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STORIA MEDIEVALE, Provero-Vallerani, PARTE PRIMA, Sintesi del corso di Storia Medievale

La trasformazione del mondo romano.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 12/04/2021

CarolaBG
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Scarica STORIA MEDIEVALE, Provero-Vallerani, PARTE PRIMA e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO-PARTE PRIMA: CAPITOLO 1. L’IMPERO CRISTIANO: Negli ultimi decenni sono cambiate le letture dei secoli finali dell’età romana, il cosiddetto tardoantico, che non è più visto come una lunga fase di decadenza dell’Impero Romano, ma come con un complesso equilibrio fra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo centrale e la progressiva penetrazione di nuove popolazioni e di nuove religioni nei territori imperiali. Dobbiamo quindi osservare le principali strutture di potere e di prelievo, il ruolo dell’esercito e della sua componente barbarica, il mutamento religioso che si attuò dal IV secolo con la cristianizzazione dell’Impero e l’avvento della figura del monaco cristiano. È una fase di intensi confronti tra modelli diversi di civiltà e di spiritualità; tuttavia, bisogna tenere conto di importanti effetti distorsivi dovuti alle fonti disponibili: da un lato le narrazioni di parte cristiana, dall’altro lo scontro tra il mondo romano e le popolazioni barbare che viene narrato nei testi esclusivamente di ambito romano. Questo sistema di fonti ha dato vita a ricostruzioni storiche spesso incerte e soprattutto cariche di implicazioni ideologiche e politiche attorno all’opposizione fra mondo romano e mondo germanico. Il sistema imperiale tardoromano: Un momento fondamentale di transizione nella storia romana si ebbe a fine II secolo quando terminò l’espansione militare dell’Impero, che si stabilizzò entro il limes del Reno e del Danubio; da questo momento in poi si può fare iniziare la fase tardoantica dell’Impero. Questo non era in alcun modo uno spazio di civiltà omogeneo: riuniva popolazioni diverse per tradizioni, lingue, religioni e con diversi livelli di romanizzazione; ma queste popolazioni erano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una profonda crisi nella seconda metà del III secolo con una serie di lotte per il trono che portarono a continue successioni e alla presenza di più imperatori contemporaneamente. Il potere imperiale venne ripristinato con forza sotto Diocleziano, che riaffermò un efficace controllo sull’intero territorio condividendo il potere (dal 285) con Massimiano, in quella che venne chiamata la diarchia: non una divisione territoriale dell’Impero, ma una condivisione delle responsabilità all’interno di una indiscussa superiorità di Diocleziano. Nessuno dei due risiedette a Roma, che da questo momento in poi iniziò a perdere lentamente le funzioni di unica capitale dell’impero, restando tuttavia sia il centro simbolico dell’Impero, sia la sede del Senato. La polarizzazione fra Oriente e Occidente che ne seguì si accentuò quando la diarchia divenne una tetrarchia, con i due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono i due Augusti come loro collaboratori e successori naturali. Due furono i passaggi fondamentali nel corso del IV secolo: la fondazione di Costantinopoli e il regno di Teodosio. L’imperatore Costantino decise di fondare sull’antica città di Bisanzio, nel 324, una nuova città cui diede il nome di Costantinopoli: la città nacque subito come residenza imperiale, ma non come una capitale, in quanto Roma rimaneva la capitale a tutti gli effetti; Costantinopoli si affermò piuttosto come punto di riferimento del potere Imperiale nel Mediterraneo orientale. Inoltre, a Costantinopoli era presente un Senato, ente che rappresentava il fondamento del primo potere romano e che quindi sembra connotare la nuova città come una capitale; tuttavia, in questa prima fase, il Senato di Costantinopoli era solo un’appendice del Senato di Roma. A partire dal V secolo Costantinopoli divenne una vera e propria capitale, residenza stabile dell’imperatore e sede di un vero Senato: questa maturazione fu resa possibile dalla divisione stabile fra una parte orientale e una