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Storia medievale - Giovanni Vitolo, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del manuale di " Storia medievale " di G. Vitolo

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 29/01/2018

Maria_Califano96
Maria_Califano96 🇮🇹

4.8

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Scarica Storia medievale - Giovanni Vitolo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Cap 3: L’oriente romano-bizantino e slavo Le ragioni di un destino diverso In Occidente si stava delineando una nuova realtà attraverso la fusione della civiltà germanica e quella cristiano-romana; la parte Orientale si mostrava resistente di fronte alle pressioni esterne e alle tensioni interne grazie alla capacità di adattamento a situazioni mutevoli e per la fedeltà alle tradizioni. Elaborarono una nuova civiltà che si ricollegava al passato romano per questo l'impero bizantino venne chiamato "Romània" durante tutto il Medioevo. Esso era molto differente dall'impero d'Occidente perché non c'era una concentrazione di terre nelle mani dell'aristocrazia (sviluppo del latifondo a conduzione schiavile e declino dei piccoli proprietari); le città, nonostante fossero più popolate, avevano una struttura economica e sociale più complessa, con la presenza dei ceti mercantili; l'aristocrazia non godeva di un'illimitata superiorità rispetto al resto della popolazione. Costanzo II, figlio di Costantino, dotò Costantinopoli di un senato a imitazione di quello di Roma. Esso ebbe maggiore libertà d'azione rispetto a quello d'Occidente per l'assenza di una grande aristocrazia. Si poterono applicare le riforme di Diocleziano. Pieno controllo dello Stato sulla Chiesa, si rafforzò la flotta e venne creato un esercito, non numeroso, ma ben addestrato. La crescita impetuosa di Costantinopoli Costantinopoli (e l’impero bizantino) nascono l'11 maggio del 330, giorno in cui Costantino la inaugurò. Già con il figlio Costanzo, essa si può paragonare come una concorrente di Roma. Roma era in declino dato che dopo Massenzio (che vi risiedette dal 306 al 312) gli imperatori decisero di stabilirsi in varie città (come Milano, Treviri e Sirmio) per poi rifugiarsi nella sicura Ravenna, protetta dalle paludi e collegata via mare a Costantinopoli. Costantinopoli venne creata a immagine e somiglianza di Roma: venne creata l'annona civica per la distribuzione del grano alla popolazione; vennero istituiti i giochi del circo (secondo la politica del panem et circenses); costruirono un ippodromo, corrispondente al Circo Massimo di Roma e collegato direttamente al palazzo reale, per facilitare l'ingresso all'imperatore. Distacco sempre più marcato tra imperatore e popolo, venne sacralizzato il suo ruolo e venne dichiarato responsabile della salvezza del popolo cristiano. Egli convocava e presiedeva ai vari concili ecumenici e decideva dell'elezione dei vescovi nelle sedi più importanti, come Costantinopoli o i patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Inoltre la cerimonia dell’incoronazione si distaccava sempre di più dalla tradizione romana, sino ad assumere i caratteri di una cerimonia religiosa. Divisione tra Oriente e Occidente già con la spartizione dell'impero che venne diviso tra Arcadio e Onorio alla morte di Teodosio nel 395, poi definitivamente con la questione barbarica: in Occidente si stavano inserendo i Germani nell'esercito e nella alte cariche pubbliche, mentre l'Oriente rifiutava un'apertura nei loro confronti. Spinsero verso Occidente Visigoti e i Germani orientali, inquieti sotto le pressioni degli Unni. Giustiniano e la ripresa dell'iniziativa imperiale La liberazione dalle oppressioni germaniche consentì prima a Zenone e poi ad Anastasio I di concentrarsi sulla risoluzione di due grandi problemi interni: le rivolte degli Isauri e le agitazioni provocate dai contrasti a sfondo religioso. Le rivolte furono soppresse adottando le deportazioni. La soluzione al problema religioso fu impossibile. Si cercò di adottare una politica più conciliante nei confronti del Monofisismo (Siria ed Egitto) ma favorì l'esplosione di rivolte a Costantinopoli e nelle regioni centrali nonché un contrasto con la Chiesa di Roma. 1 L'imperatore Giustiniano (527-565) concepì il disegno di riportare l'Occidente sotto l'autorità imperiale recuperando pienamente i rapporti con il papa. Sotto l'influenza della moglie Teodora che proteggeva i monofisiti, tentò di attenuarne l'intransigenza concedendo loro qualche concessione sul piano dottrinale. Essi infatti volevano dimostrare la scarsa chiarezza dei provvedimenti presi contro le dottrine di Nestorio nel Concilio di Calcedonia del 451, che intanto si erano diffuse in Persia, Pakistan ed India. Nel 543-44 emanò l'editto dei "Tre capitoli" con il quale venivano condannati gli scritti di tre teologi filonestoriani di Antiochia: Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Ibas di Edessa, assolti nel Concilio. Non si mise fine all'opposizione dei monofisiti e anzi si accentua la rottura con il papa e con i vescovi d'Occidente; intanto era in corso la guerra contro i Goti per la riconquista dell’Italia. Papa Vigilio rifiutò di ratificare l'editto di Giustiniano. Nel 456 venne imprigionato e trasportato a Costantinopoli dall'imperatore che lo convinse ad accettare il provvedimento. Ciò causò uno scisma che avrà ripercussioni nel corso dei secoli nel rapporto tra papato, episcopato e regno longobardo. Giustiniano aveva programmato la riconquista dell'Italia che venne iniziata nel 535, con il progetto di restaurare l'ordine sociale e puntando alla riconquista dell'intero Occidente. La guerra in Italia fu dura e difficile e al termine di questa l'imperatore emanò, nel 554, una Prammatica Sanzione su richiesta di papa Vigilio per restaurare gli antichi rapporti sociali e dare al territorio un nuovo assetto amministrativo. Giustiniano aveva puntato la Spagna dei Visigoti. L'occasione gli venne fornita dal re Atanagildo il quale si era schierato contro la politica filoariana del re Agila e aveva chiesto aiuto all'imperatore d'Oriente. L’impero bizantino conquistò il tratto di terra corrispondente alle odierne città di Malaga e Cordova. Le vie commerciali sarebbero state liberate dal controllo della Persia e Costantinopoli sarebbe diventata punto di incontro dei tre continenti. Giustiano avviò, avvalendosi dell'aiuto di Triboniano, un progetto grandioso di riorganizzazione del patrimonio giuridico romano a partire dall’età repubblicana. Elaborò il “Corpus Iuris Civilis”, alla base di tutta la produzione giuridica europea successiva. Dall'impero universale all'impero Bizantino La stesura del Corpus Iuris Civilis fu in latino, nonostante il fatto che si parlasse greco a Costantinopoli; quest’opera voleva restaurare l’impero universale di Roma. L'imperatore non riuscì a risolvere i contrasti interni dovuti alla religione e la situazione interna non era più tranquilla; nella capitale la popolazione raggiungeva quasi il milione. La plebe veniva frenata dalla distribuzione del grano e dai giochi nell'ippodromo: tuttavia avvennero diverse rivolte per fame che culminarono nell'incendio del palazzo del prefetto del pretorio e nel 562 in una congiura a danno dell'imperatore stesso. I successi della politica estera erano solo apparenti. Le conquiste in Spagna e Italia andarono perdute e l'imperatore lasciò ai suoi successori il compito di gestire la questione degli Slavi, degli Avari e dei Persiani. L'attenzione si spostò sul controllo del Nord Africa e del Medio Oriente. Non si parla di processo di decadenza (poiché questa non può durare per 9 secoli) come sostiene lo storico inglese Gibbon, ma di una traslazione verso Oriente che favorì una nuova organizzazione dello stato che assumesse una fisionomia greco- orientale. Vennero scritte in greco le Novelle, le nuove leggi emanate da Giustiniano dopo il Corpus; i suoi successori non utilizzarono più titoli latini per definire l'imperatore ma utilizzarono la parole greche, come "basileus", prevalente al tempo di Eraclio. L'insediamento di Slavi, Avari e Bulgari nei Balcani Gli Slavi fecero la loro comparsa nei Balcani nel VI secolo. Si cerca di individuare la loro “patria d'origine” nella zona corrispondente all'area che contiene le odierne Polonia, 2 atti di Teodorico e dei suoi successori mentre furono considerati nulli quelli del nefandissimo Totila. Le terre e i greggi furono restituiti ai proprietari, così anche gli schiavi che già avevano sposato delle donne libere. Le chiese cattoliche sequestrarono i beni a quelle ariane. L'Italia fu divisa in distretti nei quali l'amministrazione civile era assegnata a uno iudex mentre quella militare a un dux posti sotto l'autorità di Narsete, che rimase in Italia fino al 568, quando venne richiamato a Costantinopoli dall'imperatore Giustino II. Si adottò un capillare apparato fiscale: si chiese il pagamento di tasse arretrate, si ridusse la spesa pubblica e venne decurtato il salario ai soldati e la distribuzone di viveri ai poveri. Tutto ciò mirava a fornire i mezzi all'impero per una prossima espansione, ma demoralizzava le scarse truppe e invogliava la gente a provare nostalgia per il vecchio regime politico. I Longobardi e la rottura dell'unità politica dell'Italia I Longobardi erano un popolo originario della Scandinavia, che nel 568 giunsero in Italia dal Friuli sotto la guida del re Alboino. Non ebbero mai rapporti con il mondo romano e il loro trasferimento dalla Pannonia non era stato concordato con l'imperatore né si era attuato il principio dell'ospitalità. Il loro regno si pose come una dominazione straniera. Non si erano distaccati dai loro usi tradizionali, infatti il loro re veniva eletto dall'aristocrazia, ma il suo potere era limitato dall'ordinamento tribale del suo popolo. Paolo Diacono, monaco longobardo, ricostruì la storia del suo popolo alla fine del secolo VIII: l'esercito si articolava in gruppi di guerrieri appartenenti a famiglie le quali a loro volta si richiamavano ad un antenato comune; si muovevano, guidati dai loro duchi, con una certa autonomia sia in tempi di pace che di guerra stanziandosi nei territori conquistati. Il corpo di spedizione che si spinse più a sud fu quello del duca Zottone che nel 571 raggiunse Benevento costeggiando l'Adriatico fino a Pescara. Queste conquiste (insieme a quelle effettuate nel Piceno e nell’Umbria centro-meridionale) che entrarono a far parte del Ducato di Spoleto erano prive di continuità con i territori longobardi che erano concentrati nell'Italia centro-settentrionale. I Bizantini riuscirono a mantenere il controllo in gran parte della Romagna e sulla Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) e di una striscia di terra che attraverso Perugia collegava la Pentapoli a Roma. Mantennero il dominio anche su Sicilia Sardegna e Corsica e la striscia tra Civitavecchia e Amalfi, la Puglia centromeridionale e la Calabria. L'incompletezza della conquista che ebbe ripercussioni sino al sec XIX fu provocata sia dalla resistenza bizantina sia dallo spirito di autonomia dei duchi, i quali dopo la scomparsa di Alboino (vittima di una congiura nel 572) e del suo successore Clefi, rinunciarono per 10 anni a nominare un altro sovrano. É il periodo della cosiddetta anarchia militare; le condizioni di vita dovettero essere molto difficili: gli sconvolgimenti dovettero essere più forti nelle aree ad insediamento longobardo. La popolazione romana fu privata della capacità politica. Delogu osserva che nel regno dei Longobardi vi fu un dominio politico-militare di un popolo dotato di una forte coscienza di sé nel quale potranno inserirsi i discendenti dei romani che riusciranno ad accumulare ricchezza al patto di assumere il diritto e la tradizione dei dominatori. Ecco perché dopo l’VIII sec tutti si riconoscevano nella tradizione longobarda e venivano chiamati longobardi dopo la conquista franca. Il 568 segna una frattura rispetto al passato. Si punta a una vera e propria riorganizzazione del territorio. Vi fu lo sconvolgimento delle circoscrizioni amministrative romane ed ecclesiastiche. Molto spesso i vescovadi si trovarono senza il loro titolare, i quali fuggivano in territorio bizantino. I Longobardi, convertiti da poco al Cristianesimo ariano, non ebbero riguardo della Chiesa cattolica e non fecero nessuna distinzione tra beni privati ed ecclesiastici. Essi ebbero però come punto di riferimento le città romane e colsero i cambiamenti avvenuti in epoca gotica; scelsero siti già abitati dai Romani, come 5 per esempio Castelseprio (Varese) e Invillino (Udine). In questo ultimo caso, i Longobardi individuarono nelle ville le strutture più adatte ad accogliere i nuclei armati dislocati nelle campagne. I cimiteri furono i segni inequivocabili della cultura longobarda. Per Delogu, i Longobardi erano già abituati a servirsi delle costruzioni romane anche degradate. Essi non furono quindi la causa principale del degrado (in quanto questa condizione caratterizzava tutto lo stivale) ma trovarono già il degrado quando invasero il mondo romano. Gregorio Magno e l'evoluzione politica dei Longobardi I Longobardi (trasformati in proprietari terrieri che necessitavano di proteggere i propri beni) si diedero un ordinamento politico più stabile ed evoluto secondo il modello romano. Il ruolo del re si rafforzò, richiedeva l’appoggio dell'episcopato cattolico e il consenso della popolazione romana. Restaurazione dell'autorità regia nel 584 a opera di Autari il quale si fece cedere dai duchi la metà delle loro terre per consentire alla monarchia di procurarsi i mezzi necessari al suo funzionamento. Rifiutarono solo i duchi di Benevento e Spoleto. Per gestire i beni della corona vennero creati degli appositi funzionari, i gastaldi, al fine di limitare i potere dei duchi. I sovrani longobardi si avvalsero anche di altri collaboratori, i gasindi, legati a loro da un vincolo di fedeltà personale e ricompensati da ricchi doni. Ad Autari successe Agilulfo (590-616) con il quale si poté affrontare pacificamente la questione del rapporto con la Chiesa Cattolica, guidata dal grande Gregorio Magno. Gregorio Magno (590-604) discendente degli Anici, una nobile famiglia romana, si cimentò negli studi letterari e giuridici. Divenne prefetto di Roma ma si dedicò alla vita religiosa, distribuendo ai poveri alle sue ricchezze e trasformando la sua casa sul Celio in monastero. Fu nominato cardinale da Benedetto I e fu inviato da Pelagio II in missione a Costantinopoli (qui si rese conto del distacco tra i due imperi). Tornato a Roma diventò consigliere del papa e nel 590 lo successe. Assunse l'appellativo di servus servorum Dei. Concepì il disegno di rendere il papato indipendente dall'impero bizantino, facendone la guida della Chiesa universale. Scrisse opere di edificazione religiosa di grande successo come i Dialogi, la Regola pastorale, i Moralia. Si preoccupò di assicurare alla cristianità occidentale un'impronta unitaria riordinando e diffondendo la liturgia romana con il relativo canto e dando un ulteriore impulso all'evangelizzazione inviando nel 596 un gruppo di missionari guidati da Agostino in Inghilterra dal re Etelberto di Kent che riuscì a far battezzare, assicurandosi il collegamento della chiesa inglese alla Santa sede. In Italia e Spagna si preoccupò di far convertire i Visigoti e i Longobardi. Si sostituì all'autorità imperiale difendendo Roma dagli attacchi prima dei Duchi di Spoleto e Benevento e poi del re Agilulfo. La fine del regno longobardo Gregorio instaurò contati regolari con la corte di Pavia poiché Teodolinda era cattolica e fece battezzare suo figlio Adaloaldo nel 603 con il rito cattolico, al quale non seguì la conversione in massa dei Longobardi a causa della resistenza dei duchi legati alle tradizioni. Durante il VII secolo sul trono si alternarono re cattolici e ariani (filocattolici contro i nazionalisti). I personaggi di maggiore spicco furono Rotari e Grimoaldo. Nel 643, Rotari, duca di Brescia, fece emettere l’Editto di Rotari che prevedeva la raccolta scritta di tutte le leggi longobarde: diventato re riprese la guerra contro i Bizantini conquistando la Liguria; Grimoaldo, invece, già duca di Benevento, dopo essere diventato re, rese effettiva l'autorità del sovrano sui territori longobardi dell'Italia meridionale. Il più grande re dei longobardi fu Liutprando che completò la conversione del suo popolo al cattolicesimo e contribuì al superamento della divisione etnica tra Longobardi e Romani. Sperò nell’appoggio del papato che era in contrasto con Costantinopoli per la questione del culto delle immagini. Decise di conquistare ciò che rimaneva dell'Italia romana, la 6 Pentapoli e l'esarcato, mirando per ultima a Roma. Il papa, Gregorio II gli andò incontro convincendo il re non solo a rinunciare alla conquista della città ma anche di sgomberare le terre già conquistate nel ducato romano. Nel rinunciare al castello di Sutri, Liutprando non lo restituì al governo bizantino ma alla chiesa cattolica, nel 728. Questa donazione fu importantissima perché indica l’atto costitutivo del potere temporale dei papi. Non è una novità il fatto di cedere delle terre alla Chiesa, ma si riconobbe per la prima volta la sovranità che il papa esercitava su Roma. Al tempo di Liutprando e Astolfo tutti i liberi dotati di un reddito si riconoscevano nella tradizione longobarda. Con un editto del 750 Astolfo prescrisse il tipo di armatura con cui i liberi del regno, longobardi o romani, dovessero prestare il servizio militare, (sulla base della ricchezza e non sull'origine etnica). La conversione al cattolicesimo si era completata: i vescovi erano ormai provenienti dall'aristocrazia longobarda la quale fondava e proteggeva monasteri. In Italia, però, non si formò quella convergenza tra potere regio ed episcopato, componente fondamentale per il regno dei visigoti in Spagna e quello dei franchi in Gallia. Ad Astolfo successe Desiderio e si avviò una politica espansionistica notevole. Il papato per ostacolarla non esitò a chiamare i Franchi in Italia, prima con Pipino il Breve e poi con Carlo Magno. L'Italia bizantina L'invasione longobarda in Italia segnò una rottura in quei territori dominati ancora dai Bizantini. Si mantenne ancora un'organizzazione sociale tradizionale e non ci fu una violenta sostituzione del ceto dominante che subì, però, delle trasformazioni che lo avvicinarono alle usanze longobarde. Problema della difesa perché l'impero impegnato in Oriente non era in grado di inviare in Italia forze consistenti e ciò contribuì alla scomparsa della separazione tra potere civile e militare con unificazione dei due poteri nelle mani delle autorità militari; l'aristocrazia abbandonò gli ozi letterari e assunse impegni militari in forma diretta. Vi fu la perdita dei beni situati nelle zone longobarde al seguito di una difficoltosa gestione nelle zone bizantine. Convergenza tra funzionari bizantini e ceto dirigente latino, favorita dal crescente rilievo economico-sociale e politico che andavano ad assumere il clero e le istituzioni ecclesiastiche all'interno della società. Al suo prestigio la Chiesa affiancava anche una grande disponibilità di terre gestite dai laici. La concessione avveniva sotto forma di enfiteusi (contratto di 29 anni). In età romana serviva per valorizzare le terre in affitto, ora invece, stabiliva un rapporto di tipo clientelare tra l’ente ecclesiastico e l’apparato politico militare. Il coordinamento di tutta la società intorno alla chiesa locale si coglie a Ravenna e a Roma. A Ravenna l'arcivescovo concentrò nelle sue mani un potere che nell'ambito della Romagna faceva concorrenza a quello dell'esarca e che alimentò le sue ambizioni ecclesiastiche, facendogli ottenere dall'imperatore nel 666 il riconoscimento dell'autocefalia della sua chiesa (l'indipendenza dal punto di vista disciplinare dal papato). Le origini dello Stato della Chiesa A Roma i processi sociali e politici ebbero risvolti più clamorosi e duraturi. Nel 750 circa il papato si sostituì alla dominazione bizantina godendo della protezione dei Franchi. I pontefici ebbero stabilirono gradualmente una vera egemonia sul Lazio, legando a sé l'aristocrazia romana e gli esponenti della burocrazia bizantina. La convergenza si esprimeva nel senato, formato da un'aristocrazia vicino al papato, al quale forniva tutte le risorse per formare un apparato vicino al modello della corte bizantina. La posizione del duca bizantino si indeboliva sempre di più, come conferma il biografo di papa Zaccaria, che racconta che il pontefice partì per Ravenna lasciando la città di Roma 7 era quella che Dio aveva rivelato attraverso di lui e istituendo il mese del digiuno (ramadan) in ricordo della rivelazione, avvenuta tra il 26 e 27 ramadan. Il Corano e i pilastri della fede islamica Il pensiero di Maometto fu fissato nel Corano 20 anni dopo la sua morte (nel 632) per volontà del califfo Othman e ad opera di Zaid ibn Thabit, segretario del profeta, che fece ricorso ai ricordi personali e a quelli di altri profeti (vicenda analoga ai Vangeli). Fu utilizzata la lingua dei poeti arabi, diffusa in Arabia, Siria e Mesopotamia, compresa da tutti e destinata ad avere una grande diffusione come lingua di cultura. Gli elementi fondamentali da tener presenti sono i “pilastri della religione” (arkan al-din): 1) Doppia professione di fede (shahada): "non c'è altro dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo profeta". La prima, proclama l'unicità di Allah e distingue l'Islam dal politeismo mentre la seconda lo distingue dalle altre religioni monoteiste, basati sulla rilevazione divina ad opera di altri profeti. La profezia di Maometto è la più perfetta e Dio non ne invierà altre. L'obbligo del musulmano che sposa un'ebrea o una Cristiana a educare i figli nella religione islamica, mentre un uomo di altra religione non può sposare una donna islamica senza che prima si sia convertito all'islam. Trattamento riservato ai non credenti caduti sotto la dominazione: devono convertirsi o essere messi a morte se pagani o politeisti; possono anche conservare la propria religione pagando un’imposta e rinunciando a opere di proselitismo. 2) Preghiera: per chiedere a Dio perdono e benedizione, si recita in due modi sempre rivolti verso La Mecca: in forma individuale cinque volte al giorno al richiamo del muezzin, in un edificio consacrato al culto o in uno spazio qualsiasi isolato dal suolo da un tappeto e in forma comunitaria il venerdì al mezzogiorno, seguita dal sermone dell'iman (direttore della preghiera), studioso di testi sacri e in quanto esperto in grado di spiegarli. Commenta i problemi del momento alla luce del Corano. Ciò ha lo scopo di ravvivare lo spirito comunitario e l’uguaglianza davanti a Dio. 3) Ramadan: intero mese dedicato alle pratiche di devozione, alla lettura e all'approfondimento della fede in generale. É proibito dall'alba al tramonto bere, mangiare, avere rapporti sessuali e oggi anche fumare. Esso si conclude con una grande festa, la "festa di rottura del digiuno". 4) Il pellegrinaggio alla Mecca: almeno una volta nella vita. 5) Elemosina legale o di purificazione (zakah): ad essa erano tenuti i fedeli benestanti verso i più bisognosi, oggi è a livello di volontariato. 6) La guerra Santa (jihad): ai 5 pilastri viene aggiunti anche questo. È considerata l'equivalente delle crociate cristiane. Anche il ramadan è sorta di jihad personale. I teologi negano che la jihad faccia parte dei doveri di un musulmano e ritengono sante solo le guerre che Maometto intraprese a Medina. Il Corano avrebbe dovuto dare qualsiasi risposta agli interrogativi umani ma non fu possibile. Si fece ricorso alla sunna, la tradizione relativa al comportamento tenuto da Maometto in particolari circostanze. Questa sarebbe diventata una delle basi fondamentali del diritto musulmano. La comunità musulmana delle origini e il califfato elettivo Il messaggio di Maometto accoglieva aspetti caratterizzanti della società e della cultura araba quali la pratica della razzia da parte dei beduini, la poligamia, la schiavitù, il pellegrinaggio e il culto della pietra Nera. Ne dava una nuova configurazione organizzandolo intorno un’autorità sia politica che religiosa A Medina Maometto si fece costruire una casa che divenne luogo di preghiera e di riunione e raccolse intorno a sé gran parte degli abitanti della città (gli ebrei a seguito della loro indifferenza furono cacciati via). Gli attacchi alle carovane che si muovevano tra La Mecca, la Siria e l'Egitto fornivano i mezzi di sopravvivenza agli abitanti di Medina ma costituivano 10 una minaccia per i Meccani e facevano crescere il prestigio di Maometto. Ci fu una reazione da parte dei Quraishiti che dovettero, prima, accettare una tregua e consentire, poi, nel 629 a Maometto di fare il pellegrinaggio alla Kaaba e poi avvicinarsi a lui convertendosi all'Islam e aprendogli le porte della città l'11 gennaio del 630. Aumentarono anche le comunità che pagavano un tributo per poter praticare la propria religione. Alla morte di Maometto insorsero problemi per la successione. C'era bisogno di un sostituto (kahlifa, califfo), che avrebbe dovuto reggere la comunità (umma). La scelta cadde su Abu Bakr (uno dei primi seguaci e suocero del profeta) che ebbe la meglio sul cugino e lo zio di Maometto, Ali e Abbas. Alcune tribù però non ne riconobbero l'autorità e abbandonarono l’Islam; il califfo reagì con energia ristabilendo in meno di un anno il controllo sulla penisola arabica lanciando nel corso del 633 le truppe verso l'Iraq e l'anno dopo verso la Siria. Morì nel 634 e venne riaperta la questione sulla successione che fu risolta per una decina d'anni con l'elezione di membri del ristretto gruppo dei parenti e dei primi compagni del profeta (califfato elettivo). La tensione culminò con una rottura (fitna) con l'ascesa al califfato di Ali (genero di Maometto) che stabilì la sua sede a Kufa. Egli venne deposto sulla base di una sentenza che lo ritenne colpevole dell'assassinio del suo predecessore Othman e si mantenne in armi con i suoi seguaci che furono detti “sciiti”, contrapposto alla maggioranza di musulmani ortodossi detti “sunniti”. La morte di Ali, nel 661, proclamò la fine del califfato elettivo e l’avvio del superamento del regime teocratico fondato sul Corano e sulla sunna, verso forme organizzative più complesse. La prima fase dell'espansione islamica Nonostante i contrasti interni per la successione al profeta, la comunità araba si cimentò in uno slancio espansionistico che spazzò via l'esercito dei persiani e amputò quello bizantino (Africa del nord e Siria). Questa situazione non era dovuta solo all’aggressività dei conquistatori, ma anche alla debolezza dei vinti. Egiziani e siriani accolsero gli arabi come liberatori. La gestione dei vasti territori conquistati sottolineò l’inadeguatezza degli ordinamenti politici e fu chiaro che l’uguaglianza propugnata dal Corano con corrispondeva alla realtà, infatti dopo la scomparsa di Maometto ci fu una ripresa di vitalità nei clan familiari (il sistema tribale veniva esaltato dalla guerra). I non arabi convertiti all'islam vennero a trovarsi in un piano di inferiorità in quanto clienti (mawali) alla protezione di un capo tribù. Da un punto di vista religiosa e fiscale erano equiparati agli altri musulmani ma non potevano entrare nell'esercito. Agli inizi del VIII secolo fu consentito il reclutamento nell'esercito di mawali pagati con regolare stipendio. I musulmani e i mawali formavano comunità distinte rispetto le popolazioni sottomesse e all'inizio si stabilirono negli accampamenti da cui nacquero le odierne metropoli provinciali (Kufa, Mossul e Bassora in Iraq, Fustat (il Cairo) in Egitto e Kairouan in Tunisia). I cristiani e gli ebrei costituivano la categoria dei dhimmi (conservavano la propria religione e organizzazione sociale): pagavano una tassa speciale in segno di soggezione e un'impronta ordinaria in base al reddito. Non erano elevate quindi la dominazione era benaccetta. Per il governo dei territori conquistati fu necessario provvedere a un apparato amministrativo ereditato dalle precedenti dominazioni, a cui si aggiunsero gli esponenti arabi. Ad ogni provincia fu posto un (amir, emiro) assistito da un gruppo di guardie, da un giudice e da un responsabile del diwan (apparato finanziario) che amministrava gli introiti dei bottini di guerra e le entrate delle tasse pagate dagli infedeli e delle elemosine versate dai musulmani. Questa situazione rafforzò il ruolo del califfo: questi tendeva a dare stabilità al suo potere e a trasmetterlo ereditariamente. Un esempio fu quello del governo del terzo califfo elettivo, Othman, del clan degli Ommayadi, che si appoggiò ai membri del suo clan di cui 11 favorì l’ascesa sociale, ma contemporaneamente allargò le basi del suo potere creando una vasta clientela politica (attraverso l’assegnazione di terre ai guerrieri arabi). Attraverso essa gli Ommayadi, dopo aver perso il califfato in favore di Ali, tornarono al potere dopo la sua deposizione con Muawjia nel 660 il quale inaugurò una lunga successione di Ommayadi. La ripresa dell'espansione islamica e la crisi della dinastia Omayyade La stabilizzazione del potere coincise con la ripresa dell'andata espansionistica araba; si cercò di rendere la situazione omogenea in tutti i territori. La capitale venne trasferita a Damasco in Siria, forse per esercitare maggior pressione sull’impero bizantino. Molta attenzione venne dedicata all'Iraq dove gli sciiti si mantennero a lungo in armi minacciando rivolte e l’unità dell’impero. Non sparì del tutto lo spirito tribale. Primo obiettivo degli Omayyadi fu Costantinopoli che fu attaccata per terra e per mare, dal momento che i califfi si avvalsero dell'utilizzo dei cantieri navali di Tripoli, Acri e Alessandria. I bizantini risposero agli attacchi distruggendo nel 677 la flotta araba. Cipro, Creta e Rodi furono conquistate. Fu ripresa l'espansione e si mirò a Cartagine che cadde nel 698 nonostante l'accanita resistenza dei bizantini e dei berberi; quest'ultimi guidati da una profetessa, la Kahina, inflissero agli invasori varie sconfitte ma dovettero piegarsi. Si convertirono velocemente all'islam ma mantennero un forte spirito di autonomia aderendo al movimento dei Kharigiti (contestavano l’ereditarietà del potere califfale e rivendicando l’uguaglianza tra gli uomini). Nel 711 gli arabi passarono le colonne d'Ercole giungendo sul promontorio che chiamarono Gebel (monte) el-Tarik (Gibilterra), dal nome del comandante della flotta Tariq ibn Ziyad. Conquistarono la Spagna (al-Andalus) in 5 anni e passarono in Gallia anche se furono sconfitti a Poitiers nel 732. Controllavano la Provenza e la Linguadoca, ritirandosi poi in Spagna. I califfi lanciarono l'offensiva verso l'India e l'Asia centrale raggiungendo nel 710-14 il bacino dell'Indo a sud e quello di Syr Daria a nord. L'inserimento arabo favorì la nascita di alcuni tra i più fiorenti centri di commercio dell'epoca, come Samarcanda e Bukhara (oggi in Uzbekistan). In asia centrale scoppiarono rivolte fatali per la dinastia omayyade L'intervento degli Abbasidi e l'apogeo della civiltà araba Nel 747 vi fu l'insurrezione armata guidata dagli Abbasidi (si ritenevano legittimi successori di Maometto poiché discendenti da suo zio paterno, al-Abbas); essi si impadronirono del potere con l'appoggio degli sciiti e ucciso l'ultimò califfo omayyade spostarono la capitale dalla Siria all'Iraq (regione più inquieta) e nel 762 venne fondata Bagdad per opera di Qui Al-Mansur. Lo stato venne riorganizzato sul modello dell'assolutismo monarchico di stampo orientale e il califfo assunse un ruolo nuovo, era il rappresentante di Dio in terra. Il potere effettivo si concentrò nelle mani di potenti funzionari che crearono delle dinastie (il visir: a lui faceva capo l’amministrazione centrale dello stato). Novità anche nel reclutamento dell'esercito, prima concepito come strumento di potere nelle mani dei sovrani, passò poi sotto il controllo dei capi militari (gli amir). Nel 936 venne istituita la carica di emiro degli emiri (amir al-umara) posto al di sopra del visir per limitarne i poteri. L’obiettivo era affermare l’uguaglianza di tutti i musulmani e il califfo, amir almuminin, (capo dei credenti) ne era la guida. La lingua araba fu un potente fattore di unità religiosa e culturale. Fu il mezzo di comunicazione per i nuovi popoli sottomessi e fu anche la lingua della cultura. Vide una grandissima fioritura in tutti i campi, e Baghdad fu il centro principale. Sviluppo in campo matematico (nel X secolo nacquero l'algebra e la trigonometria), medico, filosofico e artistico, giuridico, letterario. 