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Storia medievale, Luigi Provero-Massimo Vallerani, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto prima parte del manuale di storia medievale, l'alto medievo, fino a pag.182

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 09/06/2019

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massimiliana-gorla 🇮🇹

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Scarica Storia medievale, Luigi Provero-Massimo Vallerani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE L'idea di Medioevo nasce quando lo stesso Medioevo finisce: furono gli umanisti a partire dal XV sec., a individuare un periodo di mezzo (media aetas) che si sovrapponeva tra loro e l'età classica, a cui volevano richiamarsi. È un'idea che nasce in un periodo storico preciso e con motivi chiari: affermare la propria diretta discendenza dalla cultura classica e collocare il millennio precedente (Medioevo) come un intermezzo periodo di barbarismi e di declino linguistico\culturale. Gli uomini del Rinascimento, formati in una cultura che vedeva nello stato il modello politico più alto, guardavano con disprezzo il Medioevo. Prima parte del primo grande sistema di cambiamenti, quello che caratterizza la transizione dall'antichità al Medioevo. Fu una fase segnata da un sistema articolato di cambiamenti. Non ci sono solo le invasioni barbariche, ma una profonda trasformazione delle forme di vita, un mutamento che ebbe inizio ben prima della caduta dell'Impero e si concluse molto dopo. I secoli tra IV\VI sono una fase di trasformazione. Cambiarono le fedi religiose, la distribuzione dei diversi popoli in Europa e nel Mediterraneo, i sistemi politici, le forme della circolazione economica. 1. L'impero Cristiano Negli ultimi decenni sono cambiate le visioni degli storici verso il periodo tardoantico, non è più visto come una lunga fase di decandenza dell'Impero, ma è un innovativo equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo centrale, la progressiva penetrazione di nuovi popoli nel territorio romano e nuove forme religiose. Dobbiamo osservare: – principali strutture di potere e di prelievo – ruolo dell'esercito e della sua componente barbarica – il mutamento religioso che si attuò a partire dal IV con la cristianizzazione dell'Impero Dobbiamo tener conto che le fonti di questo periodo sono poche e poco attendibili, hanno dato vita a ricostruzioni storiche spesso incerte e cariche di implicazioni ideologiche e politiche attorno al potere e alla religione, opposizione tra mondo romano e mondo germanico. Principali strutture di potere e di prelievo. Un momento di transizione nella storia romana si ebbe alla fine del II sec. dC, quando terminò l'espansione militare dell'Impero e che segnò i suoi confini tramite il limes del Reno e del Danubio. Da questo momento inizia l'Impero tardoantico. Questo Impero non era omogeneo, riuniva popolazioni diverse tra loro, con livelli di romanizzazione molto variabili, ma tutte coordinate da una macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una crisi durante la seconda metà del II sec., causata da una serie di lotte per il trono. Il potere imperiale fu ripristinato con la forza da Diocleziano, che condivise il potere a partire dal 285 con Massimiano, chiamata la diarchia: condivisione delle responsabilità all'internodi una indiscussa superiorità di Diocleziano. Nessuno dei due risiedette a Roma, stava perdendo il suo potere di capitale. Questa divisione tra Oriente e Occidente divenne più segnata quando si passò da una diarchia a una tetrarchia, con due Cesari. Ci sono due passaggi fondamentali nel corso del IV sec.: – la fondazione di Costantinopoli che nacque subito come residenza imperiale. Un'altra anomalia era che era presente anche il Senato, che segnava la città come una nuova Roma. A partire dal V sec. Costantinopoli divenne una vera e propria capitale. – Il potere imperiale era diviso in due, una parte orientale e una occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I. Il quale pensò che per governare bene il territorio dovesse affidare ai figli delle parti più piccole di territorio, i figli Arcadio e Onorio ottennero rispettivamente l'Oriente e l'Occidente, tra IV e V sec. Una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un afflusso costante di denaro, per sostenere: la burocrazia, la capitale e l'esercito. Queste tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo fiscale, il cui cespite principale era sostenuto dall'annona, l'imposta che gravava sulle popolazioni rurali. Le città aveva un ruolo fiscale centrale perchè i curiales (membri dell'assemblea cittadina) erano responsabili di questa imposta e dovevano intervenire in prima persona in caso di riscossione insufficente e tardiva. Di conseguenza le grandi famiglie dell'aristocrazia senatoria erano esenti dalle tasse. Le imposte andavno a sostenere i costi complessivi dell'Impero. Questo sisstema fiscale comportò un grande impegno imperiale per il funzionamento delle infrastrutture (come strade) e per la sicurezza della navigazione, pose le condizioni per uno sviluppo della circolazione commerciale. Il commercio a lungo raggio in età imperiale viaggiava sulle spalle del sistema fiscale, perchè l'Impero aveva garantito le infrastrutture necessarie per questa circolazione. Il tardoantico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni. La fine dell'espressione militare determinò anche la fine di un'espansione economica che era stata accelerrata dalle conquiste, che avevano garantito l'aflusso di bottino e, grazie ai prigionieri di guerra, la disponibilità di un'abbondante manodopera servile. Questa continua richiesta di moneta impose agli imperatori, lungo il IV sec., una politica inflazionistica: si ridusse sempre di più il metallo prezioso contenuto nella singola moneta. L'Impero incassava le monete e le fondeva mettendone in circolo un numero superiore. Questo andò a colpire i ceti più poveri, che avevano monete con un valore sempre minore. Cambiò anche il rapporto tra l'Italia e le provincie, la prima perse la propria rilevanza produttiva, divenendo luogo di consumo dei prodotti provenienti dalle provincie. Il sistema fiscale e commerciale fu strutturato attorno a un flusso di derrate e manufatti che dalle periferie andavano verso il centro, o verso quelle aree dell'Impero (limes) per le quali il potere centrale aveva un continuo bisogno di risorse. Si strutturò un asse stabile di circolazione di ricchezze tra Cartaggine e Roma, Egitto indirizzati verso Costantinopoli. Ruolo dell'esercito e della sua componente barbarica. In età tardoantica l'esercito aveva un costo molto alto, perchè era un esercito stipendiato. L'Impero era in grado di nutrire, equipaggiare e stipendiare l'esercito. Nel corso del IV sec., si definirono due settori fondamentali dell'esercito: i comitatenses, che era la forza mobile e accompagnava l'imperatore; i limitanei che stavano alla difesa del confine (limes). Il limes era quella linea, seguendo il corso del Reno e del Danubio, che tagliava il continente europeo da nord-ovest a sud-est. Il limes era costitutito da una serie di fortificazioni destinate a definire e proteggere una linea di confine, appogiandosi sulla frontiera naturale del corso dei due fiumi. Ma questo limes non era una vera e propria linea netta, era un'ampia fascia di incontro\ scontro e scambio tra le popolazioni dell'Impero e quelle che stavano all'esterno. Le popolazioni barbariche fuori dal limes non erano opposte ai romani, ma erano in periferia: cioè estranee alla piena sottomissione politica, ma fortemente condizionate dalla presenza militare dell'Impero, dalle opportunità che esso offriva e anche da alcuni modelli di civiltà. La definizione "barbari" era nata per indicare quelli che non parlavano bene greco e poi latino, termine carico di elementi di giudizio, erano "barbari" perchè non erano "romani". La definizione "germani" invece è una nozione intellettuale, derivata da Tacito. Studiosi come Reinhard Wenskus e Walter Pohl hanno mostrato come questa identità non fosse un dato stabile e permanente, ma l'esito di una continua rielaborazione, una costruzione sociale e culturale a cui si è dato il nome di "etnogenesi", ovvero "costruzione dell'etnia", "costruzione dell'identità di un popolo". L'appartenenza ad un popolo non è da considerarsi un dato oggettivo, ma prima di tutto una percezione personale, l'espressione di una scelta, della volontà di farne parte. Questa appartenenza era continuamente messa in discussione, era una scelta sempre rinnovata, in un continuo processo di etnogenesi. Da un lato il senso di appartenenza dei barbari era probabilmente legato a piccole unità sociali (tribali), mentre dall'altro lato abbiamo un sistema di fonti scritte dalla cultura romana, che per analogia con i propri sistemi politici, cercava di individuare tra i barbari strutture politiche ampie e regni. Non è sbagliato usare il nome dei popoli, a patto di essere sempre consapevoli che non si trattava di gruppi omogenei e stabili, erano strutture estremamente mobili, confederazioni di gruppi tribali che si riunivano e si separavano al seguito dei re più abili nel guidarli alla ricerca di bottino. I corredi funerali, ovveri gli oggetti posti accanto al morto nella tomba. Sarebbe semplicistico ritenere che questi oggetti debbano indicare la tribù d'appartenenza. In verità, questi oggetti circolavano con grande fluidità e la loro deposizione nella tomba poteva indicare un'effettiva tradizione etnica della famiglia del defunto, ma anche una sua aspirazione, un suo legame. Tra il III e il IV sec. la struttura politica più attraente era l'Impero romano. La mobilità dei gruppi barbari era nata per una ben specifica opportunità per usare le proprie capacità, mettere la propria forza militare al servizio di chi questa forza aveva bisogno. L'incontro tra l'Impero romano e i barbari assunse però connotati più propriamente politici. Spesso l'esercito romano fu per questi gruppi un contesto di elaborazione identitaria, di accelerazione del processo di etnogenesi, soprattutto quando la penetrazione dei barbari nell'esercito romano non si limitava all'inserimento di singoli soldati, ma si sviluppava per gruppi tribali o per interi popoli che entravano a far parte dell'esercito come corpo organizzato, conservando le proprie gerarchie e i propri capi. Ciò portò singoli capi barbari a ricoprire cariche di rilievo, fino ai massimi vertici dell'esercito. L'incidenza politica dell'incontro romano-germanico si coglie anche nei territori al di fuoi dal limes: l'influenza di Roma si estendeva ben al di là dei confini della sua dominazione. Il processo di penetrazione di gruppi barbarici entro l'Impero si protrasse a lungo, durante il III e soprattutto il IV sec., spesso senza che emergessero grandi conflitti, senza che questo implicasse una forma di invasione. Ma negli ultimi decenni del IV sec. si assistette a una sensibile accelerazione del processo. Le origini vanno situate nella nuova mobilità e iniziativa militare del popolo nomade degli Unni, la cui spinta sui popoli dell'Europa orientale provocò un effetto a catena di movimenti verso Occidente, che determinarono una forte pressione dei Visigoti sul limes danubiano, l'Impero rispose concedendo un grosso stanziamento all'interno dei territori romani (375). Era però un insediamento poco controllato, i Visigoti si dedicarono al saccheggiamento nei balcani, inducendo l'imperatore Valente ad attaccarli; ma la battaglia di Adrianopoli (378) fu un disastro per i romani, sconfitti e morte imperatore. Il 378 fu un anno di forte impatto, con la morte dell'imperatore sul propria superiorità militare in un potere politico strutturato, territorialmente definito e autonomo. 3. Esito diverso fu per gli Unni. Era una grande solidarietà etncia e politica poco strutturata, potentissimo esercito che trovò un capo militare in Attila. Originali dell'Asia centrale, si erano stanziati ai bordi dell'Impero romano nei primi decenni del V sec., divenendo una costante minaccia militare per Roma, ma anche utili mercenari degli eserciti. Un momento di svolta, 445, rappresentato dalla presa di potere da parte di Attila, che indirizzò la forza militare unna in una durissima serie di campagne all'interno dei territori romani, fino alla decisiva sconfitta subita dal magister militarium Ezio, ai campi Catalaunici nel 451. Dopo la morte di Attila il popolo unno si dissolse. Ezio era un generale di origine barbara, che arrivò ai vertici romani grazie alla sua capacità militare. E la morte di Ezio e dell'Imperatore Valentiniano III nel 454, sembrò aprire di nuovo le porte al saccheggio da parte degli eserciti. Nel 455 ci fu un nuovo sacco a Roma da parte dei Vandali. I decenni centrali del secolo furono segnati da un altro chiaro declino del potere imperiale. Nel 476 il generale Odoacre non si limitò a deporre l'ennesimo debolissimo imperatore, Romolo Augustolo, ma rinunciò a insediarne uno nuovo, rinviando invece le insegne imperiali a Costantinopoli. Questo avvenimento della deposizione imperiale fu rilevante. La scelta di Odoacre di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricomporre l'unità imperiale e fu la presa d'atto che un Imperatore d'Occidente non era necessario. L'unico imperatore dotato di effettivo potere era quello d'Oriente. Odoacre voleva un'autonomia militare con il riconoscimento dell'Impero. Ma l'imperatore Zenone non ritenne che Odoacre fosse un alleato affidabile a cui delegare una parte così importante dell'impero, pochi anni dopo fece in modo che l'Italia passasse nelle mani degli Ostrogoti e di Teodorico. Alla fine del V sec. si può riconoscere una geografia politica abbastanza delineata. L'Italia per pochi anni fu nelle mani di Odoacre, per poi essere conquissta dagli Ostrogoti di Teodorico, la Gallia era nelle mani dei Franchi con l'eccezione della aree controllate dai Burgundi e dai Visigoti che governavano il sud della Gallia e parte della penisola iberica, che era posseduta anche dagli Svevi. I Vandali controllavano l'attuale Tunisia, Sicilia, Sardegna e Corsica. Molti problemi erano comuni a queste strutture politiche, dovevano gestire la difficile convivenza tra tradizione romana e quella germanica. I nuovi regni Tra V e VI sec. possiamo constatare una fondamentale divaricazione: un impoverimento della società europea sia sul piano delle risorse, sia sul piano delle competenze tecniche messe in campo; dall'altro lato, , vediamo una forte continuità sul piano della cultura, della cultura politica e dei modelli istituzionali. La trasformazione coinvolse tutto l'Impero. Si assistette al crollo del sistema politico-militare romano, con il passaggio del potere nelle mani della minoranza armata: i Germani. Il modello romano era forte e presente, per vari motivi: era la memoria di un potere statale forte ed efficace, in grado di prelevare grandi risorse dai propri sudditi e di redistribuirle ai propri servitori, era un sistema tutt'ora vivo nell'impero d'Oriente, un mondo con cui molti popoli germanici si confrontavano. Nacque un sistema politico nuovo in cui i modelli amministrativi imperiali erano affiancati da una nuova centralità politica attribuita alle assemblee, le riunioni delle aristocrazie attorno ai re. Fu un sistema comune a tutti i regni romano-germanici. Il sistema imperaile fondato sul prelievo non resse, sia per le difficoltà tecnico amministrative che tale sistema imponeva, sia per l'eccessivo peso fiscale che aveva comportato, ma soprattutto i regno non avevano bisogno di impegnarsi nel compito difficile e impopolare di prelevare le tasse. I regni romano-bararici spesso non avevano una capitale. Anche la burocrazia era un apparato ben più leggero di quello romano, l'esercito non era più costituito da specilisti stipendiati, ma dall'insieme del popolo e dell'elitè, rincompensati dal re con terre anzichè con gli stipendi. Fu un chiaro superamento dei funzionamenti romani, ma fu al contempo l'affermazione di un ideale sociale e economico romano, perchè l'idea che per essere ricchi occorresse possedere molte terre derivava da modelli mediterranei e romani. La conseguenza, nel V e VI sec., fu la rinuncia progressiva del preliveo delle tasse. Questo ebbe conseguenze rilevanti a livello di grandi sistemi di scambio, con la rottura della circolazione interna al Mediterraneo. Anche all'interno dei singoli Regni i cambiamenti sul piano economico e sociale furono immensi, con una grande crisi delle città e di alcuni settori produttivi. I nuovi regni erano più poveri dell'impero, più poveri anche i re e le aristocrazie. Dal punto di vista politico, è importante notare che il re era sempre più ricco dell'aristocrazia. Gli aristocratici non lottavano mai per un'autonomia, ma solo