parte occidentale del potere imperiale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I. Questi prese atto che un controllo efficace su territori così diversificati e così duramente minacciati sul piano militare avrebbe richiesto la presenza diretta dell’imperatore, possibile solo con una spartizione che affidasse a ogni sovrano un territorio di dimensioni più contenute. I figli Arcadio e Onorio ottennero rispettivamente l’Oriente e l’Occidente (fra IV-V secolo). Una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un costante afflusso di denaro per sostenere i tre grandi capitoli di spesa: la burocrazia, cioè il capillare sistema di controllo diffuso su tutto il territorio imperiale; la capitale, sia per la sua burocrazia, sia per il rifornimento di cibo che gli imperatori garantivano agli abitanti liberi; infine, l’esercito, che rappresentava un costo elevato in quanto stipendiato. Queste tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo fiscale capillare la cui fonte di entrata principale era l’annona, l’imposta che gravava sulle popolazioni rurali ina base all’estensione delle terre e al numero di contadini presenti su di esse; la popolazione urbana, invece, era esentata da questa imposta, ma erano tassati quei cittadini che disponevano di beni fondiari nelle campagne. Le città, soprattutto, avevano un ruolo fiscale centrale in quanto i curiales (membri dell’assemblea cittadina) erano incaricati di riscuotere le imposte nel territorio circostante e di inviarla all’apparato imperiale e, in caso di riscossione insufficiente o tardiva, dovevano intervenire in prima persone in quanto responsabili di questa imposta. Questo meccanismo fiscale costituiva la struttura portante di un sistema di circolazione economica che, polarizzato attorno alle città, attraversava il Mediterraneo e l’Europa; era l’espressione concreta della capacità romana di integrare provincie così lontane e diverse. Se possiamo parlare di un’intensa circolazione economica fra le diverse sponde del Mediterraneo, non dobbiamo tuttavia intenderla come circolazione commerciale, ma come circolazione fiscale, fatta di moneta e di beni di primo consumo. La peculiarità dell’età imperiale non risiede solamente nell’esistenza di un sistema di scambi tra le diverse regioni, ma nel fatto che queste regioni erano economicamente interdipendenti: alcune aree si nutrivano regolarmente in base a prodotti agrari provenienti da regioni lontanissime. Se lungo il corso del Medioevo troveremo importanti meccanismi di scambio commerciale tra regioni lontane, sarà solo nel quadro dell’immenso potere imperiale che possiamo vedere una vera e propria interdipendenza tra regioni lontane e produttivamente diverse. Il tardoantico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni: la fine dell’espansione militare determinò anche la fine di un’espansione economica, che era stata accelerata dalle conquiste che avevano garantito l’afflusso di bottino e, grazie ai prigionieri di guerra, la disponibilità di un’abbondante manodopera servile. Questa evoluzione cambiò sotto diversi aspetti l’economia romana, in primo luogo con un declino delle funzione economiche della schiavitù, che non rappresentò più la base del sistema produttivo. Per quanto riguarda le esigenze economiche dell’Impero, il contesto politico-militare fece sì che le spese militari non fossero comprimibili (sempre ingenti a causa della continua pressione lungo il limes): questa continua richiesta monetaria impose agli imperatori (lungo il IV secolo) una politica inflazionistica, producendo sempre più moneta e riducendo la quantità di metallo prezioso effettivamente contenuto nella singola moneta. Questo andò a colpire soprattutto i ceti più poveri che si trovarono in mano monete di valore sempre minore. Al contempo cambiò il rapporto tra l’Italia e le province, con la prima che perdette progressivamente la propria rilevanza produttiva, divenendo soprattutto luogo di consumo dei prodotti provenienti dalle diverse parti dell’Impero. Il sistema fiscale e commerciale fu strutturato attorno al flusso di derrate e manufatti che dalle periferie andavano verso il centro: in questo quadro, ebbe forte popolarità dalla