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Storia medievale di Luigi Provero e Massimo Vellerani., Appunti di Storia Medievale

Riassunto del manuale di Storia medievale di Luigi Provero e Massimo Vellerani.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 27/11/2019

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Scarica Storia medievale di Luigi Provero e Massimo Vellerani. e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE PARTE PRIMA LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO L’idea di medioevo nasce quando il medioevo finisce: furono gli umanisti, a partire dal XV secolo, a individuare un periodo di mezzo (una «media aetas») che si frapponeva tra loro e l’età classica. È quindi un’idea: affermare la propria diretta discendenza dalla cultura classica e connotare il millennio precedente come un intermezzo, un periodo di barbarismi e di declino linguistico e culturale, una rottura che andava sanata. Gli uomini del Rinascimento, formati in una cultura che vedeva nello Stato il modello politico più alto, guardavano con perplessità e disprezzo il medioevo. La nozione di medioevo resta utile perché indica un periodo che si colloca tra due fasi: da un lato la trasformazione del mondo romano, tra IV e V secolo; dall’altro la formazione dell’Europa moderna, un migliaio di anni dopo. Un mutamento così complesso che ovviamente non si può ridurre a una data. Molte date sono state proposta: la classica data del 476 (la fine dell’Impero d’Occidente) esprime l’idea che la struttura fondante del mutamento sia rappresentata dalle istituzioni più alte, dal titolo imperiale; il 410 (il sacco di Roma da parte dei Visigoti) privilegia una lettura etnico-militare, con la libera mobilità dei popoli barbarici nei territori dell’Impero; il 324 (fondazione di Costantinopoli) è un modo per evidenziare i quadri territoriali e istituzionali, con la creazione di una nuova capitale, alternativa a Roma; il 313 (l’editto di Milano) indica invece nel mutamento religioso il fattore più connotante. Ma è importante ricordare che non è il fatto specifico a determinare il mutamento, ma è il mutamento strutturale a manifestarsi nel fatto. CAPITOLO I L’impero cristiano Il cosiddetto tardo-antico è visto come un periodo con i suoi propri connotati, in un complesso e innovativo equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo 1 centrale, la progressiva penetrazione di nuove popolazioni nei territori imperiali e nuove forme religiose. 1. Il sistema imperiale tardoromano: poteri e prelievi Un momento fondamentale di tradizione nella storia romana si ebbe attorno alla fine del II secolo d.C., quando terminò l’espansione militare dell’Impero. Da qui si può far iniziare l’Impero tardoantico. L’Impero riuniva popolazioni diverse per tradizioni, lingue e religioni, con livelli di romanizzazione molto variabili; ma queste popolazioni erano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una profonda crisi lungo la seconda metà del III secolo, con una serie di lotte per il trono. Il potere imperiale fu ripristinato con forza sotto Diocleziano; condividenti il potere, a partire dal 285, con Massimiano: nasce la diarchia. Si avvia la crescente importanza di polarità diverse da Roma, come l’Oriente, dove agì Diocleziano, e la Gallia, ambito di azione di Massimiano. Questa polarizzazione si accentuò quando la diarchia divenne triarchia, con due diversi Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono i due Augusti. Fu messa in discussione le responsabilità dei diversi sovrani che assunsero un più chiaro connotato territoriale. Due passaggi furono fondamentali nel corso del IV secolo: prima la fondazione di Costantinopoli, poi il regno di Teodosio e dei suoi successori. Sull’antica città di Bisanzio, l’imperatore Costantino nel 324 decretò di fondare una città nuova: Costantinopoli, di cui nel 330 celebrò la dedicatio. Costantinopoli nacque subito come residenza imperiale; non una capitale, poiché la capitale era Roma. Costantinopoli si affermò come punto di riferimento forte del potere imperiale nel Mediterraneo orientale. L’ulteriore anomalia fu la presenza di un Senato. In questa prima fase, il Senato di Costantinopoli era solo una sorta di appendice del Senato di Roma; era l’assemblea di quei senatori che erano attenti alle aree orientali dell’Impero e per questo avevano seguito Costantino nella sua nuova residenza. Solo a partire dal V secolo, Costantinopoli divenne una vera e propria capitale. Il secondo mutamento fu la divisione stabile tra una parte orientale e una parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I. Teodosio prese atto che un efficace controllo dei territori così diversificati e così duramente minacciati avrebbe richiesto una presenza diretta dell’imperatore, possibile solo con una spartizione del territorio. I figli, Arcadio e Onorio, ottennero rispettivamente l’Oriente e l’Occidente; dai decenni a cavallo tra il IV e V secolo è corretto ragionare in termini di Impero orientale. Una macchina statale complessa aveva bisogno di un costante afflusso di denaro per mantenere la burocrazia, l’esercito e la capitale. Queste tre voci di spesa erano sostenute da un sistema di 2 Lungo il III e IV secolo, gruppi organizzati si inserirono nell’esercito romano e nei territori dell’Impero, con accordi di vario tipo e con vari nomi (foedus, hospitalitas). L’incontro tra l’Impero e i però connotati più propriamente politici. L’inserimento nell’esercito di gruppi organizzati, al seguito di un capo, poteva innescare processi di consolidamento sia della solidarietà di gruppo, sia della leadership del re. Un’organizzazione di questo tipo incideva anche sulle strutture dell’Impero, che si trovava a disporre di corpi militari sicuramente più efficaci. L’inserimento nell’esercito romani portò singoli capi barbari a ricoprire cariche di rilievo, fino ai massimi vertici: come Arbogaste e Stilicone. Il processo di penetrazione di gruppi barbarici entro l’Impero si protrasse durante il III secolo e soprattutto nel IV secolo. Intorno alla fine di quest’ultimo, si verificò un’accelerazione del processo. Le origini vanno situate nell’iniziativa militare del popolo degli Unni, la cui spinta sui popoli dell’Europa orientale provocò un effetto a catena di movimenti verso Occidente, che determinarono una forte pressione dei Visigoti sul limes danubiano. I visigoti si dedicarono presto a forme di saccheggio nei Balcani, inducendo l’imperatore Valente ad attaccarli; la battaglia di Adrianopoli (378) fu un disastro per i Romani, con la sconfitta e la morte dell’imperatore. La reazione alla sconfitta fu diversa tra Occidente e Oriente. Se l’Impero non poteva rinunciare alla forza armata costituita dai soldati di origine barbara, cambiarono in Oriente le forme del loro inquadramento: significò un inserimento più diffuso e la scelta di impedire l’ascesa di capi militari barbari ai vertici dell’esercito. La stessa pacificazione con i Visigoti fu attuata dal nuovo imperatore Teodosio. Questa linea di tendenza si andò definendo nei primi decenni del V secolo in Oriente, mentre in Occidente non fu praticabile. Un momento di svolta per l’Occidente è il primo decennio del V secolo. La grande mobilità degli elementi barbarici aveva di fatto perdere di efficacia il limes danubiano. Il sacco di Roma (410) determinò una profonda riduzione dello spazio di effettiva capacità di azione imperiale, con una progressiva esclusione degli imperatori dea settori settentrionali della Gallia. Ecco alcuni capi barbari alla guida dell’esercito: Arbogaste, era un franco che alla fine del IV secolo ricopriva la carica di comandante supremo dell’esercito romano nell’Impero occidentale, sotto Valentiniano II; nel 392 gli si ribellò e lo uccise; fece incoronare al suo posto Flavio Eugenio. Gli si contrappose Teodosio, che nel 394 sconfisse e uccise Arbogaste ed Eugenio. Stilicone era un vandalo, che negli anni immediatamente successivi assunse le stesse funzioni di Arbogaste. Sotto Onorio, figlio di Teodosio, difese l’Impero contro i Visigoti di Alarico a Pollenzo (402) e contro le armate di Radagaiso a Fiesole (406). Ma quest’ultima vittoria lasciò campo aperto 5 ai popoli che tra 406 e 407 valicarono il Reno: Stilicone fu accusato di tradimento e ucciso a Ravenna (408). Alarico era il re dei Visigoti e al contempo era stato nominato comandante degli eserciti romani nell’Illirico. Nel 396 guidò la ribellione del suo popolo. La reazione di Costantinopoli indusse Alarico verso l’Italia dove fu sconfitto da Stilicone e fu reinserito nei quadri dell’esercito romano. Nel 409 le armate di Alarico scesero fino a Roma, la assediarono, ottennero un forte pagamento e, l’anno successivo, entrarono in città e la saccheggiarono. Alarico proseguì verso sud, per poi morire in Calabria. Da questi movimenti nacque l’iniziativa che portò alla formazione del regno autonomo visigoto. 3. La cristianizzazione dell’Impero Per comprendere il processo di cristianizzazione dell’Impero romano è fondamentale tenere presente un’idea di pluralità: pluralità dei paganesimi; pluralità dei culti salvifici; pluralità dei Cristianesimi; pluralità dell’organizzazione ecclesiastica. L’Impero diventò cristiano a partire dai primi decenni del IV secolo. Il punto di partenza è individuabile nelle persecuzioni contro il Cristianesimo, che abbracciano la seconda metà del III secolo, a partire dall’imperatore Decio (250). Le persecuzioni furono un elemento di novità rispetto alla tradizionale tolleranza religiosa romana; vi è dietro la trasformazione e l’esaltazione intollerante del culto dell’imperatore. Il fine delle persecuzioni era il consolidamento della coesione ideologica dell’Impero oltre a ragioni economiche. Un mutamento radica si attuò nei primi anni del IV secolo, dopo la grande persecuzione del 303-304: si arrivò alla libertà di culto per i cristiano (tra il 311 e il 313), innescando un processo che portò nel 380 a fare del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero. Tre furono le tappe: l’editto di Milano (313), il concilio di Nicea (325) e l’editto di Tessalonica (380). L’editto di Milano: la sua esistenza è dubbia. Pare che Costantino si sia limitato a confermare e porre in atto un decreto di Galerio del 311, nel quale si poneva fine alle persecuzioni e si sanciva la libertà del culto cristiano. Da questi anni gli imperatori individuarono nel Cristianesimo una possibile ideologia unificante, quindi un nuovo fondamento di legittimità per lo stesso potere imperiale. La funzione collante richiedeva un’unità teologica del Cristianesimo, problema posto al concilio di Nicea del 325. A Nicea (l’odierna Iznik) la principale decisione dei vescovi cristiani fu la condanna dell’Arianesimo; ovvero la dottrina cristiana elaborata e diffusa dal prete Ario per conciliare monoteismo e trinità. Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio sarebbe stato creato dal Padre, e quindi a lui sottoposto e non eterno. Il fondamento della capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva nella divinità anche del Figlio. 6 Il concilio di Nicea fu convocato da Costantino, un imperatore non ancora battezzato; questa iniziativa spiega l’efficacia come il collante ideologico del mondo romano era direttamente proporzionale alla sua unitarietà e coerenza. Il concilio di Nicea affermò la centralità del concilio come luogo fi elaborazione teologia, e mise in evidenza il ruolo dell’Impero, il quale assunse il ruolo di tutore dei conflitti interni alla Chiesa. Nella seconda metà del IV secolo da un lato crebbe l’intolleranza del Cristianesimo romano, e dall’altro l’Arianesimo accentuò la sua diffusione nel mondo germanico: vi fu anche una traduzione della bibbia in lingua gotica, da parte del vescovo di Ulfia. I decenni centrali del secolo tracciano una linea religiosa imperiale che era stata incerta, lasciando spazio sia alle presenze ariane, sia al paganesimo di Giuliano, imperatore tra il 360 e il 363. L’editto di Tessalonica del 380, l’imperatore Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il Cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell’Impero: diede il via a una più dura azione di repressione delle forme religiose giudicate eretiche. 4. Vescovi e monaci La struttura portante della Chiesa cristiana del V secolo era costituita dalla singola diocesi, raccolta attorno al vescovo. Egli era il principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza ultraterrena. Questa efficacia si arricchì con il progressivo inserimento della grande aristocrazia senatoria. A costituire il prestigio dei vescovi erano le loro funzioni religiose e la loro identità sociale e familiare. Essi seppero agire come mediatori dei modelli istituzionali romani nei confronti dei nuovi dominatori germanici: nei vescovi andarono ad addensarsi le tradizioni istituzionale, culturale e religiose del tardo Impero. Al di sopra dei singoli vescovi non esisteva una struttura unitaria: tra il IV e V secolo andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori, definite come sedi patriarcali (Roma, Antiochia, Alessandria d’Egitto, Gerusalemme, e a metà del V secolo Costantinopoli). Esse avevano una superiorità di prestigio, un grande coordinamento nei dibattiti teologici. L’idea che Roma dovesse essere il centro della Chiesa nacque a partire dal secolo XI. L’ungo l’alto medioevo è più corretto parlare di «chiese»; e furono i vescovi i protagonisti del processo di evangelizzazione all’interno dell’Impero. L’evangelizzazione delle campagne fu attuata attraverso la creazione di una rete di chiese dipendenti dal vescovo (pievi), a cui era affidato il compito di curare le anime dei vari settori della diocesi. Fu un processo di acculturazione, uno scambio, uno sviluppo. Un secondo livello di evangelizzazione fu quello attorno e oltre i limes. L’affermazione del Cristianesimo ebbe influssi limitati in queste aree (isole britanniche); in seguito la conquista 7 eserciti e ai loro saccheggi. Roma venne nuovamente saccheggiata nel 455 dai Vandali provenienti da Cartagine. Lungo il V secolo l’Impero in Occidente era vivo e operativo: alcuni capi germanici, come Genserico, decisero di staccarsi dall’Impero, mentre altri agivano allo scopo di prenderne il controllo; ma la capacità di azione degli imperatori andava riducendosi. I decenni centrali del secolo furono segnati dal declino del potere imperiale: si alternarono al trono degli imperatori-fantoccio, controllati da generali come lo svevo Ricimero o il burgundo Gundobado, fino a che, nel 476, il generale sciro Odoacre non si limitò a deporre l’ennesimo debolissimo imperatore, Romolo Augustolo, ma rinunciò a insediarne uno nuovo, rinviando invece le insegne imperiali a Costantinopoli. La deposizione dell’ultimo imperatore non fu legato a nessuna invasione: un generale dell’esercito romano depose un imperatore privo di potere e semplicemente prese atto che un nuovo imperatore d’Occidente sarebbe stato inutile. Il mondo romano si andava polarizzando in Oriente. Nella prospettiva politica di Odoacre il suo dominio sull’Italia doveva integrare un’ampia autonomia militare con il riconoscimento dell’Impero. Ma l’imperatore Zenone non ritenne Odoacre un alleato affidabile, e pochi anni dopo fece in modo che l’Italia passasse nelle mani degli Ostrogoti di Teoderico. Ciò di cui si impadronì Odoacre fu di fatto solo l’Italia, poiché l’ambito dell’esercizio del potere degli imperatori d’Occidente si era ridotto solo a questo territorio. Alla fine del V secolo la geografia politica appare abbastanza delineata: la Gallia era in larga misura nelle mani dei Franchi, con l’eccezione delle aree controllate dai Burgundi (sud-est) e dai Visigoti (sud della Gallia e parte della penisola iberica, area in cui erano presenti anche gli Svevi nell’attuale Galizia); i Vandali controllavano la Tunisia, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica; le isole britanniche erano divise in molte dominazioni autonome in parte celtiche e in parte degli invasori angli e sassoni. 2. I nuovi regni Il quadro europeo tra V e VI secolo presenta una fondamentale divaricazione: un impoverimento della società europea da un lato, e una continuità sul piano della cultura, in specifico della cultura politica e dei modelli istituzionali, dall’altro. Si nota uno spostamento degli equilibri su base regionale e sulla rottura dell’unità europea e mediterranea. Si assistette al crollo del sistema politico-militare romano, con il passaggio del potere nelle mani della minoranza armata costituita dai Germani: una élite politica germanica. Furono conservate alcune forme di organizzazione sociale e istituzionale, si mantennero apparato amministrativo e sistemi legislativi di tradizione romana. Fu una conservazione, ma anche 10 una semplificazione, perché andarono perse molte funzioni dell’apparato amministrativo romano. Questo avvenne perché il modello romano era forte e presente; era la memoria di un potere statale forte ed efficace; era un sistema vivo nell’Impero d’Oriente. Il modello politico romano era efficace perché all’interno dei regni, ad affiancare e consigliare i re, erano presenti vescovi e funzionari di origine e cultura romana, portatori in prima persona di questa tradizione politica e amministrativa. Nacque un sistema politico nuovo, che rielaborò tradizioni romane e germaniche, in cui i modelli amministrativi imperiali erano affiancati da assemblee, le riunioni aristocratiche attorno ai re. Un punto chiave fu la circolazione economica indotta dallo Stato, attraverso forme di prelievo e ridistribuzione. Il sistema imperiale non resse; i regni non avevano bisogno di prelevare le tasse, poiché la burocrazia era un apparato più leggero di quello romano; l’esercito non era più costituito da professionisti stipendiati. Il passaggio dagli stipendi alle concessioni di terra, fu l’affermazione di un ideale sociale ed economico romano, perché si mantenne l’idea che per essere ricchi occorresse possedere molte terra. La conseguenza fu che tra V e VI secolo quasi tutti i regni rinunciarono progressivamente a prelevare le tasse, e quindi si interruppe il principale motore della circolazione economica. Questo ebbe come conseguenze la rottura della circolazione interna al Mediterraneo, di quella forma di interdipendenza tra regioni; si ebbe una generale crisi delle città e di molti settori produttivi. Gli equilibri di potere interni ai regni: i nuovi regni erano più poveri; le élite agivano su orizzonti politici ed economici che non superavano il limiti del singolo regno. L’equilibrio tra le ricchezze del re e quelle dell’aristocrazia era sempre a vantaggio del primo, il quale polarizzava attorno a sé l’aristocrazia; questi ultimi lottavano per essere vicini al re per ottenere le cariche di corte, al limite per sostituirsi al re, ma non per distaccarsi dal potere regio. 