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STORIA MEDIEVALE di Luigi Provero e Massimo Vallerani, Dispense di Storia Medievale

STORIA MEDIEVALE di Luigi Provero e Massimo Vallerani riassunto di tutti i capitoli

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 04/06/2022

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Scarica STORIA MEDIEVALE di Luigi Provero e Massimo Vallerani e più Dispense in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE di Luigi Provero e Massimo Vallerani PARTE PRIMA: La trasformazione del mondo romano Capitolo 1: L’impero cristiano Il sistema imperiale tardoromano: potere e prelievi Un momento fondamentale di transizione nella storia romana si ebbe attorno alla fine del II secolo d.C., quando sostanzialmente terminò l’espansione militare dell’Impero romano, dando vita all’era tardoantica. L’impero non era uno spazio di civiltà omogeneo: riuniva popolazioni diverse sotto ogni aspetto con livelli di romanizzazione molto variabili; ma queste popolazioni erano coordinate da una macchina statale. Questo apparato venne messo in crisi lungo la seconda metà del III secolo, con una serie di lotte al trono che portarono a continue successioni e alla presenza di più imperatori contemporaneamente. Il potere imperiale fu ripristinato con forza da Diocleziano che pose fine a diversi anni di anarchia e riaffermò un solido controllo sull’intero territorio. Con l'elezione di Diocleziano (284-285) si consolidò la normalizzazione interna dell'Impero iniziata con Aureliano. Il nuovo sovrano inaugurò un programma di riforme che rafforzarono il carattere assolutistico e gerarchico dell'Impero che, attorno al 300, venne diviso in due grandi regioni amministrative, quella orientale, con capitale Nicomedia, e quella occidentale, con capitale Milano. A capo di tali macroregioni pose due Augusti affiancati da un imperatore in sottordine, destinati a succedere loro in caso di necessità, i quali governavano a loro volta due sotto-aree, quella greco-balcanica con capitale Sirmio, e quella nord-occidentale con capitale Treviri. Era la tetrarchia, ideata per disinnescare le lotte ereditarie. In questo sistema Roma era sempre la capitale sacra e ideale, il Caput mundi, ma la sua posizione geografica, lontana dalle bellicose zone di confine, non rendeva possibile un suo uso per funzioni politiche o strategiche. Il nuovo imperatore nominò nel novembre del 285 come suo vice in qualità di cesare, un valente ufficiale di nome Marco Aurelio Valerio Massimiano, che pochi mesi più tardi elevò al rango di augusto il 1º aprile del 286, formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere e della lotta contro gli usurpatori. Diocleziano, che si considerava sotto la protezione di Giove (Iovio), mentre Massimiano era sotto la protezione "semplicemente" di Ercole (Erculio, figlio di Giove), manteneva però la supremazia. Tale sistema, concepito da un soldato come Diocleziano, non poteva che essere estremamente gerarchizzato. Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione funzionale e territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nominò come suo Cesare per l'oriente Galerio e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente. Il sistema si rivelò efficace per la stabilità dell'impero e rese possibile agli augusti di celebrare i vicennalia, ossia i vent'anni di regno, come non era più successo dai tempi di Antonino Pio. Tutto il territorio venne ridisegnato dal punto di vista amministrativo, abolendo le regioni augustee con la relativa divisione in "imperiali" e "senatoriali". Vennero create dodici circoscrizioni amministrative (le "diocesi", tre per ognuno dei tetrarchi), rette da vicarii e a loro volta suddivise in 101 province. Restava da mettere alla prova il meccanismo della successione. In tale sistema l'imperatore assunse con ancor maggiore decisione connotati monarchici, riducendo le residue istituzioni repubblicane a semplici funzioni onorifiche. Il governo venne quindi progressivamente affidato a funzionari imperiali, scelti tra le file della classe dei cavalieri e tra i liberti. Tuttavia la stessa figura imperiale venne moltiplicandosi, con due imperatori titolari, gli Augusti, uno per la pars Occidentalis ed uno per la pars Orientalis, spesso affiancati da colleghi di rango inferiore aventi il titolo di Cesare. Per facilitare l'amministrazione e il controllo fu, inoltre, potenziata la burocrazia centrale e si moltiplicarono le suddivisioni amministrative: ciascuna delle quattro parti dell'impero, governata da uno dei tetrarchi, faceva capo a una distinta prefettura del pretorio: Gallie, Italia, Illirico, Oriente. Da queste dipendevano poi le Diocesi, in tutto dodici, rette dai Vicarii, nelle quali erano raccolte le provincie, con a capo funzionari imperiali con il rango di correctores o presides. In pratica il nuovo ordine imperiale disarticolava le vecchie strutture repubblicane accentrando ogni funzione attorno alla figura del sovrano. Nella pratica il sistema della tetrarchia durò ben poco, per via degli eserciti tutt'altro che disposti a deporre il potere politico che avevano avuto fino ad allora e che aveva loro valso numerosi vantaggi e privilegi. Già al primo passaggio, con la morte di Costanzo (306) le truppe stanziate in Britannia acclamarono suo figlio Costantino, che diede il via a una guerra civile con gli altri tre pretendenti. Dopo aver battuto Massenzio e Massimino, restarono Licinio e Costantino che stipularono una pace. Ma nove anni dopo, nel 324, Costantino attaccò e sconfisse Licinio, che venne relegato in Tessaglia dove morì in seguito, assassinato dopo essere stato accusato di complotto. Il sistema tetrarchico non venne più restaurato. Costantino, dopo aver ristabilito l'unità della carica imperiale, iniziò a curarsi della politica istituzionale, economica e politica dell'Impero. Dovette presto constatare come l'asse dell'Impero si trovasse ormai a oriente e per questo fece di un piccolo insediamento sul Bosforo una nuova capitale, alla quale diede il nome di Nova Roma. Tale nome non si impose tuttavia, venendogli preferito, fin dai primi anni dalla sua fondazione, quello di Costantinopoli (Città di Costantino). Tra i vantaggi della città c'era l'ottima posizione strategica tra Asia e Europa, vicina alla frontiera difficile con la Persia, le difese naturali, l'ottimo sistema viario e marittimo che vi transitava. Nella scelta di Bisanzio ci fu probabilmente anche la volontà di privilegiare la difesa del ricco e popoloso oriente rispetto al più provinciale e rurale occidente. La nuova capitale venne ufficialmente inaugurata nel maggio del 330. Costantino abbandonò le altre tre capitali dell'epoca di Diocleziano e divise l'Impero in 14 diocesi e 117 province. L’esercito, il limes, i barbari Ovviamente una delle più grandi spese dell’Impero era l’esercito. Nel corso del IV secolo, si definirono due settori fondamentali dell’esercito: i comitatenses, la forza mobile incaricata di accompagnare l’imperatore, e i limitanei, le guarnigioni poste a difesa del confine (il limes). Il limes è una struttura chiave perché fu qui che si consumò il confronto tra Romani e Barbari e che portarono alla vittoria dei secondi. (N.B.: il limes è una strada delimitante un confine tra due campi. In età imperiale passò a designare una strada militare fortificata ovvero l’insieme delle fortificazioni poste lungo i confini. In età augustea e giulio-claudia il limes era a tutti gli effetti un percorso di attacco, tracciato per rispondere alle esigenze logistiche dell’esercito durante una campagna militare e a volte richiuso al termine delle operazioni. Tali erano, per esempio, le linee lungo le quali mossero Tiberio da Carnuto sul Danubio e Senzio Saturnino dal Reno per raggiungere l’Elba e sconfiggere il regno di Maroboduo (attuale Boemia), oppure la via fortificata tracciata da Druso Maggiore dall’alta valle dell’Adige fino ad Augusta sul Danubio. Quando la spinta espansionista dell’impero si attenuò, il limes diventò soprattutto una linea difensiva, che spesso poteva avvantaggiarsi anche della conformazione del territorio). L’incontro tra l’Impero e i barbari assunse però connotati più propriamente politici. Spesso l’esercito romano fu per questi gruppi un contesto di elaborazione identitaria. L’incidenza politica di questo incontro si coglie anche nei territori posti al di fuori del limes: l’influenza di Roma si estendeva infatti ben di là dei confini della sua dominazione effettiva. Il capillare processo di penetrazione di barbari entro l’Impero si protrasse a lungo, durante il III e soprattutto IV secolo, spesso senza che emergessero conflitti. Una data importante può essere considerata il 378: non perché la sconfitta abbia determinato il crollo dell’Impero d’Oriente, ma per il fortissimo impatto che ebbe nell’immaginario collettivo. Situazione analoga per l’Occidente e la caduta della limes del Reno (primo decennio del V secolo), dove perse effettivamente la sua efficacia. L’esito più appariscente fu senza ombra di dubbio il Sacco di Roma del 410. La cristianizzazione dell’Impero Per comprendere il processo di cristianizzazione dell’impero romano bisogna considerare le cosiddette pluralità:  Pluralità dei paganesimi; profonda. Fu un processo di cui non è possibile individuare l'avvio, né definire chiari rapporti di causa effetto. Sappiamo però che queste crescenti ostilità si tradussero in guerra aperta solo dopo la morte di Teodorico, quando le lotte per la corona indeboliranno ulteriormente regno ostrogoto. Ci furono questioni tra la figlia di Teodorico, Amalasunta e il cugino-marito Teodato, a causa di divergenze politiche: Amalasunta cerco di ricostruire il rapporto tra Goti e Romani e si pose sotto la protezione dell'imperatore Giustiniano; Teodato adottò invece la vita del conflitto, quella che venne favorita dell'aristocrazia gota. Dopo che Amalasunta venne uccisa, Giustiniano colse l'occasione per dichiarare guerra al regno Ostrogoto, dando il via a una lunghissima fase bellica che nel giro di vent'anni riportò l'Italia all'interno dell'Impero. Se il regno ostrogoto segnò la prima stabile dominazione germanica in Italia, nel corso del V secolo si erano costituiti altri regni in diversi settori dell’Impero. Le forme politiche che si svilupparono in Inghilterra, nel Nordafrica e nella penisola iberica erano controllate rispettivamente da tre popoli diversi: gli Anglosassoni, i Vandali e i Visigoti. Anglosassoni: Con il ritiro dei Romani, la Gran Bretagna si spezzettò in regni formati da gruppi di Britanni spesso in lotta tra loro o con i popoli non celtici del nord, e in queste lotte i re e capi locali cominciarono ad ingaggiare milizie germaniche provenienti dal continente; esse occuparono le terre sud-orientali dell'isola principale spingendo le popolazioni celtiche verso nord e ovest. Gli Angli occuparono la parte centrale e orientale dell'antica Britannia, i Sassoni quella del sud, mentre gli Juti, in minor numero, si stanziarono nell'estremo lembo sudorientale corrispondente più o meno all'attuale Kent. Presto le varie tribù germaniche sarebbero arrivate a fondersi. Già agli inizi dell'VIII secolo i regni dell'Anglia orientale, della Mercia e della Northumbria appartenevano agli Angli, che traggono il loro nome dalla penisola di Anglia, nell'odierno Schleswig-Holstein (Germania); i regni dell'Essex, del Sussex e del Wessex erano abitati da Sassoni, che provenivano dall'Antica Sassonia; il regno del Kent e l'Hampshire meridionale erano abitati da tribù di Juti. Vandali: Nell'autunno del 409, attraversarono i Pirenei dove per circa due anni portarono distruzioni e saccheggi. Portata a termine la traversata i Vandali si riversarono in Mauretania dove conquistarono Caesarea. Genserico, re dei Vandali, cominciò a comportarsi come un sovrano autonomo, destituendo sacerdoti ortodossi, che si opponevano all'arianesimo dei Vandali. Il 19 ottobre 439 conquistarono Cartagine, divenendo la capitale del regno. Durante il VI secolo i Vandali fecero un'alleanza con gli Ostrogoti, e nel 500 ma già nel 510 l’alleanza scricchiolò per poi tornare solida dopo il 511. Ilderico, nuovo sovrano dei Vandali, orgoglioso del suo sangue romano, era in ottimi rapporti con i membri della corte imperiale, specialmente con Giustiniano I, che governava per conto dell'imperatore Giustino I. Convertitosi da tempo all'ortodossia materna, oltre a cessare le persecuzioni religiose cambiò anche la tradizionale politica vandala di allineamento con gli Ostrogoti, finendo inevitabilmente in attrito con la nobiltà. Ilderico, richiamò gli esuli, restituì le chiese agli ortodossi e permise la nomina di un nuovo vescovo cattolico a Cartagine. Ilderico si disinteressò completamente delle operazioni belliche dei Vandali e questo portò, nel 530 ad un colpo di Stato che si concluse con la deposizione di Ilderico e la salita al potere di Gelimero, suo cugino. L'imperatore d'Oriente Giustiniano I, che appoggiava Ilderico, intimò a Gelimero di esercitare pure il potere ma di rimettere almeno formalmente sul trono il vecchio re Ilderico. Gelimero rifiutò. Allora Giustiniano, che voleva restaurare l'impero nel Nord Africa, siglata la pace con i Persiani, nel 532, l'anno dopo, dichiarò guerra ai Vandali. Nell'estate del 533, al comando di Belisario, l'esercito bizantino sbarcò sul promontorio di Caput Vada. L'esercito vandalo oppose una grande resistenza, il 13 settembre, nella battaglia di Ad Decimum; dopo un iniziale vantaggio, alla morte di Gibamondo, nipote di Gelimero, i Vandali si scoraggiarono e furono sconfitti. Belisario allora marciò su Cartagine che si consegnò ai Bizantini. Il 15 ottobre 533, domenica, Belisario, accompagnato dalla moglie Antonia, fece il suo formale ingresso a Cartagine risparmiandole saccheggio e massacro. I Vandali assediarono la città, anche dal mare, ma dato che i rinforzi dalla Sardegna non arrivarono, tolsero l'assedio e a metà dicembre vi fu lo scontro decisivo; il 15 dicembre 533 Vandali e Bizantini si scontrarono nuovamente alla battaglia di Ticameron. Il regno vandalo d'Africa, inclusa Sardegna, Corsica e Baleari venne riconquistato dai Bizantini. Visigoti: Nel processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali possiamo distinguere tre fasi: 1. Lungo il V secolo si stanziarono tra il sud della Gallia e la penisola iberica; 2. Nella prima metà del VI secolo videro ridursi il proprio domino a nord dei Pirenei a favore dei Franchi; 3. Nella seconda metà del secolo consolidarono la loro presenza nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Il primo insediamento risale al 418, quando i V. si stanziarono nella regione attorno a Tolosa, combattendo contro gli Svevi, gli Alani e i Vandali. Ma la loro espansione in questa zona non fu una vera e propria affermazione nella zona. Ma nonostante questo riuscirono a stanziarsi nella zona meridionale della Gallia instaurando una cultura prettamente romana. Un periodo da citare nuovamente fu la battaglia di Vouillè, del 507 ma una vera e propria fase di trasformazione complessiva del regno la abbiamo nella metà del VI secolo, a partire dal regno di Leovigildo (569-586), che segnò un chiaro consolidamento territoriale e politico, con una serie di conquiste che portarono sotto il controllo dei Visigoti sia alcune zone del regno svevo sia del reno bizantino. La trasformazione del dominio visigoto sotto Leovigildo deve però essere letta sotto un’ottica religiosa, perché da questo punto di vista le trasformazioni del dominio visigoto furono importanti e ricche di conseguenze. I Visigoti, inizialmente di religione ariana, a lungo vissero in un rapporto di separazione religiosa con la maggioranza romana di religione cattolica: pur senza assumere le forme di una netta distinzione, la convivenza tra i due popoli trovava nella religione un elemento di separazione e l’Arianesimo fu per i Visigoti uno scudo dietro cui proteggersi. Sotto Leovigildo le tensioni crebbero: il re, preso atto dell’importanza della religione da un lato promosse la ricerca di un compromesso teologico tra ariani e cattolici, e dall’altro perseguì alcune chiese cattoliche. La scelta più coerente fu quella adottata da Reccaredo (586-601) che promosse una conversione del popolo