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Storia ed estetica del cinema, Appunti di Estetica del Cinema

Riassunto dettagliato del libro di storia ed estetica del cinema

Tipologia: Appunti

2015/2016

Caricato il 31/05/2016

Mannimanni1
Mannimanni1 🇮🇹

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Scarica Storia ed estetica del cinema e più Appunti in PDF di Estetica del Cinema solo su Docsity! Storia del cinema di Bordwell e Thompson Capitolo 1: L’invenzione e i primi anni del cinema (1880-1904) L’invenzione del cinema Il cinema fu inventato durante l’ultimo decennio dell’800, in seguito alla rivoluzione industriale. Fu in principio un meccanismo tecnologico che divenne poi base di una grande industria. Fu inoltre una nuova forma di intrattenimento perché offrì alle masse uno spettacolo visivo a buon mercato. Per prima cosa, gli scienziati dovettero comprendere che l’occhio umano riesce a percepire il movimento quando gli viene messa davanti, in rapida successione, una serie di immagini leggermente diverse fra loro, a una velocità di almeno 16 al secondo. Nel 1832 inventarono il fenachistoscopio (disco rotante di figure che lo spettatore vede attraverso una fessura e che crea l’illusione del movimento). Nel 1833 lo zootropio (serie di disegni su una sottile striscia di carta dentro un cilindro rotante). Un secondo requisito tecnologico fondamentale per la nascita del cinema era la possibilità di proiettare una serie rapida di immagini su una superficie. Un terzo requisito fu la possibilità di usare la fotografia per riprendere immagini, una dopo l’altra, su una superficie chiara. Per anni la fotografia fu impressa su lastre di vetro o di metallo, senza l’uso del negativo poi nel 1839 fu inventato e divenne possibile stampare più copie di immagini fotografiche su lastre di vetro per lanterne e proiettarle. In quarto luogo, il cinema richiedeva che le fotografie venissero impressionate su una base flessibile in modo da poter scorrere rapidamente attraverso una macchina da presa. A tal proposito, Eastman ideò l’apparecchio Kodak, che impressionava rulli di carta sensibile e in seguito introdusse il rullo di celluloide trasparente. Nel 1878 Muybridge diede un contributo notevole alla scienza anatomica con migliaia di studi del movimento ottenuti con il suo sistema di macchine fotografiche multiple (movimento dei passi del cavallo fotografati con 12 macchine). Reynaud nel 1877 costruì il prassinoscopio (strumento ottico simile allo zootropio, dove le immagini potevano essere viste su una serie di specchi invece che fessure). Nel 1895 Reynaud cominciò a usare la macchina fotografica per realizzare i suoi film. Le Prince arrivò quasi a inventare il cinema nel 1888: riuscì a realizzare alcuni brevi filmati girati a circa 16 fotogrammi al secondo, utilizzando il rullo di carta Kodak. La nascita del cinema non avvenne in un momento preciso ma grazie ad una serie di contributi provenienti da USA, Germania, Francia e UK. Nel 1888 Edison, inventore del fonografo e della lampadina elettrica, decise di costruire macchine per riprendere e mostrare immagini in movimento, con l’aiuto del suo assistente Dickson: ottenne del materiale Kodak e cominciò a lavorare su un nuovo tipo di macchina. Nacquero il kinetografo e il kinetoscopio (apparecchio con uno spioncino all’interno del quale la pellicola scorreva intorno a una serie di rulli). I parametri di questi apparecchi influenzarono la storia del cinema: la pellicola 35mm con 4 perforazioni laterali è il modello usato tuttora. Edison e Dickson costruirono un teatro di posa chiamato “Black Maria” per commercializzare i loro film che duravano venti secondi. Per due anni il kinetoscopio ebbe successo. I fratelli Lumiere inventarono un sistema di proiezione che contribuì a rendere il cinema una impresa commerciale internazionale. La loro famiglia possedeva a Lione la più grande azienda europea di prodotti fotografici. Essi idearono una macchina da presa, il cinematographe, che utilizzava la pellicola 35mm e un meccanismo a intermittenza. Girarono i loro film alla velocità di sedici fotogrammi al secondo e divenne la velocità media standard dei film in tutto il mondo per venticinque anni. Il primo film realizzato con questo sistema fu “L’uscita dalle fabbriche Lumiere” nel 1895 (unica inquadratura e conteneva gli elementi essenziali dei primi film ovvero il movimento di persone prese dalla realtà. Dopo il successo dell’esposizione al Gran Cafè di Parigi, i Lumiere offrivano venti proiezioni al giorno con lunghe file di spettatori. In questo periodo furono progettati sistemi di proiezione e di ripresa anche negli USA. Latham studiò la possibilità di aggiungere alla macchina da presa un ricciolo in grado di allentare la tensione della pellicola e di permettere la realizzazione di film più lunghi. Fu inventato poi il proiettore phantoscope, perfezionato e chiamato in seguito vitascope. La terza importante invenzione per la nascita del cinema negli USA si sviluppò dal mutoscope (macchina funzionante a monetine con una manovella che lo spettatore girava per far ruotare un tamburo che conteneva una serie di fotografie); la macchina da presa e il proiettore dell’American Mutoscope producevano immagini più grandi e più nitide utilizzando una pellicola 70mm. Nel 1897 l’invenzione del cinema poteva considerarsi compiuta e i principali sistemi erano due: il peepshow per spettatori individuali (macchina automatica messa in moto da un gettone che mostra uno spettacolino cinematografico a un solo spettatore) e la proiezione per un vasto pubblico. La nascita della produzione e dell’esercizio Il nuovo mezzo cinematografico si inserì facilmente in questo insieme di divertimenti popolari. In molti casi, i programmi dei cinematografi riguardavano avvenimenti accaduti nelle località dove si trovavano i teatri. Spesso i registi ricreavano l’evento in studio ma molto probabilmente il pubblico sapeva che queste scene simulate non erano registrazioni di avvenimenti reali, ma le accettava come loro rappresentazioni. Sin dall’inizio della storia del cinema i film di finzione ebbero grande importanza e diventarono gradualmente la principale attrazione del cinema popolare delle origini. La maggior parte dei film era composta da una sola inquadratura: la macchina da presa rimaneva sempre nella stessa posizione e l’azione si svolgeva in una unica ripresa. I gestori delle sale potevano scegliere se comprare l’intera serie e proiettare i film insieme, riuscendo quasi a ottenere una opera a più inquadrature, oppure potevano acquistarne solo alcune e metterle insieme ad altri film; un potere che persero dal 1899 quando i produttori cominciarono a realizzare film a più inquadrature. Lo spettacolo era generalmente accompagnato da musica da piano o orchestra o da parole pronunciate da imbonitori al pubblico per descrivere paesaggi, eventi o semplicemente per annunciare titoli, dato che nei film delle origini non vi erano né titoli né didascalie. I fratelli Lumiere produssero anche qualche film di finzione, che consisteva generalmente in brevi scene comiche. Alcuni dei film girati dai loro operatori introdussero importanti innovazioni tecniche: l’invenzione del movimento di macchina. Le prime cineprese infatti erano sorrette da treppiedi fissi che non permettevano alla macchina di effettuare panoramiche. La storia del cinema di molti paesi è dunque associata all’arrivo del cinematographe. I fratelli Lumiere, insieme a qualche altra società, trasformarono il cinema in un fenomeno internazionale e contribuirono al suo sviluppo cominciando a vendere il loro cinematographe nel 1897; a seguito del successo del cinematographe dei Lumiere, in Francia fecero la loro comparsa altre case di produzione come la Star Film di Georges Mèliès, la Pathè (la cui cinepresa divenne la più diffusa fino alla fine degli anni Dieci) e la Gaumont. I film di Pathè piacevano moltissimo e in pochi anni la sua divenne la più grande società cinematografica del mondo. In Inghilterra si diffuse rapidamente la produzione di film che venivano mostrati all’interno di programmi di varietà. All’inizio la maggior parte dei film inglesi, come da modello tipico del periodo, si basavano su soggetti molto semplici come attualità e vedute. I primi film inglesi divennero famosi per i loro effetti speciali Scuola di Brighton con capiscuola George Smith e James Williamson sperimentarono diversi modi di usare gli effetti speciali e il montaggio che influenzarono molti registi di altri paesi (The Big Swallow, il grande boccone, è un esempio dei registi di Brighton.. l’irritato protagonista “mangia” l’operatore e la macchina da presa). Nei film della scuola di Brighton si nota anche il tentativo di creare una certa continuità narrativa attraverso l’uso di inquadrature ravvicinate per guidare l’attenzione del pubblico. In USA i generi che contribuirono a rilanciare il cinema furono da un lato quello patriottico (con la guerra ispano- generalmente più lunghi, richiesero un numero maggiore di didascalie. Le didascalie erano di due tipi: descrittive (il più usato inizialmente) e narrative ( in questo caso le informazioni sembravano provenire direttamente dall’azione attraverso i dialoghi e questo tipo di didascalie poteva suggerire i pensieri del personaggio in maniera più precisa di quanto non potessero fare i gesti). La posizione della macchina da presa era importante perché l’azione fosse comprensibile allo spettatore. A partire dal 1908 le tecniche per inquadrare l’azione cambiarono: i registi cominciarono a collocare la macchina più vicino agli attori per rendere più evidente la mimica facciale e venne introdotta la linea dei 9 piedi di distanza dalla macchina da presa (piano americano). Griffith, in particolare, esplorò le possibilità di dare maggior risalto alle espressioni del viso. Un’altra tecnica di ripresa che cambiò fu l’uso delle angolazioni della macchina dall’alto e dal basso: nei primi film di finzione, la cinepresa inquadrava l’azione a una altezza convenzionale mentre dal 1911 i registi cominciarono a inquadrare l’azione presentandola da un punto di vista più efficace. I film danesi usavano angolazioni dall’alto o dal basso per conferire drammaticità alla scena. Inoltre le macchine da presa furono corredate di teste girevoli per permettere l’utilizzo delle prime panoramiche verticali e orizzontali. Il colore sebbene la maggior parte delle copie di film muti che oggi vediamo sia in bianco e nero, molte di esse venivano colorate secondo la moda in vigore in quel momento. Il colore accentuava l’aspetto realistico del film. In questo periodo divennero frequenti due tecniche di colorazione: imbibizione (immergere una pellicola nella tinta e colorava le parti più chiare delle immagini, mentre quelle più scure rimanevano nere) e il viraggio (pellicola immersa in una soluzione chimica che saturava le zone scure del fotogramma, mentre quelle più chiare rimanevano più o meno bianche). In questo periodo, per mantenere una connessione tra le inquadrature, i registi svilupparono delle tecniche, che a partire dal 1917, divennero presupposti per il principio di continuità narrativa del montaggio. Questo sistema comprendeva tre modi per unire le sequenze: montaggio alternato (genere popolare dell’inseguimento; Griffith è il regista più spesso associato a questa tecnica e The Lonely Villa, un suo film, è pieno di questa tecnica: un gruppo di ladri attira un uomo fuori dalla sua casa di campagna isolata comunicandogli un falso messaggio. Griffith alterna inquadrature dell’uomo, dei ladri, della famiglia all’interno della villa. Il film è costituito da 50 inquadrature, la maggior parte alternate tra loro. Griffith sperimentò il montaggio alternato in scene di salvataggio per molti anni e divenne tecnica usata comunemente nei film americani), montaggio analitico (montaggio che suddivide uno spazio unico in inquadrature diverse. Un modo semplice per ottenerlo è quello di inserire inquadrature ravvicinate di ciò che stava accadendo. Queste inquadrature erano chiamate “inserti”, girate dal punto di vista del personaggio per rendere l’azione comprensibile allo spettatore), montaggio contiguo (in alcuni casi i personaggi uscivano dallo spazio inquadrato per poi riapparire nell’inquadratura successiva. Questi movimenti erano tipici nel genere dell’inseguimento: es film Rescued by Rover, dove una serie di inquadrature contigue mostrano il cane Rover che corre uscendo a sinistra del quadro e rientra nell’inquadratura successiva da destra, dando l’impressione di una continuità nel movimento della sua corsa. Un altro modo per indicare che due spazi contigui sono uno vicino all’altro è quello di mostrare un personaggio che guarda in una direzione fuori campo e poi staccare su ciò che il personaggio sta osservando). Capitolo 3: Cinematografie nazionali, classicismo hollywoodiano e prima guerra mondiale (1913-1919) L’Europa e la nascita delle cinematografie nazionali Il cinema italiano prosperò nella prima metà degli anni Dieci. Il successo delle esportazioni e l’incremento della realizzazione di lungometraggi attrassero molti talenti verso l’industria cinematografica, creando così un clima di concorrenza. Il filone storico-mitologico era sempre il genere per eccellenza del cinema italiano. Un secondo genere del cinema italiano si sviluppò come conseguenza della nascita dello star system: i film appartenenti a questo filone (detto anche “cinema in frack”) raccontavano storie di passioni e intrighi nel mondo borghese e aristocratico. Francesca Bertini interpretò una serie di film basati sul suo charme, come “Diana l’affascinatrice”, un melodramma che evidenziava il talento e l’eleganza dell’attrice. Il genere rimase popolare per tutta la seconda metà degli anni Dieci per poi decadere. L’equivalente maschile della diva era il personaggio del forzuto. Dopo il 1923, il cinema italiano entrò in crisi, salvo poi riapparire negli anni Cinquanta con film sempre su eroi muscolosi e ambientazioni epiche, che presero il nome di peplum. All’inizio degli anni Dieci l’industria francese era ancora prosperosa: la Gaumont aumentò la produzione negli anni precedenti la guerra con i suoi più importanti registi Perret e Feuillade. Perret diresse lungometraggi, melodrammatici racconti di rapimenti di bambini ricordati per la loro bellezza cinematografica. Inoltre Perret variava considerevolmente l’angolo di ripresa delle scene, scomponendole in più inquadrature di quanto facesse normalmente all’epoca. Negli anni Venti si dedicò poi alla realizzazione di film epici. Feuillade continuò a dedicarsi a generi come commedia e serie documentarie. La Pathè nel 1913 decise di tagliare il settore della produzione, troppo costoso, e dedicarsi solo sulla distribuzione e l’esercizio: dopo aver rotto i rapporti con la MPPC, creò una società di distribuzione propria che diffondeva i film indipendenti americani. Questa scelta alla lunga si rivelò impopolare e la casa francese si trovò relegata in una posizione marginale del mercato americano. La Svezia fu tra i primi Paesi a creare una cinematografia che rispecchiava la propria identità culturale, con una particolare attenzione al paesaggio nordico, alla letteratura e alle tradizioni locali. Victor Sjostrom fu uno dei maggiori autori svedesi dell’epoca del muto: il suo stile austero e naturalistico richiedeva una recitazione misurata e una messa in scena contraddistinta dal ricordo alla profondità di campo sia negli esterni che nelle riprese in studio. Gli intrecci dei suoi film spesso seguivano le tragiche conseguenze di una singola azione. Il cinema svedese costituì la più importante alternativa a Hollywood dopo la guerra, ma questo successo fu anche la causa del declino: la produzione decise di puntare su costosi film destinati all’esportazione, ma pochi di questi riuscirono a imporsi. Dopo il 1921 la produzione crollò rovinosamente e Sjostrom venne chiamato a Hollywood. L’America alla conquista del mercato mondiale Fino al 1912 le compagni americane erano quasi esclusivamente impegnate nella conquista del mercato interno. Molte transazioni cinematografiche passavano per Londra, che divenne ben presto un centro internazionale per la compravendita di film americani e anche se ciò favorì lo sviluppo di molte società inglesi, finì per comportare un’invasione di pellicole americane nel mercato inglese. Francia, Italia e altri Paesi produttori si davano battaglia, ma la prima guerra mondiale determinò un forte cambiamento degli assetti assegnando a Hollywood una posizione dominante. Venuta a mancare la produzione europea, molti Paesi si rivolsero all’industria hollywoodiana, che ebbe così l’occasione di accaparrarsi il mercato internazionale. Con l’apertura a un mercato internazionale, che prometteva guadagni elevati, i budget crebbero rapidamente. Le case di produzione hollywoodiane poterono investire maggiori capitali per rendere più spettacolari set, costumi e illuminazioni. Gli altri Paesi, costretti a budget molto più modesti e a conseguenti modesti rendimenti, incontrarono molte difficoltà nel competere con tali produzioni. Il cinema classico hollywoodiano A partire dagli anni Dieci le case indipendenti si raggrupparono e crebbero rapidamente fino a creare la base per lo studio system, che avrebbe dominato per decenni il cinema americano. L’evoluzione dello studio system cominciò con la fusione di due o più case di produzione o distribuzione. Nel 1912 Laemmle contribuì alla formazione della Universal Film Manufacturing Company, e dopo due anni riuscì a costruire uno studio a Hollywood, gettando le basi di un complesso tuttora esistente che adottava un modulo di concentrazione verticale, unendo in una unica società produzione e distribuzione. Nel 1914 Hodkinson riunì 11 società di distribuzione locale nella Paramount, il primo distributore nazionale di soli lungometraggi. Nel 1916 Adolf Zukor prese le redini della Paramount creando la Famous Players- Lasky, associata con la Paramount per la distribuzione. Ben presto la Paramount ebbe sotto contratto molte star del cinema muto e molti registi tra cui Griffith. Il sistema degli studios hollywoodiani è stato spesso paragonato alle fabbriche in quanto pensato per sfornare film in serie, come in una catena di montaggio. In realtà ogni film era differente e richiedeva una differente pianificazione ed esecuzione; in ogni caso gli studios avevano sviluppato metodi di produzione il più efficienti possibile. La lavorazione di un film era sempre più