per essere vicini al re. Con l'abbandono delle tasse e degli stipendi andò al centro la "terra", come unica fonte di ricchezza. Questo comunque implicò una minore quantità di ricchezza disponibile per il re. L'Italia ostrogota Odoacre costruì un sistema di potere equilibrato ed efficiente, fondato sulla collaborazione con l'aristocrazia senatoria, a cui il re garantì il predominio economico e sociale. L'Italia tra il 476 e il 489 continuava ad essere dominata da un'amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato. Il potere di Odoacre era un potere a doppio titolo: patricius, cioè che non voleva ambire alla corona imperiale; rex gentiun, il suo dominio era sull'insieme di tutti i popoli che costituivano il suo esercito. Questo potere durò 13 anni, fino quando l'Italia fu invasa dagli Ostrogoti. L'imperatore Zenone non aveva mai accettao questo potere di Odoacre, quindi si propose per ottenere un controllo indiretto dell'area sollecitandone la conquista da parte del popolo ostrogoto. Teodorico era per Zenone una figura molto nota, per le sue capacità e per la sua pericolosità. Fu quindi su indicazione di Zenone che Teodorico nel 489 scese in Italia alla guida degli Ostrogoti, a cui poi si unirono i popoli dei Rugi e Gepidi. Questo fa capire come le entità etniche in questi periodi fossero molto fluide, legate alle scelte individuali e di gruppo, più che a una discendenza di sangue: si faceva parte del popolo a cui si decideva di appartenere. La conquista dell'Italia fu facile. Il governo di Teodorico si fondò sull'integrazione tra il controllo militare dei Goti e un'amministrazione civile di stampo romano. Popolazioni italiche governate da un'amministrazione romana, protette da un esercito germanico e sottoposte a una regolare imposizione fiscale destinata a mantenere tale esercito. Il parallelismo tra le due popolazioni fu sancito dalla possibilità per ogni individuo di seguire la propria legge, romana o gota, ed essere giudicati o da un iudex romano o dal comes goto (con una prevalenza di quest'ultimo). Tutto ciò portò ad un equilibrio efficace, permise la convivenza pacifica. Le popolazioni italiche quindi non subiro nessuna trasformazione radicale, in realtà furono gli Ostrogoti a trasformare le proprie forme di vita. Potere di Teodorico: titolo di patrizio, affiancato dal supremo titolo militare. Rappresentava non solo l'aspirazione del re, ma anche il riconoscimento e la legittimazione derivanti dell'Impero, che Odoacre aveva inutilmente cercato. I due apparati (esercito goto e amministrazione romana) trovavano un nesso diretto nella figura del re e nel suo consistorium, consiglio ristretto formato da goti e romani. Il consitorium regio fu quindi il principale strumento di governo di Teodorico, ma qui si può anche individuare una debolezza strutturale del suo apparato di potere, dato che il re e il suo consiglio costituivano il solo punto di reale integrazione. I due popoli furono tra loro complementari ma mai integrati, non avenne una simbiosi. Teodorico per più di un trentennio assicurò all'Italia un governo stabile, grazie ad un solido accordo con l'aristocrazia di tradizione romana. Questo accordo con la tradizione romana non trovò un accordo con la religione. Gli Ostrogoti erano di religione ariana e si trovarono a convivere con una popolazione cattolica, ma in cui si stava consolidando un sistema di dominio sociale ed economico delle chiese, con un crescente ruolo politico dei vescovi e un'evidente centralità del vescovo di Roma. Teodorico conservò la sua religione ariana, ma al contempo era il protettore di tutte le chiese presenti nel suo regno. Questa funzione regia dimostrò la sua massima efficacia quando ci fu il scisma laurenziano, nel 498, dove furono eletti due papi. Teodorico in questo conflitto si mosse con cautela, la chiesa romana riconosceva nel re il legittimo successore degli imperatori come suo protettore. Questo rapporto fu sancito in occasione della visita di Teodorico a Roma, nel 500, quando il pontefice e senato gli resero omaggio in forme che richiamavano i cerimoniali imperiali. Gli anni di Teodorico furono segnati da una notevole stabilità del potere regio, ciò consentì un ampliamento dei confini italici: da un lato il proprio controllo oltre le Alpi orientali, dall'altro costruì una rete di rapporti con gli altri regni romano-germanici, tra accordi e patti matrimoniali. Questa rete di legami parentali consentì a Teodorico di costruire in questi anni una popolarità politica europea, parallela e opposta ai Franchi. Fu rilevante il rapporto con i Visigoti; lotta per il controllo dei Visigoti: Ostrogoti vs Franchi. Fondamentale fu la battaglia di Vouillè, 507, in cui il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il re visigoto Alarico II. Dopo la battaglia Teodorico assunse la tutela del nipote Amalarico, nuovo re Visigoto, con ciò affermò un controllo indiretto ma efficace sulla Provenza. La sconfitta del suo più fedele alleato offrì a Teodorico la possibiltà di ampliare il proprio potere. Il regno ostrogoto però aveva una debolezza, la mancata simbiosi tra Goti e romani. La principale garanzia di stabilità era costituita dal potere regio e dal suo rapporto di collaborazione con l'aristocrazia senatoria: quando questo rapporto entrò in crisi, tutto iniziò a vacillare. Crisi nel 518, l'imperatore Giustino avviò una serie di persecuzioni ai danni degli ariani, a cui Teodorico rispose con persecuzioni ai cattolici. Con ciò l'aristocrazia senatoria si allontanò dal potere regio e si avvicinò all'Impero. Teodorico morì nel 526, tramandò il potere alla figlia Amalasunta, tutrice del nuovo re Atalarico: re bambino, situazione di debolezza dinastica e politica, che tuttavia non impedì la sopravvivenza del regno. Alla morte prematura di Atalarico, nel 534, Amalasunta si trovò in una situazione di debolezza, sposò il cugino Teodato. Però questo accordo politico-matrimoniale fallì, perchè i coniugi scelsero posizioni politiche diverse: Amalasunta cercò di riscostruire il rapporto Goti\Romani; Teodato voleva far prevalere l'aristocrazia Gota. Amalasunta fu uccisa nel 535, questo offrì a Giustiniano l'occasione per dichiarare guerra al regno ostrogoto, nel giro di vent'anni riportò l'Italia all'interno dell'Impero. Anglossasoni, Vandali e Visigoti. Nel corso del V secolo si erano costituiti altri regni in diversi settori dell'Impero: Inghilterra, nord Africa e penisola iberica. Anglossassoni: il dominio romano non si era mai esteso alle isole britanniche. Ma l'influsso della cultura e dei modelli istituzionali romani fu rilevante anche al di là del limes. Questo influsso si interruppe molto presto, attorno al 410, quando i romani abbandonarono le isole. Si colse con chiarezza una rottura dei sistemi economici della regione in seguito alla fine del dominio imperiale. La fine del dominio imperiale in Britannia fu accompagnata da una serie di incursioni di popolazioni sassoni, provenienti via mare dal nord dell'attuale Germania, che trasformarono le proprie azioni di saccheggio in insediamenti stabili. Con una struttura politica altamente frammentata. Nella parte centro-meridionale della Britannia si può individuare una distinzione, una prevalenza anglosassone nelle aree orientali e una maggiore presenza celtica in quelle occidentali. Poi con le invasioni anglosassoni, le popolazioni celtiche si spostarono in Scozia meridionale, Galles e nell'Inghilterra sud-occidentale. L'altissima frammentazione politica e strutturale fu un carattere di lungo periodo, ma ci sarà un'evoluzione di stampo romano dal VI al VII. Discorso diverso per l'Irlanda, l'isola non subì le invasioni sassoni che avevano trasformato la struttura politica della Britannia. Vediamo che nel VI sec. l'isola era connotata da un'estrema frammentazione politica, divisa in decine di regni, i cui re avevano un potere militare e politco, ma non legislativo. La frammentazione politica si riflesse nel processo di cristianizzazione, si sviluppò lentamente, regno dopo regno. Assunsero un peso particolare i monasteri, non furono solo luoghi di preghiera e di perfezionamento spirituale, ma anche centri di cura per le anime. Overkings, re più potenti degli altri, che imposero un controllo militare sulle dominazioni minori. Il processo porterà a un esito più definito nel VII sec., con il prevalere di alcuni regni maggiori e grandi dinastie. Vandali: le provincie della Tunisia e della Algeria, erano una terra ricca dal punto di vista agrario. L'importanza di questa zona deriva anche dalla sua sicurezza, da non rendere necessari grossi costi militari. I Vandali si erano stanziati nella penisola iberica nel 417, ma nel 429 sotto la guida di Genserico attraversarono lo stretto di Gibilterra e si imposero sulle ricche terre africane, le quali furono controllate da loro fino al 534. Fu il primo popolo germanico a costruire un regno autonomo all'intero dei territori già imperiali. Il regno vandalo fu connotato da elementi contradditori, la rottura più evidente fu sul piano religioso, dura intolleranza, i Vandali condussero delle persecuzioni ai danni delle chiese. L'Africa vandala fu stabile però dal punto di vista economico e fiscale, con una persistente ricchezza, alti livelli produttivi di grano e di olio. I Vandali continuarono a prelevare le tasse come i romani, ma le tasse non uscirono dal regno, i re Vnadali accumularono notevoli ricchezze. La conquista vandala segnò una crisi per l'impero occidentale, il quale non potè più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane. Sul paino politico- miliatre non erano forti. Visigoti: nel loro processo di insediamento ci furono tre fasi: – lungo il V secolo si stanziarono tra il sud della Gallia e la penisola iberica – nella prima metà del VI secolo videro ridursi il proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi – nella seconda metà del secolo consolidarono la propria presenza nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Si insediarono stabilmente la prima volta nello spazio politico romano nel 418, i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno alla Tolosa, Gallia meridionale, qui si posero al servizio degli eserciti romani, combatterono contro gli Svevi, Alani e Vandali. I re visigoti seppero acquisire e rielaborare modelli politici romani, precoce redazione di leggi scritte (Eurico, re dal 466\484), non erano leggi del popolo visigoto, ma norme territoriali. Battaglia di Vouillè, nel 507, quando il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il re visigoto Alarico II. Ciò fece ridurre il dominio visigoto a nord dei Pirenei e ci fi una crisi. Una fase di trasformazione avvenne nella seconda metà del VI sec, a partire dal regno di Leovigilio (569\586), consolidamento territoriale, portarono sotto il dominio visigoto il regno svevo e parte del dominio bizzantino. La capitale era Toledo, posta al centro del regno. Ma ci fu un problema religioso, il re preso atto dell'importanza religiosa come base ideologica del suo regno, da un lato voleva un compromesso tra ariani e cattolici, dall'altro però perseguitò alcune chiese cattoliche. Il figlio Reccaredo (586\601) promosse una conversione al cattolicesimo. 3. La simbiosi franca I Franchi ebbero un buon incontro con le popolazioni di tradizione romana, crearono una vera e propria simbiosi creando un vero e proprio popolo, in grado di integrare e sviluppare diverse culture politiche. I Franchi in due secoli riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d'Europa, ponendo le basi per l'espansione carolingia alla fine dell'VIII sec. Tra III e V sec. i Franchi entrarono in contatto con l'Impero romano, poi assunsero il controllo della Gallia. Clodoveo (secondo sovrano dei Merovingi) Il punto di partenza del mondo Franco fu dato da Clodoveo, re che tra V e VI sec. affermò il proprio dominio. Caratteristica specifica di questa regione è che tra IV e V sec., la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche, in specifico aumentò la volontà di occupare sistematicamente le funzioni vescovili. La cultura, la ricchezza e le funzioni pastoriali dei vescovi ne fecero i detentori di un importante potere nei confronti della comunità cittadina. Era vero sia per il tardo romantico, sia per l'altomedioevo. La carica vescovile era appetibile per quelle famiglie che volevano conservare e aumentare la propria preminenza sociale; proprio perchè la forza delle sedi vescovili era aumentata dalla presenza di Merovingia erano legittimi. Queste divisioni limitarono l'azione dei re franchi verso l'esterno del regno, la forza dell'aristocrazia e dei re fu tale da consentire una duratura ed efficace gemonia che andò ben oltre la Gallia. I franchi del VI sec esercitarono un controllo indiretto, ma efficace, sulla Germania e una discontinua egemonia sull'Italia longobarda. Questa ampiezza del dominio franco sarebbe stata in parte intaccata nel corso del VII sec, e solo alla fine dell'VIII sec si affermò in pieno con l'espansione Carolingia. Battesimo di Clodoveo. 4. La rottura del Mediterraneo romano Il dominio romano restò un insieme di società molto diverse, riunite dalla sottomissione politica, dall'apparato burocratico e da un capillare sistema fiscale. Il mutamento ha coinvolto aspetti che andavano ben al di là della dimensione politica. In particolare la fine dell'Impero occidentale è il fondamento necessario per comprendere sia la profonda ridefinizione dei circuiti economici (Occidente), sia il nuovo assetto dell'Impero, ridotto a prospettive poco più che regionali nel Mediterraneo orientale; infine le dispute teologiche, che in questo secolo divisero il cristianesimo. Produzione e scambi in Occidente I funzionamenti economici dell'Altomedioevo hanno poche fonti scritte; negli ultimi anni l'intervento dei dati archeologici ha assunto un peso maggiore: in particolare reperti ceramici, è l'indicatore migliore. La ceramica fine da tavola ci dà indicazioni soprattutto sulla domanda aristocratica, sull'importazione, la produzione locale di oggetti di un certo pregio, le anfore ci informano invece sullo scambio interregionale di prodotti agrari (grano, olio e vino), essi venivano trasportati nelle ceramiche. Il sistema economico romano subì una prima trasformazione nel II secolo, quando l'Impero terminò la sua lunga fase di espansione con una definizione di un territorio protetto dal limes e destinato a rimanere complessivamente stabile fino all'inizio del V secolo. Questo dato militare e territoriale ebbe implicazioni rilevanti sul piano economico, una crescita drogata: sostenuta dall'ingente aflusso di bottino e schiavi. Questo afflusso rallentò con il rallentare dell'azione militare romana, lunga stagione di complessivo equilibrio, i costi dell'unificazione politica pesarono in modo rilevante. I primi secoli del Medioevo non possono essere letti come una frattura totale, un mutamento profondo. Per leggere questo mutamento economico, il punto di partenza è la trasformazione sul piano politico e militare, la fine del dominio imperiale sull'Occidente, con la conseguente interruzione dei meccanismo fiscali. Si trasformarono le forme della circolazione e dello scambio ed ebbe fine l'interdipendenza tra le diverse parti dell'Impero. Il mutamento avviene attraverso quattro apsetti: le città, le reti interregionali di scambio, le forme della produzione e la società contadina. Le città: le elitè cittadine raccolte nelle curiae, erano fiscalmente responsabili di fronte all'Impero, in un ruolo pesante ma che certo offriva grandi possibilità di ascesa politica. Il tramonto del sistema imperiale allontanò le elitè dalle città. Era sempre più importante valorizzare la propria ricchezza: la terra posseduta. Quindi ci fu un calo demografico, in più in questo secolo c'erano case più semplici e frazionate, l'occupazione degli spazi pubblici da parte di chiese o edifici privati, una vera e propria frammentazione dello spazio urbano in una serie di piccoli insediamenti discontinui. Fra tutte, quella che subì un cambiamento più radicale fu Roma, essa potè sostenersi con le risorse provenienti dal Lazio e dalle terre del suo vescovo, disperse in varie parti d'Italia: risorse importanti ma nulla parogate al periodo precedente di luce. Ci fu una rapida riduzione della popolazione urbana: 20.000 abitanti da un 1 milione. Questa crisi non significò affatto la fine dell'urbanesimo, continuità garantita dal potere vescovile. Le città cambiarono faccia in modo vistoso, più ancora delle campagne. La trasformazione dei centri urbani comunque deve essere collegata alla rottura della coerenza fiscale dell'Impero, lenta semplificazione dei circuti mediterranei di scambio. In tutte le città dell'Impero la rottura del quadro politico comportò una riduzione significativa sia delle ricchezze, sia la disponibilità dei beni provenienti dalle altre regioni. Reti interregionali di scambio: non bisogna soffermarsi sui beni di lusso, ma è utile su quelli di massa, materia prime e alimentari. Le reti di scambio in età antica si erano strutturate a partire dall'azione dello stato, trasferimento di beni dalle diverse regioni dell'impero: la città di Roma e gli eserciti del limes renano erano in larga parte mantenuti grazie alla produzioni cerealicole di regioni come l'Egitto, la Tunisia o la Sicilia, con trasferimenti fiscali. Questi trasferimenti di beni erano sostenuti da un sistema di infrastutture (porti, strade...). In età romano il commercio viaggiava sulle spalle delle tasse. Per questo la fine dell'unità territoriale dell'impero ebbe conseguenze così rilevanti sul piano economico: la prima grande rottura fu la conquista della Tunisia, nel 439, che interrupe l'asse fiscale che collegava Cartaggine a Roma. Questo scatenò un impatto profondo su tre livelli: 1)le reti di scambio, 2)la città di Roma e le 3)strutture produttive nordafricane. 1) lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme più specificamente commerciali e non fiscali, Roma continuò a rifornirsi di questo grano, ma lo fece per via commerciale. 2) Roma dovette mantenersi su risorse molto più ridotte, le produzioni africane subirono una riduzione. L'esportazione verso Roma e l'Europa si era ridotta drasticamente; l'aristocrazia di area tunisina non era abbastanza numerosa e ricca per sostenere una domanda di prodotti pari a quella che aveva caratterizzato la regione in età romana. 3) due meccanismi distinti: da un lato la domanda dell'elitè che è fondamento della complessità economica a livello regionale e subregionale: dall'altro lato l'infrastruttura statale e il sistema fiscale che costituiscono la base per lo scambio (anche di natura commerciale) tra due regioni diverse. Produzione: il quadro produttivo delle regioni mediterranee ed europee dei primi secoli del medioevo è segnato da una fortissima varietà. La domanda delle elitè la cui ricchezza appare inferiore a quella delle aristocrazie romane dei secoli precedenti, e non tale da sostitiure il prelievo fiscale dell'Impero, che in Occidente cessò tra V e VI secolo. Altro dato, a tutto il Mediterraneo era la struttura produttiva agraria di base, con tre prodotti fondamentali: grano, olio e vino, che si trovavano in tutte le aree. Le differenze nascevano da molti fattori: – la specializzazione produttiva era un carattere molto adatto al sistema economico e fiscale romano, ma fu un fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamento e ridotta circolazione. – Le ricchezze dell'aristocrazia delle diverse regioni erano profondamente diverse, ciò condizionò ladomanda e la produzione delle singole regioni. – Anche i danni conseguenti alle guerre furono molto diversi da regione in regione – in fine il sistema fiscale tradizionale romano in alcuni regni fu conservato più a lungo, indusse una maggiore pressione sulla popolazione e quindi una maggiore produzione. Queste varianti si possono cogliere attraverso alcuni casi regionali. Un caso di produzione specializzata, sembra essere rappresentato dall'Africa romana. Dopo la rottura nel 439 del legame fiscale con Roma si trovò a fronteggiare un calo produttivo. Nel 534 l'Impero d'Oriente riconquistò la regione, per poi conservarla per un secolo, riattivando una circolazione di tipo fiscale, ma non bastò a invertire la tendenza al declino, che quindi non può essere spiegata solo con una conquista vandala. Dobbiamo invece da un lato rincondurre il declino alla generale caduta della domanda in tutto il Mediterraneo, ma solo a un prelievo destinato a contribuire al mantenimento della capitale (Costantinopoli). L'Italia fu un'area ad altissima frammentazione economica, con prodotti artigianali che circolavano a raggio assai limitato. Già per il V secolo si constata un impoverimento dell'aristocrazia. La rottura più profonda si attuò lungo il VI secolo, prima con la lunga guerra di rconquista imperiale ai danni degli Ostrogoti (la guerra greco-gotica), poi con la conquista longobarda. Nel regno franco, lungo il VI secolo si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale, ma un dato di fondo di quest'area fu la ricchezza già in età merovingia, poi accentuate in età carolingia. Caso opposto è la Britannia, dove si costata già all'inizio del V secolo una rottura totale delle reti commerciali. Nel Mediterraneo orientale si conservò una rete di scambi fondata sull'azione statale, una rete che permise di mantenere sia la capitale, sia gli eserciti del limes grazie alle produzioni di regioni come l'Egitto, la Sicilia e dal VI secolo la Tunisia, in Occidente questo sistema non si conservò. Contadini: i contadini furono totalmente esclusi dai documenti scritti. Essi rappresentavano la grande maggioranza della popolazione, circa il 90\95%; una massa enorme, deputata a fornire i prodotti di base destinati a garantire sia la propria sussistenza, sia lo stile di vita dell'elitè. Quando ci fu un parziale abbandono della città, ci fu un aumento della popolazione rurale: aumentò la percentuale delle persone che abitavano in campagna, ma si assitette a un generale calo demografico. Ricchezza fondiaria in mano aristocratica riducono i contadini circostanti a lavorare come servi, salariati o coloni degli aristocratici. Possiamo però più facilmente trovare piccoli proprietari contadini. Primo secolo del Medioevo l'aristocrazia era più povera di quella romana, e il crollo che esercitava sui contadini era meno diretto. Potenti famiglie e chiese del nord della Gallia probabilmente avevano un controllo su una società contadina dipendente. Le ambizioni universali dell'Impero Giustiniano La parte orientale dell'Impero romano lungo il IV secolo era andata gravitando sempre più chiaramente attorno alla città di Costantinopoli, fondata nel 324 da Costantino. Alla fine del secolo Costantinopoli si pose al centro di un dominio che comprendeva gran parte del Mediterraneo Orientale e meridionale. Nel corso del V secolo la città assunse le funzioni di capitale dell'Impero, in parallelo al declino di Roma. L'Occidente si dissolse in una serie di dominazioni romano-germaniche, mentre l'Oriente, dopo la sconfitta di Adrianopoli del 378, riuscì a opporre un freno alle spinte barbariche, tanto che già all'inizio del V secolo l'emergenze militare su questo fronte si poteva considerare superata. Tre aspetti in particolare possono permetterci di cogliere le forme di queste continuità: le successioni al trono, l'organizzazione burocratica e il sistema fiscale. Un ulteriore elemento dell'Impero tra V e VI secolo fu il rapporto intenso con il Cristianesimo e con l'organizzazione ecclesiastica. La successione imperiale non si era mai fondata su una semplice e diretta ereditarietà: su questo si era innestata una visione cristiana che collegava l'ascesa al trono alla volontà di Dio. A Costantonopoli non esisteva una dinastia imperiale. Proprio il grande imperatore Giustiniano che salì al trono nel 527, perchè egli fu associato allo zio Giustino, ma quest'ultimo era un militare di famiglia contadina, che aveva compiuto una grande carriera all'interno dell'esercito, culminata nell'ascesa al trono nel 518. La dinamica politica nell'impero era quindi intessuta di guerre civili per l'ascesa al trono, che si era dissolte quando nel X secolo fu scritta una legge per principio dinastico. La continua instabilità politica era compensata prima di tutto dalla stabilità dell'apparato burocratico, il motore che garantiva il regolare funzionamento della macchina imperiale. Nell'Impero c'era la divisione tra incarichi civili e militari, che impedì l'eccessivo potere solo nelle mani di una persona. Da punto di vista amministrativo lo stato viveva sulla relazione tra la corte imperiale, insediata nella capitale, e le province, un centinaio di distretti in cui l'Impero era suddiviso. La grande distinzione era tra gli eserciti limitanei (stavano sul limes) e quelli comitatenses (affiancavano l'imperatore). Le stesse guerre civili legate alle successioni imperiali mostrano come gli eserciti non fossero sempre sotto il pieno controllo dell'impero, ma fossero pronti a porsi al seguito di un capo militare dal futuro promettente. Questo sistema burocratico fu il principale strumento per gestire il relievo fiscale. In piena continuità, con regolari tasse sulle persone e sui beni. Quest'azione fiscale richiedeva un sistema documentario e amministrativo per accertare i patrimoni e le persone presenti (catasti), per prelevare le imposte, per obbligare al pagamento chi se ne voleva sottrarre e infine per aggiornare periodicamente i catasti. Tra V e VI secolo scoraggiò i diversi regni germanici dal procedere a queste operazioni. Si cercò di vincolare le persone alle terre, vientandone lo spostamento verso altri fondi, figura dei coloni. Se quindi si trattava di operazioni amministrative gravose e complesse, esse garantirono all'impero una nuova stabilità finanziaria. L'organizzazione di questo sistema burocratico e fiscale richiedeva la presenza di percorsi di formazione scolastica, in particolare in campo giuridico: scuole di diritto di Roma, Costantinopoli e Beirut. Questo sistema di alta formazione giuridica fu alla base della grande riforma legislativa di Giustiniano, che si espresse nella redazione del Corpus Iuris Civilis, un insieme articolato di testi giuridici. La legislazione romana era andata sedimentandosi lungo i secoli, dando vita a una miriade di testi spesso contraddittori, l'imperatore doveva coordinarli e sistemarli e dare un Codice ligislativo unitario e coerente. È il primo incarico che Giustiniano nel 528 affidò a una commissione di sette giuristi guidati da Triboniano. L'anno seguente presentarono il Codex, una raccolta delle principali norme imperiali. Nel 533 i giuristi di corte presentarono all'imperatore sia il Digesto (o Pandette), una raccolta organizzata e fortemente selettiva di scritti di giuristi, sia le Institusiones, testi destinati all'insegnamento universitario del diritto. Nella seconda parte del regno di Giustiniano furono pubblicate le Novellae, ovvero le nuove disposizioni imperiali, emanate dopo la redazione del Codex. Questi 4 testi (Codex, Digesto, Insitusiones e Novellae) andarono a costituire il Corpus Iuris Civilis. All'epoca le azioni più vistose di Giustiniano furono sicuramente quelle condotte sul piano militare e territoriale, tentativo di riconquisare l'occidente e di riunificare l'impero. Riconquistò la Tunisia, dell'Italia e di gran parte delle coste mediterranee della Spagna, fu l'esito di una serie di processi di natura profondamente diversa che integravano aspetti militari, ideologici ed economici. Ci sono 3 premesse fondamentali: la relativa tranquillità del Limes persiano permise all'impero di allegerrire questo fronte e destinare truppe ad altri scopi; l'ampia riflessione giuridica e politica condusse a un rafforzamento ideologico e a una riaffermazione della centralità e del ruolo universale dell'Impero; infine la politica fiscale e l'allegerirsi dell'impegno bellico a est garantirono il consolidamento finanziario e una nuova prosperità. Questi tre elementi stimolarono e resero possibile la ripresa di quello che aveva rappresentato un fondamentale compito imperiale, ovvero la tutela dei mari e della navigazione nei confronti di una diffusa pirateria più o meno organizzata. Questo richiese il consolidamento della flotta imperiale. Il primo obiettivo fu il regno vandalo della Tunisia, essi rappresentavano una minaccia alla sicurezza della navigazione mediterranea, che era al centro degli interessi imperiali; il controllo imperiale sulla Tunisia avrebbe consentito di riprendere possesso delle sue grandi produzioni agrarie e artigianali. Le truppe imperiali guidate dal generale Belisario, conquistarono il regno Vandalo con una certa facilità, tra 533 e 534, ben più faticose le altre campagne imperiali: la Spagna visigota e soprattutto l'Italia ostrogota, una lunga campagna militare, che durò quasi 30 anni (535\553) per riportare la penisola sotto dominio imperiale. Le armate bizantine guidate ancora da Belisario, attaccarono dal sud, conquistando la Sicilia per poi risalire dalla penisola, fino alla conquista di Ravenna nel 540. Questo precario equilibrio però si ruppe l'anno successivo quando salì sul trono italico Totila, che rilanciò l'azione militare gota: grazie anche alle nuove risorse ottenute, il re condusse una campagna militare efficace, con una parziale rconquista dei territori imperiali. La reazione di Giustiniano consistette nella sotituzione di Belisario con Narsete e in una nuova campagna via terra, a partire dalla Dalmazia, che infine nel 553 portò alla piena conquista dell'Italia. Fu una conquista lunga, difficile e che fece perdere tante vite: immediamente dopo la conquista Giustiniano emanò la Prammatica Sanzione (554), una norma destinata a ristabilire le condizoni precedenti al regno di Totila. L'imperatore ricostruì un quadro di governo imperiale sull'Italia, organizzato attorno a un grande funzionario, l'esarca di Ravenna. La fragilità del dominio imperiale in Italia emerse con chiarezza pochi anni dopo (568) quando i longobardi valicaoro le Alpi e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua. I Longobardi si mossero in urbanizzazione, con uno sviluppo delle città portuali che appare significativo solo a partire dalla fine del VII secolo. Due presupposti: da un lato sono sicuramente attestati molti regni, di diverse dimensioni e importanza; dall'altro, il principale cronista inglese del secolo, il monaco Beda, mostra chiaramente di pensare all'Inghilterra come a uno spazio unitario di civiltà. Sono due dati divergenti, ma non contraddittori: forme di civiltà e modelli politici sostanzialmente analoghi connotano l'intera isola. – esisteva una pluralità di regni di diversa importanza – alcuni di essi appaiono più definibili e stabili, principalmente Mercia e Northumbria – tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un'egemonia dei re di Merci sui regni meridionali una superiorità che però si consolidò soprattutto alla fine del VIII sec, sotto re Offa – il contenuto effettivo di questa egemonia è assai difficile da definire La frammentazione politica dell'Inghilterra è quindi un dato di lungo periodo, e solo nel IX secolo potremmo constatare l'esistenza di un regno inglese unitario. Regno dei Franchi, alla fine dell'VIII secolo diverrà la dinsatia più potente d'Europa quella dei Carolingi. Rispetto alla grande ampiezza territoriale del VI secolo, il dominio franco nel periodo successivo subì una parziale riduzione, anche se lo spazio politico franco rimase sempre molto rilevante. I Merovingi (privi di una capitale stabile) furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi. La mobilità regia dipendeva in larga misura dalle contingenze e dalle emrgenze militari, in ogni caso l'azione regia si concentrò solo in alcune aree. Il fondamento principale del potere merovingio era il legame con l'aristocrazia: un legame solido. Questa famiglia era molti più ricca di tutte le altre famiglie aristocratiche, si legavano matrimonialmente, compivano una serie di atti rituali (sepolture, incoronazioni...) destinati a riaffermare simbolicamente la loro differenza. Erano i soli possibili re. Fu invece dall'interno dell'aristocrazia Franca che crebbe la famiglia dei Pipinidi\Carolingi. "Pipinidi" per la prima parte della storia, quando prevale il nome Pipino; da Carlo Magno in poi si usa il nome "Carolingi". Nei primi anni del VII secolo, nel contesto delle lotte per il potere interne alla stirpe Merovingia, Arnolfo di Metz e Pipino di Landen (i leader dei due principali clan aristocratici dell'Austrasia) si allearono per appoggiare l'ascesa al trono del re Clotario II, e ne furono ricompensati. Dal matrimonio tra la figlia di Pipino e il figlio di Arnolfo nacque un sistema parentale potentissimo. Il maestro di palazzo (maiordomus) era, in ogni regno franco, il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e metteva in atto le decisioni regie. La forza della dinastia si espresse nei momenti in cui un suo esponente riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni che andavano a costituire la dominazione franca: se il territoiro franco era diviso in ambiti politici distinti, i maestri di palazzo pipinidi ne garantivano la fondamentale unità. Non era possibile prendere direttamente il controllo del regno: quando Grimoaldo, un esponente della famiglia pipinide, nel 656 esiliò il merovingio Dagoberto e fece incoronare il proprio figlio Childeberto, si trovò a scontrarsi con l'aristocrazia franca. Grimoaldo fu sconfitto e giustiziato. Era spesso incerto chi dei Merovingi dovesse essere il re, ma non c'era dubbio che la corona fosse riservata a questo gruppo parentale. Per comprendere la forza dei Pipinidi bisogna concentrarsi sul loro rapporto con l'aristocrazia franca, quella austrasiana. I Pipinidi si mossero dall'interno dell'aristocrazia, legando a sè per via clientelare le maggiori famiglie austrasiane. Era una regione dominata da un'aristocrazia ricca di terre e a forte orientamento militare. Fu proprio il coordinamento di questa aristocrazia a fondare la forza dei Pipinidi. L'azione dei Pipinidi tra VII e VIII secolo: la loro capacità di coordinamento dell'aristocrazia si tradusse direttamente in forza armata, una capacità di agire militarmente in modo autonomo, non necessariamente al servizio dei re merovingi. Carlo Martello, soprannominato Martello, piccolo Marte, mette in luce la centralità della componente militare nell'immagine che Carlo trasmise di se. Ma le forme della sua azione politica e dell'ideologia pipinide emergono con anche dalla sua impresa più celebre, la battaglia di Poitiers del 732, quando Carlo sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica. Mise fine a incursioni e saccheggi; ma è interessante notare come gli storici più vicini alla dinastia abbiamo esaltato la battaglia. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, Pipino III (Pipino il Breve) a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi Merovingi. Già nei primi decenni del secolo VIII la famiglia si muoveva in una prospettiva di pieno controllo del mondo franco. Il mito dei "re fannulloni", ovvero degli ultimi re Merovingi come incapaci e nulla facenti, è un mito construito nel IX secolo dalla corte carolingia, per riaffermare la legittimità del colpo di Stato nel 751. L'appoggio dato da Carlo Martello e dal figlio Pipino III alle missioni del monaco Wynfrith nelle regioni oientali dell'attuale Germania. Wynfrith era un monaco originario del Wessex, che papa Gregorio II nominò vescovo (nome di Bonifacio) e inviò come missionario tra Turingi, Frisoni e Sassoni, dove operò dal 722 al 754, anno del suo martirio; un vescovo senza diocesi, perchè in quel paese erano ancora da costruire e questa era la sua missione. Carlo e Pipino appoggiarono a lungo questa missione. Tre cose importanti sula politica pipinide di questi anni: – apertura verso i terriori orientali – tutela delle chiese e della loro espansione, funzione tipicamente regia – collegamenti indiretti con il vescovo di Roma, Pipinidi e papato proteggevano Wynfrith. Terre e uomini Le gerarchie sociali altomedievali erano costruite in larga parte sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco significava avere molte terre, che servivano per ricompensare i propri fedeli, beneficiare le chiese a fornire ricche doti alle figlie per sitpulare utili alleanze matrimoniali. In tutta Europa il popolamento era molto basso. Il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i terreni coltivati, era raro l'insediamento sparso. La forma più diffusa di insediamento era il villaggio, costituito da un insieme di abitazioni e dall'integrazione di case\ terre. Il villaggio come un nucleo di case contadine attorno a cui si sviluppavano una serie di cerchi concentrici. Attorno al villaggio si estendevano poi i campi coltivati a cereali e pascoli. La divisione tra campi e pascoli non era la separazione tra due spazi totalmente distinti, ma un'alternanza d'uso delle stesse terre. Il modo più efficente per concimare la terra era infatti quello di utilizzarla periodicamente come pascolo, rotazione biennale. Con questa tecnica ogni anno metà delle terre non erano coltivabili, ma non per questo rimanevano improduttive, grazie all'allevamento; al contempo si impediva l'impoverimento delle terre e un ulteriore calo delle rese. È naturale che la terra di una singola famiglia contadina non fosse concentrata in un singolo settore del territorio del villaggio, ma fosse frammentata e dispersa, a coprire le diverse esigenze economiche della famiglia. All'esterno dei campi si trovavano grandi distese boschive incolte. Dal bosco si traevano molte risorse: la legna, si raccoglievano frutti spontanei; si allevavano gli animali (maiali). Erano beni comuni, gestiti e sfruttati collettivamente dagli abitanti del villaggio. Una distinzione tra due termini apparentemente sinonimi: nemus, il bosco, uno spazio non coltivato, ma antropotizzato, ovvero vissuto, curato e sfruttato dalle comunità contadine; dall'altro lato la silva, ovvero la foresta, inaccessibile, usato per la caccia. Dal punto di vista alimentare, la distinzione tra colto e incolto era la distinzione tra carboidrati (i cereali) e proteine (ottenute grazie alla caccia e allevamento). I vallaggi altomedievali non furono un ambito di opposizione tra mondo contadino e mondo pastorale, ma un contesto di integrazione di diversi sistemi produttivi. In tutte le regioni d'Europa convivevano grandi\piccole proprietà, con equilibri e rapporti molto diversi da zona a zona. Tra VII e VIII secolo si andò elaborando una peculiare forma di gestione delle grandi proprietà fondiarie, la cossidetta curtis, affermatasi prima di tutto in ambito franco. L'organizzazione curtense restò poi il modello prevalente delle grandi aziende agrarie fino all'XI secolo. Le grandi curtes di questi secoli in genere erano un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in molti villaggi diversi, inframmezzati alle terre di altri grandi e piccoli proprietari. Dobbiamo pensare alla curtis come a un'unità gestionale: facevano capo alla curtis e al suo entro gestionale centinaia di appezzamenti più o meno grandi, dispersi in molti villaggi diversi, spesso posti a parecchi chilometri dal centro. Prima di tutto in una singola curtis confluivano terre con caratteristiche e collocazioni diverse; in grado di garantire al proprietario produzioni diversificate, in più anche perchè così il proprietario poteva avere un ruolo importante in molti villaggi diversi. Curtis e villaggio erano due strutture completamente diverse: la prima era una forma di gestione delle ricchezze fondiarie di un grande proprietario, il secondo era una struttura insediativa, di cooperazione contadina e di organizzazione dello spazio agrario. Ovviamente curtes e villaggio entravano continuamente in interferenza. La divisione tra dominicium e massaricium: il dominicum era la parte gestita direttamente dal proprietario, spesso tramite un proprio agente, con l'impiego di manodpoera servile; il massaricum era invece la parte suddivisa in terre date in concessione a contadini liberi, che ottenevano ognuno un manso, ovvero un insieme di terre e prati sufficienti a mantenere la propria famiglia. Il massaro aveva nei confronti del proprietario un insieme di obblighi che variava molto dal luogo, ma che comprendeva talvolta un censo di denaro , una serie di corvèes (giornate di lavoro che il massaro doveva compiere sul dominicium). Il lavoro dei massari sulle terre della parte signorile è ciò che distingueva più chiaramente le curtes altomedievali. Il dominicum e il massaricium non erano due mondi separati, ma due parti profondamente integrate della stessa azienda. Le corvèes garantivano infatti al proprietario l'aflusso sul dominicium di una manodopera importante negli specifici momenti dell'anno in cui era necessaria. Il signore non poteva essere sicuro di disporre di anno in anno di moneta sufficiente a pagare la manodopera, nè tanto meno poteva essere sicuro che i contadini disponessero di moneta per pagare i censi. I contadini quindi usavano il proprio lavoro per pagare i censi e il signore usava la terra per pagare la manodopera stagionale sul dominicum. Il sistema aveva ovviamente dei limiti importanti, a partire dalla rigidità degli obblighi di lavoro dei massari. Le annate non erano tutte uguali, in certi anni l'abbondanza del raccolto avrebbe richiesto più manodopera, in anni difficili invece la manodopera garantita dalle corvèes era sovrabbondante. Ma gli obblighi dei massari erano definiti e stabili. Nel complesso la curtis era un sistema rigido: ogni cambiamneto del dominicum comportava una serie di riassestamenti nella distribuzione della manodopera e negli obblighi contadini, cambiamenti non facili da attuare, perchè avrebbero inciso sulle consuetudini locali e sui contratti che legavano proprietario e contadini. La curtis era un modello gestionale adeguato al contesto economico complessivo, a debole circolazione monetaria: il sistema curtense era adatto a garantire una flessibilità di manodopera quando non sarebbe stato applicabile un sistema basato su censi in moneta. Il centro della curtis era il dominicum. Dalla struttura del dominicum e dalle sue specializzazioni produttive dipendeva tutta l'oranizzazione della curtis, l'ampiezza e la distribuzione delle corvèes. La distinzione tra dominicum e massaricium corrispondeva di fondo alla distinzione tra servi e liberi. In un'ottica dinamica, di cambiamenti dei rapporti sociali, connessi ai quadri politici e soprattutto alla diversa incidenza del poetere regio. Per l'età medievale si usa "servi", "schiavi" è più riservato all'età antica, ma entrambi avevano molto in comune: erano uomini e donne non liberi, comprati e venduti e esclusi dal rapporto diretto con il potere regio. Ma il cambiamenti terminologico corrisponde ad alcuni cambiamenti: nel medioevo, i servi erano considerati parte della comunità cristiana, erano persone a pieno titolo, potevano ottenere terre in concessione. Servi e liberi erano distinti, ma non nettamente come nell'antichità. Ciò si riflettè all'interno della natura curtense, in cui la netta divisione tra servi dominicum e liberi massricium andò complicandosi per diversi motivi, connessi a squilibri tra le terre della curtis, le esigenze dei proprietari e la manodopera disponibile. All'interno di un villaggio c'erano condizioni materiali di vita simili, ma condizioni giuridiche diverse: uomini che vivevano a fianco, nello stessi villaggio, si trovavano a rispondere in modo diverso a un ricco proprietario. A partire dai giuristi basso medievali, come la "servitù della gleba" non tutti erano servi, e soprattutto chi era servo lo era personalmente, non per vincolo alla terra, alla "gleba". Ovvero: chi era massaro era collegato al signore da un contratto, chi era servo, era prorpeità del signore. Entrambi erano quindi legati al grande proprietario. In una fase successiva con uno sviluppo dei poeteri signorili locali, la distinzione tra servi e liberi perderà importanza, perchè gli abitanti del villaggio saranno accomunati dall'essere prima di tutto sudditi del signore, ma nel contesto carolingio la distinzione aveva ancora un grande rilievo. Essere liberi significava in primo luogo essere sudditi del re, i non-liberi dipendevano sempre dal loro signore e non potevano usufruire della giustizia regia. Questo sarà un elemento centrale nell'ideologia del regno carolingio: proprio la capacità del regno di tutelare i liberi più deboli sarà un segno della sua efficacia complessiva, e il declino di questa capacità regia sarà segno della transizione verso altri modelli di potere, a base signorile. Reti di scambio A lungo si è ritenuto che la curtis fosse un sistema chiuso e autosufficiente. In un contesto di debolissima circolazione monetaria e di scambi ridotti al minimo, per lo più nelle forme del baratto. Col tempo le aziende curtensi si inseriscono nel quadro del sistema di scambi attivo nell'Europa altomedievale. Tuttavia è importante capire come si sia formata l'idea della curtis come sistema chiuso e autosufficiente. Il punto di partenza è costituito da alcune leggi emanate in piena età carolingia: "Capitulare de villis", ovvero la legge sulle curtes. Norma emanata da Carlo Magno, si prevede che ogni curtis abbia al proprio interno ogni tipo di attrezzo e artigiano, si elenca una grande varietà di prodotti agrari e di oggetti che dovranno essere raccolti all'interno dell'azienda. Tutto ciò offre senza dubbio un'immagine autosufficienza economica, di un'azienda che non ha bisogno di partecipare a nessuna rete di scambio. Ma la legge non è mai una raffigurazione della realtà, è la costruzione di un ideale. Carlo Magno non stava imponendo un funzionamento a tutte le curtes, ma solo a quelle di proprietà regia. Il "Capitulare de villis" resta un documento di grande rilievo, perchè ci mostra nel modo più chiaro che, anche se queste aziende agrarie non erano autosufficienti, c'era però un volontà di autonomia aeconomica. Le fonti ci attestano invece la presenza di mercati settimanali, la confluenza dei prodotti delle curtes verso la città, una piccola disponibilità di moneta nelle mani dei coloni, segnali di un sistema di scambi commerciali locali. I re, le chiese e i nobili franchi erano ricchi e potenti, più degli altri sudditi del regno, più delle aristocrazie degli altri regni contemporanei, questa loro potenza era costituita in modo rilevante dalla loro ricchezza fondiaria. Le curtes erano uno strumento fondamentale per gestire questa ricchezza, un insieme di scelte gestionali destinate a offrire ai proprietari la massima redditività possibile in un contesto economico a circolazione monetaria debole. Dalle terre trarne un surplus che poteva essere commercializzato, in modo da garantire ai nobili le risorse per procurarsi armi, vestiti, cavalli... capacità di pressione sui contadini e sul loro lavoro: trarre dalle terre il massimo possibile. La forza dell'aristocrazia si fondava e si esprimeva prima di tutto nella sua ricchezza fondiaria, che poneva la società contadina in una condizione di oggettiva debolezza e consentiva quindi all'aristocrazia di imporre forti richieste di censi e di lavoro, ovvero di operare una forte pressione sulla produzione agraria. Ed era una rete commerciale che trovava i suoi punti di riferimento sia nelle città, sia nelle curtes: le città erano i centri con la massima percentuale di popolazione non contadina , che quindi cercava costantemente un regolare afflusso di derrate dalle campagne; le curtes erano i principali centri di produzione. Non è strano Ma durante i primi decenni del regno longobardo in Italia emergono alcuni cambiamenti importanti proprio dal punto di vista del potere regio, dei meccanismi di successione e quindi del rapporto tra il re e i duchi. Re Alboino aveva guidato alla conquista dell'Italia tra 568 e 569, fu ucciso nel 572, e a lui succedette Clefi, ma anch'egli verrà ucciso. A questo punto dal 574 al 584 i Longobardi rimasero senza un re: in quel momento, finita la fase di conquista e di aperto conflitto con l'Impero, i duchi ritennero che non fosse necessario un re. Ma dieci anni dopo, la pressione dei Franchi e la conseguente esigenza di un coordinamento convinsero i duchi a scegliere un nuovo re nel 584. Non ci furono in seguito altre fasi analoghe, da qui in avanti i longobardi ebbero sempre un re; la persona scelta nel 584 come re fu Autari, figlio di Clefi. Da qui in avanti vediamo giocare continuamente i due principi: elettivo e dinastico. Alla morte di Autari, i Longobardi posero la successione nelle mani della vedova Teodolinda, che sposando il duca Agilulfo ne fece il nuovo re. Lungo il secolo VII, ci rendiamo conto che molti di loro discendevano dalla coppia Teodolinda e Agilulfo. Il fatto di avere una capitale non era una scelta scontata: Teodorico aveva posto la propria capitale a Ravenna, usando Verona e Pavia come residenze regie. I Longobardi preferirono Pavia, già residenza di Teodorico, non fu una sola residenza regia, mA una vera e propria capitale. Pavia rimase capitale del regno e sede del palatium regio fino all'XI secolo. Non dobbiamo pensare ai longobardi come un popolo insediato nelle campagne, si insediarono invece nelle città. Le città italiane in questi decenni subirono un significativo declino, però non si trattò di una rottura brusca, di un trauma conseguente alla conquista longobarda, ma piuttosto una manifestazione chiara di mutamento. Longobardi e romani Teodolina e Agilulfo, coppia molto efficace nel governare i Longobardi, costituita da un turingio e una bavara. Nessuno dei due era longobardo "di sangue", ma la loro adesione al nesso politico longobardo ne faceva candidati idonei. L'identità longobarda non era quindi un dato stabile, ma era soggetta a un continuo processo di costruzione. I segni del continuo processo di etnogenesi si colgono infatti in fonti diverse, ma un caso particolarmente evidente è la redazione, attorno alla metà del secolo VII, della cossidetta Origo Gentis Longobardorum ("l'origine del popolo dei longobardi") un racconto delle vicende del popolo dalle origini fino alla costruzione del regno in Italia. Origine: sarà solo il dio Wotam, che concedendo loro la vittoria diede anche un nome: i longobardi. Sono anche da trattare con