3. L’Italia ostrogota Odoacre costruì un sistema di potere fondato su una piena collaborazione con l’aristocrazia senatoria, a cui il re garantì il predominio economico e sociale, tutelando le proprietà fondiarie e il controllo degli incarichi pubblici e amministrativi; al contempo il carico fiscale destinato a mantenere l’esercito non aumentò rispetto al periodo precedente. Odoacre espresse il suo potere attraverso un doppio titolo: da un lato «patricius», che evocava la sua volontà di inserirsi nella gerarchia romana, e dall’altro «rex gentium», che esprimeva il suo dominio sull’insieme dei popoli che costituivano il suo esercito. Questo potere, che per 13 anni resse l’Italia, fu travolto dall’invasione ostrogota, che deve essere vista come un’iniziativa imperiale. L’imperatore Zenone non aveva accettato il dominio di 11 Odoacre; egli si propose di riottenere il controllo indiretto dell’area sollecitandone la conquista degli Ostrogoti, la cui figura chiave era il re Teoderico. Questi aveva vissuto a Costantinopoli: ciò non lo rendeva più affidabile, ma ne garantiva una conoscenza migliore della burocrazia dell’Impero. Teoderico, da quando era salito al trono nel 474, era stato un interlocutore importante per Zenone, che aveva sostenuto nelle guerre civili. Teoderico era per Zenone un potente in grado di divenire funzionale ai progetti di rafforzamento imperiale in Italia, e che era utile a tenere lontano da Costantinopoli. Teoderico nel 489 scese in Italia alla guida degli Ostrogoti, a cui si unirono altri gruppi, soprattutto di Rugi e Gepidi. La conquista dell’Italia fu nel complesso facile: dopo alcune sconfitte, Odoacre fu abbandonato dall’aristocrazia senatoria e si rifugiò a Ravenna; fu convinto da Teoderico ad arrendersi nel 493, che però pochi giorni dopo lo fece giustiziare. Il re poté impostare il proprio potere basato sulla convivenza tra una piccola minoranza gota e una grande maggioranza di cultura e lingua latina. La residenza principale del re fu prima Ravenna, poi Pavia e Verona. Il governo di Teoderico si fondò sull’integrazione tra il controllo militare dei Goti e un’amministrazione civile di stampo romano. Il parallelismo tra le due popolazioni fu sancito dall’idea di personalità del diritto, ovvero la possibilità per ogni individuo di seguire la propria legge (romana o gota) ed essere giudicato o da un iudex romano o dal comes goto (con una prevalenza di quest’ultimo, che aveva il potere di giudicare le liti che opponevano un romano e un goto). La natura composita del potere di Teoderico fu espressa nei titoli da lui adottati: re degli Ostrogoti e patrizio imperiale per l’Italia. Il titolo di patrizio rappresentava l’aspirazione del re e il riconoscimento e la legittimazione derivanti dall’Impero. I due apparati trovavano un nesso nella figura del re e nel suo consistorium, il consiglio ristretto formato da Goti e Romani. Il consistorium regio fu principale strumento di governo di Teoderico, ma anche una debolezza strutturale, dato che il re e il suo consiglio costituivano il solo punto reale di integrazione tra Goti e Romani. Nel complesso del regno, i due popoli furono tra loro complementari, ma non integrati. Il piano religioso: gli Ostrogoti e il loro re erano di religione ariana e si trovarono a convivere con una popolazione italica di fede cattolica che era maggioritaria e si stava consolidando un sistema di dominio sociale ed economico delle chiese, con un crescente ruolo politico dei vescovi. La scelta di Teoderico fu di conservare la propria fede ariana, ma al contempo di porsi come protettore di tutte le chiese presenti nel regno, ariane e cattoliche; la funzione di protezione gli veniva riconosciuta da papa Gelasio. Questa funzione regia dimostrò la massima efficacia nel contesto dello scisma laurenziano, nel 498, quando – alla morte di papa Anastasio II – il clero romano si spaccò e furono eletti due papi: Simmaco e Lorenzo. Il dato più significativo fu che 12 L’Africa vandala fu un contesto di stabilità economica e fiscale: da un lato rimasero intatti gli alti livelli di produttività di grano e olio, dall’altro i Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo un modello pienamente romano. Le tasse non uscivano dal regno né dovevano essere incanalate in grandi spese statali: il risultato du che i re vandali accumularono notevoli ricchezze. La conquista vandala segnò una rottura profonda per l’insieme dell’Impero occidentale, il quale si trovò a non poter più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane. La fine del sistema di scambio portò l’economia africana a un progressivo calo delle domanda e innescò un calo produttivo. Sul piano politico e militare ci fu una totale mancanza di integrazione dei diversi popoli: quando l’Impero ebbe la forza per progettare un’espansione nel Mediterraneo occidentale, travolse assai rapidamente il regno vandalo (tra 533 3 534). 4.3 Visigoti Nel processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali si possono individuare tre fasi: 1. Lungo il V secolo si stanziarono tra il sud della Gallia e la penisola iberica 2. Nella prima metà del VI secolo videro ridursi il proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi 3. Nella seconda metà del secolo si consolidarono nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo Nel 418 i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa al servizio degli eserciti romani, combattendo nella penisola iberica. La conquista di quest’area venne avviata nel 456 e nel 480 fu pressoché completa. In Galizia si affermò il regno degli Svevi. Il centro del dominio visigoto rimaneva nella Gallia meridionale, tra Narbona e Tolosa. I re visigoti seppero rielaborare i modelli politici di tradizione romana con redazioni di leggi scritte (da parte di Eurico, re dal 466 al 484): erano norme territoriale, destinate a tutti i sudditi. Nella battaglia di Vouillé, nel 507, il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II: si ridusse il dominio visigoto a nord dei Pirenei e la debolezza del regno lo pose sotto l’egemonia del re ostrogoto Teoderico. Fino alla metà del VI secolo, il dominio visigoto appare segnato da una ripresa dei modelli politici romani, ma anche dall’instabilità e da una semplificazione economica. Nella seconda metà del VI secolo, a partire dal regno di Leovigildo (569-586), che segnò un consolidamento territoriale e politico, si avviò una serie di conquiste che portarono al dominio sia sul regno svevo sia su larga parte del dominio bizantino: con Leovigildo pressoché l’intera penisola iberica era sotto il controllo regio. La capitale del regno divenne Toledo. 15 L’ottica religiosa: i Visigoti erano di religione ariana e vissero a lungo in un rapporto di separazione religiosa con i cattolici: pur senza assumere le forme di una netta distinzione o di una piena contrapposizione. Leovigildo da un lato promosse la ricerca di un compromesso teologico tra ariani e cattolici, e dall’altra perseguì alcune chiese cattoliche. Reccaredo (586-601), figlio e successore di Leovigildo, promosse una conversione del popolo al Cattolicesimo. Reccaredo valorizzò la scelta religiosa in senso politico: Toledo divenne la sede di una serie di concili che assunsero funzioni sia di sedi di deliberazioni religiose ed ecclesiastiche, sia di organi di governo del regno. La Spagna visigota fu una delle dominazioni più efficaci d’Europa. CAPITOLO 3 La simbiosi franca I Franchi furono quelli che svilupparono con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una vera e propria simbiosi. I Franci, nel giro di due secoli, riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa, ponendo le basi per l’espansione carolingia alla fine dell’VIII secolo. 1. Clodoveo Nel contesto del tardo Impero, la Gallia aveva rappresentato prima un territorio di integrazione tra Romani e Celti, poi un ambito di affermazione della potenza di un’aristocrazia senatoria provinciale. Una caratteristica di questa regione fu, tra IV e V secolo, la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche. Tale convergenza fu causa ed effetto del potere vescovile: effetto perché la cattedra vescovile era un obiettivo appetibile per famiglie che volevano conservare e aumentare la propria preminenza sociale; causa perché la forza delle sedi vescovili fu accresciuta dalla presenza di esponenti delle famiglie più potenti. Nel tardoantico i Franchi erano una confederazione di tribù; erano estranei alle idee di latifondo delle città; dal punto di vista religioso erano prevalentemente pagani anche se avevano integrato elementi del Cristianesimo ariano. Il popolo franco, tra il IV e V secolo, fu protagonista di un processo di romanizzazione: i Franchi salii si stanziarono all’interno dell’Impero a partire dalla metà del IV secolo, entrando a far parte dell’esercito romano. Nel 406-407 si batterono contro Vandali e Alani; nel 451, nella vittoria di 16 Ezio contro gli Unni, i Franchi rappresentavano delle componenti fondamentali dell’esercito romano. I Franchi si affermarono come principali attori politici della regione. Childerico I, attivo nei decenni centrali del secolo, è la figura che ci mostra la prima transizione dei Franchi da soldati al servizio dell’Impero a quella di autonomi attori politici. Childerico combatté i Visigoti sotto il comando di Egidio (figlio di Ezio). Il re franco seppe costituire un proprio specifico ruolo politico, connotando l’azione militare del suo popolo in senso religioso, come lotta contro gli ariani Visigoti: ai Franchi, che erano pure pagani, valse una nuova forza e una nuova legittimazione. Clodoveo, figlio di Childerico, seppe completare il processo di consolidamento: succeduto al padre del 481, attuò una politica militare efficace che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia. Sottomise i Burgundi e ridusse il dominio dei Visigoti in Gallia, segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale: i Merovingi. Alla presa del potere fece seguito la conversione di Clodoveo e del suo popolo al Cristianesimo cattolica; questo fece in modo che non si innescassero quei meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa. L’impatto della conversione possiamo coglierlo nella narrazione di Gregorio di Tours. L’intervento determinante fu quello della moglie di Clodoveo, che mise il re in contatto con Remigio, vescovo di Reims. Fu Remigio a completare la conversione del re. I due elementi chiave del racconto sono da un lato la centralità dei vescovi, dall’altro l’assimilazione di Clodoveo a Costantino. Questa assimilazione emerge da diversi passi del testo: la conversione legata all’aiuto di Dio nella battaglia (Vouillé per uno e Ponte Milvio per l’altro); l’analogia tra Remigio e papa Silvestro; infine il battesimo di Clodoveo. La narrazione di Gregorio è l’espressione diretta dell’ideologia vescovile. La vera forza dell’integrazione tra Franchi e Gallo-romani fu l’unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante unitario. Tra IV e V secolo l’aristocrazia Gallo-romana era caratterizzata dall’attenzione per il latifondo, dal radicamento in città e dall’occupazione delle cariche ecclesiastiche; i gruppi dominanti franchi erano connotati dalle capacità militari, dalla vicinanza al re e dal sistema di legami clientelari. Lungo i Vi secolo si creò un’aristocrazia che si basava su: combatteva per accumulare terra, era vicina al re, ma attenta a radicarsi nelle città, tesseva reti clientelari e occupava cattedre vescovili. Nacque una società a istituzioni ibride. 2. Le chiese franche e la diffusione del monachesimo Il vescovo era prima di tutto il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale. Al contempo erano portatori della cultura: cultura letteraria, politica, conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani. Durante il VI secolo, i vescovi seppero trasmettere questa esperienza ai re franchi. 17 L’assemblea dell’esercito: i poteri di questa andarono rapidamente attenuandosi con il crescere sia della forza di mediazione aristocratica, sia del carattere dinastico della monarchia; riducendo l’assemblea a una funzione di ratifica, non di scelta, del nuovo re. La grande assemblea dell’esercito rimase il luogo delle principali decisioni politiche e il punto di partenza per le grandi spedizioni. Al contempo assunsero importanza le assemblee regionali, attorno ai singoli conti, occasioni di deliberazione politica e giudiziaria. La frammentazione del dominio franco derivò dai meccanismi di successione al trono: il regno e la corona erano considerati parte del patrimonio del re, e venivano spartiti tra i discendenti (già a partire dai figli di Clodoveo, 511). Tutta la storia franca del VI e VII secolo è una vicenda di continue fratture e ricomposizioni del regno. Sia andarono delineando alcune fondamentali ripartizioni: i regni di Austrasia (il nord-est), di Neustria (il nord-ovest), di Burgundia (il sud-est) e di Aquitania (a sud-ovest). Solo i membri della stirpe merovingia erano legittimi aspiranti alla corona. Solo alla fine dell’VIII secolo si affermò in pieno con l’espansione carolingia. CAPITOLO 4 La rottura del Mediterraneo romano 1. Produzioni e scambi in Occidente Le fonti scritte ci offrono dati discontinui riguardo all’economia, perciò i dati archeologici hanno assunto un peso via via maggiore; questo implica che l’interpretazione dell’economia altomedievale è cambiata. I resti ceramici: la ceramica fine da tavola ci dà indicazioni soprattutto sulla domanda aristocratica, sull’occupazione o sulla produzione locale di oggetti di un certo pregio; le anfore ci informano sullo scambio interregionale di prodotti agrari. A partire dal II secolo l’Impero terminò la sua fase di conquista. La crescita sostenuta dall’ingente afflusso di bottini e schiavi rallentò; si avviò una lunga stagione di complessivo equilibrio, in cui tuttavia i costi dell’unificazione politica pesarono in modo rilevante. Nei primi secoli del medioevo ci fu un mutamento profondo, che comportò la rottura dei più grandi circuiti di scambio e la crisi di molte forme di produzione; il tutto nel contesto di un generale calo demografico. 20 Il punto di partenza è la trasformazione sul piano politico e militare, con la conseguente interruzione dei meccanismi fiscali. Si ridussero le funzioni delle città e mutarono i sistemi di produzione e scambio; si trasformarono profondamente le forme di circolazione dello scambio ed ebbe fine l’interdipendenza tra le diverse parti dell’Impero. Il mutamento attraversa questi quattro aspetti: le città, le reti interregionali di scambio, le forme di produzione e la società contadina. 1.1 Città Il tramonto del sistema imperiale allontanò le élite dalle città: per essere potenti era importante valorizzare le terre, in un contesto di generale calo demografico. La drastica riduzione di popolazione mostra case più semplici e frazionata; una frammentazione dello spazio urbano in una serie di piccoli insediamenti discontinui, raccolti all’interno delle mura di età romana. In Italia si assistette a una maggiore continuità dei centri urbani, che però entrarono in crisi nei decenni centrali del VI secolo, probabilmente in concomitanze della guerra greco-gotica e la conquista longobarda. Roma poté sostenersi con le risorse provenienti dal Lazio e dalle terre del suo vescovo, ma nulla di paragonabile al periodo precedente. Fu necessaria una riduzione della popolazione urbana, che viveva all’interno della cerchia delle mura aureliane, in una serie di villaggi intervallati da spazi disabitati. Nel complessivo quadro europeo e mediterraneo, questa crisi non significò la fine dell’urbanesimo, perché i centri urbani conservarono molte funzioni nei confronti del territorio circostante. Il cambiamento urbano deve quindi essere letto alla luce delle reti di scambio interregionali e dei sistemi regionali di produzione e scambio. 1.2.Reti La città di Roma e gli eserciti del limes renano erano in larga parte mantenuti grazie alle produzioni cerealicole di regioni come l’Egitto, la Tunisia o la Sicilia; i trasferimenti dei beni erano sostenuti da un sistema di infrastrutture. La prima grande rottura fu rappresentata dalla conquista vandala della Tunisia nel 439, che interruppe l’asse fiscale Cartagine-Roma. L’impatto si ripercosse su tre livelli: le reti di scambio, la città di Roma e le strutture produttive nordafricane. Cambiò la natura del flusso del grano tunisino verso l’Italia: meno grano e più oneroso il suo acquisto. Le produzioni africane subirono una riduzione, poiché l’aristocrazia di area tunisina non era abbastanza numerosa e ricca per sostenere una domanda di tale portata. 21 Due meccanismi distinti: la domanda dell’élite che è fondamento della complessità economica di livello regionale e subregionale; l’infrastruttura statale e il sistema fiscale che costituiscono la base per lo scambio tra regioni diverse. 1.3 Produzione Il quadro produttivo delle regioni mediterranee ed europee dei primi secoli del medioevo pone al centro dell’attenzione la domanda delle élite, la cui ricchezza non è tale da sostituire il prelievo fiscale dell’Impero. Il dato comune era la struttura produttiva agraria di base. Le differenze nascevano: • La specializzazione produttiva, un fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamento e ridotta circolazione • Le ricchezze dell’aristocrazia erano profondamente diverse, e questo condizionò la domanda e la produzione • I danni conseguenti alle terre • Il sistema fiscale di tradizione romana in alcuni regni fu conservato più a lungo, e questo indusse una maggiore pressione sulla popolazione e quindi una maggiore produzione. L’Africa romana presenta un calo produttivo. Nel 534 l’Impero d’Oriente riconquistò la regione, riattivando una circolazione di tipo fiscale, ma non bastò. La riconquista bizantina portò a un prelievo destinato al mantenimento della capitale e a garantire la difesa della stessa Tunisia, minacciata dai Berberi. L’Italia visse una fortissima frammentazione economica. Il V secolo vede un impoverimento dell’aristocrazia, ma è nel VI che si ha la rottura più profonda grazie alla guerra greco-gotica e la successiva conquista longobarda. Nel regno franco, lungo il VI secolo si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale. Un dato di fondo fu la ricchezza e, quindi, la forte domanda dell’aristocrazia, ben attestate già in età merovingia e poi accentuate in età carolingia. La Britannia costata già all’inizio del V secolo una rottura totale delle reti commerciali, una semplificazione nella produzione di ceramica che divenne quasi esclusivamente locale; una struttura sociale debolmente gerarchizzata. Nel Mediterraneo orientale si conservò una rete di scambi ampia e fondata sull’azione statale, una rete che permise di mantenere sia la capitale sia gli eserciti del limes. 1.4 Contadini Il quadro di valore generale mostra che i contadini rappresentavano il 90-95% della popolazione. La transizione al medioevo fu segnata da un parziale abbandono delle città; aumentò la percentuale 22 con Narsete e in una nuova campagna via terra, a partire dalla Dalmazia, nel 553 portò alla piena conquista dell’Italia. Immediatamente dopo la conquista, Giustiniano emanò la Prammatica sanziona (554), una norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila. L’imperatore ricostituì un quadro di governo imperiale sull’Italia, organizzato attorno a un funzionario, l’esarca di Ravenna. La fragilità del dominio imperiale in Italia permise, pochi anni dopo (568), l’invasione attraverso le Alpi dei Longobardi. Essi si impadronirono rapidamente del Friuli e del nord-est, per poi espandersi all’intera pianura padana. Partirono in una serie di spedizioni in Toscana e verso il centro e il sud dell’Italia, ma anche oltre le Alpi, nelle aree controllate dai Franchi. Si crearono due Italie: i Longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del Meridione continentale e le grandi isole. Entrambe le dominazioni erano discontinue, con alcuni punti di frizione, come l’area umbra; l’Africa restò imperiale fino alla conquista araba; in Spagna la presenza imperiale fu del tutto cancellata nel 625. 3. Dibattiti teologici e identità locali Nel V e VI secolo il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: la questione era la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana: Cristo dev’essere pienamente Dio, per garantire l’efficacia salvifica dell’incarnazione e della morte; ma al contempo dev’essere pienamente uomo, perché solo così gli si può riconoscere una piena e reale sofferenza della carne. Il culto mariana, il ruolo di Maria, fu al centro del dibattito fin dalle prime importanti formulazioni, quelle di Nestorio, sacerdote cresciuto e formato ad Antiochia, in Siria, ma divenuto poi vescovo di Costantinopoli nel 428. Nestorio sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte (umana e divina) e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di «madre di Dio», sostituendolo con quello di «madre di Cristo», cioè di Gesù congiunto con il Figlio. Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso del 431, su iniziativa dell’imperatore Teodosio II. Dobbiamo notare come non si trattasse di un libero scontro intellettuale tra i singoli teologi; fu un grande dibattito teologico, ma fu al contempo la divisione tra le più importanti sedi della Chiesa. Il Nestorianesimo si conservò negli episcopati sottoposti all’Impero dei Sassanidi e lì sopravvisse anche dopo il VII secolo. La via teologica opposta, elaborata in ambito alessandrino, fu il Monofisismo (mone physis, una sola natura): umanità e divinità di fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado sia di soffrire concretamente, come uomo, sia di operare la redenzione in quanto Dio. Questa posizione subì una 25 condanna pochi anni dopo, nel concilio di Calcedonia del 451, convocato dall’imperatore Marciano. Il Monofisismo offuscava le due nature, ne cancellava la specificità. Il concilio di Calcedonia propose una soluzione di compromesso: il Diofisismo (dyo physeis, due nature). La presenza di due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona di Cristo; un formula, questa, che divenne dominante, poiché sostenuta dalle grandi sedi patriarcali di Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. Le decisione del concilio di Calcedonia si imposero grazie alla capacità di pressione e coercizione del potere imperiale. I monofisisti rimasero numerosi nelle chiese del Mediterraneo orientale e meridionale, soprattutto in Egitto; le tesi nestoriane furono condannate nel 431. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e per l’ortodossia religiosa era una componente fondamentale dell’ideologia universalistica: obbedire o non obbedire ai decreti conciliari significava anche aderire più o meno solidamente al sistema di potere imperiale. Un’urgenza prioritaria per l’imperatore era sanare un’unità teologica ed ecclesiastica. Possiamo così comprendere meglio gli interventi imperiali a Efeso nel 431, quando Teodosio II condannò il Nestorianesimo; a Calcedonia nel 451, concilio convocato dall’imperatore Marciano. L’intervento di Giustiniano condannò i Tre capitoli, i testi diofisiti; si trattò di un tentativo consapevole di avvicinare i monofisiti d’Egitto. Ma il progetto fallì; il vescovo di Roma Vigilio decise infine di adeguarsi all’orientamento imperiale (nel concilio di Costantinopoli del 553), altre province ecclesiastiche diedero vita a un vero e proprio scisma, sanato solo nel secolo successivo. Nel VII secolo l’azione dell’imperatore Eraclio (610-641) mirò a riavvicinare i monofisiti: promosse la posizione detta del Monotelismo (monos télos, un solo scopo), l’idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite però da un’antica attività e un’unica volontà, connessa alla fondamentale unità della persona. Il tentativo fallì: il monotelismo fu condannato nel concilio di Costantinopoli del 681, mentre ormai le regioni sudorientali erano passate nelle mani islamiche. L’unità teologica non minava quindi l’unità imperiale, il suo superamento non era più un obiettivo politico rilevante. 26 PARTE SECONDA Il sistema di dominazione altomedievale CAPITOLO 1 Nobili, chiese e re: ricchezze e poteri Tra VI e VIII secolo la geografia politica dell’Europa occidentale appare molto più stabile. Non ne consegue una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. Tre sono le chiavi fondamentali: l’equilibrio politico tra le aristocrazie e i re, lo sfruttamento delle risorse agrarie, l’apertura di nuove reti di scambio 1.Nobili e re Con i regni altomedievali ci troviamo di fronte a un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento e l’azione politica autonoma dell’aristocrazia. Gli elementi comuni, che in tutti i regni connotano il rapporto tra re e aristocrazia, si possono individuare dei processi di ridistribuzione clientelare e il carattere militare del potere regio. Era fondamentale per le famiglie aristocratiche partecipare al circuito di solidarietà e redistribuzione che faceva capo al re. Nodo di questo circuito era il carattere militare del potere regio: i re erano garanti della pace e della giustizia, quindi la loro funzione principale era quella di capi militari. All’inizio del VII secolo il regno visigoto è in piena fase di consolidamento: si completò la conquista della penisola iberica nel 625; la conversione al Cattolicesimo fu completata; il processo di centralizzazione del potere, tramite la redazione delle leggi (Liber iudiciorum), fu completata dal re Recesvinto nel 654. L’ideale regio richiamava la tradizione imperiale. Il modello era l’Impero cristiano, fondato sulla cooperazione tra il sovrano e i vescovi; espressione di tale modello fu il concilio di Toledo. I concili erano sia assemblee ecclesiastiche sia organi di governo regio: i concili di Toledo avevano una funzione di guida del popolo visigoto sotto il doppio aspetto di cura delle anime e di governo degli uomini. 27 La capacità dei Pipinidi di agire all’interno del regno franco, ma anche al di fuori si può cogliere con l’aiuto prestato, prima da Carlo Martello e poi da Pipino III, al monaco Wynfrith; originario del Wessex, il papa Gregorio II nominò vescovo (con il nome di Bonifacio) e inviò come missionario tra Turingi, Frisoni e Sassoni, dove operò dal 722 al 754, anno del suo martirio. L’azione di Carlo Martello e di Pipino III ci dice tre cose: • L’apertura verso i territori orientali, su cui alla fine del secolo si affermerà il dominio franco • La tutela delle chiese e della loro espansione, una funzione tipicamente regia • I collegamenti indiretti con il vescovo di Roma; legami che in seguito, nel contesto del colpo di Stato del 751, portarono a un’alleanza stabile 2. Terre e uomini Le gerarchie sociali altomedievali erano costituite sulla ricchezza fondiaria: essere ricchi significava avere molte terre. Le campagne altomedievali erano uno spazio a bassissima densità abitativa. Il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi; era raro l’insediamento sparso. Il villaggio era un nucleo di case contadine attorno alle quali si sviluppavano una serie di cerchi concentrici, che comprendevano le principali risorse agrarie. Il sistema di rotazione biennale: ad anni alterni, metà delle terre erano coltivate a cereali e metà lasciate incolte e destinate al pascolo. La terra di una singola famiglia contadina non era centrata in un singolo settore del territorio del villaggio, ma era frammentata e dispersa. Le distese boschive incolta: «incolto» non significava «improduttivo»; si prendeva la legna, si raccoglievano i frutti, si allevavano gli animali, si cacciava e si pescava. Erano beni comuni, gestiti e sfruttati collettivamente dagli abitanti del villaggio. Il nemus, il bosco, è uno spazio antropizzato; la silva, la foresta, i boschi lontani e inaccessibili. In tutte le regioni d’Europa convivevano grandi e piccole proprietà, con equilibri e rapporti molto diversi da zona a zona: dove la grande proprietà era dominante, re, aristocratici e chiese disponevano di una maggiore capacità di condizionamento della società circostante, perché un maggior numero di contadini era costretto, per sopravvivere, a coltivare le terre dei potenti. Tra VII e VIII secolo si andò elaborando la curtis, affermatasi prima di tutto in ambito franco: l’organizzazione curtense restò come modello prevalente fino al secolo XI. La curtis, in genere, era un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in molti villaggi diversi, inframezzati alle terre di altri grandi e piccoli proprietari. In una singola curtis confluivano terre con caratteristiche e collocazioni diverse, produzioni diversificate; il proprietario aveva un ruolo importante in molti villaggi diversi. 30 Curtis e villaggio erano due strutture diverse: la prima era una forma di gestione delle ricchezze fondiarie di un grande proprietario; il secondo era una struttura insediativa. Dal punto di vista gestionale la principale articolazione della curtis era la divisione tra dominicum e massaricium. Il dominicum era la parte gestita direttamente dal proprietario (signore, dominus) con l’impiego di manodopera servile; il massaricium era la parte suddivisa in terre date in concessione a contadini liberi, che ottenevano ognuno un manso, ovvero un insieme di terre e prati sufficienti a mantenere la propria famiglia. Il massaro aveva nei confronti del proprietario un insieme di obblighi: censo in denaro (spesso una quota dei prodotti), una serie di corvées, ovvero di giornate di lavoro che il massaro doveva compiere sul dominicum. Logistica gestionale: le corvées garantivano l’afflusso sul dominicum di una manodopera abbondante negli specifici momenti dell’anno in cui era necessaria, lasciando invece la più ridotta manodopera servile la gestione delle terre nei periodi meno intensi. Nel sistema curtense i contadini usavano il proprio lavoro per pagare i censi e il signore usava la terra per pagare la manodopera stagionale del dominicum. I limiti di tale sistema erano la rigidità degli obblighi di lavoro dei massari: gli obblighi dei massari erano definiti e stabili. Ogni cambiamento del dominicum comportava una serie di riassestamenti non facili da attuare. Ma la curtis era un modello gestionale adeguato al contesto economico complessivo, a debole circolazione monetaria. Distinzione tra servi (impegnati stabilmente a lavorare sul dominicum) e liberi (che ottenevano le terra del massaricium). Per l’età altomedievale si usa il termine «servi», mentre schiavi è riservato all’età antica; ma servi e schiavi avevano molto in comune: erano uomini e donne non liberi, comprati e venduti, esclusi dal rapporto diretto con il potere regio. Le differenze: nel medioevo i servi erano considerati parte della comunità cristiana, potevano ottenere terre in concessione. Il sistema altomedievale non era fondato prioritariamente sulla manodopera servile. La distinzione tra servi del dominicum e liberi del massaricium andò complicandosi per motivi connessi a squilibri tra le terre delle curtis, le esigenze dei proprietari e la manodopera disponibile. In molti casi si realizzò uno squilibrio tra un’abbondante manodopera servile e la disponibilità di terre del massaricium, per cui si scelse di affidare mansi a famiglie servili; esse mantennero la propria distinzione servile, ma la proiettarono sul manso e sugli obblighi connessi. Il loro manso era considerato un manso servile. Talvolta i contadini liberi prendevano un manso servile; questo non comportava un cambiamento della loro condizione giuridica, perché i nuovi occupanti del manso restavano giuridicamente liberi. All’interno di un villaggio vi coesistevano condizioni giuridiche molto diverse; gli uomini si trovavano a rispondere in modo diverso rispetto a un ricco proprietario. Ma tutto ciò non implica che la società contadina fosse appiattita in un’unica condizione socio-giuridica come la «servitù 31 della gleba»: non tutti erano servi, e chi era servo lo era personalmente, non per un vincolo alla terra, alla «gleba». Chi era massaro era legato al signore da un contratto; chi era servo era proprietà del signore. 3. Reti di scambio A lungo si è ritenuto che la curtis fosse un sistema chiuso e autosufficiente; questa immagine è stata via via corretta su molti piani. Il punto di partenza è costituito da alcune leggi emanate in piena età carolingia, e in particolare il Capitulare de villis, ovvero la legge sulle curtes (il termine villa e curtis sono sinonimi). Emanata da Carlo Magno, si prevede che ogni curtis abbia al proprio interno ogni tipo di attrezzo e di artigiano; anche una varietà di prodotti agrari e di oggetti che dovranno essere raccolti all’interno dell’azienda. Ma la legge è la costruzione di un’ideale, non la realtà effettiva; rappresenta come si vorrebbe che la realtà fosse. Carlo Magno stava imponendo un funzionamento a tutte le curtes di proprietà regia: inoltre, la legge rappresenta la volontà di autonomia economica. La situazione normale, che le fonti ci tramandano, è ricca di mercati settimanali, dove la confluenza dei prodotti della curtes va verso la città; la confluenza dimostra anche una piccola disponibilità di moneta nelle mani dei coloni. I re, le chiese e i nobili franchi erano ricchi e potenti, anche più delle aristocrazie di altri regni contemporanei. Il loro obiettivo era di trarre dalle terre il massimo disponibile, giacché la forza dell’aristocrazia era fondata su una ricchezza fondiaria, che poneva la società contadina in una condizione di oggettiva debolezza. L’aristocrazia aveva, dunque, il potere di imporre forti richieste di censi e lavoro. Pure non ci troviamo di fronte a una società priva di scambi e moneta. Era una rete commerciale che trovava i suoi punti di riferimento sia nelle città, sia nelle curtes: le città erano centri demici a maggiore concentrazione di popolazione non contadina che cercava un regolare afflusso di derrate dalle campagna; le curtes erano i principali centri di produzione, dove i surplus erano indirizzati verso gli sbocchi commerciali. Lo scambio commerciale di prodotti agrari era fortemente condizionato dai grandi proprietari fondiari, in grado di portare sul mercato grandi quantità di prodotti e quindi di determinare di fatto i prezzi. Emblematico è il passo della ‘Cronaca di Novalesa’ (pag. 93). È interessante notare come la capacità commerciale dei grandi fondiari poteva rendere per loro più interessante prelevare censi in natura piuttosto che in denaro: accumulando i prodotti del dominicum e del massaricium, potevano rappresentare una forza commerciale notevole, in grado di 32 Alboino riuscì ad attivare un circolo virtuoso: il progetto di conquista dell’Italia offriva buone prospettive, questo attirò nuovi gruppi armati, che a loro volta rafforzarono Alboino. Alboino e i Longobardi valicarono le Alpi nel 568 e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua, che divise l’Italia in due parti: il regno longobardo e i domini imperiali. I longobardi controllavano la pianura padana, la Tuscia, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, la Puglia, la Calabria e le grandi isole. Le strutture di potere: il popolo-esercito longobardo era organizzato in corpi militari chiamati farae, un termine da collegare alla radice germanica di fahren, viaggiare. A capo di queste farae troviamo dei capi, duces: essi erano guide militari, ma anche coloro che guidavano e comandavano l’intero popolo longobardo. Il potere regio nasceva prima di tutto dal coordinamento delle farae e dei duchi. I duchi si stanziarono nelle diverse regioni del regno longobardo, tuttavia non possiamo ragionare ancora in termini di ducati, di circoscrizioni territorialmente definite, ma di sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediavano. Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura si innestava il potere regio. Il re era prima di tutto una guida militare. Il re longobardo era elettivo, teoricamente scelto dall’assemblea degli esercitali (uomini liberi appartenenti all’esercito), ma di fatto nominati dai duchi. In contrapposizione il re non nominava i duchi. Non c’era alcun automatismo, né dinastia di lunga durata. Re Alboino fu ucciso – forse da una congiura di palazzo, forse con l’appoggio dell’Impero – nel 572, e a lui succedette Clefi, che però rimase in carica solo due anni, per essere poi anch’egli ucciso. Dal 574 al 584, i Longobardi rimasero senza un re: i duchi ritennero che un re non fosse necessario, fosse un’inutile complicazione per un potere che di fatto risiedeva concretamente nelle loro mani. Dieci anni dopo, in seguito alle pressione dei Franchi, i duchi si convinsero a scegliere nel 584 un nuovo re. Da qui in avanti i Longobardi non ebbero sempre un re; la persona scelta nel 584 come re fu Autari, figlio di Clefi (il re ucciso nel 574). Da qui in avanti vediamo giocare continuamente i due principi, elettivo e dinastico. Ma l’idea di «principio dinastico» non significava solo successione di padre in figlio; così, alla morte di Autari, i Longobardi posero la successione nelle mani della vedova Teodolinda, che sposando il duca Agilulfo ne fece il nuovo re. La progressiva costruzione dell’egemonia regia avvenne nella fase matura del regno, ovvero tra VII e VIII secolo. Tuttavia dobbiamo notare come al contempo, fin dai primi anni, si affermasse nel regno una pratica politica rilevante, e cioè l’identificazione di una capitale: Pavia. Pavia fu la sede del re e degli organismi che a lui facevano capo; questa scelta, compiuta nei primi decenni del 35 regno, ebbe ripercussioni a lungo termine, tanto che Pavia rimase la capitale del regno e sede del palatium regio fino al secolo XI. Ma molte altre città del regno conservarono una funzione politica come residenze dei duchi. Certo, le città italiane in questi decenni subirono un significativo declino; però si trattò della manifestazione più chiara del mutamento delle funzioni urbane nel contrasto del paesaggio dai funzionamenti politici e fiscali di tradizione romana a quelli tipici dei regni altomedievali. 2. Longobardi e Romani La coppia formata da Teodolinda e Agilulfo si presta per iniziare una riflessione sulle identità etniche nel regno, poiché infatti la prima era bavara e il secondo turingio. Essa rappresenta un’immagine efficace della fluidità del popolo longobardo. I segni del continuo processo di etnogenesi si colgono attorno alla metà del secolo VII, nella ‘Origo gentis Langobardorum’ («L’origine del popolo dei Longobardi»), un racconto delle vicende del popolo longobardo dalle origini fino alla costruzione del regno d’Italia. E l’origine dei Longobardi si pone – in questa narrazione – tra guerra e religione: i Winnili combattono i Vandali al seguito dei propri capi, Ibor e Aione, ma sarà solo il dio Wotan, concedendo loro la vittoria e attribuendo il nome di «Longobardi», a sancire la vera e propria genesi di questo popolo. Le altre fonti scritte sono assai elusive: il termine «Langobardi» sembra essere usato per indicare l’insieme delle persone sottoposte al potere del re longobardo, così come «Romani» identifica gli abitanti di quelle parti d’Italia rimaste in mano imperiale. Sono infine da trattare con prudenza le fonti archeologiche, e in particolare i corredi funerari; corredi che scompaiono attorno alla metà del VII secolo (scramasax, una spada usata dai Longobardi). Al momento dell’invasione, la ricchissima aristocrazia senatoria subì una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri; gli aristocratici romani furono esclusi dal potere nel regno, subirono importanti espropriazioni, emigrarono verso le aree imperiali riunendosi attorno alle grandi chiese vescovili di Roma e Ravenna. Ma nel giro di poche generazioni la convivenza egli stessi luoghi, i matrimoni misti e l’assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica, lasciando un peso sempre maggiore alle differenze politiche, alla dipendenza dal re longobardo o dall’imperatore. La religiosità longobarda, al momento della discesa in Italia, comprendeva credenze pagane tradizionali e Cristianesimo ariano. La fede ariana divenne un perno attorno a cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai Romani. Paolo Diacono, parlando del regno di Rotari (636-652), un re ariano, dice: «in quasi ogni città del suo regno c’erano i due vescovi, uno cattolico e uno ariano». Inoltre, Teodolinda era cattolica, mentre il re Agilulfo restò ariano, ma acconsentì al battesimo cattolico del figlio Adaloaldo e appoggiò l’opera missionaria del 36 monaco irlandese Colombano. Questo non fu l’avvio di una conversione dei re o dell’intero popolo longobardo al Cattolicesimo: vediamo piuttosto una lunga convivenza di Cattolicesimo e Arianesimo nel popolo e nella corte, a al contempo una tendenza alla conversione dei Longobardi al Cattolicesimo. Questa convivenza di due fedi ridusse rapidamente le potenzialità dell’Arianesimo come fattore di consolidamento. In Italia non si realizzò quel processo di simbiosi tra il regno e i vescovili; le cariche vescovili non divennero – come accadde invece altrove – un obiettivo politico per l’élite del regno. L’identità ariana e la lenta e contrastata conversione al Cattolicesimo contribuirono anche all’ostilità che oppose il regno al vescovo di Roma . Questa ostilità ebbe origine politico- territoriale, cioè la frammentazione del territorio tra la dominazione longobarda e quella imperiale, le quali avevano molti punti di tensione. La componente religiosa intervenne a dare forza ideologica alla tensione, a delineare i re longobardi come «eretici» contro i quali dovevano coalizzarsi le forze cattoliche della penisola. La tensione non fu mai superata di fatto. Roma era l’unica sede patriarcale dell’Occidente e un fondamentale centro religioso di grande prestigio, in quanto sede dei successori di Pietro. Ravenna fu scelta dall’esarca (il funzionario imperiale incaricato di governare l’Italia) e contese a Roma il ruolo di centro dell’Italia imperiale. Papa Gregorio Magno (590-604): discendente di una famiglia dell’aristocrazia senatoria, Gregorio aveva un altissimo livello culturale e una grande capacità di muoversi sul piano politico e amministrativo. La società romana dovette prendere atto di quanto fosse ormai illusorio conservare alcune funzioni e simboli del governo imperiale: in questi anni abbiamo le ultime attestazioni della carica di praefectus Urbis (il funzionario imperiale incaricato di governare da Roma gran parte dell’Italia), carica ricoperta dallo stesso Gregorio prima di divenire vescovo di Roma, e poi ancora da un tal Giovanni, forse fratello di Gregorio. A questi stessi anni risale l’ultima riunione del Senato romano. Si venne così a creare a Roma un vuoto di potere. Gregorio usò il ricchissimo patrimonio vescovile per garantire afflusso di grano in città, agendo come tutore dell’identità comune; così fece anche il vescovo di Ravenna. Nel caso di Roma e di Gregorio constatiamo una prospettiva più pienamente politica, ad esempio quando lo vediamo contrattare con i Longobardi per definire forme di equilibrio tra due dominazioni. Le ambizioni papali furono fondamentali nel determinare la persistente tensione e ostilità nei confronti del dominio longobardo. La Sicilia, nei decenni centrali del VII secolo, visse l’espansione araba, che sottrasse al controllo imperiale sia l’Egitto sia la provincia della Proconsularis (pressappoco la Tunisia), ovvero i due grandi granai dell’Impero; tale funzione fu attribuita sempre più alla Sicilia. 