al Cattolicesimo, con un successo relativamente rapido. Ma soprattutto valorizzò la scelta religiosa in senso politico: Toledo, per esempio, divenne un grande centro religioso, sede di molti concili. Capitolo 3: La simbiosi franca Clodoveo, le chiese franche e la diffusione del monachesimo in occidente, i regni e l’aristocrazia Clodoveo nacque da uno dei capi dei Franchi Sali, tribù germaniche. Childerico era un alleato dei Romani, prima di Ezio contro Attila, poi del generale Egidio contro i Visigoti. Durante la guerra, Childerico seppe farsi valere a prescindere dalla dipendenza romana. Ma chi riuscì a portare il consolidamento a compimento fu Clodoveo quando salì al trono nel 481. Alla presa del potere fece seguito, la conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo cattolico. Fu un fatto religioso, ma con importanti implicazioni politiche, prima di tutto perché proprio la rapidità della conversione fece sì che non si innescassero in questo regno i meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa che, in forme diverse, abbiamo visto nei casi degli Ostrogoti, dei Goti e dei Vandali. Ma l'impatto della conversione sugli equilibri interni al regno franco andò oltre. Sicuramente i continui rimandi a Costantino sono evidenti e rimandano a quello che fu il consolidamento tra i Gallo-romani e i Franchi che si sviluppò ben oltre i confini religiosi. Uno di questi “prestiti” lo abbiamo nell’approvazione delle leggi. I Franchi avevano da tempo un insieme di leggi tramandate soltanto oralmente: la loro rielaborazione scritta appartiene al tempo di Clodoveo, sembra intorno al 495 e, dal nome dei Franchi Salii, fu chiamata legge salica. La loro conversione al cattolicesimo favorì anche i rapporti con il clero locale, che fornì aiuto all'amministrazione regia. I Merovingi riuscirono, quindi, a costruire quello che si rivelò in seguito uno dei regni più stabili e di successo dell'Occidente. La stabilità, comunque, non fu una caratteristica quotidiana dell'era merovingia. Mentre esisteva una certa quantità di violenza casuale nella tarda epoca romana, l'introduzione della pratica germanica della faida di sangue, per ottenere giustizia personale, portò alla percezione di un'aumentata illegalità. I commerci si interruppero e la vita civica divenne sempre più difficoltosa, il che portò ad una società sempre più frammentata e localizzata, basata su villaggi autosufficienti. L'alfabetizzazione, al di fuori di chiese e monasteri, in pratica scomparve. I merovingi, di lingua e cultura germaniche, aderirono alla pratica di dividere le proprie terre tra i propri figli, e le frequenti divisioni, riunificazioni e ri-divisioni del territorio risultavano spesso in assassinii e guerre tra le famiglie principali. Così, alla morte di Clodoveo, nel 511, il suo reame venne diviso tra i quattro figli, e nei due secoli seguenti il regno venne diviso tra i suoi discendenti. L'area dei Franchi si espanse ulteriormente sotto il figlio di Clodoveo, arrivando a coprire la gran parte della Francia odierna, ma comprendendo anche le zone ad est del fiume Reno, come l'Alemannia (l'attuale Germania sudoccidentale) e la Turingia (dal 531). La Sassonia venne invece conquistata da Carlo Magno solo secoli dopo. Dopo una temporanea riunificazione dei regni separati, sotto Clotario I, le terre dei Franchi vennero nuovamente divise nel 561 in Neustria (a occidente), Austrasia (a oriente), Borgogna (centrata sulla valle della Saona) ed Aquitania (a sud-ovest). Il sistema delle partizioni territoriali governate da sovrani diversi, conosciute nel moderno linguaggio storiografico con il termine Teilreiche o "frazioni di regno", divenne la regola per tutta l'età merovingia. Capitolo 4: La rottura del Mediterraneo romano Il sistema economico romano subì una prima importanti trasformazioni nel II secolo, quando l’Impero terminò la sua lunga fase di espansione con la definizione di un territorio protetto dal limes del Reno e Danubio. Questo dato militare e territoriale ebbe implicazioni rilevanti sul piano economico soprattutto per ciò che concerneva schiavi e bottino. Questo afflusso rallentò con il rallentare dell’azione militare romana e si avviò una lunga stagione di complessivo equilibrio. Rispetto a ciò, i primi secoli del Medioevo non possono essere letti come una frattura totale, ma sicuramente ci fu un mutamento profondo e per leggere questo mutamento non si possono non considerare gli eventi che riguardano la fine del dominio imperiale sull’Occidente. All’interno delle singole regioni, si ridussero le funzioni delle città mutarono sistemi di produzione e scambio; a livello macroeconomico, si trasformarono profondamente le forme della circolazione e dello scambio ed ebbe fine l’interdipendenza tra le diverse parti dell’Impero. Possiamo leggere il mutamento attraverso quattro aspetti: città, reti interregionali di scambio, forme della produzione e società contadina. Le ambizioni universali dell’impero di Giustiniano La parte orientale dell'impero romano lungo il IV secolo era andata gravitando sempre più chiaramente attorno alla città di Costantinopoli: fondata nel 324 da Costantino, non aveva assunto direttamente una funzione di capitale, ma piuttosto di residenza privilegiata dell'imperatore punto alla fine del secolo, Costantinopoli si pose al centro di un dominio che comprendeva gran parte del mediterraneo orientale e meridionale. Nel corso del V secolo Costantinopoli assunse le funzioni di capitale dell'impero, in parallelo al declino di Roma e delle altre residenze imperiali in occidente, mentre in oriente, dopo la sconfitta di Adrianopoli del 378, riuscì a opporre un freno efficace alle spinte barbariche. I nuovi e più ridotti orizzonti territoriali non mutarono in modo rilevante il funzionamento del potere, e lungo il V secolo Costantinopoli si pose in diretta continuità con l'impero cristiano del secolo precedente. Tre aspetti in particolare possono permetterci di cogliere le forme di questa continuità: la successione al trono, l'organizzazione burocratica e il sistema fiscale. - La successione imperiale non si era mai fondata su una semplice e diretta ereditarietà: il modello Romano tradizionale attribuiva il consenso del popolo il primo fondamento della legittima successione al trono, e su questo si è innestata una visione cristiana che collegava l'ascesa al trono alla volontà divina. Di fatto, nessuna norma aveva mai guidato le successioni imperiali, che nei periodi di maggiore disordine pensione erano state condizionate da rapporti di forza; - La continua instabilità politica era compensata prima di tutto dalla stabilità dell'apparato burocratico, il motore che garantiva al regolare funzionamento della macchina imperiale. Al contrario che in occidente, nell'impero si conservò in questa fase la separazione tra incarichi militari e civili, che impedì fenomeni di eccessiva concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo funzionario. Dal forza armata e dove la centralità della componente militare si vede bene nella vicenda di Carlo Martello che riuscì a mettere in luce la centralità della componente militare nell’immagine che Carlo trasmise di sé, anche se la sua più grande impresa fu senza dubbio la battaglia di Poitiers del 732 che portò alla sconfitta delle truppe islamiche in Spagna. Ma Carlo non fu mai re: fu il figlio Pipino III (Il Breve) a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi Merovingi, passati alla storia come i “re fannulloni” (anche se vennero chiamati così già da prima della detronizzazione di Pipino). La capacità dei Pipinidi di agire in una prospettiva ampia si può cogliere anche da un punto di vista diverso, ovvero osservando l’appoggio dato da Carlo Martello e dal figlio Pipino III nella missione del monaco Wynfrith nelle regioni orientali della Germania. Appoggiando questa missione possiamo constatare tre cose: - L’apertura verso territori orientali che faranno poi parte del dominio franco; - La tutela delle chiese e della loro espansione; - Collegamenti indiretti con il vescovo di Roma in quanto entrambi convergevano nella protezione del monaco. Terre e uomini e Reti di Scambio In tutta Europa il popolamento nel periodo altomedievale era relativamente basso, soprattutto nelle campagne. La forma più importante di insediamento era il villaggio, che non era costituito solo da un insieme di abitazioni, ma dall’integrazione di case e terre. La maggior parte delle distese era occupata dai boschi. Poi abbiamo le corti, che si svilupparono tra VII e VIII secolo con una maggiore gestione delle realtà fondiarie, affermatasi prima in ambito franco. Sostanzialmente la curtis era un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in molti villaggi diversi, inframezzati alle terre di altri grandi e piccoli proprietari terrieri. (N.B.: questione dei massarici e dei domini e forme di accordi) Capitolo 2: Nuovi quadri politici: il regno longobardo I longobardi in Italia Potremmo definire la dominazione longobarda come il regno romano-germanico di seconda generazione che si impose un secolo più tardi degli altri regni. Loro non ero del tutto separati dal sistema politico romano ma avevano contatti sporadici e influssi deboli. Già nel IV secolo i Longobardi dalla Germania scesero in Boemia, si stanziarono in Ungheria, l’antica Pannonia (da qui possono essere effettivamente chiamati Longobardi), e da lì nel 568 invasero l’Italia. Nel corso di questo lungo viaggio il popolo longobardo ebbe modo di assimilare altre popolazioni (Gepidi, Sarmati, Bulgari, Sàssoni, Turingi, Eruli), di condividerne cultura, tradizioni e costumi; l’aggregazione di genti tanto diverse diede vita ad una nuova compagine etnico- culturale. Al loro arrivo in Italia, nel 568, con alla guida Alboino, portarono avanti razzie e conquiste violente che divisero l’Italia in due parti: quella Longobarda e quella imperiale. Questa discontinuità territoriale sarà poi la base per comprendere il clima di forte tensione con l’Impero e la Chiesa; ma al contempo questa disorganicità territoriale deve essere letta alla luce della struttura di potere interna all’esercito e al popolo. Infatti, se abbiamo descritto l’invasione dell’Italia come una spedizione condotta dal re Alboino, non dobbiamo pensare che il re fosse l’unico potere alla guida dei Longobardi, anzi, si trattava di un potere molto limitato. I Longobardi erano un popolo-esercito organizzato in corpi militari chiamate farae che a loro volta avevano dei capi, guide militari che a loro volta erano i capi del popolo (erano i duchi, che erano molto indipendenti). Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura di basava il potere regio. Anche il re era prima di tutto una guida militare. Ma se ne potè fare a meno. Per esempio, quando morì Alboino, nel 572, gli succedette Clefi che però restò in carica solo due anni, in quanto anche lui venne ucciso. Dal 574 al 584 i Longobardi rimasero senza re perché ritennero che in quel contesto di disagi militari, la nomina di un re non era indispensabile. Inizialmente. Nel 584 i duchi, davanti alla chiara necessità di una forte monarchia centralizzata per far fronte alla pressione dei Franchi e dei Bizantini, incoronarono re Autari e gli consegnarono metà dei loro beni. Autari riorganizzò i Longobardi e il loro insediamento in forma stabile in Italia e assunse il titolo di Flavio, con il quale intendeva proclamarsi anche protettore di tutti i romani. Nel 585 respinse, nell'attuale Piemonte, i Franchi e indusse i Bizantini a chiedere, per la prima volta, una tregua. Nel 590 sposò la principessa bavara Teodolinda, di sangue letingio. Autari morì in quello stesso 590 e a succedergli fu chiamato il duca di Torino, Agilulfo, che sposò a sua volta Teodolinda. Ci troviamo dunque di fronte a un potere regio importante soprattutto dal punto di vista militare, ma che dovette via via costruire la propria eminenza nei confronti dei duchi. Inoltre bisogna considerare l’esigenza di una capitale, che dopo varie vicissitudini venne proclamata Pavia e che rimase tale fino all’XI secolo. Longobardi e Romani Sebbene Agilulfo e Teodolinda fossero i re longobardi, nessuno dei due lo era di sangue. Questo dato ci offre un quadro all’insegna della fluidità all’interno del popolo. E questo concetto venne enfatizzato dalla fusione con i Romani, sebbene molte peculiarità non siano totalmente chiare. Al momento dell’invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri, tanto che decisero di spostarsi sotto la protezione delle chiese di Roma e Ravenna. Nel regno, il potere si concentrò nelle mani dei Longobardi e dei loro duchi: ma questa situazione durò poco sebbene inizialmente nei territori dell’impero vivevano più longobardi che romani. Ma fu un processo che non può essere approfondito. Esiste tuttavia un aspetto importante dell’identità collettiva longobarda, ed è la religione. La religiosità longobarda al momento della discesa in Italia comprendeva credenze pagane e Cristianesimo ariano. In particolare quest’ultima divenne la testimonianza di una romanizzazione debole. Ma divenne un perno fondamentale su cui verte il rapporto tra i longobardi e i romani. La fluidità di questa identità longobardo-ariana emerge con particolare chiarezza nell’età di Teodolinda, la regina che all’inizio del VIII secolo aveva tra le mani un grande dominio; infatti, oltre al non essere longobarda, era anche cattolica. Al suo fianco il marito Agilulfo restò ariano ma acconsentì a battezzare i figli. Il passaggio dall'arianesimo al cattolicesimo è comunque progressivo. Dopo Agilulfo saliranno al trono altri re longobardi di religione ariana (es. Rotari) ma senza alcuna persecuzione nei confronti dei cattolici. Rimaneva comunque costante lo scarso coinvolgimento spirituale di gran parte dei Longobardi nelle controversie religiose, tanto che la contrapposizione tra cattolici, da un lato, e pagani, ariani e tricapitolini, dall'altro, assunse ben presto valenze politiche. I sostenitori dell'ortodossia romana, capeggiati dalla dinastia Bavarese, erano politicamente i fautori di una maggior integrazione con i Romanici, accompagnata da una strategia di conservazione dello status quo con i Bizantini. Ariani, pagani e tricapitolini, radicati soprattutto nelle regioni nord-orientali del regno ("Austria"), si facevano invece interpreti della conservazione dello spirito guerriero e aggressivo del popolo. Così, alla fase "filo-cattolica" di Agilulfo, Teodolinda ed Adaloaldo seguì, dal 626 (ascesa al trono di Arioaldo) al 690, una lunga fase di ripresa dell'arianesimo, incarnato da sovrani militarmente aggressivi come Rotari e Grimoaldo. La capacità di intervento imperiale in Italia era dunque discontinua. Una nuova crisi si delineò, su basi differenti, nel secolo seguente, quando l’orientamento iconoclasta della corte imperiale determinò una profonda frattura religiosa con l’Occidente. Questa ostilità ebbe un’incidenza significativa nell’orientamento papale nei confronti dei franchi, visti come gli unici protettori della chiesa di Roma. Crescita e fine del regno La morte di Cuniperto, nel 700, aprì una grave crisi dinastica, con scontri civili, reggenze effimere e ribellioni; solo nel 702 Ariperto II riuscì a sconfiggere Ansprando e Rotarit, che gli si opponevano, e poté sviluppare una politica di pacificazione. Nel 712 Ansprando, rientrato dall'esilio, spodestò Ariperto, ma morì dopo appena tre mesi di regno. Sul trono salì Liutprando, il figlio di Ansprando già associato al potere; il suo regno fu il più lungo di tutti quelli dei Longobardi in Italia, che sotto di lui toccarono l'apogeo della loro parabola storica. Il suo popolo gli riconobbe audacia, valor militare e lungimiranza politica, ma a questi valori tipici della stirpe germanica (elementi in declino dell'identità longobarda, che lo stesso sovrano tentò di rivitalizzare) Liutprando, re di una nazione ormai in stragrande maggioranza cattolica, unì quelle di piissimus rex. Liutprando si alleò con i Franchi, attraverso un patto coronato dalla simbolica adozione del giovane Pipino il Breve, e con gli Avari, ai confini orientali: una doppia garanzia contro i potenziali nemici esterni che gli consentì di avere le mani libere nello scacchiere italiano. Nel 726 si impadronì