12 causati dalla guerra greco gotica; si tratta di un dato enfatizzato in quanto la popolazione all’inizio del sec VI era di 4 mln. Pestilenze ed epidemie favorirono il calo e abbassarono l’indice di natalità. Lo storico ci informa che durante la guerra greco gotica tra 542 e 543 giunse un'epidemia di peste bubbonica dall'Etiopia che provocò 300.000 vittime nella sola Costantinopoli. Si aggiunsero le devastazioni longobarde tra 568 e 569. Il calo non ebbe la stessa gravità ovunque. Fu massimo in Italia ma minore in Spagna, Scandinavia, nei Balcani, Inghilterra e altre regioni dell'Europa orientale, le quali contavano una minore popolazione. La centralità della campagna Il calo demografico ebbe conseguenze anche sull’economia e sul paesaggio agrario. Con le città dimezzate, i cittadini provvedevano al proprio fabbisogno mediante la coltivazione di piccole terre e orti, quindi i rapporti commerciali erano molto rari. Il primo problema era il livello assai basso della produttività, causato dal carattere rudimentale degli attrezzi agricoli e dalla perdita delle conoscenze tecniche acquisite durante l'età romana, che non erano mai state eccellenti data la grande disponibilità di manodopera schiavile. La situazione era peggiorata a causa delle diminuite capacità gestionali dei proprietari, più abituati al maneggio delle armi, e alla scarsa capacità delle città di poter compare prodotti dalle campagne. Alla crisi della città si collega anche la crisi dell'artigianato e la scarsa disponibilità del denaro da parte del contadino che incentivò l'autoproduzione e l'autoconsumo. È stato individuato un modello organizzativo ben preciso per l'organizzazione agricola. Tre zone concentriche di produzione attorno al villaggio: la prima fascia era caratterizzata da terre intensamente coltivate a orti e vigneti; una seconda zona era occupata dalla produzione di cereali, dopo il raccolto gli animali del villaggio potevano pascolare liberamente; la terza zona era caratterizzata dai prati, dall'incolto e dal bosco in generale. Era accessibile a tutti per il pascolo, la pesca, la caccia, la raccolta di legna e di frutti spontanei. È uno schema poche volte adottato in maniera completa perché alcune zone vicine alla città erano distribuite in modo vario ed articolato. La produttività della terra era buona negli orti e bassa nelle terre coltivate a cereali che rendevano meno della quantità totale del frumento seminato. Una parte del raccolto veniva conservato per la prossima semina, una parte era destinata al proprietario e una piccola parte restava alla famiglia quindi il contadino necessitava di integrare i prodotti agricoli con la pesca, l'allevamento e la caccia. Questa integrazione non era favorevole nella zona mediterranea a causa della natura arida del terreno. In mancanza di buoi e cavalli, utili per l’aratura, la famiglia contadina era munita di capre, pecore e maiali, tenuti allo stato brado, e non fornivano concime. La scarsità di concime era compensata con le tecniche agrarie applicate in quel periodo: vi era il sovescio (interramento di parte delle piante) e il debbio (incendio delle stoppie). Il più usato fu il maggese (deriva da maggio, periodo di riposo del terreno dopo ogni raccolto). In area mediterranea il riposo durava un anno (rotazione biennale). Il terreno era diviso in due parti e ogni anno una parte era coltivata e l'altra restava a riposo, l’anno seguente avveniva il contrario. Nella parte a maggese pascolava il bestiame. L'organizzazione della curtis Il contadino non era proprietario della terra che coltivava e degli animali che allevava; viveva in condizione servile. In età romana, quando cominciò il calo demografico, i proprietari fondiari cominciarono a ridurre la superficie delle loro aziende coltivata in gestione diretta. L'importante non era avere molti beni quanto l'avere più uomini possibili, una “merce” sempre più rara. Da qui la tendenza ad accasare gli schiavi nella manso (pezzo di terra e di una casa) in modo che potessero provvedere al mantenimento del padrone con i familiari e della loro stessa famiglia. Erano tenuti a corrispondere una parte del raccolto e un certo numero di giornate lavorative (corvees) in determinati periodi 15 dell'anno o per ricorrenze specifiche. Gli schiavi che rimanevano nella casa del padrone venivano definiti nei documenti prebendari (da praebenda, il vitto loro fornito). Il proprietario faceva concessioni anche a coltivatori liberi, ma privi di terra, ai quali richiedeva una quota minore di raccolto e un numero basso di giornate lavorative. Si adeguarono alle stesse condizioni di vita anche i piccoli proprietari terrieri delle zone vicine che trovavano la protezione nei grandi proprietari fondiari anziché nei funzionari pubblici. Vendevano le proprie terre e poi le riprendevano in affitto. Chiedevano protezione e pagavano un canone (in natura, in denaro o in misto). Ciò viene descritto da Salviano da Marsiglia, scrittore del sec V. Il fenomeno non fu uguale in tutta Europa; non si giunse mai in Italia alla scomparsa della piccola proprietà detta allodio, diffusa in tutto il centro sud; furono stretti i rapporti con Bisanzio. Le grandi proprietà si vennero articolando in terre date in concessione a coloni liberi o in condizioni servili (pars massaricia) e terre gestite direttamente dal proprietario (pars dominica). L'insieme delle due parti formava la curtis o villa, in origine indicavano queste 2 parte più gli altri edifici utili per il funzionamento di una grande azienda agricola; successivamente comprendevano un terza parte con stagni, zone incolte. La Power ha descritto la vita che si svolgeva all'interno della curtis. Il contadino, libero o servo, coltivava il suo manso con l'aiuto di moglie e figli e di solito un bambino teneva d'occhio le capre, le pecore o il maiale. Molto tempo era dedicato anche allo sfruttamento dell'incolto attraverso la caccia, la pesca e la raccolta di frutti spontanei. Un'altra parte era assorbita dalle corvées sulla riserva padronale Il ruolo del prestazioni d'opera Ricerca di equilibrio tra terre date in affitto e in quelle a conduzione diretta. L'estensione di queste ultime era in rapporto al numero di prestazioni d'opera su cui era possibile fare affidamento. I terreni ecclesiastici subivano numerosi mutamenti. L’integrazione tra riserva e massiccio era ottimale perché si produceva tutto ciò che era necessario e nacque la cosiddetta “economia curtense”. Si puntava all’autoconsumo. I prodotti dell'agricoltura e dell'artigianato curtensi a volte venivano venduti per poi acquistare sul mercato gli utensili che servivano. Altri prodotti venivano trasportati da corte a corte. L’origine del sistema curtense è antico; la divisione tra terre gestite dal proprietario e quelle date in concessione risaliva all'età romana. Il collegamento organico tra le due parti sembra sia avvenuto in area Franca e che da qui si sia diffuso nel resto d'Europa. In area franca però l'organizzazione curtense non riuscì a coprire l'intero territorio perché con essa coesistettero altre forme di produzione legate alla piccola proprietà contadina e anche perché il collegamento tra riserva e massaricio non fu né stretto né stabile nel tempo. É il caso dell'Italia meridionale. Le origini dei poteri signorili Evoluzione da proprietario a signore. Sia sui servi prebendari sia su quelli casati il signore aveva pieni poteri. Con la diffusione del cristianesimo le condizioni di vita degli schiavi erano migliorate (potevano avere dei beni e una famiglia) ma la chiesa non era ancora arrivata a condannare la schiavitù. La condizione dei servi era differente da quella dei coloni liberi, dipendenti dal proprietario solo dal punto di vista economico. Man mano che i funzionari pubblici apparivano come oppressori cresceva il ruolo di protettore dei grandi proprietari fondiari e di conseguenza anche il loro potere (giustizia e comando) diventò maggiore. Si diffuse la pratica della commendatio, cioè l'affidamento totale a qualcuno più forte in cambio di protezione e aiuto. Pratica simile a quella del mundio diffusa tra i popoli germani, in cui si garantiva protezione su donne bambini e bisognosi in generale. Economia naturale ed economia monetaria 16 Distinzione aristotelica tra economia naturale (economia priva di commerci, caratterizzata da una circolazione monetaria limitata) ed economia monetaria. La prima rispecchia la situazione altomedievale. I commerci tra le varie corti non furono mai interrotti perché non tutti potevano raggiungere autonomamente l’autosufficienza; inoltre ci si recava in città anche per svolgere cerimonie particolari alla cattedrale. Scarsa circolazione di monete d’oro (coniate a Bisanzio e in Oriente); in occidente circolavano monete d'argento in quanto il commercio riguardava beni modesti e di scarsa varietà. Le monete d’oro erano diffuse in oriente dove era frequente lo scambio di prodotti preziosi, come legno, metalli, pelli e schiavi provenienti dai paesi slavi. I commerci languivano ma non dappertutto: casi eccezionali furono l'Italia meridionale, Ravenna e le lagune venete da Grado a Chioggia poiché intrattennero rapporti con l’oriente. Cresceva la potenza di Venezia, importante la sua flotta commerciale che si sviluppò nel IX secolo. Cap 7: L’impero carolingio e le origini del feudalesimo L'ascesa dei Pipinidi Il regno dei Franchi dopo la morte di Clodoveo conobbe un indebolimento del potere regio e l'emergere di 4 organismi politici: la Neustria, l'Austrasia, l'Aquitania e la Borgogna. Erano il lotta tra di loro e percorsi da tendenze autonomistiche da parte dell’aristocrazia. Nel sec VII la lotta all'egemonia si restrinse all'Austrasia e alla Neustria; i protagonisti furono i maestri di palazzo o maggiordomi (da maiores domus) effettivi detentori del potere. All’inizio sembrarono essere vantaggiati quelli della Neustria, ma nella seconda metà del VII sec si imposero i maestri di palazzo dell'Austrasia detti “Pipinidi”, discendenti da Pipino di Landen. Arbitro assoluto del potere in Austrasia, Neustria e Borgogna fu Pipino II di Heristal dal 687 al 714. L'Aquitania stava diventando una realtà indipendente. Carlo Martello successe al trono dopo Pipino II. Intraprese una ricomposizione politico- territoriale e rinsaldò il potere in Austrasia, Neustria e Borgogna e lo estese anche a regioni non ancora assoggettate al dominio franco quali la Frisia, l'Alemanna e la Turingia. Si occupò dell'Aquitania minacciata dagli arabi che dopo aver travolto il regno dei Visigoti, aveva valicato i Pirenei, spingendo si fino in Borgogna. La vittoria franca a Poitiers nel 732 non servì ad allontanarli dalla zona poiché gli arabi conservarono il possesso della Settimania (Linguadoca). Divenne il campione della cristianità. Ciò gli consentì di comportarsi come un re fino alla morte nel 741 (22 ottobre). Divise il regno tra i figli, assegnando al primogenito Carlomanno l'Austrasia, l'Alemannia e la Turingia e al giovane Pipino il Breve la Neustria, la Borgogna e la Provenza. I due fratelli, non seppero proseguire sulla strada paterna e ripristinarono la monarchia merovingia elevando al trono un re fantasma, Childerico III. I fratelli seguivano con interesse l'attività missionaria intrapresa dal monaco anglosassone Bonifacio, il quale, in accordo con papa Zaccaria si era recato a predicare il vangelo a Frisoni e Sassoni ma egli fu ucciso nel 754 dai Frisoni stessi. Egli diede salde basi organizzative alla sua opera di evangelizzazione. Creò una serie di distretti ecclesiastici che divennero sedi vescovili. Rivolse il suo zelo verso il regno dei Franchi poiché l'organizzazione ecclesiastica e la vita religiosa erano in profonda crisi. Furono convocati 3 concili tra il 742 e 744, in cui venne ristabilito l’ordine con la sostituzione dei prelati indegni, la nomina dei titolari nelle sedi vacanti e il ripristino della disciplina ecclesiastica. Nel 747 Carlomanno abdicò in favore del fratello Pipino, ritirandosi nel monastero di Montecassino e nel 750, come raccontano gli Annales Regni Francorum inviò a papa Zaccaria due ambasciatori per chiedergli se dovesse essere re chi ne aveva il titolo o chi ne deteneva il potere effettivo. Il papa si espresse a favore della seconda opzione (fonte ufficiosa della corte franca favorevole a Pipino). Il papato, ovviamente, era orientato a stabilire un saldo collegamento con la nascente potenza franca, forte alleato contro i longobardi. 17 di nuovo fedeltà a Carlo Magno, ma tentò di riprendere la sua autonomia suscitando la reazione di Carlo che nel 788 incorporò Baviera, Carinzia e Austria nel suo regno internando l'infido vassallo. Il territorio di Carlo si espandeva in un territorio vastissimo comprendente tutta l’Europa centrale: dalla Spagna al mare del Nord, al bacino inferiore dell'Elba, al medio Danubio, all'Italia centrale. Dominava anche sull'Italia meridionale, la fascia dall'Oder fino all'Adriatico, attraverso le attuali Polonia, Boemia, Slovacchia, Ungheria, Croazia e Serbia. Per giungere a questo risultato furono necessarie ripetute spedizioni contro gli Avari che dalla Pannonia compivano incursioni in Germania e Austria. Poi si convertirono e furono annessi ai Franchi. L'incoronazione imperiale di Carlo Magno Carlo, a corte, si circonda di numerosi uomini di cultura (monaci ed ecclesiastici) che gli fanno notare le numerose responsabilità che il suo potere comporta, le stesse di un imperatore romano. Lo aiutano a formulare un’ideologia del potere. Il sovrano, patrizio dei romani e protettore della Chiesa, vedeva attribuirsi poteri propri dell'imperatore bizantino. Si ispirò al modello imperiale romano, particolarmente a Costantino. Fondò Aquisgrana proclamata poi città capitale; s’ispirò a modelli antichi sia nella disposizione che nella forma degli edifici. I tre edifici più qualificanti, secondo il biografo Eginardo sono: 1) l'aula del palazzo: fu esemplata su quella costantiniana di Treviri, destinata a cerimonie e assemblee. Superamento della tradizione franca della hall come luogo di riunione e banchetto, dormitorio comune della famiglia e della corte. 2) la basilica: a pianta centrale e a forma di ottagono articolato in due piani sovrapposti, ebbe a modello la chiesa di S. Vitale di Ravenna che riprendeva l'architettura della cappella palatina di Costantinopoli. 3) il portico. Aula e cappella che per comodità avrebbero dovuto essere vicine, erano distanti e collegate tramite una galleria coperta come in antichità. Nonostante ciò Carlo nei suoi atti ufficiali continuava a far uso dei titoli tradizionali di “re dei franchi, re dei longobardi e Patrizio dei romani”. Gli avvenimenti prossimi gli consentirono di ottenere un solenne riconoscimento. Dal 797 occupava il trono di Costantinopoli l'imperatrice Irene che fece accecare il figlio Costantino VI per governare, arrecando danno al prestigio e alla dignità imperiale. Secondo gli annali dell’abbazia di Lorsch era venuto meno il titolo d’imperatore presso i greci dato che erano governati da una donna. A ciò s’aggiunse la debolezza del papato retto dal 795 da papa Leone III, contrastato dagli esponenti della nobiltà romana. La situazione precipitò il 25 aprile del 799 quando il papa, in processione a San Lorenzo in Lucina fu aggredito, ferito e imprigionato nel monastero di Sant'Erasmo dal quale poté uscire solo grazie l'intervento di due missi franchi. Raggiunse Carlo a Paderborn e fu riaccompagnato a Roma sotto scorta il 24 novembre dell'800. Poiché le accuse contro il pontefice erano molto gravi il 1 dicembre dell’800 venne convocata un’assemblea di prelati e di laici, davanti alla quale il 23 di quel mese Leone III giurò sulla propria innocenza. Nella chiesa di San Pietro, due giorni dopo, durante la celebrazione liturgica del Natale, Leone III pose sul capo di Carlo Magno una corona mentre il popolo romano ripeteva per 3 volte l'acclamazione "a Carlo Augusto, coronato da dio, grande e Pacifico imperatore dei romani, vita e vittoria". Coinvolti oltre il popolo romano, Carlo Magno e Leone III, erano anche i conti franchi, i prelati dell'assemblea che avevano giudicato il papa. Non si sa se effettivamente se la paternità dell'iniziativa sia del pontefice o se questi l’abbia preparata insieme a Carlo? Il re era già da tempo pronto alla promozione ed era arbitro delle questioni del tempo; l'incoronazione da parte del papa, nonostante la sua minor voce in capitolo, riaffermava la 20 supremazia religiosa della Chiesa di Roma. Carlo avrebbe potuto ottenere quel titolo da Costantinopoli solo se i sovrani occidentali avrebbero goduto di maggior prestigio. L'incoronazione suscitò derisione e ostilità, come confermato dalla principessa Teofane, che ci presenta Carlo come novello imperatore "unto dal pontefice dalla testa ai piedi". Irene venne deposta e al trono ascese l'imperatore Niceforo: ciò provocò un conflitto tra i due imperi che terminò solo nell'812, quando il nuovo imperatore Michele I riconobbe a Carlo il titolo imperiale in cambio della cessione dei territori nell'Istria e nella Dalmazia e alla rinuncia a ogni pretesa su Venezia. Risolta la questione con Bisanzio, rimase aperta quella dei rapporti con il papato. Per Carlo era fondamentale assicurare protezione e controllo dell'apparato ecclesiastico; al papa sarebbe spettato solamente pregare per assicurare la protezione divina all’esercito. Il papato non poteva accettare un ruolo così marginale per cui dopo la morte dell'imperatore la questione fu riaperta. L'ordinamento pubblico carolingio Abbiamo una stretta compenetrazione tra stato e chiesa sotto la guida del potere politico. Negli immensi territori dominati da Carlo rimasero in vigore gli ordinamenti e le leggi preesistenti; le novità di carattere legislativo si ebbero in materia di diritto pubblico e di funzionamento dell'apparato ecclesiastico. Nei territori affidati ai figli, che non godevano di ampia autonomia, Carlo mirò a creare distretti più o meno grandi e territorialmente coerenti a capo dei quali pose dei funzionari pubblici con il titolo di conte e con il compito di provvedere alla difesa e all'amministrazione della giustizia. Nelle zone di nuova conquista o di frontiera, i distretti di larga estensione (chiamati anche marche) avevano bisogno di maggiore protezione e vennero affidati “ai marchesi”. Grandi distretti erano anche i Ducati, alcuni ebbero anche carattere nazionale, come quelli dei Bavaresi o dei Bretoni. Conti, marchesi e duchi erano reclutati a volte sul posto, altre volte dalla schiera dei vassalli diretti del re o dalle famiglie in stretto contatto con la corte franca. La loro opera era ricompensata non solo con il prestigio e la potenza che la carica comportava (honor) ma anche con i proventi di multe e confische e con il reddito prodotto dai beni terrieri che costituivano la normale dotazione della carica (res de comitatu). Già questi potevano detenere dal sovrano terre in feudo e ne riceveva ulteriormente all'entrata della carica, volendo il re accoglierlo tra i suoi vassalli. Nelle mani del funzionario pubblico si veniva a concentrare un vasto patrimonio formato dalle terre che egli riteneva, alcuni in quanto beni di famiglia (allodi), altre come beneficio in quanto vassallo del re, altre a titolo di compenso per la carica pubblica che ricopriva. Si ritenne necessario controllare l'operato dei conti, insediando nei territori un gran numero di vassi dominici, sottoposti alla giurisdizione dei conti. La loro presenza costituiva un fattore di equilibrio rispetto al potere dei funzionari pubblici. Ricorso sempre più ampio all'immunità, istituto giuridico nato in età romana per sottrarre al fisco le terre del demanio imperiale, adottato anche dai merovingi a favore dell’ente papale. All'originaria immunità imperiale ne era stata aggiunta un'altra di carattere giurisdizionale: nelle terre immuni non poteva entrare nessun funzionario pubblico per riscuotere imposte e per compiere arresti o altri atti di polizia che erano demandati all'immunista (titolare di quella concessione). Si creavano isole di giurisdizione che sottraevano potere al conte. Si raccomando all’ente ecclesiastico di procedere in accordo al funzionario pubblico nella nomina dell’avvocato che garantiva l’ordine pubblico. L'amministrazione dell'impero faceva capo al palazzo (palatium: indicava sia la residenza del sovrano sia l'insieme dei funzionari e dei dignitari corte che erano al suo seguito e svolgevano determinati compiti). I 3 ufficiali principali, stretti e fedeli all'imperatore, erano: 1) l'arcicappellano: capo dei chierici del palazzo e preposto a tutti gli affari di natura ecclesiastica; 2) il cancelliere: ecclesiastico addetto alla redazione di diplomi, lettere del re e tesi legislativi; 3) il conte/conti palatini: responsabili dell'amministrazione della giustizia, incaricati di missioni speciali per conto del re. 21 Ruolo importante svolto anche dai missi dominici, un laico e un ecclesiastico, ispettori che ogni anno, a due a due, avevano il compito di visitare una determinata contea per controllare l'operato degli ecclesiastici e dei funzionari laici. Questi funzionari davano vita ad un’amministrazione più sviluppata rispetto i precedenti regni romano-barbarici, ma che non reggevano il confronto con Costantinopoli. La corte non aveva sede fissa ma era itinerante e assicurava un rapporto più stretto con le realtà locali. Più frequenti e lunghi divennero i soggiorni ad Aquisgrana. L'attività legislativa di Carlo Magno Carlo cercò di dare all’impero un’omogeneità comune con l’emanazione dei capitolari, leggi formate da brevi articoli (capitula) emanate nel corso di annuali assemblee dette placiti. Se ne tenevano due all'anno: una a porte chiuse in ottobre alla quale partecipavano consiglieri e gli esponenti dell'aristocrazia, si scambiavano opinioni sui problemi del momento; l'altra a maggio, il placito generale, con la partecipazioni dei funzionari, anche minori, e di tutti i vassalli regi. La materia trattata nei capitolari era il diritto pubblico e l'organizzazione ecclesiastica. Alcuni di essi, i capitularia legibus addenda, si configuravano come integrazione alle leggi nazionali dei popoli che facevano parte dell'impero intervenendo nel diritto penale e in quello privato. Interventi legislativi anche in campo economico sia per migliorare la gestione delle ville appartenenti al fisco regio (capitulare de villis) sia per proteggere le popolazioni rurali e il ceto dei piccoli proprietari fondiari che erano la base dell'esercito di popolo. Si cercava di frenare l'incetta dei prodotti agricoli da parte dei grandi proprietari terrieri che acquistavano il grano al tempo del raccolto e lo rivendevano alla vigilia del raccolto successivo, ricavando notevoli guadagni. Per proteggere i ceti meno abbienti si fissarono i prezzi dei beni in un capitolare del 794. Attraverso i capitolari si fece ordine nel settore monetario e fiscale. Si regolamentarono la riscossione di dazi e pedaggi su strade, ponti e valichi. Coniazione di monete d'argento visto la scarsità dell'oro presso le zecche private onde evitare le contraffazioni. La moneta circolante diventò il denaro anche se si continuava a fare uso del soldo per i beni di valore inferiore. I pagamenti erano fatti in denari, quotati 12 a 1 rispetto al soldo. La riforma di chiese e monasteri Carlo si impegnò a fondo in questa riforma intrapresa da Bonifacio; così fece Ludovico il Pio suo figlio e successore. Concepirono l’idea di un impero coincidente con la comunità cristiana, retto in unità di intenti tra imperatore e papa che a quel tempo era Gelasio. Carlo sapeva che avere buoni abati e vescovi garantiva un buon funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche e davano solidità all’impero. Quando si conquistavano nuovi territori, seguiva subito l'introduzione di modelli organizzativi della chiesa articolata in province, diocesi e pievi. Le prime erano rette dagli arcivescovi e comprendevano un certo numero di diocesi, divise a loro volta in grandi circoscrizioni parrocchiali dette pievi. Vi furono anche delle riforme per i monasteri, in quanto alcuni dei più famosi avevano perso prestigio e dignità poiché decaduti. Avevano contribuito alla decadenza anche l'affievolimento della disciplina monastica interna, che vide un miglioramento definitivo grazie all'opera di Ludovico e del consigliere Benedetto d'Aniane. Introdussero in ogni monastero la regola di San Benedetto. Venne considerato essenziale anche elevare il livello culturale di monaci e chierici e vennero istituite scuole presso le chiese cattedrali e i monasteri nelle quali, oltre alle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia) si insegnavano anche la teologia, il canto gregoriano e le norme (canoni) che regolavano la vita della chiesa; il desiderio di Carlo sarebbe stato estendere l'istruzione a tutti i sudditi. La rinascita carolingia 22 razzie in Campania, ad Agropoli e alle foci del Garigliano e in Provenza nei pressi di Saint Tropez. Dall’ 899 per 80 anni restarono ancorati alla loro base a Frassineto da cui partivano per effettuare numerose incursioni in Provenza, in Piemonte occidentale arrivando a saccheggiare l'abbazia di San Gallo in svizzera. Nel 937 il marchese di Torino e il conte di Provenza riuscirono a cacciarli. Razziarono altre strutture ecclesiastiche e città. Arrivarono anche a Roma, saccheggiando San Pietro nel 846. Oltre agli oggetti di valore, andavano alla ricerca di donne e ragazzi da rivenderli come schiavi. Per fermarli bisognava versare dei pesanti tributi in denaro. Il secolo X vide esiti alterni, però ci furono molte vittorie grazie alle flotte navali pisane, napoletane e veneziane. I nuclei pirateschi si mantennero in vita sino al sec XII. Le incursioni e gli insediamenti dei Vichinghi Altre regioni europee furono attaccate dai Normanni o Vichinghi, i quali partendo dalla Scandinavia compirono razzie ed incursioni; istaurarono anche traffici pacifici con le popolazioni locali. Quelli provenienti dall’attuale Svezia (Vichinghi) si diressero verso le steppe della Russia e la riorganizzarono politicamente. Quelli che navigavano di diressero verso la Groenlandia e l'Islanda, Inghilterra, Irlanda o Francia del nord. Tra il 859-60 giunsero anche nel mediterraneo toccando Catalogna, Provenza e Toscana. Sulle coste compivano razzie e poi costruivano insediamenti fortificati dai quali partire per le incursioni prossime. Assalivano monasteri e città a meno che questi non versassero grossi tributi in denaro. Li pagò anche Carlo il Grosso per proteggere Parigi e per questo comportamento fu deposto nel 887. I successori non conseguirono i risultati sperati. Nel 911 Carlo il Semplici tentò di renderli sedentari concedendo in feudo al loro capo Rollone l'attuale Normandia (nord Francia). Essi, in 50 anni, diedero al territorio un forte inquadramento politico attraverso una rete di rapporti vassallatico-beneficiari che faceva capo al duca. I Danesi si diressero verso le coste dell'UK e da razziatori divennero sedentari arrivando a controllare verso la fine del IX secolo tutta la parte centrale dell'isola a cui diedero il nome di Danelaw. Non emerse un capo. L'incastellamento e la nuova organizzazione del territorio I sovrani dei regni nati dalla dissoluzione dell’impero carolingio tentarono di difendere i propri territori innalzando fortezze, sbarrando i fiumi con i ponti e fortificando le mura. Spesso l'autorizzazione veniva a mancare in quanto la costruzione era precipitosa per questioni di emergenza. Altre volte si aveva il permesso diretto del re. Il signore si occupò in seguito di tutte le funzioni giuridico-amministrative che riguardavano la costruzione e gli abitanti che essa raccoglieva. Nel castello sorgeva anche una chiesa e ciò lascia comprendere che il territorio incastellato si configurava come un organismo politico autonomo. Il castello medievale indica due realtà distinte: la fortezza presidiata dai soldati in cui risiedeva il signore castellano con la famiglia; il villaggio fortificato cioè un centro abitato preesistente circondato da mura e vallato per prevenire il primo attacco. Si configurano quei territori che ancora oggi vediamo alle pendici dei castello. Si ebbero delle ripercussioni sulla rete viaria e furono sconvolti anche i distretti pievani sostituiti dalle prime parrocchie. Il groviglio dei diritti signorili e l'evoluzione dei rapporti vassallatico-beneficiari L’Europa per quanto immersa nel mondo rurale aveva bisogno di qualcuno che la governasse. Il X secolo, non fu solo un “secolo di ferro” infatti vide una profonda riorganizzazione sociale dal basso, per adeguare le strutture politiche alle esigenze sociali. Es: dei contadini hanno in affitto delle terre presso 3 signori diversi ai quali devono le corvées; nel momento in cui uno dei 3 costruisce una fortezza e tende ad assoggettare il popolo non si sa più a chi bisogna far capo. Da cui nasce la consuetudine di lasciar gestire la difesa del territorio e l’alta giustizia ai signori territoriali e la bassa giustizia ai 25 minori signori. Non sempre i rapporti furono pacifici per questo si parla di “secolo di ferro”. Nonostante sia giusta la teoria che vede nei rapporti vassallatico-beneficiari la causa della crisi gli ordinamenti degli stati carolingi, bisogna riflettere sulla loro trasformazione. L'antico rapporto vassallatico era capovolto; inizialmente si giurava fedeltà, la quale, in seguito, permetteva di essere ricompensato con il feudo (o beneficio). La fedeltà era più vincolante dei rapporti di sangue, in quanto una volta giurato al signore occorreva, se necessario, opporsi anche al proprio padre. In questo periodo si ebbe il paradosso della pluralità degli omaggi: un cavaliere prestava l'omaggio e il connesso giuramento di fedeltà a più signori, ricevendo più feudi, ma si considerava obbligato militarmente solo nei confronti del signore che aveva dato il feudo più grande. La tendenza ad inserire il feudo nel patrimonio familiare e a considerarlo ereditario veniva rafforzata dai provvedimenti legislativi. Il primo al quale fare riferimento è il “Capitolare di Quierzy” emanato da Carlo il Calvo nell’ 877 alla vigilia di una spedizione in Italia contro i saraceni. Con esso si stabiliva che in caso di morte di un conte o di un vassallo con un figlio minorenne o al seguito dell'imperatore si sarebbe dovuto provvedere ad un'amministrazione provvisoria della contea o del feudo, in attesa del suo ritorno. Non venne sancita né l'ereditarietà di una contea né quella di un feudo. L'obiettivo era quello di assicurare ai cavalieri del suo esercito che non sarebbero stati danneggiati nelle loro aspettative di successione anche