divisa tra diversi specialisti. La versione di sceneggiatura utilizzata durante le riprese era detta “continuity” e divideva l’azione in inquadrature numerate così che permetteva di coordinare il lavoro tra diversi collaboratori. La numerazione indicata sui ciak all’inizio di ogni ripresa, corrispondente a quella del copione, serviva poi per montare il film. A Los Angeles furono realizzati veri e propri studi cinematografici in modo che i registi potessero controllare l’illuminazione ricorrendo alla luce artificiale. Oltre al fascino dei divi e della ricchezza dei set, il fascino dei film americani era dovuto anche alla levigatezza formale e ai ritmi coinvolgenti. I registi continuarono a fare uso del montaggio alternato in modo sempre più elaborato, ad armonizzare gli spostamenti di attori e oggetti a ogni stacco per rendere le differenze tra inquadrature meno evidenti. Le inquadrature in soggettiva veniva usate più di frequente, e anche il campo/controcampo per i dialoghi. Tutto ciò era molto diverso da quello utilizzato in Europa negli stessi anni: il montaggio in continuità fu sempre più utilizzato in Europa, fino a diventare scelta comune dopo l’introduzione del sonoro. Nel cinema hollywoodiano anche lo stile visivo stava cambiando (primi esperimenti per ottenere particolari effetti di luce). Nei film americani a ogni personaggio di rilievo è attribuita una serie di caratteristiche che lo rendono chiaramente riconoscibile. Questi film per rendere più interessanti e varie le situazioni, ricorrono a due linee narrative interdipendenti: le avventure romantiche che si intrecciando con il tentativo del protagonista di raggiungere il suo scopo, e la suspense che viene tenuta viva da una progressione di scontri e salvataggi. David Griffith lasciò la Biograph Company nel 1913 dopo aver diretto più di 400 cortometraggi. Il regista diresse l’affresco epico in quattro rulli “Judith of Bethulia”. Nello stesso periodo Griffith lavorava a un progetto ben più ambizioso, finanziato in vari modi e con una lunghezza che raggiungeva dodici rulli: “La nascita di una nazione”, epica storia della guerra civile americana incentrata su due famiglie amiche che si trovano divise tra gli opposti schieramenti del conflitto. Nel successivo film Griffith tentò di superare se stesso: “Intolerance” del 1916 era più lungo del precedente (14 rulli, circa tre ore e mezza) e Griffith univa tra loro quattro storie ambientate in epoche storiche diverse: la caduta di Babilonia, alcuni episodi della vita di Cristo, la strage della notte di S. Bartolomeo in Francia e la storia di uno sciopero e di una banda in una città americana. Griffith ricorre a una narrazione a incastro. Il risultato è un esperimento audace nell’uso del montaggio per collegare differenti dimensioni spaziali e temporali. “Intolerance” non eguagliò il successo di “Nascita di una nazione”, così egli realizzò poi film meno sperimentali. In seguito perdere interesse per i film impressionisti e contemporaneamente, con la fine del cinema impressionista, scomparve la maggior parte delle società indipendenti. Cinema sperimentale al di fuori dell’industria I primi decenni del secolo avevano già conosciuto molte avanguardie come cubismo, futurismo, astrattismo, dadaismo e surrealismo. In molti casi furono gli stessi scrittori o pittori appartenenti a queste correnti artistiche a realizzare film d’avanguardia; in altri, giovani registi furono affascinati dalla possibilità di dar vita a un cinema alternativo. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, l’affiorare di movimenti d’avanguardia spinse critici e intellettuali a distinguere tra un cinema commerciale e uno “artistico”. Il film d’arte, avendo un pubblico selezionato, fece sorgere durante gli anni Venti una serie di nuove attività (riviste, cineclub, sale specializzate, mostre e conferenze). Gli incontri comprendevano discussioni su film e programmi musicali, danze e letture di poesie. Il momento più importante della presenza del cinema in manifestazioni artistiche fu nel 1925, nell’ambito di uno degli eventi maggiori del secolo, la Exposition International des Arts Dècoratifs et Industriel Modernes a Parigi. Ben presto si affermarono cineclub e sale specializzate anche negli altri Paesi Europei. Il Dadaismo nacque intorno al 1915 come risposta allo smarrimento e alla perdita di senso provocati dal conflitto mondiale. A New York, Parigi, Zurigo, gli artisti dada proposero una nuova visione del mondo all’insegna dell’assurdo che spazzava via i valori tradizionali, ponendo il caso e l’immaginazione alla base della creazione artistica. Marcel Duchamp creò il ready-made, oggetti qualsiasi esposti e intitolati come opere d’arte (es: orinatoio). Duchamp nel 1926 realizzò una serie di dischi rotanti, che furono alla base di “Anèmic Cinema”: questo breve film rompeva il concetto tradizionale di cinema come arte visiva e narrativa, mostrando dischi circolari fatti roteare, alternati ad altri che contenevano elaborati giochi di parole. Duchamp creò uno stile “anemico” (anemic è anagramma di cinema) e ludico. Un’influenza determinante allo sviluppo del surrealismo fu rappresentata dalle teorie della nascente psicoanalisi, con maggiore importanza alle possibilità dell’inconscio. I surrealisti cercarono di tradurre in immagini o parole il linguaggio incoerente dei sogni. I film surrealisti presentavano storie anomale e spesso sessualmente allusive, che riproponessero l’inesplicabile logica dei sogni. Nel 1926 Man Ray realizzò il suo primo film surrealista, “Emak Bakia”, che impiegava numerosi trucchi fotografici per suggerire lo stato mentale di una donna. Il film che meglio incarnò lo spirito del surrealismo fu “Un chien andalou” del 1929 di Luis Bunel con la collaborazione di Salvador Dalì. L’anno successivo diresse un’opera più lunga e più provocatoria, “L’age d’or”: il film abbonda di allusioni erotiche e il finale mostra una figura chiaramente intesa a rappresentare Cristo, che esce da un’orgia sadica. Tutto ciò fece scandalo e fu proibito per decenni. L’influenza del surrealismo fu molto importante per i movimenti artistici sorti dopo la seconda guerra mondiale. Sulla scia di lavori come “Ballet mècanique” di Murphy con la collaborazione di Ezra Pound, alcuni artisti concepirono la possibilità di realizzare opere non narrative fondate sulle qualità visive astratte del mondo fisico in opposizione al cinema commerciale, che era narrativo. Questi artisti, che non si riconoscevano in alcun movimento d’avanguardia, erano accumunati dalla volontà di ridurre il cinema ai suoi elementi basilari, per creare un lirismo visivo fatto di pure forme. Per questo i primi esponenti francesi di questo stile lo chiamarono “Cinèma Pur”, cinema puro. Capitolo 5: La Germania negli anni Venti Il cinema durante e dopo la prima guerra mondialePoiché nei primi anni Dieci il cinema in Germania era una forma di spettacolo piuttosto marginale, i produttori cominciarono a trasporre per lo schermo i capolavori della letteratura. Nel 1913 nacque cosi l’Autoren film, dove il termine “autore” serviva a pubblicizzare il film riferendosi al testo famoso da cui era tratto. Esso rappresentava il tentativo di innalzare il cinema a forma d’arte. Il più famoso degli Autorenfilm fu “Lo studente di Praga” di Stellan Rye. L’Autorenfilm portò una maggiore rispettabilità al cinema, anche se lo scarso successo di pubblico ne decretò il declino nel 1914. Un altro fattore di espansione dell’industria cinematografica tedesca fu la diffusione dello star system (l’attrice danese Asta Nielsen). Nel 1916 la Germania proibì l’importazione di film, con un decreto che rimase fino al 1920, per incentivare la produzione nazionale: dal 1918 fino al 1933 la produzione tedesca fu seconda a Hollywood. Si inaugurò la tendenza alla creazione di compagnie di ampie dimensioni, come la UFA nel 1917, frutto della fusione di diverse società. Paradossalmente, gran parte di questo successo fu ottenuto negli anni di maggiore difficoltà per il Paese, caratterizzati da una grave crisi economica e da una notevole crescita inflattiva, nonché dall’instabilità politica antecedente all’ascesa del partito nazista del 1933. Cercando di seguire l’esempio del cinema italiano d’anteguerra, molte opere tedesche post belliche puntarono sull’impatto spettacolare (film storici e epici). Ernst Lubitsch realizzò “Madame Dubarry” nel 1919. Lubitsch divenne il più importante autore del filone epico-storico. Verso la metà del decennio, il filone storico spettacolare perse di importanza a causa del calo dell’inflazione e della relativa diminuzione dei budged a disposizione dei registi. L’espressionismo L’espressionismo si era manifestato intorno al 1908 in Germania, principalmente in pittura e nel teatro; esso rappresentava una reazione al realismo. Alcuni storici hanno voluto includere nel movimento solo pochi film, quelli che, come “Il gabinetto del dottor Caligari” di Robert Wiene, facevano ricorso a una messa in scena deformata derivata dal teatro espressionista. Mentre per il movimento impressionista l’elemento determinante era l’uso artistico della macchina da presa, l’espressionismo puntava principalmente alla messa in scena. Nel cinema espressionista l’incisività espressiva legata alla figura umana si estende a ogni elemento della messa in scena. Non solo si voleva che la scenografia funzionasse quasi come un organismo vivente, ma che anche il corpo dell’attore diventasse elemento visivo. Nelle opere espressionistiche l’azione spesso procede a sbalzi e la narrazione subisce delle pause o rallenta quando gli elementi della messa in scena si dispongono in una forma tale da catturare l’attenzione dello spettatore. I film espressionisti utilizzavano strategie differenti. Era comune il ricorso a superfici stilizzate, a forme simmetriche o distorte. L’interpretazione degli attori espressionisti era volutamente esasperata e la recitazione era innaturale. Un altro aspetto della messa in scena espressionista è la pratica di giustapporre forme simili all’interno della stessa inquadratura. Il montaggio in genere era semplice, e si avvale del campo/controcampo o montaggio alternato. Il ritmo è più lento rispetto ad altri film dello stesso periodo, in modo da permettere allo spettatore di soffermarsi sui diversi elementi dell’inquadratura. Dal punto di vista narrativo, i film espressionisti ricorrevano a storie in grado di valorizzare le caratteristiche del loro stile. Il kammerspielfilm In altre parole teatro da camera, il termine derivava da un teatro aperto nel 1906 destinato ad allestimenti di drammi intimisti per un pubblico ristretto. I Kammerspiel film si differenziavano dagli espressionisti per l’attenzione posta sull’esplorazione minuziosa della crisi dell’esistenza di pochi personaggi. La recitazione evocativa e le attenzioni alla psicologia del personaggio caratterizzavano lo stile di questi film. L’intreccio dei Kammerspiel è basato su intensi drammi emotivi che si concludono tutti in modo tragico, lontani dai temi fantastici o leggendari cari all’espressionismo. Il film più rappresentativo del periodo è “L’ultima risata” di Murnau. L’esaurimento del genere avvenne nel 1924 cessando d’essere uno dei generi dominanti della cinematografia tedesca. Le trasformazioni nella seconda metà degli anni Ventia causa dell’influenza dei mercati stranieri e dall’inflazione sempre più contenuta la situazione andò modificandosi negli anni ’20. Molti studi preferivano copiare i modelli di successo americani anziché creare alternative. Negli primi anni ’20 la tecnologia cinematografica aveva fatto molti progressi, che rispondevano al desiderio di produrre film di grande magniloquenza. Questi processi di ammodernamento ebbero inizio intorno al 1921, quando la Paramount fece un tentativo di produzione a Berlino, fornendo uno studio già attrezzato delle migliori tecnologie. Nel 1923 i problemi economici del paese condussero alla chiusura di alcune sale e case cinematografiche, cosa che facilitò la conquista del mercato tedesco da parte degli americani. Dal 1927, in ogni caso, la produzione cinematografica tedesca fece un nuovo balzo verso l’alto, portando i propri numeri ad essere più numerosi di Hollywood. La nuova oggettività Con il declino dell’esasperata emotività dell’espressionismo, sancito nel 1924 a causa dei costi eccessivi delle produzioni e dalle migrazioni dei registi tedeschi ad Hollywood, nacque il bisogno di esprimere una più controllata analisi sociale fondata sul realismo. Si cominciò a definire questa tendenza Nuova Oggettività (nella pittura: Grosz, Dix; nel teatro: Brecht); lo scopo del movimento era la denuncia sociale, manifestata attraverso il Verfremdungseffekt (effetto di straniamento), che si situava all’opposto delle teorie espressioniste, evitando la consueta identificazione dello spettatore con la storia, mirava a suscitare una riflessione sulle implicazioni ideologiche e politiche di quanto rappresentato. I film della nuova oggettività, di cui Pabst fu il maggiore rappresentante, furono fortemente criticati per la loro incapacità di proporre soluzioni ai problemi sociali che denunciavano. Lo stile internazionale Per arrestare l’avanzata di Hollywood venne promosso qualche tentativi nella direzione di un cinema paneuropeo; alcune coproduzioni raggiunsero il successo internazionale cui ambivano grazie a formule standardizzate molto simili ai modelli hollywoodiani. Tra il 1924 e il 1927 Germania, Francia e Gran Bretagna gettarono le basi per un mercato continentale, cercando di sostituire così prodotti europei a prodotti americani. La situazione cambiò bruscamente dopo il ’29, a causa della Depressione, che portò i governi ad adottare politiche protezioniste e a causa del sonoro, che ergeva barriere linguistiche. All’inizio degli anni ’30 si era ricreata una forte competitività in Europa e sogno di un cinema paneuropeo era svanito. Il regista più rappresentativo del movimento internazionale fu Dreyer, che lavorò in Danimarca, Germania e Francia, dove diresse “la passione di Giovanna d’Arco), nel cui cast figuravano artisti di varie nazionalità. Il film combinava influenze del cinema d’avanguardia francese, tedesco e sovietico, in uno stile innovativo e originale; il film fu universalmente accolto come un capolavoro. Capitolo 6: Il cinema sovietico negli anni Venti - Prima della guerra mondiale -> come negli altri paesi europei, anche in Russia la credibilità dell’industria cinematografica era affidata, all’inizio degli anni Dieci, a famosi scrittori e sceneggiatori-> chiusura uffici di distribuzione di società straniere, crescita industria nazionale, nascita società locali. Forma e stile del montaggio sovietico 1. Generi: il genere prediletto è quello storico-sociale, in particolare incentrato sulla storia del movimento rivoluzionario 2. Narrazione: profondamente diversa da quella delle altre avanguardie, l’individuo come motore dell’intreccio è ridimensionato, in quanto in linea con le teorie marxiste, le azioni del singolo sono solo la diretta conseguenza delle forze sociali. Vertov invece scelse di creare film non narrativi e fu accusato dal regime di eccessivo sperimentalismo 3. Montaggio: forte tensione dinamica, lontana dalla fluidità narrativa di Hollywood. I sovietici giustapponevano le inquadrature in modo energico e la cinematografia di quegli anni era ricca di inquadrature anche all’interno della stessa azione, così che un oggetto o un personaggio potevano essere visti da angoli diversi e differenti punti di vista. Mentre l’obiettivo del montaggio contiguo Hollywoodiano era di dare l’illusione di un fluire continuo del tempo, i numerosi tagli del montaggio sovietico creavano relazioni temporali ellittiche o sovrapposte o ripetendo le riprese di una singola azione da diversi punti di vista portavano alla dilatazione dell’azione stessa. Un’altra tecnica altamente utilizzata è il montaggio delle attrazioni, grazie allo sfruttamento dell’inserto non diegetico (elemento che non appartiene alla dimensione o al mondo dell’azione). L’inserimento di tali inquadrature non diegetiche per sviluppare il nodo concettuale, fu un punto fondamentale della teoria del montaggio intellettuale di Ejzenstéjn. 4. Effetti speciali: Vertov fa uso dello split-screen e delle sovraimpressioni, che potenziano il linguaggio cinematografico. Gli effetti speciali del cinema sovietico avevano una funzione retorica, erano usati per esprimere significati simbolici. 5. Movimenti di macchina: studio della composizione delle singole inquadrature, lavoro con la mdp approfondito, creazione di angoli di ripresa dinamici, inquadrature inclinate e decentrate. 