di molte città dell'Esarcato e della Pentapoli, atteggiandosi a protettore dei cattolici; per non inimicarsi il papa, tuttavia, rinunciò all'occupazione di Sutri, che restituì non all'imperatore ma «agli apostoli Pietro e Paolo». Questa donazione, nota come Donazione di Sutri, fornì il precedente legale per attribuire un potere temporale al papato, che avrebbe infine prodotto lo Stato della Chiesa. Un momento di forte tensione si ebbe quando Liutprando mise l'assedio a Roma: il papa chiese aiuto a Carlo Martello che, intervenendo diplomaticamente, riuscì a far desistere il sovrano longobardo (739). Negli anni successivi Liutprando portò anche i ducati di Spoleto e di Benevento sotto la sua autorità: mai nessun re longobardo aveva ottenuto simili risultati. La solidità del suo potere si fondava, oltre che sul carisma personale, anche sulla riorganizzazione delle strutture del regno che aveva intrapreso fin dai primi anni. Il nuovo papa Zaccaria ottenne nuove cessioni territoriali da Liutprando, che nel 742 trasferì al pontefice diverse terre dell'ex "Ducato romano". Dopo la morte di Liutprando (744) una rivolta destituì suo nipote e insediò al suo posto il duca del Friuli, Rachis, che tuttavia si dimostrò un sovrano debole. Cercò sostegno presso la piccola nobiltà e i Romanici, inimicandosi la base dei Longobardi che lo costrinse presto a tornare all'offensiva e ad attaccare la Pentapoli. Il papa lo convinse a desistere e il suo prestigio crollò; i duchi elessero come nuovo re suo fratello, Astolfo, e Rachis si ritirò a Montecassino. Astolfo, espressione della corrente più aggressiva dei duchi, intraprese una politica energica ed espansionistica e all'inizio colse notevoli successi, culminati nella conquista di Ravenna (751); le sue campagne portarono i Longobardi a un dominio quasi completo dell'Italia, con l'occupazione (750-751) anche dell'Istria, di Ferrara, di Comacchio e di tutti i territori a sud di Ravenna fino a Perugia, mentre nella Langobardia Minor riuscì a imporre il suo potere anche a Spoleto e, indirettamente, a Benevento. Proprio nel momento in cui Astolfo pareva ormai avviato a vincere tutte le opposizioni su suolo italiano, Pipino il Breve, nuovo re dei Franchi, si accordò con papa Stefano II che, ottenne la discesa in Italia dei Franchi. Nel 755 l'esercito longobardo fu sgominato dai Franchi e Astolfo (assediato a Pavia da Pipino il Breve) dovette accettare consegne di ostaggi e cessioni territoriali. Due anni dopo riprese la guerra contro il papa, che richiamò i Franchi. Sconfitto di nuovo, Astolfo dovette accettare patti molto più duri: Ravenna passò al papa, incrementando il nucleo territoriale del Patrimonio di San Pietro e il re dovette accettare una sorta di protettorato. Alla morte di Astolfo, nel 756, Rachis uscì dal monastero e tentò, inizialmente con qualche successo, di ritornare sul trono. Si oppose Desiderio, duca di Tuscia, che riuscì a ottenere l'appoggio del papa e dei Franchi. I Longobardi gli si sottomisero e Rachis ritornò a Montecassino. Desiderio riaffermò il controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete di monasteri governati da aristocratici longobardi e arrivando a patti con il nuovo papa, Paolo I. Desiderio sviluppò una disinvolta politica matrimoniale dando in sposa una figlia al futuro Carlo Magno e un'altra figlia, Liutperga, al duca di Baviera, Tassilone. Nel 771 la morte del fratello Carlomanno lasciò mano libera a Carlo Magno che, ormai saldo sul trono, ripudiò la figlia di Desiderio. L'anno successivo un nuovo papa, Adriano I, pretese la consegna di alcuni territori promessi e mai ceduti da Desiderio portandolo così a riprendere la guerra contro le città della Romagna. Carlo Magno venne in aiuto del papa: tra il 773 e il 774 scese in Italia e conquistò la capitale del regno, Pavia. Il figlio di Desiderio, Adelchi, trovò rifugio presso i Bizantini; Desiderio e la moglie Ansa furono condotti in Francia e chiusi in un monastero. Carlo si fece chiamare da allora Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum, realizzando un'unione personale dei due regni, mantenendo le Leges Langobardorum ma riorganizzando il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi. Capitolo 3: Impero carolingio, ecclesia carolingia Dal regno all’Impero Nei decenni a cavallo tra VII e VIII secolo, i regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale, i Pipinidi, che seppero ricostruire un potere egemone sull’interno mondo Franco, grazie a diverse azioni politiche: l’iniziativa militare, la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia d’Austrasia, l’occupazione della carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, la protezione offerta In specifico, i vassalli regi furono l’ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi: non tutti i vassalli regi diventavano conti, ma i conti erano reclutati tra i fidati del reo ovvero prima di tutto i suoi vassalli. Sotto Ludovico il Pio divenne norma, andando a rafforzare il rapporto tra il sovrano e i suoi funzionari, portando anche ad un coordinamento di quest’ultima molto migliore. Nelle fasi di maggior forza il regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un rapporto diretto con i liberi. Questi contadini, oltre a chiedere protezione molto spesso a dei potenti (di solito una chiesa), sono sistematicamente sconfitti, ma questo è dovuto a due elementi strutturali: da un lato la fondamentale solidarietà che univa il re ai potenti e che orientava a loro favore le decisioni della giustizia regia; dall’altro il dato ovvio della conservazione documentaria, perché solo le grandi chiese avevano le capacità culturali e organizzative per costruire un archivio in cui conservare gli atti utili. Dall’Impero ai regni L’Impero di Carlo Magno non fu una perfetta costruzione istituzionale, ma piuttosto un efficace equilibrio tra la potenza aristocratica e il coordinamento regio. Gran parte del IX secolo può quindi essere letta come una fase di sostanziale continuità nei funzionamenti politici: il potere regio fondava la propria forza sul coordinamento efficace dell’aristocrazia e delle chiese. Nei primissimi anni del secolo Carlo venne messo di fronte alla prospettiva di divisione tra i suoi figli: Carlo, Ludovico e Pipino. Ma nella prospettiva politica dell’imperatore, non si trattò di una semplice spartizione ma di un atto con implicazioni più complesse: la Divisio regni dell’806 individuò diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma l’obiettivo era mantenere l’identità unitaria del regno. Tuttavia, la morte dei due figli, fece si che alla morte di Carlo (814), l’unico erede fosse Ludovico il Pio. Ma questo non privò l’erede di disguidi familiari, in particolar modo con il figlio di Pipino, Bernardo, che però venne sconfitto, anche se ben presto Ludovico dovette fronteggiare un’altra questione. A seguito della nascita di Carlo il Carlo, nell’823, la nuova moglie Judith, orientò la politica del marito in direzioni assai diverse da quelle enunciate nell’817. Ma l’evento più di rilievo è senza dubbio nel 833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai suoi figli, Lotario, Pipino e Ludovico, che si vedevano minacciati dalla crescente posizione di Carlo e che portarono alla salita al trono di Lotario, ma le discussioni tra i tre portarono nuovamente Ludovico sul trono, fino al 840, quando morì e che portò subito dopo, ad accesi scontri tra Ludovico il Germanico, Lotario e Carlo il Calvo. Di questi scontri sono di fondamentale importanza tre eventi: 1. La battaglia di Fontenoy, 841. Lotario sconfitto; 2. Giuramento di Strasburgo, 842. Alleanza tra Ludovico e Carlo; 3. Pace di Verdun, 843. Fine dei conflitti e spartizione dell’Impero: a Carlo andò il regno dei Franchi occidentali, a Ludovico il regno dei Franchi orientali, mentre Lotario ottenne una fascia intermedia che, da nord a sud, andava dall’Alsazia fino all’Italia. La novità di questi anni non fu la divisione territoriale. Ciò che appare veramente mutato è il concetto stesso di Impero: sebbene dopo Verdun divenne Lotario l’imperatore, questo non portò nemmeno lontanamente a un’unità e con la spartizione si rinunciò all’idea di Impero. Il potere regio non cambiò natura ma cambiò drasticamente il quadro territoriale. La seconda metà del secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo che divenne imperatore nel 875. I figli di Lotario assunsero in vari momenti poteri regi, mentre i figli di Ludovico si affermarono in Baviera e in area tedesca. Nell’888 un figlio di Ludovico, Carlo il Grosso segnò con la sua morte la fine della dinastia, o meglio la fine della dinastia dai vertici. Negli anni successivi i Carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni, ma non furono più la dinastia dominante e soprattutto il loro potere non fu più un fattore unificante dei territori dell’Impero. In sintesi, le grandi ampie fasi della storia dei Pipinidi/Carolingi sono: a. dall’inizio del VII secolo fino al 751 furono una grande dinastia che costruì il proprio potere in ambienti merovingi; b. dal 751 all’840 un singolo re carolingio controllò il potere franco prima, e un grande potere poi; c. dall’840 all’888 il sistema di potere carolingio si articolò in regni distinti e separati, senza una vera unità dinastico-territoriale; d. dall’888 al 987 i Carolingi furono una delle dinastie che, si contendevano il potere, in una fase prevalentemente conflittuale. Capitolo 4: il Mediterraneo bizantino ed islamico Le origini dell’Islam La loro regione d’origine è la penisola arabica, costituito per la maggior parte da un grande deserto con poche zone propizie all’insediamento umano rappresentate da oasi disperse nell’immenso mare di terra e sabbia. Fa eccezione a questo tipo di ambiente la fascia costiera meridionale della penisola, l’attuale Yemen, la quale è risultata favorevole allo sviluppo di popolazioni di agricoltori stanziali. Il resto della penisola, ha visto invece lo sviluppo di una società caratterizzata dal nomadismo, dalla pastorizia e dalle razzie, connotati peraltro comuni ad altre società sviluppatesi in ambienti ostili ad ogni forma di insediamento permanente e quindi a popolazioni di agricoltori stanziali. Da un punto di vista politico l’Arabia pre-islamica era completamente disgregata, divisa in territori che si autogovernavano nel rispetto reciproco della loro autonomia. Figura importantissima all’interno dell’ambiente islamico è il califfo, che costituisce la massima magistratura islamica (con una rilevanza eminentemente politica, anche se non esente da risvolti spirituali), ma non è prevista nel Corano e neanche nella Sunna di Mohammad. Fu infatti realizzata in modo del tutto originale da alcuni fra i primi compagni del Profeta nella stessa giornata della sua morte, l'8 giugno 632. L’azione politico-militare dei califfi fu però segnata, fin dai primi decenni, da fratture legate alla successione di Mohammad. Si contrapposero tre posizioni: 1. i sunniti, che si rifacevano alla Sunna, il libro; 2. gli sciiti, seguaci di Alì (cugino di Maometto); 3. i kharigiti, su posizioni che non erano concernenti credi religiosi. La rottura si ebbe con l’uccisione di Alì nel 661. Prevalse il credo sunnita e a salire al potere furono gli Omayyadi ma anche questo non placò gli scontri. Infatti viveva ancora un gruppo di sostenitori sciiti che richiamava ad Alì. Nonostante questo è con gli Omayyadi che l’espansione territoriale dell’islam si completò e questo portò a ulteriori scontri in particolar modo con gli arabi, loro vicini. Il califfato aveva infatti una doppia natura: da un lato un carattere etnico, come dominio degli Arabi su altre popolazioni; dall’altro un carattere religioso, come affermazione dei musulmani non credenti. Se i due piani sono concettualmente distinti, nell’età omayyade erano strettamente intrecciati, dato che l’Islam era concepito dall’élite al potere come la religione degli Arabi, con un diretto legame tra identità etnica e identità religiosa. All’interno del dominio islamico, esistevano quindi due contrapposizioni: una regolata ad esplicita e l’altra meno esplicita ma di più grande incidenza. Sia come sia, la storia ci ha mostrato negli anni a seguire la morte di Maometto una prorompente espansione della Umma verso il nord-Africa, il medio Oriente bizantino e i territori occidentali dell’impero sasanide, ma ci sono fondati dubbi sul fatto che alla base di questa espansione ci fosse la volontà di combattere e convertire gli ‘infedeli’, se si considera che per lungo tempo i musulmani non imposero a cristiani ed ebrei la loro religione, accontentandosi di riscuotere un tributo dai Dhimmi (termine col quale erano indicati i cristiani e gli ebrei dei territori sottomessi) senza eccessive prevaricazioni. Questo modus operandi basato su una generale tolleranza dei Dhimmi, sarà uno dei principali motivi del successo e della rapidità dell’espansione dell’Islam nei primi secoli seguenti la morte di Maometto. Questo atteggiamento inizialmente conciliante nei confronti di ebrei e cristiani è da ricollegare alla comune origine abramitica delle tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e Islam), le quali ad ogni modo posseggono sostanziali differenze. Tanto per fare un esempio, Gesù di Nazareth è considerato dall’ebraismo un falso messia, dal cristianesimo il figlio di Dio, dall’Islam un profeta, dunque un semplice essere umano per mezzo del quale Allah si rivela ed esprime la propria volontà. In virtù di ciò considerare Dio ‘Uno e Trino’, dogma fondamentale della religione cristiana, risulta una vera e propria eresia per il credo islamico il quale, considerando Gesù un profeta e dunque negandone la natura divina, concepisce Allah come ‘il Dio Uno e Unico’. L’affermazione islamica su larghi settori del Mediterraneo ebbe al contempo riflessi importanti sul piano economico. L’indipendenza economica tra le diverse parti del Mediterraneo, che aveva caratterizzato l’Impero romano, si era rotta lungo il V secolo; se l’espansione araba determinò una rottura profonda sul piano politico, religioso e culturale, il Mediterraneo del VII secolo da tempo non era più un’unità economica. Tuttavia meccanismi di interdipendenza su base fiscale si erano conservati nell’ambito dell’Impero orientale: Bisanzio, la sua amministrazione e i suoi eserciti traevano un sostegno importante dalle province più produttive, ma quando le persero ci fu un grande colpo per l’economica dell’impero, che cominciò a vacillare, cosa che non successe ai paesi sotto il controllo del regno islamico. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti in favore degli Abbasidi. Gli Abbasidi segnarono fin dai primi anni un mutamento importante rispetto agli equilibri di potere costruiti dagli Omayyadi: lo spostamento della capitale nella neonata città di Baghdad fu infatti il chiaro segno di un cambiamento nell’ordine del califfato, diventando un mondo islamico a tutti gli effetti. La dinastia tuttavia trovò il suo reale organizzatore e sapiente amministratore in Abū Jaʿfar (al-Manṣūr), fratello minore di Abū l-ʿAbbās, che fondò quelle solide basi che permisero alla suprema magistratura islamica di sopravvivere per mezzo millennio circa, anche se dopo il califfato di al-Mutawakkil, il potere della dinastia prese a svuotarsi sostanzialmente, pur mantenendosi formalmente fino alla sua caduta, come evidente simbolo dell'unità islamica (Ad al-Manṣūr (reg. 754-775) si deve la fondazione di Baghdad). L'apice della potenza abbaside fu raggiunto da suo nipote Hārūn al-Rashīd (reg. 786-809) e dal figlio di quest'ultimo, al-Maʾmūn (reg. 813-833), sotto i quali il califfato toccò limiti straordinari, tanto territoriali quanto culturali. L'allargamento dei domini abbasidi portò peraltro a una progressiva crescita delle difficoltà del califfato, in parte causate dalle differenze etniche e culturali ma, più semplicemente, da una certa incapacità del centro di amministrare saggiamente le periferie. Nell'VIII secolo, al-Andalus e Maghreb si erano già distaccati dal califfato, in parte per l'azione nel primo di un esponente omayyade superstite e in parte per l'indomita resistenza berbera. Il secolo dopo fu l'Egitto a far valere il proprio diritto all'auto- amministrazione e, col trascorre del tempo, furono poi le province iraniche a rivendicare un proprio modello di sviluppo (pur senza rinunciare al tratto unificatore della religione islamica), quindi dalla Siria e dalla Mesopotamia (sec. IX-X). Da quel momento in poi il califfato si ridusse progressivamente al controllo del solo Iraq, quindi della sola Baghdad e, addirittura, neppure a tutta la città-capitale. Tra l'836 e l'892 la capitale (segnata da crescenti problemi di ordine pubblico) fu trasferita a Sāmarrā', per tornare tuttavia nuovamente a Baghdad fino alla caduta della dinastia. Capitolo 5: Società e poteri nel X secolo I mutamenti dei poteri comitali A partire dalla metà del IX secolo le divisioni dell’Impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra il re e la grande aristocrazia. Questi rapporti avevano assunto sotto Carlo Magno una duplice veste, con la convergenza attorno al re di rapporti vassallatici e incarichi funzionariali, due sistemi concettualmente separati. Al contempo, proprio questa separazione e i ricorrenti conflitti facevano si che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell’appoggio militare aristocratico e che i più grandi gruppi parentali fossero spesso contesi tra i diversi re. In sostanza, nella La fondamentale continuità politica che segnò il potere degli Ottoni lungo la seconda metà del secolo subì però un mutamento rilevante sotto Ottone III, che pose al centro della propria ideologia la nozione di Rinnovamento dell’Impero romano al fine di ispirarsi all’antica Roma, che non era solo un richiamo al passato, ma una precisa volontà di intervento nel presente: nel 996, mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona imperiale, lo raggiunse la notizia della morte del papa Giovanni XV, così Ottone propose come papa un suo cugino, Bruno di Worms, che divenne Gregorio V. La nomina di Gregorio fu un fatto nuovo, non per la capacità imperiale di imporre un proprio candidato, ma perché il papa proveniva da Oltralpe. La novità fu tanto radicale se si considera che, l’aristocrazia romana del X secolo aveva avuto il pieno controllo dell’elezione papale; non a caso i romani si ribellarono duramente ma questo non fermò Ottone da fare nuovamente un’azione simile, nominando Silvestro II. Queste situazioni testimoniano un’evoluzione nel papato perché figure intellettuali come questi due potevano portare a un miglioramento nell’ambiente, anche dal punto di vista culturale. Nel 1002, alla morte di Ottone III ci fu una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente con l’incoronazione di Enrico II. Ma dal punto di vista italiano questa successione ebbe implicazioni diverse: poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d’Italia Arduino che però venne sconfitto nel 1004 da Enrico che però essendo lontano dall’Italia, non si curò riguardo un’eventuale rappresaglia di Arduino, che però venne sconfitto definitivamente nel 1014. Ma sebbene Arduino venne sconfitto, questo portò ad alcune consapevolezze all’interno degli Stati italiani e che portò negli anni successivi a una crisi dinastica importante, quando per esempio si andò a cercare altrove un nuovo sovrano, Guglielmo d’Aquitania. I decenni intorno al Mille andarono quindi a definire un duraturo equilibrio tra regno e aristocrazia: equilibrio che restò tale per tutta la prima metà del XI secolo, per poi subire una trasformazione profonda soprattutto a causa della Riforma della Chiesa e del conseguente radicale mutamento dei rapporti tra papato e impero. Francia: Come in Italia e Germania, anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno, e una svolta la abbiamo con la morte di Carlo il Grosso che lasciò spazio ad Oddone di Parigi. Anche qui si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche del regno, ma un primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi, appoggiati da alcuni settori dell’aristocrazia che portarono al potere Carlo il Semplice nel 893. Fu un re debole che poté fermare i Normanni solo cedendo una buona parte del regno e che lo portarono alla deposizione nel 922 dai grandi del regno. Questa definizione di grandi del regno ci introduce al dato più importante dell’evoluzione del regno francese in questi decenni ovvero il diversificarsi del territorio del regno, dalla sua divisione in principati regionali largamente autonomi. Si venne a creare un equilibrio, delicato come fu evidente nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna: Ugo il Grande, scelse di non imporre la propria supremazia e di richiamare Carlo il Semplice. Sebbene possa sembrare una rinuncia non dovrebbe essere letta in questo senso, ma più come un atto di realismo: se la forza dei Robertini era notevole, non era di certo l’unica. Le dinastie principesche rappresentavano anzi i principali attori politici del regno e Ugo rinunciando evitò probabilmente di affermare simbolicamente se stesso sugli altri. I Carolingi che salirono al trono lungo la seconda metà del X secolo non furono certo re-fantocci, ma indubbiamente il processo che in questi decenni segnò i meccanismi politici del regno di Francia fu la costruzione dell’egemonia dei Robertini, che culminò nel 987 con l’ascesa al trono di Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia capetingia, che conservò la corona fino al 1328, con l’insediamento dei Valois. Inghilterra: La tradizione politica inglese lungo l’alto medioevo vedeva un’alta frammentazione politica. Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, dall’altro una crescita egemonica nel Wessex. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande (871-899), che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non normanni. Ma questa fase non segnò l’inizio di uno stabile dominio unitario sull’Inghilterra. Di fatto, per tutto il X secolo, non si può parlare di un regno inglese unitario, che invece si costituì un secolo dopo con il re norvegese Knut che nel 1016 arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e quindi su tutti i principati inglesi. La rottura dell’unità politica realizzata da Knut non comportò una netta separazione dei destini delle diverse sponde del mare del Nord, e questa integrazione tornò in primo piano pressoché a ogni successione sul trono inglese che non si basava sull’ereditarietà. In particolare, alla morte di re Edoardo, nel 1066, la corona venne contesa tra diversi personaggi ma che portarono alla battaglia di Hastings tra il re norvegese Harald e quello che diverrà Guglielmo il Conquistatore nell’ottobre del 1066. Spagna: Processi ben diversi abbiamo nella penisola iberica. La conquista araba dell’VIII secolo, non aveva coinvolto l’intera penisola ma aveva dissolto l’unità visigota. La convivenza tra gli emiri e i regni cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo ma che non portò a degli scontri diretti e violenti, come accadrà invece durante la fase della Reconquista. Assistiamo piuttosto a una continua interferenza tra le diverse dominazioni. Così da un lato i re cristiani cercarono di operare attivamente nelle dinamiche interne all’emirato. Ma al contempo la maggior forza militare islamica permise l’affermarsi di un’egemonia di fatto dell’emiro sull’intera penisola, che tuttavia non cancellò i regni cristiani. Dalla fine del XI secolo erano presenti nella cultura politica dei regni cristiani iberici alcuni elementi che andarono poi a costituire le basi ideologiche della Reconquista; ma in questa fase tali elementi non andarono a costituire un’ideologia solida. Nella penisola iberica del X secolo, i regni cristiani e gli emiri non erano né mondi separati né dominazioni in totale contrapposizione; erano piuttosto articolazioni regionali poste su diversi livelli di potenza. Ma con la Reconquista più strutturata e soprattutto sostenuta dal Papato, si segnò l’avvio di un processo d’espansione territoriale dei regni cristiani ai danni dell’emirato, un processo che tuttavia raggiunse risultati di rilievo solo a partire dal XIII secolo. PARTE TERZA: Poteri locali e poteri regi tra l’XI e il XIII secolo Capitolo 1: Le istituzioni della Chiesa e l’inquadramento religioso delle popolazioni tra XI e XIII secolo Nel corso del secolo XI, le chiese, benchè condizionate sempre di più dai contesti locali, conservarono una maggiore capacità rispetto ai regni da modellare i quadri sociali delle popolazioni europee, di dare una parvenza di ordine al caos delle relazioni di potere interne al mondo signorile. Fu uno sforzo che coinvolse in un primo periodo la Chiesa stessa come istituzione sacra sulla Terra. Sulla spinta di tante chiese locali, di vescovi capaci, di imperatori pii e di intellettuali militanti si mise in moto un processo di ripensamento della funzione della Chiesa conosciuto con il nome di Riforma. Nei primi decenni del XI secolo si individuarono i temi portanti di questa nuova visione della Chiesa: recupero dei beni, affermazione della natura inalienabile delle cose sacre, a cominciare dalle cariche che non potevano essere cedute per denaro (simonia), esaltazione del carattere sacro del sacerdozio da non contaminare con i peccati carnali (celibato del clero), necessità di un vertice della Chiesa libero da condizionamenti esterni. Il programma era lungo e soprattutto difficile da far accettare. Le resistenze vennero in primo luogo dagli stessi quadri episcopali che si opposero all’ondata moralistica dei riformatori radicali. Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro coinvolse anche l’imperatore Enrico IV, che portò alla cosiddetta lotta per le investiture. Con la locuzione lotta per le investiture si fa riferimento allo scontro tra papato e Sacro Romano Impero che si protrasse dal 1073 fino al 1122, riguardante il diritto di investire (cioè di nominare) gli alti ecclesiastici e il papa stesso. Durante il Medioevo l'investitura era un atto con il quale, attraverso un rito detto omaggio, un signore, conferiva a un'altra persona un possesso o un diritto, il beneficium. Nell'XI secolo i sovrani laici ritenevano una loro prerogativa il potere di nominare vescovi e abati di loro scelta, e quindi investirli spiritualmente, come conseguenza di aver affidato a loro dei beni materiali. Tale consuetudine dava al potere temporale una supremazia su quello spirituale e ciò si era tradotto in un profondo fallimento del clero, non in grado di svolgere la propria funzione. I primi movimenti intesi ad ottenere una maggior indipendenza della Chiesa si ebbero già all'inizio del 900 all'interno dell'ambiente monastico, ma fu nel secolo successivo che una vera riforma si diffuse in tutta la Chiesa. L'apice di suddetta riforma si ebbe durante il pontificato di papa Gregorio VII (iniziato nel 1073), il quale, fervente sostenitore del primato papale sopra qualsiasi altro potere, entrò duramente in conflitto con l'imperatore Enrico IV di Franconia, dando inizio alla lotta per le investiture. Lo scontro ebbe risvolti gravi e inediti, con l'imperatore che arrivò ad ordinare al pontefice di dimettersi dal proprio ruolo e questi, per tutta risposta, giunse a scomunicare e deporre il primo. Celebre il viaggio che Enrico intraprese nel 1077 per chiedere perdono a Gregorio VII, ospite in quel tempo della contessa Matilde di Canossa, affinché gli togliesse la scomunica e quindi ripristinasse il dovere di obbedienza da parte dei suoi sudditi, già sollevati contro di lui (umiliazione di Canossa). Il pontificato di Gregorio terminò tuttavia nel peggiore dei modi: venne eletto un antipapa, Clemente III, mentre il pontefice morì in esilio a Salerno sotto la protezione del normanno Roberto il Guiscardo. Il confronto perdurò anche con i successori di Gregorio VII, per poi terminare nel 1122, quando papa Callisto II e l'imperatore Enrico V si accordarono con la stipula del concordato di Worms. L'accordo prevedeva che la scelta dei vescovi ricadesse sulla Chiesa e che poi essi prestassero giuramento di fedeltà al monarca secolare; si andava affermando il diritto esclusivo della Santa Sede ad investire le cariche ecclesiastiche con l'autorità sacra, simboleggiata dall'anello vescovile e dal bastone pastorale; l'imperatore invece conservava il diritto di presiedere alle elezioni di tutte le alte cariche ecclesiastiche e di arbitrare le controversie. Inoltre gli imperatori del Sacro Romano Impero rinunciarono al diritto di scegliere il pontefice. Ma dopo quasi cinquant’anni di scontri la situazione non mutò e le cose restarono le medesime del tempo di Gregorio. Cambiò piuttosto, il modo di pensare le istituzioni ecclesiastiche o meglio di pensare alla Chiesa come istituzione. Si inquadrarono anche i nuovi movimenti monastici all’interno di modelli antichi (regola di Benedetto) ritualizzati secondo le diverse necessità degli ordini. Questo ampio processo di produzioni di norme esprimeva una profonda esigenza di stabilità che la Chiesa inseguì a lungo per sé e per la società. Rendere stabili le istituzioni era condizione necessaria per svolgere meglio il compito della Chiesa sulla terra: portare alla salvezza la maggior parte degli uomini. E questi modi dovevano essere decisi e imposti dalla Chiesa. Gli uomini dovevano ricevere i sacramenti e seguire la retta via. Si doveva accettare la malvagità dei peccati e chi non lo faceva o andava contro qualsiasi regola imposta dalla Chiesa era accusato di eresia. E gli eretici, dovevano essere puniti e purificati, e a questo dovevano pensarsi i poteri laici, incaricati di dare la morte agli eretici, in quanto Dio li avrebbe perdonati per i loro eventuali peccati. Capitolo 2: la Guerra, la Chiesa, la cavalleria Dalla fine del X secolo l’assenza di una forte autorità centrale era stata avvertita dagli ecclesiastici come un pericoloso vuoto di potere, un elemento di disordine che liberava una violenza incontrollata e senza limiti. Una violenza che colpiva le fasce deboli della società, i poveri, i contadini, gli inermi e le stesse figure ecclesiastiche. Era una conseguenza inevitabile del venir meno di un re difensore della Chiesa in grado di salvaguardare gli interessi delle Chiese dalla rapacità degli uomini armati. Tra X e XI secolo alcuni vescovi tentarono di frenare questa violenza, di incanalarla verso un uso legittimo della forza, sottoposto al controllo etico degli uomini di Chiesa e a quello politico delle comunità laiche. Se esisteva dunque una violenza giusta che difendeva lo stato di pace, poteva esistere anche una guerra giusta o santa per difendere la fede, come scoprirono presto i papi della Riforma. Nel corso della seconda metà del XI secolo si assiste a un ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Sulla spinta di questa sacralizzazione della violenza contro i nemici della Chiesa, il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi sacri, subì, negli anni finali del XI secolo, un’improvvisa torsione bellica e il pellegrinaggio si trasformò in guerra santa. Crociate: Il termine Crociata è attribuito primariamente alla serie di guerre promosse dalla Chiesa cattolica, combattute tra l'XI e il XIII secolo. frammentazione del potere, per cui non esisteva un singolo signore nel villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori. Produzione e prelievo in un’età di sviluppo Signorie territoriali o fondiarie, prelievi di origine pubblica o signorile: il dato che conta è che nel corso dell’XI secolo i contadini divennero sudditi. I signori non erano semplicemente dei grandi proprietari che prelevavano censi ma un potere pienamente pubblico. Questa pressione signorile non rispondeva solo a una volontà di arricchimento o di accumulo, ma alla logica di un‘economia signorile che era essenzialmente un’economia di spesa. I grandi laici spendevano somme enormi per cavalli e armi e coloro che ci andavano sotto erano i contadini. Un analogo atteggiamento lo abbiamo nell’ambiente ecclesiastico dove per sostenere le grandi spese si affidavano ai sudditi, traendo vantaggio da una lunga congiuntura di crescita demografica ed economica che caratterizzò tutta l’Europa dal XI al XIII secolo. Il sistema economico che aveva permesso questo balzo in avanti della produttività era pur sempre inserito in un sistema politico di dominazione signorile. Forme di produzione e forme di dominazione non possono essere del tutto separate; anzi erano intimamente