37 Attorno alla metà dell’VIII secolo il regno longobardo si era consolidato al proprio interno: si era completato il processo di integrazione tra Romani e Longobardi. Segno evidente è, nelle leggi emanate da re Astolfo nel 750, la normativa sugli obblighi militari senza alcun riferimento a una distinzione etnica. Negli anni centrali dell’VIII secolo l’equilibrio politico tra Franchi, Longobardi e papato si ruppe: con il papato si arrivò a una rottura insanabile, e questo orientamento papale si saldò con la potenza crescente del regno franco dei Pipinidi/Carolingi. I papi videro nei re franchi dei validi protettori della Chiesa romana. L’alleanza tra il papato e i Carolingi si concretò in due spedizioni: nel 754 Pipino il Breve scese in Italia, sconfisse Astolfo, tolse ai Longobardi la regione di Ravenna e la diede alla Chiesa di Roma. Vent’anni dopo il figlio, Carlo Magno, sconfisse di nuovo i Longobardi, depose il re Desiderio e si impossessò del regno annettendo l’Italia centro- settentrionale al dominio franco. Carlo si intitolò rex Francorum et Langobardorum: Pavia rimase capitale del regno d’Italia, il quale mantenne gli stessi confini che aveva sotto il controllo longobardo. I Longobardi, dopo il 774, sopravvissero nell’antico ducato di Benevento come dominazione autonoma. Nei secoli successivi il principato di Benevento si andò via via segmentando in unità politiche minori. Solo nel secolo XI i Normanni ricostituirono l’unità politico-territoriale dell’Italia del sud, riunendo le piccole dominazioni di origine longobarda e bizantina del continente, e annettendosi poi la Sicilia. CAPITOLO 3 Impero carolingio, ecclesia carolingia L’impero carolingio trasformò in profondità molti aspetti della vita associata: le reti di scambio, il ruolo delle chiese e del papato, i funzionamenti della giustizia. Impero carolingio ed ecclesia carolingia: si tratta della piena simbiosi tra due realtà che appaiono separate ai nostri occhi, ma non a quelli degli uomini del IX secolo: l’ecclesia era l’insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi e nell’imperatore, che convergevano con strumenti diversi un doppio fine, la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. 1. Dal regno all’Impero 40 Nei decenni a cavallo tra VII e VIII secolo, i regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale: i Pipinidi. I passi specifici che portarono all’incoronazione di pipino non sono facili da cogliere. Il punto più sfuggente è il ruolo del papato; nella narrazione degli ‘Annali del regno dei Franchi’, pone l’intervento papale (papa Zaccaria) prima dell’incoronazione; ma nella deposizione di Childerico l’effettivo ruolo papale fu probabilmente minimo e la scelta nacque invece all’interno del mondo franco. Fu grazie alla grande aristocrazia, che i Pipinidi riuscirono a raccogliere attorno a sé, che il colpo di Stato ebbe successo: esso si attuò rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma e procedendo al rito dell’unzione del nuovo re, Pipino III, da parte del monaco Wynfrith. Nel 754 il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, davanti alla minaccia Longobarda, l’Impero bizantino non era in grado di offrire un sostegno efficace. Quindi si volse al nuovo re dei Franchi; superò le Alpi per incontrare Pipino a Saint-Denis, dove ripeté l’unzione sia del re sia dei suoi figli, Carlo e Carlomanno. Papa Stefano cercava un potere che assumesse in modo permanente le funzioni di protezione della Chiesa di Roma. L’incontro di Saint-Denis fu la premessa per una spedizione franca in Italia, ma l’attribuzione a Pipino del titolo di patricius (protettore della Chiesa di Roma) andava al di là del contingente intervento militare. Pipino si trovò di fronte alla necessità di mettere in gioco un sistema di atti di legittimazione: il rinnovo dell’unzione da parte di Stefano II; l’alleanza stabile con Roma; la costruzione di un racconto dell’ascesa al trono orientato a legittimare la deposizione di Childerico. A quest’ultima esigenza ci pensò ancora Eginardo, biografo di Carlo Magno, che scrisse dopo l’814. È proprio da Eginardo che nacque la tradizione dei «re fannulloni». La spedizione di Pipino in Italia contro i Longobardi fu un’azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti del papato e delle terre imperiali. Pipino scese in Italia, sconfisse Astolfo, lo costrinse a restituire al papato le terre conquistate e poi tornò in Gallia. Pipino morì nel 768. La vedova Bertrada e i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari: Carlo o il fratello (o forse entrambi) si unirono con due figlie del re longobardo Desiderio (o quanto meno fu progettato); una terza principessa longobarda sposò il duca di Baviera Tassilone. Dopo la morte di Carlomanno, Carlo si avviò verso una politica di chiara espansione militare, rompendo i rapporti amichevoli con i Longobardi e i Bavari. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato parte del patrimonio del re. Questo modello di trasmissione del potere non ebbe fine con i Pipinidi/Carolingi, ma i nuovi re poterono fruire di un lungo periodo in cui il potere rimase a un solo re: Pipino, il cui 41 fratello Carlomanno aveva scelto una vita religiosa; poi Carlo, che condivise il potere con il fratello Carlomanno fino alla morte di questo; infine Ludovico il Pio, che dopo la morte dei fratelli rimase unico erede ci Carlo, e regnò dall’814 all’840. L’espansione territoriale di intrapresa da Carlo gli guadagnò l’appellativo di Magno. Facevano ora parte del dominio franco la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, la Svizzera, l’Austria e l’Italia centro-settentrionale. La conquista più importante fu quella del regno longobardo per due motivi: Carlo si trovò ad affrontare una struttura politico-territoriale più definita; il rapporto con il papato fece un salto di qualità. La conquista carolingia non andò a comprendere tutta l’Italia, e neppure tutta l’Italia longobarda: la geografia politica dell’Italia appare frammentata tra aree franche, bizantine, papali e longobarde. Carlo, in seguito alla conquista, si intitolò rex Francorum et Langobardorum, conservò la capitale a Pavia e assimilò l’aristocrazia longobarda. L’espansione verso la penisola iberica fu modesta: una serie di brevi conflitti si succedettero dal 778 (carolingi sconfitti dai Baschi a Roncisvalle) all’813, e portarono alla costituzione della marca Hispanica, la fascia territoriale a sud dei Pirenei, inquadrata nel regno franco. I conflitti con i Sassoni si erano ripetuti nel corso dell’VIII secolo. Sotto Carlo Magno l’azione militare franca cambiò progressivamente natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilare complessivamente la popolazione; più decisa era la conquista della coloritura religiosa della Sassonia. Lo scopo di Carlo era la sottomissione e l’assimilazione dei Sassoni, tramite la fondazione di una serie di diocesi in ambito germanico. Una guerra lunga, quella contro i Sassoni, che durò dal 772 all’803. La Baviera fu posta sotto un controllo più diretto, limitando le ambizioni autonomistiche del duca Tassilone, vassallo dei re carolingi; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico-militare, la marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. Le marche erano luoghi di difesa e di scambio. Nel caso dell’area austriaca, Carlo sconfisse in modo netto gli Àvari e impose agli Slavi una forma di egemonia sostanzialmente pacifica. Dinamiche simili si istituirono con i Danesi, le cui incursioni indussero Carlo alla costruzione di un lungo terrapieno noto come Danewirke. Sempre sul piano commerciale si articolarono i rapporti tra il mondo franco e i regni anglosassoni; significativo fu l’influsso dei modelli politici grazie ai quali il re Offa di Mercia diede vita a una larga egemonia sui regno anglosassoni meridionali. La linea d’azione papale negli anni a cavallo tra VIII e IX secolo fu volta al consolidamento di un’egemonia sull’Italia centrale, e alla definizione di un rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. 42 3. Le chiese carolinge I chierici non potevano giurare e non potevano combattere né portare armi: quindi il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Né i vescovi divennero conti: le funzioni di governo territoriale dell’Impero carolingio furono sempre affidate ai laici. Spesso vediamo i vescovi in qualità di missi regi: erano i vescovi, in quanto tali, a considerarsi e ad agire come collaboratori del re. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculiari del clero, come la capacità di orientare le anime dei fedeli verso l’ubbidienza al re; ma erano in gioco anche le concrete risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e le loro clientele vassallatiche. Nei capitolari (ovvero le leggi) l’imperatore poteva dare ordini ai propri vassalli, ai conti, ai marchesi, ai vescovi e agli abati. I monasteri non avevano compiti pastorali, non guidavano le anime dei fedeli laici. Erano nuclei di santità, centri di preghiera e di ascesi; erano luoghi fondamentali per l’elaborazione culturale; erano grandi punti di concentrazione di ricchezze. Tutti questi aspetti devono essere tenuti presente per comprendere l’impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò con la riforma promossa da Ludovico il Pio e attuata da Benedetto di Aniane, che consolidò la disciplina interna ai monasteri e impose la Regola di Benedetto. Le chiese non erano concepite come enti estranei al potere imperiale, ma piuttosto come sue articolazioni locali; esse cooperavano al controllo regio sulla società. I diplomi di immunità – concessi di norma a chiese e più raramente a singoli individui – vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere le tasse o per amministrare la giustizia. Per quanto riguarda quest’ultima, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava di un’ampia esenzione. Tali diplomi erano forme di riequilibrio tra i diversi elementi: l’apparato funzionariale, il patrimonio fiscale e le chiese. Gli intellettuali, che si riunirono alla corte di Carlo Magno e Ludovico il Pio, collaborarono a costruire la memoria del popolo franco e della dinastia carolingia. «Costruire la memoria» significa operare alcune scelte narrative e ideologiche ben precise; esaltare le imprese dei maestri di palazzo dei pipinidi (come la battaglia di Poitiers); o la creazione della leggenda dei «re fannulloni», gli ultimi Merovingi. La cultura di corte operava quindi in ambiti diversi: le leggi e gli atti di governo. Strumentale a tutto ciò era la lingua latina; è indubbio che nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari. Ma la lingua del potere, della liturgia e in generale dello scritto era il latino, la cui efficacia attraversava 45 tutti i territori dell’Impero. Il IX secolo fu anche un fase di intesa copiatura e circolazione dei testi antichi. 4. Dall’Impero ai regni La morte di Carlo Magno nell’814 e la divisione dell’Impero tra i figli di Ludovico il Pio negli anni ᾿40 rappresentarono importanti momenti di transizione, ma non mutarono in profondità la natura e l’efficacia del potere regio. Durante i decenni di potere di Carlo e di Ludovico, si svilupparono delle aspirazioni dei diversi membri della famiglia regia. Il problema si pose prima di tutto a Carlo nei primissimi anni del secolo, di fronte alla prospettiva di una divisione trai i suoi tre figli: Carlo (a cui destinò la parte centrale), Ludovico (l’Aquitania) e Pipino (Italia). La Divisione dei regni dell’806 individuò diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma insistette al contempo sul totum corpus regni e su un’idea di Impero come sovrastruttura istituzionale. La morte precoce di due figli fece sì che l’unico erede fosse Ludovico il Pio: il nuovo imperatore dovette gestire le ambizioni dei propri figli e quelle di Bernardo, re d’Italia, figlio del fratello Pipino. Ludovico affrontò la situazione con l’Ordinatio imperii (l’ordinamento dell’Impero) dell’817: affermò con forza l’Idea di unità dell’Impero e ruppe con la tradizione franca di spartizione; nominò il primogenito Lotario come suo unico erede e attribuì ai figli Pipino e Ludovico nuclei territoriali minori (rispettivamente l’Aquitania e la Baviera; Ludovico sarà noto come il Germanico). Fu una scelta che portò alla ribellione del nipote Bernardo, escluso da ogni prospettiva ereditaria. La ribellione non ebbe successo, Bernardo fu imprigionato e accecato. Ma la sua vicenda è per noi importante perché mostra come in questi decenni le clientele aristocratiche attorno ai Carolingi davano vita a forme di solidarietà di respiro più regionale: il radicamento italiano prima di Pipino, poi del figlio Bernardo, aveva dato vita a una rete clientelare specificatamente italica. Un’ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita nell’823 di Carlo il Calvo, figlio di Ludovico il Pio e della sua nuova moglie Judith, la quale tentò in seguito di riaffermare il principio tradizionale della patrimonialità del potere regio. Judith orientò la politica di Ludovico in direzioni assai diverse dall’Ordinatio Imperii dell’817. Nell’833 Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal suo primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico), i quali si vedevano minacciati dal ruolo crescente di Carlo e arrivarono fino a far deporre il padre in un concilio in cui i vescovi franchi lo dichiararono indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Le discordie tra i figli permisero a Ludovico di tornare sul trono già l’anno successivo. 46 Alla morte di Ludovico il Pio, nell’840, scoppiò un conflitto aperto tra Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (mentre il fratello Pipino era già morto nell’838). Tre passaggi sono significativi: la battaglia di Fontenoy dell’841, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli; i giuramenti di Strasburgo, che nell’842 sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo; e la pace di Verdun dell’843, che pose fine al conflitto. A Fontenoy la battaglia si risolse in un massacro, mostrando come l’unità dell’aristocrazia attorno al potere imperiale fosse finita, sostituita da reti di solidarietà clientelare che facevano capo a diversi re. A Strasburgo Ludovico e Carlo si coalizzarono contro Lotario con un doppio giuramento; particolare è la formula con il quale venne fatto, perché, per farsi comprendere dai due eserciti, Carlo prestò giuramento in tedesco e Ludovico in lingua romanza. A Verdun i tra fratelli si spartirono l’Impero: a Carlo andò il regno dei franchi occidentali (approssimativamente la Francia), a Ludovico il Germanico quello dei Franchi orientali (Germania), Lotario ottenne una fascia intermedia che andava dall’Alsazia fino all’Italia. Fu Lotario a mantenere il titolo imperiale e la funzione di tutore della Chiesa. Nell’843 si rinnovò e si rese operativa la tradizione franca di spartizione del regno, e si rinunciò a un’idea di Impero come struttura operativa unitaria. La seconda metà del secolo fu segnata da una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo, che culminò con la sua incoronazione imperiale dell’875, poco prima della morte (877); i figli di Lotario assunsero in vari momenti poteri regi in Italia, Provenza e in Lorena, mentre i figli di Ludovico il Germanico si affermarono in Baviera. Nell’888 un figlio di Ludovico, Carlo il Grosso, segnò con la sua morte la fine politica di vertice della dinastia. Successivamente i Carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni (Arnolfo in Germania dall’888 all’899, Carlo il Semplice in Francia tra il 912 e il 922 e i suoi discendenti tra 936 e 987) ma non furono più la dinastia dominante. Si può concludere delineando quattro ampie fasi della storia dei Pipinidi/Carolingi: • Dall’inizio del VII secolo e fino al 751 furono una grande dinastia dell’aristocrazia austrasiana, che costruì il proprio potere all’interno del regno merovingio; • Dal 751 all’840 – con Pipino III, Carlo Magno e Ludovico il Pio – un singolo re carolingio controllò il popolo franco prima, e un grande impero poi; • Dall’840 (la morte di Ludovico il Pio) all’888 (la morte di Carlo il Grosso) il sistema di potere carolingio si articolò in regni distinti e separati, senza una vera unità dinastico- territoriale; • Dall’888 al 987 (la morte senza eredi di Ludovico V, re di Francia) i Carolingi furono una delle dinastie che, nei diversi regni, si contendevano il potere, in una fase particolarmente conflittuale. 47 Il piano economico: le conseguenze economiche dell’espansione araba per i bizantini furono catastrofiche. Bisanzio traeva sostegno dalle province più produttive sul piano agrario come l’Egitto, la Tunisia e la Sicilia. La perdita delle prime due costrinse l’Impero a ridurre i propri orizzonti politico-militari, e dovette dare una nuova importanza alla Sicilia. Dal punto di vista amministrativo e fiscale il califfato fu pienamente un erede delle strutture romane e conservò un sistema di prelievo coerente con i precedenti modelli imperiali. 2. Bisanzio: crisi e riorganizzazione di un Impero Dalla metà del VII secolo alla fine dell’VIII, l’Impero romano d’Oriente subì gli effetti dell’affermarsi di due nuove dominazioni: l’espansione dell’Islam da un lato e la dominazione carolingia in Europa dall’altro. È a partire da questa fase che possiamo parlare di Impero «bizantino». I mutamenti tra VII e VIII secolo tolsero all’Impero una prospettiva universale, trasformandolo definitivamente in una dominazione regionale polarizzata sull’Egeo e attorno alla capitale. Dalla fine del VI secolo andò declinando il grande progetto giustinianeo. I successi militari effimeri e la ripresa delle pressioni sul confine avevano svuotato le casse imperiali, portando a una condizione di irrequietezza di settori dell’esercito che faticavano a ricevere gli stipendi. Infine, le tensioni religiose avevano reso difficili i rapporti sia con la cristianità occidentale sia con le regioni che avevano conservato posizioni monofisite. Sul piano militare la svolta fu segnata dal regno di Eraclio (610-641), che si affermò sull’Impero persiano fino a eliminarne la minaccia per Bisanzio. Sotto il suo regno si avviò una lunga riforma introducendo il cosiddetto ordinamento tematico: si abbandonò il sistema provinciale organizzato da Costantino, in favore di un’organizzazione per temi (la parola thema in origine si riferiva a un corpo militare, passò a indicare una struttura istituzionale di una piccola regione). Al suo interno, la difesa fu affidata a militari di professione, il cui mantenimento era garantito dalla concessioni di terre e di esenzioni fiscali. Fu una trasformazione che fu avviata da Eraclio e compiuta dai suoi successori lungo il VII e l’VIII secolo. Qui si situa un duplice mutamento: la riunione dei poteri militari e civili nelle stesse mani e l’abbandono del sistema di finanziamento dell’esercito basato su tasse e stipendi. Un nuovo momento di rottura nella storia bizantina fu rappresentato – tra la metà dell’VIII secolo e la metà seguente – dal movimento iconoclasta e dalla sua affermazione alla corte imperiale. L’iconoclasmo fu un orientamento religioso che riteneva necessaria, per un culto più puro, la distruzione delle immagini religiose: contestare le immagini di Cristo, sul piano intellettuale, era facile perché esse potevano rappresentare la natura umana del Cristo e non quella divina. Gli iconoduli (coloro che difendevano le immagini) rispondevano ricordando che il concilio 50 di Calcedonia aveva ribadito che entrambe le nature avevano conservato le proprie caratteristiche, e quindi era lecito rappresentare la natura umana di Cristo. L’editto dell’imperatore Leone III, del 730, vietò la venerazione delle immagini. Questo finì per creare gravi conflitti all’interno e all’esterno dell’Impero: all’interno, perché il culto delle immagini aveva un grande rilievo per la religiosità dei monaci e laici; all’esterno, perché poneva Bisanzio in diretta contrapposizione alla Chiesa di Roma. Imperatori come Leone III e Costantino V erano alla ricerca di una religiosità più austera e di un’ortodossia rigorosa. Vi furono anche esigenze di ordine politico; nell’iconoclasmo vi era la volontà di rivendicare il ruolo dell’imperatore come principale mediatore tra il mondo e Dio. Nel concilio di Hierea del 754, Costantino V ottenne la condanna formale del culto delle immagini. La condanna di Hierea non fu l’esito di un concilio ecumenico, ma fu opera solo della Chiesa bizantina, dato che fu dura l’opposizione del mondo monastico. I monaci furono promotori della resistenza all’iconoclasmo e furono oggetto di condanne e persecuzioni. La pressione iconoclasta si attenuò con Leone IV (asceso al trono nel 775) e poi con la vedova Irene, che alla morte del marito, nel 780, assunse la reggenza in nome del figlio. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini, senza porre fine ai conflitti tra iconoclasti e iconoduli. L’iconoclasmo fu riaffermato, in forme più moderate, nel concilio di Costantinopoli dell’815, ma in questi decenni la sua funzione andò esaurendosi. Il movimento iconoclasta andò così a indebolirsi, fino a essere condannato in un nuovo concilio di Costantinopoli nell’843. L’orientamento iconoclasta di Bisanzio fu un elemento di allontanamento tra le due chiese (Roma e Costantinopoli). La scelta papale di trovare nel regno franco il nuovo protettore della Chiesa aveva un concreto fondamento geo-politico; ovvero la progressiva marginalizzazione dell’Impero bizantino rispetto al territorio italiano. Le fonti tra VIII e IX secolo mostrano che molti dei territori italiani formalmente appartenenti all’Impero bizantino seguirono strade che li portarono verso forme di più ampia autonomia. La più solida base italiana dell’Impero bizantino fu la Sicilia: qui, però, l’azione imperiale fu interrotta dalla conquista islamica lungo il IX secolo. 3. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti da una nuova dinastia, gli Abbasidi, discendenti di uno zio di Muhammad. Il mutamento segnò lo spostamento della capitale nella neonata città di Baghdad; la natura del califfato perse le caratteristiche arabe per divenire più pienamente un dominio islamico. L’articolazione territoriale ed etnica del califfato: gli emiri (delegati del califfo a governare ampi territori) assunsero una piena autonomia d’azione. Nell’800 il califfo Harun al-Rashid delegò il governo dell’Ifriqiya (il Nordafrica) all’emiro Ibrahim al-Aghlab, gli concesse anche di trasmetter 51 la dignità all’interno della propria famiglia (gli Aghlabiti), la quale realizzò la conquista della Sicilia. Alla fine del X secolo fu l’Egitto a rendersi autonomo, grazie alla dinastia dei Fatimidi, i quali rivendicarono per se stessi il titolo califfale (910). La penisola iberica fu sottoposta al dominio islamico dall’inizio dell’VIII secolo: l’area assunse una fisionomia politica più definita quando prese il potere un principe omayyade. L’emirato di al- Andalus convisse a lungo con i regni cristiani. Esso seppe coordinare sotto di sé una popolazione molto varia, che comprendeva l’aristocrazia araba, le truppe berbere e le popolazioni locali. L’emirato finì per affermarsi come una delle maggiori potenze europee del secolo X, tanto che gli emiri di al-Andalus assunsero un titolo califfale nel 929, in diretta concorrenza sia con gli Abbasidi di Baghdad, sia con i Fatimidi d’Egitto. Il dominio islamico, incentrato su Cordova, finì per articolarsi in dominazioni autonome (tayfas), che, a partire dalla fine dell’XI secolo, subirono la pressione militare dei cristiani durante la Reconquista. La conquista della Sicilia: dall’827 gli Aghlabiti dell’Ifriqiya avviarono una vera e propria campagna di conquista, che si concluse alla fine del secolo. La presenza di un dominio organizzato e unitario divenne anche una base per incursioni nelle aree peninsulari, fino ad affermare per alcuni decenni il controllo islamico su Bari. Alla fine dell’XI secolo, l’isola fu conquistata dai Normanni e riunita all’Italia peninsulare meridionale. Nell’867 salì al trono del dominio bizantino Basilio I, i cui discendenti (i Basilidi) conservarono il potere fino al 1025 e segnarono una fase di rafforzamento di Bisanzio. Gli imperatori basilidi costruirono una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti, un insieme di territori formalmente autonomi, ma che rientravano dell’orbita di influenza dell’Impero. L’Europa orientale e l’Italia meridionale furono l’oggetto della pressione egemonica degli imperatori bizantini e carolingi. La divisione tra le chiese di Roma e di Costantinopoli: sul piano delle gerarchie ecclesiastiche si raggiunse una forma di compromesso alla fine del IX secolo, con il riconoscimento della superiorità formale di Roma, priva di concrete implicazioni giurisdizionali; sul piano teologico le divisioni non furono mai sanate. Una questione chiave, che emerse in questa fase, fu quella detta del Filioque: il Credo elaborato a Nicea nel 325 aveva subito un’interpolazione nella sua versione latina, la quale recitava che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (Filioque), posizione ritenuta inaccettabile dal clero orientale, poiché affermava che lo Spirito procedesse unicamente dal Padre. Gli Slavi: la definizione unitaria di «Slavi» è una semplificazione; essi erano un complesso di popoli, con alcuni caratteri culturale e linguistici comuni. Le dominazioni da ricordare sono quelle dei Bulgari e la Grande Moravia. 52 Il secondo processo fu la concentrazione del patrimonio del conte all’interno delle aree da lui governate. Tra la fine del IX secolo e l’inizio del X vediamo come la lunga durata delle cariche e la loro trasmissione ereditaria mutarono le politiche delle dinastie, favorendo il loro radicamento nelle regioni governate. La funzione comitale e la potenza dinastica si fusero con un generale processo di regionalizzazione delle aristocrazie. Questo portò a un’ulteriore mutamento: è dato dal fatto che il conte era anche un grande proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più attento e più presente nelle aree in cui disponeva di terre, chiese, castelli e vassalli. Questo «astensionismo» dei conti da alcuni settori del comitato aveva un validissimo motivo giuridico, quando riguardava le terre delle chiese immunitarie. Sul lungo periodo questi comportamenti portarono alla formazione di poteri locali, ma già nel X secolo si constata come il territorio del comitato fosse il campo di affermazione di diverse chiese e dinastie, che fondavano la propria potenza prima di tutto sul possesso fondiario. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore, indussero o costrinsero in molti casi gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Il potere dei conti era discontinuo. Queste evoluzioni ci mostrano un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari; una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; appare tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re. È in questo contesto che dobbiamo situare le nuove minacce armate della fine del IX secolo. 2. Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni Tra gli ultimi decenni del IX secolo e la metà del X ci furono delle intense mobilità di gruppi armati che dall’esterno dell’Impero carolingio partirono per una serie di incursioni e saccheggi in Italia, Francia e Germania; mentre al di fuori dell’ambito carolingio, esse si spinsero alla conquista dell’Inghilterra. Erano iniziative di piccole bande con intenti di saccheggio, tra le quali possiamo individuare tre identità etniche fondamentali: i Normanni, dalla Scandinavia; gli Ungari, dalle steppe dell’attuale Ungheria; i Saraceni, bande di pirati attivi nel Mediterraneo. I Saraceni rappresentano il gruppo più indefinito e sfuggente. Probabilmente furono gruppi etnicamente misti, impegnati in attività di saccheggio via mare, con incursioni attestate a partire dagli anni ᾿60 del IX secolo. Ma alla fine del secolo, essi costituirono delle basi permanenti sulle coste settentrionali del Mediterraneo, tra cui la più nota è Frazinetum, nella baia di Saint-Tropez; da 55 essa partirono spedizioni di saccheggio sulle Alpi e nell’entroterra. Queste cessarono di colpo dopo il 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si allearono per attaccare e distruggere la base saracena. Le fonti sono costituite pressoché esclusivamente dalle narrazioni prodotte nelle chiese e nei monasteri che subirono le razzie; tuttavia la paura rimane un dato di fondo per la prima metà del X secolo, assieme a un vivo senso di insicurezza. Tutto questo mostra come fosse chiaramente percepita l’insufficienza della difesa militare. Dobbiamo notare come i testi associno i «pagani» ai «cattivi cristiani», a testimoniare come l’insicurezza non nascesse solo dall’esterno, ma prima di tutto proprio dall’interno dei regni. Tra la metà del IX secolo e la metà del X si sono contate una trentina di pesanti incursioni di cavalieri ungari tra la Germania e l’Italia settentrionale. Gli Ungari attraversavano le grandi pianure dell’Europa centrale e le Alpi a cavallo, e sempre a cavallo combattevano. Questa efficacia militare li rese dei nemici pericolosi, ma anche dei preziosi alleati: nella prima metà del secolo X, i diversi aspiranti al trono si allearono con contingenti di Ungari per farli combattere al proprio servizio; e furono ancora le evoluzioni interne al mondo postcarolingio a segnare la fine delle incursioni ungare. Re Ottone I di Sassonia, forte di un nuovo e più efficace controllo sul regno di Germania, guidò l’aristocrazia tedesca nella battaglia di Lechfield (955), che segnò la sconfitta definitiva degli Ungari. Nei decenni successivi si avviò la conversione degli Ungari al Cristianesimo e l’Ungheria divenne un regno stabilmente alleato della Germania. I Normanni: lo sviluppo degli scambi nel mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi in operazioni commerciali e di pirateria, due livelli che spesso si confondevano. Questa mobilità è evidente già tra VIII e IX secolo: verso la Russia e l’Inghilterra; verso le coste settentrionali dell’Europa, tra la Francia e le Fiandre. Queste popolazioni furono identificate con nomi diversi: Vareghi a est, Vichinghi sulle isole britanniche, Normanni nel nord della Francia. Vareghi: a est prevalse la dimensione commerciale, con le navi che risalivano i fiumi per commerciare in profondità fino a trasformane la propria azione economica in stanziamento stabile, con la creazione di emporia. Kiev e Novgorod assunsero una centralità politica nei confronti del territorio circostante e nel corso del X secolo diedero vita a costruzioni politico-territoriali autonome. Il principato di Kiev divenne una delle maggiori dominazioni dell’Europa orientale. In Occidente l’azione militare dei Normanni può essere scandita in tre fasi: • Dai primi decenni del IX secolo si attuarono delle piccole incursioni di rapina sulle coste dell’Inghilterra, della Frisia e della Francia atlantica; • Nei decenni centrali le incursioni crebbero con flotte di decine di navi che permetteva loro di risalire fiumi e attaccare città come Londra (851) e Parigi (885); • Verso la fine del secolo IX le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili all’interno dei regni inglesi della Mercia e dell’East Anglia, e nel nord del regno franco attorno alla foce della Senna; quest’ultimo venne riconosciuto e legittimato dal re Carlo il 56 Semplice, il quale nel 911 investì di questa regione il capo normanno Rollone, dando vita al ducato di Normandia. Carlo il Semplice era un re più debole di Ottone I, e poté ottenere una forma di pacificazione solo con la concessione di un settore rilevante del territorio regio. Ma anche in questo caso si avviò un processo di assimilazione politica e culturale: i Normanni si convertirono al Cristianesimo. Il ducato di Normandia costituì un freno a ulteriori incursioni da parte di altri gruppi di Normanni. Tra X e XI secolo il mare del Nord divenne un mare normanno: tra Scandinavia, Danimarca, Norvegia e Inghilterra si confrontavano poteri regi o principeschi diversi ma strettamente collegati da parentele e alleanze; questa trama fu la base grazie a cui nei primi anni del secolo XI il re Knut riuscì a riunire in una dominazione unitaria i regni d’Inghilterra, di Danimarca e di Norvegia. Conseguenze sul lungo periodo: le incursioni lasciarono un chiaro segno sul piano culturale e dell’immaginario, e la paura di esse divenne un dato dominante per molti decenni. Fu la debolezza del controllo militare regio ad aprire le porte a forme di brigantaggio e saccheggio; e fu la reazione delle forze interne al mondo carolingio a consentire una pacificazione e un controllo. Questa stessa esigenza di organizzare la difesa si ritrova a livello locale, dato che è proprio nei decenni iniziali del X secolo che assistiamo alla prima diffusione dei castelli. Questa azione e questa costruzione andarono ben al di là dopo la fine delle incursioni: chiese e signori continuarono a innalzare fortificazioni, destinate a difendere sia dalle minacce esterne, sia, e soprattutto, dall’azione militare degli altri signori. 3. Il potere dei re Uno dei caratteri comuni dei processi di evoluzione nell’Europa di tradizione carolingia fu la scomparsa, pressoché totale, dell’attività legislativa regia; e nel X e XI secolo furono del tutto eccezionali i provvedimenti con valore generale. Ciò non significa che i re non intervenissero nella vita politica dei loro regni, ma lo fecero con azioni e testi diversi, prima di tutto con i diplomi; inoltre conservarono una relativa centralità politica grazie alla loro capacità redistributiva. In molte aree i re dovevano limitarsi a una constatazione attiva dei nuovi poteri signorili: «constatazione», perché i re non erano in grado di dare vita alle strutture sociali locali del potere; attiva, perché il regno era comunque in grado di legittimare, promuovere e indirizzare gli sviluppo politici locali. I diplomi che i re concedettero a chiese e dinastie non avevano un’incidenza tale da dare vita a nuovi poteri, ma favorivano quei poteri che conservavano un rapporto di fedeltà con il re. L’importanza dei diplomi si coglie dal fatto che chiese e signori si impegnavano a ottenerne di nuovi. 57 all’interno del regno fu la premessa per la vittoria di Lichfield del 955, con cui Ottone mise fine alla minaccia delle incursioni ungare. Nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia, prendere direttamente possesso del regno e – l’anno successivo – ottenere a Roma la corona imperiale. La sconfitta definitiva di Berengario II richiese ancora una fase di guerra, che si concluse solo nel 964). I meccanismi di ascesa al trono: il re di Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva poi scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. A partire da Ottone si affermò una vera e propria dinastia regia: la forza della famiglia sassone poté condizionare le scelte dei duchi sia nel 973, alla morte di Ottone I, sia nel 938, quando Ottone II lasciò il regno a Ottone III. Si ripropose una continuità familiare come in età carolingia, ma con due differenza: la successione al trono avveniva sì all’interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso una forma di elezione; fu più chiara un’idea di linea dinastica di successione a vantaggio esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. «Aristocrazia ducale»: la forza di Ottone I e del figlio si espresse nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parentale. Ottone III pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum (Rinnovamento dell’Impero romano): il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di elemento tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina (la madre di Ottone III, Teofano, era una principessa bizantina). Nel 996, mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona imperiali, lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV. Ottone impose come papa un proprio cugino, Bruno di Worms, che divenne Gregorio V. La nomina di Gregorio fu un fatto nuovo perché il papa proveniva da Oltralpe: fino a quel momento era stata l’aristocrazia romana ad avere il pieno controllo dell’elezione papale. Non a caso i Romani si ribellarono all’elezione, tanto che lo stesso Ottone dovette intervenire militarmente nel 998 per sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e reinsediare Gregorio. L’anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d’Aurillac, che prese il nome di Silvestro II. L’azione di Ottone mostra una nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell’Impero, tanto che lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città, in analogia e in concorrenza con il palazzo papale del Laterano. Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente con l’ascesa al trono del cugino Enrico II. Poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d’Italia 60 Arduino, marchese di Ivrea. Dopo una breve resistenza, egli fu sconfitto da Enrico nel 1004. La successiva lontananza di Enrico dall’Italia lasciò spazio ad Arduino per ricostruire una rete di solidarietà e alleanze; solo nel 1024 una nuova discesa in Italia di Enrico pose fine alla vicenda di Arduino. L’elezione di Arduino rese visibile una tensione sotterranea, una ricorrente volontà dell’aristocrazia italica a imporre le proprie decisioni nella nomina del re. Negli anni successivi, alcuni settori dell’aristocrazia italiana cercarono altrove un nuovo re, contattando il principe francese Guglielmo d’Aquitania. 3.3 Francia In Francia la svolta fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso che, nell’888, lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: il conte Oddone di Parigi. Questo non fu un netto e lineare cambiamento di dinastia regia, piuttosto l’inizio di un’instabilità politica che segnò i successivi decenni. Elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni settori dell’aristocrazia scelsero di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nell’839 e si contrappose a Oddone, la cui morte, nell’898, rese Carlo unico re di Francia, grazie a un accordo con gli eredi di Oddone. Carlo fu un re debole, e la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. «Grandi del regno»: il regno francese subì un cambiamento profondo costituito dal diversificarsi del territorio, con la suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Regioni come la Borgogna, la Champagne, l’Aquitania o l’Anjou si organizzarono attorno ad altrettante dinastie di conti e duchi, detentrici di domini territoriali non molto diversi dal dominio regio. Negli anni successivi l’aristocrazia francese pose sul trono prima Roberto di Neustria (fratello di Oddone), poi Rodolfo di Borgogna (genero di Roberto); si scelsero i re all’interno del gruppo parentale di Oddone, ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio del re Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l’idea di una vera e propria dinastia regia. Nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna, Ugo il Grande decise di non imporre la propria elezione a re e preferì far tornare dall’esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia. Ugo, rinunciando alla corona, evitò probabilmente di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri principi. Il principio che in questi decenni segnò i meccanismi del regno di Francia fu la costruzione dell’egemonia dei Robertini, che culminò nel 978 con l’ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia dei Capetingi. 