6. Messa in scena: generalmente la messa in scena è realistica, ma ciò non esclude la possibilità di contrasti, anche all’interno della stessa immagine, volti a suscitare sorpresa e forti impatti emotivi nello spettatore 7. Recitazione: esempi che spaziano dal realismo all’estrema stilizzazione (recitazione biomeccanica ed eccentrica, mutuata dal teatro). Per rappresentare le classi sociali si faceva ricorso alla tipizzazione e ad attori non professionisti. Il piano quinquennale e la fine del cinema d’avanguardia il forte sperimentalismo dei film sovietici portò dal 1927 ad un controllo sempre maggiore da parte del governo su contenuti e stili adottati. L’accusa più diffusa riguardava il “formalismo”, termine che indicava che l‘opera fosse troppo complessa per essere compresa dalle masse, e che quindi l’autore fosse più interessato allo stile che all’ideologia. Gli autori più radicali, come Vertov e Ejzenstjen dovettero affrontare accuse molto aspre ed ebbero grosse difficoltà a trovare i fondi per il loro progetti. Dal 1928 si intensificarono i tentativi del governo di centralizzazione del cinema. Venne creata la Soyuzkino, deputata alla supervisione di tutte le produzioni e al controllo sulla distribuzione e sull’esercizio. Tutti i registi furono costretti ad attenuare gli sperimentalismi. Capitolo 7: Hollywood, l’ultima stagione del muto (1920-1928) Le catene di sale cinematografiche e l’espansione dell’industria Gli Stati Uniti erano diventati leader indiscussi della produzione e della distribuzione cinematografica a livello mondiale. Gli anni venti, definiti “ruggenti”, attraverso il cinema si raccontavano con la prosperità, l’eccesso, la libertà femminile, il consumo di alcol (nonostante il proibizionismo), il fumo in pubblico, il charleston ed il jazz, in un mondo portato all’eccesso ed alla frenesia che vedeva però anche l’imperversare del razzismo e la povertà di minatori e contadini. Il tentativo di oligopolio da parte delle più grandi case di produzione fu raggiunto attraverso una concertazione di tipo verticale con il controllo dei tre livelli: produzione, distribuzione e proiezione del film, questa ultima raggiunta con la realizzazione di sale cinematografiche di proprietà sempre più grandi e sfarzose. Per poter controllare anche le sale di proiezione di non proprietà, le grandi case costrinsero le piccole sale ad un sistema detto di block booking, ovvero obbligare gli esercenti interessati alla proiezione dei film di maggiore richiamo a noleggiare anche altri film con minore possibilità di successo. Prima e dopo la proiezione dei film le grandi case offrivano un ricco programma di cinegiornali, brevi film comici, interludi orchestrali e dal 1917 fu sperimentata l’aria condizionata. Le case di produzione maggiori furono definite le “Tre Grandi”: la Paramount-Publix, la MetroGoldwin-Mayer (MGM) e la First National. Le case di produzioni minori furono, invece, definite le Piccole Cinque: 1- Universal: che produceva film a basso costo e destinati alle sale più piccole e nella quale lavorò anche John Ford prima di essere attratto da maggiori guadagni con le case maggiori; 2- Fox: anch’essa produttrice di film a basso costo, popolari e specie del filone western; 3- Warner-Bros: ancora più piccola delle precedenti perché non disponeva di sale di proiezione, ma che ebbe un indiscusso successo con la serie Rin-Tin-Tin e che grazie alla propensione degli investitori di Wall Strett, nel 1924, riuscì ad espandersi e ad investire in tecnologia e attrezzature (negli anni più avanti sarà regina d’avanguardia); 4- Producers Distributing Corp.: modesta e di breve durata; 5- Film Booking Office: piccola, specializzata nei film d’azione e che nel 1929 divenne la base per la creazione della grande RKO. Separata dalle “Tre Grandi” e dalle “Piccole Cinque” v’era la United Artists (UA), creata da quattro proprietari fra i quali Chaplin e Griffith, distribuì film prodotti indipendentemente e da altri registi, ma non possedeva né sale né teatri di posa. Non riuscì mai a raggiungere una vera stabilità economica ma negli anni venti, grazie alla scritturazione di Rodolfo Valentino ed altri divi riuscì però ad incrementare i profitti. La nascita della Motion Picture Producers and Distributors Association All’inizio degli anni venti si registrò una crescente pressione per una legge nazionale sulla censura, in quanto molti film del dopoguerra avevano come soggetto temi offensivi per l’opinione pubblica, attraenti violazioni delle norme sociali, feste sfrenate, adulteri e nello stesso tempo l’attenzione della gente fu catturata dalle rivelazione sulla vita privata di registi e attori hollywoodiani ricca di scandali a sfondo sessuale e violazione della legge sul proibizionismo, fino agli omicidi. I principali, studios si accordarono per dar vita, allora, alla Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA), un organo di autocensura per evitare la pesante censura federale. In realtà la MPPDA fu inefficace e solo con il Codice di Produzione del 1934 furono realizzate misure regolamentari. A capo dell’istituzione vi era Will Hays, che decretò una serie di linee guida per stabilire quali fossero i soggetti ammessi e considerati non offensivi (elenco dei “don’ts -> situazioni non ammesse sesso, violenza, perversioni, crimine), che si fecero più rigide negli anni. Il codice prese il nome di Codice Hays e tutti i film senza il marchio MPPDA non venivano proiettati e costituivano reato. Il modo di produzione degli studios Sicuramente quattro furono gli elementi su cui si basò il cinema classico hollywoodiano: le tecniche d’illuminazione, il montaggio, lo stile e i grandi budget. - L’illuminazione naturale fu del tutto eliminata e le pareti venivano illuminate con luci di riempimento (fill light), le figure principali erano illuminate con controluce, ovvero il soggetto veniva raggiunto da una luce dall’alto e dal retro in modo da sottolineare i controluce (back- lighting), mentre la luce principale, proveniente da un lato dell’inquadratura, illuminava direttamente i soggetti (key light) e une seconda luce più debole serviva ad ammorbidire le ombre, attenuando i contrasti. Le innovazioni tecniche più significative, inoltre, videro un nuovo approccio alla fotografia: grande uso dei filtri per creare immagini flou e indistinte, importanti per lo sviluppo dello stile narrativo classico, il cui risultato è il soft style; oppure la sostituzione delle pellicole ortocromatiche (sensibili solo al viola, al blu ed al verde così che le labbra degli attori truccate con normali rossetti, risultavano decisamente scure) a quelle pancromatiche che sensibili a tutti colori e quindi un’intensità dei colori pressoché costante, permettendo delle immagini rappresentanti il cielo con nuvole ben distinte e labbra rosse con sfumature di grigio. Fu la Kodak a produrre pellicole pancromatiche sempre più sensibili per Hollywood, ed a prezzi accessibili già dal 1925. - L’uso del montaggio contiguo divenne sempre più sofisticato, raccordi sulla linea dello sguardo e sull’asse e piccole variazioni dell’inquadratura servivano a rivelare le parti più importanti della scena. - I film ad alto budget furono una delle particolarità del periodo come I quattro cavalieri dell’apocalisse di Ingram – 1921 il cui successo fu dovuto ad interpreti come Rodolfo Valentino e Alice Terry. Altro film ad alto budget fu Lo Sceicco di Melford – 1921 – Paramount, in cui ancora una volta Valentino diede richiamo al cinema. Inoltre vi furono produzioni a costi elevati per film a carattere religioso come I dieci comandamenti – 1923, Il re dei re – 1927. - Non tutti i registi che avevano a disposizione grandi budget riuscirono ad adattarsi al sistema produttivo hollywoodiano, come Von Stroheim che dal successo di Mariti ciechi – 1919 (trama di seduzione) giunse a quello di Femmine folli – 1922 un’ opera non accettata dal produttore per la pellicola lunga sei ore: la stessa fu però lanciata con il primato d’essere il film più costoso mai realizzato: un milione di dollari. Seppure importante anche come attore, spesso era uno dei personaggi cattivi dei propri film, Von Stroheim interruppe la propria attività di regista per le difficoltà incontrate nella produzione, lui proponeva pellicole molto lunghe ed a costi non accettati dai produttori. Il colossal Ben-Hur di Niblo, un adattamento del romanzo di Wallace (il secondo libro più venduto in America dopo la Bibbia), a causa della sua straordinaria realizzazione iniziata nel 1922 (fu girato in Italia) ed alle difficoltà incontrate, passò dalla Goldwin alla MGM per poi essere presentato agli spettatori solo nel 1926. Fu uno dei primi film a usufruire di macchine da presa sistemate direttamente sulle bighe per riprendere la scena da diversi angoli possibili. Altri film ad alto budget furono: La grande parata di Vidor – 1925. doppiaggio e sottotitoli permisero ai film parlati di superare l’ostacolo della comprensione ed entrarono definitivamente in circolazione. La nuova struttura dell’industria cinematografica L’industria cinematografica di Hollywood si era sviluppata in un oligopolio di società unite nello scopo di chiudere il mercato alla concorrenza. Otto grandi società dominavano l’industria: le major, le cinque grandi (avevano una struttura a concentrazione verticale, disponendo ciascuna di una sua catena di sale e di un apparato distributivo internazionale) e le minor, o le tre piccole. Le Cinque Grandi Paramount nel 1933 dovette dichiarare fallimento sotto la stretta della Depressione, nel 1936 si attivò nuovamente. Era nota per le produzioni di stile europeo, faceva molto affidamento sui comici della radio. Acquisì poi un indirizzo più americano con star. Loew’s/MGM i suoi film spesso avevano un aspetto più sfarzoso di quelli degli altri studios: il budget medio era di 500.000 dollari circa. Vantava di avere sotto contratto molte stelle. 20thCenturyFox dopo la Depressione si rivelò fondamentale l’unione tra la Fox e la 20thCen. Warner Bros si specializzò nel creare generi popolari: il musical, il gangster, il film impegnato basato su fatti di attualità. Quando iniziò la guerra, si lanciò nella realizzazione di film bellici. RKO tra tutte le major fu quella caratterizzata dalla vita più breve. Non aveva una politica stabile e i suoi successi dipendevano da circostanze isolate. Passò agli adattamenti di prestigiose commedie di Broadway fino a “Quarto potere” (Citizen Kane 1941) di Orson Welles, film più importante della RKO. Le tre piccole e i produttori indipendenti La Universal (strategia iniziale fu di lanciare nuove star in molti film horror visivamente sorprendenti). La Columbia (budget limitati ma non impedirono di produrre film popolari, spesso con star e registi presti in prestito da studios più grandi). La United Artists (il declino della UA iniziò all’epoca del sonoro. Charlie Chaplin dirigeva solo un film ogni cinque anni). Qualche società indipendente realizzò film di successo. I primi anni Trenta furono un periodo conservatore, censura con il Codice Hays. Gli studios che producevano un film senza il marchio di approvazione della MPPDA dovevano pagare una multa e non lo potevano proiettare nelle sale degli altri membri. La MPPDA fu forse repressiva ma funse da filtro. La MPPDA non tentò di eliminare ogni battuta audace o momento violento, ma consentì agli studios di spingersi in là da stuzzicare il pubblico senza superare i limiti fissati dalle locali autorità censorie. L’introduzione del sonoro e la Depressione modificarono in modo significativo il modo in cui le sale presentavano i film. Alcune case vedevano nel sonoro solo un mezzo per eliminare dalle sale le orchestre e gli spettacoli dal vivo. Innovazioni ad Hollywood Nel corso degli anni Trenta i metodi di registrazione del suono subirono un costante miglioramento. Furono introdotti microfoni direzionali, “giraffe” più leggere e versatili e fu possibile registrare separatamente musica, voci ed effetti. Di solito i compositori cercavano di comporre musica non invadente: la musica doveva servire a sostenere la narrazione senza attirare troppo l’attenzione su di sé. Per agevolare i movimenti di macchina con le cineprese sonore si cercò di ricorrere a un sostegno solido ma anche facile da spostare; gli operatori e società di servizi crearono versioni perfezionate dei dolly e delle gru già usati sul finire dell’epoca del muto. L’introduzione del Rotambulator di Bell e Howell, un dolly di oltre tre quintali che poteva sollevare la macchina da presa verticalmente da 45 cm fino a due metri di altezza e ciò permise le spettacolari carrellate di alcuni film e i movimenti di gru divennero sempre più comuni. (il famoso dolly all’indietro di Via col vento di Victor Fleming 1939, sull’enorme banchina ferroviaria piena di confederati feriti fu realizzato con una gru per costruzioni). Senza dubbio l’innovazione più spettacolare dell’epoca fu il colore. Nei primi anni Trenta la Technicolor inaugurò una nuova macchina da presa dotata di prismi per suddividere la luce che proveniva dall’obiettivo su tre diverse pellicole in bianco e nero, una per ciascuno dei colori primari. Oggi noi vediamo il colore nei film come un elemento di maggiore realismo, ma negli anni Trenta e Quaranta lo si associava spesso a fantasia e spettacolo e lo si utilizzava soprattutto per avventure esotiche come La leggenda di Robin Hood 1938. Gli studios aprirono reparti dedicati agli effetti speciali che spesso inventavano e costruivano apparecchi su misura per scene specifiche. Di solito l’effetto speciale prevedeva che immagini girate separatamente venissero combinate in uno di questi due modi: la retroproiezione (esempio tipico sono le scene in cui i personaggi sono in auto, girate su veicoli in studio mentre lo sfondo scorre su uno schermo. Faceva risparmiare poiché attori e troupe evitavano di girare in esterni) e stampa ottica. Esistevano molti altri tipi di effetti speciali. Intere scene erano girate con modellini. Nel corso degli anni Trenta l’immagine sfumata e l’effetto flou impiegati nel decennio precedente divennero meno estremi e più uniformi: il ricorso a filtri vistosi diminuì. Nel complesso suono, colore, profondità di fuoco e altre tecniche apportarono alcune innovazioni nello stile hollywoodiano senza cambiarlo in modo sostanziale. I principali registi in aggiunta ai registi affermati che già lavoravano ad Hollywood, l’introduzione del sonoro e la difficile situazione politica nel vecchio continente spinsero verso gli studios molti nuovi registi di formazione teatrale o di origine europea. Charlie Chaplin fu uno dei più strenui avversari del cinema parlato; come produttore di se stesso e star di popolarità eccezionale, fu in grado di continuare a fare film “muti” solo con musica ed effetti sonori. Il primo film parlato di Chaplin “il Grande dittatore” 1940 era un imprevedibile commedia sulla Germania nazista. Josef von Sternberg realizzò a Hollywood sei film. Ernst Lubitsch si adeguò rapidamente al sonoro e diresse Greta Garbo nel suo penultimo film, “Ninotchka” 1939. John Ford propose, nella composizione delle inquadrature e nel modo di ripresa, un uso innovativo della profondità di campo che avrebbe influenzato Orson Welles. Howard Hawks, che aveva cominciato la sua carriera a metà degli anni Venti, solo ora potè affermarsi veramente: si cimentò in generi diversi, specializzandosi in un cinema asciutto nel racconto e nella recitazione e rivelandosi maestro del ritmo veloce e del montaggio analitico (“la signora del venerdì” è il modello della commedia sonora). L’introduzione del sonoro condusse a Hollywood diversi registi teatrali di New York, tra cui George Cukor. Un altro regista venuto da Broadway fu Vincente Minnelli, che divenne specialista nel musical: alla MGM curò la coreografia di alcuni film. Il suo film più celebrato del periodo bellico fu “Incontriamoci a Saint Louis” con Judy Garland. Tra i registi emersi fra il 1930 e il 1945 colui che avrebbe avuto più influenza fu Orson Welles. Ancora molto giovane egli dirigeva già produzioni insolite di commedie teatrali e radiofoniche: nel 1938 ottenne notorietà nazionale con un adattamento radiofonico di “La Guerra dei mondi” di H.G. Wells. L’immensa fortuna critica di “Quarto potere”, primo lungometraggio diretto da Orson Welles, è legata al prepotente manifestarsi di uno stile così personale da sconvolgere una serie di convenzioni divenute canoniche a Hollywood e non solo. Influenza esercitata dal film nel modificare i codici del realismo cinematografico, ricorrendo a inquadrature ben più lunghe del solito, le quali comunque sono contraddistinte da una notevole complessità dovuta alla presenza di più azioni, disposte su diversi piani spaziali e dotate della stessa evidenza grazie alla profondità di campo. In tali circostanze il regista sceglie di non frammentare la continuità dell’azione come invece avveniva nel decoupage analitico. Gli effetti di realismo presenti in Quarto potere sono frutto di soluzioni e trucchi ingegnosi, lasciando così emergere il gusto per un’estetica del falso a cui il regista si manterrà fedele in tutta la sua opera. La sensazione complessiva che ne deriva è di un film frutto di scelte che rivelano un’incontenibile soggettività autoriale, estranea allo standard delle opere allora realizzate. Lo stesso regista dichiarò che “Quarto potere” non era importante per le innovazioni tecniche, ma per l’uso del tempo e per il modo di trattare i personaggi. Innovazioni e trasformazioni dei generi Molti generi dell’era del muto continuarono a vivere nel periodo sonoro. Tuttavia, i mutamenti provocarono il sorgere di nuovi generi e l’introduzione nei vecchi di alcune varianti. L’introduzione del sonoro promosse il musical a un ruolo di primo piano: musical-operetta, musical integrati con canti e balli, e musical dietro le quinte che raccontavano storie dietro le quinte di uno spettacolo. La screwball comedy (commedia svitata) dove al centro della trama vi sono sempre coppie di personaggi eccentrici che si comportano in modo bizzarro. La screwball comedy fu inaugurata nel 1934 da “Ventesimo secolo” di Hawks. Il genere si sviluppò rapidamente. Più in là nel decennio, comunque, le trame di molte screwball comedies si fecero specchio dei nuovi valori: tutti i personaggi positivi apprezzano l’individualismo e disprezzano snobismo e ricchezza. Nell’epoca del sonoro anche l’horror divenne un genere di primo piano. Lo schema del filone fu fissato nel 1927 dal popolare “il castello degli spettri”. La Universal rinnovò questi primi successi nel suo filone horror a cominciare da Draculo, poco dopo Frankenstein. Il ciclo horror della Universal raggiunse il clou fra il 1932 e il 1935. La Depressione risvegliò l’interesse per i problemi sociali e molti film degli anni Trenta se ne occuparono, spesso adottando uno stile realistico. La Warner Bros era particolarmente impegnata nel cinema a sfondo sociale. Fritz Lang realizzò uno dei migliori film di argomento sociale, “Furia”(1936), sul tema del linciaggio nei confronti di un cittadino innocente accusato di omicidio. Dopo l’entrata in guerra degli USA, l’incremento dell’occupazione e la ritrovata prosperità ridussero la produzione di film sociali. Il primo film rilevante imperniato su un gangster fu “Le notti di Chicago” 1927 di Von Sternberg. Il genere guadagnò prestigio nei primi anni Trenta. I film gangster erano centrati sull’ascesa al potere di criminali senza scrupoli, una progressione scandita da vestiti sempre più costosi e automobili potenti; essi furono molto criticati per la presunta glorificazione della violenza. Il codice Hays proibiva di raffigurare in maniera positiva i criminali, ma i produttori si difendevano sostenendo di limitarsi ad affrontare un problema sociale. Gli studios si sforzarono di evitare la censura senza dover rinunciare all’eccitazione che il genere poteva garantire. Per convenzione si ritiene che il noir, più simile a uno stile e a una tendenza narrativa che a un genere vero e proprio, nasca nel 1941 con “Il mistero del falco” di Huston o ancor prima, con “Lo sconosciuto del terzo piano”. La maggioranza dei noir racconta di delitti, ma la tendenza scavalca i generi e comprende opere di impegno sociale come “Giorni perduti” di Wilder e spy stories come “Il prigioniero del terrore” di Lang. Il noir deriva dal romanzo