con la loro momentanea assenza dalle loro terre. Dato che l’ereditarietà era già in atto il capitolare fu interpretato come formale sanzione dell'ereditarietà del feudo maggiore. Per i feudi maggiori si dovrà attendere la Constitutio de feudis emanata nel 1037 da re Corrado II. Il risultato della diffusione di questi rapporti fu una rete intricata di rapporti politici. La rete si sostituisce alla gerarchia piramidale precedente: ognuno era il vassallo di uno e il signore di un altro fino a giungere il vertice con il re. La situazione precipitò tra l’XI e XII sec quando l’organizzazione territoriale si frantumò ulteriormente lasciando il posto solo ai grandi organismi. Caso emblematico è quello francese: dopo l’estinzione carolingia, nel 987 la famiglia dei Robertingi prese il potere, e assunse la corona con Ugo Capeto da cui prese il nome la dinastia dei Capetingi. Il potere regio si esercitava solo su una zona ristretta compresa tra la Senna e la Loira gravitante sulle città di Parigi e Orleans. Il resto faceva capo ad organismi autonomi (ducato di Normandia, di Aquitania, le contee di Fiadra, Bretagna ect.) La crisi dell'ordinamento ecclesiastico L’Europa in questo periodo non disponeva delle risorse materiali e intellettuali per sostenere le strutture organizzative, perciò assistiamo anche alla crisi dell’ordinamento ecclesiastico. I vescovi dedicavano più tempo alla gestione delle questioni temporali e concedevano in feudo ai loro vassalli le risorse delle chiese (le decime versate dai fedeli) per assicurarsi il servizio militare. Anche quelli più impegnati dal punto di vista spirituale non riuscivano a svolgere i loro compiti di natura pastorale perché un numero sempre più crescente di chiese veniva sottratto al loro controllo dai laici. La legislazione canonica vigente prevedeva per i proprietari di chiese solo il diritto di presentare al vescovo il chierico candidato ad assumerne la cura essendo riservato a lui il conferimento sia delle funzioni di carattere religioso (officium) sia delle entrate dei beni ad essi connessi (beneficium). Al vescovo spettava il controllo sulle attività pastorali; la realtà era diversa poiché il proprietario laico sceglieva personalmente il chierico e il vescovo doveva accettare la decisione. Gravi furono i danni per le chiese parrocchiali (cura d’anime) che subivano questa organizzazione ecclesiastica. Diffusa la tendenza degli imperatori a imporre i propri candidati alla guida di diocesi e di grandi abbazie. Il sostegno di questi enti diventava fondamentale quando venivano dotati di poteri di natura pubblica. Il fenomeno interessò la Germania e l'Italia al tempo dell'imperatore Ottone I e alcuni vescovi furono investiti dalla carica di conti. Il clero era sottoposto al controllo dei laici; Ludovico il Pio impose al papa nell’824 la Constitutio romana. Questo però non impedì a papa Niccolò I, 26 eletto per volontà di Ludovico II, di affermare il primato pontificio su tutta la chiesa e su ogni potere temporale, anche se il papato in realtà soggiaceva al potere imperiale e si trovava indifeso davanti alla pressione dall'aristocrazia romana. Cap 9: L’Italia fra poteri locali e potestà universali La frantumazione politica dell'Italia Nel sec X l’Italia presentava un quadro politico e sociale molto critico; erano in atto la crisi del potere regio e comitale, l’incastellamento, il groviglio di poteri signorili e relazioni vassallatiche, la proliferazione di monasteri privati e il basso livello culturale del clero. L'Italia settentrionale (tranne Venezia) e buona parte di quella centrale formavano il regno di Italia cui fu unita la dignità imperiale. Puglia, Basilicata, Calabria e buona parte della Campania costiera erano ancora inserite nell'impero bizantino che stava attraversando un periodo di splendore e di slancio espansionistico. Divenne terra di scontro tra i due imperi poiché rivendicavano la sovranità sui territori meridionali rimasti ai longobardi. Si trattava dell'antico ducato di Benevento che Arechi II aveva sottratto alla conquista di Carlo Magno, lo trasformò in un principato e accolse i longobardi che non si sottomisero ai franchi. I contrasti interni alla dinastia principesca portarono nel 849 alla divisione nei due principati di Benevento e Salerno da cui si distacco in seguito la contea di Capua. Le lotte per l’egemonia tra i 3 territori inserirono nelle vicende interne sia i Saraceni, sia i 2 imperi cui chiedevano protezione. Questo episodio tenta di spiegare la complicata situazione: Ludovico II dopo aver liberato Bari dai Saraceni nell'871, portò prigioniero a Benevento l'emiro Sawdan, filosofo e capo militare e affascinò tutti. Il principe beneventano Adelchi ritenendo di non aver più bisogno dei Franchi e temendone la potenza, si accordò con Sawdan e imprigionò l'imperatore; lo rilasciò 40 gg dopo assicurandosi che non si sarebbe vendicato del suo tradimento. Teorica sovranità dell'impero bizantino su Napoli, Gaeta e Amalfi retti da dinastie locali e in contrasto con i vicini stati longobardi. I duchi seppero garantire a lungo l’indipendenza, avvalendosi dell’aiuto dei Saraceni nonostante le minacce di scomunica. Al centro della penisola (Lazio, Abruzzo, Molise e Campania) c'erano le signorie di Montecassino e San Vincenzo al Volturno dotate di privilegi e immunità da Carlo Magno e i suoi successori; erano poste sotto la “defensio” degli imperatori. Furono rette da abati di origine franca fino alla metà del sec IX; ka crisi dell’autorità imperiale le rese più vulnerabili agli attacchi longobardi e saraceni. Il fattore di maggiore complicazione fu la discontinua signoria papale sui territori dell’Italia centrale; la situazione mutò nel sec XI quando, estromesso l’imperatore bizantino, si fronteggiarono il papato e l’impero romano-germanico. Nel 902 gli arabi completarono la conquista della Sicilia, dalla quale partivano per incursioni nel Mezzogiorno e in oriente. Il regno di Italia Il regno italico fu attribuito, dopo la deposizione di Carlo il Grosso nell’887, al marchese del Friuli Berengario; gli susseguirono rapidamente una serie di re. Contro Berengario si levò Guido, duca di Spoleto, il quale, pur essendo stato sconfitto sulle rive della Trebbia, riuscì ad avere la meglio sul primo ottenendo la corona di imperatore priva di valore politico perché Francia e Germania erano regni indipendenti. Alla sua morte, nell’894, gli succede il figlio Lamberto che regnò in mezzo a molte difficoltà per soli 4 anni. Berengario non si era arreso ed era pronto a rientrare in gioco potendo ancora godere dell’appoggio dei suoi sostenitori. Il re di Germania Arnolfo di Carinzia ostacolò Lamberto. Arnolfo venne chiamato da papa Formoso per sottrarsi alla pressione esercitata dal nuovo imperatore sui territori pontifici dai domini spoletini. Arnolfo, riconosciuto re dai feudatari italiani nell’894, fu incoronato imperatore da papa Formoso due anni dopo. Si delinearono i precedenti per le successive rivendicazioni dei re di Germania sul regno d’Italia. 27 bizantini non onoravano i patti matrimoniali tra Ottone I e Giovanni Zimisce. Nel 980 Ottone II era a Roma per preparare una campagna in Italia meridionale ma nel 982 subì una sconfitta da parte dei Saraceni a Stilo in Calabria. Morì a 28 anni. Lasciava come erede il piccolo Ottone III sotto la tutela prima della madre Teofane e dopo la sua morte nel 991 alla nonna Adelaide. Nel 996 il giovane Ottone a 16 anni poté raccogliere l'eredità paterna. Riprese la politica del nonno; rispettò il connubio tra regno e sacerdozio e nominò pontefice un suo parente e cappellano di corte, Gregorio V al quale diede come suo successore il suo maestro Gerberto d'Aurillac, che prese il nome di Silvestro II (si pose in continuità con papa Silvestro che “operò” con Costantino). L’imperatore voleva guidare la Cristianità alla felicità terrena e alla salvezza eterna, governando a contatto con il pontefice; appena diventò imperatore, trasferì la corte sull’Aventino e adottò il cerimoniale bizantino. Il programma di restaurazione imperiale prevedeva la sottomissione di tutte le potestà terrene comprese le monarchie fino allora indipendenti. I suoi progetti utopistici incontrarono degli ostacoli. In Germania cresceva tra l'aristocrazia lo scontento per la scarsa considerazione dell'imperatore nei loro confronti. In Italia i grandi feudatari, abituati all’indipendenza, non gradivano che il loro re e imperatore vi avesse preso stabile residenza. Il risultato fu una sollevazione di feudatari italiani capeggiati dal marchese Arduino di Ivrea nel 999. Ad essa segui quella dei romani nel 1001 che costrinse Ottone III a lasciare la città. L'anno dopo moriva a 22 anni senza eredi nel monastero del Monte Soratte presso Roma. Arduino d'Ivrea primo re nazionale? Gli successe il cugino Enrico II, che concentrò i suoi sforzi sulla Germania alle prese con l’indipendenza. Si rivelò decisivo l'appoggio dei vescovi ai quali Enrico fece concessioni ancora più ampie di quelle degli Ottoni e sui quali mantenne un vigile controllo. Si preoccupò di combattere la rilassatezza dei costumi del clero. In Italia la lontananza di Enrico aveva favorito i progetti d’indipendenza degli aristocratici; Arduino venne incoronato a Pavia nel 1002 e viene considerato dalla storiografia romantica il primo re nazionale. La sua vicenda si svolse all'interno della vecchia logica delle lotte per il potere nell'ambito dall'aristocrazia feudale. I grandi del regno si divisero sulla base dei loro interessi e quelli che sostenevano Arduino non formavano il partito più forte, ma la monarchia tedesca era orientata a considerare diritto inalienabile la corona di Italia, premessa di quella imperiale, e poteva sempre contare sull'appoggio della feudalità ecclesiastica. Nel 1004 Enrico II valicò le Alpi e ottenne, dopo aver sconfitto Arduino, a Pavia la corona di re di Italia. Arduino non si diede per vinto e si mantenne in armi per dieci anni ancora a desistette ritirandosi nel monastero di Fruttuaria dove morì nel 1015. Il potere locale e l'emergere di nuovi ceti Nel 1014 Enrico II si era fatto incoronare imperatore da papa Benedetto VIII della famiglia dei conti di Tuscolo. A lui successe Giovanni XIX della stessa famiglia. La presenza dei Tuscolo al tempo di Enrico II evidenzia la difficoltà dei tedeschi di imporre il loro potere in Italia. La situazione era resa complicata dal fatto che non si era avuta in Italia la formazione di grandi principati territoriali e lo avevano impedito vari fattori: presenza del re e del seguito armato, le incursioni saracene e ungare e la vitalità delle città dovuta alla politica ottoniana di appoggio ai vescovi. I vescovi, nonostante il possesso dei beni fondiari, erano legati alla città da vincoli familiari, e nella loro attività politica non potevano sottrarsi al condizionamento della comunità cittadina alla quale spettava il diritto di eleggerli essendo in vigore l'elezione a clero et populo: i vescovi necessitavano del consenso dei cittadini. Questi, a loro volta, erano lieti di sostenerli perché i poteri significavano per la comunità cittadina e per gli operatori economici maggiore libertà di movimento e coinvolgimento nella vita politica locale superiore rispetto a quello che avveniva nella campagne. Le città erano soggetti politici attivi già prima della nascita dei 30 comuni caso di Milano: arcivescovo Ariberto d'Intimiano negli anni trenta dell'XI secolo venne a trovarsi con altri feudatari (capitanei) in contrasto con i rispettivi valvassori (milites secundi) che rivendicavano l’ereditarietà dei feudi ai loro figli. Si trattava di una prassi che i maggiori feudatari cercavano di contrastare per frenare la crescita della nobiltà minore, sempre più numerosa in alta Italia, dove vigeva il cosiddetto feudo longobardo divisibile tra gli eredi (il feudo franco era indivisibile). Il neo imperatore Corrado II della casa di Franconia, pensò di poter riaffermare in Lombardia l'autorità imperiale indebolitasi dopo la morte di Enrico II e la distruzione del palazzo regio di Pavia nel 1024 ad opera dei cittadini. Approfittando della crisi dell’alta nobiltà, si schierò dalla parte dei valvassori emanando in loro favore nel 1037 la Constitutio de feudis con la quale assicurava l'ereditarietà ai feudi minori e il ricorso al tribunale imperiale contro gli abusi dei grandi. Decise di deporre e processare il vescovo Ariberto difeso dai milanesi; Corrado, quindi, tornò in patria. La vittoria era da attribuire alla nobiltà minore e ai ceti dediti all’artigianato e al commercio. Successivamente avrebbero assunto la gestione diretta del governo locale, contribuendo alla nascita del comune. Città e poteri signorili in Italia meridionale Amalfi, Gaeta, Napoli, Salerno, Bari, Otranto, Taranto e Reggio traevano vantaggio dal collegamento con il mondo bizantino e arabo in piena fioritura economica e commerciale. La struttura sociale vedeva la nascita di nuovi ceti legati all’artigianato e al commercio che sostituirono i mercanti orientali. Ciò assicurava una voce in capitolo anche in campo politico. Il fenomeno era più evidente nelle zone bizantine, ma interessava anche quelle longobarde. La differenza emergeva al di fuori dei centri urbani. Nelle zone longobarde emergevano signorie fondiarie e territoriali. Anche al sud il possesso di vasti beni terrieri aveva comportato l'esercizio di poteri di comando su quelli che vi abitavano, ma la nascita delle signorie nel X sec era riconducibile all'intraprendenza dei funzionari pubblici che tendevano a radicarsi sul territorio e a sfuggire al controllo del principe. Anche in Italia meridionale si ebbe una fervida costruzione di castelli, che attiravano i coloni dalle zone spopolate che i signori volevano valorizzare e mettere a coltura. Questo fenomeno, diffuso a Montecassino e a san Vincenzo al Volturno, fu citato nel Chronicon Vulturnese, dal monaco Giovanni. Nelle zone longobarde si ebbe una proliferazione dei poteri locali e un indebolimento del potere imperiale. L’area bizantina con la Puglia, la Basilicata e la Calabria, organizzate nei 3 temi (circoscrizioni territoriali) di Longobardia, Lucania e Calabria. I tre piccoli Ducati di Gaeta, Napoli e Amalfi erano indipendenti. Il tema era retto da uno stratega inviato da Bisanzio che aveva il compito di coinvolgere le forze locali nella difesa degli attacchi esterni e di garantirne il collegamento con il potere centrale. Quest’organizzazione fu potenziata alla fine del sec X, con l’inserimento dei 3 temi in una superiore struttura di governo, il catepanato d’Italia, con sede a Bari. Era efficace per dare stabilità al governo bizantino. Esso mirava al recupero dei territori in Puglia e Calabria appartenute precedentemente ai longobardi e alla resistenza vittoriosa contro l'offensiva sassone. I bizantini puntavano ad ottenere il consenso alla loro dominazione anche da parte della popolazione longobarda della Puglia e della Calabria. Anche diffusione del monachesimo italo-greco contribuiva indirettamente a orientare la popolazione verso i modelli culturali e spirituali del mondo bizantino. La maggiore circolazione monetaria conferiva caratteri originali alle terre meridionali. Cap 10: Splendore e declino di Bisanzio La grecizzazione dell'impero L'impero bizantino alla fine dell’VIII sec, a causa degli attacchi di Arabi, Slavi e Bulgari, comprendeva in Asia poco meno della metà dell'attuale Turchia e in Europa la Tracia orientale e le città greche di Atene, Patrasso e Corinto e i territori dell'Italia meridionale sottratti alla conquista dei longobardi; un terzo dei territori al tempo di Eraclio. L’impero 31 resistette e passò al contrattacco verso la metà del sec IX recuperando parte dei territori perduti; questo fu favorito dall’attenuazione dello slancio espansivo degli arabi e dall’impegno delle varie dinastie nel riformare l'amministrazione provinciale con la creazione dei temi e il concentramento dei poteri civili e militari nelle mani dello stratega, avviata già da Maurizio ed Eraclio. Mirava a radicare nel territorio gli stratioti, soldati che vennero resi nello stesso tempo colonizzatori e proprietari delle terre che dovevano difendere e che potevano trasmettere ai loro figli assieme all'obbligo di prestare il servizio militare. Erano quasi del tutto esentati dal pagamento delle tasse e ricevevano un piccolo stipendio per far fronte alle spese di armamento. Si favorì la formazione di una piccola proprietà di contadini liberi che vivevano in villaggi, responsabili del pagamento delle tasse anche per eventuali evasori. L'impero bizantino, impegnato militarmente lungo i confini, rinunciò alle pretese di dominio universale acquistando un carattere più orientale. Il latino fu sostituito dal greco. Ovviamente continuava ad essere riprodotto nella parlata comune, differenziando la lingua ufficiale da quella del popolo. Il diritto romano fu sostituito dalle consuetudini orientali e si ebbe una forte compenetrazione tra vita religiosa e sociale. Il carattere prevalentemente rurale dell'economia non impedì alle città di continuare gli scambi commerciali, alimentando la circolazione monetaria. Le città godevano di più autonomia nei centri periferici; la legge con cui Leone VI abolì le autonomie municipali non fu mai attuata completamente. La controversia sul culto delle immagini Comincia la lotta contro il culto delle icone, tavole di legno su cui erano effigiate immagini sacre. Il movimento parti dalle province orientali dell'impero influenzate dall’Islamismo e dal Giudaismo. Queste province, essendo impegnate in prima linea contro gli attacchi nemici, reclamavano anche maggiore autonomia dal governo centrale. Questo movimento raggiunse la corte quando salì al trono l'imperatore Leone III l'Isaurico che aveva fatto carriera nell'esercito diventando poi stratega nel tema di Anatolia. Non si sa se fosse intimamente convinto delle motivazioni spirituali che avversavano il culto delle immagini o se volesse rafforzare l’unità dell’impero accogliendo tutte le richieste e infliggendo un duro colpo al clero, oramai troppo indipendente. Leone III nel 726 proibì il culto di tutte le immagini (tavole di legno, affreschi e mosaici) ordinandone la distruzione, ignorando l'opposizione del patriarca di Costantinopoli e di papa Gregorio III che nel 731 scomunicò l'imperatore e i suoi sostenitori. Il figlio Costantino V proseguì con decisione la politica paterna e riportò importanti vittorie sugli arabi e bulgari colpendo duramente anche i monaci ribelli (ne fu ridotta la ricchezza e l’influenza sociale). Gli imperatori isaurici, accogliendo le richieste orientali, mostrarono di aver capito che il futuro si giocava sul fronte orientale; contrastarono l'invasione araba e arrestarono la crisi dell'impero. La fine dell'iconoclasmo e le oscillazioni della politica sociale Con l'avvento di Costantino VI e di sua madre Irene, che tenne il potere prima in nome del figlio minorenne e poi da sola, dopo averlo fatto uccidere. Sembrò che si volesse rinunciare alla politica isaurica dato che fu nominato nel 784 un patriarca iconodulo (favorevole al culto delle immagini); tre anni dopo il VII concilio ecumenico di Nicea, riconosciuto come tale da tutta la Cristianità, condannò l'iconoclasmo come eresia. La posizione di Irene era indebolita dal mancato riconoscimento del papato che la considerava un'usurpatrice. La deposizione del l'imperatrice nell’ 802 rimise tutto in discussione e Carlo Magno dovette attendere fino all'812 per ricevere il riconoscimento del suo titolo dall'imperatore Michele I. Con il successore di questi, Leone V si ritornò alla corrente iconoclasta (secondo iconoclasmo). La contesa sarà chiusa nell’843 dall'imperatore Michele III il quale, richiamandosi al concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini. L'evento, celebrato ancora oggi dalla Chiesa greca l’11 marzo come festa del trionfo dell’ortodossia sull’eresia, veniva a coincidere con l'attenuarsi 32 L'inizio del declino e il costoso aiuto veneziano Nonostante il prestigio politico-culturale bizantino, erano evidenti chiari segni di declino. Con la fine della dinastia macedone nel 1056 iniziò una lotta per il potere tra l’alta burocrazia e nobiltà della capitale da una parte e aristocrazia fondiaria delle province dall'altra. La vittoria di quest'ultima portò all'abbandono della politica a sostegno della proprietà contadina e alla concessione di ampi privilegi ai signori fondiari, esentati dal pagamento delle tasse. Si riducevano le risorse dello stato in seguito alla riduzione dei contribuenti e agli sprechi della corte per donazioni, feste, opere edilizie. Incombeva di nuovo la minaccia d’invasione lungo il confine e non si disponeva dell’apporto militare degli stratioti. Il fronte orientale era minacciato dai Turchi selgiuchidi i quali si erano impadroniti di Baghdad. Qui risiedeva il califfo degli Abbasidi, massima autorità religiosa e politica del mondo islamico i cui poteri effettivi erano allora assai limitati a causa della frantumazione dell’impero arabo. Con la conquista dei selgiuchidi il califfato restava in vita ma il potere effettivo era nelle mani dei conquistatori il cui capo Tughril Beg ricevette nel 1056 dal califfo al-Qàim il titolo di sultano. I suoi due successori, detti i grandi selgiuchidi diedero inizio ad un’offensiva contro i Fatimiti dell'Egitto e altri potenti musulmani. Gerusalemme fu conquistata nel 1070. L'anno dopo si ebbe lo scontro diretto con i bizantini; sconfitti a Manzicert in Armenia. L'imperatore Romano IV Diogene venne anche catturato. Nel 1081 quando l'imperatore Alessio Comneno riuscì a conquistare il potere, all'impero era rimasto in Asia un territorio corrispondente all'attuale Turchia. Il pericolo maggiore venne dai Normanni nell'Italia meridionale. Dopo aver espulso i bizantini dall'Italia ed essendosi impadroniti di Durazzo puntarono a Costantinopoli. L'imperatore Alessio chiese aiuto a Venezia che sconfisse i normanni per mare ma si fece concedere un alto compenso: un diploma imperiale (crisobolla) del 1082 che stabiliva per i veneziani ampissimi privilegi. Essi diventarono infatti arbitri della vita economica dell'impero. L'aristocrazia militare delle province faceva sentire sempre di più la sua forza sul potere centrale e l'impero si andava configurando come un'appendice di Venezia durante il XII secolo. Cap 11: Incremento demografico e progressi dell’agricoltura nell’Europa dei sec XI- XIII L'aumento della popolazione S’affermano sulla scesa del mediterraneo orientale nuovi soggetti politici; dall’Italia vi erano Normanni e Veneziani. Ora era l'occidente che andava alla conquista dell'oriente. L’occidente si avviava verso una nuova fase di sviluppo (demografico, economico e sociale) che partiva dal sec XI e che superava il precedente “secolo di ferro”. La popolazione europea all'inizio del nuovo millennio era di nuovo in aumento. Le fonti non ci forniscono informazioni di natura statistica, gli elementi in possesso degli storici sono tanti e quasi concordi. Ovunque è in atto un ampliamento delle terre messe a cultura attraverso impegnative opere di dissodamento, disboscamento, bonifica. Le città si ripopolano e diventano centri di scambi e di attività produttive. Salgono i prezzi dei prodotti agricoli. Le famiglie nobili risultano formate da un numero maggiore di membri e le territori sono sempre più frammentati. I resti ossei autorizzano a pensare a un aumento della durata media della vita. Un fenomeno importante fu la fondazione di nuovi villaggi; questi, insieme alle città, sono così numerosi, che non vi sono dubbi sul fatto che all'origine del fenomeno ci sia un aumento della popolazione, anche se non è facile individuarne inizio. Secondo i dati dei polittici (inventari), tra IX e X sec appare avviato un lento aumento della popolazione contadina, grazie all’arresto, verso il 950, degli attacchi degli ungari, saraceni e normanni; l'unica regione dell'Europa, per la quale è possibile elaborare, approssimamene, una stima dell'incremento demografico è l'Inghilterra grazie al Domesday Book, una specie di censimento a fini fiscali di tutti gli abitanti del regno. 35 Le condizioni di partenza dei vari paesi europei non erano le stesse. L'Italia, già abbastanza popolata, aveva meno terre da mettere a cultura rispetto la Germania e l’Inghilterra. Anche all’interno di una stessa regione potevano esserci forti squilibri. L’aumento demografico è da attribuire ad un aumento della natalità, ad un calo della mortalità (a seguito di migliori condizioni di vita) o ad entrambi? Ampliamento dello spazio coltivato e del popolamento rurale Il fenomeno più importante fu l'ampliamento dello spazio coltivato. In Francia meridionale e in Italia non si avevano quegli spazi sconfinati tipici delle zone orientali poiché sono state già anticamente abitate, ma il calo demografico aveva comunque determinato l’arretratezza delle tecniche agricole. Nelle aree già relativamente popolate l'espansione delle coltivazioni avveniva a spese di quelle zone incolte che costituivano parte integrante delle curtes e dei territori dei villaggi, per cui non si avevano spostamenti di popolazione e l'opera di dissodamento era risultato di un contratto tra il proprietario terriero e il coltivatore. Il primo concedeva la terra e i materiali per consentire l’avvio dell’attività, ricevendo in cambio il pagamento di un canone in natura dal momento in cui la terra avrebbe cominciato a produrre. Erano accordi verbali presi secondo le consuetudini del luogo, ma molto presto furono messi per iscritto, come in Emilia-Romagna e nell'area intorno a Salerno. I più solleciti nello stipulare patti agrari appaiono gli enti ecclesiastici e i monasteri; c’è da dire che la documentazione nobile laica ha subito gravi perdite rispetto quella clericale, quindi non abbiamo abbastanza fonti per descrivere le pratiche del tempo. Le fonti presenti sono relative all'impegno dei signori laici nella valorizzazione di zone completamente disabitate, nelle quali cercavano di attirare coloni sia per valorizzarle sia per accrescere il numero degli uomini soggetti alla loro giurisdizione. Per realizzare ciò c’era bisogno di un trasferimento consistente di contadini che davano vita a nuovi villaggi fortificati poiché sorgevano in zone militarmente esposte; vennero chiamati villenuove o borghi franchi con riferimento alle condizioni giuridiche di cui si poteva godere. I signori concedevano, per attirare i nuovi cittadini nelle loro terre incolte, privilegi di vario genere come esenzioni fiscali e garanzie di carattere giudiziario (essere giudicati nel borgo da un giudice scelto dalla comunità). Un ruolo importante nell'espansione dello spazio coltivato ebbero i nuovi ordini monastici fondati nel XII secolo (cistercensi e certosini), che ebbero un ruolo importante come colonizzatori in quanto cercarono rifugio nelle foreste e in territori spopolati seguendo la regola benedettina. I lavori più pesanti furono lasciati ai conversi, che restavano allo stato laico, e attorno ai monasteri sorsero villaggi di contadini. Si ricrearono situazioni di ricchezza e povertà. La diffusione di queste villenuove non deve lasciar pensare che tutta la popolazione fosse concentrata nei villaggi; molte case dei contadini erano di legno, su base di muratura, e il contratto prevedeva che l'affittuario dovesse lasciare la casa in piedi qualora il proprietario fosse disposto a pagargliela sulla base di una valutazione fatta da periti del luogo. Si diffusero prima intorno salerno, poi in seguito in Toscana; si trattava però di una riorganizzazione dell’attività produttiva perché la casa colonica era la sede di un’azienda agraria nata dall’accorpamento di varie terre. Si superava l'organizzazione dell'alto Medioevo caratterizzato dalla dispersione delle terre. Si provvide alla chiusura dei campi e nel 300 in Toscana nacquero i primi poderi; l'espansione dello spazio coltivato nei secoli centrali del medioevo non va considerata come una storia lineare di progressi continui generalizzati. Le grandi opere di colonizzazione Le opere di bonifica sinora descritte si riferivano a territori già abitati; il fenomeno interessava anche vastissime aree fino ad allora quasi deserte. È il caso delle aree costiere dei Paesi Bassi, nell'alto medioevo scarsamente popolate, perché disseminate di 36 paludi e acquitrini, dai quali sorgevano isolotti di varie dimensioni, abitati da pescatori e produttori di sale. L'intera zona fu bonificata attraverso grandiose dighe e canali di drenaggio per liberare le terre dall’acqua, pompate con mulini a vento. Sulle aree recuperate si impiantarono aziende agrarie e di allevamento. Uno sforzo di tali dimensioni fu possibile grazie all'intervento dei conti di Fiandra e vari signori locali. In Spagna il ripopolamento e lo sviluppo agricolo procedeva insieme al movimento di riconquista cristiana dei territori occupati dagli arabi. Il paese che produsse il più intenso slancio espansivo fu la Germania, in direzione sia nel Baltico sia nei territori slavi al di là dell'Elba. I principi territoriali furono impegnati nella valorizzazione delle loro terre ricorrendo a veri e propri “intercettatori di uomini”, i quali, in cambio di terre e diritti signorili, organizzavano l'opera di colonizzazione, reclutando coloni e rifornendoli dei mezzi per intraprendere la loro attività. Spinti dalla pressione demografica e dal desiderio di estendere i propri confini diedero vita alla “spinta verso Oriente”. Al tempo dell'imperatore Lotario di Supplimburgo fu superata l'Elba, ma negli anni seguenti, che coincisero con una crisi interna tedesca a causa delle lotte tra guelfi e ghibellini, ci fu una sollevazione generale degli Slavi. A partire dal 1143 nuove ondate di colonizzatori provenienti dalla Germania, dalla Frisia, dalle Fiandre e dalla Westfalia fecero risorgere villaggi e castelli distrutti, facendo convertire gli slavi. Tra i più attivi colonizzatori ci furono i duchi di Sassonia, i vescovi di Meissen e di Merseburgo, l'arcivescovo di Magdeburgo ad opera dei quali progredì rapidamente la conquista e la colonizzazione di Meclemburgo, Pomerania, Brandeburgo dove poi sorsero Amburgo, Brema, Lubecca. Altre ondate migratorie verso le regioni pagane del Baltico; altre partirono dalla Sassonia e Brandeburgo verso la Slesia e la Boemia, e dalla Baviera verso l'Austria. Vienna, fondata nel 1018, diventa capoluogo della marca orientale e viene creato il ducato di Carinzia. L’impronta slava fu cancellata grazie alla fondazione di vescovadi e monasteri. L'evoluzione sociale delle campagne Per quale motivo molti contadini decidevano di partire mentre altri lavoravano le proprie terre consapevoli di ricevere, anni dopo, dei risultati? All’origine c’era sia lo sviluppo demografico sia il desiderio di migliorare. Ciò influiva anche sulle terre che venivano abbandonate per colonizzarne altre. I signori di quelle terre dovevano evitare la partenza dei loro contadini. Presero, all’inizio, provvedimenti di natura poliziesca, senza successo; l'unico intervento possibile era quello di venire incontro all'esigenza di maggiore libertà espressa dal mondo rurale. Seguirono patteggiamenti con le comunità contadine: il riconoscimento di usi comuni e la possibilità di gestire in proprio servizi di interesse comune, quali la riscossione delle imposte e la polizia campestre. I contadini erano agevolati dall’ascesa dell'economia del tempo, in fase di crescita. La Curtis subì delle trasformazioni di entità diversa nelle varie parti d'Europa: la tendenza era quella di ridurre la riserva padronale e di estendere l'area a diretta gestione dei coltivatori, riducendo parallelamente il numero delle prestazioni d'opera. Essi potevano lavorare di più e meglio le loro terre e pagare dei canoni sostitutivi. I signori disponevano di nuove entrate, utilizzabili sia per migliorare il loro tenore di vita sia per accrescere la produttività della parte residua della riserva padronale, ricorrendo all'opera di salariati. Le possibilità aperte dalla rifiorire dei traffici consentivano ai più intraprendenti di accrescere la loro produzione e di assumere anche la gestione di intere curtes che a volte gli antichi signori preferivano affittare in blocco a un imprenditore agricolo. I progressi dell'agricoltura Importante fu l'introduzione di nuove tecniche agrarie e di nuove coltivazioni. Vengono introdotte queste tecniche, alcune delle quali già abbastanza note, perché vi erano le condizioni adatte. Importante fu l'introduzione di tecniche di aratura capaci di smuovere terreni pesanti, ricchi di radici l'albero e sassi, appena sottratti agli acquitrini e alle foreste. 