61 Il 987è tradizionalmente il momento fondativo della monarchia nazionale: l’ascesa al trono di Ugo Capeto. Nel X secolo la corona fu a lungo nelle mani degli ultimi Carolingi, ma i Robertini espressero un potere analogo a quello regio. Lungo il secolo XI il potere regio conservò un duplice carattere: di forza egemone e di forza regionale. È sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono i nuovi funzionamenti politici, e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che, in larga misura, facevano a meno del re. 3.4 Ai margini del mondo carolingio Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, che alla fine del secolo si trasformarono in un dominio stabile; dall’altro lato una crescente egemonia del Wessex, regno nella parte sudoccidentale dell’Inghilterra. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande (871-899), che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Ma questa fase non segnò l’inizio di uno stabile dominio unitario: alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo (899-924), ma i potenti inglesi non gli riconobbero tutti i poteri del padre. Edoardo dovette rifondare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Alla sua morte (924) i destini di Mercia e Wessex si separarono di nuovo. Fu solo all’inizio del XI secolo che si costituì un regno inglese unitario sotto il re norvegese Knut (noto nella tradizione italiana come Canuto), che nel 1016 arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e Norvegia. Il potere di Knut non ebbe seguito, ma due elementi della sua vicenda ebbero esiti di lungo periodo: l’unificazione dell’Inghilterra; integrazione tra i regni che si affacciavano sul mare del Nord. Questa integrazione tornò in primo piano pressoché a ogni successione sul trono inglese. Alla morte del re Edoardo, nel 1066, la corona poté essere contesa dal duca di Wessex Harold Godwinson, il re di Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo (Guglielmo il Grande). Il primo fu incoronato re, ma nell’autunno subì gli attacchi quasi contemporanei degli altri due, sconfiggendo Harald, per essere però poi sconfitto e ucciso da Guglielmo ad Hastings il 14 ottobre. La battaglia di Hastings segna l’affermazione sul territorio inglese dell’aristocrazia normanna. I decenni successivi furono segnati dall’integrazione tra l’aristocrazia normanna e quella inglese. La parte centrale e meridionale della penisola iberica aveva costituito l’emirato di al-Andalus, mentre nel nord si erano formati i regni cristiani delle Asturie e di Pamplona/Navarra. Assistiamo a una continua interferenza tra le diverse dominazioni, a intrecci politici da un territorio all’altro. I re cristiani cercarono di operare attivamente delle dinamiche interne all’emirato, approfittando della sue fasi di instabilità politica. Particolarmente attivo in questo senso fu il regno delle Asturie, il cui 62 conservarono un legame con Cluny nei decenni successivi. Ci fu, dunque, la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall’abbazia borgognona: non un ordine, ma piuttosto una congregazione, un insieme di enti religiosi che riconoscevano tutta la propria guida nell’abate di Cluny. Il modello prevalente fu la costituzione di priorati, e non di abbazie: la differenza è importante, perché nell’ordinamento benedettino il vertice del monastero era l’abate, assistito dal priore; in questi nuovi enti monastici l’abate non c’era, perché l’unico abate era quello di Cluny. Lungo l’XI secolo i priorati cluniacensi si diffusero in larghi settori d’Europa, assieme agli enti monastici riformati dagli abati cluniacensi. Questa congregazione non fu un caso isolato, e forme analoghe di coordinamento tra enti monastici si realizzarono, ad esempio, attorno alle abbazie di Fruttuaria, in Piemonte, e di Sassovivo, presso Foligno. Il punto di massimo trionfo di Cluny fu raggiunto negli ultimi anni del secolo XI con l’elezione al soglio pontificio, nel 1088, di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. In parallelo, il secolo XI fu segnato dall’emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti di ispirazione eremitica. Romualdo, attorno al 1023, fondò il monastero di Camaldoli (sugli appennini toscani), dando vita a un movimento che, dopo la morte di Romualdo, trovò un punto di riferimento in Pier Damiani. Modello simile fu quello di Vallombrosa, fondato nel 1035-1036 da Giovanni Gualberto: la comunità era isolata dal mondo, dove si operavano scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. Parallelamente il ruolo dei vescovi mutò nei rapporti con le comunità cittadine, con la società e con i poteri circostanti. È dai diplomi regi che dobbiamo partire per comprendere gli equilibri che portarono ovunque all’affermazione di un pieno potere vescovile sulle città. Partiamo da un caso specifico, il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma, Uberto, nel 962: Ottone assegnò tutti i beni fiscali compresi nelle città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città e per una fascia di tre miglia attorno; il potere giudiziario sugli abitanti della città. Di fatto, il vescovo di Parma assunse tutti i poteri già spettanti al conte; ma non significa che il vescovo assumesse le funzioni del conte: i poteri non gli erano stati delegati, ma concessi in piena e completa proprietà alla sede vescovile, in quella che sembra una completa rinuncia regia a esercitare il potere. Ma non è così. Tra X e XI secolo, molti altri vescovi ricevettero diplomi simili: dal punto di vista regio, i conti avevano ormai abbastanza solidamente dinastizzato la propria carica, indebolendo il vincolo tra re e funzionari. Dall’altra parte, i re erano in grado di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o almeno impedendo l’elezione di vescovi ostili. Perciò, nei casi di conflitti locali e di difficili rapporti tra il re e le dinastie comitali, un re forte come Ottone I poteva intervenire, non cacciando il conte, ma riducendone l’autorità in favore del 65 vescovo, che costituiva un potere affidabile per il re: per quanto un vescovo potesse decidere di ribellarsi al re, non poteva avere eredi legittimi. Nella concreta dinamica politica, affidare poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace controllo della società locale. I vescovi erano uno strumento di potere efficace grazie ai loro profondi legami con la città e i sui ceti eminenti: la plurisecolare solidarietà tra vescovi e cives era data dal fatto che le principali famigli andavano a costituire sia il gruppo di canonici, sia la clientela vassallatica vescovile. Questi gruppi familiari fungevano da raccordo tra vescovo e società e da guide della comunità cittadina, soprattutto sul piano militare. Non sorprende che alcuni diplomi imperiali associno direttamente il vescovo ai concives, o che in alcuni casi gli imperatori concedessero due diplomi paralleli. I diplomi imperiali spesso andavano a confermare e sostenere processi avviati prima e indipendentemente da essi. PARTE TERZA Poteri locali e poteri regi tra l’XI e il XIII secolo Questa terza parte dà conto dei tentativi e dei progetti di riordinamento della società elaborati dai diversi protagonisti del medioevo centrale: chiese, papi, capi militari, signori di castello, città e regni. L’intera vita religiosa delle società locali fu sottoposta a un maggiore controllo da parte delle autorità ecclesiastiche. Se la violenza legittima e la guerra non potevano essere eliminate, potevano essere regolate secondo nuovi criteri di legittimità. La Chiese conferì una natura sacra alla guerra combattuta per la Chiesa e il papato. L’aristocrazia regia sperimentò nuove forme di connessione interne al ceto militare, come: il giuramento di fedeltà e l’entrata dei soldati di professione di una élite superiore, la cavalleria. La 66 qualità del potere dei singoli cavalieri era determinata dall’uso delle armi e dal possesso di una signoria territoriale. Le forme di dominazione esercitate da un ceto di signori-militari erano pesanti e basate sulla forza, ma fu all’interno di questo regime che prese forma la prima rivoluzione agricola medievale. In questo contesto di crescita economica presero forma le città, che non furono mai antisignorili, a differenza dell’Italia: i magistrati cittadini erano eletti e confermati dai signori laici ed ecclesiastici che esercitavano la loro influenza anche sui centri urbani interni al loro territorio. I rapporti con i principati locali furono caratterizzati da una diffidenza che spesso sfociò in aperta ostilità. Davanti a queste sfide, i re cercarono da una parte di imporre un ordine gerarchico alle fedeltà vassallatiche, dall’altra, di sperimentare nuove pratiche amministrative. Isolato è il caso dell’Italia centro settentrionale, poiché contrassegnata da una tipologia specifica di potere territoriale: le città comunali autonome con pretese di governo sul territorio circostante (contado). Non perché sia un caso unico, ma perché le istituzioni urbane, in Italia, hanno assunto un ruolo politico diverso, vicino, per certi versi, a quello giocato dai poteri principeschi negli altri paesi europei. Furono i magistrati locali ad assolvere le funzioni di autogoverno cittadino. CAPITOLO 1 Le istituzioni della Chiesa e l’inquadramento religioso delle popolazioni fra XI e XIII secolo Sulla spinta di tante chiese locali, di vescovi capaci, di imperatori pii e di intellettuali militanti si mise in moto un processo di ripensamento della funzione della Chiesa conosciuto con il nome di Riforma. Il programma era lungo, difficile da imporre e ancora più difficile da accettare. Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro coinvolse l’imperatore Enrico IV: la scintilla fu causata dalla questione del potere di un’autorità laica di «investire» i vescovi. Il motivo profondo è il tentativo del papa di inserire i vescovi in una gerarchia solo religiosa, eliminando il ruolo dell’imperatore nella creazione delle cariche ecclesiastiche. La riflessione dei giuristi diede corpo a questo insieme di regole per definire i funzionamenti delle chiese episcopali, del clero associato alle chiese, del papato e degli uffici centrali. Questo ampio processo di produzione di norme esprimeva una profonda esigenza di stabilità che la Chiesa inseguì a lungo per sé e per la società. 67 Interventi dei laici: i fedeli laici richiedevano un clero più puro, ma spesso, tali richieste, venivano respinte dalle istituzioni ecclesiastiche. I chierici dovevano essere guidati solo da altri uomini di Chiesa, non dai laici. Il primato di Roma andava rafforzato sia verso l’esterno che verso l’interno. Verso ‘esterno una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo: la Chiesa d’Oriente, definita come ortodossa. Verso l’interno il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti, soprattutto nel momento, contestatissimo, delle elezioni. La questione dell’unità della Chiesa si pose intorno al 1053, in occasione di una nuova diatriba che si era aperta con il patriarca di Costantinopoli. La lettera scritta dal patriarca Michele Cerulario, in cui i vescovi latini venivano invitati ad abbandonare pratiche da lui ritenute «giudaiche», come la comunione con il pane non levitato. Leone IX rispose con due lettere, redatte probabilmente da Umberto di Silvacandida, e poi con un’ambasceria di due cardinali. Negli scritti emergeva chiara la nozione che la Chiesa di Roma «non poteva sbagliare» (in quanto istituita da Pietro) e guidava la cristianità come una monarchia. L’ambasciata di Umberto finì con la scomunica del patriarca e formalizzo la rottura con la Chiesa di Roma. La rottura fu un atto importante nell’autorappresentazione del papato: fornì argomenti a favore alla tesi dell’unicità della Chiesa di Roma come guida della cristianità. In forme non ancora definite, si pose il problema del ruolo del papato all’interno della Chiesa. L’elezione del papa: il papato, come istituzione, non era ancora stabile; in assenza di procedure certe, ogni elezione poteva essere contestata. Ne fu un esempio il breve pontificato di Benedetto X (Giovanni detto Mincio), un nobile romano imposto dalla famiglia dei Tuscolani. Il pontificato di Benedetto ebbe la funzione di far emergere un gruppo di intellettuali riformatori che prese in mano la reazione, contestando le modalità irregolari della sua elezione. Ildebrando di Soana (nato intorno al 1024), nominato da Leone IX arcidiacono e amministratore della Chiesa romana, fu al servizio di tutti i papi riformatori di quei decenni. Ildebrando aveva acquisito sufficiente autorità in seno alla curia romana da imporre come papa il vescovo di Firenze, Gerardo con il nome di Niccolò II. Il nuovo papa presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto solo ai cardinali- vescovi, riducendo il popolo e il clero di Roma e lasciando uno spazio ambiguo all’approvazione imperiale. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Ildebrando di Soana, noto come Gregorio VII. 2. Il momento del conflitto. Il pontificato di Gregorio VII Il pontificato di Gregorio VII ha rappresentato una fase di massimo conflitto fra la Chiesa di Rome e i poteri laici ed ecclesiastici dell’Impero. Le ragioni del conflitto si devono in parte alle 70 tensioni accumulate nei decenni precedenti fra il papato e l’episcopato, in parte all’intransigenza del programma di Gregorio VII: infatti egli aveva come obiettivo l’inquadramento della società e dei poteri laici ed ecclesiastici in una gerarchia unica con al vertice il pontefice di Roma. Gregorio non costruì una vera teocrazia, ma fornì la Chiesa di strumenti culturali e ideologici per immaginarla. Ildebrando di Soana divenne papa nel 1074, dopo un’elezione per acclamazione (tutt’altro che regolare), e proseguì con vigore l’azione di riforma del clero. Egli dovette prendere atto delle accanite resistenze alla sua azione riformatrice: in particolare contro i decreti di purificazione del clero che prevedevano una severa repressione della simonia e del nicolaismo. In Italia l’accoglienza dei canoni moralizzatori fu debole. In Germania le reazioni furono più violente. L’arcivescovo di Brema rifiutò di obbedire ai legati gregoriani e impedì loro di convocare il concilio. Al concilio di Erfurt, faticosamente riunito nell’ottobre 1074, il clero locale accusò Gregorio di essere un eretico e di sostenere dogmi folli. In Normandia, il vescovo riformatore Giovanni fu preso a sassate dal suo clero e dovette fuggire. L’opposizione riguardava l’ampiezza dei poteri rivendicati dal papa di Roma. Gregorio VII rispose attaccando direttamente il clero ribelle. Durante il concilio di Rom del 1075 colpì l’investitura laica dei vescovi disobbedienti. Fin dall’età carolingia, i re franchi e i potenti locali avevano il potere di scegliere il candidato e di dotare un vescovato di beni materiali. In Germania, anche prima di Ottone I, era all’imperatore che il vescovo giurava fedeltà. Gregorio cambiò il significato dell’investitura, condannando l’intervento dei laici come indebita intromissione nelle cose sacre. Nel concilio di Roma del 1075 si dispose che «nessun chierico o prete riceva in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro». La forma del divieto fu precisata nel concili del 1078 e del 1080, quando si menzionò esplicitamente l’investitura imperiale («dalle mani dell’imperatore»). Gregorio VII rivendicò per la Chiesa di Roma un’onnipotenza senza rivali. Lo mostra bene il documento conosciuto come Dictatus papae: una lista di 27 testi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. «Solo il papa» poteva: deporre un vescovo o riconciliarlo; emanare nuove leggi; dividere e unire episcopati; spostare i vescovi da una diocesi a un’altra; usare le insegne imperiali; essere omaggiato dai principi con il bacio del piede; scomunicare e deporre gli imperatori. Nessuno poteva giudicare il papa: la decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava alla Chiesa di Roma, definita da Gregorio come «esente da imperfezioni». La Chiesa di Roma comprendeva tutti i veri cattolici; l’idea di Christianitas emerge da questo documento come un corpo compatto sotto la guida, unica, del papato. 71 Il Dictatus è stato studiato e discusso. Dei vari canoni che lo compongono uno in particolare sembra essere stato inserito proprio da Gregorio: il potere di deporre l’imperatore. La deposizione scioglieva i sudditi dal dovere di fedeltà al re. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, Gregorio aveva nominato Attone. Incurante di questa scelta, Enrico IV nominò il suddiacono Tedaldo , aprendo un contenzioso lunghissimo e violento. Nei due anni seguenti, Gregorio ed Enrico IV usarono tutti gli strumenti a disposizione per delegittimare, scomunicare e deporre il proprio avversario. Ricorsero alle stesse armi e si nutrirono della medesima retorica salvifica. Nel concilio di Worms del 24 gennaio 1076, Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa: Enrico si appropriava del vessillo per opporsi a Gregorio che rischiava di dividere la Chiesa provocando uno scisma. Nel sinodo romano del febbraio 1076 fu invece scomunicato e deposto Enrico IV: Gregorio giustificò il suo atto rivendicando per la sede romana «il potere di legare e slegare in cielo e in terra». La risposta di Enrico fu sul piano ideologico: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio (e non del papa) che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità; l’imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Dalla sua Enrico IV aveva la forza militare e il sostegno di una parte rilevante dell’episcopato. Fu così in grado di eleggere un nuovo papa (antipapa per Roma) nella figura del vescovo Guiberto, arcivescovo di Ravenna. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077 – Enrico chiese perdono e dopo tre giorni Gregorio lo concesse – il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore. Enrico scese a Roma e inseguendo Guiberto e facendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio, assediato, fu salvato dai Normanni, divenuti ora fedeli del papa, ma dovette abbandonare Roma, per morire in esilio a Salerno. Da questi scontro le due autorità universali ne uscirono fortemente indebolite. Tra gli effetti reali del conflitto, emerse il ruolo assunto dalle popolazioni locali; infatti, furono le scelte prese di volta in volta dai laici nelle città e nelle diocesi dell’Impero a condizionare la vita concreta delle chiese. Il tema delle investiture sembrava sommerso da ben altre urgenze. I papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere le investiture di chiese da parte dei laici: tutte le investiture, senza distinzione fra lo «spirituale» (consacrazione) di competenza ecclesiastica, e il «temporale» (terre e immobili), che poteva dipendere dai donativi dell’imperatore. 