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Storia Medievale Provero Vallerani, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo del manuale Storia Medievale di Provero e Vallerani.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 19/02/2022

lodoasettembre
lodoasettembre 🇮🇹

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Scarica Storia Medievale Provero Vallerani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE. PROVERO, VALLERANI. LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO L'impero cristiano Negli ultimi decenni il tardoantico non è una lunga fase di decadenza dell'impero, ma un periodo con i suoi propri connotati: è una fase di intensi confronti tra diversi modelli di civiltà e di spiritualità. Per quanto riguarda le fonti di questo periodo dobbiamo tenere conto che si tratta di fonti ideologicamente marcate: sono narrazioni di parte cristiana che hanno messo in secondo piano le posizioni pagane e testi di ambito romano o testi storici scritti secoli dopo, quando i popoli germanici erano ormai solidamente stanziati all'interno dei territori romani, che quindi distorcono i processi di costruzione dell'identità etnica dei popoli barbari. Il sistema imperiale tardoromano: potere e prelievi Attorno alla fine del II sec dC terminò l'espansione militare dell'impero, che si stabilizzò nei confini segnati dal limes del Reno e del Danubio. Da qui si può fare iniziare l'impero tardoantico. L'impero riuniva popolazioni diverse per tradizioni, lingue e religioni, con livelli di romanizzazione molto variabili; ma queste popolazioni erano coordinate da una macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una profonda crisi nella seconda metà del III sec, ma il potere imperiale fu ripristinato con forza sotto Diocleziano, il quale, condividendo il potere con Massimiano (diarchia), comprese la complessità dello spazio politico militare dell'impero. Roma iniziò lentamente a perdere le funzioni di unica capitale, restando però il centro simbolico dell'impero e la sede del senato. La polarizzazione tra oriente e occidente si accentuò quando la diarchia divenne una tetrarchia, con due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono i due Augusti, come loro principali collaboratori e successori: non fu mai messa in discussione l'unità dell'impero, ma le responsabilità dei diversi sovrani assunsero un connotato territoriale. Due furono i passaggi fondamentali nel IV sec: la fondazione di Costantinopoli e il regno di Teodosio. Sulla città di Bisanzio, l'imperatore Costantino nel 324 decretò di fondare una città nuova, a cui diede il nome di Costantinopoli: mentre in occidente assumevano un'importanza crescente le residenze imperiali in varie città, Costantinopoli si affermò come punto di riferimento forte del potere imperiale in oriente. A Costantinopoli era presente anche un senato, in una prima fase concepito solo come una sorta di appendice del senato di Roma. Fu nel V sec che Costantinopoli divenne una vera e propria capitale. Il secondo mutamento fondamentale fu la divisione stabile tra una parte orientale e una parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I: i suoi figli Arcadio e Onorio ottennero rispettivamente l'oriente e l'occidente. Una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un afflusso costante di denaro, per sostenere la burocrazia, la capitale e l'esercito. Quest'ultimo rappresentava un costo rilevante perché si trattava di un esercito stipendiato. Le tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo fiscale capillare: importantissima era l'annona, l'imposta che gravava sulle popolazioni rurali. I curiales, i membri dell'assemblea cittadina, erano incaricati di riscuotere l'imposta nel territorio circostante e di girarla all'apparato imperiale. Le imposte non restavano all'interno della singola provincia, ma andavano a sostenere i costi complessivi dell'impero (es le abbondanti produzioni cerealicole del Nord Africa servivano a nutrire sia la popolazione di Roma sia gli eserciti). Tra le diverse sponde del Mediterraneo c'era una circolazione fiscale, fatta di moneta e di beni di primo consumo. Il commercio a lungo raggio in età imperiale viaggiava sulle spalle del sistema fiscale (le esigenze dello stato avevano attivato sistemi di circolazione a lungo raggio e avevano garantito le infrastrutture necessarie per questa circolazione). La peculiarità dell'età imperiale risiede nel fatto che le regioni erano economicamente interdipendenti. Lungo il medioevo troveremo importanti meccanismi di scambio commerciale tra regioni lontane, ma solo nel quadro del potere imperiale romano possiamo vedere una vera e propria interdipendenza tra regioni lontane e produttivamente diverse. Il tardoantico fu caratterizzato da alcune evoluzioni: la fine dell'espansione militare determinò la fine di un'espansione economica e, in particolare, un declino delle funzioni economiche della schiavitù. Le villae tardoromane non furono l'espressione di un sistema schiavistico, ma piuttosto dell'integrazione tra grande proprietà aristocratica e colonato contadino, in cui la distinzione tra liberi e schiavi non aveva un rilievo strutturale dal punto di vista dei funzionamenti economici. Il contesto politico militare fece sì che non fossero comprimibili le spese militari, sempre ingenti a causa della pressione continua di diversi popoli sul limes. Questa continua richiesta di moneta impose agli imperatori, lungo il IV sec, una politica inflazionistica. Cambiò anche il rapporto tra l'Italia e le province, con la prima che perdette la propria rilevanza produttiva. Si strutturò un asse stabile di circolazione di ricchezze tra Cartagine e Roma, soprattutto quando i prodotti dell'Egitto furono indirizzati su Costantinopoli. L'esercito, il limes, i barbari In età tardoantica l'esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi per lo stato (si trattava di un esercito stipendiato). Nel corso del IV sec, si definirono due settori fondamentali dell'esercito: i comitatenses, la forza mobile incaricata di accompagnare l'imperatore, e i limitanei, le guarnigioni poste a difesa del confine. Proprio sul limes si sviluppò il confronto tra i romani e le popolazioni barbariche. Il limes era costituito da una serie di fortificazioni destinate a definire e proteggere una linea di confine, ma il limes era soprattutto un'ampia fascia di incontro, scontro e scambio tra le popolazioni inquadrate nell'impero e quelle che se ne tenevano all'esterno. Il fatto di essere all'esterno dell'impero non significava essere estranei a ogni influenza romana. La definizione di barbari era nata per indicare quelli che non parlavano bene greco: era quindi un termine carico di elementi di giudizio. Germani è un termine che non nasce da un giudizio negativo, ma da alcune affinità di costumi e di lingua. Tuttavia anche questa definizione ha un grave difetto, ovvero il fatto che questi gruppi armati non avrebbero mai pensato se stessi come germani: è una nozione intellettuale, derivata da Tacito. Infatti i diversi gruppi non si sarebbero definiti come parte di un gruppo omogeneo. Tra le due definizioni, quella di barbari è migliore perché questi popoli non avrebbero capito a chi si riferisse il termine germani, ma sapevano distinguere chi era dentro e chi fuori dall'impero. Lungo la seconda metà del XX sec la medievistica europea, per studiare l'identità etnica dei barbari, ha posto al centro la percezione soggettiva di questi stessi gruppi: studiosi come WENSKUS e POHL hanno mostrato come questa identità di barbari non fosse un dato stabile permanente, ma l'esito di una continua rielaborazione, una costruzione sociale e culturale a cui si è dato il nome di etnogenesi (costruzione dell'identità di un popolo). Quindi l'appartenenza a un popolo non è da considerare un dato oggettivo, ma una percezione personale e l'espressione di una scelta; inoltre, questa appartenenza era continuamente rimessa in discussione. È importante sottolineare il dato soggettivo, il fatto che il singolo si sentisse parte di un gruppo ristretto, di natura tribale, al seguito di un capo militare; ma è anche da notare come alcune identità etniche più larghe (popoli) durarono nel tempo, si perpetuarono. Queste solidarietà allargate erano particolarmente efficaci nei momenti militarmente più intensi. La lettura etnogenetica ha permesso di usare nel modo più adeguato i dati archeologici, e in particolar modo i corredi funerari: si poteva usare una fibbia gota perché la propria famiglia era da molte generazioni parte del popolo goto, ma anche e soprattutto perché il morto, di tutt'altra origine, aveva individuato nei goti un gruppo dominante e ambiva quindi a farne parte. I popoli militarmente più forti e più stabili divenivano delle forze di attrazione. Tra III e IV sec la struttura politica più attraente era l'impero romano: l'esercito romano infatti aveva continuamente bisogno di uomini. La mobilità dei gruppi barbari non nacque da un'attrazione di popolazioni nomadi e bellicose verso le terre dell'impero, ma dall'opportunità di mettere la propria forza militare al servizio di chi di questa forza aveva bisogno. La presenza barbara entro i territori romani ebbe inizio lungo il III e il IV sec: non solo individui, ma anche gruppi organizzati si inserirono nell'esercito romano e nei territori dell'impero con accordi di vario tipo (foedus, hospitalitas) alla cui base c'era sempre lo scambio tra una quota di ricchezze e la forza militare posta al servizio dell'impero. Spesso l'esercito romano fu per questi gruppi un contesto di elaborazione identitaria, di accelerazione del processo di etnogenesi. L'inserimento nell'esercito di gruppi organizzati, al seguito di un capo, poteva innescare processi di consolidamento. L'inserimento nell'esercito romano portò singoli capi barbari a ricoprire cariche di rilievo, fino ai massimi vertici dell'esercito. Verso la fine del IV sec l'iniziativa militare del popolo nomade degli UNNI provocò un effetto a catena di movimenti verso occidente. Questi movimenti determinarono una forte pressione dei VISIGOTI sul limes danubiano: l'impero rispose concedendo loro lo stanziamento all'interno dei territori romani; ma i Visigoti si dedicarono presto a forme di saccheggio, inducendo l'imperatore Valente ad attaccarli. La battaglia di Adrianopoli (378) si tramutò in un disastro per i romani, con la sconfitta e la morte dell'imperatore. La pacificazione con i Visigoti fu attuata dal nuovo imperatore, Teodosio, grazie a un foedus con i Visigoti, che vennero inseriti nell'esercito romano in corpi omogenei con comandanti propri. Il 378 può essere considerata una data chiave per il fortissimo impatto che ebbe nell'immaginario collettivo. In oriente si adottò una linea politica diametralmente opposta a quella occidentale, cambiando le forme di inquadramento dei barbari: si optò per un inserimento più diffuso delle popolazioni barbare e per la scelta di impedire l'ascesa di capi militari barbari ai vertici dell'esercito, evitando così la formazione di corpi compatti al seguito dei propri re. La assediare e saccheggiare Roma nel 410. La morte del re ALARICO non comportò la fine dell'unità politica e militare dei visigoti, che costituirono un regno nel sud della Francia, formalmente come federati dell'impero, ma di fatto con ampia autonomia. I VANDALI valicarono il limes renano e si insediarono nella penisola iberica. Ma, guidati dal re GENSERICO, si spostarono nella parte occidentale dell'Africa romana. I vandali furono il primo popolo germanico a trasformare la propria superiorità militare in un potere politico strutturato, territorialmente definito e pienamente autonomo, un regno che prescindeva da ogni inquadramento nel contesto imperiale. I vandali, quindi, furono i primi che si affermarono essi stessi come aristocrazia fondiaria dominante ed etnicamente distinta. Di natura ed esiti diversi fu l'azione degli UNNI nei territori imperiali. Era una grande solidarietà etnica e politica poco strutturata, un potentissimo esercito che trovò unità d'azione nel momento in cui si pose al seguito di un efficacissimo capo militare, il re ATTILA. Originari dell'Asia centrale, si erano stanziati ai bordi dell'impero romano nei primi decenni del V sec, divenendo una costante minaccia militare per Roma, ma in qualche fase anche utili mercenari degli eserciti imperiali. La presa del potere da parte di Attila indirizzò la forza militare unna in una durissima serie di campagne all'interno dei territori romani, fino alla decisiva sconfitta subita a opera del magister militium EZIO, ai Campi Catalaunici nel 451. Fu determinante la morte di Attila due anni dopo: la rapida dissoluzione del dominio unno mostrò come la forza militare unna non si fosse tradotta in una struttura politica. Ezio era un generale di origine barbara, che arrivò ai vertici grazie alle proprie capacità militari (la sua morte e quella dell'imperatore Valentiniano III sembrarono aprire di nuovo la via agli eserciti e ai loro saccheggi: esemplare il nuovo sacco di Roma, condotto nel 455 dai vandali provenienti da Cartagine). Lungo il V sec l'impero in occidente era ancora vivo e operativo: se c'erano re germanici come Genserico che scelsero di staccarsi totalmente dal dominio romano, altri capi militari agivano invece allo scopo di prendere il controllo dell'impero: il potere imperiale continuava a essere un grande obiettivo politico-militare. Ma indubbiamente la capacità di azione degli imperatori andava riducendosi, sia come efficacia sia come ampiezza territoriale. Nel 476 il generale sciro ODOACRE depose l'ennesimo debolissimo imperatore, ROMOLO AUGUSTOLO, e rinunciò a insediarne uno nuovo, rinviando le insegne imperiali a Costantinopoli. Il momento effettivo della deposizione dell'ultimo imperatore non fu legato a nessuna invasione: un generale dell'esercito romano depose un imperatore privo di potere e prese atto che un nuovo imperatore d'occidente sarebbe stato inutile. Nel 476 nessuno vide nella deposizione di Romolo Augustolo un avvenimento rilevante, perché tanti altri imperatori erano stati deposti e tanti altri capi militari germanici avevano assunto il potere in occidente. Diversamente, la sconfitta di Adrianopoli del 378 o il sacco di Roma del 410 avevano segnato in modo indelebile la coscienza dei contemporanei. La scelta di Odoacre di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricomporre l'unità imperiale. Nella prospettiva politica di Odoacre, il suo dominio sull'Italia doveva integrare un'ampia autonomia militare con il riconoscimento dell'impero. Ma l'imperatore ZENONE non ritenne Odoacre un alleato affidabile a cui delegare una parte così importante dell'impero, e pochi anni dopo fece in modo che l'Italia passasse nelle mani degli OSTROGOTI di TEDORICO. Odoacre si impadronì solo dell'Italia perché ormai questo era di fatto l'ambito di esercizio del potere degli imperatori d'occidente, che lungo il V sec avevano via via perso il controllo della Britannia, dell'Africa, della penisola iberica e della Gallia. Nei decenni centrali del sec altri popoli avevano strutturato in modo definitivo la propria presenza nei territori dell'impero, andando a costituire regni di dimensioni molto diverse, ma che avevano in comune il fatto di essere dominati da un'élite militare germanica che non riconosceva più la superiorità imperiale. Erano dominazioni frammentate e di dimensioni molto diverse, ma tutte impegnate a gestire la difficile convivenza tra la maggioranza di tradizione romana e la minoranza di matrice germanica. Italia: Odoacre->Ostrogoti di Teodorico Gallia: Franchi, Burgundi, Visigoti Galizia: Svevi Tunisia, Sicilia, Sardegna, Corsica: Vandali Isole britanniche: popolazioni celtiche, invasori angli e sassoni I nuovi regni Nel quadro eu tra V e VI sec vediamo da un lato una netta semplificazione archeologica, indice di un impoverimento della società eu sia sul piano delle risorse disponibili, sia su quello delle competenze tecniche; dall'altro lato vediamo una forte continuità sul piano della cultura, nello specifico della cultura politica e dei modelli istituzionali (i regni appaiono come riproposizioni su scala regionale di meccanismi tipici dell'età imperiale). In questo quadro di passaggio del potere nelle mani di una nuova élite, furono conservate alcune forme di organizzazione sociale e istituzionale: si mantennero apparato amministrativo e sistemi legislativi di tradizione romana. Fu una conservazione ma anche una semplificazione perché andarono perse molte funzioni e la complessiva articolazione dell'apparato amministrativo romano. Nacque un sistema politico nuovo, in cui i modelli amministrativi imperiali erano affiancati da una nuova centralità politica attribuita alle assemblee, le riunioni delle aristocrazie attorno ai re. In età imperiale l'azione statale aveva rappresentato il motore principale della circolazione economica. Ma il sistema imperiale non resse per le difficoltà tecnico-amministrative che tale sistema imponeva e per l'eccessivo peso fiscale che aveva comportato; e soprattutto i regni non avevano bisogno di impegnarsi nel compito difficile di prelevare le tasse (non avevano una capitale, la burocrazia era più leggera di quella romana, l'esercito non era costituito da professionisti stipendiati ma dall'insieme del popolo e dalla sua élite, ricompensati dal re con concessioni di terre anziché con stipendi). L'idea che per essere ricchi occorresse possedere molte terre derivava comunque da modelli mediterranei e romani. Tra V e VI sec quasi tutti i regni rinunciarono a prelevare tasse: si interruppe quello che in età imperiale aveva costituito il principale motore della circolazione economica: a livello di grandi sistemi di scambio si ebbe la rottura della circolazione interna al mediterraneo; all'interno dei singoli regni una generale crisi delle città e di molti settori produttivi. {La transizione dall'impero ai regni implicò l'abbandono del sistema romano di tasse e stipendi, con il passaggio a forme di remunerazione che misero al centro la terra. Questo implicò sia una minore quantità di ricchezza disponibile per i re, sia il declino delle funzioni delle città sul piano fiscale e politico, sia un forte calo degli scambi interregionali}. Dal punto di vista politico l'equilibrio tra le ricchezze del re e quelle dell'aristocrazia era sempre nettamente a vantaggio del primo: per quanto gli aristocratici fossero ricchi e potenti, non lo erano al punto da cercare l'autonomia, ma anzi lottavano per essere vicini al re. L'Italia ostrogota ODOACRE costruì un sistema di potere fondato su una piena collaborazione con l'aristocrazia senatoria. L'Italia tra il 476 e il 489 continuava a essere un mondo dominato da un'amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle tasse. Odoacre espresse la natura del suo potere attraverso un doppio titolo: da un lato patricius, titolo che evocava la sua volontà di inserirsi nella gerarchia romana senza ambire alla corona imperiale; dall'altro lato rex gentium, che esprimeva il suo dominio non sull'Italia, ma sull'insieme dei popoli che costituivano il suo esercito. Nella cultura germanica il titolo di re rimandava a un connotato specificamente militare. QUESTO POTERE EFFICACE FU PERò TRAVOLTO DALL'INVASIONE OSTROGOTA, CHE DEVE ESSERE VISTA COME UN'INIZIATIVA IMPERIALE. L'imperatore ZENONE non aveva accettato il dominio di Odoacre e, di fronte alla debolezza delle armate imperiali, Zenone si propose di riottenere un controllo indiretto dell'area sollecitandone la conquista da parte del popolo degli OSTROGOTI, da tempo stanziato ai margini dell'impero, con cui intratteneva un rapporto intenso e a tratti conflittuale. Figura chiave fu il tre TEODORICO, figura ben nota a Zenone per le sue capacità ma anche per la sua pericolosità: era una figura potente da tenere lontana da Costantinopoli. Teodorico nel 489 scese in Italia alla guida degli ostrogoti: il re e il popolo, impegnati in una spedizione con grandi aspettative di bottino, attiravano al proprio seguito altri gruppi armati, pronti a riconoscersi come sudditi di questo re e come parte di questo popolo. Questo processo mette in evidenza come le identità etniche in questi secoli fossero quanto mai fluide, legate alle scelte individuali e di gruppo, più che a una discendenza di sangue. La conquista dell'Italia fu nel complesso facile: Teodorico poté impostare il proprio potere indiscusso sulla penisola e governare la convivenza tra una piccola minoranza gota e una grande maggioranza di cultura e lingua latina. I goti erano distribuiti in modo diseguale, con una maggiore concentrazione a nord e soprattutto nelle aree subalpine. A nord si situarono anche le residenze principali del re: Ravenna, Pavia e Verona. Il governo di Teodorico si fondò sull'integrazione tra il controllo militare dei goti e un'amministrazione civile di stampo romano, controllata dalla stessa élite che l'aveva gestita in età imperiale e sotto Odoacre. La dominazione barbarica rappresentava una fase di sostanziale continuità per le popolazioni italiche. Il parallelismo tra le due popolazioni, romana e gota, portò all'affermazione della personalità del diritto: la possibilità per ogni individuo di seguire la propria legge, romana o gota, ed essere giudicato o da un iudex romano o dal comes goto (con una prevalenza di quest'ultimo). Tutto ciò portò a un equilibrio efficace. Le popolazioni italiche non subirono alcuna trasformazione radicale degli stili di vita nelle transizioni dell'impero a Odoacre e poi agli ostrogoti. La natura composita del potere di Teodorico fu espressa nei titoli da lui adottati: re degli ostrogoti (richiamava a un'identità etnica definita) e patrizio imperiale per l'Italia (rappresentava l'aspirazione del re e il riconoscimento e la legittimazione derivanti dall'impero). I due apparati, esercito goto e amministrazione romana, trovavano un nesso diretto nella figura del re e nel suo consistorium, il consiglio ristretto formato da goti e romani, che affiancava il re e in cui ebbero ruoli di rilievo figure di alto livello intellettuale, come CASSIODORO e BOEZIO, che rappresentavano l'eredità culturale dell'aristocrazia senatoria di fede cattolica. Il consistorium regio fu il principale strumento di governo di Teodorico. C'è da notare che il re e il suo consiglio costituivano il solo punto di reale integrazione tra goti e romani. Nel complesso del regno, i due popoli furono tra loro complementari, ma non integrati: non realizzarono una simbiosi. Quando entrò in crisi la capacità regia di garantire mediazione e unità, ci fu una crisi dell'intero regno. L'accordo di Teodorico con il sistema aristocratico romano trovo un'espressione rilevante sul piano religioso. Gli ostrogoti e il loro re erano di religione ariana e si trovarono a convivere con una popolazione italica in cui non solo la fede cattolica era maggioritaria, ma in cui si stava consolidando un sistema di dominio sociale ed economico delle chiese. La scelta di Teodorico fu quella di conservare la propria fede ariana, ma al contempo porsi come protettore di tutte le chiese presenti nel regno, ariane e cattoliche. Questa funzione regia dimostrò la massima efficacia nel contesto del cosiddetto scisma laurenziano, nel 498, quando il clero romano si spaccò e furono eletti due papi, SIMMACO e LORENZO. Entrambi i pretendenti alla cattedra papale si rivolsero al re per avere un giudizio, certificando come la Chiesa romana riconoscesse nel re, legittimo successore degli imperatori, il suo protettore. Nel complesso gli anni di Teodorico furono segnati da una notevole stabilità del potere regio, e questo consentì un suo ampliamento al di là dei confini italici: così da un lato Teodorico poté affermare il proprio controllo oltre le Alpi orientali e dall'altro lato costruire una rete di rapporti con gli altri regni romano-germanici che, tra accordi e patti matrimoniali, gli permise di porsi in una posizione egemone su larghe parti d'Europa. Tale rete di legami parentali consentì a Teodorico di costituire una polarità politica di respiro europeo, parallela e opposta alla crescente egemonia dei franchi. La lotta per il controllo dei VISIGOTI e del Sud della Gallia fu il campo in cui l'opposizione tra Ostrogoti e Franchi si espresse nel mondo più chiaro. Un passaggio fondamentale fu la battaglia di Vouillé, nel 507, in cui il re franco CLODOVEO sconfisse e uccise il re visigoto ALARICO II. Dopo la battaglia, Teodorico assunse la tutela del nipote AMALARICO, nuovo re visigoto, e grazie a questo affermò un controllo indiretto ma efficace sulla Provenza. La debolezza strutturale del regno ostrogoto era però rappresentata dalla mancata integrazione tra romani e goti, processo che invece si avviò in ambito visigoto e si realizzò in pieno nel regno franco. L'emergere della crisi va individuato nel 518, quando l'imperatore GIUSTINO avviò una serie di persecuzioni ai danni degli ariani, a cui Teodorico rispose con analoghe persecuzioni contro i cattolici. Ma questa dimensione religiosa non fu la causa scatenante dello strappo: fu invece l'espressione di una crisi più profonda, dovuta alla rottura della cooperazione tra il regno e l'aristocrazia senatoria, che si stava riavvicinando all'impero. La crescente ostilità si tradusse in guerra aperta solo dopo la morte di Teodorico. Nel 526 Teodorico trasmise il potere alla figlia AMALASUNTA, tutrice del nuovo re ATALARICO. Alla morte prematura di questo, Amalasunta si trovò in una situazione di grave debolezza e, per ovviare a questo, sposò e associò al trono il cugino TEODATO, uno dei più ricchi aristocratici dell'Italia gota. Tuttavia questo accordo politico-matrimoniale fallì perché i coniugi scelsero posizioni politiche divergenti: Amalasunta cercò di ricostruire il rapporto tra goti e romani e si pose sotto la protezione dell'imperatore GIUSTINIANO; Teodato adottò invece la via del conflitto e la sua scelta prevalse all'interno dell'aristocrazia gota. Amalasunta fu uccisa e questo fatto offrì a Giustiniano l'occasione per dichiarare guerra al regno ostrogoto, dando il via a una lunga fase bellica che nel giro di 20 anni riportò l'Italia all'interno dell'impero. Anglosassoni, vandali e visigoti Nel corso del V sec si erano costituiti altri regni in diversi settori dell'impero. ANGLOSASSONI Il dominio romano non si era mai esteso alle isole britanniche nel loro complesso, ma solo alla parte meridionale della Britannia: qui come altrove l'influsso della cultura e dei modelli istituzionali romani fu rilevante. Ma questo influsso si interruppe molto presto, nel 410, quando i romani abbandonarono definitivamente le isole. Con la fine del dominio imperiale si ruppero i sistemi economici della regione; ma più probabilmente la rottura politica si inserì in un contesto di profonda crisi sociale (gli scavi archeologici hanno evidenziato un impoverimento e una semplificazione degli edifici e dei reperti, con la fine delle villae, centralità dei vescovi, che trasmisero ai Franchi la religiosità e la cultura cristiana di tradizione romana, e l'assimilazione di Clodoveo a Costantino, primo imperatore cristiano, che lungo l'alto medioevo ritornò costantemente come modello per tutti i sovrani. Il testo di Gregorio è l'espressione diretta dell'ideologia vescovile, di quel sistema di potere che si era costruito a partire dalla conversione di Clodoveo, con la piena convergenza dei vescovi attorno al potere regio. E' un'ideologia che diede al re franco una fortissima legittimazione, tramite la diretta equiparazione a Costantino. Nel corso della successiva storia franca, prevalsero le fasi di solidarietà tra regno ed episcopato, fasi in cui si affermò un'ideologia che attribuiva a re e vescovi un fine comune, ossia la pace sociale e la salvezza del popolo cristiano. L'integrazione tra Franchi e gallo-romani si sviluppò a livelli più profondi del solo incontro tra regno e vescovi: fu l'unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante unitario. Lungo il VI sec, quindi, si creò un'aristocrazia che sapeva basare il proprio potere su azioni diverse, adottando uno stile di vita che fuse modelli di comportamento provenienti dalla tradizione romana e da quella germanica: combatteva e accumulava terre, era vicina al re, ma attenta a radicarsi nelle città, tesseva reti clientelari e occupava cattedre vescovili. La grande forza del popolo franco nell'alto medioevo nacque proprio dalla costruzione di un'aristocrazia mista. Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in occidente Il vescovo era il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale (la città e il territorio circostante dovevano far riferimento al vescovo per tutto ciò che riguardava la cura delle anime) e al contempo era portatore di cultura letteraria e politica. I vescovi del VI sec nella loro azione locale e nel loro affiancare i re a corte orientarono il sistema politico franco verso funzionamenti che ripresero modelli di tradizione romana. I vescovi erano ricchi personalmente perché spesso erano esponenti della grande aristocrazia franca; ma anche le sedi vescovili erano molto ricche (nel loro patrimonio si accumulavano anche i beni donati da chi cercava benevolenza, protezione e preghiere per la propria anima). La ricchezza dei vescovi ne faceva dei grandi patroni, ovvero i vertici di ampie clientele, capaci di coordinare e orientare le azioni di settori importanti della società cittadina. La principale fonte che ci permette di conoscere la vita politica franca del VI sec è rappresentata dalle Storie di Gregorio di Tours: è una narrazione che ci offre molte notizie sui re,sui loro poteri e sui loro comportamenti politici, ma che al contempo mette al centro della scena i vescovi. La narrazione di Gregorio ci ricorda anche che i vescovi non erano solo centri di potere e di ricchezza, ma anche i centri della cultura e della memoria del popolo franco. Le sedi vescovili non furono i solo enti religiosi importanti nella società franca del VI sec, perché un peso di rilievo deve essere attribuito ai monasteri. In occidente lungo la seconda metà del IV sec cogliamo l'emergere di esperienze prima eremitiche-di singoli individui-poi cenobitiche-di comunità. La vicenda di MARTINO DI TOURS è significativa: figlio di un ufficiale dell'esercito imperiale, fu un soldato prima di convertirsi all vota religiosa come monaco; in seguito fu scelto come vescovo di Tours, dove morì circondato da una fama di santità. La vicenda è stata tramandata da Gregorio di Tours. La fama di Martino andò al di là di Tours e dei suoi vescovi: già a partire da Clodoveo, infatti, i re franchi fecero di Martino un punto di riferimento della propria religiosità e un patrono del regno. La vicenda di Martino mette in evidenza come mondo monastico e mondo vescovile fossero tutt'altro che separati: condividevano la fondamentale funzione della preghiera e del culto (l'opus dei) e i grandi monasteri erano un bacino di reclutamento importante per i vescovi. In Africa S. Agostino, vescovo di Ippona all'inizio del V sec, promosse forme di vita religiosa in comunità. In Italia le prime rilevanti esperienze monastiche furono quelle promosse da S Gerolamo alla fine del IV sec. L'Italua del V-VI sec fu il terreno di affermazione di una grande varietà di esprienze monastiche, influenzate da modelli che andavano dal monachesimo orientale a Lérins, e ttalvolta molto specifiche, come fu il caso di Vivarium, il mpoastero fondarto da Cassiodoro che incentrò la propria esperienza religiosa attorno alla dimensiuone culturale e vide nel monastero un luogo di conservazione e rielaborazione della cultura classica. Nei sec successivi prevalse in modo netto il modello benedettino. La forma monastica e la regola proposte da Benedetto si andarono imponendo come modello dominante dell'Eu occidentale. Benedetto, la cui vita ci è nota grazie ai Dialoghi di papa Gregorio Magno, nacque a Norcia nel 480 e scelse di allontanarsi dalla città per vivere una serie di esperienze ascetiche, esperienze che culminarono nel 529 con la fondazione dell'abbazia di Montecassino, dove scrisse la sua regola. Tale regola è l'opera di un monaco e abate esperto, che aveva vissuto forme diverse di monachesimo e si era scontrato con le difficoltà del gestire una comunità, come nel caso di Tivoli, monastero di cui era stato abate ma da cui dovette fuggire minacciato di morte dai monaci. La Regola, che Benedetto scrisse rielaborando un precedente testo anonimo, è fondata su alcuni semplici principi e sulla conoscenza della natura umana e dei suoi limiti, che indusse Benedetto a proporre una forma di ascesi moderata, in cui la principale attività dei monaci era la preghiera, mentre il lavoro trovava un posto del tutto marginale (il testo non contiene la formula ora et labora. Volendo riassumere la Regola in una formula, questa sarebbe prega e obbedisci all'abate). Un dato importante è il collegamento che Benedetto creò tra comunità ed eremiti. La Regola vede nel cenobitismo la via di ascesi proposta a tutti e nell'eremitismo una forma superiore di perfezione, a cui potevano accedere solo i monaci spiritualmente più forti, con l'autorizzazione dell'abate. Attorno alle abbazie benedettine si creò una specie di nebulosa di eremiti, che conducevano una vita ascetica individuale, ma riconoscevano l'autorità dell'abate. La Regola all'inizio del IX sec divenne il testo normativo di riferimento per tutti i monasteri dell'Eu occidentale. Questo però non diede vita a un ordine benedettino, non esisteva un'istituzione superiore che coordinasse tutte le abbazie: il vertice della comunità era l'abate, che veniva consacrato da un vescovo, ma che non aveva alcun superiore gerarchico. Solo dall'XI sec si avviarono alcune sperimentazioni tendenti a coordinare diversi monasteri. Un'altra importante esperienza fu quella irlandese. In Irlanda nacque un movimento di monaci verso il continente, tra i quali spicca la figura di S Colombano, che rinnovarono il monachesimo nell'Eu continentale, stimolarono nuove fondazioni e importarono un monachesimo attento sia alla dimensione penitenziale, sia alla tutela della piena autonomia dei monasteri da ogni controllo vescovile. Tra VIII e IX sec questi monasteri confluirono all'interno del modello dominante rappresentato dalla regola benedettina. Tutti i monasteri, benché fossero luoghi di isolamento dal mondo, ebbero una relazione intensa con la società circostante, e in particolare con l'aristocrazia, tramite azioni diverse: donazioni di terra dai laici ai monasteri, monacazioni di esponenti delle grandi famiglie aristocratiche, reclutamento dei nuovi vescovi dall'interno dei monasteri. I regni e l'aristocrazia L'aristocrazia fu la base della forza egemonica che il popolo franco seppe esercitare su larghi settori dell'Eu altomedievale; ma l'efficacia politico-militare dei Franchi derivò soprattutto dal coordinamento di questa aristocratici attorno ai re. La ripresa di forme e strumenti di governo di tradizione romana fu espressa con la massima evidenza nella scelta compiuta da Clodoveo di promuovere una redazione scritta delle leggi franche, la cosiddetta LEX SALICA (o PACTUS LEGIS SALICAE), la cui stesura risale al 510. la redazione delle leggi dei longobardi, più di un sec dopo, permetterà al re ROTARI di affermare la propria superiorità, la propria capacità di creare e modificare le norme; nel caso dei Franchi, l'immagine presentata nel prologo è molto diversa: il re non c'è, il protagonista è il popolo con i suoi aristocratici, che per cercare la pace e la giustizia si affidano alla saggezza di 4 uomini. Al centro del sistema politico c'è l'assemblea degli uomini liberi, luogo delle scelte politiche. Il potere regio non era quindi celebrato nel testo delle leggi, ma era costruito nella concreta prassi politica, tramite l'efficace coordinamento dell'aristocrazia. I Franchi organizzarono una forma di controllo del territorio attraverso la sua suddivisione in distretti, affidati ognuno a un comes-conte-(il quadro distrettuale rivela una chiara matrice romana). Tra re e aristocrazia vi erano rapporti di tipo clientelare:il re affidava funzioni alle persone di cui si fidava, prima di tutto ai suoi fedeli, alla sua trustis-il proprio seguito armato. Gli eserciti erano ricompensati con concessioni di terra. Il regno franco perciò, non dovendo stipendiare l'esercito e in assenza di una costosa capitale, abbandonò il prelievo delle imposte dirette. Ma i Franchi, rispetto agli altri regni, erano più ricchi: le famiglie aristocratiche e le chiese accumulavano grandi patrimoni fondiari, più di quanto avvenisse in altre parti d'Eu; soprattutto i merovingi erano più ricchi degli altri re loro contemporanei e molto più ricchi delle altre famiglie aristocratiche franche. Di conseguenza la società politica franca era fortemente polarizzata attorno al re: le famiglie aristocratiche cercavano di aumentare la propria potenza tramite i legami politici e clientelari con i re. I Franchi, però, non avevano una capitale: i merovingi avevano una serie di residenze privilegiate. La tradizione politica germanica attribuiva all'assemblea dell'esercito grandi poteri. Questi poteri andarono rapidamente attenuandosi, con il crescere sia della forza di mediazione aristocratica, sia del carattere dinastico della monarchia, che si trasmetteva di padre in figlio, riducendo l'assemblea a una funzione di ratifica, non di scelta del nuovo re. Questo non implicò la scomparsa delle assemblee, ma una loro ridefinizione: la grande assemblea dell'esercito rimase il luogo delle principali decisioni politiche e il punto di partenza per le grandi spedizioni. Al contempo assunsero importanza le assemblee regionali, attorno ai singoli conti, occasioni di deliberazione politica ma soprattutto giudiziaria. Tali assemblee non portarono a una frammentazione del regno in dominazioni minori; una tendenza alla frammentazione derivò piuttosto dai meccanismi di successione al trono. Il regno e la corona venivano normalmente spartiti tra i discendenti. Ma si andarono rapidamente delineando alcune fondamentali partizioni: i regni di Austrasia (il nord-est, più connotato in senso germanico), di Neustria (il nord-ovest), di Burgundia (il sud-est, l'antico territorio dominato dai Burgundi e poi sottomesso all'egemonia franca) e di Aquitania (a sud-ovest). Tutti i processi di divisione e ricomposizione si svilupparono sempre all'interno della famiglia merovingia: alla morte di un re, non era mai chiaro quali e quanti dei suoi figli sarebbero ascesi al trono. Queste divisioni limitarono l'azione dei re franchi verso l'esterno del regno, ma nonostante ciò la forza dell'aristocrazia e dei re fu tale da consentire una duratura ed efficace egemonia che andò ben oltre la Gallia. Di fatto i Franchi del VI sec esercitarono un controllo indiretto ma efficace su larga parte dell'attuale Germania e in seguito affermarono un'egemonia sull'Italia longobarda. La rottura del mediterraneo romano Roma in età repubblicana aveva realizzato l'unità del mediterraneo. Il dominio romano restò un sistema di società molto diverse, riunite dalla sottomissione politica, dall'apparato burocratico e da un capillare sistema fiscale. Produzione e scambi in occidente I funzionamenti economici altomedievali sono molto difficili da leggere attraverso le fonti scritte, che ci offrono dati discontinui, senza alcuna vera rilevanza statistica. Perciò negli ultimi decenni l'intervento dei dati archeologici ha assunto un peso via via maggiore. A lungo gli scavi archeologici avevano trascurato gli strati di età medievale a favore di quelli più antichi. Per condurre un'indagine per l'alto medioevo, l'indicatore migliore è costituito dai resti ceramici: la ceramica fine da avola ci dà indicazioni soprattutto sulla domanda aristocratica, sull'importazione o sulla produzione locale di oggetti di un certo pregio; le anfore ci informano invece sullo scambio interregionale di prodotti agrari. Il sistema economico romano subì una prima importante trasformazione a partire dal II sec, quando l'impero terminò la sua lunga fase di espansione con la definizione di un territorio protetto dal limes del Reno e del Danubio. L'afflusso di bottino e schiavi rallentò con il rallentare dell'azione militare romana, e si avviò una lunga stagione di complessivo equilibrio, in cui tuttavia i costi dell'unificazione politica (esercito, burocrazia, infrastrutture) pesarono in modo rilevante; mentre le produzioni specializzate delle regioni si aprivano a un enorme mercato mediterraneo ed eu. Nei primi sec del medioevo ci fu un mutamento profondo, che comportò la rottura dei più grandi circuiti di scambio e la crisi di molte forme di produzione, nel contesto di un generale calo demografico. Per leggere questo mutamento economico, il punto di partenza è la trasformazione sul piano politico e militare, la fine del dominio imperiale sull'occidente, con la conseguente interruzione dei meccanismi fiscali. All'interno delle singole regioni, si ridussero le funzioni delle città e mutarono i sistemi di produzione e scambio; livello macroeconomico, si trasformarono le forme della circolazione e dello scambio ed ebbe fine l'interdipendenza tra le diverse parti dell'impero. Città La crisi riguardò le città, la cui importanza in età antica era dettata dalla loro funzione come centri del potere e del fisco imperiale. Il tramonto del sistema imperiale allontanò le élite dalle città_ per essere potenti era sempre più importante valorizzare le terre. In un contesto di calo demografico, la crisi delle funzioni dei centri urbani fu accompagnata da una loro drastica riduzione di popolazione. Gli scavi di contesti urbani mostrano per questi sec case più semplici e frazionate, l'occupazione degli spazi pubblici da parte di chiese o edifici privati e in alcuni casi una vera e propria frammentazione dello spazio urbano in una serie di piccoli insediamenti discontinui, raccolti all'interno delle mura di età romana. La città che subì la trasformazione più radicale fu Roma: era stata una metropoli di un milione di abitanti perché sostenuta dalle risorse fiscali dell'impero; venuti meno l'impero e il suo sistema fiscale, Roma poté sostenersi solo con le risorse provenienti dal Lazio e dalle terre del suo vescovo. Fu quindi naturale la rapida e profonda riduzione della popolazione urbana: gli abitanti vivevano in una serie di villaggi intervallati da spazi disabitati, riutilizzando i monumenti antichi come case e fortezze e organizzandosi attorno al vescovo e al suo palazzo del Laterano(la basilica di S Pietro era posta fuori dalle mura aureliane). Nel complessivo quadro eu e mediterraneo, questa crisi non significò la fine dell'urbanesimo, perché i centri urbani conservarono molte funzioni nei confronti del territorio circostante, anche grazie alla continuità garantita dal potere vescovile. D'altra parte, la rottura del quadro politico imperiale comportò una riduzione significativa sia delle ricchezze, sia della disponibilità di beni provenienti da altre regioni. Reti e a una spartizione dell'Italia, riservando agli Ostrogoti la regione a nord del Po. Questo precario equilibrio fu rotto però quando salì sul trono italico TOTILA, che rilanciò l'azione militare gota: il re condusse una campagna militare efficace, con una parziale riconquista dei territori imperiali. Giustiniano sostituì Belisario con NARSETE, che, in una campagna via terra, portò alla piena conquista dell'Italia. La durata del conflitto provocò grandi danni materiali e umani, che colpirono in particolare la grande aristocrazia senatoria: Giustiniano, quindi, dopo la conquista, emanò la PRAMMATICA SANZIONE, una norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila. L'imperatore ricostituì un quadro di governo imperiale sull'Italia, organizzato attorno all'esarca di Ravenna (città con funzione di residenza regia e di capitale sotto Teodorico). Giustiniano lasciò l'urbe nelle mani del suo vescovo, perché la presenza imperiale in Italia era troppo fragile per complicarsi la vita con una tensione e una concorrenza con i pontefici. La fragilità del dominio imperiale in Italia emerse con chiarezza quando i longobardi valicarono le Alpi e diedero vita a una conquista lunga (568). I longobardi si impadronirono del Friuli e del nord-est, per poi espandersi all'intera pianura padana, ma rimasero sempre esclusi dalla zona di Ravenna. Si crearono così due Italie: i longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all'impero restarono il Lazio, l'area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del meridione continentale e le grandi isole. L'eredità di Giustiniano dal punto di vista territoriale fu molto fragile: l'Africa restò imperiale per un sec (arabi), la Spagna rimase dei visigoti, l'Italia fu conquistata dai longobardi. Un ulteriore piano dell'azione dell'imperatore fu quello teologico ed ecclesiastico, che mirava a ricostituire l'unità religiosa dell'impero. Dibattiti teologici e identità locali Nel V e Vi sec la distinzione tra cattolici e ariani aveva modificato le forme di convivenza all'interno dei regni e così in questo stesso periodo il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: la questione non era più il rapporto tra le diverse persone della Trinità, ma la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana. Il dibattito, che aveva come fulcro il ruolo di Maria, coinvolse l'insieme dei fedeli. Il vescovo di Costantinopoli NESTORIO di Antiochia sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte-umana e divina-e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di madre di Dio. Il nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso del 431: aveva una debolezza intellettuale perché fondava in modo insufficiente l'unità delle due nature di Cristo, non affermando in modo solido il pieno coinvolgimento del Figlio, della natura divina, nella sofferenza e morte di Cristo. Il nestorianesimo, bandito dai territori dell'impero romano, si conservò negli episcopati sottoposti all'impero persiano dei sassanidi. La via teologica elaborata in ambito alessandrino fu il monofisismo: in questa interpretazione, umanità e divinità si fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado sia di soffrire concretamente sia di operare la redenzione. Questa posizione fu condannata nel concilio di Calcedonia del 451. dal punto di vita teologico, offuscava le due nature, cancellandone le specificità. Il concilio, infatti, propose il diofisismo, che sostenne la presenza di due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona del Cristo (formula adottata dalla chiesa cattolica e ortodossa). La questione non era puramente teologica, ma anche politica ed ecclesiastica: la posizione diofisista fu sostenuta da Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. Il concilio di Calcedonia affidò a Costantinopoli il ruolo di sede patriarcale. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e per l'ortodossia religiosa era una componente fondamentale dell'ideologica universalistica: ecco perché TEODOSIO II condannò il nestorianesimo a Efeso e MARCIANO il monofisismo a Calcedonia. GIUSTINIANO condannò i tre capitoli, testi diofisiti le cui formulazioni più spinte portarono all'accusa di nestorianesimo: si trattò di un tentativo di avvicinare i monofisiti d'Egitto, rifiutando le formulazioni diofisite più estreme. Ma il progetto fallì perché le chiese d'occidente respinsero le posizioni imperiali. Anche l'imperatore ERACLIO nell'VIII sec tentò di riavvicinare i monofisiti, promuovendo la posizione del monotelismo, ovvero l'idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite da un'unica attività e un'unica volontà. Ma anche questo tentativo di conciliazione fallì. Il diofisismo era ormai dominante nell'impero e in occidente; le posizioni diverse erano vive in regioni sfuggite al controllo imperiale. La divisione teologica quindi non minava l'unità imperiale. IL SISTEMA DI DOMINAZIONE ALTOMEDIEVALE Nobili, chiese e re: ricchezze e poteri Tra VI e VII sec, con l'eccezione della conquista longobarda dell'Italia, la mobilità dei popoli germanici rallenta decisamente e la fisionomia territoriale dei principali regni appare nel complesso definita. Nobili e re I regni altomedievali non possono mai essere visti né come un dominio assoluto dei sovrani, né come una libera e anarchica azione delle aristocrazie: ci troviamo di fronte a un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento e l'azione politica autonoma dell'aristocrazia. Gli elementi comuni, che in tutti questi regni connotano il rapporto tra re e aristocrazia, si possono individuare nei processi di redistribuzione clientelare e nel fondamentale carattere militare del potere regio. Il processo di redistribuzione fu relativamente efficace in tutte le diverse dominazioni, tanto che le famiglie aristocratiche furono sempre attente a conservare un legame con la corte. I re erano i garanti della pace e della giustizia, ma la loro principale funzione restò sempre quella di capi militari, e così l'esercito ebbe sempre una doppia connotazione, come esercito di popolo e come seguito del re. All'inizio del VII sec il regno visigoto appare in piena fase di consolidamento: in questi anni si completarono la conquista della penisola iberica e la conversione al cattolicesimo. Il VII sec fu connotato da un chiaro processo di centralizzazione del potere: la dimostrazione più evidente è la redazione delle leggi-LIBER IUDICIORUM- completata da re RECESVINTO nel 654. E' un testo in cui sono manifeste e dominanti le influenze del diritto romano, che viene integrato solo in parte con le tradizioni di origine germanica. Sia per il regno dei visigoti che per il regno dei franchi, il modello era l'impero cristiano fondato sulla cooperazione tra il sovrano e i vescovi. Questa cooperazione nel regno visigoto trovò espressione nei concili di Toledo. I concili erano sia assemblee ecclesiastiche sia organi di governo del regno. I vescovi, come nel regno franco, costruirono un rapporto di vera simbiosi con il potere regio. La centralizzazione del potere non comportò un pieno controllo dell'aristocrazia: sono infatti numerosi i conflitti, i colpi di stato, le deposizioni di re. Ma anche questi episodi sono rivelatori della centralità assunta dal potere regio, concepito come una struttura forte a cui l'aristocrazia voleva avvicinarsi. Il regno visigoto alla fine del VII sec era probabilmente la struttura politica più forte e coesa dell'occidente europeo. Tuttavia il consolidamento del potere regio lasciava spazio a un imperfetto controllo militare del territorio: all'inizio dell'VIII sec la conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. Le isole britanniche nel VII sec restarono invece caratterizzate dall'alta frammentazione politica: in Irlanda, la conversione al cristianesimo lungo il VI sec aveva posto al centro i monasteri, sia per quanto riguarda l'organizzazione ecclesiastica sia per l'apertura verso orizzonti eu; ma non cambiò la struttura politica dell'isola, divisa in una moltitudine di regni. La stessa pluralità di regni si ritrova in Britannia, ma qui si assiste a una più chiara tendenza alla gerarchizzazione: il VII sec è segnato dal completamento del processo di conversione al cristianesimo e dall'apertura a influssi provenienti dalla Gallia franca, quindi da questo sec quest'area entrò a far parte dell'Eu cristiana (cosa che non era nel periodo precedente). In Britannia rimase debole il livello di urbanizzazione: da un lato sono attestati molti regni, diversi per dimensioni e importanza; dall'altro, il principale cronista inglese del sec, il monaco BEDA, mostra di pensare all'Inghilterra come a uno spazio unitario di civiltà. Sono due dati divergenti, ma non propriamente contraddittori: forme di viltà e modelli politici analoghi connotano l'intera isola, senza che questo implichi l'unità politica. Quindi, per l'Inghilterra si può dire che: -esisteva una pluralità di regni -alcuni regni sono più definiti e stabili (Mercia e Northumbria) -tra VII e VIII sec si affermò in modo discontinuo un'egemonia dei re di Mercia sui regni meridionali, una superiorità che si consolidò soprattutto alla fine dell'VIII sec, sotto il re Offa -il contenuto effettivo di questa egemonia è assai difficile da definire la frammentazione politica dell'Inghilterra è un dato di lungo periodo, corretto solo parzialmente dalla crescita del regno di Mercia. Nel regno dei FRANCHI tra VII e VIII sec si andarono costruendo le basi di potere di quella che alla fine dell'VII sec diverrà la dinastia più potente d'Eu, i CAROLINGI. Lo spazio politico franco rimase sempre molto rilevante: l'attuale Francia e la parte più occidentale della Germania. Il controllo e la presenza dei re all'interno di questo territorio erano diversificati: i MEROVINGI, privi di una capitale stabile, furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi. Il fondamento principale del potere merovingio era il legame con l'aristocrazia: un legame solido, tale per cui l'aristocrazia franca non era disposta ad accettare un re che non fosse della dinastia merovingia. Era un legame fondato sulla chiara affermazione della diversità dei merovingi da ogni altra dinastia presente nel regno. I merovingi erano molto più ricchi di qualunque altra famiglia, si legavano matrimonialmente con dinastie regie esterne al regno franco, compivano una serie di atti rituali destinati a riaffermare simbolicamente la loro differenza. Fu dall'interno dell'aristocrazia franca che crebbe la famiglia dei PIPINIDI-CAROLINGI. Nei primi anni del VII sec, nel contesto delle lotte per il potere interne alla stirpe merovingia, ARNOLFO DI METZ e PIPINO DI LANDEN, i leader dei due principali clan aristocratici dell'Austrasia, la parte nordorientale del regno franco-tra Belgio e Germania, si allearono per appoggiare l'ascesa al trono del re CLOTARIO II e ne furono ricompensati: Arnolfo con la carica di vescovo di Metz, Pipino con quella di maestro di palazzo del regno di Austrasia. Dal matrimonio tra la figlia di Pipino e il figlio di Arnolfo nacque un sistema parentale potente, che si andò affermando nell'intera dominazione franca. Il maestro di palazzo era,in ogni regno franco, il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia. Un ruolo quindi di grandi potenzialità, che divenne obiettivo specifico della famiglia pipinide nei decenni successivi. La forza della dinastia si espresse nei momenti in cui un suo esponente, come CARLO MARTELLO nell'VIII sec, riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni che andavano a costituire la dominazione franca. Non era possibile prendere direttamente il controllo del regno (il pipinide Grimoaldo fu giustiziato per aver tentato di usurpare il trono): l'aristocrazia franca infatti era in massima parte fedele all'idea che gli unici legittimati ad ascendere al trono fossero i merovingi. Ma i pipinidi tentarono la loro scalata sociale legando a sé per via clientelare le maggiori famiglie austrasiane. E' da datare alla fine dell'VIII sec la formalizzazione dei rapporti vassallatici, i legami di fedeltà militare che avranno un peso di rilievo nei secoli centrali del medioevo. In questa fase, invece, si tratta di solidarietà militari: la capacità di coordinamento dell'aristocrazia da parte dei pipinidi si tradusse in forza armata, in una capacità di agire militarmente in modo autonomo, non sempre e non necessariamente al servizio dei re merovingi. Nel soprannome di CARLO MARTELLO, Martello, piccolo Marte, si evince la centralità della componente militare dell'immagine che Carlo trasmise di sé (grazie alla sua forza militare trasformò una condizione politica incerta in un dominio di fatto sull'intero spazio politico franco). La sua impresa più celebre fu la battaglia di Poitiers del 732, quando sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica: non fu una battaglia di grande rilievo militare, ma mise fine a incursioni e saccheggi (gli storici più vicini alla dinastia hanno esaltato la battaglia come momento determinante per salvare il regno da una conquista islamica). La componente militare era importante sia sul piano concreto, nel garantire la forza politica dei maestri di palazzo, sia su quello ideologico, come base per la celebrazione dinastica. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, PIPINO IL BREVE a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi merovingi. Ma già nei primi decenni dell'VIII sec la famiglia si muoveva in una prospettiva di pieno controllo dell'intero mondo franco, per quanto l'accesso alla corona fosse ritenuto illegittimo. Il mito dei re fannulloni, ovvero degli ultimi re merovingi come incapaci e nullafacenti, è solo un mito costruito nel IX sec dalla corte carolingia per riaffermare a distanza di anni la legittimità del proprio colpo di stato del 751. Ma i re dell'VIII sec erano comunque realmente indeboliti: probabilmente il consolidato e indiscusso controllo della corona attenuò l'impegno dei merovingi a costruire il consenso e a elaborare rapporti con l'aristocrazia. La capacità dei pipinidi di agire in una prospettiva ampia si può cogliere anche osservando l'appoggio dato da Carlo Martello e da suo figlio alla missione del monaco Wynfrith nelle regioni orientali dell'attuale Germania. L'azione dei due pipinidi ci dice tre cose importanti sulla loro politica: -l'apertura verso territori orientali, su cui alla fine del secolo si affermerà il dominio franco -la tutela delle chiese e della loro espansione -i collegamenti indiretti con il vescovo di Roma: ma solo con il colpo di stato che nel 751 portò Pipino sul trono il legame acquistò rilievo e divenne un'alleanza stabile. Terre e uomini Le gerarchie sociali altomedievali erano costruite in larga parte sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco significava avere molte terre. In tutta Eu il popolamento era infinitamente più basso di quello attuale e le campagne altomedievali erano uno spazio a bassissima densità abitativa. Il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i terreni coltivati, mentre era probabilmente raro l'insediamento sparso, ovvero singole case contadine isolate. La forma più diffusa di insediamento era il villaggio, costituito dall'integrazione tra case e terre. Era un nucleo di case contadine attorno a cui si sviluppavano una serie di cerchi concentrici, che comprendevano le principali risorse agrarie: nelle immediate vicinanze delle case c'erano gli orti e le colture specializzate, quelle che richiedevano lavori più continui e delicati; attorno al villaggio si estendevano poi i campi coltivati a cereali e i pascoli. La divisione tra campi e pascoli non era la separazione tra due spazi distinti, ma piuttosto un'alternanza d'uso delle stesse terre: si adottava infatti un sistema di rotazione biennale. Data la diversa specializzazione delle terre (orti, campi, prati), la terra di una famiglia contadina era frammentata e dispersa, a coprire le diverse esigenze longobardo. Il potere regio nasceva dal coordinamento delle farae e dei duchi. L'ampia autonomia dei duchi si rivela nelle forme dell'espansione longobarda in Italia, durante la quale i duchi si spinsero alla conquista di Spoleto e Benevento. Non possiamo ragionare in termini di ducati, di circoscrizioni territorialmente definite- come sarà all'interno dell'impero carolingio-ma di sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediavano: i duchi avevano chiaro su quali persone comandassero, ma minore era l'interesse a definire su quali spazi questo potere si esercitasse. Il re era una guida militare che si distingueva per la sua forza fisica. Il re longobardo teoricamente era scelto dall'assemblea degli esercitali, gli appartenenti all'esercito; ma di fatto era nominato dai duchi. Le tendenze dinastiche furono ricorrenti, ma non c'era alcun automatismo. Re Alboino fu ucciso-forse da una congiura di palazzo, forse con l'appoggio dell'impero-e a lui succedette CLEFI, che fu anche lui ucciso. Dal 574 al 584 i longobardi rimasero senza re perché, finita la fase di conquista, i duchi ritennero che un re non fosse necessario. Il re tornò a causa di esigenze militari, ovvero per la pressione dei franchi. Dal 584 i longobardi ebbero sempre un re e nel momento in cui i duchi presero atto della necessità della figura del re, scelsero AUTARI, figlio di Clefi. Alla morte di questi, gli succedette la moglie TEODOLINDA, che sposando il duca AGILULFO ne fece il nuovo re. Si affermò nel regno una pratica politica importante: l'identificazione di una capitale (Teodorico scelse una capitale, ma franchi no). I longobardi scelsero Pavia, già residenza di Teodorico, che non fu solo residenza regia, ma anche la sede degli organismi che facevano capo al re. Longobardi e romani Teodolinda era una bavara, Agilulfo un turingio: nessuno dei due era longobardo di sangue: questo dato ci offre un'immagine efficace della fluidità etnica del popolo longobardo. I corredi funerari rivendicavano l'appartenenza etnica del defunto, ma anche e più spesso ciò che egli voleva essere. I segni del continuo processo di etnogenesi si colgono nella redazione della Origo gentis langobardorum-metà del VII sec-, un racconto delle vicende del popolo dalle origini fino alla costruzione del regno in Italia. Raccontare la storia di un popolo è un modo per rafforzarne l'identità e la coesione: l'origine dei longobardi si pone tra guerra e religione: i winnili combattono i vandali al seguito dei propri capi, ma sarà solo il dio Wotan, concedendo loro la vittoria e attribuendo il nome di longobardi, a sancire la vera genesi di questo popolo. Dopo lo stanziamento in Italia, settori importanti della corte regia erano impegnati a consolidare la coesione etnica longobarda, forse indebolita dall'avvio di un processo di assimilazione con le popolazioni romane. Al momento dell'invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri: gli aristocratici romani furono esclusi dal potere nel regno, subirono espropriazioni e emigrarono perché il potere si concentrò nelle mani dei duchi longobardi. Ma nel giro di poche generazioni la convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti e l'assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica fra longobardi e romani. Alla metà del sec VIII l'appartenenza al popolo e all'esercito longobardo era un fatto politico e territoriale, senza distinzioni etniche. La religiosità longobarda al momento della discesa comprendeva credenze pagane tradizionali e cristianesimo ariano. La loro conversione solo parziale al cristianesimo nella versione ariana è una manifestazione della loro romanizzazione debole, ma la fede ariana divenne un perno attorno a cui i longobardi consolidarono una propria identità etnica distinta dai romani: la presenza all'interno delle città di vescovi e sacerdoti ariani, al fianco di quelli cattolici, contribuì a delineare due comunità affiancate. Lo racconta Paolo Diacono parlando del regno di ROTARI (636-652), re ariano. La regina Teodolinda era cattolica; mentre Agilulfo ariano, ma questi acconsentì al battesimo cattolico del figlio e appoggiò l'opera missionaria del monaco irlandese Colombano e la sua fondazione dell'abbazia di Bobbio. Però questo non fu l'avvio di una conversione dei re o dell'intero popolo longobardo al cattolicesimo (diversamente, il battesimo di Clodoveo aveva innescato una rapida e massiccia conversione dell'esercito): la conversione fu molto lenta e solo nel sec VIII il regno longobardo diventò cattolico con LIUTPRANDO e ASTOLFO-l'arianesimo non fu più fattore di consolidamento dell'identità. In Italia non si realizzò il processo di simbiosi tra il regno e i vescovi e non si superarono mai le tensioni politico-territoriali ed ideologico-religiose tra longobardi e vescovo di Roma. Il controllo imperiale sull'Italia fu discontinuo a causa delle esigenze fiscali, delle tendenze autonomistiche di alcuni territori italiani e delle tensioni militari che impegnarono gli eserciti su altri fronti. Roma era l'unica sede patriarcale d'occidente e Ravenna fu scelta come residenza dell'esarca-il funzionario imperiale incaricato di governare l'Italia. Papa GREGORIO MAGNO (590-604) incarna le potenzialità politico-territoriali del papato: la debolezza dell'impero in Italia era un problema, ma anche un'opportunità per i vescovi di agire sui piani politici e amministrativi: Gregorio usò il ricco patrimonio vescovile per garantire il regolare afflusso di grano in città e contrattò con i longobardi per definire le forme di equilibrio tra le due dominazioni. Nei decenni centrali del VII sec l'espansione araba sottrasse al controllo imperiale sia l'Egitto sia la provincia della Proconsularis-la Tunisia-ovvero i due grandi granai dell'impero. Così tale funzione fu attribuita alla Sicilia. Tra la metà e la fine del VII sec l'impero dovette affrontare le pressioni militari di arabi, bulgari e avari. Gli arabi assediarono Costantinopoli nel 717. Inoltre, l'orientamento iconoclasta della corte imperiale determinò una profonda frattura religiosa con l'occidente: tale ostilità orientò il papa a favore dei franchi, visti come i migliori possibili difensori della chiesa di Roma. Crescita e fine del regno L'editto di Rotari fu promulgato nel 643 e rientra in un processo di rafforzamento regio. La scrittura in latino delle leggi è la ripresa di un modello politico romano, del tutto assente nelle popolazioni germaniche. Nel prologo dell'editto Rotari pone al centro la propria persona, datando le leggi secondo gli anni del suo regno e quelli della sua vita. Il testo è redatto nel centro fisico del potere regio, a Pavia. La legge non viene trascritta, ma promulgata al fine di integrare le norme ed eliminare quelle superflue: non si tratta di una passiva trascrizione delle consuetudini, ma di un'azione innovativa, di cui Rotari si proclama autore. L'editto pone in piena evidenza l'inviolabilità del re. La gens langobardorum è più volte ricordata: la connotazione etnica non è scomparsa, ma è più importante la connotazione politica, l'identificazione del popolo come insieme delle persone sottomesse allo stesso re. Si coglie l'esigenza di Rotari di controllare tutta la popolazione presente nel regno (ciò significa che il processo di fusione tra romani e longobardi era avviato). L'Italia longobarda a metà del VII sec era impoverita, in larga parte rurale, in cui l'unico fondamento della ricchezza era costituito dalla terra. Era un mondo dominato da un élite militare in cui compaiono i gasindii, persone al servizio dei duchi o di altri potenti probabilmente con compiti militari. Sulla società si impose il potere regio, che rivendicò il proprio potere legislativo e nell'editto affermò la propria centralità giudiziaria. Da Rotari in poi furono promulgate nuove leggi dai re Grimoaldo, Liutprando, Ratchis e Astolfo, i quali introdussero integrazioni e correzioni all'editto di Rotari. L'attività legislativa durante gli ultimi decenni del VII sec e lungo il sec seguente divenne un'azione normale dei re. I due assi fondamentali dell'azione di Rotari furono l'ampliamento territoriale del regno e la scrittura dell'editto: sono due fenomeni che costituirono l'avvio di un processo di rafforzamento del potere regio. Lungo il VII sec al fianco del tradizionale meccanismo di elezione regia, emerse una tendenza dinastica, che non sostituì il meccanismo tradizionale ma lo condizionò solamente, anche perché il potere dell'élite ducale era molto forte. Il regno di LIUTPRANDO (712-744) può essere considerato un punto di svolta perché fu un momento in cui si rafforzarono le tendenze dinastiche (Liutprando succedette al padre, per poi trasmettere la corona al figlio). Militarmente Liutprando agì su un orizzonte pienamente italiano, nella prospettiva di costruire un dominio longobardo sull'intera penisola: sottomise i ducati di Spoleto e Benevento, conquistò per un breve eriodo Ravenna, portò le proprie truppe di fronte alle mura di Roma. Inoltre, intervenne in modo ampio nell'editto di Rotari: si nota l'emergere di una ideologia cattolica del regno, che non significa solo conversione al cattolicesimo ma trasformazione dell'ideologia del potere regio, che si presentava ora come cattolico, protettore della fede e delle chiese. Ma questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte collaborazione con i vescovi a causa della lunga tensione religiosa tra cattolici e ariani, della gravitazione dell'episcopato italiano attorno alle sedi di Ravenna e Roma, della persistente conflittualità politico- territoriale tra aree longobarde e imperiali. La mancata collaborazione dei vescovi privò però il regno di un sostegno materiale, politico e culturale. Sotto Liutprando si istituzionalizzò la figura dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio, ma che anche andarono a costituire un contrappeso al potere dei duchi e un canale di efficace comunicazione politica tra il re e i sudditi. I re valorizzarono le forme di fedeltà personali: i gasindii, i fedeli armati, sono attestati al seguito di duchi e di altri potenti e non avevano uno statuto speciale come quello dei gasindii regi, ovvero coloro che si erano legati alla persona del re tramite uno speciale e personale rapporto di fedeltà. Attorno alla metà del sec VIII il regno longobardo si era consolidato al proprio interno, con un crescente potere del re nei confronti dei duchi e si era completato il processo di integrazione tra romani e longobardi. Se al momento dell'invasione l'attività militare era una prerogativa del popolo sceso in Italia al seguito di Alboino, due sec dopo era un compito di cui dovevano farsi carico tutti coloro che abitavano nel regno. Negli anni centrali dell'VIII sec l'equilibrio politico tra franchi, longobardi e papato si ruppe per un cambiamento da parte del papato (la tensione e la ricorrente conflittualità tra Roma e i longobardi arrivò a una rottura insanabile, e questo orientamento papale si saldò con la potenza crescente del regno franco, con i pipinidi-carolingi, ascesi al trono nel 751 proprio con l'appoggio del papato). L'alleanza tra il papato e i carolingi si concretò in due spedizioni: nel 754 PIPINO IL BREVE scese in Italia, sconfisse il re ASTOLFO, tolse ai longobardi la regione di Ravenna dandola alla Chiesa di Roma. Suo figlio, CARLO MAGNO, sconfisse di nuovo i longobardi in modo definitivo: deposto il re DESIDERIO, si impossessò del regno annettendo l'Italia centro- settentrionale al dominio franco. La conquista franca pose fine al regno, ma non alla storia longobarda: Carlo si intitolò rex francorum et langobardorum. Il regno d'Italia diventò una delle grandi partizioni dell'impero carolingio, Pavia continuò a essere la capitale, il ducato di Benevento soppravvisse come dominazione autonoma. Solo nell' XI sec i normanni ricostituirono l'unità politico-territoriale dell'Italia del sud. Impero carolingio, ecclesia carolingia L'impero carolingio fu la realtà politica più ampia del medioevo occidentale e trasformò molti aspetti della vita associata: le reti di scambio, il ruolo delle chiese e del papato, i funzionamenti della giustizia. In questo impero si compì la più alta simbiosi tra potere regio e potere sacerdotale e si aprirono orizzonti culturali e commerciali prima assenti. L'ecclesia era l'insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi e nell'imperatore, che convergevano con strumenti diversi verso lo stesso duplice fine: la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Impero ed ecclesia non erano stato e chiesa, ma due modi per leggere la stessa realtà. Dal regno all'impero Tra VII e VIII sec i regni merovingi furono l'ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale, i pipinidi, che seppero costruire un potere egemone sull'intero mondo franco, grazie a diverse azioni politiche: l'iniziativa militare, la costruzione di una rete clientelare nell'aristocrazia d'Austrasia, l'occupazione della carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, la protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith, promosse dal papato nelle regioni orientali della Germania. Una data chiave è il 751, quando PIPINO III depose il re CHILDERICO III e assunse il trono. Gli Annali del regno dei franchi, prodotti da ambienti vicini alla corte carolingia, narrano che i grandi del regno avevano mandato due ambasciatori a papa Zaccaria, per chiedergli se fosse bene che i re dei franchi non avessero alcun potere reale; il papa avrebbe risposto che era meglio che fosse chiamato re chi aveva il potere effettivo, e di conseguenza i franchi avrebbero individuato in Pipino il loro nuovo re. La narrazione degli annali pone l'intervento del papa prima dell'incoronazione, per meglio legittimare l'azione di Pipino. Tuttavia, nella deposizione di Childerico il ruolo papale fu minimo e la scelta nacque all'interno del mondo franco (la grande aristocrazia si raccolse attorno ai pipinidi): il colpo di stato si attuò rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma-simbolo della sua forza-e procedendo al rito dell'unzione del nuovo re Pipino da parte del monaco Wynfrith. Probabilmente l'intervento di papa Zaccaria giunse dopo. Nel 754 papa STEFANO II prese atto che contro la ricorrente minaccia militare dei longobardi l'impero di Bisanzio non era più in grado di offrire un sostegno efficace: si volse quindi al nuovo re dei franchi Pipino che incontrò a Saint-Denis, dove ripeté l'unzione sia del re sia dei suoi figli Carlo e Carlomanno, a legittimare il cambio dinastico. Pipino assunse il titolo di patricius, di protettore della Chiesa di Roma, che orientava il regno franco a un impegno permanente di collaborazione e protezione del papato. Pipino si trovò di fronte alla necessità di mettere in gioco un sistema di atti di legittimazione sul piano cerimoniale, politico e storico: l'unzione da parte di Wynfrith, il rinnovo dell'unzione a Pipino e ai figli da parte di Stefano II, l'alleanza stabile con Roma, la costruzione di un racconto dell'ascesa al trono orientato a legittimare la deposizione di Childerico. EGINARDO, il biografo di Carlo Magno, che scrisse dopo l'814-quando i carolingi avevano trasformato il regno dei franchi in un impero di respiro eu, la corte regia era ancora attenta a costruire una narrazione storica tesa a legittimare il colpo di stato di Pipino-,descrisse il vuoto titolo regio di Childerico, il potere concreto e dinastizzato dei pipinidi, l'intervento papale a sostengo del colpo di stato. E' con Eginardo che nacque la rappresentazione degli ultimi re merovingi come re fannulloni. Il re longobardo Astolfo aveva conquistato l'esarcato-la regione di Ravenna-, terra su cui aveva ambizioni egemoniche il papato. Quella di Pipino fu un'azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde: costrinse Astolfo a restituire al papato le terre conquistate e poi tornò in Gallia. Questa spedizione non avviò quindi un periodo di conflittualità tra franchi e longobardi. Anche i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami di solidarietà tra franchi, longobardi e bavari. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato come parte del patrimonio del re e perciò fosse diviso tra tutti i suoi figli maschi: tale pratica successoria portò a continue divisioni e ricomposizioni dei regni franchi. Questo modello di trasmissione del potere non ebbe fine con il passaggio del regno nelle mani dei pipinidi-carolingi, ma ci fu un lungo periodo in cui il potere rimase a un impero come sovrastruttura istituzionale. Ma la morte precoce di due figli, fece sì che l'unico erede fosse LUDOVICO IL PIO. Questo però non evitò tensioni interne al gruppo familiare: il nuovo imperatore dovette gestire le ambizioni dei propri figli, ma anche quelle del figlio del fratello Pipino. Ludovico affermò con la Ordinatio imperii l'idea di unità dell'impero e ruppe con la tradizione franca di spartizione: nominò il primogenito LOTARIO come imperatore e suo unico erede. Fu una scelta che creò tensioni: il figlio del fratello Pipino raccolse attorno a sé una quota consistente dell'aristocrazia italica e organizzò una ribellione, che non ebbe successo; e la nuova moglie di Ludovico il Pio cercò di riaffermare il principio tradizionale della spartizione per favorire il figlio Carlo il Calvo, ma i primi tre figli di Ludovico deposero il padre. Ma alla sua morte, le tensioni sfociarono in un conflitto aperto che oppose Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo: nella battaglia di Fontenoy dell'841 Lotario fu sconfitto dai fratelli; i giuramenti di Strasburgo nell'842 sancirono l'alleanza tra Ludovico e Carlo; la pace di Verdun dell'843 pose fine al conflitto: i fratelli si spartirono l'impero (a Carlo andò il regno dei franchi occidentali, a Ludovico il Germanico quello dei franchi orientali, Lotario ottenne la fascia dall'Alsazia all'Italia). Fu Lotario a mantenere il titolo imperiale perché controllava l'Italia e di conseguenza spettava a lui il compito di tutela della chiesa di Roma. Nell'843 si rinnovò la tradizione franca di spartizione del regno e si rinunciò a UN'IDEA DI IMPERO COME STRUTTURA UNITARIA: si costituirono FORME DI ORGANIZZAZIONE POLTIICA DI RESPIRO REGIONALE GRAZIE AL COORDINAMENTO DELL'ARISTOCRAZIA ATTORNO AI DIVERSI RE. Nell'888 Carlo il Grosso segnò con la sua morte la fine della dinastia carolingia. Negli anni successivi i carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni, ma non furono più la dinastia dominante. Il Mediterraneo bizantino e islamico La nascita dell'islam fu una trasformazione religiosa che si tradusse anche in una ridefinizione dei sistemi politici di ampi territori appartenenti all'impero romano-bizantino e ai regni romano-germanici. All'affermazione dell'islam dobbiamo collegare una riduzione degli orizzonti territoriali, una ridefinizione dei funzionamenti interni e una nuova centralità dell'esercito. Le origini dell'islam La penisola araba nel tardoantico era strutturata attorno alla convivenza di due grandi gruppi: le popolazioni urbane attive sul piano commerciale e le tribù nomadi di pastori. La Mecca era importante per le sue funzioni commerciali e per il prestigio connesso al culto della ka'ba. Sul piano religioso prevalevano forme di politeismo con tendenze al monoteismo. Maometto, nato alla Mecca attorno al 570 da una famiglia mercantile, iniziò la sua opera religiosa quando alcune visioni lo convinsero di essere un inviato di Dio, incaricato di declamare la parola divina. Ma la sua predicazione costituiva una minaccia per il potere dei grandi clan quraishiti della Mecca. L'isolamento politico di Maometto lo convinse nel 622 a fuggire a Medina, dove organizzò una comunità politico-militare a base religiosa divenendo un fattore unificante delle tribù arabe. Rientrato alla Mecca, seppe coinvolgere i gruppi più potenti e valorizzò il pellegrinaggio alla ka'ba, trasformandolo in senso islamico. L'islam fu un potente fattore di coesione ideologica che permise di dare unità politica a forze prima disperse e su questa base avviare un'azione militare che sottomise agli arabi territori di straordinaria ampiezza. Sotto la guida dei primi califfi, i successori di Maometto, gli arabi cancellarono l'impero persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di Bisanzio, conquistando la Siria e la Palestina e avviando la conquista del Nordafrica; conquistarono anche la Spagna visigota e affermarono il loro dominio fino alla valle dell'Indo. L'azione politico-militare dei califfi fu però segnata da fratture legate alla successione. Si contrapposero tre posizioni: i sunniti, gli sciiti, i kharigiti. Nella maggioranza del mondo islamico prevalse l'orientamento sunnita e la funzione califfale fu assunta dalla dinastia degli omayyadi, un importante clan della Mecca, della tribù quraishita. Fu sotto i primi omayyadi che si completò l'espansione territoriale dell'islam e questo pose importanti problemi di convivenza tra gli arabi e le popolazioni sottomesse perché l'islam era concepito dall'élite al potere come la religione degli arabi, con un diretto legame tra identità etnica e identità religiosa. La contrapposizione di fede tra islamici e non islamici non si tradusse in forme di persecuzione, ma i non islamici furono posti in una condizione giuridica inferiore. Gli omayyadi posero il proprio centro a Damasco, in Siria. Dal punto di vista amministrativo e fiscale il califfato fu un erede delle strutture romane e conservò un sistema di prelievo coerente con i precedenti modelli imperiali. Bisanzio: crisi e riorganizzazione dell'impero La dominazione arabo-islamica e quella carolingia intaccarono profondamente l'impero sul piano territoriale e ideologico, togliendogli una prospettiva universale e trasformandolo in un'importante dominazione regionale. Sul piano militare, una svolta significativa fu segnata dal regno di ERACLIO (610-641) che si affermò sull'impero persiano. Sotto Eraclio si avviò una riforma militare e civile: attuò in specifiche regioni una concentrazione di truppe e attribuì pieni poteri amministrativi ai comandanti militari, oltre ad abbandonare il complesso sistema provinciale organizzato da Costantino in favore di un'organizzazione per temi (thema indica una struttura istituzionale, il complessivo inquadramento militare e giurisdizionale di una piccola regione), la cui difesa fu affidata a militari di professione, il cui mantenimento non era garantito da uno stipendio, ma dalla concessione di terre e di esenzioni fiscali. Si situa un duplice mutamento rispetto ai modelli romani: la riunione di poteri militari e civili nelle stesse mani e l'abbandono del sistema di finanziamento dell'esercito basato su tasse e stipendi. Un nuovo momento di rottura nella storia bizantina fu rappresentato, tra la metà dell'VIII sec e la metà del seguente, dal movimento iconoclasta: l'iconoclasmo fu un orientamento religioso che riteneva necessaria, per un culto più puro, la distruzione delle immagini religiose. Con un editto l'imperatore LEONE III, alla ricerca di una religiosità più austera e al rafforzamento della figura imperiale dotata di una forte connotazione religiosa, vietò la venerazione delle immagini, ponendo Bisanzio in diretta contrapposizione alla chiesa di Roma. COSTANTINO V ottenne la condanna formale del culto delle immagini, ma tale condanna non fu l'esito di un concilio ecumenico bensì opera solo della chiesa bizantina. I monaci furono promotori della resistenza all'iconoclasmo. L'allontanamento tra la chiesa orientale e occidentale fu sanato nel corso del IX sec con il ritorno di Bisanzio al culto delle immagini. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli omayyadi furono deposti da una nuova dinastia, gli abbasidi, che spostò la capitale a Baghdad. Il califfato perse le caratteristiche arabe per divenire un dominio islamico, privo di connotazioni etniche. In diversi contesti, gli emiri, delegati del califfo a governare ampi territori, assunsero una piena autonomia d'azione (es gli aghlabiti che realizzarono anche la conquista della Sicilia). Alla fine del X sec l'Egitto si rese autonomo grazie all'iniziativa della dinastia dei fatimidi. L'emirato di al-Andalus, la parte islamica della penisola iberica, convisse a lungo con i regni cristiani in una dinamica non necessariamente conflittuale. Anche gli emiri di al-Andalus assunsero il titolo califfale. Lungo il IX sec gli arabi conquistarono la Sicilia, che divenne una base per incursioni nelle aree peninsulari. Nell'867 salì al trono dell'impero orientale BASILIO I, i cui discendenti, i basilidi o macedoni, segnarono una fase di rafforzamento di Bisanzio: la dinastia realizzò un ampliamento dell'impero e costruì una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti. Una questione chiave fu quella detta del filioque: il credo elaborato a Nicea nel 325 aveva subito un'interpolazione nella sua versione latina, che recitava che lo spirito santo procede dal padre e dal figlio, posizione ritenuta inaccettabile dal clero orientale, che affermava che lo spirito santo procedesse unicamente dal padre. Gli slavi erano un mondo variegato: si trattava di un insieme di popoli con alcuni caratteri culturali e linguistici comuni. I bulgari esercitarono una pressione militare sui confini imperiali lungo l'VIII sec per poi subire un processo di assimilazione religioso-culturale; tra IX e X sec andò invece affermandosi la Grande Moravia. Le diverse dominazioni slave si orientarono verso il cristianesimo, che offriva un riferimento religioso forte ma anche un modello di organizzazione e gerarchizzazione della società (tramite la rete dei vescovi) e una nuova legittimazione del potere regio. I principi slavi temevano però che la conversione avrebbe implicato una sottomissione a uno dei due grandi imperi cristiani: oscillarono tra Roma e Costantinopoli e spesso si orientarono verso il patriarcato più lontano. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: nella metà del IX sec operarono nelle terre slave due fratelli missionari, Cirillo e Metodio, che crearono una grafia apposita per rendere i suoni della lingua slava. Con questa scrittura poterono tradurre i testi sacri e liturgici e avviare così un processo di profonda assimilazione culturale delle popolazioni slave. L'imperatore Basilio I cercò di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio controllo tra Puglia e Calabria; ma dal punto di vista territoriale fu un'azione molto limitata. Società e poteri nel X sec Nell'impero carolingio, nel X sec i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche, ma le principali linee di tendenza furono comuni. In questo sec tramontò definitivamente la struttura imperiale unitaria. I mutamenti dei poteri comitali Tra la fine del IX sec e la metà del X le terre dell'impero furono colpite da nuove minacce militari-saraceni, ungari e normanni-, ma la nuova mobilità militare si può comprendere solo alla luce dell'indebolimento regio e della nuova autonomia delle forze locali. Proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti, facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell'appoggio militare aristocratico e che i più grandi gruppi parentali fossero spesso contesi tra i diversi re perché rientrassero nelle loro clientele vassallatiche. Nella contrattazione politica tra i re e i grandi aristocratici, l'equilibrio si era spostato in favore di questi ultimi: infatti, i singoli funzionari restavano sempre più a lungo nella propria sede e spesso trasmettevano la propria funzione a un figlio. Questo processo fu accompagnato da un mutamento della natura stessa della funzione, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. Dopo l'età carolingia, quindi, le funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici. In questo quadro si inserisce il capitolare di Quierzy-sur-Oise dell'877: Carlo il Calvo in queste norme definì una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il conte morisse mentre il figlio era impegnato in una spedizione con l'imperatore. Si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata ai parenti del conte, ai suoi funzionari, al vescovo o in attesa che giungesse la decisione imperiale. Se il figlio del conte non avesse seguito l'imperatore in Italia, sarebbe toccato naturalmente a lui prendere la gestione del comitato alla morte del padre. La stabilità ereditaria rese possibile la concentrazione del patrimonio del conte all'interno delle aree da lui governate: fu un processo di regionalizzazione delle aristocrazie. Nel corso del X sec ci fu anche la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore, la difficoltà di controllare comunità complesse, indussero gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Queste evoluzioni ci mostrano un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori. Minacce esterne: le incursioni di saraceni, ungari e normanni Il periodo tra IX e X sec fu segnato da un'intensa mobilità di gruppi armati che dall'esterno dell'impero carolingio partirono per una serie di incursioni e saccheggi nelle terre d'Italia, di Francia, di Germania e d'Inghilterra. Si tratta di bande che possono essere ricondotte a tre identità etniche: i normanni, provenienti dalla Scandinavia; gli ungari, insediati nelle steppe dell'Ungheria; i saraceni, bande di pirati del Mediterraneo. I saraceni furono un gruppo etnicamente misto impegnato in attività di saccheggio via mare, che costituì alla fine del IX sec basi permanenti sulle coste settentrionali del mediterraneo (es fraxinetum, distrutta nel 972 dal conte di Arles e dal marchese di Torino). L'azione dei saraceni non fu un tentativo di espansione territoriale, ma l'accentuarsi di una pirateria marittima che non mirava a una conquista durevole, ma al saccheggio. Le fonti che descrivono l'azione saracena sono costituite dalle narrazioni prodotte nelle chiese e nei monasteri che subirono razzie: in questi testi molto viva è la paura dei pagani. I cavalieri ungari invasero la Germania e l'Italia settentrionale (saccheggiarono Pavia). La loro efficacia militare li rese dei nemici, ma anche dei preziosi alleati. Il re Ottone I di Sassonia nella battaglia di Lechfeld (955) sconfisse gli ungari, che si convertirono al cristianesimo, e l'Ungheria divenne un regno alleato della Germania. Lo sviluppo degli scambi nel mare del nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi in operazioni commerciali e di pirateria: verso la Russia si mossero i vareghi, verso l'Inghilterra i vichinghi, e verso il nord della Francia i normanni. A est prevalse la dimensione commerciale: i vareghi trasformarono la propria azione economica in stanziamento stabile con la creazione di emporia. I normanni alla fine del IX sec diedero vita a insediamenti stabili (l'insediamento nel nord del regno franco fu legittimato dal re Carlo il semplice: i normanni si convertirono al cristianesimo e nacque il ducato di Normandia). Con l'espansione normanna-vichinga il mare del nord divenne un mare normanno: tra Scandinavia, Danimarca, Normandia e Inghilterra si confrontavano poteri regi collegati da parentele e alleanze. L'esigenza di organizzare la difesa si rispecchiò nei primi anni del X sec nella diffusione dei castelli. Ma questa costruzione andò al di là della risposta alla minaccia: dopo la fine delle incursioni, chiese e signori continuarono a innalzare fortificazioni, destinate a difendere non dalle minacce esterne, ma piuttosto dall'azione militare degli altri signori. Il potere dei re Nel X e XI sec scomparve totalmente l'attività legislativa regia e i provvedimenti con valore generale furono del tutto eccezionali: i re intervenirono nella vita politica dei loro regni con azioni e testi diversi (diplomi di immunità), ma conservarono comunque una relativa centralità politica grazie alla loro capacità redistributiva, sia in termini di risorse concrete sia per la protezione garantita a chiese e individui. In molte aree i re dovevano limitarsi a una constatazione dei nuovi poteri signorili: i re non erano in grado di dare vita alle strutture locali del potere, ma era comunque in grado di legittimare, promuovere e indirizzare gli sviluppi politici locali. I diplomi favorivano i poteri che conservavano un rapporto di fedeltà con il re, concedendo loro sia risorse materiali-terre e castelli-sia risorse immateriali-legittimità: quindi chiese e signori si impegnavano la questione chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio (nei primi anni di potere della dinastia capetingia). Il modello più noto è la tripartizione funzionale: nei primi anni del sec XI, due vescovi del nord della Francia, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai enunciarono una teoria secondo la quale il corpo sociale doveva essere diviso tra chi pregava, gli oratores, chi combatteva, i bellatores, e chi lavorava, i laboratores; sottolinearono quindi la necessaria reciprocità tra le diverse condizioni, dalla quale potevano nascere equilibrio e ordine. Altro modello volto a raggiungere un equilibrio in assenza di un reale ed efficace potere regio fu rappresentato dalle paci di Dio: alcuni vescovi del sud della Francia, a partire dalla fine del X sec, convocarono delle grandi assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire la pace in una regione. Erano momenti a forte impatto cerimoniale: i vescovi radunavano un gran numero di reliquie e su di esse tutti gli abitanti della regione dovevano giurare il rispetto di alcune norme fondamentali (non violare le chiese, non rubare i beni dei pauperes, non colpire i chierici). Queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma dalla convergente volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti a forte intensità religiosa e cerimoniale. Le paci di Dio erano la pace del re in assenza del re. La tripartizione funzionale e le paci di Dio sono modelli opposti da vari punti di vista: da un lato abbiamo una tripartizione, un modello di ordine espresso in testi di alto livello intellettuale e probabilmente di debole circolazione; dall'altro le paci di Dio, che non si fondarono su una teoria altamente formalizzata, ma su un sistema di pratiche cerimoniale che ebbero un fortissimo impatto sulla società. La tripartizione e le paci di Dio rappresentarono sistemi concorrenti secondo DUBY: la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una chiara centralità dei vescovi, destinati a fungere sia da garanti della salvezza eterna, sia da guide intellettuali nel presente; le paci di Dio invece si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento. Si apparteneva alla società quando ci si sottometteva alla fede e ai vescovi. Nuove chiese, nuovi poteri Tra X e XI sec centinaia di monasteri nacquero per iniziativa di nobili. Nel 909-910 il duca GUGLIELMO D'AQUITANIA fondò l'abbazia di Cluny, nella diocesi di Macon, e la affidò all'abate Bernone. La peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva di Cluny; l'abbazia fu anche svincolata dal controllo del vescovo di Macon, nella cui diocesi era collocata: la protezione e benedizione del monastero erano affidate direttamente al vescovo di Roma. La lontananza di Roma garantiva che di fatto il papa non si sarebbe intromesso concretamente nelle vicende dell'abbazia. In questo quadro, i primi abati seppero dare vita a una forma di vita religiosa peculiare, che innalzò rapidamente Cluny a una grande fama a livello eu. Pur muovendosi all'interno della regola benedettina, i cluniacensi ne diedero un'interpretazione specifica, che pose al centro la dimensione della liturgia e della preghiera. Le preghiere furono una via per l'ascesi dei monaci, ma anche l'espressione diretta dello scambio che avveniva tra monaci e società laica: i monaci cluniacensi, con le preghiere per i defunti, garantivano un prezioso beneficio spirituale a quei settori della società circostante che sostenevano il monastero sul piano materiale, con le donazioni di terre che andarono a costituire un robusto patrimonio fondiario. Quindi Cluny era un'abbazia ricca e potente, alleata dei principi e della grande aristocrazia. Il secondo abate, Oddone, fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose, in declino dal punto di vista della spiritualità e della disciplina: iniziò così la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall'abbazia, ossia un insieme di enti religiosi che riconoscevano tutti la propria guida nell'abate di Cluny. Si costituirono nuovi enti monastici: i priorati. Nell'ordinamento benedettino il vertice di un monastero era l'abate, assistito dal priore: in questi nuovi enti monastici l'abate non c'era, perché l'unico abate era quello di Cluny. Molti aristocratici del X e dell'XI sec, quando vollero fondare un ente monastico, non scelsero di creare un'abbazia autonoma, ma di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato sottoposto all'abate di Cluny e svincolato da qualunque controllo laico. Alla fine del sec XI molte sedi monastiche in Eu si richiamavano direttamente a una dipendenza da Cluny, o esprimevano una forma di vita monastica profondamente influenzata dal modello cluniacense. Forme analoghe di coordinamento tra enti monastici si realizzarono ad es attorno alle abbazie di Fruttuaria, in Piemonte. Emblematica nel 1088 l'elezione al soglio pontificio di Oddone, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante per la storia di Cluny, a cui concesse un'ampia bolla di esenzione, e per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica eu: a lui infatti si deve, nel 1095, la proclamazione della prima crociata. Il sec XI fu segnato dall'emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti diversi, con una più netta ispirazione eremitica. Si trattava di esperienze in cui la volontà eremitica si risolveva in una dimensione comunitaria, in gruppi che si separavano in modo netto dal mondo. Si avviò un lento cambiamento nella coscienza religiosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere: se la ricchezza dei monasteri altomedievali era vista come un segno tangibile del loro successo e quindi della loro santità, i due piani lentamente divergevano, attorno a un ideale di religiosità povera, priva di potere, lontana dal mondo. Fin dall'età carolingia i vescovi erano consiglieri e coadiutori del re. Con la fine dell'impero e la complessiva crisi della capacità regia di controllo, la natura del potere vescovile mutò, e si affermò il loro pieno controllo politico e sociale sulle città, fondato sui profondi legami tra vescovo e società cittadina, sul progressivo allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche su specifiche concessioni regie. Il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962 prevedeva l'assegnazione di tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città, il potere giudiziario sugli abitanti della città. Il vescovo assunse tutti i poteri già spettanti al conte. Questa concessione non fu un caso isolato. Gli ottoni non scelsero di costruire ovunque una piena giurisdizione vescovile ai danni di conti e marchesi, ma adottarono una politica pragmatica, pronta a sostenere di volta in volta il potente locale più favorevole agli interessi imperiali. Dal punto di vista regio, il senso politico di queste operazioni si coglie considerando che i conti avevano ormai abbastanza solidamente dinastizzato la propria carica. Questo significa che il vincolo tra re e funzionari era indebolito, mentre i re erano in grado di intervenire nelle successioni vescovili. Perciò, nei casi di conflitti locali e di difficili rapporti tra il re e le dinastie comitali, un re forte come Ottone I poteva intervenire, non cacciando il conte-azione troppo radicale-ma riducendone l'autorità in favore del vescovo. Per quanto un vescovo potesse decidere di ribellarsi al re, non poteva avere eredi legittimi. Affidare ampi poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace controllo della società locale. In numerose città italiane si sviluppò un robusto potere vescovile sulla città pur in assenza di una vera e propria concessione imperiale: gli arcivescovi di Milano nel sec XI agirono alla guida della città e di un'ampia clientela vassallatica, con un rilevantissimo potere politico, pur senza ottenere mai dall'impero un diploma che ratificasse tale potere. L'età ottoniana fu un periodo di intensa azione imperiale sull'Italia e sulle sue chiese. POTERI LOCALI E POTERI REGI TRA XI E XIII SEC Le istituzioni della chiesa e l'inquadramento religioso delle popolazioni fra XI e XIII sec Sulla spinta di tante chiese locali, di vescovi capaci, di imperatori pii e di intellettuali militanti si mise in moto un processo di ripensamento della funzione della chiesa conosciuto con il nome di riforma. Nei primi decenni del sec XI si individuarono i temi portanti di questa nuova visione della chiesa: affermazione della natura inalienabile e indisponibile delle cose sacre, esaltazione del carattere sacro del sacerdozio da non contaminare con i rapporti carnali, necessità di un vertice della chiesa. Sotto il pontificato di