37 attraverso le Alpi bavaresi conduceva a Norimberga. Altri assi viari importanti dal punto di vista commerciale erano: quello in senso est-ovest, che dalla Francia occidentale conduceva in Boemia e Polonia; sempre in direzione est ovest, quello che da Dortmund arrivava a Magdeburgo; quello ancora più settentrionale, che toccava Baltico, congiungendo Lubecca con una Stettino. Le merci del commercio internazionale I prodotti maggiormente commerciati erano: il grano, esportato in grossi quantitativi verso Genova, Venezia e Pisa dall'Italia meridionale dalla Dalmazia ed alcune zone del Mar Nero. Nel 1329 la compagnia fiorentina degli Acciaioli ne estrasse dalla Puglia circa 136.000 t; il sale che veniva usato per la conservazione dei cibi e per la cucina (Venezia, Genova e Pisa lottarono a lungo tra loro per il sale della Sicilia, della Sardegna e delle Baleari); anche il vino era assai richiesto perché usato per farmaci e per il suo valore terapeutico (esportato dalla Grecia, Rodi, Cipro, Francia e Italia meridionale). Assai intensa era la circolazione su lunghe distanze delle materie prime per l'industria tessile (lana, cotone, materie tintorie). Le lane più pregiate provenivano dall'Inghilterra; anche il cotone era di diverse qualità (scadente quello siciliano, media qualità quello pugliese, calabrese e delle isole greche, ottimo quello siriano). Il cotone importato era destinato ai produttori italiani di fustagni, panni di poco pregio, che nel sec XII invasero il mediterraneo e l’Italia del Nord. Indispensabile era l'allume usato per sgrassare le fibre e fissare i colori. Una merce erano anche gli schiavi (negri, slavi, turchi, ma anche greci spagnoli), comprati in numerosi mercati dell'Europa centrale, dell'Asia minore e dell'Africa settentrionale. Destinati ai lavori domestici e i più robusti per le truppe di mamelucchi. Si vennero delineando: aree a specializzazione agricola, come la Borgogna, l'Aquitania, la Calabria e la Campania per il vino, la Puglia e la Sicilia per il grano, l'Abruzzo per lo Zafferano; aree a specializzazione manifatturiera, come le Fiandre, a cui si aggiunsero la Lombardia, la Toscana e varie città dell'Italia centro-settentrionale, alcune regioni della Francia settentrionale, dell'Inghilterra meridionale e della Germania sud-orientale. Il ruolo del mercante Il mercante era l'artefice dell'integrazione tra aree a diversa specializzazione produttiva e dalla creazione di un sistema economico unitario. È al centro dell’attenzione degli storici e non è più il tradizionale “mercante avventuroso”. Certamente il commercio continuava comportare dei rischi ma era difficile che briganti e pirati mettessero le mani su grosse somme di denaro, perché nell'ambito del commercio a lunga distanza si faceva uso della lettera di cambio o cambiale tratta, nata probabilmente dall'evoluzione dell'antico prestito a cambio marittimo, stipulato in genere davanti al notaio e in base al quale, per una determinata somma, presa per esempio in prestito Genova, ci si impegnava restituire la somma equivalente a Costantinopoli in valuta locale. La lettera di cambio era quella che il debitore scriveva a un suo corrispondente in Costantinopoli, con l'ordine di pagare il suo debito al presentatore della lettera o a un suo delegato. Questi a sua volta, attraverso un atto di procura (sostituito dalla girata), poteva cedere il suo credito a un terzo, dal quale aveva acquistato delle merci. Si ridussero i rischi della navigazione sia mediante la costruzione di navi più robuste sia mediante la formazione di convogli gestiti dallo Stato, chiamate a Venezia mude, sia attraverso sviluppo delle assicurazioni marittime. La forma più efficace di protezione fu la diversificazione dei propri investimenti, per cui un mercante non impiegava tutte le sue risorse in una determinata operazione, ma coinvolgeva altri mercanti o persone che disponevano di denaro contante, ma non potevano occuparsi dei traffici commerciali. Si formava una società molto diffusa nelle città di mare, detta commenda, mediante la quale mercante in procinto di partire per un viaggio di affari, il commendatario, di cui erano precisate sia le tappe sia le finalità, raccoglieva somme più o meno consistenti da vari finanziatori i quali avrebbero partecipato agli utili o alle perdite 40 dell'operazione in rapporto alla quota versata una volta conclusa l'operazione. I vantaggi erano molteplici. Il mercante che partiva aveva la possibilità di trovare capitali di cui aveva bisogno o di investire in quel determinato viaggio solo una parte del suo capitale. I risparmiatori trovavano in modo di far fruttare il loro denaro, partecipando agli utili delle attività mercantili. Frequente era il caso dell'operatore economico che era commendatario in un determinato affare e finanziatore in altri, in maniera da ripartire utili e rischi tra varie operazioni. Alla commenda si affiancò la “societas maris” o contratto di compagnia, che si differenziava dalla prima perché la società era ora stipulata per un determinato periodo e per molteplici operazioni commerciali. Esse prendevano il nome dalla famiglia che ne deteneva l'intero capitale con la quota maggiore ma non sempre era stabile; queste società cominciarono ad avvalersi, oltre ai capitali dei soci, anche delle somme di denaro che vi depositavano privati risparmiatori. Il fenomeno aveva assunto notevoli dimensioni nella Firenze di primi decenni del trecento. Le compagnie vennero a svolgere una vera propria attività bancaria, accettando depositi e facendo prestiti a privati, sovrani e pontefici: i prestiti ai sovrani venivano fatti per ricevere facilitazioni commerciali (esenzioni dai dazi, tariffe doganali, permessi per esportare derrate alimentari). Nel corso del 1400 l'attività bancaria acquisterà autonomia mediante la creazione di vere proprie banche. I mercanti praticavano anche il cambio delle monete, ma l'attività di cambiatore acquistò una sua autonomia e fu appannaggio di operatori italiani e lombardi in particolare. I primi ad emergere furono gli Astigiani che dal sec XII esercitavano la propria attività in Francia, Borgogna ed Inghilterra. La ripresa della monetazione aurea Lo sviluppo commerciale richiedeva il superamento del sistema monetario ideato da Carlo Magno basato sulla libra d’argento (20 soldi, di 12 denari ciascuno). Con il progressivo intensificarsi del particolarismo politico, il diritto di battere moneta era diventato però prerogativa più o meno legittima prima di molti signori laici ed ecclesiastici, poi di varie città: i denari in circolazione variavano notevolmente sia per il peso sia per il valore dell'argento in essi contenuto. Le monete scadenti potevano andare bene per i piccoli traffici locali, ma per quelli a carattere internazionale si usavano monete d'oro arabe o bizantine. Anch'esse cominciarono perdere di prestigio dopo il declino di Costantinopoli e dopo la riconquista cristiana della Spagna: i mercanti dell'Europa cristiana si dovettero porre il problema di dotarsi di una moneta stabile e capace di circolare dappertutto. L'iniziativa fu presa da Venezia che coniò nel 1202 il grosso d'argento, del peso di grammi 2,18; fu seguita da Firenze e da altre città italiane e della Francia. Venivano però coniate monete d’argento quando servivano quelle auree. All'origine dell'abbandono della monetazione aurea in Occidente c'era sia la scarsità di quel metallo sia la debolezza economica dei sovrani europei al confronto con quelli del mondo bizantino e arabo, le cui monete erano accettate a preferenza delle altre. Nei primi decenni del XIII sec c'erano le condizioni per ribaltare la situazione: gli operatori economici italiani dominavano i mercati dell'Europa e del Mediterraneo, e la scena politica internazionale era occupata da Federico II. Egli riprese nel 1231 la coniazione dell'oro, facendo battere nel regno di Sicilia l'augustale, seguito una ventina d'anni dopo dal fiorino fiorentino e dal genoino genovese e nel 1284 dal Ducato veneziano detto in seguito zecchino. Alla fine del secolo la monarchia francese coniò lo scudo. Artigianato e attività manifatturiere Le attività di artigianato, industria tessile e alimentare fornaio erano sempre esistite e la loro attività si incrementò man mano che la popolazione cresceva e che si intensificavano i rapporti con le campagne circostanti. I contadini trovavano sempre più conveniente acquistare attrezzi e manufatti sul mercato cittadino utilizzando il denaro ricavato dalla 41 vendita dei loro prodotti. Si vennero aggiungendo nuove categorie di artigiani, specializzati in varie attività, che lavoravano per un mercato più ampio. Questo contribuì allo sviluppo di una vera propria industria, anche se, ad eccezione delle costruzioni navali, non furono creati grossi impianti. Il settore di punta dell'industria medievale fu quello tessile (e laniero). In Italia si fecero notevoli progressi per cui agli inizi del 300 la produzione laniera, pur essendo presente un po' dovunque in Europa, aveva due grandi poli: le Fiandre e l'Italia centro-settentrionale (Lombardia e Toscana). In Italia cresceva la produzione di tessuti di cotone e di seta. I primi furono “i fustagni”, fabbricati con il cotone rinforzato con il lino. La produzione di questi era diffusa nelle città della Lombardia e a Cremona in particolare, da dove raggiungevano i mercati esteri attraverso Venezia. L'industria della seta fiorì agli inizi dell'età moderna. Il settore laniero si impone all'attenzione della storico per la novità della sua organizzazione. Vi era un procedimento preciso e passaggi a cui era sottoposta alla lana prima di arrivare al prodotto finito. Quando la clientela era ristretta, l’artigiano poteva provvedere alla lavorazione; quando si cominciò a lavorare per un mercato più ampio fu inevitabile il passaggio all'opificio decentrato (maggiori materie prime e attrezzi più costosi). Il protagonista del cambiamento fu il mercante che assunse il ruolo dell'imprenditore a carattere capitalistico. Fu lui a promuovere una grande specializzazione produttiva e a suddividere tra i lavoratori le varie fasi produttive. Questi cominciavano con il consegnare a determinate botteghe le balle di lana greggia per il lavaggio, la cernita e la battitura; ritiravano il prodotto e lo passavano ad altre botteghe, dove avvenivano le operazioni successive (slappolamento, cardatura e pettinatura); le donne venivano coinvolte nell'attività di filatura. Il prodotto arrivava nelle mani del mercante- imprenditore che lo metteva sul mercato. In questa maniera si aveva la concentrazione delle città dove l'industria laniera fu molto sviluppata e si ebbe ugualmente la presenza di grandi masse di operai. Gli altri settori produttivi Rilevante fu la crescente lavorazione dei metalli per la produzione di armi e attrezzi di vario genere; inoltre l'estrazione di ferro e rame che si faceva in Spagna, Germania centrale, Svezia e Ungheria acquisì notevoli dimensioni. In Lombardia, e a Milano in particolare, fu fiorente la produzione di armi, e stimolava l'attività di estrazione e diffusione del ferro. Un nuovo settore di fondamentale importanza fu quello della fabbricazione della carta, inventata in Cina e trasmessa all'Occidente dagli arabi, che nel 1151 impiantarono una cartiera in Spagna. Il primo più importante centro di produzione in Italia fu Fabriano dove nel 1320 operavano ben 22 fabbricanti. Erano sorte cartiere ad Amalfi, a Bologna, nel Friuli. Nel 300 la fabbricazione della carta si diffuse anche in Francia e in Germania, in Svizzera, Fiandre, Inghilterra, Polonia. Gli artigiani operavano in ambiti differenti: dall'intarsio del marmo per l’ornamentazione di pavimenti all'oreficeria, ai lavori in avorio, all'industria del vetro. I centri migliori furono Pisa, Firenze, Venezia che aumentarono le esportazioni verso tutti i paesi dell'Europa. Notevole fortuna ebbe l'industria delle ceramiche artistiche che dall'Umbria si diffuse prima nelle Marche e poi in Romagna, soprattutto a Faenza, e poi via via in altre regioni italiane. Centri famosi di produzione furono anche Perugia, Gubbio, Città di Castello, Siena, Firenze, Prato, Pistoia, Venezia. Il settore delle costruzioni navali richiedeva impianti costosi, il coinvolgimento di molti operai e una notevole disponibilità di capitali. La bottega artigiana e le corporazioni Nei settori dell'artigianato l'unità produttiva di base era costituita dalla bottega artigiana (oggi diremmo azienda) nella quale, accanto al titolare, detto maestro, lavoravano i suoi familiari, uno o più collaboratori stabili (socii, laborantes), un paio di apprendisti (discipuli) e i salariati. Gli apprendisti vivevano stabilmente nella casa del maestro il quale si 42 pisani cacciarono i saraceni dalla Sardegna, che passò sotto il controllo di Pisa. I pisani compirono ripetute incursioni in Sicilia e in Tunisia, mentre i genovesi attaccarono le città islamiche della Spagna meridionale. Veneziani, pisani e genovesi erano in posizione di preminenza assoluta per quanto riguarda i rapporti commerciali. Questo predominio si venne consolidando dopo la crociata del 1097- 1099. Essa consentì a Venezia, Pisa e Genova di stabilire le loro colonie nelle città della Siria e della Palestina ma non fu affatto promossa e sostenuta dai mercanti italiani. Lo spirito di crociata fu il prodotto di un'Europa feudale in piena crescita demografica e alla ricerca di sbocchi. Il Tirreno cominciava diventare piccola per le città marinare italiane. Nel 1137 Pisa eliminò la contesa Amalfi, saccheggiandola duramente, ma in seguito alla battaglia della Meloria del 1284 dovette cedere definitivamente il campo a Genova che poté concentrarsi sul confronto diretto con Venezia. Vescovi e città In Italia centro-settentrionale l'intensità dell'urbanesimo di antica data non consentì l'insorgere dopo il 1000 di molte città nuove. Le città di nuova fondazione furono: Ferrara, Alessandria, Fabriano, Macerata. Il ruolo del vescovo si è accentuato nel corso del sec X, epoca in cui le città italiane appaiono sottratte al bando dei signori feudali e solo in minima parte soggetta alla giurisdizione dei conti. Le funzioni pubbliche erano svolte dai vescovi, ai quali il governo consentiva un livello di partecipazione politica sconosciuto altrove. Il vescovo era eletto dal clero e dal popolo ed era sempre espressione della città. Non solo la fuga della nobiltà in campagna fu meno massiccia che altrove, ma il ritorno in città della nobiltà terriera fu più precoce e consistente. Ciò fu determinato: dalla forza di attrazione della curia del vescovo, che si andava circondando di un numero sempre crescente di vassalli e funzionari per le esigenze di governo in città e nei territori circostanti; dalla migliore qualità della vita, in un ambiente in cui la presenza di esponenti della piccola e media nobiltà forniva opportunità di nuovi rapporti economici e sociali. Il risultato fu il formarsi di comunità urbane capaci di contrastare il governo del vescovo sino ad esautorarlo del tutto. Il ceto dirigente era costituito dalla nobiltà legata alla curia vescovile; mercanti e artigiani erano intenti a trarre profitto dalla ripresa dei traffici tra Mediterraneo e Europa centro-settentrionale. Notevole fu lo sviluppo di Pavia, capitale del regno italico; era favorita dalla sua posizione geografica alla confluenza del Ticino con il Po e presso le strade che, attraverso i valichi, conducevano in Germania e in Francia; importante era la via francigena (o romea) frequentata da numerosi pellegrini che dalla Francia e dall'Inghilterra si dirigevano verso Roma. Dall’età carolingia erano in crescita anche Piacenza, Mantova e Cremona, i cui mercanti a metà del sec IX erano in conflitto con il loro vescovo, al quale si rifiutavano di pagare il ripatico (il tributo per l'attracco delle navi nel porto sul Po). Tutte queste città erano destinate ad essere sopravanzate da Milano, che manifestò una certa vitalità sia sul piano economico-sociale sia su quello politico. Rilevante fu il ruolo di Asti per l'attività dei suoi mercanti e banchieri. In Toscana i primi centri di rilievo furono Pisa, Firenze, Lucca e Siena. L'urbanizzazione nel resto d'Europa La rinascita urbana coinvolse anche la Francia meridionale e città tedesche come Colonia, Magonza, Strasburgo, Basilea: grazie alla loro posizione svolsero un ruolo importante lungo gli itinerari fluviali e terrestri. Nelle regioni della Germania, della Francia settentrionale e delle Fiandre, dato che l’ereditarietà romana era debole, nacquero nuove città. Potevano nascere in due modi: o un signore feudale prese l'iniziativa di fondare un centro fortificato nei pressi di un luogo di mercato, o un gruppo di mercanti creò un proprio insediamento nei pressi di un castello, di una città fortificata o di un’abbazia. 45 Il borgo attirando anche altri mercanti, artigiani, venditori ambulanti crebbe in estensione e in floridezza economica per cui finì con il prevalere sul nucleo originario fino a che un'unica cinta muraria non gli inglobò entrambi sanzionando così la nascita della città. Un’origine del genere ebbero la maggior parte delle città nate nelle Fiandre: Bruges, Gand, Arras e Lilla. Nelle Fiandre si è ebbe un intenso sviluppo delle manifatture tessili. Questo stimolò l'immigrazione dalle zone vicine, favorendo grosse concentrazioni di masse operaie. In Germania lo sviluppo delle attività mercantili e manifatturiere avvenne sia nelle città di origine romana sia in quelle nate nel corso del medioevo. È possibile individuare un'area centro-meridionale in cui primeggiarono Francoforte sul Meno, Norimberga, Ulma, e un'area settentrionale in cui il grande movimento di colonizzazione portò alla nascita di città come Brema, Amburgo, Lubecca, Riga. Queste città diedero vita agli inizi del 300 a una lega assai potente sul piano economico e militare, la “Lega anseatica”, per garantirsi il monopolio dei traffici nelle zone di loro interesse. Prese il nome dalle hanse, le compagnie in cui per ragioni di sicurezza si riunivano i mercanti tedeschi quando dovevano affrontare lunghi viaggi. Nelle regioni orientali della Germania le città più importanti erano Berlino, Brandeburgo e Dresda. C’erano poi Praga in Boemia, Cracovia in Polonia, Novgorod e Kiev in Russia la cui fortuna fu legata alle correnti di traffico e dal Baltico si spingevano verso l'interno. In Inghilterra la dominazione romana non aveva lasciato insediamenti urbani. Agli inizi del trecento l'unica città inglese di grandi dimensioni era Londra che si poneva al livello di Pisa, Pavia e Roma. Altre città nacquero nel Medioevo, ma erano di piccole-medie dimensioni. Le dimensioni delle città europee del pieno Medioevo Il medioevo occidentale non conobbe il fenomeno delle megalopoli. Quelle delle Fiandre e dell’Italia settentrionale erano tali per il numero, non per la grandezza. Il massimo dell'estensione e del numero di abitanti fu raggiunta agli inizi del 300 con Milano, Firenze e Parigi che avevano già costruito una terza cerchia muraria. La popolazione si aggirava intorno ai 100.000 abitanti. Minore era la densità nelle città della Germania e delle Fiandre, all’interno delle quali vi erano spazi per gli orti e i giardini. Le città più popolose dopo Milano, Firenze Parigi erano Venezia e Genova. Erano più numerose le città che si collocavano nella fascia dei 30-50.000 abitanti occupate in gran parte da città italiane (Bologna o Pisa) e dalle Fiandre (Bruxelles e Lovanio); ad esse sono da aggiungere Colonia, Londra e alcune città spagnole sia musulmane come Siviglia, sia cristiane come Barcellona. Tra i 15 e i 30 mila abitanti si imponevano per il loro numero ancora le città italiane (Pavia, Piacenza, Vicenza, Ferrara) seguite da quelle delle Fiandre (Lilla e Arras) e della Germania (Brema e Amburgo). Nella fascia dei 10.000 abitanti ricordiamo soltanto città tedesche come Augusta e olandesi come Amsterdam e inglesi come Bristol. La società tripartita e la nascita della borghesia La crescita impetuosa delle città fu resa possibile dall'aumento naturale della popolazione e dall’immigrazione di abitanti delle campagne spinti dal desiderio di sfruttare le opportunità di lavoro che fornivano le nascenti industrie cittadine (quella tessile in particolare). Ovviamente si trattava di lavoratori in possesso di capacità manuali acquisite nei laboratori. Vi erano anche quelli di condizione servile che si attendevano un tenore di vita meno precario e la libertà personale trasferendosi in città. Gli statuti di diverse città francesi, fiamminghe, inglesi e tedesche prevedevano che chi fosse riuscito a risiedere in città per un anno e un giorno senza che nessuno reclamasse diritti su di lui, poteva rimanervi in condizione di piena libertà: di qui il famoso detto diffuso in Germania secondo cui "l'aria della città fa liberi". Questo principio non fu applicato sempre ed ovunque, ma le 46 attività commerciali in corso richiedevano la piena disponibilità della propria persona. La popolazione urbana era consapevole delle proprie condizioni giuridiche e della propria diversità rispetto agli abitanti delle campagne che erano soggette ai signori feudali o alle città stesse. Diverso era anche il tipo di attività lavorativa che svolgevano i cittadini o borghesi. È vero che tra di loro vi erano dei contadini che coltivavano le terre al di fuori delle mura, ma i borghesi erano impegnati nel commercio e dell'artigianato; si veniva a delineare una società più articolata nella quale gli uomini occupati nella preghiera, nell'esercizio delle armi e nel lavoro della terra costituivano ancora una grande maggioranza ma nella quale coloro che erano impegnati nel commercio, nel credito e nelle manifatture svolgevano un ruolo di crescente importanza. La società europea presentò una nuova struttura basata sulla divisione in tre ordini intesi come gruppi sociali; questa concezione affiorò sul finire del sec IX sec, ma dopo il 1000 fu perfezionata dal prelato francese Adalberone di Laon: 1) gli oratores, coloro che pregavano e predicavano; 2) i bellatores, coloro che combattevano per la difesa della chiesa e del popolo; 3) i laboratores, coloro che lavoravano la terra per sé e per gli altri. Questa suddivisione resse sino alla Rivoluzione francese, ma già dal sec XIII i giuristi riconoscevano l’esistenza dei borghesi all’interno dei laboratores. La nascita del ceto borghese non deve far pensare a una netta separazione tra città e mondo rurale. Anche i cittadini si recavano spesso nelle campagne circostanti dove possedevano ville e terreni che cercavano di valorizzare al massimo, secondo la prassi mercantile. Lo sapevano i loro coloni per i quali il passaggio dalla dipendenza da un Signore rurale a quella di un borghese significava maggiore sfruttamento. Le donne lavoravano nelle loro case per i mercanti ed imprenditori del settore tessile. Nell’immaginario collettivo medievale i mondi apparivano ancora distanti. Lo storico Lopez ha proposto per la società l'immagine della croce racchiusa in un cerchio: la croce come simbolo dell'incontro di strade, di persone e di beni, vale a dire le attività economiche che erano all'origine dello sviluppo urbano; il cerchio delle mura a indicare la separazione fra lo spazio organizzato e il mondo esterno. Il movimento comunale nelle città d'oltralpe L’indipendenza è l’elemento che accomuna tutte le città europee, sia quelle di origine romana sia quelle medievali. Le città europee ebbero la tendenza di proclamare una certa autonomia nei confronti dei principi e dei signori territoriali. C'è una distinzione tra le città che conseguirono la piena indipendenza politica (lega anseatica e i comuni italiani) e quelle soggette a poteri esterni. Nelle Fiandre e nella Francia del nord il movimento comunale nacque dall'iniziativa dei cittadini, i quali, sotto la guida di personaggi eminenti, stipularono tra di loro giuramenti di pace (coniurationes); prima per garantire la concordia della città e poi per conseguire spazi più o meno ampi di autonomia e limitare il potere dei signori. Con questi si avviavano trattative per avere la concessione di una carta di comune (per dar vita al comune) che giungevano facilmente in porto quando i comuni erano in grado di sborsare ingenti somme di denaro o in condizioni politiche particolari. Non si esitava a ricorrere alla rivolta armata come avvenne a Laon sulla quale avevano giurisdizione il re di Francia, il vescovo e alcuni nobili: essi nel 1111, in cambio di denaro, riconobbero l'associazione giurata (communio) creata dai cittadini, ma nel 1116 il vescovo cambiò idea e abolì il Comune; i borghesi lo uccisero. La situazione si normalizzò solo nel 1128 con la concessione della carta di comune da parte del re. La monarchia francese adottò nel XII sec una precisa strategia politica: favorì i comuni che si trovavano nei territori soggetti alla giurisdizione di Signori e principi territoriali ma tenne a freno quelli da essa direttamente dipendenti, come Parigi, che non ebbe mai né carte di franchigie né carta di Comune. Solo nella Francia meridionale il comuni ebbero 47 Chiaravalle, che morì nel 1153. Nei decenni seguenti anch'essi entrarono in crisi per gli stessi problemi di Cluny. Il grande successo dei monaci bianchi aveva procurato loro grandi ricchezze e potenza, per cui furono costretti a lasciare il lavoro manuale per incombenze di carattere gestionale e amministrativo. Si preparò il campo per l'affermazione degli ordini mendicanti. Il movimento canonicale e i fermenti religiosi nel mondo dei laici Un'altra componente importante del movimento di riforma della chiesa fu costituita dalle comunità canonicali. I sovrani carolingi avevano cercato di ripristinare la vita comune del clero, ma le norme non furono mai attuate completamente. La vita comune entrò in crisi e i beni destinati al mantenimento delle comunità canonicali furono divisi in quote, dette prebende, assegnate ai singoli chierici. Un'inversione di tendenza si manifestò tra il X e XI sec nelle chiese cattedrali, conservatrici di buone tradizioni di cultura. Un esempio fu la cattedrale di Reims dove insegnò l'uomo più dotto del X sec, Gerberto d'Aurillac, il futuro papa Silvestro II. I vescovi, tra i mille impegni politici e gestionali, cominciarono ad avviare un'attività riformatrice che si concretizzò nello sforzo di ripristinare la vita comune, considerata il miglior rimedio contro il concubinato. Nel sec XI si può parlare di movimento canonicale. Si formarono comunità di chierici, rette da regole più o meno rigorose, tra cui quella di Sant'Agostino e chiamate canoniche regolari, da non confondere con le comunità monastiche. I monaci erano dediti alla vita contemplativa e spesso non erano chierici. Solo dal sec XII prenderanno gli ordini sacri. I canonici regolari erano una comunità di chierici che vivevano in comune, per imitare gli apostoli, e per prepararsi meglio all'esercizio del ministero sacerdotale. L'esigenza di un rinnovamento della vita religiosa diventava sempre più sentita dai laici. In questo clima di rinnovata aspirazione alla vita evangelica ed eremitica si colloca un movimento di contestazione nato verso la metà dell'XI sec a Milano. Ne fu promotore Arialdo, un diacono proveniente dalle campagne varesine, che cominciò a predicare contro i chierici concubinari, esortando a rifiutare il sacramenti da loro amministrati. La reazione del clero e dell'arcivescovo Guido da Velate, che scomunicò i patarini; i seguaci di Arialdo vennero così definiti in segno di disprezzo. I patarini erano apprezzati dal vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, futuro papa Alessandro II, e con il suo aiuto allargarono il fronte di lotta attaccando anche i preti simoniaci tra quali fu incluso lo stesso Guido da Velate. Anche i Vallombrosani svolgevano all'interno del laicato un'opera di animazione insolita per un ordine monastico. La riforma imperiale Gli imperatori tedeschi, da Ottone I, erano stati interessati al corretto funzionamento dell’ordinamento ecclesiastico poiché il clero era un buon sostegno del potere imperiale. Quando l'idea di rinnovamento della Chiesa cominciò a diffondersi, gli imperatori se ne fecero interpreti e sostenitori. Significativa fu l'opera dell'imperatore Enrico III succeduto nel 1039 a Corrado II, l'antagonista dell'arcivescovo di Milano Ariberto di Intimiano. Egli si appoggiò ai piccoli feudatari per ridurre la potenza dei grandi e intraprese un'opera di moralizzazione all'interno dell'episcopato. Enrico III cercò un collegamento con gli avversari degli ecclesiastici a lui poco graditi e con le forze impegnate nell'opera di riforma della Chiesa. Il suo appoggio andò ai monasteri e ai personaggi come Odilone di Cluny, Pier Damiani, il quale aveva chiesto il suo intervento contro l'arcivescovo di Ravenna che ostacolava l'opera dei monaci riformatori. Nel 1046 Enrico III volse la sua attenzione alla Chiesa di Roma perché le rivalità tra le famiglie dell'aristocrazia romana avevano portato all'elezione contemporanea di ben tre papi; li depose tutti e tre e al concilio di Sutri fece eleggere un suo candidato, Clemente II. Vennero emanate delle norme contro gli ecclesiastici colpevoli di simonia. Pier Damiani non era soddisfatto dell'operato del papa 50 imposto dall'imperatore; tra gli intellettuali impegnati nell'opera di riforma cominciava a diffondersi l'idea che non era possibile un'opera di vero rinnovamento senza la Libertas Ecclesiae (bisognava eliminare l'ingerenza dei laici e dell'imperatore). La rapidità con cui si faceva strada questa idea è dimostrata dalla scelta di Brunone di Toul che, pur essendo stato designato da Enrico III, volle essere eletto regolarmente dal clero e dal popolo di Roma prendendo il nome di Leone IX. Leone IX cominciò radunare i maggiori esponenti del movimento di riforma: Pier Damiani, l'abate Ugo di Cluny, Umberto di Monyenmoutier (nominato cardinale di Silviacandida), Federico di Lorena (futuro pontefice Stefano IX), Anselmo da Baggio (futuro papa Alessandro II), Ildebrando di Soana (Gregorio VII), Guitmondo, Bonizone, Bernoldo di Costanza. Con la loro collaborazione organizzò concili in cui fu ribadita la condanna di simonia e concubinato, e cominciò a essere elaborata, per impulso di Umberto di Silviacandida, la teoria del primato del papa sulla Chiesa universale. Il suo lavoro fu sospeso a causa dell’attacco dei normanni in Italia meridionale: il pontefice nel 1053 si pose alla testa di un esercito che mosse contro di loro. Sconfitto a Civitate, in Puglia, fu trattenuto per quasi un anno, fin quando si accordò con i normanni: il papato riconosceva le loro conquiste; loro assicuravano appoggio politico e militare. La crescente autonomia di Leone X non bloccò Enrico III che continuò la sua politica moralizzatrice, incontrando molte difficoltà. Da una parte cresceva l'ostilità contro di lui di quei vescovi che non avevano alcuna intenzione di adeguarsi alle nuove regole di comportamento (venivano definiti cervicosi tauri). Dall'altra molti esponenti del movimento di riforma sempre meno si sentivano solidali con lui, orientati verso un potere politico più autonomo. La morte di Enrico III nel 1056 e la debolezza del potere imperiale retto dall'imperatrice Agnese in nome del figlio piccolo Enrico IV evitarono l'esplodere delle contraddizioni, lasciando campo libero ai riformatori romani. Il papato alla testa del movimento riformatore Il papato disponeva di un gruppo di riformatori in cui le posizioni erano due: • Schieramento “rigorista” guidato da Umberto di Silviacandida: propugnava un'assoluta indipendenza della Chiesa dal potere regio e imperiale, e prevedeva la condanna più decisa della simonia. Deposizione dei vescovi simoniaci e annullamento dei loro atti. • Schieramento capeggiato da Pier Damiani: riteneva impraticabili soluzioni di questo tipo e riteneva che i sacramenti fossero validi indipendentemente dalla qualità morale di chi li amministrava. L’ordine sacro non poteva essere impartito due volte. L’ideologia rigorista avrebbe sconvolto la vita di molte chiese; si necessitava di ridefinire ruoli e competenze, ma non di operare una netta separazione tra impero e Chiesa. All'inizio sembrava prevalere l'impostazione di Pier Damiani ma poi, il movimento di riforma prese una direzione completamente nuova, giungendo a una ridefinizione dei rapporti tra papato, impero ed episcopato. Il papato, approfittando della minorità di Enrico IV, si rafforzava politicamente e attuò con Niccolò II e Alessandro II degli interventi importanti disciplinari e organizzativi. Il primo perfezionò l'intesa con i normanni dell'Italia meridionale avviata da Leone IX; al 1059 risale la stipula dell'accordo di Melfi con i normanni, e con il loro capo Roberto il Guiscardo che in qualità di vassallo della Chiesa di Roma, ottenne il titolo di duca di Puglia e di Calabria. Nello stesso anno riunì un concilio nel Laterano in cui vennero varati dei provvedimenti che accelerarono la riforma; vennero modificate le procedure per l'elezione papale, che venne riservata al collegio dei cardinali. Fu rinnovato l'obbligo del celibato degli ecclesiastici e fu proibito ricevere chiese dai laici. I concili del 1060 del 1061 nel Laterano si espressero sul problema della simonia in modo definitivo. I vescovi simoniaci furono deposti, ma gli atti compiti furono ritenuti validi purché non ci fosse stato versamento di denaro; in seguito furono annullati. 