poliziesco americano. I noir si rivolgevano soprattutto a un pubblico maschile: gli eroi sono quasi sempre uomini, di solito investigatori o criminali, caratterizzati da pessimismo, insicurezza o da una visione del mondo fredda e distaccata. Le donne sono seducenti ma traditrici, spingono i protagonisti verso il pericolo o li sfruttano a fini egoistici. L’ambientazione classica è la grande città, specialmente in scene notturne. Tra il 1930 e il 1945 i film di guerra subirono cambiamenti significativi. I film di guerra erano vivaci e spesso mostravano americani di varie origini etniche uniti nel combattere l’Asse. Molti film di guerra sui nazisti si limitavano a cinegiornali dell’istituto LUCE magnificavano il regime di Mussolini e non mancarono i film esplicitamente fascisti. Il periodo vide fiorire diversi generi popolari: gli studi italiani sfornavano commedie o melodrammi romantici. Come avvenne anche in altri Paesi, il cinema sonoro diede rapidamente il via alla produzione di commedie romantiche fondate su melodie di successo e incoraggiò l’umorismo dialettale e molti comici popolari: Vittorio de Sica, Totò passarono dai varietà ai teatri regionali al cinema. Innovativo fu il quinto film di De Sica come regista, “I bambini ci guardano” (1944). De Sica spinge il melodramma sull’orlo della tragedia descrivendo una donna tentata dall’abbandonare marito e figlio per un amante: una situazione familiare che De Sica complica adottando il punto di vista del bambino e introducendo elementi di critica sociale; nell’impressionante finale, il figlio rifiuta il bacio della madre che ha condotto il padre al suicidio. Nel 1943, dopo lo sbarco degli alleati nell’Italia meridionale e l’instaurazione della repubblica di Salò, la produzione cinematografica italiana subì una notevole flessione e non si riprese fino al 1945, quando i ricordi della Resistenza e l’impegno di descrivere la vita quotidiana furono le fonti di ispirazione primaria del neorealismo. Capitolo 10: Francia 1930-1945, realismo poetico, fronte popolare e occupazione L’industria e il cinema negli anni Trenta Il mercato sonoro in Francia era inizialmente dominato dai sistemi tecnologici americani e tedeschi, anche se durante l’era del muto la Gaumont aveva spesso tentato di progettare un sistema sonoro francese. All’inizio del 1929 la Tobis- Klangfilm aprì una filiale parigina e con questa etichetta produsse molti film francesi, tra cui i primi tre lavori sonori di Renè Clair. La propensione al fantastico e al surreale del cinema francese muto continuò a manifestarsi negli anni Trenta. Renè Clair divenne il più celebre tra i registi francesi del primo periodo sonoro. Il suo impiego non convenzionale dei movimenti di macchina, i brani silenziosi e le gag acustiche furono tratti distintivi del suo lavoro. La tradizione surrealista trovò una continuazione in diversi film, nessuno dei quali pero poteva eguagliare la caotica violenza degli esordi bunueliani. Il surrealismo influenzò anche il più promettente regista dei primi anni Trenta, Jean Vigo. Per il modo in cui descrive la vita in collegio dal punto di vista dei giovani alunni, “Zero in condotta”, è il film più vicino al gusto surrealista: gran parte degli insegnanti sono ritratti come figure grottesche. Nella scena più celebre, gli scolari sfidano gli insegnanti scatenando in dormitorio una battaglia di cuscini. Vigo morì nel 1934 e segnò la fine del surrealismo nel cinema francese, così come la partenza di Clair per l’America provocò di fatto l’abbandono del genere fantastico. Molti film francesi importanti degli anni Trenta erano produzioni prestigiose di livello elevato, spesso adattamenti letterari come “Delitto e castigo” dal romanzo di Dostoevskij. Il cinema francese aveva negli anni Trenta un discreto parco di divi popolari. Molti film francesi di qualità erano firmati da autori stranieri, soprattutto tedeschi: tra Berlino e Parigi vi era un continuo scambio di registi. G.W.Pabst diresse una versione multilingue del Don Chisciotte. Per altri emigranti illustri la Francia costituì una tappa intermedia verso Hollywood. Anche Fritz Lang, abbandonata la Germania per non dover lavorare sotto il nazismo, si fermò brevemente in Germania. Accanto a queste produzioni in studio, vi furono anche molti film improntati al realismo quotidiano. Fra questi spiacca “La maternelle” (La scuola materna, 1933): viene affrontato il problema dei bambini abbandonati o maltrattati. Essi girarono il film in un autentico asilo pubblico, scegliendo bambini senza esperienza di recitazione. Un altro autore emerso negli anni Trenta, dotato di uno stile molto personale e attento alla realtà quotidiana, è Marcel Pagnol, già celebre come autore di commedie sentimentali che avevano un tono leggero e ironico. Attori e troupe erano più o meno gli stessi da un film all’altro. Tra gli anni Trenta e Quaranta il regista realizzò tutti i suoi maggiori successi in Provenza: l’impianto era di norma meno teatrale ma le trame erano perlopiù semplici storie di vita in provincia. Realismo poetico Molti dei più memorabili film francesi degli anni Trenta rientrano nel cosiddetto realismo poetico, una tendenza generale, più che un vero e proprio movimento come erano stati impressionismo e avanguardia sovietica. I protagonisti sono spesso operai disoccupati, criminali o comunque figure ai margini della società che, dopo una vita di delusioni, trovano una occasione di riscatto in amori intensi e idealizzati che si risolvono però in un’ultima sconfitta. Il tono globale è all’insegna della nostalgia e amarezza. Fu però a metà degli anni Trenta che il realismo poetico si affermò pienamente grazie ad autori come Julien Duvivier, Marcel Carnè e Jean Renoir. Il più significativo tra i registi francesi degli anni Trenta fu Jean Renoir, la cui carriera si estende dagli anni Venti fino agli anni Sessanta ma raggiunge in questo decennio il vertice della creatività. Egli realizzò numerosi film, alcuni dei quali nello stile del realismo poetico. “La cagna” (1931) può essere considerato un preludio al realismo poetico. “La cagna” introduce molti elementi che caratterizzano lo stile di Renoir: virtuosistici movimenti di macchina, inquadrature in profondità di campo e improvvisi cambiamenti di tono. Anche se lo stile del film è realistico, Renoir lo apre e chiude col sipario di un teatrino di marionette, quasi a suggerire che si tratta solo di una recita. Nonostante la debolezza del settore, il cinema francese degli anni Trenta produsse molti film importanti. Il fronte popolare Per quanto breve, il periodo del Fronte popolare esercitò un’influenza evidente sul cinema. Il fronte popolare forò il gruppo Cinè Libertè, finalizzato alla produzione di film e alla pubblicazione di una rivista. Fra i membri spiccava Jean Renoir. Cinè Libertè produsse “La vita ci appartiene” (1936), un lungometraggio di propaganda per le imminenti elezioni di primavera, al quale seguì due anni dopo “La Marsigliese”. Nella sua qualità di regista più importante di Cinè Libertè, Renoir fu scelto per supervisionare la realizzazione collettiva e la regia. “La vita ci appartiene” era innovativo nello stile e mescolava scene ricostruite e riprese dal vero. Del tutto diverso è “La Marsigliese”, un’epopea storica che rievoca i fatti della Rivoluzione francese e la caduta della monarchia nel 1792. Il film è ricco delle carrellate spettacolari tipiche di Renoir, una delle quali esemplifica il suo modo di raccontare la storia partendo dai dettagli e alternando eventi insignificanti ad avvenimenti cruciali. Le aspirazioni del Fronte popolare sono evidenti sia pur in modo meno esplicito, anche in altri film del realismo poetico che descrivono la classe operaia con partecipazione e pessimismo. Durante la guerra molti cineasti francesi furono arruolati e la produzione di una ventina di film fu sospesa. Nel 1940, dopo che i tedeschi entrarono in Francia e dopo che nella cittadina turistica di Vichy fu instaurato un governo francese di destra, l’industria cinematografica venne travolta. Ebrei, progressisti e altri dovettero fuggire all’estero e nell’area non occupata. Dopo il 1941 la produzione diede segni di ripresa e si svilupparono due industrie separate (nella zona occupata e in quella non). Alla fine del 1940 il governo di Vichy istituì il comitato di organizzazione delle industrie cinematografiche (COIC) a sostegno e controllo dell’industria: la censura era rigida e il governo di destra cercò di escludere gli ebrei dal mondo del cinema. Le apparecchiature e le pellicole scarseggiavano e bisognava fronteggiare anche la mancanza di fondi. Qualche finanziamento arrivava sottobanco da fonti ebraiche o americane e italiane. Il COIC contribuì ad alleviare i problemi finanziari con prestiti governativi a basso interesse. Nella zona occupata il pubblico preferiva i film francesi e i tedeschi allora permisero la ripresa della produzione nazionale. Molti cineasti tornarono a lavorare, i film francesi ricominciarono a uscire e l’affluenza di pubblico crebbe nuovamente: per la produzione francese la guerra divenne un periodo particolarmente proficuo. La Germania sostenne la produzione francese per dimostrare i vantaggi della collaborazione con i tedeschi e per realizzare quel cinema europeo tanto desiderato negli anni Venti. Nel 1940 nacque a Parigi la tedesca Continental, sotto il controllo della UFA, che produsse un settimo dei film realizzati in Francia. La censura tedesca nei confronti dei film francesi era sorprendentemente tollerante, limitandosi perlopiù a eliminare ogni riferimento agli USA e UK. Col progredire del conflitto, la carenza di materiali rese la produzione sempre più difficile, fino a bloccarla del tutto nel 1944. Gran parte dei film realizzati durante l’occupazione è costituita da commedie e melodrammi analoghi a quelli usciti prima della guerra; i film più notevoli del periodo sono quelli “di prestigio”: si trattava di produzioni molto professionali con scenografie imponenti e attori di successo. Fantasie d’evasione sono evidenti in due opere importanti del periodo bellico. “L’amore e il diavolo” di Marcel Carnè, ambientato nel Medioevo, impiega scenografie e costumi molto curati per raccontare di un uomo e una donna invitati dal diavolo a corrompere gli abitanti di un castello, poi trasformati da questi in statue. Tale finale è stato interpretato come allegoria della resistenza francese. Alcuni scenografi e compositori ebrei collaborarono anonimamente al film. Il più importante tra i registi che esordirono sotto l’occupazione fu Robert Bresson. I due film più celebri di tale periodo sono “Il corvo” di Clouzot e “Amanti perduti” di Marcel Carnè. Quest’ultimo, della durata di tre ore, realizzato con mille difficoltà tra le privazioni degli ultimi anni di guerra, è un affresco sul mondo del teatro nella Parigi del 19esimo secolo e segue intrecci sentimentali di diversi personaggi. Capitolo 11: Il cinema americano nel dopoguerra, 1945-1960 Il clima del dopoguerra Dal 1947 il Congresso cominciò a indagare sulle attività comuniste negli USA allo scopo di individuare i presunti sovversivi. Alcune figure di spicco dichiararono in colloqui segreti con i rappresentanti del Congresso di poter denunciare le persone legate ai comunisti a Hollywood. Bertolt Brecht, che aveva lavorato a Hollywood durante la guerra e che, pur avendo idee politiche di sinistra non aveva mai fatto pare del partito Comunista, diede risposte neutre e ripartì immediatamente per la Germania dell’Est. Furono individuati 10 testimoni ostili i quali da quel momento vennero emarginati dai produttori e divenne impossibile lavorare ufficialmente nel mondo del cinema. Alcuni cineasti finiti sulla lista nera dovettero emigrare per continuare a lavorare. Altri lavorarono sotto pseudonimo: Dalton Trumbo scrisse sotto falso nome il soggetto di “La più grande corrida” che gli valse un Oscar. A partire dagli anni Dieci gli studios di Hollywood si erano sostenuti a vicenda nella creazione di un oligopolio, giungendo a controllare di fatto l’intera industria cinematografica. Le Cinque grandi possedevano catene di sale, vendevano i film in pacchetti e usavano altri mezzi illeciti per tenere i film indipendenti fuori dal circuito delle prime visioni; le Tre piccole non possedevano sale ma erano accusate di contribuire all’esclusione di altre società dal mercato. Nel 1938 il Ministero della giustizia avviò una causa, ricordata come il “caso Paramount”; il governo accusava le Cinque Grandi e le autocensura dell’industria, la Motion Picture Association of America (MPPA, già nota come Motion Picture Producers and Distributors association) cominciò a incontrare difficoltà nel far rispettare il suo Codice di produzione; quando le Cinque major persero sale, i cinema indipendenti furono liberi di mostrare anche film non approvati. La sentenza Paramount ebbe così l’effetto non voluto di liberalizzare la censura, permettendo che circolassero sempre più film sprovvisti dell’autorizzazione del Codice di produzione. Prima del 1948 il possesso delle sale cinematografiche e la prenotazione in blocco assicuravano ai grandi studios che tutta la loro produzione sarebbe stata distribuita e proiettata. Essi programmavano l’attività produttiva nell’arco dell’anno. Dopo la sentenza contro la Paramount, il pubblico aveva cominciato a disertare le sale ed era invogliato ad acquistare il biglietto solo se il film era particolare o costituiva un evento. Di conseguenza il doppio programma cessò quasi del tutto, e a livello produttivo ci fu sempre meno differenza tra i film di categoria A e B. Con la riduzione del numero di film prodotti dai grandi studios di Hollywood, la produzione indipendente acquistò uno spazio maggiore. Gli indipendenti assumevano il personale necessario alla realizzazione di un film volta per volta. Dopo essere stato concluso, il film era per lo più distribuito da una delle Cinque Grandi o delle Tre piccole. All’inizio del 1959 circa il 70% della produzione era costituita da film indipendenti; negli anni Sessanta la percentuale raggiunse la quasi totalità dei film, mentre gli studios si dedicavano soprattutto a serie televisive. Alcune società indipendenti si specializzarono in film di exploitation, produzioni minime basate su argomenti attuali o sensazionalistici che potessero essere exploited ovvero sfruttate commercialmente. I film di exploitation erano horror, pellicole di fantascienza e di argomento erotico. Un po’ più impegnativi erano i film di exploitation realizzati dall’American Internation pictures (AIP). Mentre i grandi distributori seguivano il metodo di avviare la distribuzione di un film in poche sale selezionate, gli indipendenti spesso praticavano uscite a tappeto, facevano pubblicità in televisione, distribuivano film durante l’estate e resero i drive-in locali di prima visione. Tutte queste innovazioni furono gradualmente assorbite dalle major. Il cinema classico hollywoodiano: una tradizione che continua Anche se la base industriale di Hollywood cominciava a sgretolarsi, lo stile classico rimaneva il principale modello di racconto. Nessuna innovazione minò le basi della narrazione cinematografica classica che si fondava su una catena di cause ed effetti centrata su un protagonista, un percorso lineare e coerente che andava verso una conclusione. Mentre alcuni registi esploravano strategie narrative complesse, altri abbracciavano un nuovo realismo nell’ambientazione, nell’impiego delle luci e nella narrazione stessa. La tendenza alle riprese on location iniziata durante la guerra continuò per esempio nel semidocumentario di solito un giallo di investigazione ripreso con le apparecchiature leggere perfezionate durante la guerra. Una complessa narrazione a flashback e il sapore semidocumentario talvolta convivevano nello stesso film: uno degli esempi più articolati di artificio nel semidocumentario è “Rapina a mano armata” 1956 di Kubrick, nel quale un gruppo di uomini compie in un ippodromo una rapina organizzata su una minuzioso calcolo dei tempi. Kubrick offre di fatto immagini da cinegiornale, con un’asciutta voce over che indica il giorno e l’ora di molte scene e manipola il tempo in modo assai complesso: il film mostra una parte della rapina, poi fa un passo indietro per descrivere le vicende che hanno portato a quella fase e poiché segue l’azione da diversi punti di vista, riprende gli stessi eventi più volte. L’uso di long take e immagini composte in profondità si intensificò nei primi anni Cinquanta. Si potevano girare scene in una unica inquadratura (piano sequenza) con fluidi movimenti di macchina facilitati dai nuovi dolly crab che consentivano di muoversi in qualsiasi direzione. Molte di queste innovazioni erano associate al noir, lo stile dark che continuò a imperare sino alla fine degli anni cinquanta. I direttori della fotografia più audaci spinsero l’illuminazione in chiaroscuro all’estremo. La maggior parte dei melodrammi, musical e delle commedie degli anni Cinquanta evitava il chiaroscuro, optando per un look più chiaro e luminoso. Nello stesso periodo, in contrasto con la tendenza al piano- sequenza degli anni dell’immediato dopoguerra, i registi cominciarono a ricorrere a un montaggio più spettacolare e veloce. L’integrazione di intere canzoni nelle scene d’azione di praticamente tutti i generi divenne una caratteristica del cinema americano degli anni Sessanta: gli studi cinematografici si legarono alle etichette musicali, scoprirono le potenzialità della propaganda reciproca tra film e dischi e fecero delle colonne sonore una nuova fonte di profitti. Le case di produzione cercarono di rivitalizzare i generi cinematografici, puntando a differenziare ogni film e a potenziarne la spettacolarità con le star più famose, con scenografie e costumi sfarzosi, con il colore e con lo schermo panoramico. Generazioni di registi a confronto Alcuni autori di primo piano si ritirarono o rallentarono l’attività poco dopo la guerra. “Il grande dittatore” (1940) aveva segnato l’addio del vagabondo di Charlie Chaplin e i suoi nuovi personaggi, uniti alle controversie sulle sue idee politiche e sulla sua vita privata, ne fecero diminuire la popolarità. Minacciato di persecuzioni politiche negli USA, Chaplin si stabilì in Svizzera. Nel complesso, comunque, un certo numero di registi celebri mantenne nel dopoguerra una posizione importante. Cecil B. DeMille, Frank Borzage, Henry King, George Marshall rimasero sorprendentemente attivi negli anni ’50 e ’60. John Ford era