GREGORIO VII si accese uno scontro che coinvolse anche l'imperatore ENRICO IV perché il papa tentò di inserire i vescovi in una gerarchia solo religiosa, guidata dal pontefice di Roma, eliminando il ruolo dell'imperatore nella creazione delle cariche ecclesiastiche. Ne seguì una lotta violenta fatta di scomuniche, deposizioni; ma dopo 50 anni di scontro, il compromesso che mise fine alla lotta lasciava le cose più oi meno come erano al tempo di Gregorio. Per una riforma della chiesa I vescovi dell'XI sec si impegnarono in una serie di recuperi delle sostanze e dei diritti dati in beneficio sui quali si era perso il controllo. La difesa dei beni ecclesiastici e gli esperimenti di vita comune del clero contribuirono a ricostruire un apparato istituzionale delle chiese locali in grado di esercitare una vera funzione pastorale, che vedeva i vescovi porsi come guide della società. In questa fase della riforma, il papato fu sostenuto dall'imperatore e dalla sua curia formata dai principali vescovi del regno di Germania. ENRICO III, infatti, si pose come come garante del processo di riforma della chiesa: a Sutri fece deporre tre papi che si contendevano la cattedra pontificia e impose come candidato un membro della sua curia, Clemente II. Era l'inizio di una lunga serie di papi tedeschi, provenienti dalla cerchia dei chierici imperiali, tutti personaggi impegnati a diffondere una profonda riforma del clero, impostata sulla lotta alla simonia e al concubinato del clero (nicolaismo). La simonia era un peccato che riguardava la vendita di cose sacre, dai beni delle chiese alle stesse cariche ecclesiastiche e che quindi conteneva l'assurda pretesa di valutare con un metro umano un oggetto assolutamente inviolabile come lo spirito santo. Ma in realtà la vendita delle cariche era una pratica molto diffusa tra le élite politiche. Criminalizzare la simonia era un modo per riaffermare il valore sacrale della funzione sacerdotale. Per buona parte dell'alto medioevo, gli esponenti del clero potevano avere una moglie: se si accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio, la situazione del prete sposato rimaneva sospesa in un limbo di tolleranza e, inoltre, molti ecclesiastici rivendicavano il valore morale del legame matrimoniale. Ancora più diffuso era il concubinato: queste coppie, spesso con figli, erano in grado di assicurare ai propri eredi una carica ecclesiastica. L'iniziativa riformatrice pose le basi di un primato del papa sulla sorte dei vescovi, che potevano essere rimossi per immoralità (nel concilio di Remis del 1049 alcuni vescovi furono denunciati per simonia e quindi deposti). Anche i fedeli furono chiamati in causa: Milano fu sede di un aspro conflitto tra i riformatori-i patarini-e l'alto clero locale; lo scontro fu aperto dalla contestazione del clero corrotto da parte di un chierico del clero minore, Arialdo, che riuscì a trascinare una parte dei fedeli in una sollevazione violenta contro i preti giudicati indegni. I patarini tennero in scacco la chiesa milanese per decenni, ma il radicalismo dei riformatori si dimostrò eccessivo sul piano politico e pericoloso su quello teologico: la negazione del valore dei sacramenti impartiti dai preti indegni era una posizione ambigua perché implicava una svalutazione della natura divina dei sacramenti che potevano essere macchiati dalla persona fisica del prete. Una visione così terrena del sacro non era accettabile dal papato e fu condannata come eresia. Da un alto le spinte verso una religiosità più vicina al messaggio evangelico trovavano un appoggio presso i fedeli laici, dall'altro questi interventi dei laici erano respinti dalle istituzioni ecclesiastiche come indebite intrusioni nei dogmi della fede. Il primato di Roma, secondo questa spinta riformatrice, doveva essere rafforzato sia verso l'esterno-una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo-sia verso l'interno-il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti. Il patriarca MICHELE CERULARIO scrisse una lettera per invitare i vescovi latini ad abbandonare pratiche da lui ritenute giudaiche, come la comunione con il pane non lievitato; il papa di Roma LEONE IX rispose sostenendo la perfezione della chiesa di Roma, sovrana di tutte le altre chiese. Bisanzio, invece, ammetteva come proprio capo solo Gesù e non Pietro. L'ambasciata che partì da Roma scomunicò il patriarca e la rottura tra le due chiese risultò definitiva. Ildebrando di Soana, grande sostenitore del rinnovamento delle chiese locali, impose come papa il vescovo di Firenze, NICCOLO' II. Questi presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto solo ai cardinali-vescovi (cardinali erano gli aiutanti del papa nelle celebrazioni liturgiche e non tutti erano vescovi), lasciando uno spazio ambiguo all'approvazione imperiale. Dopo Niccolò II salì al pontificato Ildebrando con il nome di GREGORIO VII. Il momento del conflitto Sotto Gregorio VII si raggiunse la fase di massimo conflitto tra la chiesa di Roma e i poteri laici ed ecclesiastici dell'impero. Gregorio VII auspicava un inquadramento della società e dei poteri laici ed ecclesiastici in una gerarchia unica con al vertice il pontefice di Roma. Dopo i primi tentativi di imporre un rigido programma di controllo sui comportamenti degli ecclesiastici, Gregorio dovette prendere atto delle accanite resistenze alla sua azione riformatrice: in particolare contro i decreti che prevedevano una severa repressione della simonia e del nicolaismo. In Germania, al concilio di Erfurt, il clero, invece di accogliere gli indirizzi riformatori del papa, accusò Gregorio di essere eretico: l'opposizione dei vescovi riguardava anche l'ampiezza dei poteri rivendicati dal papa. Era in gioco l'autonomia delle chiese episcopali nei confronti del nuovo modello di gerarchia ecclesiastica voluto dal papa. Gregorio VII rispose attaccando il clero ribelle minando la base del potere politico dell'episcopato. Sotto Enrico III era l'imperatore a consegnare l'anello e il pastorale al vescovo eletto, e a investirlo di tutto ciò che riguardava l'episcopato (palazzo, cattedrale) ed era all'imperatore che il vescovo eletto giurava fedeltà. Gregorio, quindi, condannò l'intervento dei laici come indebita intromissione nelle cose sacre e rivendicò per la chiesa di Roma un'onnipotenza senza rivali. Ciò è dimostrato dal Dictaus papae: una lista di 27 tesi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della chiesa: solo il papa poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, essere omaggiato dai principi con il bacio del piede e scomunicare o deporre gli imperatori. Inoltre, nessuno poteva giudicare la chiesa di Roma, considerata dal papa esente da imperfezioni. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, Gregorio aveva nominato come unico vescovo legittimo Attone; ma Enrico IV nominò invece un altro vescovo. Si aprì un contenzioso molto violento: papa e imperatore usarono ricorsero alle stesse armi (concili, elezione di un nuovo sovrano e di un nuovo pontefice). La teoria altomedievale dei due poteri che si dividevano le sfere di governo dell'umanità ne uscì annichilita. Nel concilio di Worms del 24 gennaio 1076 Gregorio fu deposto dai vescovi riuniti sotto l'impero. Nel sinodo romano fu scomunicato e deposto Enrico, il quale rispose di dipendere solo dalla volontà di Dio che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità. Enrico aveva la forza militare e l'appoggio di una parte rilevante dell'episcopato: convocò concili con un'ampia partecipazione dei vescovi che rinnovarono la deposizione di Gregorio eleggendo un nuovo papa. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077, il conflitto riprese più violento di prima. Enrico scese a Roma insediando il nuovo papa e facendosi incoronare imperatore; Gregorio, assediato, fu salvato dai normanni, divenuti ora fedeli al papa, ma dovette abbandonare Roma. Da questi scontri le due autorità ne cattolica. C'è a tenere presente che gli scritti degli inquisitori distorcono la realtà: quella dei catari non fu un'adesione massiccia, i nomi dei vescovi catari presenti nei testi sono invenzioni, e, inoltre, l'unico testo di provenienza ereticale-una trascrizione del vangelo di Giovanni-non ha nulla di dualistico. La repressione fu molto violenta: la legislazione antiereticale fu inasprita con la messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici. La decretale di LUCIO III Ad abolendam, preparata insieme all'imperatore Federico Barbarossa nel 1184, colpì tutte le eresie, definite come disobbedienza. Contro queste persone non erano necessarie prove certe: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. I meccanismi di autocontrollo dei parrocchiani individuavano e denunciavano i sospetti, giudicati dai vescovi e puniti dai poteri laici che dovevano inscrivere la lotta all'eresia nei loro compiti fondamentali. In un'altra bolla papale del 1199, la Vergentis in senium, l'eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà, che nel diritto imperiale romano era severamente punito con la morte. L'eretico doveva essere quindi scomunicato, isolato, privato dei beni e della possibilità di fare testamento: era una morte civile. La guerra, la chiesa, la cavalleria Nel corso della seconda metà del sec XI si assistette a un ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Sulla spinta di questa sacralizzazione della violenza contro i nemici della chiesa, il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi santi subì un'improvvisa torsione bellica. Il pellegrinaggio si trasformò in guerra santa. Nacquero nuovi stati cristiani nell'oriente musulmano e nuove forme di unione di vita religiosa e vita militare, come gli ordini monastici cavallereschi. Il controllo della violenza e le paci di Dio Nelle cronache dei sec X e XI, quasi tutte redatte da religiosi, il tema della violenza smodata e gratuita di una milizia senza regole si fa prepotente. I barbari del nord e dell'est, i vichinghi, gli ungari ma anche i cattivi cristiani attaccano e saccheggiano le chiese. Dietro queste narrazioni si cela una profonda esigenza di ordine, un ordine localizzato a differenza di quello carolingio. Nei concili delle cosiddette paci di Dio (riunioni di vescovi di una o più diocesi), diffuse soprattutto nella Francia del sud verso la fine del X sec, si dispose la sospensione delle violenze in nome di Dio in momenti e in spazi determinati (nei giorni del Signore e nei pressi delle chiese). Le paci di Dio non sono una generica condanna della violenza, ma una difesa dei beni delle chiese dalle rapine degli aristocratici violenti. Una difesa che, in assenza di un re, era presa in carico da autorità laiche fedeli all'episcopato. La sacralizzazione della guerra e le prime crociate Questa violenza militare regolata aprì la strada a un processo di definizione di una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede e strumento di espansione della religione cattolica. Insieme alla riforma della chiesa, si sviluppò dopo il 1050 un'intensa attività bellica per conquistare o liberare le regioni periferiche dell'Eu in mano agli infedeli e agli eretici. I papi riformatori sostennero attivamente queste guerre, concedendo ai cavalieri che accettavano di combatterle dei privilegi spirituali e un vero e proprio statuto di combattente di Cristo. Nel 1063 papa Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva a combattere in Spagna i musulmani. I normanni, fedeli e vassalli del pontefice, incaricati di difendere la fede e San Pietro, furono invitati a guidare l'espansione delle armate cristiane nelle terre in mano agli infedeli. Gli appelli alle spedizioni militari sotto il vessillo di San Pietro si fecero numerosi sotto Gregorio VII, che invitò i principi cristiani a liberare il regno di Spagna dalle mani dei pagani e incitò I cavalieri a soccorrere i cristiani di Costantinopoli perseguitati dai saraceni. Non si può parlare ancora di una crociata, ma di una guerra santa perché obbediva a un imperativo religioso di difesa della fede stabilito dal papa. La qualifica di soldato di Cristo si diffuse e venne concessa a molti principi laici che si impegnavano in conflitti religiosi, fu conferita per es al principe di Danimarca. Ai morti in battaglia in difesa della chiesa fu assicurato l'ingresso in paradiso. Le spedizioni in Terrasanta I pellegrinaggi come forma di devozione ebbero uno straordinario successo nell'XI sec. Era presente anche un ricchissimo mercato di reliquie che scatenò una competizione internazionale per accaparrarsi le reliquie più importanti. Poli di attrazione religiosa erano San Giacomo di Compostela in Spagna ma soprattutto Gerusalemme. Nel concilio di Clermont Urbano II incitò al pellegrinaggio a Gerusalemme, offrendo l'indulgenza plenaria a tutti i pellegrini, e dichiarò pericolosa la guerra fra i cristiani e buona e giusta la guerra contro i pagani. Le spedizioni penitenziali e militari alla volta della città santa furono molte. Le armate furono 4 e si mossero indipendentemente: i lorenesi sotto la guida di Goffredo di Buglione, i cavalieri della Francia meridionale guidati dal conte di Tolosa, i fedeli del duca di Normandia, i contingenti dei normanni dell'Italia del sud. Tutti volevano riaprire il pellegrinaggio verso il santo sepolcro e rivendicare i luoghi santi come possesso della cristianità. Una serie di fortunate campagne militari permise ai cavalieri eu di conquistare numerose città importanti: Nicea e Antiochia. Chi decise di arrivare a Gerusalemme dovette organizzare un nuovo lungo assedio della città. Dopo cinque settimane, nel 1099 i cavalieri entrarono a Gerusalemme: vi fu un eccidio violento della popolazione musulmana ed ebraica, seguito da un saccheggio durato 15 giorni. Il pellegrinaggio aveva lasciato il passo a una conquista militare senza più regole e limiti. Baldovino, fratello di Goffredo, si fece incoronare re, mentre i tuoi editori conquistati furono organizzati in principati autonomi: contee di Edessa e di Tripoli, principato di Antiochia e regno di Gerusalemme. Le successive spedizioni non ottennero lo stesso successo. Poiché i cristiani furono sconfitti da Saladino, visir sunnita, che conquistò Gerusalemme e gli stati cristiani della costa, fu indetta una terza crociata che fu però un'ecatombe: l'imperatore Federico morì, un'epidemia decimò i crociati, il re di Francia abbandonò la spedizione, i capi dovettero scendere a patti con il Saladino che concesse il permesso di venire in pellegrinaggio a Gerusalemme e si mercanti italiani di commerciare con gli stati della costa. Presero vita alcuni ordini monastici di natura militare: si trattava di un'armata che doveva garantire l'assistenza ai pellegrini, la cura dei malati nei luoghi sacri e lungo le vie di pellegrinaggio. Gli ospedalieri di San Giovanni avevano il compito di assistenza ma assunsero anche funzioni difensive. I templari, fondati in Terrasanta nel 1119, ebbero una connotazione più militare già nella fase iniziale. Otto cavalieri giurarono davanti al patriarca di Gerusalemme di difendere i cammini per la Terrasanta e di osservare il voto di castità, povertà e obbedienza, ossia i voti monastici, ma continuando ad esercitare l'arte della guerra. Reclutati nel mondo aristocratico, si distinsero per la capacità di combattere e fondarono numerose casseforti e Castelli in Terrasanta. Molto abili nelle questioni finanziarie, perché si incaricarono di gestire le decime per la crociata, divennero esperti consiglieri. I luoghi dove si riunivano erano monasteri-caserme. Nell'Elogio della nuova cavalleria, il cistercense Bernardo di Chiaravalle legittimò i templari e li prese a modello di una nuova milizia spirituale che si contrapponeva a quella secolare: i militi di Cristo usavano una violenza salvifica. Questa attenzione ai valori della guerra si tradusse nell'intervento attivo di monaci cistercensi nella fondazione di nuovi ordini militari (l'ordine militare di Calatrava, l'ordine della milizia di Cristo di Livonia-nei territori baltici gli ordini militari riuscirono a impiantare un vero stato militare con il sostegno dei vescovi e dei principi locali). Da guerrieri a cavalieri: la disciplina del ceto militare Nell'Eu del XII e XIII sec furono due le vie tentate per inquadrare il ceto militare in un ordine politico territoriale stabile. Il primo cercava di inserire i membri della milizia in una rete di rapporti di fedeltà gerarchica che doveva limitare l'attività bellica a precise azioni di guerra decise dai poteri superiori. Il secondo sistema era di natura culturale e ideologica e tendeva a imporre un modello di comportamento basato sull'autolimitazione dell'azione violente in base a un'etica propria del cavaliere. Si creò un'immagine letteraria del cavaliere ideale e si elaborò anche una ritualità specifica del mondo cavalleresco (l'addobbamento-il rito di vestizione del cavaliere-, il torneo, la vita di corte). Ma il gruppo sociale dei cavalieri non era omogeneo: c'erano differenze sociali ed economiche. Nelle regioni della Francia la fedeltà poteva essere concessa a più signori contemporaneamente: c'erano vassalli fedeli a più signori. In questi casi esigere l'aiuto militare era molto difficile. Inoltre, nonostante i riti di investitura si fossero arricchiti di immagini e segni di sottomissione, il beneficio era sentito dai vassalli come un bene proprio che poteva essere trasmessi ai figli in eredità. Così era di regola nel sec XI. Questa stabilità dei benefici era stata sancita dell'imperatore Corrado II. Col tempo si diffuse anche la tendeva ad alienare i benefici con una vendita o una sotto infeudazione che sottragga al signore la scelta del nuovo concessionario. Si arrivava, così, a una rottura del legame di fiducia e di dipendenza tra il vassallo e il signore. La pratica di alienare o acquisire feudi anche con il denaro si diffuse ovunque e interessava sia i feudi minori che quelli maggiori. L'imperatore Lotario III lamentò il fatto che ne usciva compromessa l'efficacia degli eserciti: alienati i benefici, i cavalieri sfuggono ai servizi dei loro signori. In alcune regioni dell'impero, come l'Italia, il legame tra servizio e feudi era ormai scisso: nei contratti del XII sec non si faceva cenno a un vero servitium e il feudo era concesso come atto di benevolenza del senior (il signore conservava un diritto astratto sul bene, ma la disponibilità materiale del bene era nelle mani del vassallo). Furono così sperimentate alcune regole di protezione dei diritti del signore (es la commise prevedeva il sequestro del feudo in caso di disobbedienza, ma richiedeva una certa capacità militare). Era molto diffuso il ricorso al feudo ligio, una fedeltà privilegiata che si doveva a un signore in particolare, e a una clausola di riserva negativa, giurata dal vassallo di non combattere contro il proprio signore. Alla base dei rapporti feudali, comunque, restava molto forte la natura contrattuale e reciproca del patto. I sistemi mi di inquadramento delle fedeltà militari rientravano nel problema di ordinare le relazioni sociali in una rete di alleanze orizzontale. Non si arrivò mai a costruire uno schema piramidale; questa fu un'immagine tarda e in buona parte inventata. L'ideale cavalleresco e la socialità di corte L'invenzione letteraria di un'etica cavalleresco servì a regolare l'attività guerriera. I romanzi cavallereschi del XII sec propagandarono un'immagine idealizzata del cavaliere, uno status che aveva riti di entrata e modelli di comportamento codificati. L'addobbamento, il rito di entrata nella cavalleria, con la consegna delle armi da parte di un signore superiore, il giuramento, la veglia in chiesa, veniva esaltato come un momento di passaggio e di trasformazione del cadetto in cavaliere. In questi rituale prevaleva un aspetto politico molto concreto: l'entrata nel mondo degli adulti di un giovane erede, la sua capacità di difendere con le armi i diritti su un possesso. All'addobbamento seguivano l'esaltazione del valore personale e della forza da sfogare in momenti ludici, come i tornei, e una maggiore solidarietà tra fedeli dello stesso signore da rafforzare in rituali di corte. Ma le guerre feudali non avevano nulla di eroico,: si basavano sull'assedio di un castello e sul saccheggio sistematico dei territori circostanti e dei contadini residenti sulle terre del nemico (pratica opposta al mito della difesa dei deboli). Sul piano militare il termine miles indica un combattente a cavallo contrapposto ai pedites, fanteria a piedi, e ai rustici, i contadini; indica, quindi, un ceto superiore dotato di forza militare e di potere di coercizione. Al suo interno, però, il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale molto variegato: lo strato superiore era composto dai grandi aristocratici discendenti dall'élite carolingia; lo strato inferiore era occupato da persone di secondo rango, vassalli minori, custodi di castello, giovani scudieri. I cavalieri erano anche amministratori e funzionari. In alcune regioni, come quelle tedesche, al servizio armati accedevano anche i ministeriali, uomini armati di condizione quasi s servile. Erano possibili ascese lente, casi di ascese eccezionali di modesti milites fino alle sfere più alte del servizio armato che erano frutto di un'attenta scelta dei signori più disposti a cedere benefici e di una politica matrimoniale fortunata. Se la gran parte dei mobili faceva parte della cavalleria, non tutti i cavalieri erano mobili; soprattutto, prima che nobili, i cavalieri erano signori. La signoria era il quartieri affermazione del ceto militare. Il medioevo fu molto più signorile che feudale. Il dominio signorile Il rafforzarsi dell'identità sociale dell'aristocrazia militare accentuò la pressione e il controllo politico sugli strati sociali inferiori. Tra X e XI sec in Eu si indebolì la capacità regia di controllo e le chiese e le dinastie aristocratiche costruirono poteri locali autonomi, signorie di piccole dimensioni. Le signorie non erano poteri concessi dal re ai suoi fedeli, ma costruzioni politiche dal basso attuate valorizzando le basi locali del potere e rese possibili dalla nuova capacità di azione armata dell'aristocrazia. Un potere senza delega: terre, castelli, clientele Terre, castelli e clientele rappresentarlo le basi dei nuovi poteri signorili. Nell'alto medioevo essere ricchi significava essere ricchi di terre. La terra serviva per legare a sé una clientela di fedeli e con le donazioni di terra si esprimeva la propria devozione nei confronti delle chiese, ottenendo preghiere per la propria anima. La rilevanza sociale della terra era già alta in età carolingia: il potere regio riusciva a coordinare efficacemente l'autonomia aristocratica, ma al contempo si attuò una polarizzazione della società locale attorno ai grandi possessori, con i contadini che cercavano di ottenere da loro dei vantaggi economici (terra da coltivare), ma anche protezione, in un contesto in cui la pace garantita dal re era comunque incerta e discontinua. Le curtes erano frammentate e disperse in molti villaggi e perciò un singolo signore era in grado di incidere sulla società di villaggi diversi e al contempo in un singolo villaggio erano presenti diversi grandi proprietari. La terra assunse un'ulteriore rilevanza sul piano sociale quando il coordinamento regio venne meno, quando chiese e dinastie poterono tradurre con grande libertà la propria eminenza economica in potere signorile. La giustizia regia era lontana e il conte non interveniva più all'interno di tutti i villaggi perché concentrava la propria azione nei villaggi dove disponeva di un ricco patrimonio personale. Quando il signore costruì castelli e raccolse clientele armate si passò da una dominazione del grande proprietario suo contadini che coltivano la sua terra a una dominazione più ampia a carattere politico. La capacità di azione militare aristocratica avviò la trasformazione dei contadini in sudditi dei signori. Non c'è corrispondenza geografica e cronologica tra le incursioni più minacciose e le fasi di incastellamento più intense. I castelli, inoltre, continuarono ad esistere anche dopo la fine delle incursioni saracene ed ungare. Nel castello si deve vedere un passaggio del processo che permise di trasformare la superiorità era la tassa per il contributo alla difesa e gravava su tutti i residenti, il focatico gravava sui nuclei familiari). In più il signore richiedeva una serie di tasse per il mantenimento del territorio. La crescita economica non andò a vantaggio dei contadini, ma andò a sostenere lo stile di vita e le spese dell'aristocrazia. L'inquadramento delle popolazioni rurali e l'azione politica contadina La parola "rustici" copre una realtà diversificata. Dobbiamo constatare un'ampia varietà di condizioni economiche, che andavano dal bracciante privo di qualsiasi patrimonio fino al medio proprietario terriero. Le figure più deboli dipendevano in larga misura da quelle più forti. La diversificazione e l mondo contadini assunse connotati politici, grazie