collegate, anche se il legame era ambivalente. L’inquadramento delle popolazioni rurali e l’azione politica contadina Al di sotto dei signori e dei loro vassalli, la stragrande maggioranza della popolazione delle campagne era costituita da contadini ma la definizione dei rustici è ben diversificata. Partiamo infatti dai braccianti senza un patrimonio fino ai medi proprietari terrieri. La diversificazione del mondo contadino non si limitava però solo al piano economico ma anche a quello politico. Così ad esempio i contadini più piccoli si legavano ai monasteri o ai signori. Vediamo quindi un gruppo con alcuni connotati peculiari: una certa forza economica, la capacità di redistribuire terre e lavoro ai vicini più poveri, l’assunzione di incarichi a nome del signore. È una sorta di élite dal punto di vista economico, ma che manifesta anche una particolare capacità da quello politico; ed è qui che entrano in gioco quelli che vengono chiamati i comuni rurali. Parliamo di comuni rurali per tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio di organizzava, agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. Un altro dato importante è costituito dalle clausole iniziali, ovvero le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Un’esigenza fondamentale dei sudditi era sempre quella di avere a che fare con un potere regolato e limitato. Le ricorrenti forme di resistenza contadina non puntavano mai a un’irrealistica cancellazione del dominio signorile, ma ottenere il rispetto delle norme fondamentali. La possibilità di creare nuovi centri abitati aumentarono nel secolo XII, per iniziativa sia dei signori laici sia dei grandi monasteri che favorirono l’insediamento di contadini in zone di frontiera. In molti di questi insediamenti, che presero il nome diversi, i suoli furono subito concessi in proprietà degli abitanti. Alla rivoluzione agricola si accompagnò dunque una rivoluzione insediativa, una tendenza all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. Fu in questo contesto che si svilupparono i centri urbani nell’Europa medievale. Città e signorie fanno parte del medesimo processo di ridefinizione delle strutture sociali e insediative del medioevo centrale. Capitolo 4: Le città nell’Europa medievale Nel corso dell’XI secolo insieme alle signorie, ai principati e alla piena affermazione del ceto militare si sviluppò anche una fitta rete di città in Europa che portò ad essere un fenomeno molto diffuso che ha riguardato centri di origine molto diversa. Gli storici hanno avanzato diverse spiegazioni: c’è chi crede che sia merito dei mercanti, chi ringrazia le iniziative signorili, chi trova le spiegazioni nelle rivolte contro i signori. La città europea non può essere separata dal suo territorio, questo è un dato preliminare da cui bisogna partire: viveva con il territorio circostante, ne assorbiva le risorse in surplus, attirava nuovi abitanti, assicurava lo scambio di prodotti e merci. Era legata anche ai centri di potere signorile che governavano i principati regionali. Nel corso del XII secolo questo movimento assunse ritmi più ordinati. Le mura definirono ovunque lo spazio urbano separato dalla campagna, atti giuridici ufficiali sanzionarono lo statuto politico di città. Nel corso del XIII secolo un processo di stratificazione sociale mise in luce i contrasti e le gerarchie interne al mondo urbano. Era un segnale importante della maturità raggiunta dal mondo urbano, a prezzo di una forte emarginazione delle frange basse dei ceti salariati. Lo spessore economico delle città ne fece dei soggetti politici di primo livello: furono i principi ad avere bisogno delle città e più ancora dei regni, che conferirono alle città comunali uno statuto privilegiato. Capitolo 5: I regni e i sistemi politici europei tra XI e XIII secolo Limiti dei regni nei secoli XI-XIII All'affacciarsi del secolo XII, i poteri di tipo monarchico mostravano una serie di debolezze strutturali che si traducevano in vincoli e limiti alle capacità d'azione dei singoli re. In primo luogo le dinastie regnanti si fondavano ancora sul terreno incerto delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del continente europeo. Si poteva diventare re di una trazione anche molto lontana sposando l'erede di quel principato, unendo eredità diverse o imponendo un proprio discendente su un trono vacante. Una trama debole, che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra famiglie ma che fu in grandi di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni, come in Francia durante il regno di Enrico II. Oppure ancora il regno dei Normanni nell'Italia del sud: dopo l'invasione sparsa dei primi cavalieri, Ruggero II (1130) unì Sicilia, Puglia e Calabria in un solo regno, ma alla fine del XIII secolo questo passò all'imperatore svevo Enrico VI che lo trasmise a suo figlio Federico, divenuto re di Sicilia e possibile candidato all'impero, cosa che la chiesa di Roma voleva evitare. I regni erano soprattutto potenze regionali; o meglio dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza. A questa mobilità di quadri territoriali, si aggiunse anche la difficoltà tecnica di coordinare sul piano feudale una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi a seconda dei singoli signori di riferimento. I sistemi di alleanze feudali, non disegnavano ancora ordinate reti di fedeltà in senso gerarchico. Nel XII secolo i re erano signori parziali di grandi vassalli che avevano a loro volta i propri vassalli. Questi ultimi non erano legati al re, ma avevano obblighi solo nei confronti del proprio signore. Ultimo grande limite dei regni era l'assenza di un vero apparato di funzionari pubblici. I grandi uffici regi erano in genere in mano della stessa alta nobiltà che circondava il re alternando favore e ostilità secondo i casi. Doveva servire il re e al contempo rafforzare le proprie posizioni nel regno: due funzioni che non era sempre possibile armonizzare. Esisteva, è vero, un ristretto ma solido apparato burocratico di corte in mano ad ecclesiastici di grande levatura ma il loro intervento si limitava per lo più a garantire il funzionamento della corte regia sul piano culturale e politico e non potevano certo diventate uno strumento di governo dei singoli territori. Inghilterra alla conquista del Duecento Il regno di Inghilterra prima della conquista di Guglielmo era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale, assegnate a ufficiali pubblici. Al di sotto di queste circoscrizioni, già al tempo di Edgar, ne esistevano di minori, formate da gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di un’ampia autonomia organizzativa e avevano come fine principale l’amministrazione della giustizia attraverso il mantenimento della pace. Anche Guglielmo riprese questa tradizione, tanto più che il tema della pace era per lui urgente dopo le guerre di conquista e la repressione dei baroni inglesi suoi avversari. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale patto tra il re e il popolo. Ma la realtà era un’altra e si presentava fin dai primi anni come estremamente difficile: da un lato, i baroni normanni che avevano seguito Guglielmo in Inghilterra esigevano non solo l’assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica dei diversi possessi. Dall’altro il dominio del re doveva continuare a fondarsi sulla nozione di popolo. Era evidente la tensione interna a questa complessa struttura politica in formazione: l’appoggio dei baroni era necessario, ma questi inevitabilmente rischiavano di indebolire la presenza regia nei territori. In primo luogo, Guglielmo, dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra, una sorta di vicerè, dotato di pieni poteri e indipendente dal sovrano. Inoltre, quest’ultimo eliminò i conti e nominò al loro posto gli sceriffi incaricati di amministrare la giustizia e soprattutto di controllare le finanze. Per molti questo può essere chiamato feudalesimo inglese ma in sostanza era molto difficile ricostruirlo in tutti i territori. Sotto Guglielmo si pose piuttosto il problema di inquadrare in una cornice istituzionale più chiara le terre distribuite si grandi baroni normanni e agli enti ecclesiastici. Fu questa l’origine del Domesday Book, il più completo e ambizioso censimento medievale di uomini e terre e del potenziale economico dei beni. Il re voleva sapere quante erano le terre tenute dai grandi baroni, quali erano gli obblighi militari dei possessori che le avevano ricevute dal re. Il Domesday Book è organizzato per contee, le circoscrizioni maggiori del regno, per scendere poi ai feudi, alle centene, alle ville e infine ai contadini. Ma Guglielmo muore nel 1087 e al suo posto viene posto sul trono il secondo figlio, Enrico I. Enrico ricercò assiduamente un rapporto con il popolo inglese come freno all’arroganza dei baroni. A tal proposito emanò la Carta delle libertà in cui prometteva un ritorno alle antiche consuetudini inglesi contro quelle nuove illegittime e ingiuste. Enrico si ergeva dunque a difensore di questo regno oppresso: limitò il campo d’azione dei baroni attraverso un controllo sulla trasmissione ereditaria delle terre baronali e la punizione delle loro malefatte secondo la legge. Al contempo, rafforzò la giustizia regia nelle singole località. Alla morte di Enrico, fu incoronato re il nipote Stefano di Blois cui si contrappose la figlia di Enrico, Matilde. Ancora una guerra di successione che portò al trono Enrico II, nipote del primo che porse rimedio allo stato di violenza. Il regno di Enrico II è stato forse il periodo più importante per l’Inghilterra del XII secolo, non solo per l’unione della Normandia, dell’Inghilterra e di Aquitania ma perché sotto il suo regno, presero forma in maniera più definita le istituzioni monarchiche del regno inglese. La corte divenne un luogo di controllo e di mediazione degli interessi locali e dei grandi, il punto di raccordo fra il centro e la comunità. L’elemento qualificante della sua azione fu proprio la capacità di connettere la curia con i sudditi attraverso lo sviluppo di due sistemi istituzionali. Il primo sistema era fisso, incentrato sul giustiziere, vero primo ministro del re, al quale si aggiunse lo scacchiere che si occupava dell’assetto economico e finanziario. Il secondo sistema invece era mobile e prevedeva un collegio di giudici itineranti che amministravano l’alta giustizia per conto del re nelle singole contee, riunite in sei circuiti. Il controllo dello strumento giudiziario serviva anche a ridimensionare le pretese dei baroni sui sudditi liberi che cercavano localmente di assoggettare. Infine, Enrico si rese conto della necessità di rendere più stabile un esercito nazionale per la difesa del regno. Recuperando una vecchia consuetudine di chiamata alle armi, ordinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento proporzionale al reddito. Queste grandi riforme furono accompagnate da strumenti di governo particolarmente aggiornati. Sull'esempio del Domesday, Enrico II, nel 1166 fece redigere un elenco di feudi militari e fei feudatari del re che non avevano prestato un giuramento nei suoi confronti. Ordinò inoltre altre due inchieste mentre nelle assise sull'esercito incaricò una commissione per ogni centena di verificare i redditi dei residenti. È vero, tuttavia, che la guerra all’infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli, soprattutto dopo l’avallo papale (Garanzia, approvazione) concesso nel 1063 e nel 1085, configurate appunto in termini di pre-crociata. I sovrani più impegnati nelle guerre di espansione, il re di Castiglia e quello di Aragona-Catalogna ricorsero spesso a questo armamentario retorico quando affrontarono i califfati confinanti e trovarono anche degli appoggi monarchici. Si legittimarono re in quanto liberatori, o almeno ci provarono. Così fu per Alfonso VI di Castiglia dopo la conquista di Toledo del 1085 o per l’occupazione delle Baleari da parte dei Catalani e la presa di Saragozza da parte degli aragonesi nel 1118, anche se si trattò sempre di battaglie passeggere. Le guerre che segnarono la prima metà del XII secolo furono poco decisive sul piano territoriale. Sia le battaglie dei re spagnoli, sia le guerre di razzia da parte dei musulmani furono episodi bellici di segno altalenante. Fino al 1115 al 1120 gli Almoravidi prevalsero ma nei decenni successivi, alcune spedizioni cristiane ottennero qualche successo. La reazione cominciò nel 1211 quando, papa Innocenzo III proclamò l’inizio di una crociata anti musulmana che consisteva nella conquista e ripopolamento delle zone acquisite. La creazione di villaggi e di città ripopolate fu il tratto distintivo della Reconquista. La Germania e l’Impero La Germania del XI secolo presenta a prima vista un quadro territoriale più stabile rispetto ai regni vicini. I quattro ducati tradizionali erano tutto sommato ben saldi nelle mani delle grandi famiglie dell’aristocrazia. Questa fu una caratteristica peculiare delle Germania medievale. L’impero come istituzione, tuttavia, continua ad avere un funzionamento intermittente. Per tradizione, l’imperatore era eletto dai grandi principi a capo dei ducati maggiori, e poteva contare sul ducato di Franconia e sui possessi personali della dinastia come base del proprio potere. Era una base cospicua ma non tale da superare nettamente quella dei grandi principi elettori suoi concorrenti. Inoltre la crisi dei rapporti con il papato e lo scontro violentissimo con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio dell’Impero sotto Enrico IV. In quegli anni infatti, non solo tantissimi principi gli andarono contro ma nominarono un altro re, Rodolfo. Come dire che il principio dinastico poteva essere rimesso in discussione. E così avvenne con i successori di Enrico V. Proprio sul lato delle fedeltà militari gli imperatori tedeschi soffrirono di più. Dai conflitti diversi fra re e principi troviamo conferma di un dato importante: la dimensione personale del potere detenuto da queste famiglie ducali era basata su una grande base terriera allodiale, cioè di terra in proprietà. Una base assai ampia che rendeva i principi poco dipendenti dalle concessioni feudali del re. Inoltre la tendenza all'ereditarietà delle cariche portò a una dispersione dell'autorità di origine pubblica in un pulviscolo di potentati locali che cessavano di rispondere al re in caso di conflitto. In questo contesto di debolezza inizio il regno di Federico I di Svevia, Barbarossa. Federico viene ricordato come un grandissimo imperatore perché riuscì in quasi quarant'anni di regno (1152-1190), a rendere unita la Germania dei grandi ducati. Federico combatté e sottomise le casate più riottose alla fedeltà imperiale. Un importante evento di questi quaranta anni è senza dubbio il lungo scontro con l’esponente della casa di Welfen, Enrico il Leone: nel 1180 dispose la confisca dei suoi immensi territori, anche se Enrico rimase suo oppositore ancora per lungo tempo fino a quando, grazie a un compromesso, Enrico rinunciò alla carica in cambio della promessa della sovranità sulla Baviera. Fu eletto re dei Romani Federico III di Svevia che prese il nome di re Federico I. Fu incoronato ad Aquisgrana il 9 marzo 1152 all'età di circa trent'anni. Una delle sue prime azioni fu l’emanazione della Dieta di Roncaglia, due convegni che Federico I Barbarossa convocò, rispettivamente nel dicembre 1154 e nel novembre 1158, nei pressi della città di Piacenza[1], allo scopo di rivendicare la supremazia del potere imperiale secondo il corpus iuris civilis, nel quale il volere dell'imperatore assumeva funzione di potere legislativo in analogia alla massima ulpianea “Ciò che è gradito al principe, ha valore di legge”. Obiettivo imperiale era il contrasto dei poteri e del prestigio crescente dei comuni su quello feudale, situazione che si poneva come vero e proprio atto di sostituzione del diritto imperiale in favore di quello comunale. La prima dieta di Roncaglia fu tenuta dall'imperatore Federico Barbarossa tra il 30 ottobre e il 5 settembre 1154. In questa occasione l'imperatore dispose la restituzione da parte dei comuni delle regalie, i diritti regi che spettavano al detentore del titolo imperiale, che i comuni avevano fatto propri durante la prima parte del XII