72 importante di concentrazione del potere politico: erano articolati in uffici diversi, fortemente gerarchizzati al loro interno, avevano un proprio tribunale e si ponevano alla guida della vita religiosa cittadina. I canonici conservarono sempre funzioni pastorali. L’organizzazione in capitoli coinvolse i sacerdoti di tutte le chiese importanti (non cattedrali); sorsero i capitoli di collegiate. Ogni capitolo, collegiata o chiesa entrava in un sistema governato dal vescovo, ma assumeva una personalità giuridica autonoma. Si trattò di un processo a due facce: da un lato un ordine gerarchico imposto dal papato, dall’altro una diffusione di istituti diversi sparsi in tutta la società cristiana. Fra XI e XII secolo videro la luce nuovi movimenti: i cistercensi e i certosini. I cistercensi presero il nome dal luogo della prima congregazione, nata a Citeaux, in Borgogna, in latino Cisternium. Il monastero di Citeaux era stato fondato da Roberto, abate di Molesme, un monastero che Roberto, insieme ad altri 21 monaci, aveva lasciato nel 1098 per formare una nuova congregazione dove osservare la regola di san Benedetto. Roberto predicava un ritorno alla «vita delle origini» fatta di preghiere, ascesi, duro lavoro manuale e disciplina dell’anima. L’esperimento trovò l’appoggio dell’arcivescovo di Lione, Ugo di Die, dei potenti locali (il duca di Borgogna e il visconte di Beaume), il papa Pasquale II, che mise il monastero sotto la sua protezione due anni dopo la sua fondazione. Nel 1108 fu eletto abate Stefano Harding, che rimase in carica fino al 1133. Nel suo abbaziato i cistercensi assunsero una struttura più stabile. Grazie all’arrivo di nuovi monaci, tra cui Bernardo di Fontenay, poi Chiaravalle, sorsero in Francia quattro nuove abbazie: La Ferté (1113), Pontigny (1114), Chiaravalle e Morimondo (1126). Nel 1119, Stefano Harding scisse la carta di carità, una regola dell’ordine approvata nel 1119 da Callisto II e nuovamente da Eugenio III nel 1152. Con il moltiplicarsi delle abbazie «figlie», si dovette imporre un coordinamento più stretto. Intorno al 1150 si stabilì il principio che un capitolo generale, da tenere una volta l’anno a Citeaux, poteva discutere gli affari relativi agli altri monasteri e prendere decisioni valide per tutto. I cistercensi divennero in breve tempo degli esperti colonizzatori e dei grandissimi proprietari terrieri. Sul piano politico, alcuni abati divennero figure di riferimento per l’intera cristianità. Fu il caso di Bernardo di Chiaravalle, di nobile famiglia borgognona, fondatore e abate di Chiaravalle. Bernardo fu al centro delle più intense esperienze politiche e religiose della prima metà del secolo XII. Bernardo era dotato di una veemenza intellettuale e una rara capacità di «demolire» l’avversario che ne fecero un polemista ascoltato e temuto. L’ordine cistercense produsse uomini di potere come vescovi e papi (Eugenio III), promosse crociate e fu impegnato in campagne di repressione dell’eresia nel sud della Francia. Anche i certosini, nati nel 1084 su iniziativa di Bruno di Colonia, cercavano l’isolamento e il ritiro del mondo. Realizzarono con maggior vigore e coerenza una comunità ascetica di preghiera, 75 inseguendo l’ideale del «deserto». Il modello fu proprio il monastero fondato nel 1084 sul massiccio della Chartreuse, nella Francia del sud: al suo interno, il monastero era formato da tante celle, isolate l’una dall’altra, che affacciavano su un piccolo giardino chiuso. I certosini elaborarono un modello misto tra l’eremitismo e la vita comune; il monaco viveva per la maggior parte del tempo nella cella. Erano escluse attività manuali, contatti esterni, attività di carità e di apostolato presso i laici. Solo durante le funzioni religiose e la domenica il monaco si univa agli altri per consumare i pasti in comune. I certosini avevano un limite per tutto: il limite numerico era la garanzia di preservare la dimensione eremitica. Bruno morì nel 1101 senza lasciare nulla di scritto e le prime comunità adattarono in maniera empirica una regola di vita comune. Solo nel 1127 Guido I, priore di Chartreuse, mise insieme una raccolta di ‘Consuetudini’, riprese da regole monastiche antiche e aggiornate secondo le esigenze dell’ordine. Anche i certosini scelsero di assegnare al capitolo generale il potere di decidere le forme di vita da adottare nei diversi monasteri che rifacevano alla Certosa madre. Dal 1154 le decisioni dei capitoli generali costituirono parte integrante della legislazione dell’ordine e tutti i priori dei monasteri certosini dovevano fare voto di obbedienza al priore generale. Il deserto era un luogo fisico e ideale, che indicava lo spazio necessario per i certosini per mantenere il loro isolamento. I monaci delimitavano questo spazio ideale con confini concreti: all’interno di questo perimetro i monaci pretendevano di restare isolati, non permettevano il passaggio di donne, lo sfruttamento dei boschi, la caccia e la pesca e anche il lavoro sui campi dei contadini della zona. Furono numerosi gli scontri con i signori e i contadini locali, spesso risolti in favore dei monaci grazie alla protezione dei vescovi. Sia i certosini che i cistercensi trovarono immediato appoggio nell’episcopato, i primi del vescovo di Grenoble e i secondi dell’arcivescovo di Lione. Regularis disciplina: la «vita secondo la regola» servì a conferire a un inquadramento istituzionale coerente alle molteplici esperienze eremitiche o cenobitiche di sorta fra XI e XII secolo. 4. L’inquadramento religioso dei laici Ai laici spettava un ruolo tutto sommato passivo, di fedele obbediente, sottomesso alla guida dei chierici. La parola latina laicus indicava l’insieme dei fedeli non insignito del sacerdozio: potevano ascoltare, ma non cercare da soli la verità. Dal secolo X si diffusero numerose metafore del mondo cristiano diviso in due parti: una piramide divisa per strati, con i laici alla base e gli «spirituali» in alto; oppure l’umanità a forma di corpo umano, in cui il clero era la testa e i laici le membra inferiori. Una lunga tradizione di testi e di immagini fu recuperata nel Decreto di Graziano del secolo XII. 76 Ai chierici spettava la preminenza nelle concessioni, il diritto di essere mantenuti in virtù dell’utilità sociale della loro funzione, e quello di essere difesi dalla violenza dei laici. Solo un membro del clero poteva giudicare un altro chierico; la lettura pubblica delle Sacre Scritture divenne un ministero propriamente sacerdotale. La rivalutazione della funzione sacerdotale aveva portato con sé una rivalutazione dei sacramenti, che finivano per inquadrare in una cornice sacrale l’intera esistenza del fedele: la vita terrena si svolgeva interamente sotto il segno del sacro, un viaggio scandito dai riti religiosi amministrati dalla Chiesa. Il battesimo dei bambini si affermò come necessario rito di entrata del fedele nella comunità di appartenenza. L’eucarestia divenne il perno della liturgia della messa. Nei decenni centrali del secolo XII, si delineò una dimensione più costrittiva e individuale della penitenza, un peccato commesse che doveva essere riconosciuto come tale dal fedele e «confessato» al prete. La sottomissione dei laici alla pratica della confessione fu uno dei principali strumenti impiegati dagli uomini di Chiesa per inculcare l’obbedienza nelle coscienze dei fedeli. Il matrimonio sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli: le loro parentele, l’espressione degli affetti personali e le strategie di alleanza che non dovevano contrastare con il libero consenso degli sposi. La morte, con i riti dell’estrema unzione e della sepoltura benedetta, fu interpretata come la soglia di entrata in una via ultraterrena. Con l’invenzione del purgatorio si aprì un canale diretto di comunicazione fra i vivi e i morti: le preghiere potevano abbreviare le pene del defunto. Lo sviluppo di una complessa «contabilità dell’anima» si riflette nelle pratiche testamentarie dei laici: i fedeli dovevano pensare agli eredi e alle istituzioni ecclesiastiche, che avrebbero assicurato la celebrazione delle messe in suffragio del defunto. Prese forma una vera e propria «economia religiosa». Questa pretesa di dominio assoluto degli uomini di Chiesa sulla vita dei laici si scontrò con altre forme di vita religiosa, classificate come eresie nel corso dell’XI e XII secolo. La lotta antiereticale serviva a definire meglio ciò che la Chiesa doveva essere: la sua funzione storica (la guida dei fedeli verso la salvezza), la sua natura istituzionale (una Chiesa apostolica centrata sul primato romano) e i suoi poteri (i sacramenti concessi da Dio). Le eresie, in modi diversi, negavano le basi di questa missione divina della Chiesa. Ciò che sappiamo delle numerosissime correnti definite ereticali proviene solo da fonti ecclesiastiche. I termini per definire questi eretici erano sempre diversi e ambigui: pauperisti, evangelici, manichei, negatori di Cristo. Per questo è così difficile collegare queste dottrine condannate con la religiosità del tempo, che doveva essere molto più varie e multiforme di quanto le fonti lascino trasparire. 77 «feudo») in caso di disobbedienza, fu imposta ai vassalli una fedeltà esclusiva e un impegno a non attaccare il proprio signore. Anche la diffusione di modelli letterari di cavalieri ideali contribuì a rafforzare l’idea di una comune appartenenza a un ceto eletto. La differenza non era ancora fra nobili e non nobili, ma fra signori potenti e signori meno potenti. 1. Il controllo della violenza e le paci di Dio Nelle cronache dei secoli X e XI il tema della violenza smodata e gratuita si fa prepotente. Dietro queste narrazioni, si cela una profonda esigenza di ordine: ma l’ordine invocato era diverso da quello carolingio, era un ordine più localizzato. Le «paci» o «tregue», come furono chiamate nella seconda ondata di concili del secolo XI, erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle violenze in nome di Dio: divieto di portare armi, attaccare battaglia, molestare i poveri e invadere le chiese. L’attività armata era da esercitare in ambiti determinati: era lecito continuare a combattere una guerra giusta, sotto il comando di un’autorità legittima; era lecita la violenza armata come atto di giustizia sotto il controllo di un potere pubblico. Le paci di Dio sono intese come una difesa dei beni delle chiese dalle «rapine» degli aristocratici violenti e ribelli. Una difesa che era presa in carico da autorità laiche fedeli all’episcopato. Nei concili si affermava, implicitamente, la presenza di un’autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia. 2. La sacralizzazione della guerra e le prime crociate Questa violenza militare regolata aprì la strada a un processo di inserimento della guerra nella vita religiosa, di definizione di una dimensione religiosa della guerra. Un processo di rivalutazione che coinvolse anche la figura del cavaliere. Si sviluppò, nei decenni successivi al 1050, un’intensa attività bellica. I papi riformatori sostennero queste guerre, concedendo ai cavalieri un vero e proprio statuto di «combattente di Cristo». Già sotto Leone IX, bande di «cavalieri (milites) della chiesa di san Pietro» furono radunate in difesa dei beni del papato di Roma contro i Normanni. Nel 1063 papa Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva a combattere in Spagna i musulmani. Sempre contro i Normanni, anche Gregorio VII schierò la «milizia di san Pietro» nel 1074, ma poi furono gli stessi Normanni, una volta tornati alleati del papa, a riconoscersi come milites sanctii Petri. 80 Gli appelli si fecero numerosi sotto Gregorio VII; non si tratta di un’anticipazione della crociata, quanto della maturazione di un linguaggio della guerra che diventa «santa». Nel 1089 Urbano II concesse un’altra indulgenza e la vita eterna per la conquista di Tarragona, promessa da Raimondo II di Catalogna. La qualifica di «soldato di Cristo» si diffuse ai morti in battaglia in difesa della Chiesa; a loro fu assicurato l’ingresso in paradiso. Vi era dunque la contrapposizione degli interessi della Chiesa di Roma, e dunque di Dio, di estirpare la serie infinita di nemici, manifestazioni diverse di un’unica presenza diabolica. 3. Le spedizioni in Terrasanta I pellegrinaggi, come forma di devozione, ebbero uno straordinario successo nel secolo XI e motivazioni diversissime. Il viaggio è inteso come forma di penitenza, e la penitenza come strumento di salvezza. Inoltre, un ricchissimo mercato di reliquie scatenò una competizione internazionale per accaparrarsi quelle più importanti. Emersero alcuni poli di attrazione religiosa come Santiago di Compostela, in Spagna; ma fu la via per Gerusalemme che interessò maggiormente i diversi fedeli. Il viaggio era pericoloso, l’ostilità di alcuni musulmani impediva a volte di arrivare a destinazione: il ricorso alla protezione armata di soldati era relativamente diffuso. L’appello al pellegrinaggio a Gerusalemme lanciato da Urbano II durante il concilio di Clermont nel 1095 entusiasmò i presenti. Il cronista Fulcherio di Chartres riporta le parole del papa: «si battano contro gli infedeli… cerchino ora di ottenere ricompense eterne». Il papa offriva l’indulgenza plenaria a tutti i pellegrini intenzionati a partire. Fu il primo atto ufficiale di quelle che furono chiamate «crociate». Nelle fonti del secolo XI il termine ancora non esisteva, come non esisteva l’idea di crociata, almeno non nelle forme leggendarie. Nel 1095, durante il concilio di Clermont, il papa Urbano II aveva confezionato una bolla con materiali ampiamente usati anche dai suoi predecessori. Nuova non era tanto la destinazione, Gerusalemme, ma l’inaspettata risposta all’appello papale. Una prima armata, spontanea e disorganizzata, si disperse presto, dopo aver sterminato le comunità ebraiche incontrate lungo il percorso. Una seconda era guidata da nuclei scelti di cavalieri normanni e francesi e riuscì ad arrivare a Gerusalemme. Le armate in realtà furono quattro e si mossero in piena autonomia una dall’altra: i lorenesi di Goffredo di Buglione; i cavalieri della Francia meridionale del conte di Tolosa e dal vescovo Ademaro de Puy (indicato da Urbano come capo della spedizione); i fedeli del duca di Normandia; 81 i contingenti dei Normanni d’Italia del sud. Tutti rispondevano all’appello di riaprire il pellegrinaggio verso il santo sepolcro, reso difficile dall’avanzata dei Turchi a spese dei Fatimidi. Gli eserciti europei raggiunsero Costantinopoli, e, spinti dall’imperatore di Bisanzio, che li vedeva come un utile strumento per riaffermare la sua presenza nei territori orientali occupati dai musulmani, iniziarono una lenta discesa verso la Palestina. Nicea fu la prima a cadere nel giugno 1097; l’anno successivo cadde Antiochia, presa e tenuta da Boemondo di Taranto. Qui i militari si divisero: Baldovino di Boulogne (fratello di Goffredo di Buglione) aveva conquistato Edessa, intravide la possibilità di impiantare una dominazione stabile. Gerusalemme fu assediata per cinque settimane prima di cadere il 15 luglio 1099: i cavalieri entrarono dentro la città e fecero un massacro, su cui tutte le fonti concordano. Baldovino di Boulogne si fece incoronare re il 25 dicembre 1099, mentre i territori conquistati negli anni precedenti furono organizzati in principati autonomi: contee di Edessa e di Tripoli, principato di Antiochia e regno di Gerusalemme. Le successive spedizioni non ottennero lo stesso successo. Dopo la caduta di Edessa nel 1144, Luigi VII di Francia organizzò una seconda spedizione che finì con un nulla di fatto. Peggio andò la terza crociata, successiva alla dura sconfitta inflitta ai latini ad Hattin nel 1187 dal Saladino, esponente sunnita della dinastia ayyubide. Saladino conquistò Gerusalemme e gli Stati cristiani della costa. La terza crociata è importante perché fu presa in carico dai re, ma fu lo stesso un’ecatombe: l’imperatore Federico I, che morì attraversando un fiume; un’epidemia decimò i crociati davanti ad Antiochia; il re di Francia abbandonò la spedizione mentre gli altri capi dovettero venire a patti con il Saladino, il quale concesse il permesso di venire in pellegrinaggio a Gerusalemme senza armi. Ordini monastici di natura militare: si tratta di una creazione originale del XII secolo. Inizialmente era una difesa armata che accompagnava i pellegrini durante il viaggio e curava i malati. I primi, con caratteri più volti all’assistenza, furono gli ospedalieri di san Giovanni, nati intorno all’ospedale di san Giovanni per assistere i pellegrini del santo sepolcro, e riconosciuti dal papa nel 1112 come ordine religioso. Nel corso del XII secolo, l’ordine iniziò ad accogliere anche dei cavalieri da impiegare in campagne militari. I templari, fondati in Terrasanta nel 1119, ebbero una connotazione più militare. Otto cavalieri giurarono davanti al patriarca di Gerusalemme di difendere i cammini per la Terrasanta e di osservare i voti monastici. Approvati dal concilio di Troyes, dove ricevettero la regola, i Cavalieri del Tempio, reclutati dal mondo aristocratico, si distinsero per la capacità di combattere e fondarono numerose piazzeforti e castelli in Terrasanta. 82 alleati potenti che facevano capo a un principe; serviva anche al principe «addobbatore» per legare a sé il giovane armato, mostrando pubblicamente da chi aveva ricevuto l’onore della armi (honor è la terra, il feudo, la terra; essere disonorato significa in primo luogo essere «diseredato»). L’invenzione di un’etica del cavaliere poteva servire a indicare un modello di comportamento, ma le guerre feudali non avevano nulla di eroico. Come rimedio parziale si svilupparono combattimenti ristretti a pochi campioni. Sono scontri limitati e sottoposti a regole condivise, che in seguito sfumarono in una rappresentazione ritualizzata della battaglia, da giocare in occasioni pubbliche: i tornei. Sul piano simbolico consentiva di mostrare il valore individuale; sul piano sociale, si poneva come punto d’incontro dei cavalieri di diverso livello in un rito che aumentava la socialità interna; sul piano politico serviva al signore per affermare la sua capacità di coordinare le forze militari del proprio territorio, riunite in una corte. Il tema è complesso e anche il linguaggio delle fonti definisce ruoli e persone con termini diversi a seconda delle situazioni: il termine miles indica chiaramente un combattente a cavallo, contrapposto ai pedites (fanteria a piedi) e ai rustici (contadini). Al suo interno il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale molto variegato. Lo strato superiore era composto dai grandi aristocratici discendenti da un élite carolingia; lo strato inferiore era occupato da persone di secondo rango, vassalli minori, custodi di castello, giovani scudieri in attesa di promozione. Era un ceto multiforme. Forme di inclusione erano la comune appartenenza a un gruppo professionale, senza però cancellare le differenze di ricchezza e di prestigio sociale tra i singoli individui. Difficile dire se l’addobbamento e il titolo di cavaliere fossero sufficienti a garantire l’ingresso nell’aristocrazia di un ceto basso, «nobilitato» dall’esercizio delle armi. È da escludere che l’addobbamento, di per sé, fosse una soglia di ingresso della nobiltà già nel secolo XII. Il rito segna la fine di un percorso individuale di promozione coronato dal successo. «Cavalleria» e «nobiltà», almeno fino alla metà del XIII secolo, non coincidono. CAPITOLO 3 Il dominio signorile 85 I secoli X e XI in tutta l’Europa furono teatri di un mutamento profondo nelle forme di potere: si indebolì la capacità regia di controllo, si frammentarono i distretti affidati a conti e marchesi, le chiese e le dinastie aristocratiche costruirono poteri locali autonomi. Le signorie erano costruzioni politiche dal basso, attuate valorizzando le basi del potere locale. In questi secoli ogni luogo fa la storia a sé. I poteri signorili partivano dal grande possesso fondiario e fecero un salto di qualità con il passaggio a una vera e propria dominazione territoriale proiettata su tutti i vicini. Questo salto fu connesso alla nuova capacità di azione armata dell’aristocrazia. 