alla capacità degli strati superiori della società contadina di entrare a far parte dei sistemi di solidarietà clientelare che facevano capo alle chiese e ai signori locali. I comuni rurali si diffusero lungo il XII sec: si tratta di casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava, agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. I testi che meglio mostrano l'esistenza e i funzionamenti dei comuni rurali sono le franchigie, atti in cui signori e sudditi mettevano per iscritto diritti e doveri, andando a ridefinire le forme e i contenuti del potere signorile. Non siamo di fronte alla concessione di un potere assoluto ai propri sudditi, ma a un accordo, un atto fondato sulla reciprocità degli obblighi. Un'esigenza fondamentale dei sudditi era quella di avere a che fare con un potere regolato e limitato. Molti indizi ci suggeriscono che i beni comuni (selve, paludi, pascoli) avevano un peso importante si al sul piano economico sia su quello politico, come modo della contrattazione con i signori e e alla cooperazione contadina. In molti insediamenti i suoli furono concessi in proprietà agli abitanti (es le sauvetes-spazi salvaguardati-della Francia sud-orientale, agglomerazioni abitate in funzione di colonizzazione agricola poste sotto la protezione della chiesa; in Italia queste fondazioni in funzione dello sfruttamento agricolo forno leggermente più tarde presero il nome di villenove o villefranche, villaggi in cui si attribuivano agli abitanti gli stessi diritti dei cittadini). Alla rivoluzione agricola si accompagno una rivoluzione insediativa, una tendenza all'accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. Si svilupparono i centri urbani nell'Eu medievale. Le città nell'Eu medievale Nel corso del sec XI, insieme alle signorie, ai principati territoriali e alla piena affermazione del ceto militare, si sviluppò anche una fitta rete di città in molte regioni eu: nella Francia settentrionale, nelle Fiandre, sul Baltico. In Italia il sistema urbano assunse una natura istituzionale diversa. Si trattò di un fenomeno diffuso che ha riguardato centri di origine molto diversa: villaggi rurali, borghi nati intorno ai castelli, abbazie, città di origine romana, porti di scambio. Questa rinascita urbana molto ampia ha modificato l'assetto politico e sociale dei principati e poi dei regni. Per alcuni storici le città erano l'esito dello sviluppo economico e della formazione di una nuova classe di borghesi, i mercanti (Pirenne); per altri il frutto di iniziative signorili; per altri ancora le città si formarono solo dopo una rivolta della popolazione urbana contro i poteri signorili. La città eu non può essere separata dal suo territorio e ai centri di potere signorile che governavano i principati regionali. Le città dovettero molto all'iniziativa dei signori. Le mura definirono lo spazio urbano separato dalla campagna e gli atti giuridici ufficiali sanzionarono lo statuto politico di città. Le basi dello sviluppo urbano La città va incontro a un processo di trasformazione di elementi materiali e culturali. Tre elementi hanno determinato le vicende dello sviluppo urbano nell'Eu medievale: 1 il legame con il territorio. E' un elemento di natura economica e demografica e mette in relazione i centri urbani con il territorio circostante. I dati demografici segnalano quasi ovunque un aumento della popolazione nelle campagna, un surplus che trovava sfogo o nella colonizzazione di nuove terre o nello spostamento verso i borghi vicini. Un aumento delle migrazioni e dell'attività agricola deve aver accompagnato lo sviluppo dei centri urbani. Con il suo territorio, il centro urbano conservò un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime e redistribuiva prodotti finiti. 2 la capacità di trasformare la condizione degli abitanti. I legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano molto forti. Spesso il suolo dove si costruivano le case era proprietà del signore e gli abitanti pagavano un censo come qualsiasi altro contadino della zona. Sia i vecchi residenti sia gli immigrati tendono a riconoscersi, nel corso del XII sec, come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri derivanti dalla comune appartenenza alla città, li univa soprattutto una comune aspirazione all'autonomia delle proprie attività economiche. Il principale processo di trasformazione sociale avvenuto nelle città riguarda la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città: una relativa libertà personale, estesa anche alle persone di origine servile, una solidarietà necessaria per dar corpo alle richieste collettive da indirizzare ai signori. Nelle carte concesse ai borghi i signori garantirono di mantenere salvi i residenti, di non eccedere nelle imposizioni fiscali, di punire le persone secondo procedure condivise. I poteri politici della regione mantennero comunque un controllo sulle città. 3 il decisivo impulso dei signori territoriali alla popolazione di centri urbani. I rapporti fra i centri urbani e i poteri signorili della regione in alcuni casi furono di collaborazione immediata, di vera promozione dello sviluppo urbano (come i duchi normanni o i conti di Fiandra. Questi favorirono il popolamento di alcune zone del loro principato attraverso la promozione di numerosi centri urbani di grande successo come sedi mercantili: Lille, Bruges, Ypres. Sotto il governo del conte Filippo d'Alsazia tali centri furono inseriti in un sistema economico di produzione e di scambio a lungo raggio protetto dal principe. In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suolo abitativi, dopo aver acquistato il censo dal signore). In Germania si trovano numerosi casi di fondazioni dovute a stirpi signorili potenti: non solo i signori le fondarono, promuovendo il popolamento dei nuovi centri, ma applicarono anche uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada-mercato principale collegata alle porte della città. Il duca di Sassonia Enrico il Leone promosse la fondazione di alcune importanti città tedesche: Monaco, Hannover e Lubecca (le larghe autonomie degli abitanti di Lubecca dovevano favorire lo sviluppo commerciale della città e una rapida accumulazione di capitali che affluivano in parte nelle casse signorili). I principi che favorirono le città furono anche quelli che, prima di altri, realizzarono uno stato relativamente accentrato. Non sempre però le cose andarono così: in molte regioni del regno di Francia, per es, la nascita di un'autonoma rappresentanza della città, chiamata comune, fu osteggiata dai poteri signorili. Questi casi di scontro violento erano più frequenti nelle città antiche dominate da autorità ecclesiastiche che avevano più da perdere nella concessione di autonomia ai cittadini. Sia in caso di collaborazione che di opposizione, le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall'autorità superiore. Tanto i giuramenti di comune quanto le franchigie, carte di libertà concesse ai cittadini, riguardavano in primo luogo la concessione di poteri giudiziari civili alle corti cittadine e alcune esenzioni dalle tasse sui commerci e sui suoli urbani. Nelle città della Francia meridionale l'autonomia era maggiore: ad Avignone o a Nizza negli anni trenta del XII sec si elessero dei magistrati chiamati consoli, su ispirazione di modelli romani. A differenza delle città del nord, rette da un rappresentante signorile, si trattava di un governo collegiale di cittadini coadiuvato da un consiglio. La nomina dei consoli era interna a un'élite urbana formata dalle famiglie dell'aristocrazia militare più in vista (nonostante la forza dell'oligarchia interna, i consoli restavano sempre magistrati riconosciuti da un potere superiore). I consoli amministravano sia la giustizia civile sia quella penale, ma non potevano toccare il dominio e i diritti dei signori maggiori. Si può dire che le città eu avessero una natura bicefala: esistevano due apparati istituzionali in città: gli ufficiali signorili, balivi o siniscalchi, che detenevano il controllo militare e la giustizia alta di sangue per conto del signore; gli scabini, i giudici della città, e i consoli che rappresentavano la fascia di popolazione ammessa alla vita politica della città. I residenti nelle città chiedevano soprattutto la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le attività produttive e le relazioni commerciali assicurando un flusso di interscambio con il territorio. Al contempo si riconoscevano fedeli al principe, non contestavano le sue prerogative signorili. I signori a loro volta dovevano garantire queste sfere di autonoma organizzazione dei cittadini. La città manteneva da un lato le contraddizioni di un sistema misto, dall'altro godeva dei vantaggi di un dominio signorile unitario, che integrava le élite urbane in reti sociali ed economiche di ambito regionale. Le città tra XII e XIII sec: unificazione e differenziazione sociale Le città, formate spesso da parti differenti-borghi, cité, castello, chiese-furono riunite in un'unica realtà territoriale urbana. La costruzione di nuove mura rese visibile questo processo. La nuova cerchia inglobava ampie zone di terreno non costruito e messo a coltivazione. Le mura divennero il simbolo della città, segando un confine più netto con il territorio esterno e alimentando, di conseguenza, la coscienza civica. Le città erano contraddistinte dal riconoscimento ufficiale della libertà dei propri abitanti. Libertà significava avere definito per iscritto l'elenco dei propri diritti: in primo luogo la possibilità di organizzare la vita economica delle città, assicurando lo svilluppo delle attività produttive e di scambio. Lo sviluppo economico acuiva le differenze sociali: la popolazione urbana nel corso del XII e XIII sec è percorsa da un processo di stratificazione sociale e di differenziazione fra gruppi diversi. Dopo una lunga fase di governo, il ceto dirigente del primo comune formato dai vecchi funzionari signorili, fu costretto a integrare nuove famiglie dei borghesi. Le accumulazioni di denaro liquido furono infatti rapidissime e sconvolsero in pochi anni le gerarchie consolidate. Per lungo tempo i soli edifici pubblici laici furono le halles-sale di rappresentanza-dei mercanti e dei mestieri e non il palazzo del comune, ancora poco presente nel panorama urbano eu. La città aveva delle rappresentanze, ma il suo sistema istituzionale non era rappresentativo: non rifletteva tutti gli strati sociali della popolazione urbana, ma la sua fascia superiore. Esisteva una doppia gerarchia sociale: una tra i diversi mestieri, che vedeva primeggiare i mercanti e i banchieri, seguiti dai proprietari di botteghe tessili, orafi, fabbri, cuoiai e mercanti; e un'altra tra le funzioni che venivano svolte all'interno dello stesso mestiere. Il prestigio sociale raggiunto da alcune corporazioni di mestiere riguardava in realtà solo i maestri in possesso dei mezzi tecnici più costosi e avanzati. Infame nel medioevo era un termine che indicava persone senza diritti e senza reputazione, escluse dai tribunali e prive di qualsiasi rappresentanza politica (il salariato urbano fu spinto lentamente verso questa condizione di marginalità). I regni e i sistemi politici eu fra XI e XIII sec Il reticolo dei poteri dell'Eu sembra lasciare poco spazio ai tentativi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governo di un re. I re esistevano, ma fino al sec XII controllavano un territorio ristretto, dovevano contrattare le principali azioni di governo, provenivano da dinastie poco legittimate. Limiti dei regni nei sec XI e XII I poteri di tipo monarchico che si erano affermati dopo la dissoluzione del regno carolingio mostravano una serie di debolezze. Si fondavano ancora sul terreno incerto delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del continente eu (una trama debole che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra le famiglie). Era però una trama in grado d disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni (la Francia mutò il suo assetto quando il ducato di Aquitania fu unito alla contea di Angiò e alla Normandia e all'Inghilterra sotto i dominio di Enrico II plantageneto. Prese vita una configurazione politica sovra regionale). Federico II s trovò ad essere re di Sicilia e candidato all'impero. Tra XI e XII sec i regni non si distinguevano chiaramente dai tanti principati vicini (il regno di Francia era di fatto limitato alla regione intorno a Parigi, all'ile de France). I regni erano potenze regionali e dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza, visto che un'effettiva supremazia politica era ancora incerta e poco sostenuta dagli altri principi. Più che di veri e propri regni, dovremmo parlare di principato a tendenza egemonica o di regioni inquadrate in sistemi di alleanze con al vertice un re. Nel sec XII vigeva ancora un principio di solidarietà orizzontale, secondo il quale il vassallo di un vassallo del re non è un vassallo del re. Sfuggivano ai re tutte le reti di fedeltà locali che vivevano di vita propria. Altro grande limite dei regni era l'assenza di un vero apparato di funzionari pubblici. Esisteva un ristretto apparato burocratico di corte in mano ad ecclesiastici di grande levatura, ma il loro intervento si limitava per lo più a garantire il funzionamento della corte regia sul piano culturale e politico e non potevano diventare uno strumento di governo dei singoli territori. L'Inghilterra dalla conquista al '200 GUGLIELMO IL CONQUISTATORE (re dal 1066 al 1087) sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066 e nella battaglia di Hastings sconfisse il re Harold. Le élite aristocratiche anglosassoni vennero sostituite dai baroni normanni, che si imposero come classe dominante e come gente del re. I normanni conservarono molte caratteristiche dell'epoca precedente per costruire una base di consenso. Il regno inglese prima della conquista era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shires, assegnate a ufficiali pubblici; al di sotto degli shires esistevano circoscrizioni minori, le centene, formate da gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di ampia autonomia organizzativa e avevano come fine l'amministrazione della giustizia attraverso il mantenimento della pace. Al contrario dei re francesi, che avevano smesso di emanare capitolari, i re inglesi continuavano a fare leggi. La pace del regno era un compito del re, ma era condiviso con le comunità che avevano un ruolo attivo nell'organizzazione della vita locale. Anche Guglielmo riprese questa tradizione. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale patto tra il re e il popolo: Guglielmo si impegnava a mantenere i diritti delle chiese e a governare il popolo suddito in modo giusto e attraverso le leggi. Ma i baroni esigevano l'assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi e una relativa autonomia politica nei rispettivi possessi e un ruolo di controllo sulle azioni del re. Guglielmo dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra, un giustiziere, un viceré, dotato di pieni poteri in assenza del sovrano. Era una figura nuova, importante per diffondere un'idea di regno indipendente dalla figura del re. Inoltre, eliminò i conti e nominò al loro posto gli sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la giustizia e soprattutto di controllare le finanze nei singoli shire. Cercò di conservare il diritto per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo). Il re riuscì anche a monetizzare il mancato servizio militare e a creare feudi-rendita da assegnare a cavalieri e signori locali per ccomprare la loro neutralità in caso di guerra. I regni spagnoli La Spagna del sec XI era divisa in numerose contee con aspirazioni monarchiche e il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano. Il regno cristiano si risvegliò nel sec XI, quando iniziò la riconquista dei territori verso sud. Reconquista è il termine usato per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso medioevo, secondo la concezione per cui la presenza araba si configurava come una usurpazione. I regni spagnoli nel sec XI erano contee di dimensione regionale che occupavano solo la parte settentrionale della penisola. Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel XI sec, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro natura territoriale. La lunga permanenza della dominazione araba aveva creato una popolazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe ispanica. La separazione fra i due mondi cristiano e musulmano non era così netta. Senza la crisi profonda della dominazione almoravide fra XI e XII sec, la Spagna musulmana non avrebbe cessato di esistere. La guerra all'infedele era da tempo un motivo corrente nel linguaggio politico dei regni spagnoli: i sovrani impegnati nelle guerre di espansione, il re di Castiglia e quello di Aragona, ricorsero spesso a questo armamentario retorico. Fino al 1115-1120 gli almoravidi prevalsero, ma alcune razzie e saccheggi cristiani-che non furono guerre d occupazione-ottennero qualche successo. Gli almoravidi avevano esteso una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa. La rigidità dei costumi religiosi imposti dai loro capi, la differenza linguistica e culturale dall'élite precedente e soprattutto un regime fiscale opprimente resero il governo almoravide ostile alla popolazione andalusa. Le minoranze perseguitate, i cristiani e gli abitanti delle città, non trovarono più ragioni per sostenere il loro dominio. La reazione partì da una setta marocchina che riuscì a espandersi in Andalusia; mentre la reazione cristiana iniziò nei primi anni del 1200, con la proclamazione di una crociata antimusulmana nel 1211 da parte di Innocenzo III. Tra il 1212 e il 1240 i territori nelle mani dei cristiani raddoppiarono. La creazione di villaggi e di città abitati da contadini e piccoli cavalieri divenne un tratto distintivo della reconquista. Era un misto di colonizzazione agraria e militare che conferiva agli abitanti una natura duplice di contadino-soldato. Più la conquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema, risolto nella maggior parte delle colte con l'emarginazione economica e spaziale degli ex infedeli. Queste iniziative furono pubbliche: furono i re ad autorizzare l'insediamento, la divisione delle terre e anche le forme di autonomia (le città e i centri abitati godevano in Spagna di un'autonomia protetta). Città, cavalieri, nobili e mercanti si costituirono in leghe, fraternità e corporazioni. Le monarchie spagnole mantennero a lungo un carattere pattizio che spinse i re a convocare assemblee dei grandi del regno con le città e i consigli comunali (le curie generali o cortes che deliberavano sui grandi temi della politica regia). La Germania e l'impero Nel sec XI i ducati di Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia erano ben saldi nella mani delle grandi famiglie dell'aristocrazia. I dati demografici disegnano una crescita impressionante della popolazione, crescita che alimentò un ampio movimento migratorio verso est, dove i principi tedeschi chiamavano coloni. L'imperatore era eletto dai grandi principi a capo dei ducati maggiori e poteva contare sul ducato di Franconia e sui possessi personali come base del proprio potere. Nei primi decenni del sec XI il problema principale dei sovrani fu quello di resistere alle ribellioni dei vassalli, in Germania come in Italia. L'editto dei benefici del 1037 aveva come scopo primario il rafforzamento del ruolo imperiale e la stabilizzazione delle clientele vassallatiche. Corrado II cercò di regolare i conflitti interni alla vassallità accentrando solo nelle mani dell'imperatore il giudizio ultimo in caso di conflitto; per venire incontro ai vassalli minori dovette però proteggere la stabilità del possesso del feudo e la trasmissione ereditaria dei benefici. La crisi dei rapporti con il papato e lo scontro violento con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio dell'impero sotto Enrico IV (1050-1106): in quegli anni non solo molti principi gli si rivoltarono contro, ma fu anche eletto, da parte papale, un altro re, RODOLFO di Rheinfelden. Come dire che il principio dinastico poteva essere rimesso in discussione: dopo Enrico V, furono eletti imperatori Lotario III e Corrado III, appartenenti a una casata diversa da quella precedente, scelta dai principi elettori anche per la loro relativa debolezza. La dimensione personale del potere detenuto dalle famiglie ducale era basta su una grande base terriera allodiale, cioè di terre in proprietà. Una base ampia che rendeva i principi poco dipendenti dalla concessioni feudali del re. Inoltre la tendenza all'ereditarietà delle cariche, portò a una dispersione dell'autorità (l'allarme lanciato da Lotario III sulla difficoltà di armare un esercito imperiale perché i vassalli avevano alienato i propri benefici e non prestavano più il servizio militare mostrò le conseguenze della patrimonializzazione dei benefici). In questo contesto di debolezza iniziò il regno di FEDERICO I di Hohenstaufen di Svevia (1125-1190), chiamato BARBAROSSA. Egli riuscì a rendere unita la Germania dei grandi ducati, sottomettendo le case più riottose alla fedeltà imperiale. Come Luigi VII in Francia, fece propria la funzione di pacificatore del regno e fece ricorso al diritto feudale per confiscare i ducati ai principi ribelli. La lotta tra le fazioni dei welfen e dei weiblingen, da cui presero poi il nome le parti italiane dei guelfi e i ghibellini, prolungavano uno stato di guerra interna che favoriva il passaggio di un ducato da una fazione all'altra. Ogni volta che riusciva a entrare in possesso di un ducato, Federico lo divideva e da uno ne creava due, diminuendo la forza dei singoli principati. Federico, come i re francesi, si sforzò di dare al legame feudale un significato politico e giurisdizionale reale. Nella dieta- assemblea dei grandi-di Roncaglia del 1158, dopo aver elencato quali erano i diritti regi, aveva stabilito che ogni potere di natura pubblica doveva provenire dal re, attraverso un'investitura formale. Federico usò il diritto romano per rafforzare le sue prerogative feudali: rinnovò il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori, indurendo le punizioni contro i vassalli infedeli. La fedeltà al sovrano, inoltre, era sempre superiore rispetto a quella al signore. La dieta di Roncaglia riguardava soprattutto il regno d'Italia, dove l'opposizione di alcune città lombarde aveva provocato una dura reazione dell'imperatore. Il figlio di Federico I, ENRICO VI, aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all'impero, abbandonando il criterio elettivo e in cambio aveva proposto ai principi tedeschi la quasi completa libertà di lasciare in eredità i propri feudi, ma i principi tedeschi rifiutarono questo patto. Enrico VI aveva guadagnato una posizione di forza quando prese in moglie l'ultima erede dei re normanni, COSTANZA D'ALTAVILLA, dalla quale ebbe un figlio, FEDERICO II. Enrico, nonostante le ribellioni e l'elezione di un anti-re (Tancredi) riuscì a entrare a Palermo e fu eletto re di Sicilia: così il figlio Federico II ereditò il regno di Sicilia e il titolo imperiale. Il regno di Sicilia Costanza d'Altavilla aveva contribuito a conferire unità a diverse bande di cavalieri normanni, giunti nell'Italia meridionale nei primi decenni dell'XI sec per mettersi al servizio dei principi longobardi come mercenari nelle lotte interne. Le iniziative militari dei normanni, infatti, cambiarono rapidamente la natura dei poteri locali, tant'è che un gruppo riuscì a costruire le basi di un potere locale con tendenze egemoniche regionali ambiziose. Il controllo esercitato sui territori da questa aristocrazia militare fu violento: i normanni imponevano obblighi maggiori alle popolazioni contadine, alle chiese e alle comunità soggette. Inoltre, non avevano un vero ordinamento gerarchico all'interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantina in parte fu sostituita, in parte si dovette adattare al loro modo di gestione del potere: divennero quindi tutti signori di castello, attraverso alleanze e matrimoni con i nuovi venuti. Solo nel 1070 si impose la dinastia degli Altavilla come punto di riferimento di un coordinamento unitario tra i diversi territori conquistati. I vari discendenti della famiglia seppero sfruttare le debolezze dei potentati bizantini e le contrapposizioni fra il papa e l'imperatore, cercando di legittimarsi presso entrambi i poteri. In particolare, ROBERTO e suo fratello RUGGERO operarono su più fronti: in Puglia occuparono Bari, e in Sicilia condussero una campagna contro i musulmani che portò alla conquista di Palermo nel 1072. La conquista di Palermo aprì alla famiglia la strada per una posizione politica preminente nel gioco politico eu. Questa ascesa fu legittimata anche dal papato, che conferì a Ruggero una carica simile a quella di legato apostolico, che gli permise di esercitare un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche. Sull'esempio