secolo. Inoltre, l'imperatore introdusse il divieto di alienazione di un feudo in assenza dell'assenso, ottenuto preventivamente, del maior dominus, ovvero colui al quale il feudo era stato concesso originariamente, mentre tutte le alienazioni avvenute in precedenza senza questo consenso venivano dichiarate nulle. Durante il consesso vennero presentate all'imperatore le preoccupazioni dei feudatari e di alcuni comuni nei confronti del potere del comune di Milano; i delegati milanesi offrirono all'imperatore una somma di 4 000 marchi d'argento in cambio del riconoscimento del potere meneghino sulle città di Como e Lodi, proposta che venne, tuttavia, rifiutata. Oltre alle rimostranze nei confronti di Milano furono presentate all'imperatore diverse altre questioni che opponevano i comuni: i pavesi esposero delle recriminazioni nei confronti di Tortona, città schierata a favore dei milanesi con la quale Pavia era in lotta per la giurisdizione di Voghera, mentre le città di Asti e Chieri furono oggetto delle proteste del marchese di Monferrato, il quale sostenne che diversi territori appartenenti al suo dominio fossero stati usurpati dalle due città. In questo contesto il sovrano tentò, senza riuscirci appieno, di svolgere un ruolo di mediazione imparziale tra i diversi comuni in lotta, imponendo loro la pace. Dopo la dieta l'imperatore si recò per breve tempo nel centro Italia; immediatamente i comuni settentrionali, ignorando le sue disposizioni sulla pace, ripresero le ostilità tra di loro. A seguito di ciò Federico conquistò o distrusse diverse città e castelli del nord Italia, tra cui Asti, Chieri e Tortona, prima di fare ritorno in Germania, senza che le guerre tra comuni accennassero a placarsi. La seconda dieta di Roncaglia, conosciuta anche per antonomasia come la dieta di Roncaglia, venne tenuta dall'imperatore Federico Barbarossa tra l'11 novembre 1158 e l'ultima settimana di quel mese, a seguito della capitolazione di Milano, avvenuta all'inizio del mese di settembre. In questa occasione Federico convocò un'assemblea a cui parteciparono i delegati delle città comunali. La loro presenza, probabilmente non decisiva nella stesura di quanto proclamato dal sovrano, fu comunque importante dal punto di vista formale in quanto il potere di Federico veniva riconosciuto non come potere regio, ma come potere imperiale. Con la Constitutio de regalibus l'imperatore avocava a sé le regalie, fornendo un elenco puntuale di tutto ciò che doveva essere assimilato ad esse, elenco che comprendeva porti, fiumi e vie navigabili, il conio delle monete, l'imposizione di tributi, beni vacanti e espropriati, così come le miniere e i palazzi pubblici da destinare a residenza del sovrano. Alle città e ai signori potevano venire concesse da parte dell'imperatore alcune di queste regalie a seguito del versamento di un corrispettivo in denaro e di un giuramento di fedeltà. Nella stessa seduta fu emanata anche la Constitutio de Pacis, la quale vietava la formazione di leghe e alleanze tra le diverse città, nonché ogni forma di patto privato, anche se stipulato tra cives. La stessa esistenza delle istituzioni comunali veniva riconosciuta dall'imperatore solo nel momento in cui le città accettavano come origine delle istituzioni un'investitura imperiale. Inoltre, all'imperatore veniva assegnato il potere di nomina degli agenti di diritto pubblico in carica nei comuni. Inoltre, la Omnis iurisdictio venne emanata con lo scopo di ripristinare il sistema gerarchico feudale secondo il quale l'imperatore, unica figura a detenere giurisdizione e poteri coercitivi, era responsabile della nomina dei giudici, i quali, a loro volta, erano tenuti ad un giuramento nei confronti del sovrano. La dieta di Roncaglia, tuttavia, riguardava più l’Italia, dove l’opposizione di alcune città lombarde aveva provocato una dura reazione dell’imperatore. Di certo, le guerre italiane misero a dura prova l’affidabilità dell’impero ma nonostante questo resse, e i principi tedeschi rimasero fedeli al loro imperatore anche dopo la non vittoria contro i comuni italiani sancita dalla pace di Costanza del 1183. Resta comunque l’impressione di una fedeltà ancora personale, legata al prestigio di Federico e non certo alla dinastia. Testimonianza di ciò la abbiamo con il regno del figlio, Enrico VI, che aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all’Impero abbandonando il criterio elettivo. Dopo una prima adesione al documento imperiale (1196), i principi tedeschi rifiutarono definitivamente il patto di Enrico e mantennero il diritto di scegliere il futuro imperatore. Enrico VI aveva tuttavia guadagnato una posizione di forza a seguito del suo matrimonio con Costanza d’Altavilla nel 1186, dalla quale ebbe un figlio, Federico Ruggero (poi Federico II di Svevia). Teniamo a mente questo episodio perché si tratta di uno di quei casi nei quali la via matrimoniale incise realmente sull’assetto politico dei regni. Nonostante le ribellioni in Sicilia e l’elezione del 1190 di un anti-re nella persona di Tancredi conte di Lecce (figlio illegittimo di Ruggero III, fratellastro di Costanza d’Altavilla), Enrico riuscì ad entrare a Palermo nel 1194 e fu eletto re di Sicilia. Il figlio Federico si trovò così a ereditare nello stesso momento il regno di Sicilia e il titolo imperiale (quindi re di Germania e re d’Italia). Il regno di Sicilia Costanza d’Altavilla era l’ultima esponente della famiglia che più aveva contribuito a conferire una patina di unità alla multiforme presenza dei cavalieri normanni sbarcati in Italia meridionale intorno al 1013-1016. I cavalieri normanni si erano insediati nelle regioni meridionali dell’Italia nei primi decenni del secolo. Un primo gruppo riuscì a stabilirsi ad Aversa e a impadronirsi del principato di Capua. Altri gruppi si espansero poco a poco in Campania, Calabria e Puglia. Fu un processo lungo e ci volle almeno un secolo prima di poter parlare di regno. Le iniziative militari dei normanni cambiarono rapidamente la natura dei poteri locali. Intorno al 1070, la dinastia degli Altavilla si impose come gruppo di riferimento e seppero sfruttare bene non solo le debolezze dei bizantini, ma anche le contrapposizioni fra il papa e l’imperatore. Ruggero e Roberto operarono su più fronti. In Puglia occuparono Bari nel 1071 e nel 1072 diedero il via alla conquista di Palermo. Fu un evento cruciale perché quella conquista aprì alla famiglia le strade per una posizione politica preminente nel gioco politico europeo. Il riconoscimento papale si rafforzò nel 1098 quando fu conferita a Ruggero in Sicilia una carica simile a quella di legato apostolico, ottenendo così un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche nell’isola che aiutò moltissimo la costruzione di una nuova amministrazione pubblica dell’isola. La ricostruzione di un dominato pubblico in Sicilia fu favorita anche dal modello di governo musulmano che era particolarmente accentrato e basato sul capillare controllo economico e politico-finanziario. È probabile che questo esempio abbia spinto Ruggero II, figlio del primo, a impostare un disegno monarchico che abbracciasse tutti i territori dell’Italia meridionale, a cominciare dalla Puglia. Ma quando Ruggero provò a esportare queste forme di controllo regio sul continente, si moltiplicarono le congiure e le sollevazioni dei baroni, come quella che scoppiò nel 1160 sotto Guglielmo I. Colpa del feudalesimo? No, i normanni non erano un popolo feudale, non ci fu alcuna distribuzione sistematica delle terre né una gerarchia tipica del feudalesimo. A complicare il quadro è stata una cattiva interpretazione del termine riguardo il possesso di terre, che accidentalmente veniva chiamato feudo. Davanti all’instabilità del ceto militare, i re normanni, soprattutto Ruggero II, ricorsero anche ad altri strumenti di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle estese terre demaniali. Anche sul piano legislativo i re normanni si dimostrarono attivi. Prima nelle assise di Melfi del 1129, quando Ruggero II proclamò una pace per tutto il regno. In una successiva assemblea del 1132 riaffermò l’obbligo di fedeltà per i baroni. Anche le più impegnative assise di Ariano del 1140 contengono tracce di un autentico sforzo di affermare la superiorità regia e il controllo pubblico sui baroni, soprattutto sul piano fiscale e giudiziario. Il regno normanno, alla fine del XII secolo, viveva dunque in questa polarità di tensioni politiche: una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale. Un mondo contradditorio e complesso, con il quale il giovanissimo Federico II dovette fin da subito confrontarsi e scontrarsi. tali perché i Romani avevano un gran rispetto per il loro imperatore, cose che invece i cittadini comunali non avevano per barbarossa e per gli atri Imperatori Romano-Germanici. Con queste motivazioni Ottonis di Frisinga giustifica l’intervento armato di Barbarossa nelle città italiane. Le città italiane alla prova della guerra: lo scontro con Federico Barbarossa Vista da fuori, l’Italia offriva un’immagine di unità, ma al tempo stesso di distanza dai costumi e dai modi delle terre dell’Impero. E furono in particolar modo queste ultime a sorpassare la prima idea, tanto che durante la riunione tenuta a Costanza nel 1153, due ambasciatori di Lodi vestiti di stracci, con una pesante croce sulle spalle, si presentarono per presentare le dispute avute con Milano e di come quest’ultima volesse distruggere le fondamenta della città di Lodi. Federico I poteva anche tollerare una guerra tra città, ma in tutta questa situazione emerse un punto in particolare: solo l’imperatore poteva distruggere e ricostruire città dal nulla. Federico impose dunque ai milanesi di presentarsi da lui a riparare l’offesa commessa contro la dignità imperiale. Milano a sua volta non capiva l’imperatore. Forse illusi da un secolo di non intervento da parte dell’imperatore, cercarono di comprare con denaro contante il permesso di Federico di mantenere il dominio sulle città di Como e Lodi. Ovviamente rifiutò e mise al bando i milanesi. Fu guerra. Nel 1155 l’imperatore conquistò Asti e distrusse Tortona. Tornato in Italia nel 1158 attacco Brescia e saccheggio la stessa Milano. Si annunciava una guerra lunga, a tratti crudele, che mise a confronto per quasi un trentennio Federico Barbarossa con il mondo comune italiano. Anche per i comuni si trattò di uno scontro traumatico, che minacciava la sopravvivenza stessa del sistema comunale in Italia. Federico aveva infatti un’idea molto precisa dei suoi poteri di imperatore. Nella dieta di Roncaglia nel novembre del 1158, Federico proclamò il principio che ogni potere discendeva dall’imperatore e richiese ufficialmente la restituzione di tutti i diritti regi usurpati dalle città: le tasse regie, il potere di elezione dei consoli, i palazzi pubblici ecc. Dopo la distruzione di Milano del 1158, Federico impose alle città ribelli dei rettori di nomina imperiale, i cosiddetti Podestà imperiali. Il governo di questi podestà è ricordato dalle città soggette come violento, dispotico e soprattutto esoso. Il tema fiscale divenne subito un campo di scontro vitale per le città italiane, non solo perché gli ufficiali regi chiedevano ingenti esborsi di denaro ai cittadini anche nei comuni alleati, ma perché questi soldi non restavano in città, alimentavano un sistema di dominio sopra cittadino e centralizzato. Il fisco pubblico da sistema di integrazione dei residenti in una collettività di cittadini, tornò ad essere un segno di sottomissione. A queste condizioni, nessuna città avrebbe accolto il governo imperiale spontaneamente. Così, quando nel 1162 Federico attaccò una seconda volta Milano, i comuni si misero in allerta, anche quelli alleati dell’imperatore, creando nel 1168 una lega lombarda di comuni alleati, ispirata a quella veneta di quegli anni. Era governata da rettori , aveva un tribunale proprio per risolvere le controversie fra i comuni; coordinava sul piano militare le azioni delle singole città. Ma cosa più importante: la Lega diffuse fra tutti i comuni alleati un modello unico e coerente di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di pertinenza del comune intoccabile da parte delle altre città. Non fu solo il riconoscimento formale di questa pari dignità delle città della Lega a permettere all’alleanza di durare anni. L’alleanza con il papa, Alessandro III, rafforzò la natura ideologica della Lega, che diventava il baluardo delle libertà delle città italiane contro il tiranno Federico Barbarossa. In un momento di stanchezza, e dopo un decennio di battaglie non risolutive, nel 1176 lo scontro di Legnano in cui i comuni lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito imperiale. Fu una vittoria modesta ma formidabile e che portò alla pace di Costanza nel 1183. L'imperatore riconosceva la Lega Lombarda e dava concessioni ai Comuni che la componevano. Concessioni in ambito amministrativo, politico e giudiziario, regalie comprese. Inoltre rinunciava alla nomina dei podestà, riconoscendo i consoli nominati dai cittadini, i quali, tuttavia, dovevano fare giuramento di fedeltà all'imperatore e ricevere da lui l'investitura. In cambio i Comuni si impegnavano a pagare un indennizzo una tantum. Sebbene le città italiane vinsero contro l’imperatore, a causa della situazione generale delle città, sorsero nuove tensioni. Questo pose fine alla fase consolare dei comuni. Allora dovevano essere trovate nuove soluzioni. L’affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di Popolo Le famiglie aristocratiche che dominavano il consolato pretendevano di comandare quasi per diritto. Dunque fu subito chiaro ai cittadini che, se non si entrava di prepotenza nel consiglio della città, non si potevano cambiare queste regole del gioco. Si riorganizzarono nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non nobili, le societates. In primo luogo sorsero le città rionali, che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. In un secondo momento si aggiunsero le società di mestiere, o corporazioni di Arti. Nella stessa compagine politica si ritrovavano grandi banchier e capi bottega o mercanti. Questo spiega la perdurante ambiguità e ambivalenza di alcune società di popolo visto che molti grandi mercanti avevano interessi commisti con l’aristocrazia terriera. Tuttavia, in una fase iniziale, prevalse uno spirito unitario e federativo. Le società avevano inizialmente uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma col tempo si diedero una struttura comune coordinata, chiamato Popolo. Il Popolo cercò di cambiare il comune secondo i propri indirizzi di governo. Ben presto, infatti, le società avanzarono richieste di natura politica come riservare ai membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città. Questo magistrato fu chiamato podestà. Era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo delle città: il potere politico, la giustizia, la direzione economica e il comando degli eserciti. I primi incarichi furono dati a podestà locali, ma le dispute non fecero che accrescere. Allora si decise di chiamare come podestà una persona esterna alla città. Il podestà forestiero dava maggiori garanzie e evitava gli scontri. Il podestariato era diventata una vera e propria professione. La legge era invece creata dagli stessi cives, nei consigli, che sotto il regime podestarile assunsero un’importanza ancora maggiore. Per compensare il potere consegnato nelle mani del magistrato forestiero, bisognava infatti rafforzare il consiglio comunale che divenne il cuore politico del comune. Adesso il ruolo di comando del singolo fu equilibrato dal potere dei molti, in un sistema istituzionale originale e di grande spessore ideologico. Rispetto al secolo precedente, tuttavia trovare una sintesi generale degli interessi dei cittadini era diventato più difficile. Molti erano i nuovi abitanti immigrati che formavano una popolazione in genere poco specializzata. Fu necessario a questo punto trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. Il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico, sia su quello politico. Le corporazioni contavano ormai diverse migliaia di membri. Iscriversi era dunque diventato molto importante per i cittadini del