51 Lo scontro tra due grandi personalità: Enrico IV e Gregorio VII Enrico IV si rese conto delle ripercussioni che le decisioni papali potevano avere sul piano politico: egli aveva intenzione di affrontare la questione delle riforme anche se nell'immediato era assorbito dalla repressione di una rivolta dei grandi feudatari della Sassonia. Nel frattempo saliva sul trono pontificio Gregorio VII (il monaco Ildebrando di Soana). Quest'ultimo, dotato di forte personalità, introdusse un elemento di novità nel panorama del movimento di riforma, rivendicando il primato romano, la suprema autorità del Papa all'interno della chiesa e nell'ambito della società cristiana. Nelle sue lettere compariva la contrapposizione tra “obbedienza” e “disobbedienza”, da ricondurre a quella dovuta a Dio e alla sua persona in quanto successore di Pietro, più che il concetto di libertas ecclesiae. Sì attuò una spaccatura del movimento riformatore. Dalla parte dell'imperatore si radunarono i vescovi ostili alla riforma, gli ecclesiastici di notevole levatura morale (Dionigi di Piacenza, Guido di Acqui e Guiberto di Ravenna) impegnati contro la simonia e il concubinato del clero, ma contrari alla concezione gregoriana del primato papale. Nel 1075, con il Dictatus Papae il pontefice mostrava di ritenere la sua giurisdizione estesa anche all'ambito temporale (facoltà di poter deporre vescovi e imperatori). Si affacciava l'idea di una monarchia universale incentrata sul pontefice romano; ciò era inaccettabile a un sovrano come Enrico IV. Nacque una lunga lotta, la "lotta per le investiture", che i due contendenti combatterono sia con le armi sia attraverso quelle che noi oggi definiremo "campagne di stampa". La lotta per le investiture Le prime mosse del pontefice furono l'emanazione di alcuni decreti nel 1074 e la convocazione di un concilio all'anno dopo. In esso si ribadì di nuovo la condanna alla simonia e al concubinato; si vietò ai laici di concedere l'investitura di vescovati e abbazie e agli arcivescovi di consacrare chiunque fosse stato investito dai laici. Enrico IV, dopo aver domato una rivolta dei grandi feudatari che lo accusavano di favorire la piccola nobiltà, convocò a Worms nel 1076 un'assemblea (dieta) di nobili ed ecclesiastici. In essa, con il consenso di quasi tutti i vescovi depose e fece scomunicare il pontefice. Gregorio VII scomunicò a sua volta i vescovi presenti alla dieta e scomunicò anche l'imperatore. Enrico si rese conto della pericolosità della situazione che dava legittimità all’opposizione dell’aristocrazia tedesca. I rivoltosi imposero all'imperatore di sottoporsi al giudizio del Papa convocando per gennaio del 1077 una dieta ad Augusta. Gregorio si ferma nel castello di Canossa, ospite della contessa Matilde, in attesa dell'arrivo della scorta promessagli dai principi tedeschi. Enrico lascia segretamente la Germania e si presentò a Canossa per implorare l'assoluzione dalla scomunica. Il Papa all'inizio rifiutò di riceverlo ma dopo che l'imperatore passò tre giorni a piedi nudi in mezzo alla neve e in abito da penitente, il papa cedette all'insistenza di Matilde e dell'abate Ugo di Cluny e gli concesse il perdono. La decisione del pontefice permise a Enrico di riprendere l'iniziativa, ma i principi tedeschi non desistettero e in una dieta a Forchheim nel marzo del 1077 elessero re Rodolfo di Svevia. L'imperatore Enrico si volse di nuovo contro il Papa e nel 1080 questi gli rinnovò la scomunica. Enrico IV convocò ben due concili: il primo a Magonza dove fece deporre Gregorio VII, il secondo a Bressanone, dove fece eleggere Clemente III (Guiberto di Ravenna). Approfittando del fatto che Roberto il Guiscardo, alleato del Papa, fosse impegnato nei Balcani, Enrico scese in Italia attraverso la Val d'Adige, dirigendosi verso Roma. Nel 1081 giunse nella città sbaragliando le truppe di Matilde e Roma fu presa nel marzo del 1084 mentre Gregorio si asserragliava a Castel Sant’Angelo. Qualche giorno dopo la conquista 52 Cap 15: Rinascita culturale e nuove esperienze religiose Una rinascita improvvisa Durante il medioevo si è parlato più volte di rinascita. Importante fu quella avviata da Carlo Magno, che elevò il livello di istruzione del clero e recuperò il patrimonio letterario antico. Con la crisi carolingia il centro principale non fu più la corte imperiale, bensì le abbazie di Tours, Fulda, S. Gallo. Presso di esse continuò lo studio e l’insegnamento in mezzo a difficoltà politiche e incursioni ungare, saracene e normanne. Durante il sec X fu la Germania a continuare la tradizione carolingia grazie agli imperatori della casa di Sassonia e a Ottone I, che portò con sé dall'Italia grammatici e teologi. La corte e i monasteri non divennero grandi centri di cultura; erano aperti all’influenza francese di Cluny e Citeaux. In Italia meridionale, nel sec XI, era presente una vivace attività culturale poiché si era in contatto con il mondo greco e arabo. Operarono complesse figure di studiosi come Alfano (letterato e scienziato), monaco di Montecassino e poi arcivescovo di Salerno, e Costantino l'Africano, che giunse a Salerno da Cartagine e morì a Montecassino. Ebbe interessi scientifico-filosofici e fornì molti testi di autori arabi, greci ed ebrei. L'occidente era entrato in contatto con la cultura araba grazie ai viaggi in Spagna di Gerberto di Aurillac (futuro papa Silvestro II), iniziarono gli studi di medicina nelle scuole di Chartres, Reims, Montpellier. Ovviamente l’Italia meridionale era il terreno privilegiato della trasmissione della cultura araba in Occidente; a Salerno ci si recava per studiare medicina e per procurarsi i testi di Aristotele. In Italia settentrionale era nato la rinascita del diritto romano, studiato sulla base dell'opera di Giustiniano, il Corpus Iuris Civilis. Alla fine dell’XI sec, Bologna era il maggiore centro europeo di studi giuridici. La prima figura nota di maestro fu Pepo, ma il più famoso fu Irnerio. Una grandissima risonanza ebbero anche l'opera del grammatico lombardo Papia e i testi di musica di Guido d'Arezzo. L’Italia, in questo periodo, influì sulla cultura medievale in ambito giuridico e medico. In Francia l’attività culturale era in ripresa in tutti gli ambiti. Fioriva lo studio delle arti liberali divise tra parti del trivio e del quadrivio, della filosofia e della teologia; era diffusa la pratica della poesia sia in latino sia in volgare. Esponenti di questi studi furono Gerberto di Aurillac e i suoi discepoli Abbone di Fleury, Fulberto di Chartres. Uno dei più brillanti allievi di Fulberto fu Berengario di Tours, impegnato in un'aspra controversia con Lanfranco di Bec e con altri teologi sul problema della presenza reale di Cristo nell'eucarestia. Egli nelle sue riflessioni, si fondava sulla dialettica (cioè l'argomentazione logica). I centri della rinascita culturale Il XII sec conobbe una forte accelerazione di questa rinascita già avviata da tempo. Fino all'XI sec i grandi monasteri avevano svolto un ruolo culturale di grande rilievo (si pensare a Montecassino). Centro famoso di studio fu anche il monastero di Bec in Normandia, guidata da Lanfranco e dal successore Anselmo. Queste non furono in grado di esprimere grandi personalità di scrittori. Anche Cluny dopo la morte dell’abate Pietro il Venerabile nel 1156, entrò in un periodo di decadenza. A metà del XII sec erano in piena fioritura gli ordini religiosi di nuova fondazione: i cistercensi, i certosini e i camaldolesi. Il loro obiettivo era l'ascesi spirituale e non l'attività intellettuale. San Bernardo, capo spirituale dei cistercensi, diede un contributo decisivo allo sviluppo dell'ordine, era un mistico e non un uomo di studio. Fervidi centri di vita intellettuale furono nel XII sec le cattedrali, che avevano il vantaggio di essere inserite nelle città. Il fenomeno fu evidente nella Francia settentrionale, dove le scuole cattedrali di Orleans, Chartres, Reims, Laon e Parigi divennero polo di attrazione per studenti provenienti dalla Germania, dall'Inghilterra, dall'Italia. Solo le cattedrali di Canterbury e Toledo in Spagna potevano eguagliarle. Le scuole cattedrali, il cui prestigio era legato alla presenza di grandi maestri, erano sotto il controllo dei vescovi che rilasciavano agli insegnanti un'apposita licenza (licentia docendi). Mancava un programma di studio e non erano nemmeno previsti esami finali da superare per ottenere un titolo riconosciuto al di fuori dell'ambito scolastico. Tutto questo avverrà con le università, le nuove istituzioni scolastiche del XII secolo. 55 La nascita delle università Il mondo antico offriva un’istruzione di tipo superiore in diversi campi ma le università sono una creazione originale del sec XII. In origine furono concepite come semplici associazioni di studenti e professori che si configuravano in modo simile alle corporazioni di arti e mestieri. La tutela degli associati fu perseguita su 2 piani: si mirò a ottenere il riconoscimento dell'autorità civile ed ecclesiastica e la concessione di privilegi di carattere giuridico ed economico per gli studenti più poveri. Le università cercarono di fissare i programmi di studio, i compensi da corrispondere ai professori e le modalità per sostenere gli esami e conseguire la laurea (la licenza di insegnamento). Il termine universitas indicava in origine solo la struttura corporativa, che si occupava di far funzionare l'organizzazione didattica, lo studium. Quest'ultimo era suddivisa in quattro facoltà ognuna delle quali era governata dall'assemblea dei maestri: quella delle arti, dove si insegnavano le arti del Trivio e del quadrivio, e le tre facoltà superiori di diritto (civile e canonico), medicina e teologia. Quest'ultima non si trovava ovunque (quella di Parigi aveva un monopolio esclusivo). Secondo la tradizione la prima università dell'Europa medievale è la scuola medica di Salerno. I cronisti francesi e tedeschi parlano della fama che hanno i medici salernitani, ma non hanno prove su una probabile esistenza dell’università. Non sono presenti, tantomeno, corporazioni di medici e studenti. Ci sono, però, molte opere tradotte: gli autori dichiarano di averle scritte per i propri studenti. Nulla si sa del conferimento di lauree prima delle costituzioni emanate dall'imperatore Federico II a Melfi nel 1231 in base alle quali il candidato, dopo aver superato a Salerno un esame pubblico davanti ai maestri della scuola, si sarebbe dovuto presentare all'imperatore o a un suo rappresentante, per avere la licenza. Questa procedura era già in vigore nelle università di Bologna e Parigi per la laurea in legge e in teologia, conferite dall’ arcivescovo o dal suo cancelliere. A Bologna l'università nacque nell'ambito delle scuole laiche di diritto verso la metà del sec XII. L'iniziativa fu degli studenti “Ultramontani” i quali venendo da lontano avevano il bisogno di organizzarsi. All'inizio si formarono quattro universitas scholarium, ridotte poi a due: gli Ultramontani e i Citramontani. Essi regolarono il funzionamento dello studium fissando il compenso per i professori, i piani di studio, i prezzi degli alloggi e dei libri. La corporazione dei maestri godeva di competenze limitate; potevano stabilire le modalità di ammissione all’esame finale. A Parigi le origini dell'università sono da collegare con la scuola della cattedrale di Notre Dame. Verso la metà del sec XII aveva molti docenti e rese Parigi la prima città d’insegnanti del mondo medievale. L'iniziativa fu dei maestri che formarono l'universitas magistrorum, per ridurre il potere decisivo del cancelliere arcivescovile. Una filiazione di Parigi potrebbe essere l'università di Oxford, il cui cancelliere è menzionato per la prima volta nel 1214 ma che cominciò a formarsi dopo il 1167 quando furono richiamati in patria gli studenti che studiavano in Francia. Ad Oxford seguì, nel 1200, Cambridge. Bologna fu madre di altre università italiane nel meridione; nel 1222 fu la volta di Padova, nata dalla secessione di alcuni maestri bolognesi, seguiti dei loro studenti. Nel 1224 nacque quella di Napoli. Federico II chiamò maestri bolognesi, attirò gli studenti con dei privilegi economici e vietò ai sudditi di studiare all’estero. L’obiettivo era quello di formare del personale da inserire nell’amministrazione del Regno di Sicilia. L'iniziativa dell’imperatore fu seguita dei pontefici che compresero l'importanza delle nuove istituzioni scolastiche e si adoperarono per assumerne il controllo attraverso proprie fondazioni (università di Tolosa) o inserendosi nei contrasti tra autorità cittadine e università (prendendo queste sotto la propria protezione). Il risultato dell'interessamento di sovrani e papi per le università fu che esse già nel corso del 1300 persero buona parte dell'impronta originaria, ritrovandosi sottoposte ai pubblici poteri: alla fine del medioevo le università europee erano circa 80. 56 L'organizzazione degli studi universitari Dopo gli interventi di pontefici e sovrani le università mantennero una propria autonomia organizzativa; erano diverse, ma avevano elementi comuni perché le più giovani si modellavano su quelle più antiche. I corsi si tenevano nelle case dei maestri o in sale da loro affittate. Le assemblee, gli esami, le dispute solenni si svolgevano nelle chiese o nei conventi. A Bologna gli ultramontani si riunivano nella chiesa di S. Procolo, i Citramontani a San Domenico. L'insegnamento era basato sulla lezione (lectio) e sulla disputa (disputatio). La prima consisteva nella lettura e nel commento, dal libro e prendendo appunti, delle opere degli autori considerati fondamentali per una data disciplina. Originali erano le dispute, l'aspetto più interessante del nuovo metodo di insegnamento, detto “scolastico”. Il maestro sceglieva un tema (quaestio) e dava l'incarico a un suo assistente (baccelliere) di presentarlo agli studenti e di rispondere alle loro obiezioni. Il giorno dopo faceva la determinatio: sintetizzava la discussione ed esponeva la sua tesi al riguardo. Queste “dispute ordinarie” si distinguevano da quelle più impegnative che ogni maestro era tenuto a organizzare 2 volte all'anno alla presenza di tutti i membri della facoltà. Sono le cosiddette quaestiones quodlibetales, cioè dispute su qualsiasi argomento (de quolibet) per cui il maestro e i suoi assistenti dovevano essere pronti a rispondere alle domande del pubblico. Il giorno dopo il maestro faceva la consueta determinatio e precisava il suo pensiero. Alle lezioni e alle dispute si aggiungevano nella facoltà di Arti, esercitazioni pratiche e ripetizioni scritte e orali per verificare l'apprendimento degli allievi. Questi, al termine degli studi, conseguivano dei titoli; alcuni diventavano maestri, altri facevano carriera nell’organizzazione ecclesiastica e/o pubblica. Nel corso del 200 si viene delineando a Parigi una carriera di questo tipo. Dopo circa sei anni di studio nelle facoltà di Arti lo studente veniva ammesso all'esame, per conseguire il baccalaureato, il titolo di baccelliere, che l'abilitava fare l'assistente del suo maestro. L'esame si svolgerà davanti a una commissione di 4 maestri che verificavano la sua capacità di tenere una lezione e una disputa, con relativa “determinazione” finale. Dopo altri 2 anni di studio si presentava di nuovo davanti alla commissione esaminatrice, la quale, se lo trovava idoneo, lo presentava il cancelliere che gli conferiva la licenza. Se voleva diventare maestro o dottore in arti, doveva sottoporsi, non prima dell'età di 21 anni, a due dispute con i baccellieri e i maestri della facoltà alla presenza del cancelliere arcivescovile, che gli avrebbe conferito il titolo. Su di lui gravava l'oneroso obbligo di offrire un sontuoso banchetto a tutti i presenti, per questo di indirizzavano al dottorato solo coloro che volevano intraprendere la carriera universitaria. Un percorso analogo era previsto per coloro che passavano a una licenza superiore, per le quali erano previsti da 6 a 8 anni di studio per diritto e medicina e 15 per teologia. Erano studi assai lunghi, considerando che la vita media aggirava intorno ai 35 anni. Per medicina centro più rinomato fu all'inizio Salerno. All'inizio del 200 nonostante la scuola medica salernitana fosse già in declino, continuerà a funzionare fino al 1812. Rinomate facoltà di medicina diventarono allora Montpellier, Bologna, Padova. Gli studi di filosofia e teologia ebbero il loro centro principale a Parigi, dove si venne elaborando quella tipica cultura filosofica conosciuta con il nome di scolastica. Un'influenza enorme fu esercitata dal pensiero di Aristotele conosciuto attraverso le sue opere originali tradotte dal greco e dall'arabo e commentate dagli interpreti arabi tra cui Averroè. Il pensiero di Aristotele dava una risposta ai nuovi problemi che ora si ponevano gli uomini di pensiero e forniva uno strumento efficace per inquadrare in maniera unitaria la cultura del tempo. Il suo pensiero non era facilmente conciliabile con la dottrina cristiana, a Parigi nel 1215 fu vietata l'utilizzazione delle sue opere scientifiche e metafisiche e il divieto fu revocato nel 1252. Tra coloro che conciliarono la filosofia aristotelica con il pensiero cristiano svolsero un ruolo di primo piano due filosofi e teologi domenicani; Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Quest'ultimo scrisse la Summa Theologica, tentando l’unione della scienza con 57 spiriti puri e quello inferiore della materia, tra bene e male, luce e tenebre, spirito e materia. Il cristiano doveva lottare contro la violenza e contro tutto ciò che è materiale, conducendo una vita povera e ascetica e astenendosi dai cibi carnei. A questi obblighi se ne aggiungevano altri (divieto di sposarsi) per quelli che aspiravano a far parte della categoria superiore dei perfetti. Nella lotta ai Catari, la chiesa mobilitò anche le autorità politiche facendo leva sul carattere eversivo della loro predicazione e arrivando al punto da bandire contro di loro una crociata. In questo periodo nacquero gli ordini mendicanti. Gli ordini mendicanti Il più importante fu la Fraternità di penitenti di Assisi, formatasi attorno a Francesco. Egli diede ai suoi seguaci, in segno di umiltà, il nome di frati minori, utilizzando il termine minores che ne testi dell'epoca designava le categorie sociali più basse, il popolino della città. Il nome dell'ordine indicava una rottura rispetto a una situazione consolidata che vedeva gli ordini religiosi e le comunità canonicali in possesso di estesi beni fondiari e di poteri di natura signorile. Tale era la condizione degli stessi cistercensi, che pur avendo cercato la fuga dal mondo, finirono col diventare grandi proprietari terrieri. Per procurarsi da vivere Francesco e i suoi compagni lavoravano quotidianamente con le loro mani e si affidavano alla provvidenza, ricorrendo alla mendicità nel caso in cui non avessero trovato di che vivere con il lavoro. Non potevano avere provviste perché l’appropriazione dei beni li avrebbe esposti al peccato di avarizia e violenza. Offrirono un'immagine diversa da quella della chiesa del tempo, nonostante ciò, Francesco e i suoi seguaci professarono sempre obbedienza nei confronti dell'autorità della Chiesa; il papato ne riconobbe il magistero e furono utilizzati nella lotta contro gli eretici. Artefice di questa svolta fu Innocenzo III che nel 1210 approvò verbalmente la regola di vita proposta da Francesco. L'approvazione scritta verrà data nel 1223 da papa Onorio III. Nel 1216 Onorio III approvò un'altra regola elaborata da Domenico di Guzman, per l'ordine dei frati predicatori (detti altrimenti Domenicani). Essi avevano operato un rifiuto completo della ricchezza e di ogni forma di possesso, scegliendo di vivere con l’elemosina e le offerte dei fedeli. Si distinguevano dai francescani per la loro preparazione teologica, avendo scelto come principale campo di impegno la lotta contro gli eretici. Quando nel 1231 il papato impresse una svolta contro gli eretici, creando in ogni diocesi il tribunale dell'inquisizione, i giudici inquisitori vennero scelti proprio tra i domenicani. Ad essi, in seguito, furono affiancati i francescani, che assunsero compiti non conformi al tipo d’insegnamento auspicato da Francesco. Il rapido sviluppo dell'ordine (francescano) anche nei paesi d'oltralpe aveva comportato la stabilizzazione dei frati in edifici conventuali e ricevettero beni fondiari. A bussare alla porta dei conventi furono anche chierici e intellettuali (maestri di diritto e di teologia) che contribuirono a cambiare la fisionomia delle primitive comunità francescane, assumendo, in breve tempo, la guida dell'ordine. Francesco non era ostile alla cultura, ma la riteneva poco compatibile con l'ideale di povertà. I problemi si aggravarono dopo la canonizzazione di Francesco ad opera di Gregorio IX nel 1228. Il pontefice con la lettera “Quo elongati” del 28 settembre 1230, nel mentre negava valore normativo al Testamento con il quale alla fine dell'estate del 1226 Francesco aveva riproposto i caratteri originari della Regola, risolveva anche il problema della disponibilità che l'ordine aveva di beni immobili, stabilendo che ne avesse solo l’uso, mentre la proprietà era della Chiesa romana. Era un artificio giuridico che proteggeva la diversità dell’ordine. Un segno evidente della metamorfosi dell'ordine fu l'elezione a ministro generale nel 1239 di frate Alberto da Pisa il primo frate-sacerdote a ricoprire questa carica che in precedenza era sempre stata propria di frati/laici l'ultimo dei quali Elia, costretto a dimettersi per le tensioni scoppiate all'interno dell'ordine tra lo schieramento dei frati/sacerdoti e quello dei frati/laici. Ad Alberto di Pisa successe Aimone di Faversham, con il quale la clericalizzazione dell'ordine può dirsi completata. A lui si deve l'adozione della norma in base alla quale 60 nessun nuovo frate avrebbe potuto essere accolto se non fosse già stato “chierico convenientemente istruito nella grammatica o nella logica”. Il punto di arrivo di questo processo fu il lungo generalato di Bonaventura da Bagnorea che segnò una rifondazione del francescanesimo, collocandolo nella società mediante dei frati che svolgevano compiti di natura pastorale. Egli rilesse in funzione del nuovo assetto dell'ordine anche l'esperienza religiosa di Francesco, al punto che il capitolo di Parigi del 1266 decise in merito alla distruzione sistematica di tutte le testimonianze che non coincidevano con la nuova biografia del santo scritta da Bonaventura, approvata dal capitolo di Pisa nel 1263. L'intenzione di porre fine a tutti i contrasti interni non andò a buon termine. Esplose di nuovo il dibattito sul binomio povertà e ricchezza. Si venne a creare una spaccatura tra gli “spirituali”, che intendevano restare fedeli alla regola, e “i conventuali” che ritenevano indispensabile adattare la regola alle nuove dimensioni dell'ordine e ai compiti che l'attendevano. Fu una lotta assai dura. Il papato perseguitò le frange più estremistiche degli spirituali, tra cui i gruppi dei cosiddetti fraticelli. I frati minori, adottando una strategia insediativa, fissarono le loro sedi all'interno delle città o nei centri abitati che svolgevano la funzione di polo di aggregazione di territori più o meno ampi. Essi non fuggivano dal mondo, anzi cercavano l’uomo, con preferenza per gli umili e gli emarginati. Acquistarono man mano sempre più prestigio, diventando il punto di riferimento del laicato pio che affidarono loro molti incarichi. Lo stile di vita di francescani e domenicani veniva adottato da altri gruppi mendicanti, ma la chiesa, con il Concilio di Lione del 1274 cercò di porre freno al fenomeno riconoscendo come mendicanti soltanto francescani e domenicani e accantonando il problema dei carmelitani e degli agostiniani, riconosciuti nel 1298. Nasceva “la quadrilogia mendicante”, alla quale bisogna aggiungere i Servi di Maria, riconosciuti come mendicanti all'inizio del 1300: si tratta di un ordine ancora oggi esistente, ma che non raggiungerà mai la diffusione degli altri quattro. Cap 16: Rapporti feudali e processi di ricomposizione politico-territoriale. L’impero e l’Italia dei Comuni. Il movimento delle paci di Dio e la nascita della cavalleria La società europea era in piena crescita demografica ed economica e ciò richiedeva una difesa più adeguata delle città e delle campagne e delle vite degli abitanti. Per realizzarla, era necessario superare il continuo stato di guerra, alimentato dai particolarismi politici e dai contrasti tra le varie famiglie aristocratiche, che dovevano sistemazione i figli maschi. Alla fine del X secolo, la Chiesa, per risolvere il problema, propose “il movimento delle paci di Dio”, che nacque in Aquitania per poi diffondersi nel resto della Francia. I vescovi organizzavano grandi assemblee pubbliche durante le quali esortavano il popolo a farsi difensore dell’ordine pubblico, ma soprattutto, delle chiese, dei chierici, dei monaci e delle categorie più deboli (donne, bambini, poveri, pellegrini). Si schieravano contro “i violatori della pace”, i signori detentori di castelli e il loro seguito armato; venivano mobilitati oltre al popolo anche i signori contrari alla violenza che cercavano di riprendere il controllo sui loro indocili vassalli. Una delle iniziative intraprese per garantire maggiore sicurezza proibiva di combattere in determinati giorni dell’anno (le domeniche in primis, le numerose festività religiose, nonché i giorni che le precedevano); ciò permetteva di guerreggiare solo un paio di giorni la settimana, ma questa condizione veniva di rado rispettata. La nuova idea di guerriero (al servizio dei più deboli e della fede cristiana) ideata dalla Chiesa permetteva ai signori di legittimare la propria opera e di mantenere il controllo sul ceto militare. La Chiesa aveva inoltre elaborato una visione della società divisa, in modo forzato, in oratores, bellatores e laboratores. Coloro che combattevano a cavallo si distinguevano nettamente dai laici e dagli inermes (contadini disarmati e soggetti ai signori) e, dall’XI secolo, andavano sempre più chiudendosi in un ceto privilegiato, la nobiltà. Vi si poteva accedere per volontà del sovrano o di coloro che già ne facevano parte. I membri erano esentati dal pagamento delle imposte per le terre che possedevano (erano il corrispettivo delle funzioni militari), erano sottratti alla giustizia dei signori, potevano tramandare ereditariamente la loro condizione giuridica ect. Questo nuovo ceto era molto articolato al suo interno, ma a dargli coesione contribuì il modello di comportamento cavalleresco ideato dal clero francese: a partire dal 1050 circa, la cerimonia dell’investitura venne trasformata in un rituale 61 religioso. Se prima tutto si risolveva nella consegna di una spada benedetta dal sacerdote, ora l’aspirante cavaliere, prima della cerimonia, doveva trascorrere l’intera nottata in preghiera e sottoporsi ad un bagno purificatore. Il cerimoniale non fu sempre rispettato poiché molte investiture si tennero sul campo di battaglia. Il codice di comportamento dei cavalieri, nel corso del XII secolo, fu arricchito dai “giovani”, cavalieri non sposati e privi di feudi, che preferirono, all’idea del matrimonio, cimentarsi in una vita avventurosa e gloriosa fatta di tornei, conversazioni amorose e lettura di poesia e romanzi cavallereschi. In realtà la vita di questi giovani cavalieri era molto più violenta perché subito si lanciavano in qualsiasi impresa guerresca vanificando le iniziative di pace dei vescovi. Una soluzione fu trovata in un concilio svoltosi a Narbona nel 1054, dove si stabilì che era illecito versare sangue. Con quest’affermazione si legittimava la visione del cavaliere come miles Christi, impegnato nella lotta contro gli infedeli, che venne sperimentata attraverso le crociate e la creazione di ordini cavallereschi. In sostanza, con il Movimento delle Paci di Dio, i vescovi erano riusciti a disciplinare le forze più esuberanti della società, a sopperire alla mancanza di un potere politico che riuscisse a mantenere l’ordine all’interno della società. I rapporti feudo-vassallatici come rinnovato strumento di governo Nel corso del XII secolo, ci fu una lenta ripresa politica che permise di provare a disciplinare la massa di poteri locali. Si fece leva sui rapporti feudo-vassallatici che erano considerati anche la principale causa del disastroso panorama politico. Questi furono utilizzati, nei secoli IX e X, in tutta Europa per creare attorno a sovrani i principi e i signori, clientele armate, che garantissero loro sostegno militare. Dal 1050 in poi i rapporti feudo-vassallatici persero il loro carattere esclusivamente militare e divennero strumenti di governo in territori sempre più vasti. I fattori all’origine di questa trasformazione erano 2: il riconoscimento dell’ereditarietà dei feudi e la nascita del diritto feudale ad opera dei giuristi lombardi che compilarono una