prudenza le fonti archeologiche, in particolare i corredi funerari, ovvero l'insieme di oggetti emblematici e di valore che venivano sepolti a fianco del morto. Scompaiono attorno alla metà del VII secolo. Gli oggetti potevano ricordare l'origine del morto, ma più spesso indicavano ciò che egli voleva essere, le sue scelte, se non i progetti dei suoi eredi. Al momento dell'invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri. Nel regno, il potere si concentrò nelle mani dei longobardi e soprattutto dei loro duchi. Nel giro di poche generazioni la convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti e l'assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica, un peso sempre maggiore alle differenze politiche, alla dipendenza dal re longobardo o dall'imperatore. Un aspetto importante dell'identità collettiva longobarda è la religione. Al momento della discesa in Italia comprendeva credenze pagane tradizionali e Cristianesimo Ariano. La loro conversione, solo parziale, al Cristianesimo Ariano, è una manifestazione della loro debole romanizzazione. Non si delineò una chiara distinzione od opposizione tra Romani cattolici e Longobardi ariani. C'erano vescovi e sacerdoti ariani al fianco di quelli cattolici, nelle stesse città. La fluidità di questa identità longobardo-ariana emerge con chiarezza nell'età di Teodolinda, essa non solo era etnicamente estranea ai longobardi ma era anche cattolica. Il re Agilulfo restò ariano, ma consentì al battesimo cattolico del figlio Adaloaldo e appoggiò l'opera missionaria del monaco irlandese Colombano. Ci fu una lunga convivenza tra Cattolici e Ariani, nel popolo e nella corte, e al contempo una tendenza alla conversione dei Longobardi al Cattolicesimo: lo stesso Paolo Diacono aggiunge che il "vescovo ariano di Ticino, Anastasio, si convertì alla fede cattolica e resse poi la chiesa di Cristo". Fu una conversione lenta, solo nei primi decenni del secolo VIII i Longobardi divennero un popolo Cattolico. Questa convivenza di due fedi ridussero rapidamente le potenzialità dell'Arianesimo come fattore di consolidamento dell'identità longobarda. Nel popolo dei longobardi infatti non si realizzò quel processo da parte dei vescovi di trasmettere ai re una cultura di governo di tradizione romana e una grande capacità di utilizzare una cultura scritta. Tutto ciò oppose, in modo discontinuo, il regno al vescovo di Roma. Questa ostilità ebbe indubbiamente un'origine politico-territoriale; periodo dove i Longobardi furono definiti eretici. La tensione politico-militare, ma anche ideologica e religiosa, non fu mai superata, neppure nell'VIII secolo quando il regno fu completamente cattolico. L'efficacia del controllo imperiale fu discontinua nel tempo e nello spazio. Costantinopoli conservò il controllo della maggior parte delle coste italiane, aree con particolare rilievo perchè solo le rotte marittime potevano garantire un collegamento tra la capitale imperiale e le sue provincie italiane. Roma d'Occidente, era un fondamentale centro religioso a cui non era riconosciuta una superiorità gerarchica. Le potenzialità politico-territoriali del papato, come centro di potere, si leggono bene seguendo l'azione di papa Gregorio Magno (590-604) tramite i suoi scritti che fanno emergere le sue idee politiche. Così in questi anni abbiamo le ultime attestazioni della carica di Praefectus Urbis (il funzionario imperiale incaricato di governare da Roma gran parte dell'Italia) carica ricoperta dallo steso Gregorio prima di divenire vescovo di Roma, a questi stessi anni risale l'ultima riunione del Senato Romano, ormai privo di funzioni reali. Gregorio e i suoi successori si trovarono quindi a rifondare il ruolo politico della città. In questi secoli tutti i vescovi erano figure centrali dal punto di vista religioso, ma anche sociale e politico: le chiese possedevano grandi ricchezze, i vescovi erano persone di cultura e prestigio, appartenenti alla grande aristocrazia. Era normale che la comunità cittadina facesse riferimento al proprio vescovo per i problemi e le esigenze. I vescovi di Roma e così anche Gregorio, usò il ricco patrimonio vescovile per garantire il regolare afflusso di grano in città, agendo come tutore dell'intera comunità. Gregorio contratterà anche con i Longobardi, definire forme di equilibrio tra due dominazioni che erano profondamente intrecciate dal punto di vista territoriale. Gregorio e i suoi successori si proposero di sostituire il potere imperiale lontano. Oltre a Roma e Ravenna, anche la Sicilia aveva un ruolo importante. La Sicilia assunse un grande rilievo fiscale ed economico nel contesto imperiale, ruolo conservato fino alla conquista araba, IX secolo. La capacità di intervento imperiale in Italia era discontinua, molto debole, come tra la metà e la fine del VII secolo, quando l'impero dovette affrontare le pressioni da parte di Arabi, Bulgari e Àvari, la cui convergenza portò a una crisi militare, perdita del Medio Oriente e del Nord Africa, fino all'assedio di Costantinopoli da parte degli Arabi nel 717. L'orientamento iconoclasta della corte imperiale determinò una profonda fattura con l'Occidente, non sul piano teologico, ma su quello di forme di culto. Questa ostilità di matrice religiosa ebbe un'incidenza significativa nell'orientamento papale a favore dei Franchi, visti come migliori difensori della chiesa di Roma. Crescita e fine del regno una delle principali fonti di studio per questa età è l'editto di Rotari, 643, ampio testo che ci permette di cogliere molti funzionamenti interni alla società longobarda: le sue stratificazioni, i funzionamenti politici e giudiziari, le condizioni personali e famigliari. Il fatto stesso di scrivere le leggi è un'azione di grande rilievo. Il regno di Rotari (636-652) da un lato estese il dominio longobardo lungo alcune aree rimaste fino ad allora in mano imperiale (Liguria e parte del Veneto), e dall'altro avviò la trasformazione delle strutture interne al regno, con un progressivo indebolimento del potere ducale e una nuova capacità di governo da parte del re. Come abbiamo visto per altri regni romano-germanici, la scrittura (in latino) delle leggi è sempre la ripresa di un modello politico romano. La questione chiave è se ci troviamo di fronte a una trascrizione di antiche consuetudini da parte dell'intero popolo longobardo o a un'opera di legislazione condotta ex novo da parte del re. Il prologo dell'editto di Rotari ci permette di leggere con grande chiarezza questo processo. Rotari pone subito al centro la propria persona, datando le leggi prima di tutto secondo gli anni de suo regno. Il testo è redatto a Pavia. Esigenza di tutelare i più deboli, dichiara di "promulgare migliorata la presente legge, che rinnova ed emenda tutte le precedenti ed aggiunge ciò che manca e toglie ciò che è superfluo". La legge non vien trascritta, ma promulgata, il suo scopo è integrare le norme ed eliminare quelle superflue. Ma un'azione innovativa, di cui Rotari si proclama autore. Si introduce il tema della memoria, ma di nuovo non è propriamente memoria delle leggi, ma dei predecessori di Rotari: sia i 16 re che lo hanno precduto, sia i suoi antenati, per 11 generazioni. Centralità del re, piena evidenza l'inviolabilità del re, vede nell'attentato alla sua vita il primo e più grave delitto. Se quindi l'editto di Rotari deve molto al passato, alle consuetudini che hanno regolato il popolo longobardo nei secoli precedenti, deve essere visto prima di tutto come un'azione nel presente, un atto di governo modulato in base alle esigenze contemporanee di un popolo da decenni radicato nel territorio italiano. Nel prologo dobbiamo vedere la potenza regia di Rotari, identificazione di un popolo come insieme delle persone sottomesse allo stesso re. L'evidente esigenza di Rotari di fondare un ordine pubblico, ovvero di controllare tutti i sudditi. Tutto ciò fa pensare che l'editto fosse destinato ad applicarsi a tutta la popolazione presente nel regno, a tutti i sudditi di Rotari. Rotari ricorda il passato , ma vuole intervenire nel presente, per questo le sue leggi sono una fonte particolarmente preziosa per leggere le condizioni dell'Italia longobarda a metà del VII secolo. Era una società impoverita, in larga parte rurale, in cui il principale fondamento della ricchezza era costituito dalla terra. Era un mondo dominato dall'elitè militare, che articolava la propria capacità di agire sul piano militare e politico anche grazie all'uso delle fedeltà personali: compaiono i gasindii, persone al servizio dei duchi, con compiti specificamente militari, ma l'unica distinzione giuridicamente rilevante era quella tra servi e liberi. Da Rotari in poi furono promulgate altre leggi dai re Grimoaldo (662\671), Liutprando (712\744), Ratchis (744\749) a Astolfo (749\756). I loro interventi produssero testi più ridotti rispetto a quello di Rotari. Il dato davvero rilevante è che l'attività legislativa, durante gli ultimi decenni del VII secolo e soprattutto lungo il seclo seguente, divenne un'azione normale dei re. Abbiamo visto due assi fondamentali compiuti da Rotari: l'ampliamento territoriale del regno e soprattutto la scrittura del'editto, non si tratta di fenomeni isolati, ma dell'avvio di un processo di un rafforzamento del potere regio. L'espazione territoriale fatta da Rotari fu continuata da Grimoaldo, ampliò il dominio sul Veneto e Puglia. Tra i longobardi comunque rimaneva il potere dei duchi; lungo il VII sec, al fianco del tradizionale meccanismo di elezione regia, emerse una tendenza dinastica. Una tendenza a conservare la funzione regia all'interno del gruppo parentale. Appare anche ricorrente il richiamo alla copia regia costituita, all'inizio del VII secolo, da Agilulfo e Teodolinda, con i re seguenti erano in qualche modo parentati. Ma ciò non arrivò mai a prevalere sul sistema elettivo, potè forse solo condizionarlo. La seconda metà del VII sec evidenzia quindi una serie di mutamenti che delineano una tendenza al rafforzamento del potere regio, sia sul piano militare sia su quello politico. Questa tendenza si accentuò in modo significativo nel secolo seguente, in particolare sotto il regno di Liutprando, considerato un punto di svolta. Si rafforzano le tendenze dinastiche, Liutprando succedette al padre, lui stesso passò la corona al figlio. Quello di Liutprando fu un regno particolarmente lungo, più di 30 anni, permise di incidere su diversi piani, azione militare e legislativa. Militarmente agì su un orizzonte italiano, nella prospettiva di costruire un dominio longobardo sull'intera penisola. Non arrivò mai però a dominare l'Italia intera. Un secondo aspetto in cui il suo regno ebbe un grande rilievo fu quello legislativo. Liutprando non fu l'unico re a integrare l'editto di Rotari, ma fu colui che intervenne in modo più ampio, con più di 150 articoli di legge. Vediamo emergere anche una chiara ideologica cattolica del regno, impegnato a estirpare usanze di matrice pagana e di proteggere le chiese. Trasformazione dell'ideologia del potere regio, che si presentava ora come cattolico, protettore della fede e delle chiese. Tuttavia questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte e stabile collaborazione con i vescovi, impedito da diversi fattori: la lunga tensione religiosa tra cattolici e ariani, la gravitazione dell'episcopato italiano attorno alle sedi di Ravenna e soprattutto Roma, la persistente conflittualità politico-territoriale tra aree longobarde e imperiali. La mancata collaborazione dei vescovi privò il regno di un sostegno materiale, politico e culturale. Con Liutprando divennero pienamente visibili alcuni processi di consolidamento del potere regio. Di particolare rilievo è l'istituzione dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio, ma il cui impatto fu significativo anche sul piano politico: il re potè infatti disporre di una rete di funzionari dispersi nel regno che, se pur formalmente privi di compiti giurisdizionali, andarono a costituire un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi. Al contempo i re valorizzarono le forme di fedeltà personali. I gasindii (ovvero i fedeli armati) sono attestati al seguito di duchi e di altri potenti, ma le leggi del secolo VIII, sotti i re Luitprando e Ratchis, si concentrarono a definire lo status speciale dei gasindii regi, di coloro che si erano legati alla persona del re tramite uno speciale rapporto di fedeltà. Gastaldi e gasindii andorono a costituire a diverso titolo una rete di fedeltà raccolta attorno ai re, divennero rappresentanti del re, un compito che i duchi non assunsero mai. VIII secolo, cresce il potere del re nei confronti dei duchi. Nel contempo si era completato il processo di integrazione tra i Romani e i Longobardi. Leggi emanate da re Astolfo nel 750, la normativa sugli obblighi militari, modulati in base alla ricchezza fondiaria o mobile (nel caso dei mercanti), senza alcun riferimento a una distinzione etnica. Se al momento dell'invasione l'attività militare era una prerogativa del popolo sceso in Italia al seguito di Alboino, due secoli dopo era un compito di cui dovevano farsi carico tutti coloro che abitavano nel regno e dipendevano dal potere regio. I Longobardi dell'VIII secolo sembrano costituire un regno militarmente forte. Negli anni centrali dell'VIII secolo l'equilibrio politico tra Franchi, Longobardi e papato si ruppe definitivamente, prima di tutto per un cambiamento da parte del papato: la tensione e la ricorrente conflittualità tra Roma e i Longobardi arrivò a una rottura insanabile, e l'orientamento papale si saldò con la potenza crescente del regno franco, Pipinidi\Carolingi, ascesi al trono nel 751, con l'appoggio del papato. I papi che si succedettero videro nei re franchi dei validi protettori della chiesa romana, a sostituire un Impero ormai incapace di intervenire, e a contrapporsi a un regno longobardo le cui ambizioni sull'Italia centrale erano evidenti. L'alleanza tra il papato e i Carolingi si concentrò in due spedizioni: nel 754 Pipino il breve scese in Italia, sconfisse il re Astolfo e tolse ai longobardi la regione di Ravenna e la diede alla chiesa di Roma. Vent'anni dopo il figlio, Carlo Magno, sconfisse di nuovo i Longobardi definitivamente: deposto il re Desiderio, si impossesò del regno unendo l'Italia centro-settentrionale al dominio franco. La conquista franca pose fine al regno, ma non alla storia longobarda. Carlo si intitolò: rex Francorum et Longobardorum. Pavia fu ancora la capitale di questo regno, fino all'XI secolo. Ma i Longobardi dopo il 774 non vissero solo nella memoria: nell'Italia meridionale, l'antico ducato di Benevento sopravvisse come dominazione autonoma. Solo nel secolo XI i Normanni ricostituirono l'unità politico-territoriale dell'Italia del sud, riunendo le piccole dominazioni di origine longobarda, bizantina e prendendo poi la Siclia, che nel IX secolo era in mano araba. 