del governo musulmano, molto accentrato e basato su un capillare controllo economico e politico-istituzionale delle sue articolazioni locali, RUGGERO II-figlio di Ruggero-impostò un disegnò monarchico che abbracciò tutti i territori dell'Italia meridionale. Inoltre, ricevette il titolo di re da parte del papa Anacleto III, in cambio di un riconoscimento di dipendenza vassallatica verso la chiesa di Roma. Ma quando Ruggero II provò a esportare forme di controllo regio sul continente, si moltiplicarono le sollevazioni dei baroni: l'autonomia dell'aristocrazia normanna rimase a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Non fu certo colpa del feudalesimo perché il regno normanno non era feudale (non ci fu nessuna distribuzione sistematica di concessioni in feudo né una gerarchia di fedeltà regolava i rapporti interni tra l'aristocrazia e il re). La complicazione del quadro si deve a una concessione mista del possesso di terra, a volte chiamata anche feudo: le terre erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista delle regioni meridionali ed erano dunque sentite come proprie dai discendenti, ma si conservava comunque un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento e si riconosceva ai capi un diritto sulle terre non perché ne fossero proprietari ma per averle conquistate. I beni in pochissimi casi erano stati concessi dal re. Il Catalogo dei baroni (1142) non contiene l'elenco dei feudatari del re, ma l'elenco dei soldati che i baroni normanni potevano armare in caso di guerra. Ruggero II, per assicurare una solida base economica alla monarchia, usò anche altri strumenti di governo: 1 sfruttamento del demanio imperiale-terre di diretta pertinenza regia-che fu una chiave di volta perché si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del dominio e quindi un apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali più sicuri, ma anche perché nelle terre demaniali si sperimentarono nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino (gli ufficiali regi controllarono direttamente il lavoro contadino e prelevarono il surplus disponibile; 2 legislazione pubblica: Ruggero II proclamò una pace del re, ossia il divieto di guerre private in favore della giustizia del regno, e riaffermò l'obbligo di fedeltà per i baroni. Recuperando testi diversi, da fonti romane relative al potere imperiale, a tradizioni bizantine, fino ai modelli papali, i re della dinastia Altavilla rivendicarono un potere con caratteri di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; stabilirono una dipendenza dei baroni dal re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. Gli strumenti usati erano una miscela di organizzazione amministrativa e di diritto feudale: i re cercarono di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni attraverso una rete di giustizieri regi. Il regno normanno di fine XII sec si caratterizzava per una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni che conviveva con un governo molto accentrato. Un mondo contraddittorio con cui dovette confrontarsi FEDERICO II. La successione imperiale e il regno di Federico II Federico II ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complesse. Il primo conflitto vide scontrarsi FILIPPO DI SVEVIA e OTTONE DI SASSONIA (una faida fra guelfi e ghibellini). Arbitro della competizione fu il papa Innocenzo III, tutore di FEDERICO II, che divenne presto il terzo pretendente all'impero. Federico fu eletto re di Germania e, uscito vincente dalla battaglia di Bouvines, fu eletto re dei romani e consacrato imperatore da papa Onorio III nel 1220. come suo nonno, Federico Barbarossa, operò subito per il rafforzamento dei domini nelle regioni meridionali. Da signore, Federico rafforzò il controllo politico dei suoi domini personali, incrementando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici; da re di Germania, scese a compromessi continui con i potentati regionali. Al momento dell'elezione imperiale, Federico emanò un privilegio ai principi ecclesiastici di Germania in cui si concedevano amplissime autonomie giurisdizionali (manovra che aumentò in maniera esponenziale il rafforzamento dell'autonomia dei principi: il figlio Enrico, per domare una ribellione dei principi tedeschi, dovette concedere una serie di privilegi molto simile). In Sicilia, Federico II recuperò i beni usurpati dai nobili durante la reggenza materna e formò un consiglio di giuristi incaricato di elencare le possessioni del re e un inventario di beni sottratti alla corona. Nel 1220 ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni. Nel 1231, lo stesso anno in cui il figlio Enrico cedeva a Worms i privilegi ai principi tedeschi, Federico emanava a Melfi il più importante atto legislativo del suo regno: il Liber constitutionum o Liber Augustalis, dove l'ideologia regia riceveva una sistemazione di grande spessore culturale. Ma il regno d'Italia continuava a sfuggirgli. Divisa in distretti cittadini largamente autonomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l'Italia centro-settentrionale aveva seguito una via parzialmente diversa dalle altre regioni. Nuove strutture politiche nell'Italia medievale: città e comuni Le città medievali italiane nell' '800 è stata interpretata quale primo embrione delle libertà italiane contro l'imperatore tedesco e prefigurazione dei governi liberali rappresentativi del XIX sec. Dal primo '900 le città furono accusate di essere piccoli organismi corporativi, luoghi di passioni politiche insensate e violente, generatrici di fazioni e di quello spirito municipalista che ha segnato le borghesie italiane di antico regime. Nascita del comune consolare: una rappresentanza autonoma delle forze cittadine Alla metà del sec XI le città italiane si presentavano come una collettività senza capo, una comunità di cittadini che si autogovernava al di fuori di un preciso ordine gerarchico di poteri delegati. Il conte, imposto dai carolingi nelle città nel sec IX, era ormai un ricordo lontano perché i suoi discendenti si erano rifugiati nei loro castelli nel contado, disinteressandosi alla vita cittadina. La figura di maggior rilievo era il vescovo: guidava la vita cittadina, ne assicurava l'unità religiosa e la pace sociale e deteneva importanti diritti pubblici. Ma il vescovo non prese mai il posto del conte come funzionario pubblico inserito nella gerarchia del regno, come invece avvenne in Germania e in Francia. Il vescovo in Italia era anche un grande signore feudale, con forti interessi economici da tutelare. La realtà sociale era caratterizzata da gruppi sociali diversi in grado di condizionare il governo del publicum, la sfera collettiva della vita dei cittadini-insieme ancora indeterminato di abitanti politicamente attivi (in molte realtà urbane i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di ricchezza e di mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune divenne il cuore politico del comune: aveva il compito di eleggere il podestà e prendere le scelte principali per la vita politica ed economica del comune. Il podestà proponeva gli argomenti da discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta (posta) e alla fine decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza (i voti erano espressi con delle palle o delle fave). Moltissimi erano i nuovi abitanti immigrati dal territorio circostante o da altre città, che formavano una popolazione in genere poco specializzata. La società urbana fu scossa da questo flusso di immigrazione così impetuoso e fu necessario trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. Molti divennero lavoranti salariati, ma altri riuscirono a trasformarsi in artigiani in proprio, organizzati nelle corporazioni delle arti, le quali assunsero un ruolo sempre più centrale nella vita del comune: dal punto di vista economico, le corporazioni controllavano il lavoro e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti; dal punto di vista politico dalla seconda metà del '200 le arti si candidarono al governo della città in nome di una nuova idea di comunità, fondata sul lavoro artigianale e sui commerci, su una giusta divisione delle spese pubbliche e sulla pace sociale. Il governo delle corporazioni nel '200 In un primo momento, il Popolo duplicò le istituzioni comunali, affiancando al podestà e al consiglio comunale un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo, il Capitano del Popolo, che guidava il consiglio del Popolo; poi instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle arti (es a Firenze presero il nome di Priori e a Bologna di Anziani quei governi collegiali formati dal podestà, dal capitano, dai due consigli-del comune e del Popolo-coordinati dai rappresentanti delle arti). Giunto il Popolo al potere, si formarono presto al suo interno gruppi egemoni che influenzarono l'indirizzo di fondo della politica comunale nelle singole città: con il dominio delle arti maggiori a Firenze, ci fu un'alleanza fra i grandi commercianti e i banchieri che tendevano a limitare sia la partecipazione politica sia la libertà d'azione economica dei gruppi artigianali minori. In tutte le città furono create liste generali di appartenenza qualificata alla città. Si censirono i residenti, con elenchi di cittadini divisi per parrocchie o cappelle; quindi i contribuenti, distribuiti prima in liste fiscali di soggetti al fodro (l'antica tassa pubblica di matrice regia) e poi in estimi (con una valutazione reale della ricchezza individuale). La prima operazione del Popolo fu spesso quella di adottare un sistema di tassazione proporzionale, intaccando per la prima volta i patrimoni dei più ricchi; ma i capitali mobili sfuggivano all'estimo e dare soldi al comune non era avvertito come una perdita, ma un investimento. Fatto salvo il principio che tutti potevano recarsi al tribunale pubblico per difendere i propri diritti, si concessero ai giudici poteri speciali per scoprire e punire severamente le infrazioni contro l'ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza della nobiltà militare. Verso la fine del '200 le pretese delle città comunali sul contado aumentarono: divisero il territorio per zone amministrative, suddivise a loro volta in aree minori affidate a un ufficiale cittadino, il vicario o il podestà, responsabile della condotta degli abitanti; i castelli furono controllati direttamente da contingenti militari di provenienza urbana. Inoltre, si impose alle comunità del contado una serie di doveri fiscali e annonari che scaricavano sui comitatini una parte rilevante del costo del mantenimento della città. Liste di villaggi con la quota di grano che dovevano assicurare alla città si sommarono agli estimi del contado, che definivano una quota fissa di tasse per i singoli villaggi in base a un conteggio ipotetico degli abitanti che non teneva conto dei processi di mobilità. Anche la disciplina sull'accoglimento dei comitatini in città si fece più rigida. Una reale compartecipazione agli interessi collettivi si raggiunse attraverso un sistema di rappresentanze a catena che mettevano in contatto i membri delle associazioni di mestiere con gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali. La divisione in fazioni o parti, gruppi di famiglie alleate politicamente contro una parte avversa, si era diffusa durante le guerre contro Federico I e soprattutto contro Federico II, tra il 1226 e il 1250. fu in quel periodo che le famiglie e le città si contrapposero in guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell'imperatore. In molte città le parti guelfa o ghibellina divennero un'istituzione, con propri consigli e podestà. Molti nobili, esclusi dalle società di popolo, potevano tornare al governo come membri della parte guelfa. Alle tensioni di classe, si aggiungevano gli odi di fazioni, non meno violenti e pericolosi per la stabilità delle istituzioni comunali. Per questo, il Popolo, pur essendo spesso alleato a una parte, cercò di combattere l'eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del tema della pace l'ideale politico della città. Molti comuni di Popolo emanarono a fine '200 delle leggi speciali, ordinamenti di giustizia o leggi antimagnatizie, per assicurare la pace interna contro i magnati (i grandi-ricchi, potenti, cavalieri e grandi mercanti e banchieri che imitavano la nobiltà-che si opponevano al comune): a queste persone fu vietato di assumere cariche comunali, fu imposto un regime speciale nelle questioni giudiziarie, a molti fu comminato il bando e l'esilio dalla città. In questi casi il sistema delle liste funzionò bene. Il comune poteva controllare i singoli cittadini in base al loro comportamento e spostare gli individui ribelli dalle liste di inclusione a quelle di esclusione con un semplice atto amministrativo. In questi anni di divisione interna si affermò la teoria del bene comune come fine ultimo della politica. La fonte era la Politica di Aristotele. Il Popolo si presentò come l'unica forma di governo in grado di raggiungere il bene comune, perché favoriva un sistema consiliare aperto, difendeva il benessere collettivo e inseguiva la giustizia, l'equità e la pace. Ma il bene comune faticò a essere raggiunto senza il ricorso a strumenti repressivi contro gli avversari e non fu considerato affatto comune dalla parte perdente. In molte città l'esperimento del Popolo finì precocemente. I conflitti sociali e le lotte di fazione provocarono una reazione di rigetto delle istituzioni comunali e il potere fu assunto da personalità di prestigio, spesso provenienti da famiglie nobiliari, il signore o dominus. In Lombardia si sperimentarono alleanze ibride fra i movimenti di Popolo e le prime figure tendenzialmente signorili. Così a Milano, dagli anni 40 del '200 fino al 1277, si formò un blocco di potere che vedeva alleate la Credenza di S Ambrogio, la principale organizzazione di Popolo, e la famiglia dei della Torre. In Emilia, dopo la caduta del regime di Pallavicino e la sconfitta degli ultimi eredi di Federico (1266-1267), fu l'intervento diretto di CARLO D'ANGIO' a favorire la creazione di governi formalmente di Popolo e guelfi, dove l'accesso alle istituzioni dirigenti era riservato agli iscritti nei libri matricolari delle società di arti e di armi. Non si trattò di una svolta definitiva. Le città italiane entrarono infatti in una fase di sperimentazione ancora incerta, con momenti di governi autocratici in mano a un signore e ritorno improvvisi a governi comunali. Anche le città che conservarono una struttura repubblicana (Firenze, Pisa) attraversarono un periodo di turbolenta riforma interna. Alla fine del '200 tutte le forze politiche urbane volevano contare e tutte ricercavano uno spazio di accesso diretto al potere. CRISI E INQUADRAMENTO DELLE SOCIETA' EU (metà XIII-XV sec) Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della chiesa, 1215-1378 La vasta costruzione dottrinale e pastorale elaborata dopo la riforma fu sistematizzata all'inziio del '200, sotto Innocenzo III, in un concilio ecumenico tenutosi a Roma nel 1215, in Laterano: il concilio lateranense IV disciplinava e rinnovava la procedura giudiziaria interna alla chiesa, la lorra agli eretici, le pratiche pastorali da seguire nelle diocesi, inquadrando queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato sulla figura del papa come guida spirituale e politica dell'intera cristianità. Nel tardo '200 presero forma anche nuove teorie teocratiche, che attribuivano al pontefice romano poteri superiori di giudice e di legislatore. Il concilio promulgò anche due canoni che cercavavno di dare forma una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei primi del '200 (predicatori e minori). L'eresia divenne un campo di tensioni fortissime nel mondo politico- religioso del tardo medioevo. Da un lato esisteva l'eresia religiosa, dall'altro il reato di eresia fu sempre più applicato alla politica. Il ricorso spregiudicato all'eresia per salvare la chiesa dalle resistenze dei fedeli riottosi non mise il papato del sec XIV al riparo da una crisi politica senza precedenti: prima vi fu lo scontro fra Bonifacio VIII e il re di Francia nel 1303; poi l'abbandono di Roma e il trasferimento del papati ad Avignone per un settantennio (1307-1378); infine uno scisma fra un papa romano e un antipapa francese. Il sistema politico dei regni eu non accettava più inquadramenti dall'alto, neanche sul piano religioso La chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Sotto la guida autoritaria di INNOCENZO III, che guidò con mano ferma il concilio lateranense IV, fu approvata la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa. Inoltre, si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all'anno al proprio parroco, dovevano sposarsi in chiesa e ricevere l'eucarestia a Pasqua; chi si rifiutava non poteva entrare in chiesa né esservi sepolto. Tutte le posizioni giudicate errate da un tribunale ecclesiastico furono condannate con la scomunica, l'espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni di una persona scomunicata. Lo sviluppo dell'apparato burocratico in forme sempre più centralizzate, con poteri decisionali riservati al papa, influenzò la riflessione dottrinale relativa al potere del pontefice (il titolo del papa cambiò da vicario di san Pietro a vicario di Cristo e gli fu riconosciuto un potere assoluto, sciolto dalle leggi e superiore alle leggi stesse. I teorici della supremazia papale sostennero che il papa fosse infallibile). Inoltre, furono rafforzate le competenze dei legati pontefici, che divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa soprattutto per le questioni interne alla chiesa. Nel corso del XIII sec, i pontefici cercarono di mettere sotto controllo l'elezione dei vescovi: si riservarono il potere di trasferirli da una sede all'altra. Le tensioni generate dai contrasti fra il papa e i vescovi diedero vita a una corrente politica (conciliarismo) che affermava la superiorità del concilio sul papa. Il diritto della chiesa fu rinnovato nel XIII sec. Alla base del nuovo diritto furono poste le lettere pontificie, le decretali, scritte in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati. Le decretali furono raccolte in 5 collezioni, le Cinque compilazioni, che divennero punti di riferimento per regolare la vita delle chiese. Il Liber extra, voluto da Gregorio IX, fu un codice unico che riordinò le compilazioni precedenti, così da dare origine a una serie di regole che disciplinavano tutte le materie di diritto canonico in armonia con le decisioni prese dai diversi pontefici e dai concili ecumenici. L'accentramento dell'autorità nella figura del papa richiese un notevole sforzo organizzativo della curia romana, che dovette adattarsi ai compiti di coordinamento delle chiese locali. Il diritto d'appello, stabilito da Alessandro III, aveva favorito la formazione di una giurisdizione piramidale che culminava con il papa (i cappellani, che prima si occupavano degli affari giudiziari, furono sostituiti da una nuova magistratura, gli auditori delle cause): la curia romana divenne la più importante sede giudiziaria dell'occidente medievale, la sola di natura internazionale. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne assiduo quando si perfezionarono i peccati riservati al papa e il potere di concedere una dispensa dall'osservanza di alcune norme canoniche. Fu istituito anche un ufficio destinato a ricoprire un ruolo centrale nella chiesa bassomedievale: la Penitenzieria, in genere affidata a un esponente degli ordini mendicanti. Nuove forme di religiosità monastica: gli ordini mendicanti In questo contesto di grandi conflitti fra una chiesa sempre più centrata sul papa di Roma e una massa che chiedeva nuovi spazi di vita religiosa dentro e fuori le istituzioni ecclesiastiche, presero forma due movimenti religiosi destinati a cambiare in profondità la struttura della chiesa medievale: i predicatori fondati da Domenico di Caleruega e i minori fondati da Francesco d'Assisi, chiamati ordini mendicanti. Proponevano un modello di vita vicino alla povertà del vangelo, fondato sulla rinuncia ai beni, sul lavoro come sostentamento, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti nelle piazze. I mendicanti non erano monaci, ma frati. Furono in grado di mantenere nell'ortodossia una gran parte dei fedeli più critici verso le ricchezze della chiesa istituzionale e furono un'ispirazione e una guida per i laici devoti che organizzavano forme di vita comunitarie para-religiose. I mendicanti divennero uno strumento di controllo delle coscienze e di repressione dell'eterodossia: ai due ordini fu affidata l'Inquisizione contro l'eresia, un tribunale contro i crimini ideologici e politici. L'origine dei frati predicatori, i domenicani, è legata alla lotta antiereticale: attraversando le terre della Francia meridionale infestate dai catari (che, imitando lo stile di vita delle comunità apostoliche, contestavano i poteri sacramentali della chiesa), il canonico spagnolo Domenico da Caleruega decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l'eresia. Domenico si rese conto che la predicazione dei frati cistercensi era spesso inefficace. Domenico ebbe l'intuizione di unire una predicazione esemplare con una preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici: Domenico si presentò vestito umilmente e accettò il confronto con tutti , cercando di persuadere i fedeli che la povertà non era in contrasto con la fede ed era possibile anche all'interno della chiesa cattolica. Sostenuto inizialmente dal vescovo di Tolosa, Domenico organizzò un primo gruppo di seguaci. Il nuovo ordine fu approvato da Onorio III nel 1216 e le Costituzioni definirono le forme di vita in comune: promozione della povertà individuale e dell'elemosina come sostentamento, intensa attività di predicazione, vita in comune nei conventi, formazione di un capitolo generale che doveva eleggere un maestro generale dell'ordine. Caratteristica principale dei predicatori fu la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli eretici. Nei conventi doveva esserci anche un insegnante di teologia e lo studio era parte integrante della vita conventuale. Famosissimi furono alcuni teologi che insegnarono nelle università come Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. L'origine dei minori è legata alla figura di Francesco d'Assisi, nato nel 1182 da un agiato mercante e convertito a una vita religiosa che presentava caratteri di spiccata originalità: usò un linguaggio nuovo, nel Testamento pose come inizio della sua conversione l'incontro con i lebbrosi (bisognava scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo) e abbracciò l'assoluta povertà. Iniziò la predicazione itinerante con i primi fratelli portando il suo messaggio nelle regioni dell'Italia centro-settentrionale e il papa Innocenzo III approvò la sua regola fra 1209 e 1210. I fratelli dovevano rinunciare a tutti i beni e darli ai poveri, vestire semplicemente di una tunica di panno vecchio, lavorare sempre, non avere possessi né individuali né comuni. Rinunciando a ogni forma di possesso, Francesco obbligava i suoi frati a scoprire il valore spirituale e non monetizzabile delle persone e dei loro bisogni. La povertà aveva anche una dimensione interna, che richiedeva la rinuncia alla propria interiorità per consentire a Dio di entrare nell'animo umano e di portarlo verso la salvezza; un patto che si rinnovava mediante l'eucarestia, il sacramento fondamentale della spiritualità francescana. Ma i conflitti Boemia, Ungheria e Polonia. Nelle regioni scandinave la natura regia dei poteri territoriali acquisì una fisionomia più chiara. Gli storici fra '800 e '900 hanno insistito sul processo di centralizzazione delle corti regie come motore dello sviluppo dello stato; oggi nuove ricerche hanno messo in luce nuovi aspetti: la vitalità del particolarismo delle signorie locali; la lunga durata dei legami feudali; la capacità di resistenza delle comunità locali e delle città davanti alle esose richieste finanziarie dei re; l'esistenza di solidarietà regionali che identificavano nel paese un luogo di appartenenza più vicino e più rilevante rispetto al regno. Il regno non cancellava le realtà territoriali, che si presentarono come istituzioni (assemblee, parlamenti, stati provinciali, diete). Per alcuni storici, fu proprio la dimensione negoziata la caratteristica maggiore dello stato moderno. La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra Mai come nel XV sec l'esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione. I regni di Francia e d'Inghilterra mostrarono la capacità istituzionale di costruire un apparato pubblico egemonico nei loro territori. Francia. Sotto Luigi IX, il regno di Francia si era esteso fino a comprendere le regioni meridionali della Linguadoca ed era cresciuta la sfera delle competenze riservate al re, a cominciare dall'attività legislativa. Sotto Filippo il Bello, l'apparato centrale si fece pesante e pervasivo, le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi, la giustizia rimase nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della chiesa. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore Luigi X. Nel 1315 una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un'ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Le carte di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa le funzioni pubbliche basilari della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. Con l'esaurirsi della dinastia capetingia, nel 1328, e il passaggio del regno alla linea dei Valois, si riaccese il contenzioso con l'Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i capetingi. La guerra dei 100 anni mise in luce le debolezze del sistema politico francese: un esercito pesante e lento basato ancora sui cavalieri; una scarsa capacità di mobilitazione della popolazione; un sistema fiscale imperfetto; una fortissima frammentazione territoriale. L'esercito francese fu più volte battuto (a Poitiers il re francese Giovanni il Buono fu preso prigioniero e ad Azincourt nel 1415 l'esercito fu annientato). Nella seconda fase prevalsero gli aspetti politici: non era solo la presenza degli inglesi a minacciare il regno, ma anche una spaccatura interna all'alta aristocrazia francese. La guerra civile era iniziata nel 1392 circa, quando si era aperto un conflitto fra due membri della corte che avevano tentato di influenzare Carlo VI, un re debole e impazzito: Giovanni senza Paura e Luigi duca d'Orléans. Lo scontro aperto scoppiò quando Luigi impose una nuova tassa ; presero forma due partiti: gli armagnacchi e i borgognoni. La resistenza alla politica fiscale degli Orléans divenne un filo costante della guerra civile. I borgognoni presero il controllo di Parigi e della Francia settentrionale, mentre gli armagnacchi crearono un regno nelle regioni centrali. Gli armagnacchi erano sostenitori del re e di un apparato pubblico centralizzato; i borgognoni erano favorevoli a un assetto politico più decentrato. In seguito al trattato di pace di Troyes, il re d'Inghilterra Enrico V sposò Caterina, la figlia del re francese, il quale aveva eletto come suo successore proprio il re inglese. Alla morte di questo, il figlio Enrico VI pretese di essere eletto re di Francia. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti, che sostenevano un figlio del re francese, Carlo VII. Fu tra 1428 e 1431 che si svolse la parabola di Giovanna d'Arco: una donna condottiera, ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII come vero re francese. Giovanna fu protagonista di miracolosi scontri armati e fu subito messa al servizio dalla propaganda regia, anche dopo il processo e la condanna a morte per stregoneria eseguita da un vescovo al servizio dei borgognoni. Negli ultimi anni la guerra si rivolse a favore della Francia, anche per le divisioni che investirono l'Inghilterra. Luigi XI, divenuto re di Francia, cercò di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati, ma gli si contrappose un fronte composito (suo fratello, il duca di Borgogna e diversi signori). Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria, dopo averli accusati di lesa maestà. Le ordinanze regie sulla fiscalità, la moneta, la chiesa, la giustizia, l'esercito e gli ufficiali pubblici e il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un rafforzamento dello stato. Ma la costruzione di uno spazio politico francese riposava ancora sulle vie contorte del diritto successorio e del diritto feudale. Inghilterra. I successori di Edoardo I misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia: un regno incapace di finanziarsi, un ruolo spropositato dei baroni, un parlamento incapace di proporsi come garante di un assetto istituzionale stabile. La monarchia inglese, nel corso del XV sec, fu segnata da una rapida successione di re deposti, dimessi o uccisi. Davanti al vuoto di potere creatosi durante l'infanzia di Enrico VI, due erano le forze che potevano aspirare a trovare un ordine: il parlamento e i grandi, la nobiltà militare dei pari. Il parlamento assunse nel '300 un ruolo di controllo e di indirizzo della politica regia: cercò di proporre un rimedio alle deficienze finanziarie del regno sottoponendo a un controllo periodico le finanze pubbliche; propose di istituire un consiglio permanente composto dai baroni; trovò un compromesso con il re riguardo a una tassazione fissa della lana esportata per incrementare le entrate pubbliche; si oppose alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici. Ma l'assenza del re, la guerra in Francia e la competizione per il trono favorirono un frazionamento del regno inglese in ducati semi-indipendenti. Inoltre, lo scontro fra i baroni riguardava la conquista della corona del regno: questa ostilità si polarizzò intorno al conflitto fra la casa di Lancaster, che aveva a lungo dominato il parlamento, e quella di York. La guerra delle due rose (1455-1485), che vide la morte violente di due re e degli eredi di Edoardo IV, terminò con l'ascesa di una nuova dinastia, quella dei Tudor. I re scozzesi riuscirono a mantenere un regno di Scozia separato da quello inglese. Anche in Inghilterra la guerra aveva messo a dura prova il sistema istituzionale monarchico: l'idea di monarchia doveva staccarsi dai re e trasferire alla corona la nozione astratta ma durevole di un'istituzione monarchica. Anche nelle monarchie spagnole il peso delle lotte interne per la corona determinò una serie di cambiamenti a catena delle dinastie (in Castiglia, dopo varie contestazioni, riuscì ad imporsi la casata di Trastamara). Un esponente del ramo cadetto dei Trastamara divenne re di Aragona come Ferdinando I d'Aragona. La galassia catalano-aragonese abbracciava tutta l'Italia meridionale e insulare, controllando l'intero bacino del mediterraneo occidentale. La struttura interna dei singoli regni era molto diversificata, poco aperta ad una unificazione politica. Se in tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee rappresentative influenti, le cortes, la composizione e il ruolo di queste istituzioni variava da caso a caso. In Castiglia le cortes non comprendevano i nobili ed erano formate dai rappresentanti delle città. Il ceto intellettuale e amministrativo delle città, i letrados, aveva trovato nel rapporto con il re un sistema di promozione e di ascesa sociale. Negli altri regni, le cortes assunsero un ruolo diverso. In Catalogna e Aragona i rappresentanti dei tre ordini del regno-chiesa, nobiltà e città-ebbero ampi poteri sulle finanze e sulla legislazione. Qui le cortes crearono istituzioni permanenti, le Deputazioni, che amministravano direttamente alcune funzioni politiche, stipendiavano una milizia e riscuotevano una tassa. Questo per impedire la formazione di una monarchia centralizzata. Un matrimonio e una successione contestata portarono all'unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona: nel 1469 Isabella di Castiglia sposò l'erede al regno di Aragona, Ferdinando. L'unificazione di tutta la Spagna si completò nel corso del loro regno, dopo la caduta dell'ultima enclave musulmana di Granada (1492). L'impero e i regni dell'est: crisi e flessibilità della forma monarchica Fra il '200 e il '400 l'impero perse l'unione dei regni d'Italia, di Borgogna e di Germania. La Borgogna era da tempo divisa fra il ducato, vassallo del re di Francia, e la contea, di fedeltà imperiale. Enrico VII non riuscì a ricomprendere l'Italia in una dominazione unitaria. Gli imperatori della dinastia di Lussemburgo e di Boemia si concentrarono sulla Germania e sui regni dell'est, che trovarono un assetto stabile con gli Asburgo. La natura elettiva del regno garantiva ai principi elettori un potere di intervento diretto nelle vicende politiche della corte; inoltre, la bolla d'oro del 1356 concessa da Carlo IV ai principi elettori concedeva loro la piena autonomia giurisdizionale nei propri territori e un potere di controllo sull'attività imperiale. Il collegio degli elettori era convinto di essere un'entità superiore al re-imperatore. Anche i principi regionali non elettori conservarono un'autonoma linea d'azione: gli Asburgo erano una famiglia ducale che era in competizione per la corona imperiale ma allo stesso tempo rivendicava la piena autonomia del ducato d'Austria dall'impero. Massimiliano I d'Asburgo fu il fondatore del nuovo impero asburgico. I tentativi di legiferare per tutto il regno furono pochi e di scarso successo. La dieta di Worms tenuta da Massimiliano d'Asburgo nel 1495 aveva cercato di creare un tribunale imperiale che superasse i diritti locali e di imporre una tassa per tutti i territori del regno, ma suscitò numerose resistenze. Il nuovo impero rimase bipartito fra l'imperatore e i principi. Ma la nozione di impero resisteva: la consapevolezza di essere un regno che era stato anche un impero servì per lungo tempo a legittimare le pretese di espansione che i re germanici continuarono a nutrire. L'espansione verso est, la difesa dei confini dagli slavi pagani e dal turco invasore a sud, divennero i compiti della nuova configurazione regia-imperiale del sacro romano impero di nazione germanica. Il regno di Boemia era legato alle sorti dell'impero, visto che il suo re era uno dei 7 principi elettori. Il regno di Ungheria si unì, in momenti alterni, alla Boemia e alla Polonia. La Polonia si unì con il ducato di Lituania. In una prospettiva eurocentrica, erano regni di frontiera e su questa funzione di difensori dei confini della cristianità costruirono una parte importante della loro identità politica. Nonostante le differenze, Boemia, Ungheria e Polonia rimasero collegate sia sul piano dinastico sia sul piano politico. Tutti e tre i paesi avevano istituzioni rappresentative forti, consistenti in una dieta o in stati generali, espressioni di territori politicamente semi indipendenti, sottoposti a una nobiltà bipartita in un livello alto e in un livello medio-basso. Al sovrano veniva riconosciuto solo un coordinamento della politica sovralocale, che non si traduceva nell'adesione a uno stato centralizzato. Lo stato ottomano nacque da uno dei numerosi emirati presenti nella penisola anatolica. Le conquiste dell'Anatolia e delle regioni bizantine della Tracia e dell'Eu sudorientale furono il risultato di un'abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi. Fortissima fu la spinta verso la guerra di conquista come guerra santa. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l'inizio di un processo di unificazione politica e religiosa di tutta la regione. La ominazione ottomana si insinuava in profondità nelle terre dei regni eu e rappresentò per sec un nemico. L'impero ottomano era uno stato solidissimo sotto il potere assoluto del sultano, in grado di resistere ai colpi di re eu poco saldi e di un'aristocrazia regionale in cerca di autonomia. Il caso italiano: gli stati regionali dal XIV alla fine del XV sec Nei primi anni del '300 vi fu la ricomposizione di molteplici realtà cittadine e comunali in alcuni stati territoriali maggiori di carattere regionale, senza però alcun coordinamento centrale superiore. Papa e imperatore furono sempre in competizione tra loro. In questo quadro frammentato possiamo distinguere tre aree: 1 i grandi stati regionali principeschi (come il ducato di Savoia e lo stato della chiesa), 2 le formazioni regionali ancora sotto regimi repubblicani (la repubblica di Venezia e quella di Firenze), 3 le regioni meridionali inserite nei regni. La prima generazione di signorie cittadine era costituita da dominazioni personali, bisognose di legittimazione dal basso (neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV sec, quella dei visconti di Milano, riuscì a sfuggire all'obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo). L'esperienza viscontea, che sottomise tutte le maggiori città lombarde e anche alcuni grandi comuni emiliani, insieme a quella estense, rappresenta un momento centrale del riassetto politico dell'Italia signorile. Un momento di forte rottura con quel modello di città comunale che aveva reso instabili e ingovernabili la maggior parte delle città padane. I visconti si presentavano come i restauratori dell'ordine: l'immagine del salvatore della città in lotta fu adottata dalla pubblicistica signorile e divenne un luogo comune storiografico. Non era più il bene comune il fine della politica, ma l'esaltazione dei signori, portatori di pace e stabilità, che avevano il totale arbitrio di governare, giudicare e creare leggi. I signori, però, non erano piccoli re: le basi di legittimazione del dominato visconteo erano molto deboli e il signore aveva bisogno di sostegni legali. Il maggiore giurista italiano, Bartolo da Sassoferrato, aveva respinto il principale argomento dei visconti, sostenendo che il conferimento della podestà legislativa dal popolo al signore era valido solo quando la scelta dei consigli era libera a non costretta dalla forza: quindi, secondo lui la maggioranza dei signori rimaneva tiranna. Sul piano politico, la costruzione dello stato regionale procedette per gradi. Un tratto comune a tutte le dominazioni territoriali va identificato nell'acquisizione per blocchi separati di città e territori che patteggiarono col signore modi e forme dell'entrata nel dominio. Il ducato sabaudo conservò la struttura originaria dei territori; il sistema di podestà o di castellani inviati dal papa non riuscì a ricomporre una trama unitaria del dominio (inoltre l'assenza del papa dall'Italia dal 1309 al 1378-cattività avignonese-ebbe un peso notevole nel frenare questa unificazione: si formarono numerose signorie autonome-malatesta, montefeltro, sforza); lo stato veneto rispettò la precedente struttura comunale delle città, integrando le oligarchie urbane in un sistema di governo condiviso; lo stato fiorentino fu improntato a una severa ridefinizione dei contadi. L'ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di ufficiali locali richiese una ristrutturazione delle corti centrali: nacquero nuovi organismi, come la cancelleria principesca, i segretari, una camera dei conti che gestiva le finanze dello stato. In alcuni casi i signori puntarono molto sulla promozione culturale fondando università, come i visconti con lo studio di Pavia. La chiave di volta degli stati signorili o principeschi fu la capacità del signore di assicurare un rapporto diretto tra il centro e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Il grado di autonomia delle comunità rimase molto elevato quasi ovunque in Lombardia, in Veneto, nel ducato sabaudo e nello stato cella chiesa. Il governo centrale, infatti, inviava magistrati esterni da affiancare ai collegi cittadini o ai consigli comunali. Uno scoppio di localismo esasperato dimostrò quanto provvisoria fosse la sottomissione del contado attuata in età comunale. Le numerose signorie locali che costellavano i contadi rivendicarono un'autonomia politica e giurisdizionale piena sui territori di loro pertinenza: i visconti, i savoia, gli sforza e i pontefici furono generosi nel riconoscere e inserire nello stato le signorie locali con una formale investitura feudale che rendeva palese la nuova gerarchia dei poteri pur lasciando intatto il prestigio dei signori. La principale debolezza degli stati signorili consisteva nella fragilità dinastica. campagne avevano radicarto il loro potere attraverso un maggiore controllo sulle terre, adesso date in concessione con contratti a breve termine che imponevano prestazioni più pesanti e una dipendenza molto piùà stretta dal padrone. Una massa ingente di contadini fu di fatto privata della terra, espulsa dalle campagne o costretta a lavorare come bracciante. Una degradazione costante delle condizioni di lavoro fra '300 e '400 portò molti garzoni di bottega ad assimilarsi ai lavoranti di basso livello. Il mondo bassomedievale dovette fare i conti con una massa crescente di persone non proprietarie, senza terra e senza messi di sussistenza: una massa da far lavorare a salario, che aveva solo il lavoro come risorsa economica. Il rischio di cadere in povertà, spinse le autorità laiche ed ecclesiastiche a costruire strutture permanenti di accoglienza. Crisi e ristrutturazione dei rapporti sociali nelle campagne Il basso medioevo si aprì con una fase di crisi acuta dei processi produttivi ed economici delle società eu: ci furono carestie, guerre violentissime e lunghe che portarono a un aumento costante delle tasse, e l'epidemia di peste del 1348 che assunse il carattere di punizione divina. Lungo tutti i sec centrale,i del medioevo, i rapporti agrari in Eu furono dominati da poche tipologie contrattuali: il livello e l'enfiteusi, due forme di affitto a lungo termine rinnovabili o perpetue. I contadini erano tenuti al pagamento di un canone in natura o in denaro e a una serie di prestazioni. Il contadino che usava la terra direttamente acquisiva una certa disponibilità della terra stessa anche se non ne era il proprietario: poteva decidere le colture, subaffittare o vendere la terra con il consenso del proprietario; una libertà d'azione che si tradusse per molti contadini in una forma di ascesa sociale. Le cose iniziarono a cambiare nel corso del '200: gli imponenti processi di bonifica di nuove terre, la creazione di villenove in funzione della colonizzazione agricola e il riassetto del popolamento rurale che ne conseguì misero in luce una nuova intraprendenza dei signori e minarono le fondamenta dei rapporti di lavoro, a cominciare dal ritorno a canoni in natura dovuti alla crescita esponenziale della domanda di beni alimentari nelle città (che cercò di essere soddisfatta anche dalle grandi aziende ecclesiastiche). Nel corso del '200 una quota consistente della proprietà terriera fu acquisita da grandi banchieri, da mercanti e da artigiani: gli appezzamenti più grandi e più redditizi appartenevano a proprietari cittadini. Nei territori a prevalente dominio cittadino le proprietà erano meno frammentate; le zone a prevalenza contadina erano invece coltivate direttamente dai conduttori. Il quasi-monopolio dell'affitto a lungo termine si frantumò e iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali. La novità era la brevità dei termini di concessione che poteva avere ragioni diverse: ridiscutere l'importo dei canoni, riappropriarsi della disponibilità della terra, mettere sotto controllo l'attività del conduttore. In questo modo si liberava il contadino dalla terra, favorendo una maggiore mobilità delle persone, ma si provocava anche una maggiore precarietà dei rapporti di lavoro. In Italia le novità più importanti si ebbero nelle zone a forte concentrazione di proprietà cittadina, dove si formulò il contratto di mezzadria, un affitto a breve termine con la divisione a metà dei prodotti tra il proprietario e il contadino. C'è da considerare la pesante ingerenza padronale nella vita familiare del mezzadro e il fatto che i lavori per aumentare la produttività del fondo erano a carico del contadino. Nei paesi dell'Eu occidentale si nota una progressiva scomparsa del servaggio (in Inghilterra e in Spagna i re acconsentirono all'abolizione formale dei vincoli servili nelle campagne). Fra '300 e '400 si abbandonarono le conduzioni dirette della terra e si diffusero contratti di affitto parziari, che prevedevano una spartizione dei prodotti. Le nuove colture specializzate attrassero una forza lavoro crescente, specie nelle zone a più alta produttività, come l'Italia padana che vide lo sviluppo di un'attività di artigianato domestico. La trasformazione del mondo del lavoro in ambito urbano: i salariati Il passaggio da coltivatori ad artigiani era richiamato dagli aspiranti cittadini per affermare il loro nuovo stato sociale e vincere le diffidenze dei governi urbani verso gli immigrati legati ai lavori rurali. A Perugia, Bologna e Firenze si emanarono norme contro i contadini di recente immigrazione: si chiedeva il loro allontanamento e la loro esclusione dalle cariche pubbliche. Nel corso del '300 il processo di diversificazione del ceto artigianale si accentuò; si crearono due canali di reclutamento dei lavoratori: i giovani apprendisti e i giovani inservienti senza mezzi (i salariati). La parte bassa dei lavoranti meno qualificati dipendeva quasi in tutto dal padrone della bottega. L'ingresso nelle corporazioni fu severamente disciplinato e divenne riservato a pochissimi maestri in grado di superare un esame. Questa chiusura oligarchica rese più acute le differenze fra le arti manuali e quelle a più forte contenuto mercantile, dette arti maggiori. Nel corso dei primi del '300, l'abbassamento delle condizioni lavorative coinvolse anche gli strati intermedi dei lavoratori artigiani: era la spia di un processo di declassamento del ceto operaio. I lavoranti trovavano sempre più difficilmente un'occupazione stabile presso una bottega e così furono richiamati dall'apertura di grandi cantieri edili, dalla costruzione delle cattedrali nelle città del nord, dall'attività edilizia laica nelle città italiane. La comparsa di questa forza lavoro prevalentemente manuale suscitò una reazione di chiusura da parte delle classi dirigenti del basso medioevo. Nel pensiero dottrinale del'200-'300 sembra riemergere l'antica diffidenza per le arti manuali ereditata dal mondo greco-romano: vendere il proprio lavoro abbassava la qualità della persona. Secondo Tommaso d'Aquino, gli artigiani erano cittadini imperfetti perché non avevano capacità di espandere i loro affari e quindi di accrescere la ricchezza collettiva. Per diventare membri del consiglio cittadino era necessario avere un reddito minimo relativamente alto. Dopo la peste del 1348, i vuoti della popolazione urbana crearono una situazione paradossalmente favorevole ai lavoratori e agli artigiani rimasti: erano pochi, più richiesti e pagati meglio. Numerosi quindi furono gli interventi legislativi delle autorità pubbliche volti a limitare l'aumento dei salari e a costringere i lavoratori ad accettare qualsiasi impiego venisse loro offerto. Nonostante il tono minaccioso, queste normative ebbero un effetto limitato: i salari, dopo la peste, continuarono a salire, anche se questo non voleva dire che i lavoratori vivessero meglio. Tra il 1340 e il1400 numerose rivolte nelle campagne e nelle città turbò la vita delle città eu: si trattò di sollevazioni violente che portarono all'instaurazione di governi provvisori composti da piccoli artigiani alleati momentaneamente ad alcuni esponenti della borghesia mercantile. A Parigi durante la guerra dei 100 anni ci fu il governo provvisorio di Marcel, il prevosto dei mercanti che aveva rappresentato il malcontento dei borghesi per l'eccessivo carico fiscale imposto dal re Giovanni il Buono. Marcel si appoggiò alla piccola borghesia artigiana per mettere in piedi un governo della città che sostituiva quello regio (1357). nelle campagne vicino a Parigi l'insicurezza militare e la crisi dei prezzi colpì lo strato alto dei contadini che si rivoltarono contro i loro signori nel 1358; il movimento prese il nome di jacquerie. La borghesia parigina composta di piccoli e medi proprietari si spaventò della violenza contadina, dello stato di incertezza politica, delle ambiguità del governo di Marcel e ne decretò la caduta. In Italia, l'agitazione dei ciompi, lavoratori salariati del tessile, insieme ad altre categorie di lavoranti, pose la questione della rappresentanza interna alle arti. I ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378, ma, mostrandosi ostili ai monti, furono repressi. Per capire le condizioni del salariato, che viveva in un'estrema incertezza, è necessario tener conto del potere di acquisto e del ciclo di vita. Povertà e assistenza Le società urbane tardomedievali elaborarono un sistema di aiuti caritatevoli e di assistenza organizzata: ospedali, confraternite, chiese e monasteri si impegnarono in una capillare opera di redistribuzione delle donazioni ai poveri della città. Fino al tardo XII sec vi era la distinzione fra poveri meritevoli e poveri oziosi: la carità, per essere utile, richiedeva discernimento, capacità posseduta dai religiosi. Si crearono dei ricoveri per gli anziani e i malati e gli ospedali aumentarono di numero. I poveri dovevano compensare il beneficio ricevuto con un'attività lavorativa. Per la cultura cattolica, l'accumulo di beni dettato dall'avidità era vanagloria: i beni andavano messi in comune. I monti furono istituti pubblici fondati su capitali messi in comune con scopi morali. La saldatura tra la carità istituzionalizzata e la promozione di uno strato aristocratico che si faceva carico del governo della povertà, e quindi del governo della città, era compiuta. In molte città, l'élite economica divenne anche un'élite politica e di governo. Si crearono istituti esterni che gestivano le finanze pubbliche in forme apertamente speculative (es il banco di S Giorgio a Genova o il Credito di tesoreria a Bologna). La chiusura dell'accesso agli uffici perpetuò le oligarchie per sec.
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