raccolta organica di formule e pratiche giuridiche note come “Libri Feudorum”. Crearono il “sistema feudale” e definirono il ruolo dei rapporti feudo-vassallatici. Nel 1037 l’imperatore Corrado II aveva sancito l’ereditarietà dei feudi, il feudo non poteva essere sottratto al vassallo e ai discendenti, a meno che un tribunale di pari non lo avesse ritenuto colpevole di fellonia. Il legame tra signore e vassallo andava sempre più allentandosi, ma questo non fece altro che diffondere maggiormente i rapporti feudali: la garanzia del possesso del feudo, assimilato all’allodio, permetteva al proprietario di un terreno o di un castello di stabilire un collegamento con un signore più forte. I rapporti feudo-vassallatici conobbero il massimo dell’espansione tra XI e XIII secolo, non solo perché vennero conquistati nuovi territori, ma perché ne venne fatto un impiego più esteso là dove erano nati e conosciuti da tempo. A questo contribuirono inoltre i giuristi che arrivarono ad individuare nello Stato la fonte del diritto e del potere, per cui ogni funzione di comando non era concepibile senza una delega formale dell’autorità sovrana. Il problema era applicare questa riflessione ad una realtà politica estremamente frantumata. I giuristi indicarono come soluzione, il feudo oblato o fief de reprise: terre, fortezze e giurisdizioni che erano tenute in allodio il proprietario le donava al signore per poi riceverle in feudo dopo aver prestato omaggio. Diventando vassallo doveva garantire aiuto militare al signore, anche se questo non poteva durare più di quaranta giorni, passati i quali era il signore a dover provvedere al mantenimento del vassallo e del suo seguito. Tuttavia, già nell’XI secolo sono attestati in Lombardia dei feudi sine servitio o sine fidelitate, cioè feudi per i quali i vassalli non dovevano al signore il servizio militare. I rapporti vassallatico-beneficiari persero l’originaria funzione militare; non si presentavano più come una dedizione totale al signore, ma come un obbligo ben preciso che spesso veniva sostituito da una tassa in denaro. A cosa serviva un feudo senza servizio militare? Un vassallo si legava ad un signore potente ed impegnato nella costruzione di un vasto dominio del quale concedeva loro piccole porzioni; questi, però, dovevano assicurare il servizio militare o il pagamento di una tassa e riconoscere nel signore la fonte del loro potere e non schierarsi dalla parte dei suoi nemici. Nasce in questi anni l’immagine della piramide feudale che, a partire dal vertice verso il basso, illustra la stratificazione sociale che dal signore giungeva fino ai valvassori, valvassini ed i ceti rurali. Il sistema feudale fu sperimentato precocemente in Inghilterra e nell’Italia meridionale, dove i Normanni (i discendenti dei Vichinghi che nel X sec si erano 62 ottenere il riconoscimento delle regalie e la signoria su Como e Lodi. Federico rifiutò l’offerta, mise la città al bando e distrusse anche Tortona, alleata dei Milanesi, che cercarono invano di difenderla. L’imperatore si diresse quindi a Roma, dove, prima dell’incoronazione, abbatté il regime comunale che si era formato nel 1143 capeggiato da Arnaldo da Brescia, che contestava il potere temporale della Chiesa. Arnaldo, già da tempo in contrasto con tutti i gruppi dirigenti del Comune, fu arrestato e messo al rogo. Nel settembre del 1155 l’imperatore stava facendo ritorno in Germania, ma nel 1158 ritornò in Italia con un grande esercito e le idee molto più chiare su quanto doveva essere fatto. Dalla rottura con il papato alla pace di Costanza Appena tornato in Italia, l’imperatore Federico Barbarossa convocò una nuova dieta sempre a Roncaglia alla quale furono convocati anche i 4 dottori dell’Università di Bologna (Bulgaro, Ugo, Martino e Jacopo) perché indicassero all’imperatore quali erano i diritti regi. L’elenco, poi inserito nella Costituzione sulle regalie (Constitutio de regalibus), comprendeva: il diritto di battere moneta, di nominare i magistrati, di imporre tasse, pedaggi, imposte sul commercio, sulla pesca, sulle saline e sulle miniere d’argento, di riscuotere multe, di incamerare i patrimoni rimasti senza legittimi proprietari, di imporre lavori per riparare e difendere le proprietà pubbliche. Erano diritti di cui i comuni si erano impadroniti e che l’imperatore era disposto a concedere loro in cambio di un tributo. Il Barbarossa emanò poi una Costituzione sulla Pace (Constitutio pacis) con la quale proibì le leghe tra le città e le guerre private e rivendicò la dipendenza dal potere regio di contee, marche e ducati, i quali eventuali proprietari potevano continuare a detenere a patto di instaurare con l’imperatore un rapporto feudale. Tutti i poteri, anche quelli gestiti dai funzionari pubblici, dovevano derivare dall’imperatore che inviava i suoi funzionari per ricevere l’omaggio vassallatico, per la riscossione dei tributi delle città e per assumere il controllo diretto dei Comuni più indocili. Inoltre cercò di imporre un controllo ai vescovi che ricoprivano cariche pubbliche. Il risultato di questo impegno per la restaurazione del potere imperiale fu la nascita di un movimento di opposizione del quale facevano parte i Comuni lombardi, quelli veneti e il pontefice Alessandro III. L’imperatore reagì contrapponendo ad Alessandro III, che fuggì in Francia, l’antipapa Vittore IV e radendo al suolo Milano nel 1162. I Comuni, però, non si diedero per vinti: nel 1164 i Comuni del Veneto si riunirono nella Lega Veronese, a cui seguì la Lega Cremonese; si fusero e diedero vita alla Lega Lombarda (o Societas Lombardiae). Questa alleanza fu sancita dal giuramento di Pontida del 7 aprile del 1167 e ad essa si collegò il pontefice Alessandro III, in onore del quale venne edificata la città di Alessandria che doveva tenere a bada i conti di Biandrate e il marchese del Monferrato, schierati con l’impero. Il Barbarossa si accanì contro Alessandria, ma non riuscì ad ottenere la vittoria. Intanto in Germania i feudatari, capeggiati da Enrico il Leone, antico rivale dell’imperatore, divenivano sempre più indomabili. L’imperatore rinunciò alla presa della città nel 1176 e decise di tornare in Germania, ma durante il viaggio fu sconfitto dall’esercito della Lega Lombarda a Legnano. A quel punto, l’imperatore trovò un accordo diplomatico col pontefice, che accettò di fare da mediatore con i Comuni e di convalidare tutti gli atti di natura ecclesiastica compiuti in Germania, in cambio della restituzione dei territori della Chiesa di Roma e della deposizione dell’antipapa. I Comuni non gradirono il voltafaccia del papa ed ostacolarono la pace, infatti, si riuscì a firmare a Venezia una tregua di sei anni solo l’anno dopo. Fu possibile stipulare un trattato di pace solo nel 1183 a Costanza. Questo era un compromesso che salvaguardava il principio per cui tutti i poteri derivavano dall’imperatore, che dall’altra parte garantiva ai Comuni le regalie, tra cui il diritto di costruire fortezze e di riunirsi in leghe. I Comuni, inoltre, dovevano versare un’indennità una tantum di 15.000 lire, un tributo annuo di 2.000 lire, dovevano corrispondere all’imperatore il fodro (foraggio) in occasione della sua venuta e consentire il ricorso al tribunale imperiale contro le sentenze emesse dai giudici cittadini. Per quanto riguarda l’elezione dei consoli, si stabili che dovevano essere eletti dai cittadini, ma dovevano essere investiti formalmente ogni cinque anni dall’imperatore, a meno che non vi provvedesse il vescovo (nelle città in cui era il titolare dei poteri pubblici). 65 L’evoluzione sociale ed istituzionale dei Comuni Le concessioni fatte dall’imperatore a Costanza erano destinate solo alle città della Lega Lombarda, ma vennero ritenute valide per tutti i Comuni italiani. I Comuni si configurarono come organismi politico-amministrativi pienamente legittimi e inserito nella struttura dell’impero. Questo si consolidò ulteriormente dopo la morte di Federico Barbarossa (1190) e di suo figlio Enrico VI (1197); l’impero visse un periodo di crisi e i Comuni poterono sottomettere il contado. Furono ridefiniti i rapporti col vescovo, che venne estromesso da ogni giurisdizione civile, ma non senza resistenze: il vescovo di Bologna, per esempio, abbandonò la città e tra il 1215 e il 1232 e la scomunicò per tre volte. Le città vennero dotate di edifici pubblici, collocati lontano dalle cattedrali, per sottolineare la laicizzazione intrapresa dai Comuni. Grazie all’aiuto dei giudici, che acquistavano sempre più importanza man mano che la vita comunale diveniva più complessa, i Comuni poterono anche dotarsi di codici di leggi (Statuti). Il consolidamento delle istituzioni comunali procedeva pari passo con la sottomissione del contado: i detentori di fortezze e di diritti signorili furono costretti a divenire vassalli del Comune e a risiedere una parte dell’anno in città, così da poter essere controllati. Con i più potenti, se non poterono essere eliminati fisicamente, si cercò di stipulare patti di alleanza, sotto forma d’ingaggi militari poiché il Comune aveva bisogno di difesa. Un efficacie strumento di controllo si rivelarono essere i borghi franchi: erano insediamenti fortificati lungo le zone di confine; gli abitati godevano di aiuti e facilitazioni fiscali poiché venivano inviati là per bonificare i terreni e per difendere il territorio del Comune da attacchi esterni. Erano autorizzati a darsi ordinamenti sulla base del Comune rurale, fenomeno all’origine del quale vi erano la tendenza ad imitare il dinamismo cittadino e ad ottenere migliori condizioni di lavoro dai signori fondiari. La novità più consistente riguardava la sostituzione della magistratura collegiale dei consoli con il podestà (fase podestarile). Il cambiamento era richiesto dai nuovi ceti mercantili consapevoli della loro importanza per lo sviluppo della città; non vollero sottostare più alla vecchia classe aristocratica. Si formarono 2 schieramenti, quello della nobiltà e quello del popolo, ovvero i detentori del potere e coloro che miravano a sostituirsi alla vecchia classe dirigente. Questa aveva condotto il Comune alla vittoria contro il Barbarossa, ma non era in grado di mantenere la pace, per cui il collegio dei consoli era paralizzato da lacerazioni interne. La soluzione fu individuata nella sostituzione dei consoli con un podestà, prima locale e poi forestiero, in modo che fosse imparziale. Inizialmente egli era anche responsabile della difesa, ma in seguito questa carica venne assunta dal capitano del popolo. Le lotte tra nobiltà e popolo Il podestà forestiero riuscì per un periodo a mantenere la pace, ma verso il 1250 nei Comuni più prosperi e più popolosi le tensioni esplosero con rinnovata violenza. Si trattava di scontri anche tra membri dello stesso ceto sociale: i nobili, infatti, non solo facevano distinzione tra famiglie di nuova ed antica nobiltà cittadina, ma erano divisi tra profondi odi familiari. Per questo, essi conducevano uno stile di vita molto violento sottolineato dalle loro abitazioni, munite di torri e mura difensive, ma anche nella loro disperata ricerca di amici e clienti. Si formava un vero e proprio clan, dotato di una ferrea organizzazione interna e pronto ad usare le armi ad ogni occasione. A loro volta, i clan si riunivano in federazioni (societates militum) che a volte formavano due schieramenti opposti: i guelfi e i ghibellini. I guelfi erano aderenti al partito filopapale e consideravano il collegamento con la Chiesa di Roma una sorta di copertura all’avanzata autonomia dei Comuni, sui quali riconoscevano una sola teorica sovranità imperiale; al contrario, i ghibellini sostenevano un saldo legame con l’imperatore. Moltissimi furono i Comuni che nascosero le loro reali intenzioni dietro le bandiere di Guelfismo e Ghibellinismo. Era complicata anche la situazione all’interno del ceto del popolo, tenuto insieme solo dalla necessità di contrastare la nobiltà. Di esso facevano parte anche i nobili da poco immigrati in città e qualche esponente della vecchia aristocrazia che per opportunismo si era schierato dalla parte del popolo (è il caso di Lanzone a Milano), nonché ovviamente mercanti ed artigiani. Inoltre, soprattutto nei maggiori centri, artigiani e mercanti avevano ben pochi interessi in comune e tendevano a superare i vincoli di carattere 66 corporativo. Le stesse corporazioni non erano molto solidali tra loro. A Firenze, infatti, per esempio, queste erano divise in arti maggiori, medie e minori, ma solo le prime due avevano un ruolo politico. Mercanti, intellettuali laici, artigiani, cambiatori e nobili esclusi dal loro ceto si organizzarono nella societas populi, il cui scopo era quello di contrastare la nobiltà. Questa era organizzata come il Comune con capi e consigli e si incaricava di giudicare le controversie tra i suoi membri, e altrettanto facevano i clan. Entrambi gli schieramenti erano inoltre dotati di eserciti pronti a scendere in campo sia contro i nemici esterni sia contro quelli interni. Il Comune popolare e l’affrancazione dei servi A complicare la vita politica dei Comuni era il fenomeno del “fuoriuscitismo”, cioè l’espulsione dalla città degli esponenti della parte perdente. Questi davano vita al cosiddetto “Comune degli estrinseci” stabilendo stabili collegamenti con i loro alleati rimasti in città e con i Comuni rivali, tanto che molte volte riuscivano a rientrare in città ed espellere i loro nemici. In molte città questi portarono alla presa di potere del popolo, che affiancò agli organi di governo già presenti la sua societas populi, complicando ulteriormente la situazione. Il potere esecutivo era ripartito tra il podestà e gli anziani, i capi del popolo, che venivano espressi dalle arti maggiori e media, e formavano il Priorato delle arti. Il podestà dovette affidare al capitano del popolo le sue competenze di carattere militare. I governi popolari non portarono al cambiamento sperato: non tutelavano le classi inferiori, le spinsero alla rivolta e all’alleanza con la nobiltà; spesso si accanivano contro i nobili, dei quali avevano bisogno sul piano militare. Paradossalmente, lo stesso capitano del popolo era di origini nobili. Emblema della politica antinobiliare furono le Leggi anti magnatizie, promulgate verso la fine del Duecento, con le quali venivano esclusi i grandi o magnati (esponenti della vecchia aristocrazia militare e popolani ricchi) dalle cariche più importanti. Giano della Bella, nobile fiorentino passato dalla parte del popolo, se ne fece promotore: nel 1293 fece infatti promulgare gli Ordinamenti di giustizia, per fermare le violenze dei magnati e precludere il loro accesso al Priorato delle arti. I governi popolari, d’altra parte, rappresentano la più alta espressione di democrazia nel Medioevo e consentirono una grande partecipazione al governo, dato che le cariche erano di breve durata e perciò molti erano coinvolti, a vari livelli, nella gestione del Comune. La stessa affrancazione dei servi della gleba aveva una motivazione di tipo fiscale: era necessario far aumentare il numero dei contribuenti, dato che i servi, considerati di proprietà del loro signore, non pagavano le imposte. Lo dimostra il fatto che ai servi liberati fu vietato il trasferimento in città, mentre in campagna aumentava sempre più la pressione fiscale. Lo sfruttamento economico era però operato dai borghesi che sapevano meglio dei signori come valorizzare le loro terre. Cap 17: La diffusione dei rapporti feudali. L’Inghilterra, il Mediterraneo e le crociate. Esempi di feudalità efficiente I rapporti feudo-vassallatici si rafforzarono in Europa e vennero esportati nei nuovi territori conquistati durante i sec XI e XII. Ne furono protagonisti i cavalieri del ducato di Normandia, nato agli inizi del sec X, nella cui regione era stato introdotto l’ordinamento politico carolingio basato su circoscrizioni affidate a funzionari-vassalli, che avrebbero poi trasformato le loro cariche e i benefici fondiari in beni privati trasmissibili agli eredi. I duchi di Normandia, apportarono alcune migliorie al sistema carolingio introducendo il proprio vigore militare e la fedeltà. Rollone e i suoi successori separarono le funzioni militari svolte dai feudatari, dai compiti di natura amministrativa e giurisdizionale affidati ai viceconti (o visconti). In questo modo il controllo del territorio era molto più saldo rispetto a quello degli altri principi e dello stesso re di Francia. La potenza dei duchi di Normandia condizionò notevolmente le realtà politiche circostanti, specialmente quella inglese. Già nel corso del IX secolo i Vichinghi avevano compiuto diverse incursioni in Inghilterra, ma riuscirono a realizzare a vere e proprie forme di dominazione solo dopo il Mille, quando Canuto II il Grande creò un impero intorno al Baltico, che comprendeva la Danimarca, la Norvegia e l’Inghilterra. Questa si dissolse nel 1035, dopo la morte di Canuto il Grande; l’Inghilterra recuperò l’indipendenza sotto il dominio di Edoardo il Confessore, figlio di madre normanna ed educato proprio in Normandia, tanto che egli accolse alla sua corte molto cavalieri ed ecclesiastici francesi. 67 coinvolti ad intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta, così da purificare i propri peccati e aiutare la Chiesa d’Oriente, minacciata dagli infedeli. Le fonti sono collocabili dopo la presa di Costantinopoli, quindi probabilmente i cronisti enfatizzarono il discorso del pontefice, il quale non poteva immaginare che le sue parole avrebbero dato vita alle crociate. La società della fine dell’XI secolo era pervasa da un forte slancio espansivo: la popolazione era in aumento, nuove terre venivano messe a coltura, i mercanti si contendevano il controllo dei mercati con i musulmani e i cadetti delle famiglie aristocratiche cercavano disperatamente nuovi territori da conquistare. Il clima era impregnato di ottimismo, ma anche di profonda inquietudine religiosa che si manifestava nei predicatori itineranti che preannunciavano una rigenerazione del mondo e nel desiderio di espiazione dei peccati che faceva aumentare sempre di più il numero dei pellegrini. Importanti luoghi di pellegrinaggio erano Roma, S. Martino di Tours (Francia), S. Michele Arcangelo sul Gargano (Puglia), Gerusalemme, e Santiago de Compostela. Quest’ultima era una meta particolarmente importante poiché la Spagna era teatro di guerra tra cristiani e musulmani; inoltre una tappa importante del percorso era Roncisvalle, dove, secondo la Chanson de Roland, era caduto il più famoso paladino di Francia combattendo contro gli infedeli. Vi sono molti elementi di fantasia che ruotano attorno alle cause scatenanti delle crociate, tra cui, per esempio, una fantomatica richiesta di aiuto contro i Turchi dell’imperatore bizantino Alessio Comneno. È un fatto difficilmente credibile, poiché la principale minaccia proveniva dall’Occidente (i Normanni volevano conquistare i Balcani), non dai Turchi. Altrettanto inverosimile è l’ipotesi che le condizioni dei cristiani in Terrasanta abbiano portato i cavalieri d’Europa ad intervenire: i Turchi, infatti, lasciavano ai cristiani libertà di culto nei territori sottomessi. In ogni caso, non bisogna sottovalutare l’entusiasmo religioso che muoveva i cavalieri europei. Di quest’entusiasmo religioso si fece interprete Pietro di Amiens, noto come Pietro l’Eremita, che nel 1095 promosse la “crociata dei poveri”. Ne furono protagonisti poveri ed emarginati che partirono alla volta dell’Oriente privi di armi e completamente disorganizzati. I “crociati” saccheggiavano le città e massacravano gli Ebrei che trovavano sul loro cammino, scatenando l’ira dei vescovi e dei signori feudali, e pochi sopravvissero alle stragi e alla fatica del viaggio. Quei pochi furono poi massacrati dai Turchi. Tra i pochissimi che riuscirono a giungere a Costantinopoli, vi era lo stesso Pietro di Amiens, il quale attese lì l’arrivo della crociata “ufficiale”. Questa iniziò nel 1096 per volere di Urbano II, preoccupato per le partenze indiscriminate di fanatici. Al suo appello risposero molti personaggi di spicco, soprattutto della nobiltà francese. I contingenti armati si riunirono a Costantinopoli, da dove l’imperatore bizantino fece di tutto per farli ripartire al più presto, intimorito dalla pericolosa concentrazione di Franchi attorno alla città. L’imperatore si impegnava a fornire ai crociati viveri e armi, ricevendo in cambio i territori precedentemente appartenuti all’impero bizantino che i cavalieri avrebbero riconquistato. La spedizione si mosse nel giugno del 1097, anche se la stagione estiva non era certo la più propizia. Inoltre Goffredo di Buglione, nominato capo dell’esercito crociato, si rivelò incapace di tenere a freno gli odi e le rivalità che dividevano i grandi personaggi che partecipavano all’impresa. Nonostante ciò, Gerusalemme fu presa il 15 luglio 1099, ma a questo si accompagnò il massacro quasi totale di musulmani ed ebrei. Gli Stati crociati e l’esportazione dei rapporti feudali in Oriente La presa di Gerusalemme risulta sorprendente se si pensa che i crociati non erano esperti nell’arte degli assedi (poliorcetica) e che le loro fila andavano assottigliandosi man mano che ci si avvicinava alla meta. Questo accadeva perché, oltre naturalmente ai morti in battaglia, molti decidevano di fermarsi e ritagliarsi un proprio dominio all’interno dei territori appena conquistati e di diventare quindi vassalli di Goffredo di Buglione, al quale venne assegnato il Regno di Gerusalemme. Egli, in segno di umiltà, assunse il titolo di “Avvocato del Santo Sepolcro”; ma il titolo venne abbandonato dal fratello Baldovino, che gli successe dopo la morte e scelse il titolo di re. La base del suo potere era rappresentata da quei cavalieri che avevano rinunciato alla propria vita in Occidente ed avevano ottenuto feudi dal sovrano, o che giungevano in Terra Santa per 70 adempiere ad un voto e volevano restarci. Il territorio era comunque costantemente minato dalle rivalità all’interno della classe dominante. Prezioso si rivelò poi l’aiuto degli ordini monastico-militari che si impegnarono a combattere contro gli infedeli a difesa dei pellegrini e degli oppressi. I più importanti furono: gli Ospedalieri di san Giovanni, nati nel 1113 e che esistono ancora oggi con il nome di Cavalieri di Malta; i Templari, che nel 1120 stabilirono la loro sede ove un tempo sorgeva il tempio di Salomone; i Cavalieri teutonici, costituitosi nel 1198, che si impegnarono nella lotta contro le popolazioni pagane del Nord Europa. Infine, si rivelò importante l’aiuto delle città marinare italiane: i Veneziani si rivelarono all’inizio diffidenti, poiché pensavano che la presenza dei crociati avrebbero sconvolto gli equilibri presenti nella regione e a Costantinopoli, città che controllavano economicamente; i Genovesi si rivelarono invece molto preziosi durante l’assedio di Gerusalemme, fornendo macchine belliche; anche i Pisani e gli Amalfitani diedero il loro appoggio, ma furono meno determinanti. In ogni caso, tutte le Repubbliche Marinare si insediarono nel commercio degli Stati crociati, facendo nascere nelle città portuali veri e propri quartieri separati dove vivevano mercanti della stessa nazionalità che si governavano con propri magistrati. La riscossa dei musulmani Il successo dei crociati fu reso possibile anche dalle lacerazioni presenti all’interno del mondo musulmano. La situazione cambiò agli inizi del XII secolo, grazie all’emiro di Mossul e Aleppo, Imad al-Din Zinki, il quale si ritagliò un vasto dominio tra il Tigri e l’Oronte, da dove fu in grado di esercitare una forte pressione sugli Stati crociati. La prima a cadere fu Edessa nel 1144 destando notevole preoccupazione in Occidente; se ne fece interprete Bernardo di Chiaravalle che organizzò una nuova crociata coinvolgendo i sovrani più potenti d’Europa: l’imperatore tedesco Corrado III, il re di Francia Luigi VII e il re di Sicilia Ruggero II. L’impresa si rivelò essere un insuccesso, poiché ogni sovrano perseguiva i propri interessi e, nonostante alla fine trovarono un accordo, furono ulteriormente sconfitti. La riscossa musulmana arrivò qualche decennio dopo ad opera di un curdo, conosciuto in Europa con il nome di Saladino, il quale riuscì a rendere Baghdad completamente indipendente e a creare un sultanato che andava dall’Egitto al Tigri. Egli, il 4 luglio del 1187, sconfisse i Franchi a Hattin e il 2 ottobre dello stesso anno entrò trionfalmente a Gerusalemme. Questo provocò una mobilitazione ancora più massiccia in Occidente. Scesero in campo l’imperatore Federico Barbarossa, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone e il re di Francia Filippo Augusto, ottenendo di nuovo risultati molto scarsi. Il Barbarossa morì addirittura nel 1190 annegando mentre attraversava il fiume Salef in Anatolia. L’unico che si impegnò effettivamente nell’impresa fu Riccardo, che riuscì a recuperare San Giovanni d’Acri e a strappare ai Bizantini l’isola di Cipro. Gerusalemme rimase nelle mani dei musulmani. L’entusiasmo religioso che aveva reso possibili i primi successi crociati si era definitivamente esaurito e la crociata era divenuto ormai solo un gioco politico. La quarta crociata e la formazione dell’impero latino d’Oriente La terza crociata si concludeva nel 1192. Allora, Enrico VI (figlio del Barbarossa) era già imperatore e aveva già ricevuto in sposa Costanza d’Altavilla, la quale era l’unica erede dell’ultimo re di Sicilia, Guglielmo II. Tancredi di Lecce, figlio illegittimo di Ruggero II, contestò ad Enrico il dominio del regno normanno, ma il giovane imperatore se ne impadronì ugualmente e da lì partì per la conquista del Mediterraneo. A farne le spese sarebbero dovuti essere i Bizantini e gli Stati musulmani, alcuni dei quali (come Spagna e Africa sett) accettarono di versargli tributi in segno di sottomissione. I progetti dell’imperatore furono troncati dalla sua improvvisa morte nel 1197. La morte dell’imperatore impediva ai cristiani di sfruttare la situazione favorevole creatasi dopo la morte del Saladino, dato che il suo impero era molto frantumato. Ne era consapevole papa Innocenzo III, che si fece promotore di una grande crociata con il duplice obiettivo di recuperare Gerusalemme e di riportare la Chiesa d’Oriente sotto la sovranità pontificia. Il progetto del papa era indotto dallo stato di crisi in cui si trovava l’impero bizantino e dalla situazione economica tutt’altro che florida. I Veneziani, minacciati dalla presenza di Genovesi e Pisani, volevano 71 trasformare il dominio economico che già avevano sullo Stato bizantino in egemonia politica. L’occasione fu fornita dalla crociata indetta da Innocenzo III. I crociati si erano radunati a Venezia nel 1202, ma non avevano i mezzi necessari per pagare il noleggio delle navi. Il doge Enrico Dandolo offrì il trasporto gratuitamente a patto che si facesse scalo a Zara, città della quale i Veneziani volevano prendere possesso. Una volta ripreso il viaggio, il doge riuscì a convincere i crociati a puntare alla conquista di Costantinopoli, c’era un pretendente al trono imperiale (Alessio) che prometteva lauti compensi, partecipazione alla crociata e riunificazione delle due Chiese sotto l’egemonia di Roma. I crociati si impadronirono di Costantinopoli nel 1203 e misero sul trono Alessio, che però non fu in grado di smorzare la forte ostilità della popolazione contro l’Occidente. La città fu saccheggiata nel 1204 e i conquistatori procedettero alla fondazione dell’Impero Latino d’Oriente. Un quarto di esso, insieme al titolo imperiale, fu dato a Baldovino di Fiandra, mentre a Venezia toccò buona parte del restante territorio insieme alla basilica di Santa Sofia. Ciò che rimaneva (regno di Tessalonica, principato di Acaia e ducato di Atene) venne dato in feudo ai capi dei contingenti armati che avevano partecipato all’impresa. La fine dell’impero latino d’Oriente e l’agonia dell’ideale di crociata L’impero latino si rivelò una costruzione politica debole a causa dell’ostilità della popolazione. La speranza di Innocenzo III di riunificare le due Chiese sfumò dato che il nuovo patriarca di Costantinopoli, il veneziano Tommaso Morosini, non era in grado di influenzare né il clero né i fedeli. Inoltre, gli imperatori latini non riuscivano ad esercitare un sufficiente controllo sul territorio che era diviso in molti staterelli retti da signori locali o dai membri della vecchia dinastia imperiale. Pisani e Genovesi erano indeboliti dalla nuova posizione acquisita dai veneziani, quindi si rendevano disponibili per qualsiasi iniziativa che potesse ripristinare la situazione politica precedente alla IV crociata. L’occasione propizia si presentò nel 1261, quando Genova strinse un patto con il signore di Nicea, Michele Paleologo, che si sottrasse al dominio degli imperatori latini. Quello stesso anno, Michele Paleologo salì al trono, dando inizio alla dinastia dei Paleologhi che restò al potere sino alla conquista di Costantinopoli nel 1453. La situazione politica restava particolarmente tesa per via della pressione sulle frontiere che esercitavano Serbi, Bulgari e Turchi; bisognava destinare alla difesa molte risorse economiche. Papa Innocenzo III non rinunciava all’idea di recuperare Gerusalemme e gli altri luoghi santi della Palestina. Con il IV Concilio lateranense del 1215 riuscì a far bandire una nuova crociata. La spedizione, a capo della quale vi era Andrea d’Ungheria, partì nel 1217, ma era già conclusa nel 1221. L’ultimo vero esponente del movimento crociato fu Luigi IX, re di Francia, che alcuni anni dopo concentrò i suoi sforzi sull’Egitto e per questo fu santificato. Le spedizioni da lui guidate ebbero un esito disastroso e vengono indicate come VI e VII crociata. La prima iniziò nel 1248 e si concluse nel 1254, con addirittura la cattura del re e dell’esercito. La seconda finì altrettanto tragicamente nel 1270, quando l’esercito che si era radunato a Tunisi fu sterminato dalla peste, che provocò la morte dello stesso Luigi IX. Tra la quinta e la sesta crociata ce n’era stata un’altra che rappresentava la rinnegazione dell’ideale di crociata stesso, anche se di fatto si rivelò un successo. Federico II, infatti, riuscì a restituire ai cristiani Gerusalemme nel 1229 senza dover combattere: egli aveva infatti stipulato un patto con il sultano del Cairo, al quale si sentiva legato da una profonda simpatia intellettuale, che prevedeva lo smantellamento di tutte le fortificazioni, lasciando la città priva di difese. Nel 1244 una tribù di Turchi nomadi riuscì ad impadronirsi di Gerusalemme, saccheggiandola e massacrando la popolazione. Mentre Luigi IX cercava di far rivivere lo spirito della crociata, in Egitto i Mamelucchi (casta degli schiavi-guerrieri che deteneva il potere al Cairo), misero da parte i discendenti del Saladino e nominarono un loro sultano che avviò la sistematica conquista dei territori rimasti ancora in mano ai cristiani. Le ultime città a cadere furono Tiro, Sidone, Beirut e S. Giovanni d’Acri nel 1291. Cap 18: La ripresa della lotta tra papato e impero e le monarchie dell’Europa occidentale Innocenzo III e l’apogeo del papato 72 libertatum ecclesiae et regni Angliae, confermata e redatta in forma definitiva da Enrico III nel 1217. Con essa il sovrano si impegnava a rispettare i diritti dei nobili, degli ecclesiastici e di tutti i liberi del regno, le concessioni fatte dai suoi predecessori in favore delle città, nonché le consuetudini in materia di libera circolazione dei mercanti. Inoltre, il re prometteva di concedere ai suoi sudditi il diritto di essere giudicati da un tribunale di loro pari, di non imporre nuove tasse senza il consenso della nobiltà e