessi in un flusso di immagini che ci disorienta costantemente. Condividiamo con il protagonista la stessa condizione di caos interiore. I dialoghi sono altrettanto vaghi, frammentari. Non c’è quasi mai una frase di senso compiuto che in maniera didascalica espliciti il malessere del protagonista. La frammentarietà della parola è fondamentale a determinare l’intelligibilità generale. Tutti i fattori convergono coerentemente a determinare un’esperienza sensoriale ed empatica di confusione, la stessa provata dal protago- nista. Tra i pochi elementi chiari del film, troviamo la focalizzazione: l’autore ci indica chiaramente chi è il protagonista. Tutto, o quasi, è osservato dal suo punto di vista ed è con lui che si instau- rano i processi di identificazione e proiezione. Siamo indotti a cercare delle spiegazioni per ve- nire a capo dell’ambiguità del film e nel farlo non possiamo far altro che attingere alla nostra personale esperienza e proiettare i contenuti della nostra interiorità sul protagonista. I grandi autori creano appositamente nello spettatore una condizione di disagio; escono dai nor- mali schemi rappresentativi per porre lo spettatore in una condizione inedita che gli permetta di essere attivo nell’interpretazione del film. Non c’è una focalizzazione vera e propria sul personaggio della madre anche se il regista solle- cita nello spettatore un’identificazione con essa. Ciò non avviene con il personaggio del padre, di cui viene messo in evidenza il carattere autoritario che egli esercita sui film. Sequenza: l’uomo e il cosmo Prima della lunga sequenza incentrata sulla natura, avevamo l’impressione di aver compreso i piani della struttura drammaturgica del film. In seguito essa viene messa in discussione dall’autore che cerca di sollecitare nello spettatore delle riflessioni. Quali funzioni assolve la se- quenza? L’ordine delle sequenze è dato da una sorta di sviluppo evolutivo così come l’ha spiegato la scienza (formazione della Terra e dei continenti, brodo primordiale, immagini al microscopio elettronico sulla moltiplicazione delle cellule, formazione di organismi complessi nell’acqua fi- no ad arrivare ai rettili, l’essere umano, l’apparizione di un feto in una placenta, nascita di un bambino). Assistiamo ad una storia evolutiva, con tanto di dinosauri, rappresentati nella loro ag- gressività e violenza. Troviamo delle analogie sulla vita umana e della terra – lo stesso film si chiama L’albero della vita – che ci invitano a cogliere delle similarità tra la genesi della terra e lo sviluppo umano. In effetti, osservando per intero la sequenza, ci accorgiamo di come l’uomo sia solo una parte del cosmo, come il suo corpo sia fatto dagli elementi costituenti del cosmo (acqua, minerali, cellule), come esso sia simile nella sua essenza a tante altre forme di vita. Il transfert tra l’uomo e il cosmo, questo scambio permette di riconoscere elementi comuni all’uno e all’altro ente. Il pensiero analogico è sollecitato da analogie formali, visive. Il pensiero simbolico ci lascia intravedere un sentire ed un pensare la vita umana e del cosmo insieme. L’uomo non solo contiene tanti degli elementi presenti nel cosmo, ma sono organizzati nella stessa maniera; l’evoluzione del singolo essere umano è simile all’evoluzione di ogni tipo di vita nel cosmo. Facendo riferimento ad una frase di Tommaso d’Aquino che viene pronunciata all’inizio del film e che ripropone la duplicità dell’uomo sospeso tra natura e grazia, scopriamo che Sean Penn ha ricevuto un’educazione cattolica. 51 Attraverso questa sequenza, l’autore vuole farci entrare in un senso più ampio. La natura viene rappresentata nei suoi caratteri più potenti e impressionanti, nella sua forza d’istinto più prepotente. Questa forza della natura talvolta si esprime ed evolve (es. scena dei dinosauri che lottano) in conflitto, in quel momento che determina l’evoluzione della vita. Viene mostrata la metamorfosi continua, la trasformazione dalle forme più semplici a quelle più com- plesse. In questo consiste la storia evolutiva. Nella poetica del regista, gli elementi naturali sono importanti tanto quanto i dialoghi: formano un discorso, da intendersi in modo simbolico, hanno un valore semantico molto ampio. O la via della Natura o la via della Grazia La via della Grazia è quella che, più che il conflitto, segue l’unione e la comunione. Le visioni al microscopio delle cellule che si moltiplicano danno luogo alla complessità degli organismi: è l’idea della creatività, della complicità, del formare un qualcosa di più: una vita sempre più e- voluta. Stando all’interpretazione che l’autore ci propone, la via della Grazia viene simbolicamente in- carnata dalla figura della madre, mentre la Natura è rappresentata dalla figura del padre. In effet- ti, assistiamo ad immagini molto intense della vita dei bambini con la madre. Le due vie Natura e Grazia sembrano lungo tutto il corso del film inconciliabili; padre e madre sono agli antipodi nelle loro visioni e per questo sono spesso in disaccordo, sembrano non poter trovare alcun tipo di conciliazione. Comprensione di secondo