il regista più in vista della vecchia generazione e con la commedia irlandese “Un uomo tranquillo” (1952) diresse uno dei film più a lungo amati dal pubblico. Quasi tutta l’opera di Ford nel dopoguerra spaziò nel genere western. Tra i registi specializzati in melodrammi, commedie e musical, Vincente Minnelli e George Cukor spiccano per un uso accorto dei long take (tecnica cinematografica che consiste di un'inquadratura lunga, che ha lo scopo di eliminare, o almeno limitare, l'uso del montaggio cinematografico. Spesso viene erroneamente scambiata per un piano sequenza. La differenza tra le due tecniche consiste nel fatto che, mentre un piano sequenza si assume per intero il ruolo di una scena, il long take si limita ad una parte di essa, che viene completata poi con altre inquadrature). Dopo gli esordi nelle coproduzioni anglo tedesche, Hitchcock si era segnalato all’attenzione della critica con il primo film girato in doppia versione muta e sonora: Blackmail (1929). In questo film il sonoro era stato utilizzato in chiave di potenziamento dello stile. La prima sequenza fu girata muta, con il montaggio veloce tipico del periodo e sonorizzata in seguito. Hitchcock continuò per tutta la sua carriera a essere un abilissimo manipolatore del sonoro e un regista capace di inquadrare e montare le scene in modo da lasciar intuire i pensieri dei personaggi. Hitchcock era probabilmente il regista più popolare presso il pubblico nel dopoguerra. I suoi film erano contraddistinti dal gusto di sconcertare il pubblico. Hitchcock mirava a una reazione pura, quasi fisica: il suo fine non era il mistero o l’orrore ma la suspense. Le trame, tratte da romanzi o frutto della sua immaginazione, si basavano su situazioni e figure ricorrenti. A volte Hitchcock poneva a se stesso sfide tecniche: “Nodo alla gola” (1948) è costituito da otto lunghissimi piani sequenza. Hitchcock aveva un enorme fiuto nel cogliere i desideri del pubblico: Psycho scatenò diversi cicli di film su folli assassini, fino agli “slasher film” degli anni ’80; “gli uccelli” anticipava gli horror incentrati sulla vendetta della natura. Licenziato dalla RKO, Welles divenne un regista errante: produsse gran parte delle sue opere con fondi racimolati tramite finanziatori europei e da proventi delle sue apparizioni come attore. Come regista e interprete, Welles realizzò riduzioni di classici come Macbeth (1948), Otello, adottando sempre la tecnica spettacolare che aveva introdotto in “Quarto Potere”: uso gotico del chiaroscuro, profondità di campo, colonne sonore di devastante potenza, improvvisi stacchi, accavallarsi e interrompersi del dialogo, labirintici movimenti di macchina. Orson Welles proveniva dagli ambienti del teatro progressista di New York, così come parecchi altri registi che come lui approdarono a Hollywood. Durante gli anni Trenta il Group Theatre trapiantò in America il metodo naturalistico di recitazione insegnato da Stanislavskij al teatro d’arte di Mosca. Il principale allievo del Group era Elia Kazan. Dopo la guerra Kazan e due colleghi di New York fondarono l’actor Studio, nella convinzione che il metodo di Stanislavskij richiedesse all’attore di radicare la sua performance in esperienze personali. La concezione di Kazan trovò in Marlon Brando il suo principale esponente: una classica applicazione del metodo avviene in “Fronte del porto” dello stesso Kazan. Tra i cineasti attivi negli anni 1945-1965, i più anziani avevano cominciato nel cinema muto o nei primi parlati; le nuove leve, invece, provenivano di norma dal teatro o dallo studio system. La generazione più giovane, che iniziò a realizzare film a metà degli anni Cinquanta, aveva spesso cominciato dalla televisione. Capitolo 12: Italia, neorealismo e oltre (1945-1956) La primavera italiana Il cinema neorealista si impose come una forza di rinnovamento culturale e sociale. Durante il declino del regime fascista, nella letteratura e nel cinema era affiorato un impulso realista. Da dove nasceva il realismo di questi film? In parte per contrasto con molti dei film che li avevano preceduti: il cinema italiano era rinomato in tutta Europa per le sue meravigliose scenografie in studio, ma gli studi di Cinecittà avevano subito pesanti danni durante la guerra e non erano in grado di ospitare grandi della panoramica con lo zoom: ma se l’immagine di Visconti srotola uno spettacolo senza fine, Rossellini usa panoramica e zoom per la loro semplicità ed economicità e per la loro efficacia nel presentare l’azione in modo neutro, al di là del punto di vista di qualsiasi personaggio. Là dove Visconti immagina la Storia come una grande opera, Rossellini la de-drammatizza. Mentre la ripresa economica spingeva l’Italia verso una crescente prosperità, gli spettatori si stancarono dell’attenzione neorealista verso la povertà e la sofferenza. Il neorealismo rosa fu la forma dominante del movimento nei primi anni Cinquanta. Il filone conservava in parte la scelta di ambientazioni autentiche, l’uso di attori non professionisti e occasionalmente sfiorava questioni sociali, ma riconduceva il neorealismo nella più forte tradizione della commedia rosa. Gli studi di cinecittà, finalmente rimessi in funzione, furono trasformati in una vera fabbrica di film attenta al mercato internazionale (in particolare americano). Altri cineasti si indirizzarono verso il ritratto psicologico. L’attenzione era centrata sull’importanza delle circostanze sociali nei rapporti tra individui. Capitolo 14: Il cinema come arte e l’idea di autore Nascita e sviluppo della teoria dell’autore Fin dalla metà degli anni Quaranta, registi e sceneggiatori francesi avevano discusso su chi potesse a buon diritto essere considerato l’autore di un film. Sotto l’occupazione si considerava il sonoro come l’era dello sceneggiatore. Astruc sosteneva che il cineasta avrebbe potuto impiegare la macchina da presa come lo scrittore faceva con la penna. Il cinema moderno sarebbe stato personale e la tecnologia, così come il cast sarebbero stati semplici strumenti nel processo creativo dell’artista. Nel 1951 venne fondato il mensile “Cahiers du cinèma” e Bazin ne divenne presto la colonna portante. Per Truffaut lo sceneggiatore del cinema di qualità riduceva il ruolo dell’autore a quello di semplice esecutore. I “Cahiers du cinèma” esaltavano quei registi che scrivevano o controllavano le sceneggiature dei loro film. Il concetto di autore tendeva infine a promuovere lo studio dello stile: se un cineasta era un artista, la sua arte si rivelava non solo in che cosa diceva, ma nel come lo diceva; il cineasta doveva avere il controllo del mezzo e sfruttarlo in modi sorprendenti e innovativi. Questa idea di autore si sposò felicemente negli anni Cinquanta e Sessanta con la maturazione del cinema come arte: la maggior parte dei registi più prestigiosi scriveva le proprie sceneggiature e tutti seguivano temi e scelte stilistiche personali. Luis Bunuel (1900-1983) Bazin trovava i suoi film profondamente morali e i critici di “Positif” riconoscevano in lui il grande surrealista del cinema, impegnato a sferrare l’attacco ai valori borghesi con immagini di selvaggia bellezza. Bunuel girò “Las Hurdes”, un documentario su un’area isolata ed arretrata della Spagna, originariamente muto poi distribuito in Francia con sonoro. Bunuel si adattò senza problemi al cinema commerciale: il suo primo film messicano era un musical con molte star, il secondo una commedia. Bunuel amava affidarsi a immagini poetiche facendo leva su un perturbante erotismo come accade nel sogno di Pedro ne “I figli della violenza”, in cui piume di gallina scendono dal soffitto, la madre gli offre un pezzo di carne informe e un ragazzo assassinato e coperto di sangue gli sorride da sotto il letto. In altri film egli fa sorgere la sua poesia surrealista da trame più convenzionali. Lo stile di Bunuel è piuttosto diretto, basato su una moderata profondità di campo, pochi movimenti di macchina e una messa in scena semplice; ciò rende ancora più intense le immagini suggestive che turbano le convenzioni in fatto di religione e sessualità. Bunuel tratteggia personaggi caratterizzati da certe ossessioni e sembra invitare il pubblico a condividerle. I suoi film sono ricchi di ripetizioni, digressioni e transizioni tra realtà e fantasia. Spesso un film di Bunuel termina in modo inatteso ed enigmatico. I film di Bunuel criticano le convenzioni sociali e allo stesso tempo giocano con astuzia con le prassi narrative che ci mantengono inchiodati alle storie. Ingmar Bergman (1918-2007) Proveniva dal teatro. Dopo un primo incarico come sceneggiatore, passò dietro la macchina da presa nel 1945: fino al 2003 realizzò più di 60 film. I film del dopoguerra gli fecero acquisire la reputazione di artista in grado di padroneggiare diversi generi. Le sue prime pellicole erano drammi domestici, spesso incentrati su giovani coppie alienate alla ricerca della felicità attraverso l’arte o la natura. Poi passò a trattare fallimenti d’amore coniugale e profondi psicodrammi. Il culmine della carriera di Bergman fu una portentosa trilogia di film Kammerspiel: Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1962), Il silenzio (1963). Le sue sceneggiature erano tradotte in tutto il mondo, i film premiati ai festival e vincevano Oscar, facendo di Bergman il regista per eccellenza. Nei suoi film egli ha riversato sogni, ricordi, sensi di colpa e fantasie: eventi della sua infanzia ricorrono in molte sue opere. È diventato così di dominio pubblico il mondo privato di Bergman, in cui coabitano la balia e la severa figura paterna, l’uomo cinico, l’artista visionario e tormentato. I suoi primi film descrivono crisi adolescenziali e l’instabilità del primo amore, mentre le opere principali degli anni Cinquanta sono caratterizzate dal malessere spirituale e dalla riflessione sul rapporto fra il teatro e la vita. Il lato più positivo è spesso la fede nell’arte. Le sue tecniche di messa in scena e di ripresa sono di norma al servizio dei valori drammatici delle sue sceneggiature: i film degli anni Cinquanta utilizzano profondità di campo e piani-sequenza per scene di intensa riflessione psicologica. Bergman spinge i suoi attori verso lo spettatore, lasciando a volte che si rivolgano direttamente alla macchina da presa. Federico Fellini (1920-1993) Bazin individuò l’idea di un simbolismo inesauribile nei film di Fellini. I film ritornano irresistibilmente al circo, al caffè concerto, alla strada desolata, a piazze deserte nel cuore della notte, alla spiagga; “La strada” inizia in riva al mare e in riva al mare si conclude. Molti sono i personaggi ricorrenti, dal matto che riveste un ruolo di collegamento con il divino al maschio narcisista, dalla figura materna alla prostituta. L’abilità di Fellini nel creare un mondo personale fu l’elemento centrale della sua fama fra gli anni Cinquanta e Sessanta. “La strada” vinse l’Oscar nel 1956, “La dolce vita” ricevette la Palma d’Oro a Cannes. Con 8 e mezzo (1963), altro vincitore di Oscar, Fellini creò forse l’opera più moderna dell’epoca. Realizzò anche il Fellini- Satyricon di Petronio. I film di Fellini sono apertamente autobiografici: il periodo della scuola ritorna nei flashback di 8 e mezzo. Fino a “La dolce vita” l’opera di Fellini è saldamente radicata nel mondo reale; con “8 e mezzo” e “Giulietta degli spiriti” si apre il regno del sogno e dell’allucinazione e il protagonista di ciascuno dei suoi film diviene Fellini stesso, o meglio, la sua immaginazione. L’opera di Fellini ha anche un lato meno personale in cui l’autobiografia e la fantasia si accompagnano a un esame della storia sociale: “La dolce vita” contrappone l’antica Roma, la Roma cristiana e quella moderna, giudicando decadente la vita contemporanea; “Amarcord” non è semplicemente un placido ritorno alla sua adolescenza, ma anche un tentativo di mostrare in che modo il regime di Mussolini soddisfacesse le esigenze immature degli italiani. Fellini propose una critica sociale secondo la propria sensibilità. Un’altra caratteristica è l’impiego massiccio del doppiaggio, in modo da mantenere il controllo totale del dialogo e degli effetti sonori. Michelangelo Antonioni (1912-2007) Antonioni divenne noto più tardi di Fellini con film giudicati cerebrali e pessimisti, ma che per tutti gli anni ’60 contribuirono a definire il cinema moderno europeo. Egli si era formato in epoca neorealista realizzando diversi corti. Il suo film più famoso fu “L’avventura” (1960) che, nonostante l’accoglienza poco calorosa a Cannes, riscosse in seguito un successo internazionale; a esso seguirono “La notte” (1961), “L’eclisse” (1962) e “Il deserto rosso” (1964), completando una tetralogia sull’esplorazione della vita contemporanea. Antonioni accettò quindi un contratto con la MGM per tre film in inglese: il primo, “Blow up” (1966) premiò ampiamente la fiducia di Hollywood conquistando stima e successo commerciale in tutto il mondo. Il suo ultimo film è stato un episodio del collettivo “Eros” (2004). I suoi primi film contribuirono a spostare l’attenzione dal neorealismo verso una analisi intima e psicologica condotta con uno stile severo e antimelodrammatico, descrivendo il malessere esistenziale, visibile soprattutto nelle classi sociali elevate come indifferenza ed estraneità rispetto al mondo. Con la tetralogia dei primi anni ’60 si approfondisce quella che è stata definita la noia antonioniana. “L’avventura” intraprende una indagine dell’alienazione tipica dell’alta borghesia nel mondo che essa stessa ha configurato. Vacanze, feste e ambizioni artistiche sono vani tentativi di nascondere l’assenza nei personaggi di propositi ed emozioni. Altri film della tetralogia scelgono diverse linee narrative: “La notte” si svolge in un periodo di 24ore, seguendo gli incontri casuali di una coppia che illuminano la disintegrazione del loro matrimonio. Tutti i film della tetralogia terminano con finale aperto. Fin dall’inizio della sua carriera Antonioni propone un uso magistrale della profondità di campo e del piano sequenza con movimenti di macchina. Le prime opere esplicitano la scelta di nascondere al pubblico le reazioni dei personaggi, spesso sfruttando elementi della scenografia. Blow up divenne un esempio centrale del cinema moderno che si interroga su se stesso. I drammi in sordina dei personaggi superficiali o paralizzati di Antonioni incontrarono il favore di un’intera epoca. L’esempio di Antonioni spinse i colleghi a tentare la via della narrazione ellittica e dal finale aperto: “La conversazione” (1974) di Francis Coppola deriva direttamente da Blow up. Robert Bresson (1901-1999) Il primo film diretto da Robert Bresson fu “La conversa di Belfort” 1943, un audace noir ambientato in un convento dove le suore cercano di redimere alcune criminali. L’interesse per la redenzione spirituale, caratteristico di Bresson, emerge in forma già matura nel rapporto tra una suora ribelle e un’assassina, che si aiutano l’una con l’altra a trovare una pace imprevedibile. A prima vista la sua propensione a usare fonti letterarie e il frequente ricorso a sceneggiatori famosi per i dialoghi parrebbero collegarlo alla tradizione del cinema di qualità. Inoltre il suo interesse per gran parte degli incassi domestici. Sia l’America sia le altre nazioni europee partecipavano con entusiasmo a coproduzioni con l’Italia, Cinecittà sfornava un film dopo l’altro, nel 1962 Dino De Laurentis costruì alle porte di Roma un grande complesso di teatri di posa. All’inizio degli anni Sessanta l’Italia era il più forte centro di produzione dell’Europa occidentale. I registi più in vista erano Fellini e Antonioni ma l’espansione dell’industria favorì l’esordio di nuovi registi: molti di questi si dedicarono ai generi popolari, altri manifestarono uno stile personale. Uno sviluppo radicale dei presupposti della modernità è presente nell’opera di Pier Paolo Pasolini. Marxista non ortodosso, omosessuale, non credente ma imbevuto di cattolicesimo, suscitò accesi dibattiti nella cultura italiana passando al cinema dopo aver già raggiunto la popolarità come poeta e romanziere. L’uso di una sintassi filmica sgrammaticata e di attori che erano ragazzi di strada fa di “Accattone” (1961) e “Mamma Roma” (1962) gelide analisi della povertà urbana. Questi film furono salutati come un ritorno al neorealismo, ma il modo in cui Pasolini descrive l’ambiente è intriso di selvaggia violenza e insieme di inquietante onirismo. Pasolini accusava il neorealismo di essere troppo legato alle politiche della Resistenza e di offrire un realismo solo superficiale. I suoi primi film propongono una varietà di atmosfere: composizioni che ricordano i dipinti rinascimentali, personaggi bassi e volgari; scene girate per strada sono commentate dalla musica di Bach. Pasolini spiegava questi accostamenti di stile sostenendo che i contadini e i livelli più bassi della classe operaia urbana evidenziavano un legame con la società primitiva e preindustriale che egli intendeva evocare con le sue citazioni di grandi opere d’arte del passato. Scelta di puntare sulla contaminazione artistica. Bernardo Bertolucci è l’equivalente italiano dei registi della Nouvelle Vague. A 19 anni fu aiuto regista di Pasolini in “Accattone” e proprio Pasolini firmò il soggetto del suo primo film, “La commare secca” (1962): nel film alcuni sospetti di omicidio sono interrogati da investigatori fuori campo e i flashback provvedono a mostrarci le diverse versioni degli eventi secondo ogni testimone. Questa soluzione, già usata in Quarto potere, si applica qui a una classica situazione neorealista: il furto di una borsa che ricorda sia “Ladri di Biciclette” sia “Le notti di Cabiria”. Il titolo più celebrato di Bertolucci in questo periodo fu l’autobiografico “Prima della rivoluzione” (1964), la storia di un giovane che si innamora della zia: percorso da riferimenti ai Cahiers e a registi di Hollywood, il film rivela nel regista una perfetta padronanza delle tecniche spiazzanti del nuovo cinema. In un breve volgere di anni anche l’industria cinematografica italiana entrò in crisi: nel 1965 lo stato intervenne offrendo aiuti analoghi a quelli francesi. Mentre questa politica arginò la situazione, l’industria si lanciò in produzioni a basso budget che esploravano generi nuovi come l’erotismo e le imitazioni di James Bond. Il genere italiano di maggior successo internazionale fu quello poi definito “spaghetti western”, il cui esponente principale fu Sergio Leone. Leone era un cinefilo appassionato; “Per un