del clero, riuniti nel “Consiglio comune del regno”, e di farsi assistere da una curia di venticinque baroni. Le origini delle istituzioni vengono collegate con la redazione della Magna Charta; ma bisogna sottolineare che con questo documento, i rivoltosi non volevano creare una nuova costituzione, ma garantire il rispetto della tradizione, limitando gli abusi. La Magna Charta assunse un grandissimo valore simbolico per coloro che volevano ampliare gli spazi di partecipazione politica dei cittadini. La promulgazione della Magna Charta peggiorò la situazione di Giovanni Senzaterra, che venne sconfessato da Innocenzo III; fu dichiarato decaduto dal trono dai ribelli, che offrirono la corona al figlio di Filippo Augusto, Luigi. La morte di Giovanni nel 1216 cambiò le cose, e in nome di un nascente sentimento nazionale si preferì offrire la corona al figlio del Senzaterra, Enrico III; Luigi nel 1223 tornò in Francia ed accolse l’eredità paterna. La ripresa dell’iniziativa imperiale e la restaurazione del potere regio nel Regno di Sicilia La domenica di Bouvines costituì anche la premessa per l’ascesa al trono di uno dei personaggi più interessanti del Medioevo: Federico II, definito dai suoi contemporanei come stupor mundi (meraviglia del mondo); si trovava in Germania quella domenica. Per la sua ascesa politica si rivelò indispensabile l’appoggio dei vescovi e dei principi ecclesiastici, i quali gli fornirono aiuti militari e contribuirono ad orientare verso di lui l’animo dei Tedeschi, per cui il 9 dicembre 1212 fu possibile all’arcivescovo di Magonza incoronarlo re di Germania. Non era un aiuto disinteressato, infatti, il 12 luglio del 1213 Federico II dovette emanare la Bolla d’oro di Eger, con la quale rinunciò ai diritti che il Concordato di Worms aveva riconosciuto all’imperatore in materia di elezioni di vescovi ed abati. Questo gli valse il soprannome di “re dei preti” affibbiatogli dal vinto Ottone. Intanto, Innocenzo III cercava di risolvere il problema della separazione del trono imperiale da quello di Sicilia, così che lo Stato della Chiesa non si venisse a trovare tra i possedimenti di uno stesso sovrano. La sua morte fece naufragare il progetto ed infatti, Federico II, che il 1 luglio del 1216 aveva promesso di rinunciare al trono di Sicilia in favore del figlio, si concentrò proprio su quei territori. Egli fece condurre il piccolo Enrico in Germania e nell’aprile del 1220, lo fece incoronare Re dei Romani, titolo che era la premessa di quello imperiale. Federico designò il suo successore al trono mentre egli era ancora in vita, trasmettendo alla carica imperiale il principio di ereditarietà. In realtà, però, il potere regio ed imperiale in Germania non veniva affatto rafforzato. Federico II partì dalla Germani nel 1220 e non vi fece ritorno fino al 1235, infatti venne nominato reggente del potere l’arcivescovo di Colonia, Engelberto. L’imperatore poteva condurre tale audace politica, grazie alla debolezza del nuovo pontefice Onofrio III, che aveva l’idea fissa di dover riconquistare Gerusalemme. Per questo motivo, in cambio della promessa solenne di partire per la crociata e lottare contro l’eresia, l’imperatore poté unire le due corone, anche se si trattava di una concessione straordinaria, non trasmissibile ad eredi. Sulla base di questi accordi, il 22 novembre 1220, Federico fu incoronato imperatore in San Pietro per poi trasferirsi immediatamente nel Mezzogiorno. La situazione che Federico trovò nel Sud d’Italia era disastrosa: il regno era in balia dei comandanti tedeschi e i feudatari e le città avevano approfittato della debolezza della monarchia per estendere le proprie autonomie e i propri domini. Con la dieta di Capua del dicembre 1220, Federico riprese il controllo della situazione facendo abbattere i castelli costruiti abusivamente, annullò le più avanzate autonomie cittadine e riesaminò tutti i privilegi concessi dal 1189 in poi e tutti gli atti compiuti da Ottone di Brunswick nel periodo in cui aveva avuto il controllo della Sicilia. Federico riuscì a superare la resistenza dei baroni mettendo i più deboli contro quelli più potenti; si disfò di loro nel momento più opportuno. Affrontò anche il problema dei Saraceni di Sicilia, che si 75 erano sottratti al controllo della monarchia e che controllavano ampie zone interne dell’isola. Tra il 1222 e il 1224 ci furono numerose campagne, alla fine delle quali i ribelli furono sconfitti e deportati a Lucera, dove poterono vivere secondo le proprie leggi e professando la loro religione. Fu un atto di tolleranza inconsueto in Europa cristiana. Questa si rivelò una mossa politica estremamente astuta, infatti i Saraceni di Lucera furono sempre fedeli all’imperatore Federico II e ai suoi successori; furono essi a formare il nerbo del suo esercito; gli Angioni riterranno necessario sterminarli quando si sostituiranno agli Svevi sul trono imperiale sia per motivi di sicurezza sia per compiacere alla curia pontificia. Federico adottò diverse misure inconsuete per migliorare l’economia del regno quali la facilitazione degli scambi, la costruzione di porti e la garanzia della sicurezza delle strade. Egli desiderava potenziare l’apparato burocratico-amministrativo e per farlo aveva bisogno di giuristi e funzionari ben preparati: fondò a Napoli nel 1224 la prima Università statale del mondo occidentale, concedendo facilitazioni agli studenti, ma anche proibendo ai suoi sudditi di studiare altrove. Federico II era convinto di poter esercitare il controllo anche sull’Italia centro-settentrionale, dove la lunga crisi dell’impero aveva consentito l’ulteriore sviluppo dei Comuni. Indisse una dieta a Cremona per la Pasqua del 1226, durante la quale si sarebbe dovuto discutere della lotta all’eresia, della preparazione della crociata e del ripristino dei diritti imperiali. Le città lombarde, preoccupate per i piani dell’imperatore, ricostituirono l’antica Lega lombarda e si appellarono al pontefice irritato dai continui rinvii di Federico per la crociata. Non si giunse alla guerra aperta, poiché l’imperatore non si sentiva abbastanza forte militarmente. Annullò la dieta e tornò nel Sud. La crociata di Federico II e il conflitto con il papato Nel 1227 Onorio III morì e gli succedette Gregorio IX. Egli era un uomo molto intransigente ed impose all’imperatore di rispettare la sua promessa e partire per la crociata in Terrasanta. Federico II convocò i crociati a Brindisi, punto di imbarco tradizionale per la Terrasanta, ma scoppiò una terribile epidemia che colpì persino l’imperatore, il quale dovette curarsi ai bagni di Pozzuoli. Il pontefice, però, non credette alla sua malattia e il 29 settembre 1227 scomunicò l’imperatore. Una volta guarito, Federico ripartì per la Terrasanta dove trovò un’immediata intesa col sultano Malik al-Kamil, con il quale nel febbraio 1229 riuscì a stipulare un trattato col sultano. Questo scatenò ancor di più l’ira di Gregorio IX che riteneva scandaloso intrattenere rapporti amichevoli con gli infedeli. Tornato in Italia, infatti, Federico dovette fronteggiare una crociata indetta contro di lui, ma, vinti i nemici, riuscì a raggiungere un compromesso col papa: con la pace di Ceprano del luglio 1230, l’imperatore fu costretto a rinunciare ad ogni forma di controllo sulle elezioni vescovili e a concedere immunità giudiziaria e fiscale al clero dell’Italia meridionale. Federico procedette a migliorare l’organizzazione amministrativa del suo regno: con le Costituzioni di Melfi del 1231 dotò il regno di un codice di leggi, con la collaborazione di Pier della Vigna e Taddeo di Sessa, ispirato alla legislazione normanna e alla tradizione giuridica romana, e potenziò le difese del regno, costruendo una rete di castelli, che mantenne sempre in perfetta efficienza. Completamente diverso era l’atteggiamento dell’imperatore nei confronti dei principi tedeschi; siccome aveva bisogno del loro appoggio, largheggiava in concessioni in loro favore. Anche in Germania promulgò un codice di leggi: la Costituzione di pace imperiale, emanata a Magonza nel 1235, servì a riordinare il diritto penale tedesco. L’ultimo soggiorno di Federico II in Germania fu in occasione della ribellione del figlio Enrico, che venne arrestato e condotto in Italia, dove morì nel 1242. I diritti al trono di Enrico furono trasferiti al fratello, il futuro Corrado IV. La scomunica di Federico II e la nuova crisi del potere imperiale Nel 1327 Federico II tornò in Italia con un grande esercito, al quale si unirono anche i Saraceni di Lucera e alcune truppe fornitegli da alcuni Comuni e i signori a lui fedeli, pronto ad affrontare la Lega Lombarda. Nel 1238 inflisse ad essa una pesante sconfitta a Cortenuova, ma impose condizioni di pace troppo pesanti, spingendo Milano, Alessandria, Brescia, Piacenza, Bologna e Faenza ad una strenua resistenza. Ad incoraggiarle vi era la convinzione che prima o poi Gregorio IX avrebbe dato loro appoggio, visto il suo evidente disappunto nei confronti della politica 76 dell’imperatore. Egli, infatti, aveva conferito al figlio Enzo il titolo del re di Sardegna, territorio sul quale il papato rivendicava dei diritti da molto tempo. I loro calcoli si rivelarono corretti, infatti, Gregorio IX diede inizio ad un’intensissima attività diplomatica per mettere fine ai conflitti esistenti tra i nemici dell’imperatore, riuscendo persino ad unire in una lega città rivali come Genova e Venezia, così da poter attaccare il Regno di Sicilia dal mare. Il 20 marzo 1239 il pontefice scomunicò nuovamente l’imperatore, sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Iniziava quindi la fase finale di una guerra che si sarebbe inasprita con l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo IV. Nel Concilio di Lione del 1245 l’imperatore, scomunicato per la seconda volta, venne anche dichiarato decaduto dalla dignità imperiale. Si impegnò freneticamente per contrastare i suoi nemici sia sul piano militare che ideologico, appellandosi agli altri sovrani europei. Il conflitto era talmente aspro che persino un sovrano religioso e devoto come Luigi IX invitò le parti alla moderazione. Il papa, dal canto suo, scatenò una campagna diffamatoria nei confronti dell’imperatore, additandolo addirittura come l’Anticristo e mobilitando contro di lui i francescani e i domenicani. A fare le spese del clima di sospetto che venne a crearsi attorno alla figura dell’imperatore fu il suo collaboratore Pier della Vigna, che, accusato di tradimento, si suicidò. Molte rivolte stavano scoppiando in Germania e nell’Italia meridionale, mentre molto Comuni del settentrione passavano dal partito ghibellino a quello guelfo. Tra questi vi era anche Parma, sotto le cui mura Federico si fece sorprendere il 18 febbraio del 1248. L’anno dopo, a Fossalta, venne sconfitto Enzo, che venne fatto prigioniero e, nonostante i tentativi del padre di liberarlo, morì nel carcere di Bologna. Il 13 dicembre 1250 Federico II moriva a Castel Fiorentino e fu sepolto a Palermo insieme ai genitori e al nonno Ruggero II. Dopo la morte, nel 1254, anche di Corrado IV, il trono imperiale rimase vacante fino al 1273, quando fu eletto Rodolfo d’Asburgo, un sovrano debole e non interessato alle sorti di Italia e Germania, così come molti dei suoi successori. Nel Regno di Sicilia l’eredità di Federico II fu raccolta dal figlio naturale Manfredi, il quale ne assunse la reggenza in nome di Corradino, figlio di Corrado IV. Egli, dopo aver diffuso la falsa notizia della morte del bambino, si fece incoronare a Palermo l’11 agosto 1258, ma il papa volendo eliminare gli Svevi dalla scena politica chiamò contro di lui Carlo d’Angiò, fratello del francese Luigi IX. Manfredi cercò di bloccarlo, ma, abbandonato da buona parte dei suoi feudatari, fu sconfitto a Benevento il 26 febbraio 1266, dove morì. Il cambiamento dinastico al vertice del Regno di Sicilia non ne segnò il declino, ma anzi il nuovo sovrano proseguì l’opera di consolidamento dell’apparato burocratico-amministrativo. La ripresa cristiana in Spagna: reconquista o reconquistas? Il plurisecolare movimento di liberazione della Spagna dal dominio musulmano viene definito col nome di Reconquista. Il primo territorio che iniziò la resistenza contro la dominazione musulmana furono le Asturie (inizi dell’VIII secolo), seguite poi da Navarra e Aragona, territori nella zona pirenaica. Queste erano regioni montagnose molto povere, sulle quali gli emiri di Cordova si limitavano a compiere delle spedizioni militari, piuttosto che ad estendere il loro dominio. L’obiettivo era quello di far rientrare quelle piccole aree sotto la loro sfera di influenza più che di assoggettarle. Solo fra il IX e il X secolo ci fu uno sforzo degli Stati cristiani, anche se non fu mai unitario e coordinato. Raramente si ebbero campagne militari trattandosi di incursioni a scopi di razzia o di interventi a protezione dei populatores (uomini impegnati nel ripopolamento di territori poco abitati). A questo scopo si costruivano castelli ed altre fortificazioni (tanto che l’area fu chiamata Castiglia, cioè terra di castelli), infatti, almeno all’inizio, erano i militari a seguire i coloni e non viceversa. In realtà, queste due categorie inizialmente si identificavano l’una con l’altra, infatti i populatores dovevano essere in grado di combattere. L’unica distinzione presente era quella tra combattenti a piedi e coloro che invece disponevano di un cavallo (caballeros villanos). Fra il X e l’XI secolo si può iniziare a parlare di Reconquista, in quanto il movimento di espansione riprese con maggior vigore a causa della crisi politica del califfato di Cordova, che nel 1031 scomparve del tutto. L’opera di colonizzazione assunse allora le vesti di un’opera anche politica e religiosa, arrivando ad essere considerata una crociata contro gli infedeli. A questo contribuirono 77 dando in cambio un feudo e che avrebbero avuto la possibilità di abbandonare il proprio superiore dopo 40 giorni di combattimento. Inoltre, gli eserciti feudali erano abituati a conflitti che erano simili ai tornei e non alle lunghe guerre distruttive, fatte di rapide incursioni e lunghi assedi. Un modello alternativo era fornito dagli eserciti comunali italiani, che recuperavano la tradizione tedesca dell’esercito di popolo, ed entrò in crisi quando nei Comuni iniziarono ad emergere le tendenze oligarchiche che culminarono poi nelle signorie. Si procedette al progressivo disarmo del popolo e allo smantellamento delle societates armorum, che, data la loro fondamentale funzione di difesa del Comune, avevano un ruolo importante nelle lotte politiche, che ora si voleva ridimensionare. Tutto questo accadeva in un momento in cui tutti gli organismi politici del tempo (comuni, signorie, principati territoriali e stati nazionali) miravano ad espandersi territorialmente e a rafforzarsi. Era necessario poter contare su eserciti armati ed efficienti di cui poter disporre in qualsiasi momento. La convergenza tra la domanda di servizi militari e l’offerta di un numero crescente di bande armate capeggiate da esponenti della nobiltà feudale portò, nel corso del Trecento, all’esplosione del fenomeno delle milizie mercenarie. Gli stati per poter tener presso il proprio esercito i condottieri migliori (che costavano molto) aumentarono la pressione fiscale ad un’ingente richiesta di truppe mercenarie che però costavano molto. Di conseguenza ci fu un significativo aumento della pressione fiscale a danno delle popolazioni locali. L’Europa, in questo periodo, fu invasa da una perdurante precarietà finanziaria. I mercenari, nella maggior parte dei casi, non facevano differenza tra coloro per cui combattevano e i loro nemici; diventavano incontrollabili in caso di ritardo dei pagamenti. Le truppe mercenarie più famose sono: - la compagnia del bretone Giovanni di Montreal, il quale saccheggiò la Toscana, la Romagna e l’Umbria tra il 1353 e il 1354; - la Grande Compagnia del tedesco Guarnieri di Urslingen che si concentrò su Toscana, Emilia e Romagna tra il 1342 e il 1351; - l’inglese Giovanni Hawkwood, soprannominato Giovanni Acuto dagli italiani, comandava un’altra compagnia; - la Compagnia Santa fu quella che saccheggiò Faenza; - la Compagnia di San Giorgio era quella più famosa in Italia, il cui capo era Alberico da Barbiano, che la fondò nel 1379. Egli è considerato il maestro di due prestigiosi condottieri italiani: Muzio Attendolo Sforza e Andrea Braccio da Montone, detto Fortebraccio. Questi diedero uno sviluppo diverso agli insegnamenti di Alberico, fondando due scuole diverse: quella sforzesca, che si basava sull’abilità e sul coordinamento delle manovre, e quella braccesca che privilegiava la rapidità e la forza negli assalti. Vi sono molti nomi (Erasmo Gattamelata, Francesco Bussone, Bartolomeo Colleoni, Federico di Montefeltro, Pandolfo Malatesta, Niccolò Piccinino e Francesco Sforza) legati alle compagnie di ventura, che divennero organizzazioni complesse: la maggior parte di essi non erano solo signori della guerra, ma anche imprenditori economici, la cui fortuna era legata allo stato costante di guerra. Rivolte contadine e tensioni sociali Sulla vita delle popolazioni rurali e delle città, le guerre e le carestie che si susseguivano nel Trecento avevano molta rilevanza e portarono allo scoppio di tensioni sociali e a rivolte contadine. Non tutti gli storici concordano sull’origine di queste rivolte: c’è, infatti, che le considera come fatti accidentali legati a carestie, recessione economica e pressione fiscale; altri, invece, le considerano come esito delle condizioni precarie dei ceti rurali, che fecero sentire la loro voce per vedere i propri diritti rispettati; guerre e carestie sarebbero solo elementi aggiuntivi. Ogni rivolta ebbe le sue caratteristiche peculiari e diversi furono anche i metodi di repressione. La rivolta più famosa è la jacquerie francese che scoppiò nel maggio del 1358. Il moto contadino prese il nome dal capo dei rivoltosi, Jacques Bonhomme (soprannome di Guillaume Charles); partì dall’Ile-de-France per poi diffondersi in tutta la Francia, trovando anche l’appoggio del ceto mercantile parigino, il cui principale esponente (Etienne Marcel) voleva ridurre i privilegi e il potere politico della nobiltà. Ciò malgrado, la nobiltà, specialmente quella delle campagne, ebbe una violenta reazione e senza troppa fatica ebbe ragione dei rivoltosi. Nonostante l’importanza 80 attribuita a questa rivolta, gli studiosi non sono concordi nel valutarne gli esiti: alcuni sostengono che tutto ritornò come prima, altri sono conviti che la rabbia contadina indusse i nobili delle campagne ad una maggiore clemenza. Anche la rivolta inglese del 1381 ebbe nei contadini i primi e principali propulsori, anche se vennero coinvolti anche artigiani, salariati ed alcuni ecclesiastici, che fornirono persino una copertura ideologica. La contestazione culminò nel 1381 a causa dell’inasprimento dei vecchi rapporti di dipendenza, della contestazione dei vizi del clero e della nobiltà, dell’emanazione dello Statuto dei lavoratori (1351) che vietava l’aumento dei salari e soprattutto della crescente pressione fiscale per finanziare la Guerra dei Cent’anni che nel 1377 fece triplicare la poll-tax (gravava in egual misura su ogni uomo o donna di età superiore ai 14 anni, indipendentemente dal reddito). Riccardo II e i nobili furono costretti a cedere alla maggior parte delle richieste dei rivoltosi e a concedere un’amnistia generale, dalla quale furono esclusi solo i più radicali, che si mantennero in armi, finendo con l’essere massacrati. Anche in Catalogna vi furono delle rivolte tra il XII e il XIII sec, quando un quarto della popolazione si trovò ad essere nella condizione di servo della gleba e quindi a dover pagare un riscatto per poter abbandonare la terra. La situazione esploderà solo nel 1462 in una revuelta general e troverà il sostegno della monarchia, allora in lotta con la bassa nobiltà e il patriziato cittadino. Un altro movimento particolare fu quello dei Tuchini che si sviluppò tra il 1370 e il 1380 dalla Linguadoca al Piemonte e che si poneva contro la feudalità, che accentuava la pressione fiscale sui contadini, già esasperati per le continue requisizioni di uomini e prodotti a causa dello scontro tra i Savoia, i marchesi di Monferrato e i grandi feudatari. In Piemonte il centro fu rappresentato da Canavese, dove i Tuchini incontrarono il favore della popolazione, riuscendo a minacciare Torino. Essendo privi di un programma politico e di coordinamento, i Tuchini furono ripetutamente sconfitti dai Savoia nel 1387. Anche in Italia meridionale il malessere del mondo contadino si manifestò in rivolte contro i signori laici ed ecclesiastici, ma ebbero sempre carattere locale ed episodico; non fu mai necessario l’intervento del potere politico. Al Sud il fenomeno che ebbe gli effetti più gravi fu quello del brigantaggio, tanto che il viaggio da Napoli a Salerno, per esempio, comportava rischi enormi poiché durante il percorso ci si imbatteva nei “malandrini” (briganti). Le rivolte degli operai dell’industria tessile L’Italia centro-settentrionale presenta, rispetto al resto d’Europa, delle caratteristiche molto particolari. Molte città erano fiorite economicamente grazie all’artigianato e spesso anche all’industria, in particolare quella tessile. Nel corso del Due-Trecento vi erano stati molti cambiamenti all’interno dell’organizzazione produttiva, riconducibili alla riduzione delle vecchie botteghe artigiane e all’emergere della figura del mercante-imprenditore, il quale controllava l’intero ciclo produttivo: consentì di evitare il sorgere di grandi opifici con numerosi lavoratori, ma non la concentrazione nei maggiori centri tessili di un elevatissimo numero di salariati. I lavoratori non erano tutelati dai sindacati e non potevano organizzarsi in Arti (o Corporazioni) come facevano i loro superiori. Questo impediva loro di essere partecipi delle scelte politiche che avevano effetti sul mondo del lavoro. Un esempio calzante di quanto grave fosse la loro situazione è quello di Ciuto Brandini, uno scardassiere, che venne condannato a morte nel 1345 a Firenze per aver cercato di creare una fratellanza di lavoratori dell’Arte della Lana. L’organizzazione industriale era finalizzata alla produzione di grandi quantitativi di panni destinati all’esportazione. L’attività produttiva era estremamente legata all’andamento del mercato, infatti, l’industria tessile andò incontro ad una crisi di sovrapproduzione a causa del calo della popolazione; inoltre i salari bassi non consentivano di tenere dei risparmi a cui attingere durante i periodi di disoccupazione. Questo creò situazioni di scontro e di tensione che sfociarono, per esempio, nell’incendio delle case dei mercanti-imprenditori, come avvenne il 15 maggio del 1371 a Perugia. Il risultato, però, fu la presa di potere da parte dei nobili, poiché i rivoltosi non erano in grado di assumere il governo della città. 81 Nello stesso anno, i senesi attuarono la cosiddetta sommossa del Bruco e riuscirono ad ottenere il potere. La reazione dei mercanti-imprenditori, appoggiati dai nobili, fu sanguinosa, ma la rivolta non fu certo priva di risultati: il governo cittadino, infatti, attuò alcuni provvedimenti per limitare l’arbitrio dei padroni. La più famosa rivolta italiana è quella dei Ciompi, i lavoratori dell’industria tessile di Firenze, così chiamati in senso dispregiato perché sempre unti, imbrattati e malvestiti per via del loro lavoro. L’insurrezione scoppiò i primi di luglio del 1378 e i rivoltosi non si limitarono a chiedere aumenti salariali o concessioni di portata limitata, ma si proposero di modificare le loro condizioni di vita e i rapporti di potere all’interno della città. Inizialmente, grazie all’alleanza con le arti minori, i lavoratori riuscirono a creare un’arte di operai tessili che li tutelasse e ad ottenere di partecipare al governo cittadino. I rivoltosi avevano, infatti, l’appoggio del resto della popolazione, scontenta per via di una guerra con la Santa Sede (la guerra degli Otto Santi 1375-1378) ed infatti riuscirono a creare tre nuove arti e ad ottenere la presenza paritetica di tutte le arti all’interno del Priorato. I contrasti, però, si spostarono coi rivoltosi all’interno del governo. Questi chiesero l’abolizione delle gabelle sui cereali e l’abbassamento dei prezzi dei generi di prima necessità, cercando di limitare la libertà d’iniziativa dei mercanti-imprenditori. Questi ultimi reagirono prima con la serrata, ovvero la chiusura di tutte le loro botteghe, poi facendo sparire la materia prima. Le arti minori abbandonarono quindi i Ciompi che si ritrovarono a dover affrontare da soli le reazioni dei datori di lavoro e del Comune: più di trecento furono le condanne, di cui almeno una trentina alla pena di morte. Depressione economica o riconversione La richiesta dei Ciompi di maggiori investimenti si colloca in un momento in cui l’industria tessile era in grave crisi, anche non aveva ovunque la stessa gravità: a Firenze, per esempio, la produzione di panni di lana era in declino, mentre era in forte crescita quella di tessuti meno costosi in altri centri delle Fiandre, della Linguadoca, della Catalogna, della Lombardia e della Toscana. Anche in Inghilterra, la cui lana era la migliore del tempo, si dimezzarono le esportazioni di lana, anche se aumentarono la produzione e l’esportazione di tessuti fini di lana. Contemporaneamente, però, a Firenze, in Lombardia e in Francia si stava sviluppando l’industria serica, la quale richiedeva manodopera meno numerosa, ma più qualificata. Nei secoli finali del Medioevo ci fu poi un forte incremento delle industrie metallurgiche per via delle continue guerre e del perfezionamento delle tecniche militari. La cantieristica, inoltre, era chiamata a soddisfare la domanda di navi che potessero trasportare merci di maggiori dimensioni e peso. I salari non erano bassi in tutti i settori, infatti, la crisi di sovrapproduzione colpì principalmente l’industria tessile, mentre altrove la riduzione di manodopera consentì un aumento dei salari, come avvenne a Firenze nel settore dell’edilizia tra il 1351 e il 1360. Ovviamente al declino di alcune piazze mercantili corrisponde l’ascesa di altre, perciò Venezia poté acquistare il dominio assoluto sul commercio delle spezie a scapito di Genova, Barcellona e Marsiglia, così come i mercanti olandesi riuscirono a ridurre il ruolo delle città anseatiche tedesche, ormai in lento declino. Persino il declino demografico non ebbe ovunque le medesime caratteristiche, provocando, in ogni caso, forti sconvolgimenti nella gerarchia dei centri abitati. In Sicilia il calo demografico riguardò solo la parte occidentale dell’isola, ma non la parte orientale e le isole, dove invece si formarono grossi centri a carattere rurale, definiti “agrocittà”. Un altro fenomeno che caratterizzò il Trecento fu sicuramente l’abbandono del commercio da parte di molti mercanti che si trasformarono in proprietari fondiari o in ufficiali pubblici. Questo non toglieva capitali all’economia, ma semplicemente li faceva circolare in maniera diversa. Il grande problema che frenava la ripresa dell’economia era la scarsità di moneta circolante: questa era di metallo ed era disponibile solo in quantità limitate e spesso destinato ad usi non monetari (abbellimento di edifici laici e religiosi). Si ridussero i tassi di importazione sui metalli preziosi, riducendo a zero la loro presenza nelle monete. Le autorità cercarono di impedire l’esportazione di oro e argento e di imporre l’uso del contante nelle transizioni commerciali e nel pagamento delle 82 delle maggiori città. L’unico risultato fu il rafforzamento dei principi già dichiarati dalla Magna Charta e l’entrata a far parte del Consiglio comune di due gentry (rappresentanti della piccola nobiltà) per ogni contea e di due borghesi per ogni città. Il Consiglio aveva preso il nome di Parlamento e si riuniva sempre più spesso, tanto che nel 1340 si articolò in una Camera dei pari (comprendeva i grandi nobili e gli alti ecclesiastici) e in una Camera dei comuni, (ne facevano parte i rappresentanti della piccola nobiltà, del basso clero e delle città). Francia e Inghilterra aspiravano a dare compattezza al proprio territorio, ma questo proposito si scontrava con una realtà in cui il monarca inglese, possedendo vasti territori in Francia, si trovava ad essere il vassallo del re francese; quest’ultimo non poteva esercitare i suoi diritti sovrani su terre appartenenti a un vassallo tanto potente. A tutto questo si aggiungeva la concorrenza che le due monarchie si facevano nel controllo delle Fiandre, economicamente legate all’Inghilterra, ma feudo francese. Anche la Scozia era motivo di conflitto per le due monarchie, poiché mentre gli inglesi miravano a porre quel territorio sotto il loro controllo, i francesi volevano che questo mantenesse la sua indipendenza, per evitare che la potenza rivale crescesse. Nacque una serie di conflitti tra i 2 regni che durarono dal 1294 al 1475; si dà il nome di Guerra dei Cent’anni agli eventi svoltisi tra il 1337 e il 1475. L’inizio delle ostilità fu legato all’estinzione della dinastia francese dei Capetingi; Carlo IV, figlio di Filippo il Bello, era morto senza eredi nel 1328. A rivendicare l’eredità furono Edoardo III, re d’Inghilterra, e Filippo di Valois, figli rispettivamente di una sorella e di un fratello di Filippo il Bello. Fin dal 1316 gli Stati Generali avevano espresso l’orientamento ad escludere dalla successione al trono i discendenti in linea femminile perciò il titolo fu dato a Filippo, il quale divenne re con il nome di Filippo VI. Edoardo III, per il momento, non fece valere i suoi diritti, ma, in compenso, nel 1337 sbarcò in Fiandra, dove era in atto una rivolta antifrancese e a Gand si proclamò re di Francia, dirigendosi verso Parigi con il suo esercito. La prima fase della guerra fu favorevole agli inglesi, grazie agli arcieri che decimarono la cavalleria pesante francese a Crécy (1346) occupando Calais sulla Manica. In Francia, intanto, il diffondersi della peste e gli insuccessi bellici provocavano una pessima situazione sociale; anche il re inglese si trovava in difficoltà. Per questi motivi, nel 1360 si giunse alla pace di Bretigny, con la quale il re inglese rinunciava ai suoi diritti sul trono di Francia, ma riceveva la piena sovranità (senza alcun vincolo feudale) su 1/3 del territorio francese. Le ostilità ripresero nel 1369, ma non vi furono grandi battaglie, ma solo rapide incursioni volte a logorare il nemico, che, trovandosi in terra straniera, aveva grossi problemi di approvvigionamento. Gli inglesi persero in questo momento gran parte dei territori che avevano acquisito con la pace di Bretigny. Entrambe le monarchie, poi, a partire dal 1380, dovettero affrontare diverse lotte dinastiche e conflitti sociali che portarono sul trono di Inghilterra la dinastia dei Lancaster e all’alleanza tra Enrico V e il duca di Borgogna, Giovanni Senza Paura, contro il re di Francia, Carlo VI. Il sovrano inglese, sbarcato in Normandia, travolse nel 1415 l’esercito francese ad Azincourt, mentre il duca di Borgogna si impadroniva di Parigi. Lo stesso Carlo VI fu fatto prigioniero e fu costretto a firmare il trattato di Troyes, con il quale diseredava suo figlio Carlo e trasferiva il diritto di successione direttamente ad Enrico V, al quale dava in moglie la figlia Caterina. La riscossa francese non si fece attendere: comparve sulla scena Giovanna d’Arco, una pastorella della Champagne, che rivelò di aver avuto delle visioni nelle quali Dio le avrebbe ordinato di salvare la Francia dagli invasori e di restituire il regno