provincia dell’Africa e dal suo centro, Cartagine, come area di produzione sia agraria, sia artigianale; in particolare, si strutturò un asse stabile di circolazione di ricchezze tra Cartagine e Roma, soprattutto quando i prodotti dell’Egitto, altra grande provincia cerealicola, furono indirizzati propriamente su Costantinopoli che nel V secolo affiancò Roma come capitale imperiale e metropoli nel Mediterraneo. L’Esercito, il limes, i barbari: In età tardoantica l’esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi per lo stato; il costo ea alto perché si trattava di un esercito stipendiato (la coscrizione obbligatoria era tramontata in favore di una tassa sostituiva che i grandi proprietari pagavano per esentare dal servizio i propri coloni e garantirsi la manodopera sulle proprie terre). Grazie a questa tassa, l’Impero era in gradi di nutrire, equipaggiare e stipendiare l’esercito, una struttura ampia a causa delle continue pressioni militari sui confini, ma anche per le ricorrenti guerre civili. Nel corso del IV secolo si definirono due settori fondamentali dell’esercito: i comitantes, la forza mobile incaricata di accompagnare l’imperatore, e i limitanei, le guarnigioni poste a difesa del confine. Il limes è una struttura chiave, soprattutto perché fu qui che si sviluppò il confronto fra Romani e le popolazioni barbariche che nel corso del V secolo presero il potere nei diversi settori dell’Impero Occidentale; dobbiamo quindi concentrarci sul settore europeo del limes, lungo il corso del Reno e del Danubio. “Linea” è una definizione imperfetta: sicuramente il limes era costituito da una serie di fortificazioni destinate a definire e proteggere una linea di confine che si poggiava sulla frontiera naturale costituita dal corso dei due fiumi; ma l’immagine della linea suggerisce anche un’idea di separazione netta tra il mondo romano all’interno del limes e un mondo non romano (barbaro) al di fuori. È più utile pensare al limes come ad un’ampia fascia di incontro, scontro, scambio, non quindi una semplice distinzione tra popolazioni romane e non romane, perché il fatto di essere all’esterno dell’Impero non implicava affatto essere estranei ad ogni influenza romana. Le popolazioni al di fuori del limes non erano espressione di un sistema di civiltà opposto a quello romano, ma piuttosto erano alla periferia del sistema romano: estranee alla piena sottomissione politica, ma fortemente condizionate dalla presenza militare dell’Impero. La definizione di “barbari” era nata per indicare quelli che non parlavano bene il greco (e poi il latino), ed era quindi un termine carico di elementi di giudizio; ma questa definizione contiene un fattore importante, cioè che erano barbari perché non erano romani, cioè non erano pienamente assimilati alle popolazioni comprese nell’Impero. Un’altra possibile definizione per questi gruppi è quella di “Germani”, termine che non nasce da un giudizio negativo, ma da alcune affinità di costumi e di lingua: anche questa definizione, però, ha un grave difetto, ovvero il fatto che questi gruppi armati non avrebbero mai pensato a sé stessi come “Germani”; è una nozione intellettuale derivata da Tacito, che non corrispondeva a una reale identità etnica che unisse tutte queste popolazioni. I diversi gruppi potevano pensare a sé stessi come Goti, o come i seguaci di Alarico, ma certo non si sarebbero definiti come parte di un grande e omogeneo gruppo di Germani. Entrambe le definizioni uniscono quindi elementi di verità con importanti distorsioni. Lungo la seconda metà del XX secolo la medievistica europea ha completamente rinnovato la questione dell’identità etnica di questi gruppi, ponendo al centro non una presunta identità oggettiva, ma la percezione soggettiva di questi gruppi, chiedendosi come concepissero sé stessi; al contempo, studiosi come Wenskus e Pohl hanno mostrato come questa identità non fosse un dato stabile e permanente, bensì l’esito di una continua rielaborazione, di una costruzione sociale e culturale cui si è dato il nome di etnogenesi, ovvero “costruzione dell’etnia”. Da un lato, quindi, teologica, poiché per conciliare monoteismo e trinità Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio sarebbe stato creato dal Padre e quindi a lui sottoposto e non eterno. Prevalse invece l’interpretazione per cui il figlio era coeterno e fatto della stessa sostanza del Padre: il fondamento della capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva infatti nell’incarnazione di Dio e la sua efficacia era connessa alla piena natura divina del Figlio, incarnato in Cristo, mentre la tesi di Ario vedeva nel Figlio incarnato una figura minore e quindi non garantiva l’efficacia salvifica del Cristianesimo. È anche importante notare che il concilio di Nicea fu convocato da Costantino, un imperatore non ancora battezzato che da pochi anni aveva concesso la libertà di culto ai cristiani, ritenne necessario per la solidità del proprio potere convocare un concilio che risolvesse una questione propriamente teologica: l’efficacia della religione come collante ideologico del mondo romano era direttamente proporzionale alla sua unitarietà e alla sua coerenza, così che dal punto di vista di Costantino era importante che dal concilio uscisse una tesi unitaria, che il Cristianesimo si rimodellasse in una religione coerente e priva di divisioni. Il concilio di Nicea quindi da un lato affermò la centralità del concilio (ovvero l’assemblea dei vescovi) come luogo di elaborazione teologica, dall’altro mise in evidenza il ruolo dell’Impero che aveva bisogno di unità ecclesiastica e assunse il ruolo di tutore dei conflitti interni alla Chiesa. La separazione fra cattolici e ariani si rafforzò lentamente nella seconda metà del IV secolo quando da un lato crebbe l’intolleranza del Cristianesimo romano e dall’altro l’Arianesimo accentuò la sua diffusione nel mondo germanico anche grazie alla traduzione della Bibbia in lingua gotica: l’Impero agì con determinazione a perseguitare le posizioni giudicate eretiche, ma la sua forza di coercizione si arrestava ovviamente al limes e non poteva incidere sulla diffusione dell’Arianesimo in ambito germanico. Si creò quindi una fondamentale bipartizione religiosa, tra un mondo romano a prevalenza cattolico-nicena e un mondo germanico in cui ebbe ampio spazio l’Arianesimo. La radicalizzazione dell’opposizione teologica alla fine del IV secolo va posta in un più generale processo di consolidamento della religione cristiana in ambito imperiale, consolidamento che può essere colto nell’editto di Tessalonica del 380, con cui l’imperatore Teodosio ordinò ai suoi sudditi di adottare il Cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell’Impero. Questa decisione diede il via a una più dura azione di repressione delle forme di religione giudicate eretiche, ma questi furono anche i decenni in cui l’affermazione del Cristianesimo compì un salto di qualità decisivo, con la massiccia conversione dei ceti più ricchi. Vescovi e monaci: Alla fine del IV secolo possiamo vedere nel Cristianesimo la religione dominante dell’Impero, ma non per questo dobbiamo pensare alla Chiesa cristiana del IV-V secolo come un’organizzazione unitaria. La struttura portante era costituita dalla singola diocesi, la comunità cristiana di una città e dal suo territorio, raccolta attorno al vescovo. La centralità del vescovo nei confronti della società nasceva dalla sua funzione religiosa, come principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza ultraterrena; questa efficacia si arricchì con il progressivo inserimento nella Chiesa cristiana della grande aristocrazia senatoria, i cui membri furono i più naturali candidati a occupare i ruoli di maggiore responsabilità ecclesiastica, cioè le sedi vescovili. A costituire il prestigio dei vescovi concorsero quindi le loro funzioni religiose e la loro identità sociale e familiare: erano importanti sia in quanto vescovi, sia in quanto ricchi aristocratici. Nei vescovo andarono addensandosi le tradizioni istituzionali, culturali e religiose del tardo Impero, es essi furono perciò in grado di trasmettere tali tradizioni ai regno romano-germanici in un contesto di rielaborazione dell’eredità romana. Al di sopra dei singoli vescovi non esisteva una struttura unitaria: tra IV-V secolo andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori definite sedi