7. Impero Carolingio, ecclesia carolingia l'Impero Carolingio non solo fu la realtà politica più ampia del medioevo occidentale, ma trasformò in profondità molti aspetti della vita associata: le reti di scambio, il ruolo delle chiese e del papato, i ultimi. L'efficacia del potere carolingio si fondava sul coordinamento dell'aristocrazia laica e delle chiese. Per l'aristocrazia laica, la funzione chiave era quella dei conti, funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio, con guida militare, giustizia e prelievo. Alcune aree, poste ai confini o militarmente delicate, erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, e affidate ai marchesi, l'abbiamo visto per: Austria, Spagna e Friuli. Ma al di là delle dimensioni dei distretti e di una più chiara connotazione militare, il potere dei marchesi non era diverso da quello dei conti. Conti e marchesi, figure chiave dell'apparato carolingio, erano esponenti di grandi gruppi parentali aristocratici. Gli aristocratici assumevano funzioni di conte o di marchese in aree lontane dalle proprie regioni di provenienza. La dove assumevano le funzioni di conte, la sua potenza derivava dalla delega ricevuta, non dalla ricchezza personale. In questi decenni la carica di conte era temporanea. Evoluzione a partire dagli ultimi decenni del IX secolo, fino a trasformarsi in concezioni vitalizie ed ereditarie. Questo permise una progressiva convergenza tra potenza dinastica (il patrimonio del conte) e funzionariale (i compiti che assolveva per conto del regno): chi governava un territorio per decenni, consolidava nella stessa area anche la propria forza personale. Ma questa evoluzione ebbe inizio non prima della seconda metà del IX secolo. I legami tra l'imperatore e le realtà locali erano garantiti anche da altri funzionari, i cosiddetti missi regis, gli inviati del re. Le loro competenze sono meno chiare e definite: avevano un ambito territoriale specifico di riferimento, altre volte no; si sovrapponevano all'ordinamento comitale; in altri sembra fossero gli unici rappresentati dell'imperatore. Missi come occhi, orecchie e voce dell'imperatore. È importante sottolineare come l'apparato di governo non fosse fatto di sconosciuti reclutati pe la loro competenza, ma di fedeli del re. Il potenzionamento dei Pipinidi all'interno del regno franco, tra VII e VIII secolo, si era attuato in misura rilevante grazie alla loro capacità di coordinare l'aristocrazia austrasiana in un sistema clienterale con chiare implicazioni militari. Queste forme di fedeltà divennero più definite nella seconda metà dell'VIII sec, sotto i Pipino III e Carlo Magno, rapporto vassallatico. Il vassallo era un uomo che giurava fedeltà a un potente, impegnandosi a servirlo e a combattere per lui, ottenendone protezione e un sostegno economico. Una delle prime e più chiare attestazioni è infatti rappresentata dal legame che unì il duca di Baviera Tassilone a Pipino: gli Annali del regno dei Franchi. Si presentò alla corte di Pipino e, "secondo l'uso franco, si raccomandò a lui in vassallaggio", mettendo le proprie mani in quelle del re e giurando fedeltà: Immixtio manuum (il momento in cui il vassallo poneva le sue mani tra quelle del signore), sottomissione di un duca a un re. La rete di fedeltà attraversava l'aristocrazia franca: ampie clientele vassalliche del re, ma anche dei maggiori aristocratici, la cui potenza era fatta di forza militare. La stessa forza dei re carolingi era costituita dalla capactà di coordinare al proprio seguito l'aristocrazia franca e di tradurre questo coordinamento in forza militare, ponendosi al vertice di rapporti vassallatici. Il vassallaggio divenne quindi un'integrazione del sistema politico franco. Il concetto di Reichsadel (aristocrazia del regno), mette in luce come, se le famiglie erano potenti per le proprie basi patrimoniali e clientelari, solo attorno al re trovassero una coesione tale da renderle un corpo sociale unitario. I vassalli regi furono l'ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi: non tutti però lo divennero. Essere un vassallo del re era un legame personale, con obblighi di fedeltà e impegno militare. Il legame tra il re e i suoi funzionari era rafforzato dal vincolo personale che li univa, e al contempo la funzione come conti o marchesi era uno sviluppo del rapporto. I rapporti vassallatici e l'apparato funzoinariale devono essere considerati anche come parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. Da un lato dobbiamo constatare che gli imperatori si mossero in una prospettiva statale, cioè di costruire un apparato di governo con un sistema di deleghe e di responsabilità centrali e locali; dall'altro lato prendiamo atto che la sostanza di cui era fatto questo governo era il coordinamento della grande aristocrazia. La forza Carolingia nasceva infatti dalla capacità di coordinare l'autonoma potenza aristocratica, coinvolgendola in una rete di clientele e di funzioni, limitandone il potere in forme compatibili con la superiorità regia. Il re era potente perchè coordinava in modo efficace un'aristocrazia che disponeva a sua volta di ricchezza e potere in equilibrio precario, ma efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo. Si indebolì quindi il rapporto di fedeltà. Nelle fasi di maggior forza il regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un rapporto diretto con i liberi, i pauperes cioè gli inermi, in opposizione ai potentes. In diverse occasioni contadini che si presentavano davanti alla giustizia del conte o del palazzo regio per chiedere di essere difesi da un potente (chiesa) che tentava di sottometterli e asservirli. Erano sistematicamente sconfitti, ma è dovuto a due elementi strutturali: da un lato la solidarietà che univa il re ai potenti e che orientava a loro favore le decisioni della giustizia; dall'altro il dato ovvio della conservazione documentaria, solo le grandi chiese avevano le capacità culturali e organizzative per gestire un archivio in cui conservare gli atti utili a provare i loro diritti, sempre sentenze a loro favorevoli. Le chiese Carolingie Dall'800 in poi si definì un intimo e stabile rapporto di cooperazione tra papato e Impero, che di fatto entrò in crisi solo nel contesto della riforma ecclesiastica dell'XI. I chierici non potevano giurare e non potevano combattere nè portare armi: quindi il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Nè i vescovi divennero conti: le funzioni di governo territoriale dell'Impero carolingio furono sempre affidate ai laici. Vediamo vescovi in qualità di Missi regi, compiti più indefiniti, di componente giudiziaria e politica, di mediazione tra il re e la società locale, prevaleva su quella prettamente militare. Erano i vescovi in quanto tali a considerarsi e ad agire come collaboratori del re. Imperatore e vescovi, con strumenti diversi, convergevano verso lo stesso duplice fine, ovvero la giustizia in terra e la salvezza dopo la morte; impegno a cooperare con l'imperatore per garantire giustizia e salvezza, ovvero per governare la società. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculariai del clero, come la capacità di orientare le anime dei fedeli verso l'ubbidienza al re, o le capacità culturali e di elaborazione dei testi necessari al governo (leggi, cronache, epistole...); ma erano in gioco anche le concrete risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e le loro clientele vassalliche. Così nelle leggi che preparavano le grandi spedizioni militari, l'imperatore poteva dare ordine ai propri vassalli a quelli di conti e marchesi, ma anche a quelli di vescovi e abati, ritenuti forza armata del re. I monasteri erano nuclei di sanità, centri di preghiera e di ascesi, la cui spiritualità si rifletteva sul violento mondo circostante. Erano luoghi importanti per l'elaborazione culturale. Tutti questi aspetti (culturali, religiosi ed economici) devono essere tenuti presenti per comprendere l'impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò nella riforma promossa da Ludovico il Pio e attuata da Bendetto di Aniane, che consolidò la disciplina interna ai monasteri e impose la regola di Benedetto come unico testo normatico di riferimento. In una serie di concili indetti da Ludovico il Pio e tenuti ad Aquisgrana, i chierici di corte promossero la definizione di un testo normativo destinato a regolare le forme di vita in comune del clero. Questa regola non veniva mai applicata in modo sistematico, fu una delle espressioni della volontà imperiale di intervenire direttamente all'interno delle forme di vita religiosa, ulteriore testimonianza del fatto che per questi secoli sarebbe impossibile ragionare nei termini di un rapporto tra Chiesa e Stato come due enti separati. Appare chiaro come le chiese non venissero concepite come una cosa estranea al potere imperiale. Le ampie donazioni regie alla chiesa non possono quindi essere viste come delle totali alienazioni, ma come un trasferimento di risorse dal fisco alle chiese, sempre restando all'interno del sistema di potere che faceva capo all'imperatore. I diplomi di immunità, concessi di norma a chiese, più raramente a singoli individui, vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o per comandare. Uno spazio inviolabile, un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava senza dubbio di un'ampia esenzione. Erano forme di equilibrio tra i diversi elementi (l'apparato funzionariale, il patrimonio fiscale, le chiese) che andavano a costituire la forza degli imperatori, ed erano quindi strumenti del governo regio. Le grandi solidali con il potere imperiale, collaborarono a costruire la memoria del popolo franco e della dinastia carolingia, "costruire la memoria" significa operare alcune scelte narrative e ideologiche ben precise. Sono le chiese a offrire ai nostri occhi la rappresentazione del potere carolingio. Occorre sottolineare come l'ampiezza del dominio carolingio si riflettesse sull'ampiezza del reclutamento degli intelettuali di corte. Era un sistema di circolazione di uomini e idee tra la corte imperiale e le chiese interne al dominio carolingio, ma che coinvolgenva anche nuclei di potere e di cultura esterni all'impero; una circolazione fortemente polarizzata, con intelettuali che soggiornavano alla corte carolingia e di qui ripartivano portando con sè un bagaglio di idee e di memoria storica. Paolo Diacono che soggiornò a lungo alla corte di Carlo, e per lui scrisse varie opere. Quando Paolo torna in Italia scrisse la storia dei Longobardi. La cultura di corte operava quindi su ambiti diversi: le leggi e gli atti di governo; la storia dei Carolingi e delle singole Chiese e dei popoli sottomessi, l'elaborazione delle forme liturgiche. Stumentale a tutto ciò era la lingua latina. Nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari: un concilio del 813 impose ai chierichi di tradurre le proprie omelie in rustica romana lingua aut Thoetisca (volgare romanzo o germanico), per andare incontro alle capacità linguistiche dei fedeli. Strasburgo dell'842, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si scambiarono giuramenti nelle rispettive lingue. Ma la lingua del potere\chiesa rimaneva il latino. Il X secolo fu una fase di intensa copiatura e circolazione dei testi antichi. Dall'Impero ai regni L'Impero di Carlo Magno efficace equilibrio tra la potenza aristocratica e il coordinamento regio. Nell'814 morte di Carlo Magno. Gran parte del IX secolo può essere letto come una fase di continuità nei funzionamenti politici: il potere regio fondava la propria forza sul coordinamento efficace dell'aristocrazia e delle chiese. L'articolarsi dell'Impero Carolingio in regni distinti, proceso che si attuò negli anni centrali del secolo. La continuità da Pipino III a Ludovico il Pio aveva assicurato la presenza di un solo re e poi imperatore dal 751 al 840. Il problema si pose a Carlo nei primi anni del secolo, di fronte alla prospettiva di una divisione tra i sue tre figli: – Carlo a cui destinò la parte centrale del dominio; – Ludovico insediato in Aquitania – Pipino a cui assegnò l'Italia, già stato incoronato re nel 781 Non si trattò di una semplice spartizione, ma di un atto con implicazioni più complesse: la Divisio Regni dell'806 individuò diversi regni all'interno del dominio carolingio, ma insistette al contempo sul totum corpus regni (l'intero corpo del regno). La morte precoce dei due figli fece in modo che l'unico erede fosse Ludovico il Pio, ma questo non evitò tensioni interne al gruppo famigliare: il nuovo imperatore non dovette solo gestire le ambizioni dei propri figli, ma anche quelle di Bernardo, re d'Italia, figlio del fratello Pipino. Ludovico affrontò la questione nei primi anni del regno, con la Ordinatio Imperii (l'ordinamento dell'Impero) dell'817, affermò con maggiore forza l'idea di unità dell'Impero e di fatto ruppe con la tradizione franca di spartizione, nominò il primogenito Lotario coimperatore e suo unico erede, dando ai figli Pipino e Ludovico territori minori, Aquitania e Baviera. Scelta che creò tensioni, portò alla ribellione del nipote Bernardo, che si vede escluso da qualsiasi ereditarietà e raccolse intorno a sè degli aristocratici italici. Bernardo fu imprigionato e accecato. Il radicamento italico, prima di Pipino, poi del figlio Bernardo, aveva dato vita a una rete clienterale principalmente italica, che si andò a contrapporre all'imperatore. Se la ribellione di Bernardo fu rapidamente sconfitta, un ulteriore motivo di squilibrio all'interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita di Carlo il Calvo nell'823, figlio di Ludovico il Pio e della seconda moglie Judith, egli agì per garantire un futuro politico al figlio. Il regno di Ludovico fu contrassegnato da ricorrenti tensioni all'interno della famiglia carolingia, il punto più alto fu rappresentato dagli avvenimenti dell'833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico) che si sentivano minacciati dal ruolo crescente di Carlo e arrivarono fino a far deportare il padre in un solenne concilio in cui i vescovi franchi costrinsero l'imperatore a fare penitenza per i suoi peccati, per poi dichiararlo indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Le discorde tra i figli permisero a Ludovico di tornare sul trono già l'anno successivo: fu un potere pieno. Nell'840, alla morte di Ludovico il Pio, le tensioni sfociarono in un conflitto aperto, che oppose Lotario, Ludovico il germanico e Carlo il Calvo (il fratello Pipino era già morto). Tre passaggi significativi: – la battaglia di Fontenoy dell'841, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli, la battaglia fu un massacro – i giuramenti di Strasburgo, che nell'842 sancirono l'alleanza tra Ludovico e Carlo contro Lotario. Carlo prestò giuramento in tedesco e Ludovico in lingua romanza. Ognuno fece in modo di essere compreso dai seguaci dell'altro. Questo giuramento si esprime su un piano concreto e visibile la presa d'atto dell'esistenza di spazi di civiltà diversi, riuniti nei decenni precedenti nella grande costruzione politica di Carlo Magno e Ludovico il Pio. – la pace di Verdum dell'843, che pose fine al conflitto. I fratelli spartitorno l'Impero: a Carlo andò l'attuale Francia; a Ludovico il Germanico la Germania e Lotario dall'Alsazia fino all'Italia. Fu Lotario a mantenere il titolo imperiale. Ciò che appare mutato è il concetto stesso di Impero: non era una forza di coordinamento unitario. Mutamento di grande rilievo, non solo si rinnovò, si rese operativa la tradizione franca di spartizione del regno, ma si rinunciò esplicitamente a un'idea di Impero come struttura operativa unitaria. Il potere regio non cambiò natura, Lotario e i suoi fratelli governarono in modo non diverso dal padre, ma cambiò drasticamente il quadro territoriale. La seconda metà del secolo fu segnata dall'articolarsi della famiglia carolingia, centralità assunta da Carlo il Calvo, con coronazione imperiale nell'875, poco prima della morte nell'877; i figli di Lotario assunsero in vari momenti i poteri regi in Italia, Provenza e in Lorena. Mentre i figli di Ludovico il Gremanico si affermarono in Baviera e nell'area tedesca. Nell'888 un figlio di Ludovico, Carlo il Grosso, segnò con la sua morte la fine della dinastia, negli anni successivi i Carolingi salirono a tratti sui troni dei diversi regni, ma non furono più la dinastia dominante. 4 ampie fasi della storia dei Pipinidi\ Carolingi: 1) dall'inizio del VII secolo e fino al 751 furono una grande dinastia dell'aristocrazia austrasiana 2) dal 751 al 840 (con Pipino III, Carlo Magno e Ludovico il Pio) solo un singolo re controllava tutto il regno franco 3) dall'840 (morte Ludovico il Pio) all'888 (morte di Carlo il Grosso) il sistema di potere Carolingio si articolò in regni distinti 4) all'888 al 987 (morte senza eredi di Ludovico V, re di Francia) i Carolingi furono una delle dinastie che, nei diversi regni, si contendevano il potere, in una fase particolarmente conflittuale. 8. Il Mediterraneo bizantino e islamico tra VII e VIII secolo si assistette a una profonda trasformazione dei quadri di vita di gran parte del Mediterraneo meridionale e orientale: la nascita dell'Islam fu una trasformazione religiosa e la ridefinizione di sistemi politici di alcuni territori. Dalla Siria alla Spagna, larga parte delle coste Mediterranee furono secolo saranno segnati da nuove contese teologiche e conflitti di natura gerarchica, fino ad arrivare alla rottura delle due chiese nel corso del secolo XI. Uno dei fattori che incitarono il vescovo di Roma ad allearsi con i franchi. Ma questa scelta papale aveva alle spalle anche un concreto fondamento geo-politico, ovvero la progressiva marginalizzazione dell'Impero bizantino rispetto al territorio italiano. Le fonti tra VIII e IX secolo mostrano che molti dei territori italiani, appartenenti all'Impero bizantino seguirono strade che li portarono verso forme di ampia autonomia. La più solida base italiana dell'impero bizantino fu la Sicilia, che divenne la principale provincia cerealicola dell'impero; conquistata dall'islam lungo il IX secolo. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 sì compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayydi furono deposti da una nuova dinastia, gli Abbasidi, discendenti da uno zio di Maometto. Gli Abbasidi restarono al potere fino al XIII secolo, segnarono fin dai primi anni un mutamento importante rispetto agli equilibri di potere costruiti dagli Omayydi: spostamento della capitale a Baghdad. Nell'età Abbaside, l'articolazione territoriale ed etnica del califfato si tradusse in una sua più chiara articolazione politica: in diversi contesti gli emiri (delegati del califfo a governare grandi territori) assunsero una piena autonomia d'azione. Così nell'800 il califfo Harun al- Rashid non solo delegò il governo del Nordafrica all'emiro Ibrahim al-Aghlab, ma gli concesse di trasmettere la dignità all'interno della propria famiglia, che conservarono un potere largamente autonomo per un secolo e realizzarono la conquista della Sicilia. Alla fine del X secolo fu l'Egitto a rendersi autonomo, grazie alla dinastia dei Fatimidi, fino al XII secolo. Penisola iberica, con dominio islamico dall'inizio dell'VIII secolo, definito alla metà del secolo, quando prese il potere un principe omayyade sfuggito al colpo di Stato che aveva portato gli Abbasidi al potere califfale. L'emirato al-Andalus convisse a lungo con i regni cristiani della penisola in una dinamica non necessariamente conflittuale; ma seppe coordinare una popolazione molto varia. Questa grande capacità di governo permise all'emirato di affermarsi come una delle maggiori potenze europee del secolo X. Gli emiri di al-Andalus assunsero il nome di califfo nel 929, diretta concorrenza con gli Abbasidi e i Fatimidi d'Egitto. Lungo il IX secolo, si affermò un secondo importante nucleo di dominazione islamica sulle coste settentrionali del Mediterraneo, con la conquista della Sicilia. Solo alla fine dell'800 gli islamici riuscirono a prenderla; la presenza stabile in Sicilia si trasformò lentamente in un dominio organizzato e unitario affermando per alcuni decenni il controllo islamico su Bari. A partire dal 916\17 la Sicilia fu sottomessa alla potente dinastia dei Fatimidi, ma lo sposatemtno verso l'Egitto dei loro interessi, lasciò spazio a dinastie locali che conservarono un dominio autonomo fino alla fine del secolo XI, quando l'isola fu conquistata dai Normanni e riunita all'Italia. Dominio bizantino del IX e X secolo, nell'867 salì al trono Basilio I, i cui discendenti conservarono il potere fino al 1025 e rafforzarono Bisanzio; in particolare la dinastia realizzò un ampliamento dell'Impero. Gli imperatori basilidi costruirono una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti, un insieme di territori formalmente autonomi ma che rientravano pienamente nell'orbita di influenza dell'Impero, ne subivano l'egemonia e un controllo indiretto. Su due aree (Europa orientale e Italia meridionale) con vicende diverse, ma entrambe furono l'oggetto della pressione egemonica degli imperatori bizantini e carolingi. Fu una divisione politica tra due imperi tendenzialmente egemonici, una divisione tra le chiese di Roma e di Costantinopoli, si raggiunse una forma di compromesso nel IX secolo, con superiorità di Roma. Filioque: il Credo elaborato a Nicea nel 325 aveva subito un cambiamento alla versione latina, recitava che lo spirito santo procede dal padre e dal figlio, posizione inaccettabile per il credo orientale che pensava che procedesse solo dal padre. Oggetto delle pressioni concorrenti dei due imperi furono gli Slavi. Due sono le dominazioni da ricordare i Bulgari e la Grande Moravia. I Bulgari esercitavano una pressione militare sui confini imperiali lungo l'VIII secolo per poi subire un processo di assimilazione religioso-culturale nella seconda metà del IX sec., ma i decenni successivi furono segnati da una ripresa dell'azione militare contro l'impero, nei primi anni del secolo X culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace largamente favorevole ai Bulgari, con un accordo matrimoniale tra la figlia del Khan Simeone e l'imperatore minorenne. Il patto fu però cancellato dall'affermazione a Costantinopoli di un nuovo imperatore, Romano Lecapeno, e il potere dei Bulgari declinò dopo la morte di Simeone. Tra IX e X secolo andò ad affermarsi la Grande Moravia, un dominio esteso tra attuale Germania, Boemia e Ungheria; per poi dissolversi nel X secolo. Queste diverse dominazioni slave si orientarono in questi secoli verso il Cristianesimo. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma ne temevano alcune implicazioni politiche. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: negli anni centrali del IX secolo operarono nelle terre slave due fratelli missionari, Costantino e Metodio, esperti conoscitori della lingua slava, che crearono una grafia apposita per la lingua. Con questa scrittura poterono tradurre i testi sacri e liturgici. IX secolo doppio mutamento per territorio bizantino verso Italia: da un lato il neonato Impero carolingio attirò nella sua orbita i territori bizantini del centro-nord, dall'altro la conquista islamica della Sicilia. Basilio I non potè intervenire nè in Sicilia, nè nelle terre in mano carolingia; cercò di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree penisolari, consolidando il proprio controllo tra Puglia e Calabria. Rafforzamento militare ma anche riordinamento amministrativo, che estese all'area italiana l'ordinamento tematico che si stava diffondendo in tutto l'Impero. Venezia, Ravenna, Roma, Benevento longobardo e la Sicilia rimasero fuori dalla portata dell'Impero biz. 9. Società e poteri nel X secolo I territori già compresi nell'Impero carolingio, nel X secolo seguirono percorsi divergenti, ma coerenti: divergenti perchè i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche; coerenti, perchè le principali linee di tendenza furono comuni. "Età postcarolingia"; cogliere quali equilibri sociali, funzionamenti politici e forme religiose vennero costruiti nel X secolo. Per l'Impero carolingio si ripropone infatti lo stesso rischio dell'Impero romano: i secoli dopo dopo della fine dell'Impero sono spesso ridotti a una lettura in termine di declino. Nel X secolo vediamo tramontare definitivamente la struttura imperiale unitaria, che aveva rappresentato una intelaiatura politica, istituzionale e culturale che attraversava gran parte dell'Europa occidentale; non si tratta di negare questo declino, ma di rillegerlo cercando anche e soprattutto le novità, i meccanismi di costruzione del potere e della società, che nel X secolo assunsero forme oggettivamente nuove. Caso italiano, X e XI sono spesso visti come un periodo di declino dell'ordinamento carolingio o come preparazione dell'età comunale; in rilievo i peculiari funzionamenti di questa fase, in cui gli elementi residui dell'ordinamento carolingio si unirono con una liberissima sperimentazione di forme di potere totalmente nuove. I mutamenti dei poteri comitali l'Impero mutò natura dall'interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e per un cambiamenti capillare dei comportamenti politici dell'aristocrazia e delle chiese. Tra la fine del IX secolo e la metà del X secolo le terre dell'Impero furono colpite da nuove minacce militari. A patire dalla metà del IX secolo le divisioni dell'Impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia. Attorno al re diversi rapporti vassallici e incarichi funzionariali, due sistemi concettualmente separati che si intrecciarono a dar vita a un rapporto di efficace coordinamento aristocratico attorno al sovrano. Era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione: i servizi (militari, di governo) e la redistribuzione di ricchezze che il re dava agli aristocratici. Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò, i re non potevano più disporre di un continuo afflusso di nuove terre. Le divisioni e i conflitti facevano si che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell'appoggio militare aristocratico e che i più grandi gruppi parentali fossero spesso contesi tra i diversi re. Nella contrattazione politica tra i re e i grandi aristocratici , l'equilibrio si era spostato a favore di questi ultimi: i re avevano bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarlo, furono costretti a cedere alle loro richieste, essi chiedevano la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. A partire dagli ultimi decenni del IX secolo i singoli funzionari restavano sempre più a lungo nella propria sede e trasmettevano la funzione al figlio. I conti e i marchesi erano sia i funzionari che i vassalli del re, senza che le due cose si confondessero: essere vassallo del re era cosa ben diversa da essere suo funzionario. Ma non era così nei decenni successivi: dobbiamo considerare che da un lato la carica di conte era si un servizio del re, ma era anche un'opportunità, una risorsa politica ed economica; e dall'altro lato che i re più deboli, non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e quindi si appoggiavano sui legami personali, sulle clientele vassalliche. Perciò le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono a sovrapporsi. Solo all'inizio dell'XI secolo una carica comitale era concessa in beneficio, ma già nei decenni precedenti la distinzione sembra perdere chiarezza e si assistette a una evoluzione parallela dei legami vassallatici e degli incarichi funzionariali. Il capitolare di Quierzy-Sur- Oise dell'877, una legge ingiustamente famosa, perchè di fatto Carlo il Calvo non deliberò nulla di rivoluzionario, ma a noi resta sicuramente importante, perchè dal testo della norma possiamo cogliere quale fosse la prassi politica diffusa. Ciò che Carlo definì in queste norme era una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il conte morisse mentre il figlio era impegnato in spedizione con l'imperatore. Si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata ai parenti del conte, ai suoi funzionari, o vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale. È direttamente connessa alla rivendicazione da parte dell'imperatore del suo diritto di scegliere chiunque egli volesse come nuovo titolare del comitato. Appare chiaro che nella prassi e nella cultura del tempo il successore naturale di un conte era sempre il figlio, a meno che ne fosse impedito. Al contempo è importante notare un passaggio breve ma significativo in cui, al termine delle disposizioni relative ai conti, Carlo aggiunge che "ugualmente dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli": conti e vassalli non erano la stessa cosa, si conservava con piena chiarezza la distinzione. Facevano parte dello stesso ampio processo di ridefinizione dei rapporti tra il re e i grandi che si raccoglievano attorno a lui. Se quindi nè il capitolare di Quierzy, nè nessuna altra legge deliberò mai la stabilità o l'ereditarietà delle funzioni, la prassi politica si orientò in modo netto in questa direzione e la stabilità ereditaria della funzione rese possibile un secondo processo di grande rilievo, la concentrazione del patrimonio del conte all'interno delle aree a lui governate. Tra la fine del IX secolo e inizio del X secolo vediamo come la lunga durata delle cariche e la loro trasmissione ereditaria mutarono profondamente le politiche di queste dinastie, favorendo il loro radicamento nelle regioni governate. La funzione comitale e la potenza dinastica si fusero, arrivarono a convergere sugli stessi spazi. Comportò un ulteriore mutamento, dato che, nel momento in cui il conte era anche un grande proprietario all'interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più attento e più presente nelle aree in cui disponeva di terre, chiese, castelli e vassalli, ed era assai più distaccato dalle zone in cui non possedeva nulla. Questo astensionismo dei conti da alcuni settori del comitato aveva un validissimo motivo giuridico, quando riguardava le terre delle chiese immunitarie: i diplomi di immunità imponevano infatti agli ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese; un allontanamento da queste aree per concentrarsi sulle zone in cui il suo intervento era più facile. Così questa stessa tendenza si riproponeva per le aree in cui si concentravano grandi possessi di altre dinastie aristocratiche, che non potevano fruire dei diritti connessi all'immunità, ma nei suoi confronti il conte era solidale (perchè eano suoi parenti, vassalli o alleati...). Sul lungo periodo questi comportamenti portarono alla formazione di poteri locali, ma già nel X secolo si constata come il territorio del comitato non fosse tutto uguale. Tra queste dinastie la famiglia comitale spiccava per rilevanza, per legittimità e ampiezza del patrimonio; ma anche i conti, come le latre dinastie, erano specificamente attenti a quei settori del territorio in cui si concentravano i loro possessi. Possiamo cogliere alcune implicazioni, diploma concesso a un conte nel 940. Il conte Aleramo ottiene un grande possesso (la corte di Foro), pieno potere pubblico sul villaggio di Ronco. I due villaggi sono posti all'interno della circoscrizione governata dallo stesso Aleramo, su cui egli già disponeva dell'intero potere, ma da questo momento questi diritti giurisdizionali saranno suoi non in quanto funzionario delegato dal re, come parte del suo patrimonio: se anche in futuro il re imporrà un altro conte al suo posto, il potere giurisdizionale su Ronco resterà nelle mani di Aleramo e dei suoi eredi. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore la difficoltà di controllare comunità complesse, indussero e costrinsero gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Il potere dei conti era discontinuo, in alcune parti addirittura assente. L'esito generale fu quindi un cambiamento strutturale sia nel legame tra il regno e realtà locali, sia nel rapporto tra aristocrazia e territorio e in specifico tra i grandi funzionari regi e i distretti a loro affidati. Tutte queste evoluzioni ci mostrano un indeblimento del controllo del re sul territorio e suoi propri funzionari, ma anche un discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori. È questo il contesto in cui dobbiamo situare le nuove minacce armate che colpirono l'Europa occidentale dalla fine del IX secolo. Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni il periodo tra gli ultimi decenni del IX secolo e la metà del X fu segnato da un'intensa mobilità di gruppi armati che dall'esterno dell'Impero carolingio partirono per una serie di saccheggi nelle ricche terre dell'Italia, Francia, Germania e una lunga operazione di conquista dell'Inghilterra. La crisi del potere carolingio alla fine del IX secolo fu prima di tutto una crisi della capacità imperiale di controllare militarmente i territori, lasciò campo aperto a eserciti nemici di piccole bande che compivano incursioni rapide, saccheggio, ricondotte a tre unità etniche fondamnetali: – Normanni, provenienti dalla Scandinavia – Ungari, insediati nelle steppe dell'attuale Ungheria – Saraceni, erano bande pirata attivi nel Mediterraneo i Saraceni erano il gruppo dai contorni più indefiniti e sfuggenti; erano identificati come pirati islamici provenienti dalle coste meridionali del Mediterraneo, negli ultimi decenni è stata messa in dubbio una così chiara identità etnica e religiosa. Ci troviamo di fronte a gruppi etnicamente misti, impegnati in attività di saccheggio via mare, con incursioni a partire dagli anni 60 del IX secolo, ma alla fine dle secolo un salto di qualità importante con la costituzine di basi permanenti sulle coste settentrionali del Mediterraneo, tra cui Fraxinetum, nella baia di Saint-Tropez. Spedizioni che cessarono solo dopo il 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si allearono per distruggere la base saracena. Non fu un tentativo di espanzione territoriale della dominazion islamica, ma l'accentuarsi di una pirateria marittima. Le fonti che la descrivono sono costituite esclusivamente dalle narrazioni prodotte nelle chiese e nei monasteri che subirono le razzie. Dove scrissero principalmnte i danni le violenze e il terrore che provcarono. La paura è un dato di fondo che dobbiamo sottolineare: nella metà del X secolo era diffusa la paura, come se fosse chiaramente percepita l'insufficenza della difesa militare contro bande violente in grado di muoversi con notevole libertà nei territori meridionali dell'Impero carolingio. È la paura dei pagani. Ungari, tra la metà del IX secolo e la metà del X secolo si sono contate una trentina i pesanti incursioni di cavalieri ungari tra la Germania e l'Italia settentrionale. Era diversa la modalità d'azione militare: gli Ungari imperiale. Definì un quadro istituzionale che si mantenne stabile per il resto del medioevo, con l'impero costituito dall'unione dei regni di Germania e Italia (poi nel 1034 della Borgogna). Il re della Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva poi scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. A partire da Ottone si affermò una vera e propria dinastia regia. Se quindi si ripropose una continuità famigliare, come in età carolingia, dobbiamo notare due differenze importanti: prima di tutto la successione al trono avveniva sì all'interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso una forma di elezione; poi rispetto al secolo precedente, fu più chiara un'idea di linea dinastica, di successione a vantaggio del primogenito. "Aristocrazia ducale": la forza di Ottone I e del figlio si espresse infatti nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parenale, nominando come duchi i cugini, i cognati e i generi del re. Sistema di potere estremamente solido. Le cose cambiarono con Enrico II, apparteneva a un ramo collaterale della famiglia, promosse l'ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici. Mutamento sotto Ottone III, pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum (il rinnovamento dell'Impero romano): il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di elementi tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina, alla fine di esprimere un'idea imperiale alta, modellata in riferimento non solo all'età carolingia, ma soprattutto a quella romana. 996, mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona Imperiale, lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV. Ottone allora impose come papa un suo cugino, Bruno di Worms, divenne Gregorio V e pochi mesi dopo incoronò Ottone Imperatore. La nomina di Gregorio fu un fatto del tutto nuovo, perchè il nuovo papa proveniva da Oltralpe, dall'aristocrazia tedesca. L'aristocrazia romana nel X secolo aveva avuto il pieno controllo dell'elezione papale; non a caso i romani si ribellarono duramente all'elezione di Gregorio, dovette intervenire militarmente lo stesso Ottone nel 998. L'anno successivo alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d'Aurillac: Silvestro II. Nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell'Impero, lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città. Ma le nomine di Gregorio e di Silvestro indicarono anche una possibile evoluzione del papato: pontefici di alto livello intelettuale. Consentire una crescita del papato da tutti i punti di vista, sia sul piano ecclesiastico, sia su quello culturale, sia nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Solo dalla metà del secolo successivo, con l'affermarsi dei movimenti riformatori, il papato potè cambiare la propria fisionomia. Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, in Gremania si risolse con l'ascesa del cugino Enrico II; dando spazio a nuovi gruppi aristocratici che ascesero alle cariche ducali. Ma dal punto di vista italiano la successione da Ottone III a Enrico II ebbe implicazioni diverse: un gruppo di grandi aristocratici dell'Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d'Italia Arduino, marchese di Ivrea. La vicenda di Arduino sul trono fu assai veloce: dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico nel 1004. Non fu una sconfitta definitiva, e la successiva lontananza di Enrico fece in modo che Arduino costruì una rete di alleanze; solo nel 1014 una nuova discesa di Enrico pose definitivamente fine a Arduino. L'elezione di Enrico rese evidene la non contentezza dell'Italia che voleva decidere da se il proprio re. I decenni attorno al mille andarono quindi a definire, nei regni di Germania e Italia, un duraturo equilibrio tra regno e aristocrazia. Questo equilibrio connotò la prima metà del secolo XI, per poi subire una trasformazione profonda a causa della Riforma della Chiesa e del conseguente radicale mutamento dei rapporti tra Papato e Impero. Francia, svolta fondamentale fu la morte di Carlo il Grosso, nel'888, lasciò spazio al primo re non carolingio, prese il potere il conte Oddone di Parigi, ma non si trattò di un netto cambiamento di dinastia regia, ma l'inizio di una instabilità politica che segnò i successivi decenni. Anche qui si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche del regno, primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni scelsero di appoggiare, infatti, Carlo il Semplice. Egli fu incoronato a Remis nell'893 e si contrappose a Oddone, la cui morte nell'898, rese Carlo unico re di Francia. Fu un re debole, potè frenare le incursioni normanne solo concedendo a Rollone un ampio settore del regno e la sua debolezza divenne palese nel 922, quando i grandi del regno lo deposero perchè non era in grado di governare. Il cambiamento profondo fu costituito dal diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Regioni come Borgogna, Champagne, Aquitania e Anjou, si organizzarono attorno ad altrettante dinastie di conti e duchi. Negli anni successivi posero sul trono prima Roberto di Neustria, poi Rodolfo di Borgogna: si scelsero i re all'interno del gruppo parentale di Oddone (identificati come Robertini), comunque si evitò di dare la corona al figlio Ugo il Grande. In questi decenni i grandi principi di Francia, liberi dal peso condizionante del carisma regio carolingio, cercarono di affermare il proprio potere di scelgliere il nuovo re; nessuno poteva ignorare la presenza forte e ingombrante di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca: Robertini. Era un equilibrio delicato, evidente nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna: Ugo il Grande preferì far tornare dall'esilio il Figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987. La scelta di Ugo può sembrare una rinuncia, ma fu un segno di realismo: se la forza dei Robertini era notevole, essi non erano certo gli unici potenti del regno, ma dovevano convivere con altri gruppi potenti. Le dinastie principesche rappresentavano i principali attori politici del regno e Ugo, rinunciando alla corona e lasciando spazio a Ludovico evitò di confermare la propria superiorità che avrebbe suscitato ostilità. 987, ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia capetingia, conservò la corona di Francia fino al 1328. Il 987 è tradizionalmente una delle date chiave della Francia, momento in cui si chiuse la lunga storia carolingia e se ne aprì ancora un'altra più lunga con i capetingi. L'ascesa al trono di Ugo Capeto fu l'esito coerente di un lungo pocesso di affermazione della dinastia ai vertici del regno. Nel X secolo la corona fu a lungo nelle mani degli ultimi carolingi, ma i robertini espressero un potere analogo a quello regio e furono senza dubbio la dinastia principesca che con maggior forza si mosse in un orizzonte politico che comprendeva l'intero regno. Lungo l'Xi sec. il potere regio conservò un duplice carattere, di forza egemone di cui era generalmente riconosciuta la superiorità, e di forza regionale, un principato territoriale non molto diverso dalle altre dominazioni in cui si articolava il territorio francese. Sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono nuovi funzionamenti politici, e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che facevano a meno del re. Ai margini del mondo carolingio, la tradizione politica inglese a fatica si era organizzata, tra VII e VIII secolo, in un numero relativamente ridotto di regni e in una discontinua e incerta egemonia del regno di Mercia. Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, che divenne un dominio stabile sull'area centro-orientale; dall'altro lato una crescente egemonia del Wessex, regno posto nella parte sud-occidentale dell'Inghilterra. Il culmine di questo potenziamneto fu il regno di Alfredo il Grande (871\899), che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo (899\924), ma il fatto che i potenti inglesi lo accettassero come re non implicò che gli riconoscessero tutti i poteri che aveva accumulato il padre; Edoardo dovette quindi rifondare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Per tutto il X secolo non si può parlare di un regno inglese unitario, una discontinua gemonia di singoli re su ampi settori del territorio. All'inizio del secolo XI si costituì un regno inglese unitario; fu infatti il re norvegese Knut (1016) che arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e quindi su tutti i principali regni inglesi. I decenni successivi furono quindi segnati da due processi: da un lato l'integrazione tra aristocrazia normanna e inglese, e dall'altro un'intensa ridefinizione delle gerarchie sociali, con una nuova ed efficace centralità del potere regio. La conquista Araba, nell'VIII secolo, non aveva coinvolto l'intera penisola, ma aveva dissolto l'unità visigota: la parte centrale e meridionale della penisola aveva costituito l'emirato di al-Andalus, mentre nel nord si erano formati regni cristiani delle Asturie e di Pamplona\Navarra. La convivenza tra gli emiri e i regni cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo, ma in questo periodo non diede vita nè a una volontà islamica di conquista sistematica dell'intera penisola, nè a un'organica spinta alla conquista cristiana, a quella che in seguito diverrà la Reconquista. La maggior forza militare islamica non cancellò i regni cristiani. La dinamica politica restò intensa, con scontri militari, azioni politiche e matrimoni, ma senza che in questa fase si possa delineare con chiarezza un'univoca linea di tendenza. Dobbiamo notare che già alla fine del IX secolo erano presenti nella cultura politica dei regni cristiani iberici alcuni elementi che andarono poi a costitutire le basi ideologiche della Reconquista (l'opposizione militare ammantata di ideali religiosi, la visione dell'azione militare contro gli emiri come guerra giusta...). Nella penisola iberica del X secolo, i regni cristiani e l'emirato non erano nè mondi separati, nè dominazioni in totale contrapposizione; erano piuttosto articolazioni regionali poste su diversi livelli di potenza, protagoniste di un'intensa dinamica politica, non sempre e non necessariamente fondata sulla contrapposizione armata. Fu quindi un equilibrio dinamico conflittuale, solo alla fine del secolo XI, in parallelo con la formazione dell'ideale crociato, la Reconquista assunse una froma strutturata, efficace, ideologicamente strutturata e sostenuta dal papato, segnando un avvio di conquista da parte dei cristiani a danno degli emiri, risultati di rilievo nel XIII secolo. Modelli di ordine sociale Ma se le evoluzioni del potere regio seguirono dinamiche specifiche e diverse nelle varie regioni d'Europa, sono tuttavia riconoscibili alcune linee di tendenza comuni. La rottura del controllo carolingio aprì una fase nuova nella lotta politica interna alla grande aristocrazia, ora si lottava non solo per avvicinarsi al re, ma anche per impadronirsi dello stesso potere regio. È evidente come in tutti i regni europei il re non avesse la stessa centralità che abbiamo visto nell'età carolingia, ma erano parte della dinamica politica aristocratica e il territorio dominato direttamente dal re non era di norm molto diverso dai principati che si suddividevano il regno. I protagonisti della politica erano le grandi dinastie discese dagli ufficiali puibblici, le chiese vescovili e monastiche e i nuovi nuclei signorili. Infatti una trasformazione così profonda non incise solo sulle forme di vita a tutti i livelli, ma indusse anche i gruppi intellettuali (grandi chierici, vescovi e monaci) a un ampio processo di riflessione sulle forme del potere: la questione chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio. Ricerca di un modello di ordine politico. Quello più noto è la "tripartizione funzionale". Nei primi anni del secolo XI, due vescovi del nord della Francia, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai, enunciarono in testi diversi una teoria simile, ovvero che il corpo sociale dovesse essere diviso tra chi pregava (gli oratores), chi combatteva (i bellatores) e chi lavorava (i lavoratores). Necessaria reciprocità tra le diverse condizioni: chi pregava lo faceva per salvare le anime di tutti, chi combatteva garantiva la sicurezza e chi lavorava assicurava il sostentamento. Proprio da questa reciprocità, nell'ideale di Adalberone e Gerardo, potevano nascere equilibrio e ordine. Contesto specifico in cui questa teoria nacque: i primi anni di potere di questa dinastia capetingia, sotto Roberto il Pio (figlio di Ugo Capeto), un momento in cui il potere regio era incerto. Se quindi il regno è l'orizzonte politico di riferimento per questi vescovi, la riflessione è indirizzata a pensare come si potesse raggiungere un equilibrio in assenza del potere regio. La tripartizione non è quindi un dato di fatto, ma un ideale politico. Un modello profondamente diverso fu dato dalle "Paci di Dio": sistema cerimoniale. Alcuni vescovi del sud della Francia, a partire dagli ultimi anni del X secolo, convocarono delle grandi assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire la pace in una regione. I vescovi radunarono un gran numero di reliquie e su di esse tutti gli abitanti della regione dovevano giurare il rispetto di alcune norme fondamentali. La prima assemblea di cui abbiamo notizia è stata a Charroux, non lontano da Poitiers, nel 989. la novità nasceva invece dal fatto che queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma dalla volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti a forte intensità religiosa e cerimoniale. Le paci di Dio erano le paci del re in assenza del re: le stesse norme trovavano fondamento e validità nell'iniziativa dei vescovi, nella loro capacità di assumere la guida della popolazione, grazie sia agli specifici linguaggi e segni religiosi, sia alla loro forza patrimoniale e politica. Da un lato abbiamo la "tripartizione", un modello di ordine espresso in testi di alto livello intelettuale e probabilmente di debole circolazione, un modello destinato a una lunga fortuna, ma ebbe un impatto assai ridotto; dall'altro lato le "paci di Dio" non si fondarono su una teoria altamente formalizzata, ma su un sistema di pratiche cerimoniali, che ebbero un forte impatto sulla società che era coinvolta nei riti e nei giuramenti destinati a fondare la pace. Comunque questi due modelli sono sistemi concorrenti, come li definì il medievista Georges Duby: la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una centralità dei vescovi; le paci di Dio invece, guidate dai vescovi, si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento. Se il problema fondamentale era quello di contenere e regolare la violenza aristocratica, la tripartizione lo faceva delimitando i campi di azione dei diversi corpi sociali; mentre nelle paci di Dio tutti diventano promotori di un nuovo ordine attraverso il giuramento. In comune c'è una profonda trasformazione del rapporto tra i vertici delle chiese e i fedeli. Piena sottomissione alla fede e ai vescovi. Nuove chiese, Nuovi poteri C'è un rinnovamento con la riforma dell'XI secolo; la trasformazione già si avviò nel X secolo, su due piani: da un lato un profondo rinnovamento del monachesimo; dall'altro lato un nuovo coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. Nel 909\910 il duca Guglielmo d'Aquitania fondò l'abazia di Cluny, nella diocesi di Macon, non lontano da Lione, e l'affidò all'abate Bernone. Tra X\XI secolo centinaia di monasteri nacquero per iniziativa dei nobili che li edificarono, li dotarono di più o meno ricchi patrimoni fondiari e li affidarono a un abate di loro fiducia. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva di Cluny. I monaci di Cluny ottennero il diritto di scegliere al proprio interno i nuovi abati. La protezione e la benedizione del monastero erano affidate al vescovo di Roma. Cluny nacque e divenne subuto autonomo, anche dalle strutture del potere ecclesiastico. I primi abati seppero dare vita a una forma di vita religiosa peculiare, che inalzò rapidamente Cluny a una grande fama a livello europeo. Pur muovendosi all'interno della regola benedettina, i cluneacensi ne diedero infatti una propria interpretazione, che pose al centro la dimensione della liturgia e della preghiera, ampliando il tempo dedicato alla preghiera, con un'accresciuta solennità dei momenti liturgici e una specifica attenzione alle preghiere per l'anima dei defunti. Cluny non fu un elemento politicamente destabilizzante, ma fu pienamente parte del sistema aristocratico di dominazione: era un'abazia ricca\potente, alleata con i principi e l'aristocrazia. Nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono una grande fama all'interno e esterno della Francia, e già il secondo abate, Oddone (927\942), fu incaricato di riformare la vita monastica in abazie antiche e prestigiose. Gli interventi di Oddone incontrarono sesso delle resistenze nelle diverse comunità monastiche, attente a difendere la propria autonomia. Molte abazie riformate da Oddone con conservarono unlegame con Cluny nei decenni successivi. Costituzione di una rete di monasteri coordinati dall'abazia borgognoma: non un ordine, ma piuttosto una congregazione, un insieme di enti religiosi che riconoscevano tutti la propria guida nell'abate di Cluny. Prevalente fu la costituzione di nuovi enti monastici, che non erano abazie, ma priorati. La differenza è importnate, perchè nell'ordinamento benedettino il vertice
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