1. Un potere senza delega: terre, castelli, clientele Con la parola signori ci riferiamo sia alle dinastie, sia alle chiese, due facce dello stesso sistema di dominio aristocratico. Le analogie furono più importanti delle differenze: terre, castelli e clientele rappresentarono le fondamentali basi dei nuovi poteri signorili. Le terre: essere ricchi nell’alto medioevo significava essere ricchi di terre. Le terre assunsero molte funzioni economiche e sociali: la terra serviva per mantenere uno stile di vita aristocratico, ma anche per legare a sé una clientela di fedeli. Con le donazioni di terra si esprimeva la propria devozione nei confronti delle chiese. Tutto ciò subisce però una distorsione nelle fonti: dobbiamo ricordare che le transizioni fondiarie erano le azioni più sistematicamente registrate per iscritto. Questa documentazione non conserva traccia di altre azioni economiche. La rilevanza sociale fu la polarizzazione della società locale attorno ai grandi possessori. La giustizia regia era lontana, il conte interveniva nei villaggi dove disponeva di un ricco patrimonio personale; i contadini cercavano protezione nell’unico potente cui erano in rapporto. C’erano tutte le premesse perché la situazione si evolvesse in una totale sottomissione. Questo avvenne quando la capacità economica di agire autonomamente sul piano militare crebbe, ovvero quando il signore costruì castelli e raccolse clientele armate: una dominazione più ampia che emulava i compiti del potere regio (giustizia, protezione, fisco). Spesso, ma non sempre, il potere signorile trovò la propria base nel castello. Da tempo si è abbandonata la lettura tradizionale, che vedeva nelle incursioni ungare e saracene il fattore scatenante dell’incastellamento: se esso fosse nato solo per difendersi, non potremmo spiegare la persistenza dei castelli dopo la fine delle incursioni nella seconda metà del X secolo. Le incursioni saracene e ungare non furono la causa dell’incastellamento, ma la conseguenza della debolezza militare del re. 86 Per la prima metà del X secolo si sono conservati diplomi regi che autorizzano chiese, signori o comunità a costruire castello, per difendersi contro «i pagani e i cattivi cristiani». Le fonti mettono in luce diversi meccanismi: la presa d’atto regia della propria incapacità di proteggere tutto il territorio; il riconoscimento di una legittima iniziativa militare di altri attori politici; la presenza di una violenza diffusa, che non deriva solo dalle incursioni esterne, ma anche dai comportamenti dei «cattivi cristiani». Qualunque castello, nato per iniziative e su basi diverse, diviene luogo di esercizio della giurisdizione. I castelli furono fondamentali per riconoscere come potere legittimo chi era in grado di proteggere. Nel secolo XI, attorno ai castelli si sviluppò un processo di coinvolgimento e sottomissione della popolazione circostante. Essa comprendeva: il signore stesso e i suoi familiari (ma anche i servi di casa); i vassalli, che affiancavano il signore nelle sue azioni armate; i contadini, che coltivavano le sue terre; i vicini, che non avevano alcun rapporto formale con il signore. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia e dalle corvées per la manutenzione del castello. Cavalieri: i signori avevano bisogno di persone specializzate, ben equipaggiate e in grado di combattere a cavallo. Due erano gli ambiti in cui i fedeli del signore dovevano esercitare la propria forza: combattere i vicini potenti e minacciare gli stessi sudditi. Protezione e minaccia convergevano nelle stesse mani, che proteggevano e minacciavano le stesse persone. Per coordinare queste bande armate, i signori si servivano dei legami vassallatici; la natura fondamentale di questo rapporto non era mutata, ma si erano arricchite le sue funzioni sociali e politiche tra il X e XI secolo. Possiamo vedere nei rapporti vassallatici la principale forma di coesione gerarchizzata all’interno dell’aristocrazia militare. Consideriamo due elementi di questa definizione: «coesione», il legame vassallatico creava un sistema di solidarietà personale che vincolava sia il vassallo nei confronti del signore, sia il signore nei confronti del vassallo, sia i vassalli di uno stesso signore tra di loro; «gerarchizzata», perché tutte le trasformazioni del vassallaggio non arrivarono mai a cancellare l’idea della superiorità del signore. Questo non significa che in questi secoli si definisse la «piramide feudale». Di più: l’idea di piramide ci porterebbe a pensare all’esistenza di ordinati strati sociali; ma non si era «vassalli» in assoluto, si era sempre vassalli di qualcuno, era una relazione, non una condizione sociale. Gli storici hanno scelto di sostituire l’immagine della piramide con quella della rete. Anche questa immagine ha dei difetti, perché tende a suggerire una realtà ordinata e paritaria. Pensiamo, quindi, a una rete confusa, discontinua, con dei nodi molto più importanti degli altri. L’immagine 87 Le forme di coercizione e violenza: i monaci e chierici compivano e facevano compiere atti di violenza nei confronti dei propri concorrenti, e ancora di più nei confronti dei propri sudditi. Le «chiese private» erano enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un’altra chiesa. La definizione di «chiese in cura d’anime» comprende tutti quegli enti religiosi la cui finalità era quella di officiare i culti destinati ai laici. Nell’alto medioevo, il sistema dominante era quello delle pievi: erano le articolazioni delle diocesi, chiese create dai vescovi e destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi; non erano come le parrocchie di età moderna, perché le pievi si occupavano di circoscrizioni molto più ampie. Le connotava la presenza del fonte battesimale. Al fianco delle pievi c’erano molte chiese e cappelle minori in tutti i villaggi. Queste chiese – che la documentazione registra in modo molto discontinuo – nascevano spesso dall’azione dei signori. Le ragioni di questa azione signorile sono diverse: in parte fu il tentativo di mettere le mani su una quota della decima; e in parte c’era la prospettiva simbolica e identitaria della chiesa come centro della vita sociale locale. I monasteri privati godono di una documentazione molto più ampia. L’atto di nascita è rappresentato dall’iniziativa di un aristocratico. La funzione dei monaci era quella di pregare per il proprio personale percorso di ascesi, e poi per la salvezza ultraterrena dei propri benefattori. La fondazione aveva anche un’importanza materiale: il monastero privato poteva avere, nelle intenzioni del fondatore, una funzione di riserva patrimoniale sicura per sé e i propri discendenti: il monastero non avrebbe potuto alienarle, e la famiglia del fondatore ne avrebbe avuto sempre ampia disponibilità, grazie al controllo sulla nomina dell’abate. Ma molti monasteri, a partire dall’XI secolo, si svincolarono dal controllo dei laici e spesso usarono il patrimonio per le proprie specifiche politiche. L’espressione di «gruppo familiare» è fluida: gli atti di fondazione dei monasteri erano un modo per definire l’ampiezza e i limiti del gruppo parentale del fondatore, e cioè, le persone per cui pregare erano, in genere, elencate analiticamente. I contenuti della protezione che la famiglia signorile garantiva al monastero: il diritto a ricevere le preghiere dei monaci, a essere seppelliti all’interno del monastero, a nominare nuovi abati; dall’altro, il dovere a proteggere il monastero, i suoi membri e i suoi beni. Questo insieme di diritti e doveri passava ereditariamente. Mondo di eredi: la posizione politica del singolo dipendeva in larga misura da ciò che aveva ereditato. Perciò, era importante sapere di chi si era figlio ed erede, quali altre persone avessero diritto a condividere gli stessi beni e gli stessi diritti. Dai monaci si potevano anche ottenere terre in concessione. 4. Produzione e prelievo in un’età di sviluppo 90 Il dato fondamentale è che nel corso dell’XI secolo i contadini diventarono sudditi. In assenza di qualunque potere di controllo, i signori usavano la propria forza armata per togliere ai sudditi la maggior quantità possibile di prodotti e di denaro. Questa pressione signorile rispondeva alla logica di un’economia signorile che era essenzialmente un’economia di spesa: non si trattava di dissipare le ricchezze, ma di usarle per costruire il proprio potere. Un analogo atteggiamento si ritrova nelle grandi sedi monastiche. L’aumento demografico tra il secolo VIII-IX e il XII cambiò la composizione delle famiglie contadine, moltiplicò i flussi migratori che alimentarono la creazione di nuovi centri rurali in funzione di colonizzazione. «Sistemare» gli uomini divenne una preoccupazione costante dei signori nel secolo XII. Mutarono anche le condizioni di lavoro con un generale innalzamento delle qualità degli strumenti tecnici a disposizione e, soprattutto, riguardo alle tecniche d’aratura: si nota un maggiore ricorso agli attrezzi in ferro, in particolare gli aratri a versoio. Esisteva un legame stretto fra il nuovo aratro in ferro e i tempi di lavorazione del terreno. L’aratro in ferro permetteva arature più profonde e più frequenti, aumentando la produttività dei semi. Da qui, un’osservazione più attenta dei cicli produttivi favorì la diffusione del riposo periodico: un terzo o la metà del campo era lasciato a «maggese», mentre sulla parte rimanente erano concentrati gli sforzi di aratura e concimatura. In ampie zone d’Europa, l’investimento sull’agricoltura divenne redditizio. Forme di produzione e forme di dominazione non possono essere del tutto separate. Da un lato la signoria bannale fu il principale motore dello sviluppo, finanziando alcune trasformazioni tecniche e incoraggiando in molti casi l’estensione delle colture; dall’altro lato questo stesso sviluppo rese concretamente possibile l’aumento del prelievo signorile. I prelievi signorili potevano essere di origine pubblica, come il fodro e l’albergaria, o di natura signorile: il focatico gravava sui nuclei familiari; telonei erano chiamati i le tasse sui pedaggi; il ripatico insisteva sull’uso dei fiumi, il boscagio su quello dei boschi e l’acquatico su quello dell’acqua. Si produceva di più, per pagare di più. 5. L’inquadramento delle popolazioni rurali e l’azione politica contadina La stragrande maggioranza della popolazione delle campagne era costituita da contadini, da rustici. Ma la realtà di questi era assai diversificata, e dobbiamo constatare un’ampia varietà di condizioni economiche. La diversificazione del mondo contadino assunse connotati più propriamente politici, grazie alla capacità degli strati superiori della società contadina di entrare a far parte dei sistemi di solidarietà 91 clientelare. Vediamo contadini che svolgevano specifiche funzioni per conto dei signori e instauravano con esso un vero e proprio legame clientelare. Vediamo – all’interno della società contadina – un gruppo con alcuni connotati peculiari: una certa forza economica, la capacità di redistribuire terre e lavoro ai vicini più poveri, l’assunzione di incarichi di fiducia per conto del signore, la creazione di legami clientelari con le famiglie aristocratiche e le maggiori chiese locali. Parliamo di «comuni rurali» per tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava, agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale; si trattava in larga misura di imitazioni dei comuni cittadini. I testi che meglio mostrano l’esistenza e i funzionamenti dei comuni rurali sono le «franchigie», atti in cui i signori e sudditi mettevano per iscritto diritti e doveri. Ne è un esempio il caso di una tra le più antiche carte di franchigia italiane, l’accordo del 1058 tra la grande abbazia di san Silvestro di Nonantola, nei pressi di Modena. L’abate Gotescalco concesse alcune garanzie fondamentali agli abitanti del villaggio; i contadini ottennero inoltre il pieno uso degli incolti e si impegnarono in cambio a costruire tre lati delle mura del castello, lasciando all’abate la costruzione dell’ultimo lato; infine, le due parti si diedero garanzie reciproche del rispetto dell’accordo. Le garanzie erano le penalità imposte per chi avesse violato gli accordi; accordo fondato sulla reciprocità degli obblighi. Reciprocità non significa parità. Lo stesso nucleo dell’atto, ovvero l’accordo per spartirsi i lavori di fortificazione, ci mostra come la protezione fosse un’esigenza condivisa dai signori e sudditi. Un altro dato importante è costituito dalle clausole iniziali, le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Le ricorrenti forme di resistenza contadina non puntavano mai alla cancellazione del dominio signorile, ma a ottenere il rispetto delle norme fondamentali. Infine, la concessione dei beni comuni: la gestione collettiva dei beni comuni è un aspetto poco documentato per questi secoli. I beni comuni avevano un peso importante, sia sul piano economico, sia su quello politico, come nodo della contrattazione tra signori e della cooperazione contadina. Nuovi centri abitati: esigenze di ripopolamento suggerirono ai grandi possessori di creare condizioni favorevoli per attrarre abitanti. In molti di questi insediamenti i suoli furono subito concessi in proprietà agli abitanti: per esempio le sauvetés (spazi salvaguardati) della Francia sudorientale, agglomerazioni abitate in funzione di colonizzazione agricola poste sotto la protezione della Chiesa. In Italia queste fondazioni furono leggermente più tarde e presero il nome di villenove o villefranche. Alla rivoluzione agricola si accompagnò una «rivoluzione» insediativa, una tendenza all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. 92 Non sempre le cose andarono in questo modo. In molte regioni del regno di Francia, per esempio, la nascita di un’autonoma rappresentanza della città, chiamata «comune», fu osteggiata dai poteri signorili dominanti alla fine del secolo XI. Questi scontri erano più frequenti nelle città antiche, dominate da autorità ecclesiastiche che avevano più da perdere. Le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall’autorità superiore. Tanti i giuramenti di comune, quanto le «franchigie», riguardavano la concessione dei poteri giudiziari civili alle corti cittadine e alcune esenzioni dalle tasse sui commerci e sui suoli urbani. Nelle città della Francia meridionale, l’autonomia era maggiore: ad Avignone, Bézies, Arles, Narbona e Nîmes, negli anni Trenta del secolo XII, si elessero dei magistrati chiamati «consoli». Si trattava di un governo collegiale di cittadini, coadiuvato da un consiglio che poteva contare anche un centinaio di membri. La nomina dei consoli era interna a un élite urbana formata dalle famiglie dell’aristocrazia militare: fino alla seconda metà del XII secolo i «borghesi» non nobili ne rimasero sostanzialmente esclusi. I consoli restavano sempre magistrati riconosciuti da un potere superiore e amministravano sia la giustizia civile, sia quella penale; ma non potevano toccare «il dominio e i diritti dei signori maggiori». Gli elettori dei consoli dovevano scegliere secondo la loro coscienza con «il consiglio dell’arcivescovo»: un’autonomia controllata che si ritrova in moltissime città europee, con l’eccezione di quelle italiane. Le città europee avevano una natura doppia con la presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili (balivi o siniscalchi), che detenevano il controllo militare e della giustizia alta di sangue per conto del signore; dall’altro gli scabini (i giudici della città) e i consoli che «rappresentavano» la fascia di popolazione ammessa alla vita politica della città. Restava fermo il comando militare, base dura e irrinunciabile del potere politico. 2. Le città tra XII e XIII secolo: unificazione e differenziazione sociale Dalla metà del secolo XII in avanti, il fenomeno urbano si assestò lungo linee di sviluppo costanti. Le città furono riunite in un’unica realtà territoriale urbana: tra il XII secolo e la prima metà del XIII, tutte le città furono circondate da una nuova cerchia di mura, la quale inglobava ampie zone di terreno non costruito. Le mura divennero il simbolo delle città e segnarono un confine più netto con il territorio esterno, una soglia fra il dentro e il fuori che alimentò una coscienza civica più accentuata. La concessione di carte di franchigia o di carte di comune divenne una pratica generalizzata: le città erano contraddistinte da questo riconoscimento ufficiale della libertà dei propri abitanti 95 («libertà» significava avere per iscritto l’elenco dei propri diritti). Nel Duecento le città divennero ottimi contribuenti del fisco regio. Lo sviluppo economico acuiva le differenze sociali: se la città «rende liberi», non tutti erano liberi allo stesso modo. La popolazione urbana nel corso del XII e XIII secolo è percorsa da un processo di stratificazione sociale e differenziazione fra gruppi diversi. Il ceto dirigente del primo comune fu costretto a integrare nuove famiglie borghesi, che avevano fatto fortuna con i commerci. La ricchezza contava, ma contava soprattutto la capacità di moltiplicare i profitti. Queste élite economica conquistò così il potere nel corso del Duecento: non è un caso che i soli edifici pubblici laici fossero le «halles» (sale di rappresentanza) dei mercanti e dei mestieri e non il palazzo del comune, ancora poco presente nei secoli XII e XIII. La città aveva delle rappresentanze, ma il suo sistema istituzionale non era «rappresentativo». Esisteva un frastagliato mondo artigianale che aspirava a una presenza politica: nessuno, nel medioevo, parlava in maniera generica di un «ceto artigianale». Esisteva una doppia gerarchia sociale: una tra i diversi mestieri e un’altra tra le funzioni che venivano svolte all’interno dello stesso mestiere. Il prestigio sociale raggiunto da alcune corporazioni di mestieri riguardava in realtà solo i maestri in possesso dei mezzi tecnici più costosi e avanzati. Maneggiare le cose «sporche» macchiava la persona e ne riduceva la qualità umana e giuridica; sempre a rischio di caduta verso la condizione irredimibile di «infame». Infame nel medioevo era un termine tecnico che indicava persone senza diritti e senza reputazione, escluse dai tribunali e prive di qualsiasi rappresentanza politica. Il salario urbano fu spinto lentamente verso questa condizione, la quale creò delle tensioni che sfociarono in movimenti di rivolta del Trecento. Si affermò una nuova élite sociale che usava una logica «mercantile» ai rapporti politici: le città divennero elementi vitali del corpo politico dei regni e furono i regni a «usare» meglio le città. CAPITOLO 5 I regni e i sistemi politici europei fra XI e XIII secolo Il reticolo di poteri dell’Europa nei secoli centrali del medioevo sembra lasciare poco spazio ai tentativi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governo di un re: signorie di castello 96 autonome, un ceto militare in cerca di sistemazione in reti stabili di alleanze, principati regionali in conflitto e gelosi della propria autonomia, città in crescita come centri economici. I re esistevano, ma il loro potere aveva limiti ben precisi: controllavano un territorio ristretto, dovevano contrattare le principali azioni di governo con i grandi potenti locali, provenivano da dinastie poco legittimate. La storiografia europea tra Otto e Novecento ha spesso peccato di anacronismo, proiettando sui poteri monarchici del secolo XII un disegno organico di costruzione di uno «Stato» nel senso moderno del termine. I compiti delle monarchie erano quelli di affermare un «diritto di esistere» come entità politiche superiori, recuperare un coordinamento di poteri sparsi in mani diverse e contesi da principi regionali. Gli strumenti usati variarono da regione a regione, ma ovunque furono improntati al più spregiudicato opportunismo politico. 1. Limiti dei regni nei secoli XI e XII All’affacciarsi del secolo XII, i poteri di tipo monarchico mostravano una serie di debolezze strutturali. In primo luogo le dinastie regnanti si fondavano ancora sul terreno incerto delle alleanze matrimoniali: un sistema mobilissimo. Una trama debole, che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra famiglie. Una trama, tuttavia, che era in grado di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni. Pensiamo alla Francia: il suo assetto mutò quando il ducato di Aquitania fu unito, per via matrimoniale, alla contea di Angiò e alla Normandia, e quindi all’Inghilterra di Enrico II della dinastia Plantageneta. Prese vita così una configurazione politica sovraregionale che sovrastò a lungo il re di Francia. È difficile tracciare una chiara geografia dei regni tra i secoli XI e XII, fatto salvo il caso inglese. Sul paino politico i regni non si distinguevano ancora così chiaramente dai tanti principati vicini, spesso forti e più estesi. Il regno di Francia era di fatto limitato alla regione attorno a Parigi (Île de France); gli si opponevano le contee di Blois, di Champagne, di Tolosa e di Provenza, i ducati di Normandia e di Borgogna e il principato d’Aquitania. In Spagna, i regni di Navarra, Castiglia, Aragona e la contea di Catalogna erano di fatto entità regionali. In Germania, l’Impero univa formalmente i ducati nazionale, ma aveva poca influenza su di essi. Più che di veri e propri regni, dovremmo allora parlare di principati a tendenza egemonica o, in altri casi, di regioni inquadrate in sistemi di alleanze con al vertice un re. La difficoltà tecnica era quella di coordinare sul piano feudale una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi a seconda dei singoli signori di riferimento. Vigeva un principio di solidarietà orizzontale: «il vassallo du un vassallo del re, non è un vassallo del re». 97
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