XIII secolo. In primo luogo per un motivo economico. La seconda ragione era di stampo politico. Il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato enormemente nella seconda metà del Duecento. I consoli delle Arti erano confluiti in un consiglio unitario, il Popolo, che prendeva decisioni sempre più importanti per la città. Il passaggio a società pienamente politiche, e non più solo corporative, si era dunque compiuto. Il governo delle corporazioni nel Duecento Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo delle città in nome di una nuova idea di comunità fondata sul lavoro artigianale. In un primo momento, il Popolo duplicò le istituzioni comunali; poi instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. Una volta giunto il Popolo al potere, si formarono presto al suo interno gruppi egemoni che influenzarono l’indirizzo di fondo della politica comunale delle singole città e che diedero vita in varie città italiane a delle corporazioni importanti diffuse nelle città nella seconda metà del Duecento. Una delle più famose è l’istituzione delle Parti, guelfa e ghibellina, divennero un’istituzione, con propri consigli e podestà. In tal modo le parti offrirono ai loro aderenti un’altra via di accesso al potere, un mezzo che permetteva a gruppi politici trasversali di influenzare la guida politica delle città. Ma questo aumentò le conflittualità: alle tensioni di classe, si aggiungevano gli odi di fazioni, non meno violenti e pericolosi per la stabilità delle istituzioni comunali. Per questo, il Popolo, pur essendo spesso alleato a una parte, cercò di combattere l’eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del tema della pace l’ideale politico della città. Non era una scelta remissiva, ma un tentativo di sostenere l’equilibrio assai fragile tra governi di popolo e fazioni grazie a una potente molla ideologica che legittimasse governi sempre più di parte. La pace era a suo modo un atto di forza. E doveva essere mantenuta a tutti i costi, così vennero stilate delle liste ordinamenti di giustizia per assicurare la pace interna contro i magnati che si opponevano al comune e lo minacciavano di atti di sovversione violenta. PARTE QUARTA: Crisi e inquadramento delle società europee (metà XIII/XV secolo) Capitolo 1: Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378) La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Il Concilio Lateranense IV riassumeva un’intensa stagione di riforme e di innovazioni istituzionali che riguardavano il governo della Chiesa. Sotto la guida di Innocenzo III, fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa; fu stabilito l’obbligo di scrittura degli atti giudiziari, mentre il divieto di intervento dei chierici alle ordalie rese la giustizia più razionale, estendendo a tutti i processi il ricorso alle testimonianze e alle prove scritte. Andare in chiesa divenne così un sogno di adesione esplicita alla comunità dei fedeli, mentre disertare le funzioni religiose era considerato un atto di rifiuto che meritava l’esclusione dagli spazi sacri. E proprio alle forme di esclusione dagli spazi sacri. E proprio alle forme di esclusione sono dedicati alcuni canoni di grande rilievo politico e giuridico. Il concilio fu guidato con mano ferma da Innocenzo, che aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati. Era un riconoscimento aperto al grande potere assunto dal pontefice romano nelle decisioni che riguardavano lo Stato della Chiesa, vale a dire il suo assetto istituzionale. Naturalmente lo sviluppo dell’apparato burocratico in forme sempre più centralizzate, influenzò non poco la riflessione dottrinale relativa al potere del pontefice. Verso la metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del papa si concentrarono sulla natura giuridica di questo potere, formalizzando la concezione di una potestà assoluta del papa. Il cambio di titolazione avvenuto sotto Innocenzo III, da vicario di san Pietro a vicario di Cristo, andava già in questa direzione: il titolo di vicario di Cristo sottolineava infatti l’origine divina delle prerogative papali, che non potevano essere messe in discussione da persone o istituzioni terrene. E questo andò a rafforzare la posizione del papa, divenendo praticamente infallibile. Nel corso del Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l’elezione dei vescovi. Scavalcarono spesso il capitolo cattedrale e si riservarono il potere di trasferire i vescovi da una sede all’altra. Tutti questi poteri portarono a delle contrapposizioni fra il papa e i vescovi, portando alla nascita del conciliarismo, quindi alla superiorità del concilio sul papa. Un altro contesto che subì variazioni fu il diritto della Chiesa, stessa cosa per le nuove organizzazioni della curia romana, che dovette adattarsi ai compiti di coordinamento delle chiese romane. La curia romana cercò di articolare meglio le funzioni di governo del papato che si muoveva ormai in uno spazio di azione di ambito europeo, soprattutto in campo finanziario e giudiziario. Inoltre, il controllo episcopale divenne ancora più assiduo quando vennero introdotti peccati che poteva assolvere solo il papa. La chiesa romana aveva dunque raggiunto una centralità indiscussa nel mondo politico e religioso del medioevo europeo. Aveva maturato strumenti di governo delle proprie istituzioni, di guida spirituale e ideologica delle masse dei fedeli, di salvaguardia delle sue prerogative politiche ed economiche. Ma le Questo episodio diede il via al Grande Scisma, che divise la cristianità per quasi quarant'anni. Roberto da Ginevra fu immediatamente scomunicato da Urbano e designato come l'anticristo; in un solo giorno Urbano nominò ventisei nuovi cardinali e, con un'arbitraria alienazione delle proprietà della Chiesa, iniziò a raccogliere i fondi per prepararsi a uno scontro aperto. Castel Sant'Angelo venne assediato e conquistato, e l'antipapa Clemente VII fu costretto alla fuga, mentre Carlo di Durazzo venne investito con la sovranità di Napoli, abbandonata dalla Regina Giovanna. Questa alleanza si consolidò ulteriormente con il matrimonio di Francesco Prignano, nipote del papa, con Agnese Ruffo, parente stretta di Carlo di Durazzo. In seguito, tuttavia, i rapporti tra papa e re si incrinarono, poiché il re sembrava intenzionato a non voler mantenere fede alla promessa di concedere i feudi stabiliti a Francesco Prignano. Il papa, portatosi a Napoli con la vana speranza di prendere in pugno la situazione, nel giugno del 1384 si rifugiò a Nocera nel castello del Parco, in uno dei pochi feudi che erano stati effettivamente concessi al nipote Francesco. Capitolo 2: La costruzione dello spazio politico dei regni europei La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra Un dato che emerge da queste sequenze di eventi, è proprio la diffusa tensione contro la forma monarchica, attaccata su tutti i fronti: sui criteri di successione, sui poteri da esercitare, sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai come nel XV secolo, l’esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita secondo le necessità del momento. Francia: La Francia bassomedievale partiva avvantaggiata nella costruzione di un regno nazionale. Poteva giovarsi dell’eredità di almeno due grandi sovrani che avevano segnato la storia francese nella seconda metà del Duecento: Luigi IX che governò a lungo, dal 1226 al 1270 e Filippo IV il Bello, in carica dal 1285 al 1315. Sotto il primo, il regno di Francia si era esteso fino a comprendere le regioni meridionali della Linguadoca. Ma era cresciuta ancor di più la sfera delle competenze riservate al re. Le più note riguardavano le inchieste contro gli ufficiali regi e i loro abusi. Sotto il secondo, l’apparato centrale si fece ancora più pesante e pervasivo. Le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi; la giustizia rimase strettamente nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e sui beni della Chiesa. Filippo IV, rimase famoso per lo scontro contro Bonifacio VIII e il processo dei templari cominciato nel 1307: due episodi importanti proprio per la rilevanza politica assunta dall’affermazione del potere sovrano superiore come difensore della fede e dell’ordine naturale del mondo. Sotto Filippo, l’azione regia interna al paese sembrava non avere limiti: messo sotto controllo il papa, ormai installato ad Avignone, il re si lanciò in ardite speculazioni finanziarie che non portarono a dei miglioramenti. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il suo successore, Luigi X. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Fu un episodio importante perché le carte di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa proprio le funzioni pubbliche basilari della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. Con l’esaurirsi della dinastia capetingia e il passaggio del regno ai Valois si riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. La Guerra dei Cento anni fu una guerra cruciale per la Francia, non solo per la durata ma perché mise in luce le debolezze del sistema politico francese: un esercito pesante e lento, basato ancora sui cavalieri; una scarsa capacità di mobilitazione della popolazione; un sistema fiscale imperfetto e una fortissima frammentazione territoriale. Già dal XII secolo le regioni atlantiche erano inglesi; alcune regioni come la Borgogna si ribellarono, il che portò il regno di Francia a definirsi piccolo e accerchiato. La prima fase della guerra mise in rilievo la vulnerabilità dell’esercito francese. Nella seconda fase, gli aspetti politici prevalsero. Guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni: A seguito della follia del re, Carlo VI, la Francia, dal 1393, fu governata da un consiglio di reggenza presieduto dalla regina Isabella. Essendo la regina digiuna di politica, il membro più influente del consiglio era il duca di Borgogna (Filippo l’Ardito) che era anche lo zio del re, Carlo VI. Il fratello del re, il duca d'Orléans, Luigi d'Orléans, cercava di contrastare il potere di Filippo, soprattutto sul piano economico, sostituendolo nei periodi che si allontanava da Parigi per andare nei suoi domini. Quando Filippo l'Ardito morì, nel 1404, suo figlio, il nuovo duca di Borgogna, Giovanni senza Paura, nel consiglio di reggenza, ebbe un'influenza molto minore del padre. Per contro, dopo la morte di Filippo l'Ardito, il fratello del re, Luigi d'Orléans, era divenuto membro molto influente del consiglio di reggenza, con l'appoggio della regina, Isabella. All'inizio, il conflitto di interessi che opponeva il duca di Borgogna, Giovanni senza Paura a Luigi d'Orléans duca d'Orléans fu favorevole a Luigi d'Orléans, che, oltre a contrastare Giovanni senza Paura, impedendogli di realizzare una continuità territoriale tra le Fiandre e la Borgogna, in accordo con la regina, applicò una nuova imposta, per rimettere ordine alle finanze del regno. Giovanni senza Paura rifiutò la nuova tassa per i suoi territori e, nel 1405, si presentò in armi a Parigi, mettendo in fuga Luigi d'Orléans e la regina. Dopo due mesi, anche perché erano riprese le ostilità con gli Inglesi, il duca di Borgogna e Luigi d'Orléans si riappacificarono e alla fine del 1406 entrambi svolsero due campagne militari, Luigi in Guienna e Giovanni a Calais, accusandosi a vicenda di aver danneggiato l'altrui iniziativa. Inoltre approfittando del fatto che il duca d'Orléans fosse un noto conquistatore di cuori femminili, fu messa in giro la voce che Luigi avesse tentato di sedurre la duchessa di Borgogna Margherita di Baviera. Comunque sia, nel 1407, il duca d'Orléans, mentre stava tornando a casa, dopo una visita alla regina, fu ucciso da una banda di armati. Le investigazioni del prevosto di Parigi giunsero alla verità e Giovanni senza Paura confessò di essere stato il mandante, ma non pagò mai per il suo misfatto anzi in un'assemblea solenne ad Amiens, fu addirittura giustificato. Il successore di Luigi fu il figlio, Carlo, che, nel suo desiderio di vendetta, raccolse intorno a sé diversi nobili, detti orleanisti, e nel 1410, in seconde nozze, sposò Bona d'Armagnac, la figlia del conte d'Armagnac, Bernardo VII, che portò ad una alleanza tra i partigiani del duca d'Orléans (tra cui i duchi di Berry, i duchi di Borbone e di Bretagna, i conti d'Alençon et di Clermont) ed i conti d'Armagnac, sotto la guida del conte d'Armagnac, Bernardo VII e dato che la lega orleanista aveva nelle sue file molti cavalieri guasconi, il partito fu detto degli Armagnacchi, mentre la fazione opposta che si strinse intorno al duca di Borgogna fu detta dei Borgognoni. A partire da quel momento il regno di Francia fu dilaniato dalle lotte delle due fazioni che fu detta guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni. Entrambe le fazioni cominciarono a circondarsi di compagnie di mercenari, che cominciarono a saccheggiare sia le campagne che le città. Giovanni era padrone di Parigi e aveva l'appoggio delle grandi città del nord, mentre gli Armagnacchi godevano di più favore nelle campagne. La complicazione divenne massima quando, in seguito al trattato di pace di Troyes, con il quale la Francia era riuscita a raggiungere una tregua con gli inglesi, il re d’Inghilterra Enrico V sposò Caterina, la figlia del re francese Carlo VI. Non solo Carlo VI aveva esautorato l’erede legittimo, il delfino Carlo (futuro Carlo VII), ma aveva eletto come suo figlio e successore il re inglese. Alla morte dei due re (Carlo VI e Enrico V), l’erede inglese, Enrico VI, pretese di essere eletto re di Francia. Ancora una volta il nodo dinastico è indicatore di una debolezza strutturale dei regimi monarchici, ancorati ad un sistema di alleanze matrimoniali non privo di contraddizioni. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti che sostenevano invece Carlo VII. Due partiti e due re. Fu inoltre in questi anni, fra il 1428 e il 1431, che si svolse la parabola di Giovanna d’Arco: donna condottiera che a nome di Carlo VII portò l’esercito francese alla vittoria in molte battaglie, come quella di Orleans. Nell’ultimo ventennio la guerra si svolse a favore della Francia: una serie di campagne vittoriose fra il 1449 e il 1453 permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano inglese, anche se la guerra si spense soprattutto per le divisioni che investirono l’Inghilterra, secondo uno schema molto simile a quello francese: un re pazzo (Enrico VI), due partiti che si contendevano la corona, una lunga guerra civile. Le vicende di Luigi XI mostrano bene le contraddizioni dello Stato monarchico francese di fine Quattrocento. Ribelle al padre, esiliato nel Delfinato per 14 anni, Luigi, divenuto re, cercò in vari modi di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati. Gli si contrappose un fronte composito, da suo fratello Carlo, al duca di Borgogna, di Armagnac, di Alencon e Bourbon. Contro questi ultimi, Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria. Sotto questo strato mobilissimo di eventi politici, emergeva lentamente la costruzione istituzionale di un regno ormai radicato nelle sue funzioni di base. Le ordinanze regie della fiscalità, la moneta, la Chiesa, la giustizia, l’esercito e gli ufficiali pubblici e, allo stesso tempo, il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un oggettivo rafforzamento dello Stato. Tuttavia, la costruzione di uno spazio politico francese riposava ancora sulle alleanze dinastiche, sui matrimoni e sulle morti senza eredi dei principi vassalli, che assegnavano al re di Francia, come tutore legittimo, il principato vacante. Solo in questo modo, tra il 1460 e il 1490, le regioni più distanti e autonome furono attaccate al regno di Francia: nel 1461 il Delfinato; poi l’Angiò, nel 1480; una parte del Ducato di Borgogna, smembrato nel 1482; la Provenza, nel 1486; infine la Bretagna, nel 1498, grazie a un matrimonio a lungo inseguito con la principessa ereditaria. Inghilterra: L’Inghilterra del primo Trecento presenta già tutti i segni dell’instabilità continua che caratterizzerà la sua storia nei decenni successivi. Dopo il regno di Edoardo I, i successori misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia:  Un regno incapace di finanziarsi;  Un regno spropositato dei baroni;  Un Parlamento molto forte nell’imporre un