pugno di dollari” (1964), “Per qualche dollaro in più” (1965), “Il buono, il brutto e il cattivo” (1966) sono rimasti i prototipi del western all’italiana e hanno tutti per protagonista Clint Eastwood. I western di Leone sono all’insegna di un crudo realismo, città malsane, violenza molto più efferata di quanto gli spettatori avessero mai visto. Anche le colonne sonore di Ennio Morricone conferiscono all’azione uno stile eroico. La musica contribuiva ad amplificare i nodi tematici del film. Gran Bretagna: il cinema del Kitchen Sink Il cinema inglese reagì al declino delle presenze in sala con nuovi generi. La Hammer Films, una piccola casa indipendente, divenne all’improvviso popolare con una serie di film horror di grande successo in tutto il mondo: molti, come “Dracula il vampiro” 1958, “La mummia” 1959, erano remake dei film prodotti dalla Universal negli anni Trenta. Se l’horror costituiva la parte più vistosa del cinema di cassetta, la tendenza del Kitchen Sink (vale a dire del “Lavello”, un nomignolo che nasce dalla volontà di esplorare la sporca vita di tutti i giorni) fu l’equivalente britannico della Nouvelle Vague. Vi era una sorta di tendenza dei “giovani arrabbiati”. Tony Richardson nel 1959 e altri fondarono una casa di produzione, la Woodfall. Uno dei primi film della Woodfall fu proprio la riduzione del testo di Osborne in “I giovani arrabbiati”. Come altri film di questo gruppo, il sobrio realismo deve moltissimo alle riprese in ambienti autentici. Anche se “I giovani arrabbiati” fu un insuccesso commerciale, un altro film della Woodfall girato contemporaneamente e distribuito poco prima realizzò buoni incassi: “La strada dei quartieri alti” di Jack Clayton, 1959. Forse la quintessenza del cinema Kitchen Sink è “Sabato Sera, domenica mattina” di Karel Reisz, 1960. Come altri film sui “giovani arrabbiati”, si ricorre a tecniche prese a prestito dalla Nouvelle Vague, tra cui le accelerazioni per suggerire uno stato di eccitazione durante i crimini del protagonista e la macchina a mano per le scene delle sue corse all’aria aperta. Abbandonato il crudo realismo, Richardson adattò in Tom Jones (1963) un classico comico della letteratura inglese, avvalendosi ancora di una sceneggiatura di Osborne: finanziato dalla United Artists, il film riscosse un enorme successo suggellato da diversi Oscar. Il Kitchen Sink non ebbe lunga vita. I cineasti poi iniziarono a ritrarre la vita della swinging London: gli abiti inglesi e il rock britannico divennero di gran moda e Londra fu vista come la capitale del trendy, della mobilità sociale e della liberazione sessuale. “Morgan, matto da legare”, 1966 di Karel Reisz unisce il protagonista lavoratore del periodo del Kitchen Sink con una critica esilarante dello swinging London: un uomo di famiglia marxista cerca disperatamente di impedire a sua moglie di divorziare da lui per sposare un gallerista snob. Il Nuovo cinema tedescoLa Repubblica Federale tedesca nel secondo dopoguerra era divenuta una zona soggetta all’influenza del cinema americano, anche se la produzione nazionale iniziava a riprendere quota. Il genere più popolare era l’Heimat Film (film della piccola patria), incentrato su storie d’amore di provincia; gran parte della produzione di qualità dell’epoca consisteva in film di guerra o biografici. Inoltre i primi anni del dopoguerra videro sorgere il Trummerfilm (film di rovine) che affrontava il tema della problematica ricostruzione della Germania. Solo alla fine degli anni Cinquanta qualche cineasta osò occuparsi della pesante eredità del nazismo. Rispetto all’industria cinematografica, alcuni autori nazisti non poterono più lavorare, mentre altri furono riabilitati. Nel febbraio 1962 al festival di Oberhausen emersero i nuovi fermenti della Germania occidentale: ventisei giovani autori firmarono un manifesto dichiarando la morte del vecchio cinema (il cosiddetto Papas Kino, cinema di papà). Il governò fondò anche la Commissione per il giovane cinema tedesco, un ente che sulla base della sceneggiatura offriva mutui ai registi. Il nuovo cinema tedesco strinse inoltre alleanze con scrittori sperimentali per un cinema d’autore che, a differenza di quello francese, mirava a una qualità letteraria. I due debutti più notevoli del periodo furono quelli di Alexander Kluge e Jean Marie Straub. Già alla fine del 1967 il nuovo cinema tedesco vantava parecchi titoli di successo: “La ragazza senza storia” di Kluge e “i turbamenti del giovane Torless di Schlondorff vinsero diversi premi ma gli autori si trovarono sempre meno uniti. Il cinema commerciale invocò una nuova forma di sussidio e nel gennaio 1968 ottenne una legge per lo sviluppo del cinema che sbarrava la strada ai registi esordienti e favoriva i produttori che sfornavano serie commerciali veloci e a basso budget. Capitolo 16: Caduta e rinascita di Hollywood (1960-1980) Gli anni Sessanta: la recessione dell’industria cinematografica Nei primi anni Sessanta l’industria hollywoodiana poteva sembrare florida. Le major controllavano ancora la distribuzione e quasi tutti i film campioni di incasso passarono per le loro mani. “Cleopatra”, “Il dottor Zivago” di David Lean 1965 rimasero in cartellone per mesi. I musical di Broadway continuarono a riscuotere successi. La Disney dominava il mercato dei film per famiglie con “La carica dei 101”, “Mary Poppins”, “il libro della giungla”. Le major si erano ormai riappacificate con la televisione: le reti sborsavano grosse somme per i diritti di trasmissione dei film mentre gli studios iniziarono a produrre film per il piccolo schermo e programmi seriali. Nonostante l’apparente prosperità, gli studios si trovarono ad affrontare molti problemi. La frequenza nelle sale continuava a calare. Le major distribuivano meno titoli: la maggior parte delle major era dotata di grandi strutture che finirono per essere affittate come set televisivi. Il successo di film come “La conquista del West” e “Lawrence d’Arabia” spinse gli studios a investire milioni di dollari nelle megaproduzioni. Ma questi investimenti si rivelarono rischiosi: nel 1962 la MGM perse 20 milioni di dollari a causa dei costi eccessivi e la produzione di “Cleopatra”, protrattasi troppo a lungo, arrecò alla Fox una perdita di 40 milioni. Alla fine degli anni Sessanta gli studios vissero una crisi finanziaria: il bilancio della maggior parte dei film era in perdita e i dirigenti furono lenti nel comprendere che le mega produzioni rappresentavano ormai un rischio. Gli unici ad avere bilanci positivi erano i film a basso costo destinati ai giovani. Il vero campione di incassi fu “Il laureato” di Mike Nichols del 1967, una produzione indipendente che fece guadagnare al suo piccolo distributore 49 milioni a fronte di una spesa di 3 milioni. In breve, l’attivismo universitario e gli stili di vita della controcultura divennero oggetto di numerosi film giovanili corteggiati dagli studios. Il declino delle major le rese vulnerabili all’assorbimento da parte di gruppi più solidi: nel 1962 la Universal venne acquistata dalla Music Corporation of America (MCA), l’anno dopo la Warner Bros, venne assorbita dalla Seven Arts, poi incorporata nella Kinney National Services. Gli studios, prima abituati a operare come società indipendenti, divennero piccole parti di grandi gruppi, ma grazie all’afflusso di capitale poterono beneficiare di linee di credito. La recessione tuttavia non si arrestò: tra il 1969 e il 1972 le principali compagnie persero notevoli capitali. Le banche forzarono le major a evitare film dai costi elevati e a cooperare con i concorrenti, come fecero la Warner Bros e la Fox che unirono le forze per realizzare “L’inferno di cristallo” nel 1974. Negli anni Sessanta, con il continuo calo della frequenza nelle sale, Hollywood aveva difficoltà nel comprendere quali fossero le attese dei telespettatori. Ma un artista, quando conquistava un protagonisti che partono con la moto dopo aver venduto una partita di droga e aver buttato all’aria l’orologio, gesti che inneggiano a una cultura libertaria. Gli incontri che punteggiano il tragitto dei protagonisti presentano infatti uno spaccato della società di fine anni Sessanta, impreparata ad accettare il confuso ribellismo dei giovani. È nello stile che il film risente della vicinanza all’underground, a partire dalla scelta del regista di far rivivere direttamente agli attori alcune emozioni profonde. L’inquadratura decentrata ma accuratamente composta, i raccordi di montaggio discontinui, l’uso di frequenti variazioni cromatiche, il ricorso a campi lunghi o a inquadrature ravvicinate, spesso ottenute con grandangoli e zoom, contribuiscono a fare di Easy Rider un film emblematico di una nuova sensibilità. Nel frattempo la politica dell’autore si era diffusa negli USA e i movie brats, che avevano cominciato a lavorare negli anni Sessanta, l’avevano imparata nelle scuole di cinema. Molti di loro sognavano di diventare artisti come i venerati autori europei e asiatici e i registi della Nouvelle Vague. Il più famoso di loro è Francis Coppola. Con “Non torno a casa stasera” 1969, girato per strada con un autobus, finanziamenti minimi e un gruppo di amici come troupe, Coppola cercò di realizzare un film che avesse la ricchezza stilistica del prestigioso cinema europeo. Una nuova legge del 1971 riconosceva crediti d’imposta per gli investimenti nelle produzioni americane. Le major non solo recuperarono milioni di dollari ma poterono anche dilazionare il pagamento delle imposte sulle attività collaterali. In tal modo fu possibile realizzare originali film di successo come “Taxi Driver” di Martin Scorsese 1976. Quest’ultima forma di incentivazione fu sospesa nel 1976 e dalla metà degli anni ’80, gli studios non poterono più beneficiare dei crediti d’imposta; eppure i provvedimenti a favore del cinema avevano contribuito in maniera cruciale alla ripresa dell’industria. Un altro fattore determinante per la rinascita di Hollywood fu l’ondata di successi della nuova generazione di registi. Sebbene molti di loro, in particolare i movie brats, si considerassero artisti, l’intendo generale era quello di soddisfare un pubblico ampio e non elitario. Nel 1972 “Il padrino” inaugurò un’era di incassi strepitosi. I film di Francis Coppola resero alla Paramount centinaia di milioni di dollari. Altri grandi successi furono “L’esorcista”, “American Graffiti” di George Lucas 1973, “Lo squalo” di Spielberg 1975, “Rocky” 1976, “La febbre del sabato sera” e il record di “Guerre stellari” di George Lucas costato 11 milioni di dollari ne guadagnò 250 milioni. Non si era mai vista una serie di film in grado di realizzare simili incassi con le prime visioni. Ogni anno vi era solo una decina di titoli da non perdere che otteneva il tutto esaurito, mentre la maggior parte dei film prodotti dalle major non riusciva neanche a recuperare i costi. L’industria cinematografica cercò quindi di minimizzare i rischi, per esempio facendo uscire le megaproduzioni in periodi di vacanza. Nel pianificare le produzioni, gli studios optarono per i sequel e le serie basate su successi come Rocky e la saga di Star Trek. Inoltre quando constatarono che gli introiti provenienti da giocattoli, magliette e altri gadget di Guerre stellari superavano quelli del botteghino, gli studios si convinsero a creare proprie società di merchandising. Comunque esse continuavano ad aver bisogno dei registi. Mentre alcuni studios, tra cui la Disney, creavano e gestivano i loro progetti internamente, la maggior parte si affidava a registi e produttori con alle spalle importanti successi. Spielberg e Lucas divennero produttori potenti in grado di trovare finanziamenti ovunque. Nel 1975 si formarono due potenti agenzie: la International Creative Management e la Creative Artists Agency, che negli anni Ottanta avrebbero dominato il mercato. Molti tra gli intermediari più esperti venivano dalla televisione e sapevano bene come gestire i talenti; spesso gli agenti venivano poi assunti dagli studios come manager. Dato che i registi di successo ottennero un controllo maggiore sui loro progetti, i budget spesso si gonfiarono a dismisura: le riprese di “Apocalypse Now” di Coppola durarono 3 anni e il film costò più di 30 milioni di dollari. Ma alcune opere, come “!941- Allarme a Hollywood” di Spielberg che ne costò 40 milioni si rivelarono colossali fallimenti. I dirigenti degli studios iniziarono a lamentarsi del fatto che i giovani registi aspiravano a realizzare film d’autore senza restrizioni economiche. Per ironia della sorte, l’ascesa della Nuova Hollywood, il cui ruolo dei registi era stato centrale, produsse una generale sfiducia nei loro confronti. Negli anni Ottanta gli studios esercitarono un controllo molto forte, con revisioni sulla sceneggiatura e sui giornalieri, sottoponendo poi la versione finale del film a giudizio di spettatori campione nell’ambito di proiezioni test. Era iniziata una nuova era dominata dai blockbuster, forti della presenza di star ed effetti speciali e costruiti sulla base di pacchetti e accordi. “Superman” aprì la strada alla strategia delle megaproduzioni degli anni Ottanta e Novanta: uscito in dicembre, superò gli 80 milioni di dollari di incassi solo negli Usa, diventando il maggior successo del 1979 e diede luogo a 3 sequel, un merchandising milionario e un rinnovato interesse per i fumetti dei supereroi. Negli anni Settanta gli studios non potevano permettersi di concentrarsi solo sui film a grosso budget: se ne producevano non più di 3 all’anno. Dato che la distribuzione ne richiedeva dai 12 ai 20, si completava l’offerta con film dai costi più contenuti spesso prodotti di generi rinnovati per un pubblico giovane. Ora che con la semplice rivisitazione dei generi classici si potevano pianificare film di successo, molti registi si allontanarono dallo sperimentalismo del cinema d’arte e ispirandosi a Spielberg e Lucas, lavorarono all’ombra di generi ormai consolidati, classici consacrati e registi venerati: sotto molti aspetti, la Nuova Hollywood si affermava facendo riferimento al passato. Tuttavia lo stile risentiva di una notevole consapevolezza. Spesso i registi prendevano spunto in maniera evidente dai loro maestri: in “Lo squalo” Spielberg ricava da Hitchcock l’espediente dello zoom più carrello di La donna che visse due volte, tecnica che sarebbe diventata comune nei film degli anni Ottanta per mostrare uno sfondo che misteriosamente si stringe intorno a una figura immobile. Molti dei film della nuova Hollywood rivisitarono i generi tradizionali: “Il padrino” si ispirò al film di gangster, aggiornandone la formula. La prima parte enfatizza le divisioni etniche convenzionali ma evidenzia in modo nuovo i temi dell’unità della famiglia e della successione generazionale. Se “il padrino” non portò a una rinascita del gangster movie, altri due generi della Nuova Hollywood riscossero maggiore seguito. Innanzitutto il film dell’orrore che con “L’esorcista” ottenne una nuova rispettabilità e divenne uno dei cardini dell’industria. “Halloween la notte delle streghe” ispirò un filone di film incentrato su serial killer e vittime teenager. L’altro genere significativo a cui fu ridata vitalità è la fantascienza. “2001: Odissea nello spazio” fu il principale precursore ma furono Lucas e Spielberg a impressionare Hollywood con gli incassi strepitosi ottenuti da questo genere di film. “Guerre stellari” dimostrò che l’avventura spaziale, arricchita con effetti speciali all’avanguardia, poteva attirare una nuova generazione di spettatori. La fantascienza sarebbe rimasta un genere predominante del cinema hollywoodiano funzionando spesso da vetrina per le innovazioni tecnologiche. La nuova Hollywood e i suoi protagonisti Robert Altman trovò impulsi creativi nell’orientamento del mercato verso un pubblico giovanile e nel cinema d’arte hollywoodiano. Le sue opere, che spesso sono una parodia dei generi classici (dal film di guerra MASH al musical Popeye, braccio di ferro) comunicano sfiducia nei confronti dell’autorità e criticano il conformismo americano proponendo un confuso vitalismo. Altman perfezionò uno stile eclettico che si avvaleva di una recitazione incerta e semi- improvvisata, di un uso continuo di panoramiche effettuate e zoom, di riprese effettuate con diverse macchine da presa in modo da mantenere il punto di vista esterno al personaggio. Nei film di Altman i personaggi borbottano, si interrompono a vicenda, parlano contemporaneamente. Negli anni Ottanta Altman si trovò in difficoltà ma continuò a produrre film, pugnalando i valori americani in adattamenti di testi teatrali. Con “I protagonisti” 1992, rivisitazione della tragicommedia hollywoodiana, egli tornò al successo di pubblico. Anche Woody Allen realizzò un cinema personale, strettamente associato alla città di New York. Prima di iniziare la sua carriera come regista con “Prendi i soldi e scappa” lavorò per la televisione scrivendo testi comici, fece l’attore di cabaret, scrisse commedie per il teatro e fu protagonista di alcuni film. All’inizio degli anni Settanta divenne uno dei registi comici più famosi. I suoi primi film si rivolgevano anche al pubblico giovanile. Con “Io e Annie” 1977, Allen iniziò una serie di film in cui univa l’interesse per i problemi psicologici dei borghesi intellettuali con il suo amore per la tradizione cinematografica americana e per registi come Fellini e Bergman. Allen costruisce molti dei suoi film sui temi che lo interessano direttamente e rappresenta in maniera impassibile ciò che ama (il jazz, Manhattan), ciò che odia (la musica, la droga, la California) e i valori in cui crede (l’amore, l’amicizia e la fiducia). Allen ha esplorato una vasta gamma di stili, dal realismo pseudo documentaristico di “Zelig” (1983) alla parodia dell’espressionismo tedesco di “Ombre e nebbia” 1992 e ha reso omaggio a un certo numero di film e autori prediletti: “Stardust memories” 1980 è una rielaborazione di 8 e mezzo di Fellini e “Radio Days” 1987 richiama “Amarcord”. All’inizio degli anni Settanta si affermarono tre registi che in seguito sarebbero diventati potenti produttori e avrebbero ridefinito il cinema hollywoodiano. Consideravano il film una creazione totale e cercavano di lasciare una impronta personale in ciò che facevano. Tra di loro si conoscevano bene: Francis Coppola fu produttore e mentore di George Lucas per “American Graffiti”; Lucas e Spielberg collaborarono nell’ambito di numerosi progetti. Tuttavia le loro strade si divisero. Coppola fu il primo a imporsi. La