livello Comprensione di terzo livello Critica al sogno americano Viene messa in discussione la visione della vita del pa- dre fatta di competizione, convinzioni. La critica che l’autore muove è rivolta a tutto un sistema di valori e ideali che è poi quello su cui si fonda il “sogno americano”, il concetto del self-made man, l’uomo che si è fatto da solo, che si impone attraverso la forza, che si fa strada attraverso la furbizia e non l’intelligenza. La riflessione dell’autore riguarda il tema dell’educazione e della responsabilità di un padre nei con- fronti dei figli. La critica è mossa a quell’educazione fatta di violenza e contraddizioni portata avanti dal padre, in con- trapposizione con l’educazione data invece dalla madre. Questi due tipi di relazione che ciascun genitore ha con i figli restano inconciliabili nel protagonista, perché vissuti fin dall’infanzia. Il discorso si dispone quindi su almeno tre livel- li: 1. L’individuo e il cosmo; 2. L’individuo in relazione alla specie e alla natura: la singola vita dell’uomo in relazione, attraverso l’immagine della fecondazione e della nascita del bambino (il fratello del protagonista); 3. Dimensione sociale, culturale: l’uomo inserito in un preciso contesto sociale. Il film è incentrato su due questioni: 1. Trasformazione evolutiva: il cambiamento, la transitorietà, l’impermanenza; 2. Dialogiche: Natura e Grazia, il passato e il presente, la vita e la morte, la compassione e la violenza, la gioia e la sofferenza, prosa e poesia. Il protagonista sembra costantemente posto in tensione tra questi estremi che sembrano inconciliabili. Tematiche principali:  L’uomo e il cosmo;  Natura e Grazia;  Grazia umana e tema religioso (religiosità del padre, religiosità passiva della madre, re- ligiosità superficiale del bambino);  La morte: tutto parte dalla morte a 19 anni del fratello del protagonista. La riflessione che ne sorge è più ampia, sia nel protagonista, sia nello spettatore;  Critica alla dimensione sociale americana; 52 Il finale Il finale è all’insegna della rêverie, quindi nella dimensione dell’immaginario. Non è verosimile, ma necessario dal punto di vista del percorso psicologico del protagonista, che immagina una conciliazione tra tutte le istanze opposte appena dette. Trovandoci nella dimensione dell’immaginario, osserviamo tutta una serie di elementi e gesti che non so- no da interpretare in senso letterario, ma simbolico. Elementi che risultano quasi ridondanti e ripetitivi. L’esito è quello di una rielaborazione interiore delle istanze opposte. Mercoledì 11 aprile Daniela Ricci e il cinema africano post-coloniale Imaginaires en exil - Cinq cinéastes d'Afrique se racontent, 2013  L’identità nella complessità del mondo globale;  Artisti africani e della diaspora;  Il concetto di straniero. In epoca di mondializzazione chi è straniero? Cosa significa essere straniero in un’epoca in cui tutti siamo immes- si allo stesso modo nella stessa società? Qual è la percezione di sé quando si appartiene a un Paese che è stato coloniz- zato? Nell’Africa sub-sahariana il pubblico ha sempre e solo visto film americani o europei. Nel momento in cui sono finalmente gli africani stessi a diventare gli autori e a incentrare le trame sulle loro vite, avviene un ribaltamento del punto di vista. La prospettiva che abbiamo ci appare inconsueta e ci apre gli orizzonti. Sul cinema coloniale molto c’è da dire; in quanto occidentali abbiamo delle responsabilità immense sul piano culturale, sociale, politico, etc. In Imaginaires en exil - Cinq cinéastes d'Afrique se racontent, I registi scelti sono molto diversi gli uni dagli altri, provengono da Stati diversi dell’Africa e vivono in Stati diversi nel mondo; sono di generazioni diverse, ma tro- viamo nei punti in comune. Sono moltissime le riflessioni che scaturiscono dal film. Vengono esplicitati intenti degli autori, delle cause e delle origini che li spingono a prendersi l’impegno di trasmettere dei messaggi. Sono molte le riflessioni che normalmente non ascoltiamo: quando i media ci parlano delle condizioni del migrante, sentiamo parlare dell’“approdo a Eldorado”, della dialettica speranza-disperazione, ma non del senso di colpa, della nostalgia... Indice del fatto che ci interessiamo poco alla soggettività. I media hanno una responsabilità in questo senso non solo perché non distribuiscono film a que- sto riguardo, ma perché ne parlano in termini di numeri, con oggettività: non si parla di storie di vita, di malinconia, di- sperazione, etc. Per esempio, nei film sui migranti raramente vediamo descritta la vita dei protagonisti prima dello sbar- co, dell’arrivo nel paese di approdo. Nel film di Daniela Ricci entriamo nel profondo di0 tutto questo. Jean Rouch, etnologo francese, viaggiò molto e produsse molti film. Il ruolo fondamentale che ha avuto è stato quello di portare la telecamera in Niger e di collaborare con __ Il suo approccio era quello di un’“etnografia partecipa- ta”, di scambio, approccio che ha portato numerosi registi dell’Africa sub-sahariana ad avvicinarsi.
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