controllo stretto intorno al re e alla gestione delle finanze regie, ma non altrettanto forte nel proporsi come garante di un assetto istituzionale stabile. La monarchia inglese, nel corso del XIV secolo, fu segnata da una rapida successione di re despoti, dimessi o uccisi: Edoardo II fu imprigionato e poi deposto nel 1327; Edoardo III, fu impegnato a lungo nella guerra contro la Francia; Riccardo II fu costretto ad abdicare nel 1399. Nel Quattrocento il vuoto di potere continuò tanto che tra il 1420 e il 1440, il regno fu affidato a un reggente durante l’infanzia di Enrico VI. Davanti a questo vuoto di potere, due istituzioni potevano aspirare a trovare un ordine: il Parlamento e i Grandi, la nobiltà militare dei pari. Il Parlamento inglese assunse nel Trecento un vero ruolo di controllo. Fu un periodo storico per il Parlamento inglese, ma non risolse il problema della stabilità. Non lo risolse perché i baroni, che pure usavano il parlamento per porre un freno al re, non esaurivano la loro azione in quella sede. Agivano anche da potenti signori locali, con al seguito centinaia di cavalieri minori legati da un nuovo contratto semifeudale. L’assenza dei re, la guerra in Francia e la competizione per il trono favorirono un frazionamento del regno inglese in ducati semi-indipendenti. In questo periodo inoltre lo scontro tra i baroni riguardava apertamente la conquista della corona del regno. Nel 1453 questa ostilità si polarizzò intorno al conflitto tra i Lancaster e gli York, che diedero il via alla Guerra delle due rose, che videro la salita al trono dei Tudor. Spagna: Anche nelle monarchie spagnole il peso delle lotte interne per la corona determinò una serie di cambiamenti a catena delle dinastie e di scontri fra pretendenti. In Castiglia, la successione dinastica fu sempre un problema. Contestata quella di Alfonso X, il grande re duecentesco, morto nel 1284; contestatissima quella di Alfonso XI (1311-1350), intenzionato a lasciare il trono al figlio primogenito, e per questo attaccato dagli altri cinque figli illegittimi e dai loro discendenti appartenenti alla casata dei Trastàmara, che riuscirono effettivamente a diventare re succedendosi sul trono castigliano dal 1369 al 1516. Le vicende dei regni spagnoli rimasero comunque molto legate l’una con l’altra, a partire proprio dal fitto tessuto di relazioni parentali fra i diversi re. Un esponente del ramo cadetto dei Trastàmara divenne re di Aragona nel 1412 come Ferdinando I di Aragona. Il figlio, Alfonso V di Aragona, detto il Magnanimo, acquisì il Regno di Napoli nel 1442 dopo una lunga lotta con i francesi, e dopo essersi assicurato anche la Sardegna. La galassia catalano-aragonese abbracciava così tutta l’Italia meridionale e insulare. La struttura interna tuttavia era molto diversificata, poco aperta a una vera unificazione politica. L’ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di uffici locali naturalmente richiese una ristrutturazione delle corti centrali. La costruzione di una sorta di burocrazia centrale faceva progressi ovunque, dai grandi stati ai piccoli principati. Nuovi organismi nascevano, come la cancelleria principesca, i segretari, una camera dei conti e collegi segreti di consiglieri. La presenza di un personale tecnico di estrazione borghese fornì il sostegno a nuove pratiche politiche impostate su criteri statuali, il che portò a qualche progresso, anche se si trattò di un percorso lungo. La chiave di volta degli stati signorili o principeschi rimase infatti la capacità del signore di assicurare un rapporto diretto tra il centro, in alcuni casi la corte, e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Il grado di autonomia delle comunità, soprattutto delle città, rimase molto elevato quasi ovunque in Lombardia, Veneto, nel ducato sabaudo e nello Stato della Chiesa. Il governo centrale si assicurava infatti il controllo sulle decisioni politiche attraverso l’invio o la scelta di magistrati esterni da affiancare ai collegi cittadini o, ai consigli comunali che erano rimasti in vita e difendevano gelosamente le prerogative del governo urbano. Il rapporto fra questo strato di ufficiali signorili e le oligarchie cittadine era spesso tormentato, ma trovò in molti casi delle forme di mutua convivenza a spartirsi pacificamente aree di potere diverse. Un conflitto di più vaste proporzioni ci fu, ma non riguardava tanto la città e il signore, quanto la città e il suo territorio. Lo stato signorile sembrava efficiente, in grado di comprendere tutte le realtà dello stato con le quali impostava relazioni diverse. A fare difetto, tuttavia, era proprio lo stato centrale, il nucleo istituzionale di riferimento che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti. Non si trattava più solo di legittimità ma soprattutto di continuità del potere e di mentalità di governo. La prima rimase a lungo una chimera per molti principati italiani, ma anche una connaturata incapacità di concepire la successione come un elemento ordinario dello stato, di mantenere unito il dominio, di pensare lo Stato come altro da sé. Alla morte del principe si scatenava una vera e propria lotta alla successione. Cosa che ad esempio non succedeva nel contesto del sud Italia, in quanto comandate dalle monarchie. In teoria. Quando i due regni si separarono nel 1282 a seguito della conquista aragonese e dei Vespri siciliani, i primi decisero di iniziare una politica di valorizzazione delle realtà locali, baroni e città. Ma in questo contesto una debolezza fu probabilmente la vendita dei beni demaniali per aumentare le entrate e che insieme all’aumento del potere baronale portò a una crisi. Situazione simile la abbiamo nel regno di Napoli sotto gli Angioini, soprattutto dopo la morte della regina Giovanna nel 1381 e che portò ad un lungo scontro tra baroni. Anche gli stati repubblicani furono in qualche modo coinvolti in situazioni si instabilità dovute alle incertezze dei sistemi istituzionali, ma l’esito fu in parte diverso. A Firenze, l’oligarchia finanziaria che guidava le Arti maggiori iniziò a modificare in profondità l’assetto istituzionale della repubblica. Nonostante le congiure, i cambi di regime ecc, Firenze era rimasta una repubblica, con istituzioni consiliari relativamente aperte e un sistema di ricambio periodico del personale politico. Nel XV secolo le cose cambiarono, in quanto abbiamo una visione nuova cultura politica. Il sistema del debito pubblico finanziato dai cittadini era in uso in altri due stati repubblicani: Genova e Venezia, i centri di uno sviluppo economico eccezionale su scala mediterranea, in quanto erano riuscite a costruire vasti domini coloniali a carattere commerciale. È chiaro che le vicende istituzionali dei due stati riflettono problemi diversi da quelli delle altre città-stato. L’oligarchia finanziaria aveva un rilievo enormemente superiore, e i giri di affari erano di scala ben diversa. I sistemi istituzionali riconobbero presto la necessità di stabilizzare il governo con un capo supremo, eletto a vita, il doge, contornato da una serie di consigli ristretti e larghi che bilanciassero i poteri all’interno dell’aristocrazia urbana. I governi intercittadini fondati sull’unione personale e sulla dedizione di città a un signore non portarono una maggiore stabilità degli assetti politici italiani. Violente competizioni si accesero fra il ducato milanese e gli stati forti della penisola: con Firenze in primo luogo; con Venezia; con lo stato della Chiesa. Un gioco di spinte e controspinte che fece segnare equilibri sempre diversi, mostrando tuttavia lo stato di debolezza estrema del sistema italiano. Lo stato di “quiete” raggiunto con la pace di Lodi del 1454 tra Milano e Venezia non riusciva a nascondere un fatto evidente: le cose d’Italia erano ormai un problema europeo e solo in un contesto europeo potevano trovare soluzione. Le invasioni straniere di fine Quattrocento e l’inglobamento del ducato sforzesco nel regno di Francia e poi in quello di Spagna segnarono una rottura nella tradizione degli stati principeschi italiani. La struttura regionale resistette fino alla fine dell’antico regime, ma dal punto di vista politico le signorie contarono sempre meno. Durarono di più Firenze e Venezia e lo stato della Chiesa, ma dovettero fare i conti con le grandi monarchie che governavano il nord e il sud della penisola. Capitolo 3: Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione conflittuale L’amministrazione del regno: corti, ufficiali, fiscalità La consapevolezza della monarchia di essere a capo di un corpo del regno, articolato in funzioni diverse, si tradusse nella costruzione di un sistema burocratico a più livelli. Si ebbe da un lato, un rafforzamento dell’amministrazione centrale; e dall’altro la costruzione di una rete di ufficiali pubblici nei territori. Lo sviluppo di una burocrazia pubblica, nelle corti e nei territori, fu importante per diversi motivi:  Favoriva una vita autonoma del regno che funzionava anche senza re;  Assicurava una presenza capillare nei territori di un corpo di ufficiali che potevano rappresentare il re;  Permetteva la promozione del ceto intermedio urbano. Corti: insieme di ville ed edifici dove il signore soggiornava ed espletava le sue funzioni di controllo sul territorio. La cosiddetta economia curtense, tipica dell'alto medioevo, fu una fase di passaggio nel mondo rurale tra l'economia della Villa romana e quella della signoria fondiaria del feudalesimo. L'esempio di economia curtense più spesso studiato, per ragioni relative alla sua migliore documentazione, è quello che si affermò nel regno dei Franchi in particolare tra la Loira e la Senna, che con alcune varianti si radicò un po' in tutta l'Europa cristiana. Ufficiali: nei regni più organizzati, come Francia e Inghilterra, una rete di ufficiali pubblici esisteva già nella prima metà del Duecento. L’evoluzione dei secoli successivi riguardò sostanzialmente la loro diffusione capillare nei territori e la trasformazione graduale dei loro compiti. In Francia si rafforzò la gerarchia tra balivi (Titolo di pubblico ufficiale, con attribuzioni e autorità molto varie secondo i luoghi e i tempi; erano in genere governatori di province o di grandi circoscrizioni, con ampî poteri amministrativi e giudiziari) e prevosti (dignitario fornito di funzioni direttive nell'amministrazione della giustizia). Questi ufficiali rappresentavano il re nei vari territori e gli uffici divennero i luoghi principali per l’ascesa sociale. Fiscalità: i re avevano continuo bisogno di denaro ma nel Duecento non esisteva un vero e proprio prelievo ufficiale. Il secolo successivo però, cambiò le cose. Il sistema fiscale, divenne il motore principale delle trasformazioni politiche dei regni insieme alla guerra. La fiscalità pubblica nel basso medioevo aveva assunto due forme:  Indiretta: composta dalle imposte messe sui beni prodotti e sui beni di consumo. Il peso di queste imposte ricadeva sui consumatori in maniera indistinta: chiaramente i redditi più bassi erano più colpiti. La gran parte dei sistemi finanziari dei regni europei si basava su questo tipo di imposte.  Diretta: gravavano invece sui beni dei singoli individui o dei nuclei familiari. In teoria erano tasse straordinarie che si potevano chiedere solo in casi eccezionali come contributo individuale al principe. Una volta deciso l’ammontare complessivo, la ripartizione per individui era delegata ai consigli cittadini o agli organi rappresentativi territoriali che suddividevano il carico fra tutti gli abitanti. Era evidente tuttavia, che l’imposizione fiscale non era solo una questione finanziaria ma anche e soprattutto una questione politica. Due erano i punti rilevanti, che andavano a parare però in uno unico: il potere regio. Il che a sua volta diede il via a una resistenza contro quest’ultimo: la libertà del popolo, che si opposero, seppur per poco. Ma si sapeva già che la salvezza del regno dipendeva dal consenso espresso dalle assemblee. Assemblee e parlamenti: la società locale nei sistemi monarchici Per governare territori sempre più ampi era necessario chiedere l’aiuto delle comunità. Così, dal Duecento in poi, entrano in gioco le assemblee del regno: in Inghilterra il Parlamento, in Francia gli Stati generali ecc… Le sedute delle assemblee assumevano ovviamente funzioni diverse. Non si votava solo se concedere o meno l’aiuto, ma si presentavano al re lamentele, si disponevano riforme e nuovi regolamenti. Tuttavia non bisogna generalizzare queste assemblee come potere contrapposto al re o come alternativa politica. Di fatti, queste assemblee conservavano alcune caratteristiche strutturali che sono:  Erano ancora temporanee e venivano convocate solo in determinate occasioni;  Avevano una rappresentanza sociale limitata, dunque non rappresentavano tutti gli ordini nello stesso modo;  Non erano ideologicamente contro la monarchia;  Fissarono la divisione in ordini, conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico che ne sostenne a lungo la preminenza politica e sociale. Nonostante la presenza dei tre ordini e i criteri elettivi usati, queste assemblee non erano rappresentative. Inoltre la temporaneità di queste assemblee e la loro convocazione sempre meno frequente pone delle domande circa la loro funzione come contropotere dei re alla fine del medioevo. In effetti si è molto discusso a riguardo. Da alcuni storici vengono definite embrioni di democrazia moderna, da altri ridotte a camere di consultazione dei re che al massimo prendevano atto delle loro richieste, senza modificare le decisioni finali. Ovviamente le situazioni sono diverse nei vari paesi (per esempio le cortes spagnole erano intoccabili). Situazione diversa nella Francia, come mostra la convocazione degli stati generali nel 1484 a Tours dove da un lato il re e la sua corte fecero di tutto per trasformare la natura stessa dell’assemblea in una celebrazione del buon re che ascolta il popolo; mentre nell’assemblea abbiamo un primo assaggio di voce del popolo. Questa grande trasformazione non sembra però essere stata avvertita come un cambiamento profondo da parte della coscienza sociale. Agli occhi degli elettori, i deputati sono soprattutto dei portatori di “doléances”: cioè gli incaricati di presentare al re e di sostenere davanti ad esso dei “cahiers” contenenti le richieste di ogni baliaggio o delle unità amministrative sottostanti. Nella sessione di Tours inoltre, erano numerosi i membri “eletti” che ricoprivano una carica pubblica. Insomma, viste da vicino le assemblee non sembrano essere un blocco monolitico di interessi del paese coalizzati contro il re, ma un insieme sociale ogni volta diverso. Questo, insieme ad altri motivi, spiega anche il declino delle assemblee alla fine del XV secolo, che furono sostanzialmente:  I re, alla fine del Quattrocento, avevano in genere reintegrato i beni della corona, ridotto il numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi;  La tassazione ordinaria era ormai un dato accettato e poco contestato anche dai territori;  In quasi tutti i regni la nobiltà e la medio-alta aristocrazia erano ormai esenti dalle imposte ordinarie. È indubbio che nella seconda metà del Quattrocento l’alta aristocrazia cambiò strategia, espandendo la penetrazione nell’amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo come la diplomazia e l’assetto militare, entrò nell’alto funzionariato regio ecc... L’integrazione della nobiltà in varie forme, istituzionali e personali, rafforzò le monarchie, e in genere i poteri territoriali di natura principesca. Segnò l’ingresso delle clientele nel sistema di governo dei territori del regno, attraverso la promozione di esponenti a ufficiali o la vendita di cariche regie a vita. Insomma, più lo stato riusciva a distribuire quote di potere pubblico in amministrazione alla nobiltà, più le speranze di successo erano alte. Il regno divenne il grande contenitore dei gruppi sociali. Le forze sociali e le istituzioni costituivano ormai un blocco unico. L’immagine non era nuova ma applicata nel Quattrocento a un regno incerto e attaccato da tutte le parti servì da collante ideologico per le fazioni in lotta. L’unità e l’armonia di tutte le parti serviva
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