sua commedia giovanile “Buttati Bernardo!” usa le tecniche dei film sui Beatles di Richard Lester e dei ritratti della swinging London. Coppola visse dall’interno il crollo dello studio system. “Il padrino” gli portò grossi guadagni, ma invece di sfruttare il successo orientando la propria carriera verso il cinema commerciale, si dedicò a un film d’autore intimo: “La conversazione” del 1974 ricorre alle convenzioni del cinema d’arte insieme a quelle di uno specifico genere hollywoodiano, il film di detective. Coppola trasformò “Il padrino- Parte II” in una opera complessa, dall’intricato schema temporale; quindi si imbarcò in quell’impresa enorme e costosissima che fu “Apocalypse Now”. Coppola era un virtuoso della regia. Combattè per avere Marlon Brando e Al Pacino ne “Il padrino” e affidò ruoli di primo piano ad altri attori poco conosciuti. All’interesse per la recitazione univa una sensibilità cinematografica che a volte lo portava a scelte ardite. Per “Il padrino” Coppola adottò uno stile composto, rifiutando il montaggio veloce e i Hollywood: televisione via cavo e home video All’inizio degli anni Ottanta le società più importanti (Warner Bros, Columbia, Paramount, 20th Century Fox, Universal, MGM/UA e Disney) mantenevano il potere grazie al controllo della distribuzione. Benchè il cinema rappresentasse ancora l’attività capace di far guadagnare o perdere milioni di dollari, le produzioni televisive ormai erano la fonte principale di introiti. La televisione via cavo e satellitare, che comparve alla fine degli anni Sessanta, incrementò il numero di canali disponibili; i proprietari cominciarono così a finanziare i film e a comprarne i diritti televisivi prima che fosse avviata la produzione. Venne introdotto il VHS (Video Home System): nel 1988 la maggior parte delle famiglie americane, quasi sessanta milioni, possedeva un videoregistratore. Inizialmente le compagnie cinematografiche temevano che la diffusione delle videocassette potesse ridurre la presenza nelle sale; invece essa non intaccò affatto l’affluenza degli spettatori. Come negli anni Cinquanta e Sessanta la vendita dei film alla televisione aveva portato guadagni inaspettati, così adesso le videocassette divennero fonte di maggiori profitti per gli studios che iniziarono a produrle e a distribuirle. In genere la trasmissione via cavo e il noleggio di videocassette sostituivano le seconde visioni, che tuttavia alcune sale continuavano a offrire. Un altro vantaggio delle videocassette era la possibilità di rimettere in circolazione i vecchi film nel nuovo formato, valorizzando il repertorio degli studios. I guadagni milionari ottenuti grazie alle videocassette che nel 1987 sorpassarono per la prima volta gli incassi in sala. Alla fine del decennio, tuttavia, vi fu l’introduzione del DVD (Digital Video Disc o Digital Versatile Disc), una nuova tecnologia che prometteva una qualità di immagine e di suono superiore a quella del VHS. Gli studios desideravano un supporto che rendesse più difficile la creazione di copie pirata. Lanciato nel 1997, il DVD fu accolto con entusiasmo; alla fine del 2001 erano stati venduti trenta milioni di apparecchiature. Il cinema si fuse sempre più con l’informatica. Nel 2000 l’home video fruttò agli studios venti miliardi di dollari, tre volte l’incasso dei botteghini in Nord America; la penetrazione nelle famiglie statunitensi era completa. Occorre precisare che non tutto ciò che accadde nell’industria cinematografica americana dopo il 1980 può essere ricondotto alla diffusione dell’homevideo, ma questa innovazione ebbe effetti potenti e pervasivi sull’economia di settore, su stili e generi della cultura mediatica. Concentrazione e consolidamento nell’industria cinematografica Negli anni Ottanta gli studios dovettero affrontare la concorrenza delle mini major, società di produzione e distribuzione di secondo piano che avevano accesso a finanziamenti consistenti, provenienti in genere dall’estero. Tra queste c’era la Orion, fondata nel 1980 dai manager che avevano lasciato la United Artists; essa aveva prodotto molti film più importanti del periodo come “Il silenzio degli innocenti” (1991). Nel periodo del boom delle videocassette le mini major erano in grado di tener testa agli studios, ma nel corso degli anni Novanta scomparvero quasi tutte: i costi di produzione aumentarono rapidamente e la maggior parte di loro non riuscì a stare al passo con i risultati delle major. Se già negli anni Sessanta l’industria cinematografica hollywoodiana aveva promosso una nuova filosofia attenta alla diversificazione e alla gestione patrimoniale, vent’anni dopo tutte le major, a eccezione della 20th Century Fox, si erano trasformate in segmenti di gruppi diversificati che tuttavia ora puntavano maggiormente a creare sinergie: coordinando diverse attività produttive compatibili tra loro si cercava di massimizzare i profitti. Per decenni la Disney aveva dimostrato che un film poteva essere sfruttato attraverso programmi televisivi, giocattoli, libri, dischi accumulando i guadagni derivanti da ognuna di queste aree. Così le compagnie cinematografiche potevano legarsi a case editrici e discografiche, emittenti televisivi, videonoleggi e altre attività dedicate all’intrattenimento. In breve gli studios più importanti si associarono agli imperi dell’industria dell’intrattenimento. Per esempio, nel 1989 la giapponese Sony Corporation che già possedeva la CBS Records, acquistò la Columbia Pictures dalla Coca Cola, creando la Sony Pictures Entertainment. Invece di farsi comprare, la Walt Disney giocò d’anticipo rilevando nel 1995 la rete televisiva Capital Cities/ABC. Nel corso di 15 anni tutte le principali società hollywoodiane di produzione e distribuzione vennero assorbite da gruppi di media globali. Le compagnie, specialmente quando entravano a far parte di imperi mediatici, facevano affidamento su produzioni a budget elevato, con star ed effetti speciali. Per ottenere incassi consistenti occorrevano film in grado di sbancare i botteghini in migliaia di sale e di restare in programma per diverse settimane, per poi entrare nel mercato dell’home video, dare il via al merchandising e a vari accordi di licenza in vista di serie televisive, fumetti e videogame. I film di questo tipo dovevano creare grande attesa già molto tempo prima della loro uscita, facendo parlare la stampa e i programmi televisivi di infotainment (information e entertainment). Queste megaproduzioni avrebbero così garantito alle società capogruppo la massima sinergia. Il padrino, L’esorcista, Lo squalo, Guerre stellari erano stati veri e propri eventi culturali, film imperdibili che avevano generato profitti inaspettati, accumulati anche tramite il merchandising, come nel caso di Guerre stellari. In breve tempo la posta si alzò con E.T l’extraterrestre di Spielberg 1982 e Titanic di James Cameron 1997. Le megaproduzioni inoltre si vendevano in tutto il mondo. Gli studios erano consapevoli che poteva bastare una sola stagione o un solo film in perdita per far crollare un intero regime produttivo, perciò cercavano di minimizzare i rischi attraverso le megaproduzioni ricorrendo a star, sceneggiatori affermati e grandi registi. Inoltre, essi erano fermamente convinti che le mega produzioni fossero le tipologie di film preferite dai giovani che costituivano la gran parte del pubblico. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, i gusti di questo target influenzarono buona parte dei film hollywoodiani basati su attori famosi, storie semplici ricche di humor, azione ed effetti speciali mozzafiato, una certa dose di violenza e volgarità. Le mega produzioni erano estremamente costose. In media i costi di produzione, marketing e distribuzione di un film destinato a un pubblico di massa passarono dai 14m del 1980 agli oltre 100m del 2006. Di fronte a problemi di sceneggiatura, produzione e post produzione, i dirigenti si trovarono a dover sostenere spese più elevate per ottenere soluzioni veloci. Inoltre un sequel sembrava aver ragione d’essere solo se ogni episodio era più sensazionale del precedente e i budget di produzione quindi aumentavano. Gli effetti speciali creati al computer, fondamentali per la maggior parte dei blockbuster, potevano assorbire la metà dell’intero budget. A queste spese si aggiungevano i compensi per le principali figure professionali, come le star che a volte da sole erano capaci di far registrare il tutto esaurito all’uscita dei film. Talvolta gli attori ottenevano quote di partecipazione ai profitti dei film, oltre al loro compenso. A queste spese dovevano essere aggiunti i costi di marketing che erano in continua crescita. Le megaproduzioni avevano tempi di uscita ristretti: dovendo uscire ovunque nello stesso weekend, effettuavano la promozione sull’intero territorio di ogni singolo Paese, spesso per televisione, con costi elevati. I grossi budget comportavano rischi elevati: un film da 100 milioni di dollari doveva incassarne 250 per andare in pari. La maggior parte dei film registrò pesanti perdite al botteghino e molti furono veri e propri disastri finanziari. Gli osservatori misero in guardia gli studios dai costi eccessivi, ricordando che un buon film non doveva essere necessariamente dispendioso e che una produzione senza troppe pretese poteva comunque generare profitti accettabili. Tuttavia nessuna compagnia osava tirarsi indietro. All’inizio del 2000 le megaproduzioni divennero ancora più redditizie. Ogni novità nella serie di Harry Potter fruttava in tutto il mondo tra gli 800m e 1 miliardo di dollari. Alla fine degli anni ’90 molti film a budget medio servivano comunque a riempire la programmazione e a lanciare attori, sceneggiatori e registi. Ogni anno, alcuni di questi film sorprendevano tutti sbancando al botteghino come “Il mio grosso grasso matrimonio” di Joel Zwick 2002, o “Mean Girls” di Mark Waters 2004. Quando un film riscuoteva un successo inatteso, subito gli studios offrivano ai suoi creatori budget più elevati, nella speranza di mettere a segno un altro colpo vincente. Nel portare avanti la strategia dei blockbuster, gli studios si avvalevano della collaborazione di potenti alleati in grado di fornire idee, talenti e progetti. Negli anni Ottanta e Novanta alcuni produttori che avevano acquisito una certa autorevolezza venivano spesso ingaggiati dagli studios con contratti a breve termine. Gli agenti avevano un ruolo importante, perché mettevano in contatto i produttori con le star, i registi e gli sceneggiatori. Spesso alcuni di loro assumevano incarichi dirigenziali all’interno delle major e delle mini major, mentre altri creavano proprie società di produzione. Le agenzie gestivano la maggior parte dei talenti di Hollywood e ,nell’era delle megaproduzioni, ciò conferiva loro un grande potere, che diventò evidente con la nascita della Creative Artists Agency (CAA): essa si affermò all’inizio degli anni Ottanta, chiamando a sé grandi nomi come Dustin Hoffman, Sylvester Stallone e Jane Fonda. La CAA creò pacchetti vincenti, in particolare “Rain man” (1988) e “Balla coi lupi” di Kevin Costner (1990). Dati i costi elevati delle megaproduzioni, gli studios escogitarono nuovi sistemi per ottenere finanziamenti, tra cui la cessione anticipata dei diritti esteri o quelli video oppure la richiesta agli esercenti di anticipare quote a sostegno di un progetto. Un’altra strada era la coproduzione tra diverse major, dividendo i costi e i territori di sfruttamento; nel caso di “Titanic”, la Paramount si aggiudicò i diritti per il Nord America e la 20th Century Fox gli incassi ottenuti all’estero. Gli studios trovarono anche altri modi per contenere i costi, per esempio spostando le produzioni all’estero: Toronto e Vancouver divennero alternative economiche a Los Angeles. Uno strumento molto diffuso per incrementare i profitti era la pubblicità indiretta delle marche: attraverso il product placement, le aziende destinavano ai film risorse e prodotti; dopo l’impennata di vendite che le caramelle Reese’s Pieces registrarono grazie alla loro visibilità in E.T, le marche furono sempre più presenti nelle trame. Un’altra strada percorribile erano gli accordi di brand partnership, grazie a cui la campagna pubblicitaria di un prodotto serviva anche a promuovere un film. Tra i prodotti derivati dai film, il video musicale era il più pervasivo. MTV iniziò a trasmettere via cavo nel 1981 e nel 1983 raggiungeva venti milioni di case. Era il sogno di ogni pubblicitario: un flusso ininterrotto di spot divorati dai teenager. Quando uscì “Ghostbusters” nel 1984, un video accattivante promosse il film e l’album della colonna sonora: da la comparsa dei “video assist” che trasferivano l’immagine dalla macchina da presa a un piccolo monitor, permettendo al regista di controllare la composizione dell’inquadratura e l’azione. Nello stesso periodo, il time code, creato per identificare ciascun fotogramma sul nastro, fu modificato per sincronizzare la pellicola con uno o più videoregistratori. Il montaggio con codice di tempo facilitò notevolmente il mixaggio e la registrazione del suono. In breve si passò dal montaggio su nastro a quello digitale, con la possibilità in entrambi i casi di vedere in anteprima come sarebbe apparso il film sullo schermo televisivo. In alcuni casi la resa sul monitor diventava determinante per la scelta di una particolare inquadratura. Il pubblico ora nelle sale era circondato da sei canali audio: alcuni veicolavano i dialoghi, altri la musica o i rumori ambientali e uno era dedicato alle frequenze ultrabasse. Per accrescere l’orrore e la suspense, i registi iniziarono a creare suoni piuttosto inverosimili che avevano la funzione di commento musicale e soprattutto coinvolgevano gli spettatori a livello viscerale. Soprattutto i giovani mostravano di gradire queste sonorità coinvolgenti. Con l’aumento del numero dei film realizzati, per i registi esordienti si presentavano nuove opportunità. Iniziarono così a dedicarsi alla regia anche attori come Barbra Streisand, Mel Gibson, Kevin Spacey, dimostrando il potere contrattuale delle star. La crescita favorì l’ascesa a Hollywood di registi marginali e per la prima volta dall’epoca del muto, ci fu spazio per le donne tra le quali Katherine Bigelow, vincitrice del premio Oscar per la regia di The Hurt Locker nel 2008. Tuttavia, salvo eccezioni, le donne dirigevano commedie romantiche e film per famiglie, mentre i generi più redditizi (fantasy, azione, avventura) erano riservati agli uomini. Altre fucine di nuovi talenti erano i media vicini al cinema. Molti grandi registi come Michael Bay iniziarono la loro carriera realizzando spot televisivi, spesso per MTV. Inoltre le major arruolavano talenti dall’estero. La maggior parte di questi registi si fece notare grazie a progetti di medio costo, attraverso i quali diede prova di possedere una personalità distinta. Oliver Stone è un esempio significativo. Dotato di un talento particolare per promuovere se stesso e i propri film, convinse star di primo piano a dedicarsi a temi controversi. Il nome di Stone era sinonimo di cinema impegnato: i suoi film erano enfatici e frastornati, caratterizzati da un montaggio frenetico e da movimenti convulsi della macchina da presa, riprese naturalistiche ed effetti speciali scioccanti. Spesso i giovani registi desiderosi di affermarsi erano costretti a cimentarsi con film di genere, sequel o remake che costituivano una fonte sicura di introiti per le major, alcuni però riuscirono a trovare un compromesso tra il proprio stile personale e le esigenze dei film evento. James Cameron era in perfetta sintonia con la nuova richiesta di mega produzioni. Dopo un inizio di carriera come tecnico degli effetti speciali, divenne esperto di ogni fase del processo produttivo, dalla sceneggiatura al montaggio e al suono. Versato in modo particolare per la fantascienza e il fantasy, capì che l’azione fisica portata agli eccessi poteva diventare l’ingrediente fondamentale per un film di successo. “Terminator” (1984) con cui sfondò, contiene sparatorie e inseguimenti ben congegnati. Il film ottenne un enorme successo a dispetto dei budget limitati anche grazie all’interpretazione di Arnold Schwarzenegger. “Terminator 2”(1991) con scene d’azione ancora più spettacolari, portò gli effetti visivi creati al computer a un livello superiore. Cameron si dedicava volentieri ai sequel, infondendo adrenalina in ogni trama. Con “Titanic”, Cameron trovò la formula per il film sentimentale perfetto: l’amore sfortunato tra una eroina coraggiosa e un giovane eroe, un lungo prologo realizzato con strumenti ad alta tecnologia e un climax denso di azione, suspense ed effetti visivi spettacolari. Titanic doveva essere un blockbuster estivo ma i ritardi nella produzione lo fecero slittare a dicembre e subito conquistò una fama da possibile candidato agli Oscar. A dispetto degli alti costi di produzione (200 milioni) i ricavi furono elevatissimi. Nel decennio che seguì, Cameron rimase al passo con le tecnologie più avanzate, realizzando per la Imax un documentario 3D preliminare all’uscita del film Avatar (2009) che si confermò un enorme successo. Nell’era delle mega produzioni un regista di fama poteva misurarsi con un progetto a budget elevato e se l’esito era positivo, ne finanziava un altro più vicino ai propri interessi personali. In bilico tra progetti a basso costo e grandi produttori era anche Tim Burton, fra le personalità più originali e visionarie di Hollywood degli anni Ottanta e Novanta, capace di inondare i tranquilli e famigliari paesaggi americani di immagini assurde e grottesche. Il quartiere residenziale di “Edward mani di forbice” (1990) si trova a ospitare un giovane mostruoso e goffo. Burton iniziò la sua carriera occupandosi di animazioni e non smise mai di vedere gli esseri umani come cartoni animati o pupazzi. Una nuova stagione di cinema indipendenteI film indipendenti in questo periodo assunsero forme differenziate. Alcuni si presentavano come ambiziosi progetti hollywoodiani come “Dirty Dancing” (1987) e “La passione di Cristo” di Mel Gibson (2004), e non apparivano come film indipendenti. A metà degli anni Novanta, il film indipendente assunse poi un alone trasgressivo con “Pulp Fiction”. Gli esercenti, per riempire le numerose sale dei multiplex, erano disposti ad accogliere anche film insoliti proposti da distributori al di fuori del circuito delle major. Le major comprarono le società di distribuzione indipendenti o crearono le proprie; inoltre