patriarcali, ovvero Roma, Antiochia, Alessandria d’Egitto e Gerusalemme, cui sia aggiunse verso metà V secolo anche Costantinopoli. Non si trattava di una gerarchia, era soprattutto una superiorità di prestigio, un grande coordinamento che espresse tutta la sua efficacia nei dibattiti cristologici che divisero la cristianità quando le diverse sedi patriarcali divennero poli di riferimento per posizioni teologiche contrapposte. Roma era l’unica sede patriarcale d’Occidente, per alcuni aspetti la più prestigiosa di tutte: l’idea che Roma dovesse essere il centro della Chiesa fu l’esito di una lenta elaborazione che trovò espressione a partire dal IX secolo. Per questo motivo, lungo il medioevo è più corretto parlare di “chiese” al plurale, per sottolineare le differenze teologiche e soprattutto la frammentazione gerarchica. Furono proprio i vescovi i protagonisti di questo processo di evangelizzazione all’interno dell’Impero: l’editto di Tessalonica non aveva cancellato i culti pagani nelle città e nelle campagne, così a partire dalle sedi vescovili si avviò il processo di evangelizzazione delle campagne attraverso una rete di chiese dipendenti dal vescovo, cui era affidato il compito di curare le anime. Fu un processo di acculturazione inteso come scambio, uno sviluppo per cui innestandosi nelle campagne il culto cristiano assunse connotati in parte nuovi, rielaborando luoghi, forme, oggetti dei culti precedenti, dando vita a santi, santuari, reliquie. Un secondo livello di evangelizzazione fu quello che dai territori dell’Impero si spinse ai suoi margini, attorno e oltre il limes, in particolar modo nelle isole britanniche: la Scozia e l’Irlanda non furono mai parte dell’Impero, di fatto quindi l’affermazione del Cristianesimo ebbe influssi limitati in queste aree; in Inghilterra il primo radicamento di Cristianesimo, invece, fu precedente alla caduta del dominio romano. Il Cristianesimo acquistò nuova vitalità in queste aree a partire dal VI secolo grazie a nuove missioni di evangelizzazione provenienti dal continente e dall’Irlanda: quest’ultima, pur esterna all’Impero, si era orientata piuttosto precocemente al Cristianesimo, tanto che già nel 431 abbiamo notizie dell’invio papale di un vescovo destinato ai cristiani irlandesi. La cristianizzazione di una regione come l’Irlanda, estranea alla tradizione romana e priva di città, assunse una fisionomia particolare, con una fortissima importanza dei centro monastici e una grande spinta missionaria. Con il Cristianesimo irlandese entra in gioco una diversa forma di religiosità, quella monastica, le cui origini vanno situate nel Mediterraneo orientale del IV secolo. Il monachesimo è una forma di vita presente in molte religioni diverse: è una fuga dal mondo finalizzata a seguire un metodo tendente alla purificazione e all’avvicinamento all’Essere supremo attraverso la rinuncia. È quindi una forma di ascesi, termine che indica l’avvicinamento alla divinità e che non necessariamente si fonde con un percorso di penitenza. Il monachesimo cristiano valorizzò invece la penitenza come purificazione dal peccato, una macchia che impediva l’avvicinamento a Dio: la penitenza divenne quindi parte costituente del percorso ascetico e questa unione di ascesi e penitenza fece sì che il termine “ascesi” assumesse connotati penitenziali. Lungo il IV secolo il consolidarsi del Cristianesimo all’interno dell’Impero portò ad un’attenuazione delle tensioni escatologiche (l’attesa della fine dei tempi) e della radicalità implicita nella scelta di fede: essere cristiano non era più una posizione estrema, ma era l’adesione alla linea religiosa dominante. In questo quadro, il monachesimo si affermò anche come forma di tacita protesta per riaffermare un modello di vita religiosa coerente ed estrema. Se il medioevo occidentale fu segnato da una forma dominante di monachesimo, quello benedettino, questo è l’esito di una lunga evoluzione: il tardoantico fu caratterizzato infatti da una grance ricchezza di fenomeni ed esperienza, accomunate da pochi principi teorici fondamentali. Il monaco era mosso da una tensione verso Dio che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo e la capacità di avere un