al suo legittimo sovrano. Nel 1429, convinto il delfino Carlo, si fece affidare un esercito e iniziò la liberazione del Paese. Molti furono quelli che, venuti a conoscenza dell’impresa della Pulcelle ed animati da un forte spirito patriottico, si unirono al suo esercito. L’entusiasmo diffusosi portò alla liberazione di Orléans e alla grande vittoria a Patay sulla Loira, grazie alla quale Carlo poté raggiungere Reims e farsi incoronare re con il nome di Carlo VII. Intanto, però, Giovanna fu fatta prigioniera dai Borgognoni e portata a Rouen, in territorio inglese, dove fu condannata al rogo. La scomparsa dell’eroina non fermò certo i francesi, i quali furono favoriti dal distacco di Filippo il Buono, nuovo duca di Borgogna, dall’alleanza con gli inglesi e dalla debolezza di questi ultimi che erano in crisi a causa della minore età del suo nuovo sovrano, Enrico VI. Nel 1436, infatti, Parigi fu riconquistata e, quando le 85 operazioni belliche cessarono nel 1453, agli inglesi non rimaneva che il distretto di Calais che perderanno nel 1558. I riflessi politici e sociali delle nuove tecniche militari La lunga guerra tra Francia ed Inghilterra comportò delle innovazioni in campo. La cavalleria pesante (formata da elementi della feudalità) era considerata in battaglia arma offensiva risolutiva; allo scoppio della guerra la Francia era più forte dell’Inghilterra in quanto vantava una cavalleria molto più addestrata. Tuttavia, gli arcieri inglesi si rivelarono determinanti per le sorti della prima parte della guerra. L’arco lungo, infatti, era un’arma originaria del Galles, posseduta dai contadini liberi (yeomen o freeholders; dipendevano direttamente dal re e non dai baroni, più numerosi di quelli francesi) tra il Due-Trecento. Il fatto che l’arco fosse un’arma che tutti potevano utilizzare fu fondamentale per l’Inghilterra che durante la guerra poté contare su folti contingenti di contadini armati, da porre contro alla nobiltà feudale e ai nemici esteri. Gli arcieri inglesi si rivelarono inoltre fondamentali nelle battaglie di Crécy, Poitiers e Azincourt; i francesi non riuscirono a sconfiggere gli inglesi. Nuovo era anche il rapporto che si stava sperimentando in Inghilterra tra fanti e cavalieri, questi ultimi, infatti, non disdegnavano di scendere da cavallo per combattere con i fanti, per poi rimontare in sella ed inseguire il nemico in ritirata. Esportare tale organizzazione militare in un paese come la Francia feudale era impossibile, dato che era stato fatto di tutto per indurre i contadini a pensare solo al lavoro della terra e ai nobili il compito di combattere. Si provò a contrapporre agli yeomen inglesi i franc archers, ma non si poteva infondere spirito guerriero ad una popolazione totalmente disabituata all’uso delle armi. A nulla servirono i balestrieri genovesi, considerati i migliori dell’epoca, poiché la balestra, seppur più precisa dell’arco, aveva un tempo di caricamento troppo lungo. Vi furono anche notevoli risvolti in ambito economico e sociale. Innanzitutto venne ridimensionato il ruolo della cavalleria e della feudalità; venne sfatato il mito dell’inettitudine militare delle masse ed, in secondo luogo, entrambe le monarchie dovettero dotarsi di un esercito stabile, destinando all’ingaggio di fanti stranieri notevoli somme di denaro. Venne data possibilità di ascesa sociale a coloro che mostravano spiccate doti militari. Un progresso rispetto alla fanteria inglese fu rappresentato dalla fanteria svizzera, la quale organizzatasi per liberare i cantoni elvetici dal dominio degli Asburgo, raggiunse un tale grado d’efficienza da dominare la scena militare sino al sec XVI. Aveva sviluppato una formazione a quadrato, con uomini armati di lunghe picche in grado di sostenere la forza d’urto della cavalleria, ma anche di contrattaccare. L’esercito era formato da contadini e pastori, che consapevoli della loro inferiorità rispetto la cavalleria, sopperivano questa con il loro numero maggiore. Quest’organizzazione suscitava l’entusiasmo degli intellettuali dell’epoca, per le chiare analogie con le falange macedoni e la legione romana. La fanteria inglese poteva unirsi ai cavalieri durante l’attacco, ma non poteva sostituirla; i quadrati inglesi potevano muovere all’attacco senza l’appoggio dei cavalieri, i quali erano in numero limitato e svolgevano solo ruoli di ricognizione. Le monarchie dovevano quindi ora dotarsi di un esercito stabile, impiegando abili fanti e i primi tipi di artiglieria da fuoco; questo riduceva notevolmente il peso politico dei baroni, i quali non potevano più ribellarsi al sovrano arroccandosi nei loro castelli, che non potevano resistere ai colpi dei cannoni. In effetti, anche le fortificazioni dovevano essere rimodernate e rese adatte alle nuove armi e alle nuove tecniche. La ristrutturazione era ovviamente molto costosa e solo i sovrani potevano permettersela, di conseguenza l’aristocrazia doveva rinunciare a mettersi in competizione con la monarchia. Si può quindi tranquillamente affermare che gli eserciti stabili furono uno dei presupposti per la creazione dello Stato moderno. La restaurazione del potere monarchico in Francia e in Inghilterra La Francia usciva esausta dal lungo conflitto, ma aveva anche guadagnato un forte sentimento nazionale che permise al sovrano, Carlo VII, di intraprendere una serie di riforme in campo amministrativo e di consolidare l’autorità regia. Egli creò anche delle compagnie stabili da dislocare in varie parti del regno, così da non aver bisogno di milizie mercenarie. In seguito, il 86 figlio Luigi XI poté intraprendere una politica antifeudale, che gli consentì di estendere la sua autorità anche su quei territori dove la giurisdizione dei sovrani era stata puramente teorica. La situazione inglese era peggiore: il paese risentiva delle conseguenze del lungo conflitto, ed era percorso da tensioni sociali e religiose. La monarchia risultava indebolita dalle crisi nervose di Enrico VI, per giunta privo di eredi. La grande aristocrazia (la cui potenza crebbe durante il conflitto) divenne arbitra del potere, ma si divise in 2 fazioni opposte che scatenarono una sanguinosa guerra civile, conosciuta come la “Guerra delle due Rose”: i sostenitori della casata di York avevano come simbolo una rosa bianca e quelli della casa di Lancaster una rosa rossa. Dopo vent’anni di lotte, gli York riuscirono a mettere sul trono Riccardo IV di York, al quale successe il figlio dodicenne, Edoardo V, il quale fu soppresso dallo zio Riccardo di Gloucester. Enrico Tudor, conte di Richmond e discendente dei Lancaster per via materna, capeggiò una rivolta e mise, dopo 2 anni, fine al suo regno, dando inizio, con il nome di Enrico VII, alla dinastia dei Tudor. Il nuovo sovrano riuscì a sottrarsi quasi totalmente al controllo del Parlamento, indebolito dalla guerra e, facendo leva sul generale bisogno di pace, poté restaurare l’autorità regia. Il sentimento nazionale che era venuto a configurarsi durante la guerra dei Cent’anni, trovava nella dinastia Tudor il referente principale. Intraprese una politica di protezionismo, favorendo l’industria tessile locale e ostacolando l’importazione di prodotti stranieri, in particolare i vini francesi. Le monarchie iberiche e l’ideologia politica catalano-aragonese Altrettanto contrastato fu il processo di consolidamento delle tre istituzioni monarchiche della penisola iberica, ovvero i regni di Portogallo, Castiglia e Aragona, tutti sconvolti da violente crisi dinastiche e tensioni sociali. Portogallo: fu il primo a superarle grazie a Giovanni I d’Aviz, il quale rafforzò il potere della monarchia con l’aiuto della borghesia mercantile ed imprenditoriale di Lisbona. Diede, inoltre, un forte impulso alle attività marinare, per cui agricoltori e pastori si trasformarono in marinai e mercanti. In questa direzione si mossero poi i suoi successori ed in particolare Alfonso V, che si servì anche di navigatori italiani. Venne promossa l’esplorazione sistematica delle coste occidentali dell’Africa allo scopo di circumnavigarla per raggiungere l’Oriente e controllare il commercio delle spezie. Alcune spedizioni furono addirittura guidate da membri della famiglia reale, come quella guidata dal principe Enrico il Navigatore con la quale vennero raggiunte le Azzorre nel 1448 e, prima del 1460, il Golfo di Guinea. Nel 1487, poi, Bartolomeo Diaz riuscì a doppiare la punta meridionale del continente, chiamato Capo di Buona Speranza. In politica estera si consolidava l’alleanza con l’Inghilterra. Castiglia: qui il problema della nobiltà era più forte perché era divisa in due fazioni contrapposte. La situazione migliorò nel Quattrocento sia sul piano economico che su quello politico; le città di riunirono in hermandades (fratellanze), che riuscirono ad ottenere una posizione di preminenza all’interno delle Cortes (l’equivalente del parlamento inglese) e a fare da contrappeso allo strapotere della nobiltà. Aragona: era invece divisa al suo interno da differenti interessi economici: l’Aragona aveva, infatti, un’economia prettamente agricola e guardava in direzione della Castiglia e della Francia meridionale, mentre la Catalogna e Barcellona erano interessate al commercio e all’espansione o verso le coste della Spagna meridionale o verso le isole del Mediterraneo. Fu la direttrice mediterranea ad avere la meglio, infatti, venne ben presto acquisito il controllo delle Baleari, di Valencia prima e della Sicilia e della Sardegna dopo. La conquista della Sardegna fu estremamente complicata per gli aragonesi perché incontrarono sia la resistenza degli abitanti che quella dei Pisani, che controllavano parte dell’isola. La guerra iniziò nel 1323, ma si giunse ad una soluzione già l’anno dopo, quando venne raggiunto un accordo con Pisa, per cui in cambio del pagamento di un censo e del riconoscimento dell’autorità aragonese, questa poté mantenere la sovranità su Cagliari. La situazione tornò a complicarsi quando intervenne Genova, la quale controllava già la Corsica ed era preoccupata per l’estendersi dei domini degli Aragonesi. Genova iniziò a compiere atti di pirateria e ad aiutare la resistenza locale, tanto che gli Aragonesi furono sconfitti nel 1353; il quadro politico, però, non mutò in quanto gli aragonesi ormai erano subentrati ai Pisani nel controllo dell’isola. 87 all'organizzazione della rivolta era comunque coinvolto nelle vicende dell'Italia meridionale. L’espansionismo di Pietro III aveva un seguito maggiore rispetto quello angioino che appariva maggiormente come una faccenda personale. Un ruolo solo marginale spetta invece allo spostamento della capitale da Palermo a Napoli, perché già Federico II passò più tempo a Napoli che sull’isola. Il pontefice Martino IV considerò gli Aragonesi come usurpatori e bandì contro di loro una crociata affidata al re di Francia Filippo l'Ardito. Bonifacio VIII creò le condizioni per poter giungere, nel 1295 al Trattato di Anagni con cui il nuovo re d'Aragona Giacomo II, in cambio dell'investitura del regno di Sardegna e Corsica accettò il ritorno della Sicilia agli Angioini. Ma i siciliani si ribellarono e offrirono la corona a Federico, figlio di Giacomo. Nel 1302 si giunse alla stipula del Trattato di Caltabellotta con cui Federico viene riconosciuto “re di Trinacria” e con l'intesa che alla sua morte la Sicilia sarebbe tornata agli angioini. Ma le cose non andarono così e l'isola rimase al ramo aragonese, nonostante i tentativi di riconquista angioini (Giovanna I finirà per cedere con il Trattato di Avignone del 20 agosto 1372, riconobbe una situazione che si configurava come definitiva). Lo splendore della corte angioina di Napoli Dopo la rivolta del Vespro Carlo d'Angiò rischiò di perdere il regno, infatti nel 1284 il figlio Carlo II lo Zoppo, intraprese una battaglia navale nel golfo di Napoli contro la flotta siculo-aragonese ma fu sconfitto e cadde prigioniero, mentre il popolo di Napoli si sollevava e uccideva i francesi. Il ritorno del re normalizzò la situazione sulla base di una separazione definitiva della Sicilia dal mezzogiorno continentale. La dinastia angioina si riprese in modo particolarmente veloce grazie all'appoggio papale e a quello degli uomini d'affari toscani, che ottennero in cambio privilegi doganali e feudi. L'avvento della dinastia angioina coincise con l'accelerazione dell'economia meridionale, con lo sviluppo di una nuova cultura (si ebbe in questo periodo nonostante la fondazione della Federico II nel 1226), con un rinnovamento edilizio e urbanistico e con l'emergere di Napoli come piazza commerciale di prim'ordine. L'epoca d'oro della Napoli angioina coincise con il regno di Roberto, detto il Saggio, che attirò alla corte i maggiori esponenti della cultura italiana del tempo. Egli inoltre esercitò un protettorato sull'intera penisola in qualità di capo del partito guelfo. Lo sviluppo delle autonomie cittadine Tra XII e XIII sec vediamo nel centro-nord l’esistenza dei liberi comuni, mentre nel sud mancavano le autonomie cittadine. Nel Tre-Quattrocento al centro-nord molti comuni avevano perso la loro autonomia politica (riducendosi sotto il potere di altri comuni o sotto il controllo dei nuovi Stati Signorili) mentre al sud le amministrazioni locali si sottraevano al controllo dei funzionari regi, passando in gran parte a organi cittadini elettivi. Ciò aprì la strada ai contrasti tra le classi e tra i gruppi familiari. Particolare motivo di contrasto nelle Università (nome dei comuni al sud) era la ripartizione tra i cittadini del carico fiscale sulla base della valutazione dei loro beni mobili e immobili. Altro problema riguardava le cariche elettive, che i nobili cercavano di monopolizzare, escludendo non solo il “popolo minuto” ma anche il “popolo grasso”. Per evitare le frequenti risse si affidarono le competenze del Parlamento prima al Consiglio, poi a ristrette magistrature collegiali (i Sei a 90 Napoli, i Dodici a Salerno). Nonostante i vari scontri il ruolo dei Comuni nello stato angioino crebbe sempre di più. La crisi della dinastia angioina e l'avvento degli Aragonesi Con l'avvento al trono, nel 1343, di Giovanna I, nipote di Roberto il Saggio, si aprì una crisi dinastica, alimentata dai tre rami (Durazzo, Taranto, Ungheria) in cui era divisa la casa d'Angiò. Roberto aveva combinato il matrimonio tra la nipote e il figlio del re d'Ungheria, Andrea, che però fu assassinato nel 1345, e l'assassinio fu attribuito a una congiura a cui non fu ritenuta estranea la regina. Per questo il fratello di Andrea, il re Luigi il Grande d'Ungheria invase il regno nel 1348. Il suo arrivo fece precipitare il paese in una lunga serie di disordini e violenze. Il ritiro degli Ungheresi nel 1352 permise a Giovanna e al suo secondo marito Luigi di Taranto di avviare una faticosa opera di restaurazione ma ciò non valse a risollevare definitivamente la monarchia. La situazione si aggravò per le incertezze sulla successione al trono dato che la regina non aveva eredi diretti. La sua scelta cadde su Luigi d’Angiò, fratello del re di Francia, ma a lui si contrappose Carlo di Durazzo, il nipote della regina, che nel 1381 si impadronì di Napoli e fece uccidere la zia. Anche lui sarà assassinato nel 1386. Il figlio Ladislao di Durazzo tentò di impadronirsi del regno d'Ungheria, ma dovette rinunciare al progetto per occuparsi dei suoi domini italiani in cui vi era una guerra civile fomentata dai sostenitori di Luigi d’Angiò, erede era Luigi II. Nel 1414 gli successe la sorella Giovanna II di Durazzo, che adottò come figlio e successore il re d'Aragona Alfonso V (detto il Magnanimo), vedendo il suo trono minacciato da Luigi III. Premessa per il dominio aragonese. La Sicilia dopo i Vespri La Sicilia a differenza di quanto stabilito nel trattato di Caltabellotta del 1302 non tornò più agli Angioini, ma costituì un regno indipendente sotto un ramo della dinastia aragonese. I baroni siciliani, pur essendo divisi in due fazioni in aspro contrasto tra loro, erano accomunati nella difesa dei loro privilegi e nell'interesse a mantenere la monarchia in un condizione di debolezza. Nel 1362 si giunse, col consenso del re Federico IV, alla divisione del regno in due parti, orientale e occidentale, controllate dagli Alagona e dai Chiaromente- Ventimiglia. Nel 1377, alla morte di Federico, essendo il trono occupato da sua figlia Maria, il regno venne diviso tra quattro nobili vicari. Pietro IV d'Aragona fece rapire Maria, per darla in moglie al nipote Martino il giovane, che giunse nel marzo 1392 in Sicilia con la moglie, impegnandosi alla lotta contro i baroni ribelli e nella riorganizzazione del regno, che fu dotato di un parlamento con “tre bracci” (nobiltà feudale, clero e città). La morte di Martino nel 1408 segnò la fine dell'indipendenza siciliana, infatti l'isola diventò un viceregno sotto il controllo di Ferdinando di Castiglia e poi di Alfonso il Magnanimo. Alfonso il Magnanimo e il “mercato comune” aragonese Alfonso conquistò il Regno di Napoli. La regina Giovanna II dopo averlo chiamato in suo aiuto aveva revocato l'adozione preferendogli Luigi III d'Angiò. Ne conseguì una lotta tra i due candidati. Le sorti del conflitto in un primo momento volsero a favore di Luigi, che nel 1424 si insediò a Napoli. Nel 1435 però la scomparsa sia di Giovanna sia di Luigi riportò Alfonso a rivendicare i suoi diritti al trono. Egli fu fatto prigioniero dai Genovesi e consegnato al duca di Milano Filippo Maria Visconti. Filippo Visconti, inaspettatamente, lo liberò e lo 91 convinse a stringere con lui un'alleanza. Alfonso giunse nel 1442 a impadronirsi di Napoli. Il suo arrivo riportò all'unità il Regno di Sicilia. Egli attuò un'importante opera di rinnovamento e fece della capitale uno dei centri principali della nuova cultura umanistica. Ferrante continuò l'opera del padre Alfonso, stimolando anche l'industria e il commercio, favorendo lo sviluppo dei Comuni, facendone un contrappeso alla feudalità, che arrivò, nel 1485, a una ribellione aperta con la congiura dei baroni. Cap 23: Chiusure oligarchiche e consolidamento delle istituzioni in Italia centro-settentrionale La crisi degli ordinamenti comunali e le origini della signoria cittadina L'esperienza comunale, in atto agli inizi del Duecento, nelle città dell'Italia centro-settentrionale e nei centri minori dipendenti da esse, dove si formarono i Comuni rurali, fu caratterizzata da instabilità delle istituzioni. Questa era dovuta all'ascesa sociale di nuove famiglie, al tentativo di allargare gli spazi di democrazia e all'incapacità dei Comuni di dotarsi di più saldi ordinamenti. Tutto ciò però appare in via di superamento nel corso del Trecento, grazie all'intraprendenza di grandi famiglie che portarono alla trasformazione dei comuni in Signorie. Il primo caso è quello di Ferrara, dove già nel XII secolo c'erano lotte per il predominio tra le varie fazioni aristocratiche, lotte terminate nel 1240 con la vittoria degli Estensi. Molto spesso si ha l'affermazione di famiglie ancora profondamente immerse nel mondo feudale, come i da Romano, il cui maggiore esponente fu Ezzelino III da Romano che si impose, a partire dagli anni trenta del Duecento su Verona, Vicenza, Padova e Treviso, mantenendo il potere fino al 1259, quando fu sconfitto e ucciso in battaglia. Così Oberto Pelavicino (che aveva sconfitto Ezzelino), aveva creato un vasto dominio tra Piemonte, Lombardia ed Emilia. Guglielmo VII di Monferrato dominò su città della Padania occidentale. Ma tutte queste costruzioni politiche signorili avevano vita breve perché ancora fortemente legate al mondo feudale. A Verona Mastino della Scala subentrò a Ezzelino e almeno apparentemente ci fu un ritorno all'istituzione comunale, infatti Mastino assunse prima il titolo di podestà e poi, nel 1262, quello di capitano del popolo. Egli giunse al potere con l'appoggio dei mercanti che volevano stabilità e pace politica. Quasi ovunque, infatti, ci fu una fase in cui i Comuni furono svuotati di contenuto ma non ancora abbattuti: è il fenomeno della “CRIPTOSIGNORIA”. A Milano inizialmente si imposero i della Torre con il sostegno del popolo, ma nel 1227 i nobili capeggiati dall'arcivescovo Ottone Visconti proclamarono signore lo stesso arcivescovo. Nel 1294 fu conferito a Matteo Visconti il vicariato imperiale dall'imperatore Adolfo di Nassau. In questo modo il signore di Milano non basava più il suo potere sul consenso del popolo, ma aveva una delega dall'alto. Nel 1395 l'imperatore Vinceslao di Boemia conferirà a Gian Galeazzo Visconti il titolo di principe e duca: in questo modo la signoria viscontea si rendeva autonoma anche dall'imperatore. Esperimenti signorili in Toscana Non sempre il passaggio dal Comune alla Signoria fu un atto definitivo. In Toscana le istituzioni comunali hanno avuto vitalità per tutto il Trecento, per cui si ricorse alla Signoria solo per brevi periodi. 92 La tendenza alla formazione di Stati a dimensione regionale tra Tre- Quattrocento affiorava non solo in area lombarda ma anche nel resto dell'Italia centro-settentrionale. Firenze arrivò nel 1450 a controllare un territorio che comprendeva gran parte dell'attuale Toscana, ma non due centri importanti quali Lucca e Siena. L'espansione avvenne attraverso annessioni, con la forza o con l'esborso di ingenti somme di denaro, e grazie a queste conquiste Firenze poté contare su un libero accesso al mare e sul controllo di tutto il litorale toscano. L'espansionismo di Venezia cominciò più tardi, infatti il suo obbiettivo principale era il dominio del Mediterraneo orientale e dei mercati che su di esso gravitavano. Per questo era in conflitto con Genova. La guerra fu combattuta dalle due repubbliche con alterna fortuna finchè negli anni 1380-1381 sembrò volgere a favore dei genovesi. Nello stesso tempo Venezia veniva minacciata da terra da una forte coalizione. Mentre i veneziani tenevano a bada i nemici sulla terraferma, investirono la base genovese di Chioggia e ribaltarono la situazione. Nel 1381, grazie alla mediazione del conte Amedeo VI di Savoia, si stipulò a Torino un trattato di pace; Venezia perse Trieste e un tratto di costa dalmata a favore degli Asburgo ma uscì senza danni irreparabili da una situazione particolarmente difficile. La Serenissima nel Quattrocento si creò un vasto dominio e ottenne una posizione di primo piano nella politica italiana. In Piemonte cresceva la potenza dei conti di Savoia, che avevano cominciato a volgersi verso la Pianura Padana. Essi crearono un mutevole gioco di alleanze con cui giunsero ad abbattere la potenza del marchese di Monferrato e a indebolire i Visconti. Quasi tutto il Piemonte era sotto il loro controllo. Una realtà politica atipica: lo Stato della Chiesa Anche lo Stato pontifico mirò alla creazione di una salda dominazione territoriale, giustificata dall'esigenza di tutelare la libertà della Chiesa. Promotore di ciò era stato Innocenzo III e già verso la fine del Duecento lo Stato della Chiesa aveva un territorio comprendente le attuali Lazio, Umbria, Marche e buona parte dell'Emilia-Romagna. Il punto di partenza era il Patrimonium Petri, cioè i territori un tempo appartenuti a Bisanzio e donati ai pontefici dai re Franchi nel corso dell'VIII secolo. Il territorio venne diviso in sette provincie ognuna retta da un preside o rettore, ma all'interno di ogni provincia restavano forme più o meno ampie di autonomia. Proprio per questo si trattava di un equilibrio molto precario e la situazione peggiorò di molto con il trasferimento della corte pontificia ad Avignone; Roma infatti rimase in balia delle fazioni cittadine e immiserita dalla riduzione del flusso dei pellegrini. Tutto ciò creò le condizioni per l'avventura di Cola di Rienzo, che voleva ridare grandezza a Roma. Nel maggio 1347 riuscì a sollevare il popolo esasperato contro la nobiltà e a impadronirsi del potere. Ma trovandosi indifeso davanti alla reazione della curia avignonese e della nobiltà fu costretto, nel dicembre seguente, a lasciare la città. Si recò dall'imperatore Carlo IV di Boemia che però lo fece arrestare e condurre da papa Innocenzo VI, il quale, inaspettatamente, lo accolse bene e decise di usarlo nel tentativo di riprendere il controllo di Roma. Pertanto Cola, nell'agosto 1354, tornò a Roma al seguito del legato papale Egidio di Albornoz. Ma anche questa avventura fu breve: il popolo stanco della sua tirannia lo mise a morte nell'ottobre di quell'anno. L'Albornoz proseguì però nella sua opera, infatti sottomise i signori ribelli e le più importanti città, infine promulgò a Fano, nel 1357, le Costituzioni egidiane. 95 Modelli di organizzazione politica negli Stati regionali italiani Il problema di dare un assetto stabile a organismi politici di ampie dimensioni si poneva anche alle dinastie e alle città, oltre che alla curia pontificia. In particolar modo ai Visconti che avevano inglobato nei loro domini un gran numero di Comuni, ognuno con propri ordinamenti e tradizioni. Omogenizzare il tutto fu considerato impossibile perciò i Visconti puntarono a mantenere in vita i Comuni urbani e quelli rurali, considerandoli come organi locali dell'amministrazione statale. Si fece anche largo uso dei rapporti feudo- vassallatici. Aumentavano sempre più gli interventi del duca negli ambiti di competenza degli organismi locali e il risultato finale fu la creazione di un organismo politico non perfettamente omogeneo ma dotato di una sua coesione interna. Firenze dominava su città con un vasto contado saldamente legato alla città stessa non solo sulla base della dipendenza politica ma anche degli interessi di natura economica. Si cercò di allentare questi rapporti, ridando maggiore autonomia alle comunità rurali. Ciò suscitava la protesta dei ceti urbani per cui si iniziarono a concedere varie deroghe riconducendo sotto la diretta giurisdizione dei centri urbani almeno i territori loro più vicini. Venezia lasciò tutta l'amministrazione locale nelle mani dei patriziati urbani, ma ridimensionò il loro potere. Il duca di Savoia doveva affrontare una situazione più agevole non dovendo imporsi a grandi città. Nel 1430 il ducato venne diviso in dodici provincie, a loro volta divise in castellanie rette da funzionari scelti dal duca. Cap 25: La Chiesa tra crisi istituzionale e dissenso religioso Il papato ad Avignone Nel 1309 la sede papale si spostò da Roma ad Avignone; l'influenza francese fu molto forte, e fu opera non solo della monarchia, ma soprattutto della Chiesa di Francia e di quella meridionale in particolare. Tutti i papi del periodo avignonese furono infatti originari della Francia meridionale e lo stesso accadde con i cardinali da loro nominati. La curia raggiunse un livello organizzativo particolarmente alto e si dotò di un apparato burocratico-amministrativo che consentì ai pontefici di accentrare nelle proprie mani tutta la direzione della vita della Chiesa. Ma i papi non sempre furono completamente liberi nella scelta di vescovi e abati, dovendo venire a patti con sovrani e signori territoriali. L'accentramento operato dal papato riguardava anche l'ambito legislativo e giurisdizionale, per cui molte questioni vennero riservate ai tribunali curiali. La Camera apostolica, ad esempio, gestiva le finanze; all'incremento continuo delle entrate (derivate dalle somme notevoli che dovevano pagare tutti gli ecclesiastici e i monasteri in rapporto alle loro entrate) corrispondevano spese altrettanto grandi per mantenere il numeroso personale di curia e una corte raffinata dove erano accolti letterati e artisti da tutta Europa. Nuove forme di dissenso religioso L'intensa attività finanziaria, il fasto in cui vivevano i prelati e i crescenti impegni politici del papato suscitavano disagio e scandalo in quei fedeli che volevano una Chiesa più vicina agli ideali del Vangelo e più impegnata nella guida spirituale. Il papato era intollerante nei confronti di qualsiasi forma di disobbedienza, per cui anche i ghibellini, che contrastavano i suoi disegni politici, furono dichiarati eretici. 96 Nel 1260 era nato a Parma un movimento a carattere pauperistico (Ordo apostolorum), ad opera di Gherardo Segarelli, che all'inizio aveva ricevuto la benevola tutela delle autorità ecclesiastiche locali e il pieno sostegno della popolazione, ma che dopo pochi anni venne considerato un movimento eretico. Al Concilio di Lione del 1274 si decise di imporre a tutti gli ordini nati dopo il 1215 di non accogliere altri membri e di consentire a quelli che avevano già pronunciato i voti di trasferirsi negli ordini già approvati dalla Santa Sede. Gli apostolici (così erano chiamati i seguaci del Segarelli) non accettarono e finirono nel mirino degli inquisitori. Intanto, prima ancora della morte del loro fondatore, gli apostolici avevano trovato un nuovo leader, Dolcino da Novara, che portò al superamento dell'iniziale spontaneismo del movimento, elaborando una più complessa concezione della storia della salvezza, che prevedeva la distruzione tra il 1303 e il 1305 della “chiesa carnale” di Bonifacio VIII e l'avvento di un'età di pace sotto la guida di un papa santo. Dolcino e i suoi seguaci si ritirarono nel Piemonte settentrionale, dove le loro fila si ingrossarono. Nel 1307 un esercito allestito in seguito a una crociata vinse le loro ultime resistenze: molti furono uccisi subito, altri, tra cui Dolcino, furono arsi vivi a Novara. Risonanza enorme ebbe l'insegnamento di un teologo e canonista di Oxford, Giovanni Wycliff, che per primo tradusse la Bibbia in inglese. Anche lui criticava la mondanizzazione della Chiesa, ma a questa univa la contestazione di elementi fondamentali della dottrina cattolica, quali l'eucarestia, la confessione auricolare, la scomunica e le decime. Il suo pensiero fu dichiarato eretico ma ciò non impedì che si diffondesse grazie ai suoi seguaci, chiamati “lollardi”. Giovanni Hus riprese le teorie di Wycliff appuntando le sue critiche sulle degenerazioni in senso mondano; egli finì sul rogo a Costanza nel 1415. Il ritorno dei papi a Roma e lo scisma Urbano V fu colui che per primo provò a ritornare a Roma nel 1367, dopo soli tre anni era però di nuovo ad Avignone. Il suo successore Gregorio XI ritornò definitivamente a Roma nel 1377 facendosi però precedere da bande armate. La sua morte avvenuta già l'anno dopo, impose ai cardinali, in maggioranza francesi, il problema di dargli un successore. I Romani, temendo che la scelta cadesse su un papa francese, inscenarono delle manifestazioni e infatti i cardinali elessero (ad aprile) l'arcivescovo di Bari, Urbano VI. A settembre però i cardinali annullarono l'elezione, dichiarandola irregolare perché avvenuta in un clima di intimidazione, ed elessero il cardinale Roberto di Ginevra, Clemente VII, che si stabilì ad Avignone. I due papi consideravano entrambi legittima la propria elezione e diedero vita a due collegi di cardinali e a due curie. La situazione si cristallizzò e i due collegi cardinalizi nominavano un nuovo papa ogni volta che la sede era vacante. Nel 1406 erano in carica Gregorio XII a Roma e Benedetto XIII ad Avignone. Per sbloccare la situazione si decise di deporre uno dei due papi o entrambi. Nel 1409 fu convocato un Concilio a Pisa dove furono deposti tutti e due i papi, dichiarati scismatici ed eretici, e fu eletto un nuovo papa, l'arcivescovo di Milano che prese il nome di Alessandro V. Ma l'autorità del concilio pisano non fu riconosciuta, per cui ai due pontefici se ne aggiunse un terzo. Il movimento conciliarista e la fine dello scisma Alcuni vedevano nel concilio un organismo dotato di autorità superiore rispetto al pontefice, e in quanto tale doveva essere riunito periodicamente. C'erano 97
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