ingaggiarono produttori, sceneggiatori, registi e attori che si erano distinti con film indipendenti. Alla fine degli anni Ottanta, il cinema indipendente produceva tra i 200 e i 250 titoli all’anno, una quantità di gran lunga superiore a quella raggiunta dagli studios: ciò dipendeva in parte dalla possibilità per i tecnici e per gli attori di collaborare alle produzioni indipendenti con salari inferiori. Nel 1980 Robert Redford fondò il Sundance Film Institute nello Utah, dando agli aspiranti cineasti la possibilità di incontrarsi per sviluppare le sceneggiature e trarre insegnamento dagli esperti del settore. Il cinema indipendente potè poi contare su altre fonti di finanziamento, come alcune emittenti televisive; ma soprattutto, quando prese forma il mercato dell’home video, fu chiaro il fatto che i film indipendenti potevano coprire buona parte del budget grazie alle prevendite delle videocassette. Mentre le major beneficiavano di un’enorme macchina pubblicitaria, gli indipendenti affidavano la promozione dei loro film alle recensioni e ai festival del cinema, stranieri e nazionali. Il Sundance Film Festival, divenuto il punto di riferimento più importante per il cinema indipendente, riceveva migliaia di richieste e creò un proprio canale televisivo via cavo. A volte le produzioni indipendenti venivano finanziate dalle mini major, come la Orion, ma le vere protagoniste in questo scenario in piena evoluzione erano la New Line Cinema e la Miramax. La New Line otteneva ottimi risultati con “Tartarughe ninja alla riscossa” (1990), le commedie di Jim Carrey e altri redditizi film di genere. La Miramax, costituita nel 1979, fu artefice del successo del film Oscar “Nuovo cinema paradiso” di Tornatore (1988) e di altri film come “Le Iene” di Quentin Tarantino (1992), “Shakespeare in love” (1998). La Miramax divenne un impero, stringendo rapporti duraturi con attori scelti ed espandendosi nel settore televisivo, musicale ed editoriale. Creò anche una etichetta per le produzioni a basso costo, la Dimension, che ottenne grandi successi grazie agli horror per adolescenti, le serie inaugurate da “Scream” (1996) e “Scary Movie” (2000). Il settore indipendente era soggetto a notevoli rischi finanziari e i grandi successi erano casi eccezionali. Nel 1995 i film indipendenti rappresentavano solo il 5% degli incassi ai botteghini statunitensi. Tuttavia gli studios avviarono una campagna acquisti: nel 1993 il gruppo Disney comprò la Miramax. Poiché si trattava di consociate, queste società venivano chiamate sarcasticamente “le dipendenti”. A che cosa era dovuto tutto questo interesse? In primo luogo, anche se di rado un film indipendente diventava campione di incassi, era sufficiente ottenere un successo moderato per realizzare buoni profitti. In secondo luogo, gli studios erano sempre alla ricerca di nuova linfa e di nuove tendenze culturali. Comprando le società indipendenti e creando divisioni dedicate a questo mercato, le major potevano scoprire giovani registi di talento su cui puntare nell’ottica delle sinergie. Assorbendo il cinema indipendente, gli studios poterono diversificare la loro produzione. Sempre più film indipendenti si aggiudicavano l’Oscar e ciò, oltre a rappresentare un motivo di vanto per gli studios, in alcuni casi garantiva un aumento dei profitti. I cineasti indipendenti traevano beneficio dalla nuova visibilità e dalle risorse finanziarie, ma a volte l’effetto collaterale fu una riduzione dell’originalità di ciò che era nato come alternativa a Hollywood. Dai primi anni Novanta, anche se i temi affrontati nei loro film si distinguevano dal cinema più commerciale, i registi furono invitati a utilizzare attori, generi e tecniche narrative riconoscibili. Tuttavia è pur vero che grazie ai film indipendenti, la produzione degli studios si fece più varia. Le strategie narrative dei film indipendenti (complessi flashback, narrazioni reticolari, giochi sul punto di vista e universi paralleli ) si fecero strada nei polizieschi, nelle commedie romantiche e nei thriller psicologici. Nel vasto numero delle produzioni indipendenti degli ultimi anni si possono individuare quattro tendenze principali: • FILM D’AUTORE---> Nel 1984 un film in bianco e nero dall’aspetto sbiadito, dal ritmo lento, dalla colonna sonora che mescolava musica d’archi e beat urlato, privo di star e caratterizzato da una recitazione asciutta e distaccata, divenne l’emblema del cinema indipendente di qualità. Il regista realizzò la prima parte come cortometraggio ma poi trasformato in lungometraggio, “Stranger than Paradise” fu premiato al festival di Cannes e al Sundance, venne proclamato miglior film dell’anno e incassò oltre due milioni di dollari nelle sale d’essai statunitensi. Nella staticità delle immagini e nella sdrammatizzazione dei personaggi, “Stranger than Paradise” ricorda il cinema europeo d’autore degli anni ‘60/70. Nel suo ritratto di una certa gioventù bohemienne si avvicina anche al cinema beat degli anni Cinquanta, mentre la rappresentazione rispettosa di personalità in lotta per nascondere le emozioni mostra una affinità con Robert Bresson e altri registi minimalisti. Il successo del film inaugurò una tendenza del cinema indipendente verso la complessità e l’astrazione. Anche film realizzati con budget minimi potevano riempire sale, purchè non fossero convenzionali. • OFF- HOLLYWOOD---> Tra i film indipendenti alcuni ricorrevano a generi riconoscibili e ad attori famosi. Ciò che li allontanava da Hollywood era il budget relativamente contenuto e l’utilizzo di strategie narrative o direct marketing su internet, creando siti e pubblicando su Youtube trailer e promo. Alcuni film vendettero migliaia di copie su DVD. Capitolo 20: Cinema “globale” e tecnologia digitale Hollyworld Negli anni ’90 e 2000 la presenza assoluta del cinema americano è apparsa ancora più evidente: i film dei sette distributori principali (Warner Bros, Universal, Paramount, Columbia, 20th Century Fox, MGM/UA e Disney) hanno raggiunto quasi tutti i paesi del mondo. L’espansione di Hollywood sul piano internazionale si è attuata anche attraverso le unioni con le corporazioni straniere, dalle quali riceveva finanziamenti. Alcuni Paesi cercarono di contrastare questa tendenza con una politica protezionista. Negli anni ’90 tuttavia la supremazia di Hollywood era più evidente che mai, anche in mercati prima inaccessibili come Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan. La Walt Disney ha rappresentato un modello per molti studios. Michael Eisner ne fu presidente. Il nome Disney era una garanzia di qualità e solidità. I personaggi della Disney potevano essere trasferiti in vari contenitori mediatici (film, tv, fumetti, canzoni, teatro). La Disney doppiò il suo intero repertorio in 35 lingue. Alla fine degli anni ’90, nove dei dieci prodotti video più venduti al mondo erano cartoni Disney. La Disney comprò film che contribuirono a far crescere introiti della società (Pulp fiction, Shakespeare in love, Scary movie). La Disney era ai vertici dell’industria dell’intrattenimento. La Disney insegnò a Hollywood a non perdere mai di vista il mercato globale. Per incontrare il gusto degli spettatori di altre nazioni, gli studios iniziarono a ingaggiare registi stranieri e a organizzare tour mondiali per le star che dovevano accompagnare i loro film. Batman, il re leone, Men in black, Titanic, Pirati dei caraibi furono concepiti come megaeventi con lo scopo di attirare spettatori di tutto il mondo. Jurassic Park di Spielberg del 1993 è uno dei primi esempi di film globali. Gli studios si affidarono sempre più alla strategia della distribuzione simultanea: Spiderman 3 uscì contemporaneamente in 75 aree geografiche diverse e guadagnò 230 milioni di dollari in sei giorni. Non fu soltanto grazie ai film realizzati negli USA che Hollywood riuscì a penetrare negli altri paesi ma aveva anche investito nell’industria cinematografica estera e molti film locali furono gestiti e prodotti dalle compagnie hollywoodiane. Jurassic Park fu un successo senza precedenti: l’incasso complessivo ai botteghini di tutto il mondo fu di 913 milioni di dollari. Il record di incassi realizzato dal film è rimasto insuperato fino a Titanic nel 1997. Il film era proprio stato concepito con la precisa intenzione di trasformarlo in un successo globale. Venne creato un marchio con la sagoma nera di un dinosauro su fondo rosso e giallo, garantendo al film riconoscibilità immediata. Innovazioni tecnologiche che avevano reso possibile la creazione al computer dei dinosauri. Alcuni mesi prima dell’uscita, le sale cinematografiche proiettavano trailer che lasciavano trapelare solo qualche accenno alla storia e per scoprire altro il pubblico doveva vedere il film. La programmazione internazionale del film fu serratissima. Le multinazionali come Mc Donald’s, Coca-cola e di videogiochi furono subito pronte a cogliere l’opportunità di sfruttare il brand. Le major combatterono affinchè i film fossero classificati come servizi, costringendo in questo modo i Paesi europei a tagliare i sussidi alle produzioni locali e ad abolire tasse e imposte su film statunitensi. All’inizio degli anni Novanta, la crescente presenza dei multiplex (multisala) in tutto il mondo sembrava sfruttare le potenzialità del mercato. Un grande numero di sale all’interno della stessa struttura, un box office, la vendita centralizzata di cibo e bevande consentivano di realizzare grandi economie. Aumentando il numero delle sale, aumentavano i film che potevano venire trasmessi, con un ricambio più veloce. Le major, gestendo i multiplex, avrebbero potuto monitorare con accuratezza gli incassi dei botteghini e controllare l’accesso alle copie dei film limitando la pirateria. In breve tempo, le società americane aprirono multisale in tutta Europa. Hollywood non esportava solo i film, ma l’intera esperienza cinematografica (con snack e popcorn). Con l’introduzione del multiplex aumentò la frequenza in modo significativo e i cinema ad una sala si avviarono all’estinzione. Le alleanze produttive e il nuovo cinema internazionale Può sembrare un paradosso ma la globalizzazione ebbe l’effetto di rinsaldare i legami a livello locale: i Paesi che condividevano la stessa cultura e la stessa lingua iniziarono a creare alleanze commerciali e a stringere accordi per tutelarsi in vario modo. Così, nel settore cinematografico, emersero nuove forze pronte a contestare l’espansione di hollywood: Europa e Asia generavano i tre quarti dei profitti esteri di Hollywood e iniziarono a chiedersi, se collaborando, avrebbero potuto opporsi allo strapotere di Hollywood. La strategia dei multiplex favorì l’importazione dei film americani, ma dal punto di vista delle presenze in sala recò vantaggio anche alle produzioni locali. In Europa, così come negli USA, le norme antitrust iniziarono ad allentarsi negli anni ’80, lasciando campo libero allo sviluppo di colossi mediatici. Tra i protagonisti di questa fase vi furono la tedesca Bertelsmann (l’azienda multimediale più grande d’Europa), il gruppo di Silvio Berlusconi in Italia e la Havas in Francia. A confronto, gli ex giganti del cinema francese, la Gaumont e la Pathè, erano diventate piccole società. Le media companies europee fecero tuttavia solo piccole incursioni nel cinema. Lo sforzo più ambizioso per creare una casa di produzione europea di rilievo fu compiuto dalla PolyGram, una società olandese che aveva fatto fortuna nel settore discografico. Nel 1988 essa iniziò a dedicarsi alla produzione e distribuzione di film, tra cui “Trainspotting” di Danny Boyle (1996). Tuttavia la società non riusciva a produrre un numero di film sufficiente per la sua rete distributiva e non era attrezzata per realizzare mega produzioni. Nel 1998 venne comprata dalla USA Films, parzialmente controllata dalla MCA. Quando un film europeo veniva distribuito all’estero, in genere era destinato a sale d’essai. Poteva però avere una diffusione maggiore se era in lingua inglese e godeva del supporto di una casa di produzione americana, preferibilmente una major. Un altro elemento favorevole era la presenza di star statunitensi. In Europa occidentale solo una casa di produzione è riuscita a conquistare il pubblico sia europeo sia americano: si tratta della Working Title, con sede a Londra, fondata agli inizi degli anni Ottanta e divenuta una potenza internazionale grazie alle commedie con Hugh Grant e Rowan Atkinson (Mr.Been). Lars von Trier ha realizzato film globali di portata inferiore, scegliendo di girare in inglese ma rifiutando di ricevere finanziamenti dagli USA. Von Trier ha visto accrescere la sua fama con “Le onde del destino” (1996). Il successo di “Le onde del destino” gli ha permesso di trasformare la sua casa di produzione, la Zentropa, in un microstudio. Situata in un’ex base militare, la Zentropa ha creato divisioni specializzate in film per bambini, pornografia, spot televisivi, video musicali, film per internet. Nel 2001 la società e le sue affiliate erano ormai arrivate a realizzate un’ampia gamma di prodotti per il cinema e la televisione. Nel 1995 i registi danesi Von Trier e Vinterberg stilarono un manifesto in cui invocavano il ritorno alla purezza del cinema poiché le tecnologie in continua evoluzione stavano democratizzando il cinema. Era necessario mettere ordine, così formularono un “voto di castità” per la nuova avanguardia. Il voto richiedeva che il film fosse girato on location, utilizzando soltanto gli oggetti di scena che già si trovavano sul posto, la macchina da presa doveva essere a mano e il suono andava registrato in presa diretta, il film doveva essere in formato Academy 35mm a colori e senza filtri né rimaneggiamenti in laboratorio, non erano ammessi i film ambientati in un altro periodo storico né quelli di genere, il nome del regista non andava citato nei titoli. Altri due registi danesi sottoscrissero il documento e i quattro diedero vita al collettivo “Dogma 95”. Il manifesto fu ignorato fino al 1998, quando il film di Vinterberg “Dogma 1- Festen” vinse il premio della giuria a Cannes e “Dogma 2, Idioti” di Von Trier si aggiudicò un premio della critica alla London Film Festival. Dogma 95 iniziò a riconoscere i progetti che aderivano al voto di castità. Poiché i film del movimento erano legati alla casa di produzione di Von Trier, la Zentropa, molti critici archiviarono il Dogma 95 come una trovata pubblicitaria. Se lo era, riuscì splendidamente, e il cinema danese attirò su di sé l’attenzione della critica. I seguaci del Dogma insistevano invece sulla serietà delle loro intenzioni. Von Trier dichiarò che la rigidità formale dei suoi primi lavori non lo soddisfaceva e che il voto di castità costituiva una base logica per la nuova libertà sperimentata con “Le onde del destino”. La maggior parte dei film dogmatici aveva una struttura drammaturgica piuttosto tradizionale. In Francia, Argentina, Svezia, Italia, Svizzera, Belgio, Spagna e USA diversi registi si cimentarono in progetti conformi al voto di castità. Anche in Asia era presente un’organizzazione politica regionale, la ASEAN che, come l’Unione Europea, mirava a creare un mercato completamente integrato. Mentre i produttori europei avevano difficoltà nell’esportare i loro film nei paesi vicini, in Asia orientale il cinema aveva una dimensione sovranazionale da anni. La corea del sud esportava thriller e film d’azione, le star del cinema giapponese comparivano anche nei film cinesi e coreani. Invece di utilizzare sussidi nazionali o finanziamenti dalle banche, come in Europa, in genere queste coproduzioni si avvalevano del sostegno di corporation e investitori privati; la presenza nel cast di star di diversa nazionalità aveva lo scopo di intercettare i gusti di un pubblico vasto. La Sony Asia nacque con l’intento di finanziare film asiatici che potessero conquistare un pubblico internazionale, riuscendo nell’intento con “La Tigre e il dragone” di Ang Lee nel 2000. Girato nella Repubblica popolare cinese e interpretato da due star locali, fondeva romanticismo, ambientazioni esotiche e duelli di arti marziali. Il film fu promosso con astuzia. Con un budget di 15 milioni di dollari, arrivò a guadagnarne 210 e vinse 4 Oscar. Inoltre, data la presenza di dialoghi in mandarino, dimostrò che un trionfo globale non doveva essere necessariamente in lingua inglese. Lee aprì le porte agli USA e Europa verso le nuove correnti del cinema asiatico. Cinema e digitalizzazione Motion control (permettevano di ripetere fotogramma per fotogramma, i movimenti della macchina da presa collegata al computer, fondamentali per dare un effetto di tridimensionalità alle immagini). Anche la registrazione e riproduzione del suono divennero digitali: la DAT (Digital Audio Tape) fu adottato come standard sia per la musica che per gli effetti sonori dei film. Il cinema commerciali si avvalse subito della nuova tecnologia per gli effetti speciali (3D), per il sound design e montaggio, mentre nell’effettuare le riprese ci fu una certa resistenza ad abbandonare la pellicola. A partire dagli anni 90 la qualità delle immagini migliorò considerevolmente grazie alle videocamere a definizione standard e poi HD. Il digitale trovò subito spazio nelle sperimentazioni del cinema d’autore. Il primo film di successo del movimento danese “Dogma 95-Festen” fu girato in digitale e poi trasferito su una pellicola 35mm. Per le ricche produzioni hollywoodiane, il passaggio alle riprese digitali fu più lento. Ci vollero lunghe ricerche per giungere a videocamere in grado di produrre immagini paragonabili a quelle della pellicola 35mm. Ben presto altre aziende produttrici ampliarono l’offerta di videocamere professionali HD a 24 fotogrammi al secondo, ma si continuò a girare la maggior parte dei film su pellicola 35mm. Spesso tuttavia, i registi che impiegavano il digitale ad alta definizione ricorrevano anche a sequenze filmate su 35mm, come in “Mission Impossible III”, “Apocalypto” di Mel Gibson, “I fantastici 4”. Anche le industri cinematografiche di altri Paesi restavano in gran parte fedeli all’analogico, ma molti registi si convertirono al digitale. Oltre a essere più economico della pellicola, un nastro o un hard drive digitale poteva infatti effettuare riprese molto lunghe, perfino superiori alle due ore. Dal punto di vista tecnico, la pellicola offriva immagini più ricche e permetteva un controllo preciso della messa a fuoco, mentre il digitale assicurava una buona resa
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