animo imperturbabile; lo scopo centrale era quindi l’ascesi personale, non una volontà di assistenza ai poveri e ai malati, né la cura delle anime, né un’attenzione specifica alla cultura e allo studio. Queste attività, tuttavia, non sono escluse, ma sono viste come integrazioni di un percorso fondato prima di tutto su perfezionamento personale del monaco. Questi principi fondamentali si tradussero in una prassi che prevedeva l’allontanamento dal mondo e dalla società civile, un rapporto continuo con le Sacre Scritture, la rinuncia alle ricchezze e la scelta di autosostentarsi con il lavoro. Tuttavia, questi dati comuni coprono una grande varietà di esperienze, a partire dalla fondamentale divaricazione fra eremiti e cenobiti. Nel IV secolo troviamo tra Siria ed Egitto le prime notizie di monaci cristiani: si tratta di eremiti, cioè individui isolati, dediti a una vita di preghiera e ascesi, presto circondati da una fama di santità che permise un rilevante flusso di elemosine e quindi il loro sostentamento; fra questi, ci furono personaggi estremi ed appariscenti quali “gli atleti di Dio” che scelsero di situare il proprio eremo in luoghi isolati, ma estremamente vistosi, come nel caso degli stiliti che vivevano in cima alle colonne di edifici diroccati. In questi casi è evidente come la celta ascetica e penitenziale convivesse con una componente di esibizione e una forte volontà di intervenire sulla società tramite l’ostentato esempio. Fu in parte in reazione a queste esperienze e in parte nella ricerca di un’ascesi più intima che si andarono elaborando le prime comunità cenobitiche, a partire dalle esperienze promosse da Pacomio in Egitto nella prima metà del IV secolo: comunità di questo tipo implicavano la messa in comune di ricchezze, edifici e lavoro, ma soprattutto la creazione di una regola che definisse comportamenti e doveri dei monaci e dessi vita a una gerarchia. La dimensione cenobitica introdusse quindi elementi di sostegno reciproco tra i monaci nei rispettivi percorsi ascetici, ma anche obbedienza e disciplina nei confronti dell’abate; la messa per iscritto della regola, inoltre, implicava la definizione più esplicita delle azioni che andavano a costituire il percorso di crescita spirituale. Pochi decenni dopo, il vescovo Basilio di Cesarea, sviluppò un’ampia precettistica rivolta ai monaci, orientata a una forma di ascesi più equilibrata: tale monachesimo basiliano era caratterizzato dalla stretta cooperazione tra monaci e vescovo, l’ampio spazio dedicato al lavoro e all’assistenza in favore dei più deboli. L’importanza in Occidente del monachesimo si avviò precocemente a fine IV secolo con figure come san Gerolamo (Italia), sant’Agostino (Tunisia) e san Martino (Francia); tuttavia, questo processo deve essere letto all’interno della profonda trasformazione che subì l’intero Occidente romano con la scomparsa dei quadri organizzativi imperiali e la costituzione dei regni romano-germanici. CAPITOLO 2. BARBARI E REGNI: Le invasioni barbariche, la caduta dell’Impero e la formazione dei regni romano-barbarici sono stati considerati i passaggi chiave della transizione dall’antichità al medioevo: la tradizione della caduta dell’Impero d’Occidente ha posto al centro il dato politico-militare, ma come abbiamo visto, il mutamento fu radicale e coinvolse una profonda trasformazione delle forme di vita religiosa e dei sistemi di circolazione economica, e si distese su un lungo periodo dal IV al VI secolo. Bisogna quindi relativizzare l’importanza dell’espansione germanica, sia perché non fu improvvisa, sia perché non fu l’unico motore del mutamento. Certo è che il processo di affermazione politico-militare delle popolazioni germaniche fu un’evoluzione di grande rilievo che mutò i quadi politici e le forme di vita delle popolazioni, e influenzò i sistemi economici mediterranei. Mobilità degli eserciti: Per leggere la mobilità militare nel corso del V secolo bisogna ripartire dal momento di svolta segnato dal crollo del limes del Reno (406-07), un passaggio che aprì ampi territori dell’Impero a nuove forze finora rimaste ai margini: non fu un incidente casuale, ma l’espressione di uno squilibrio strutturale legato alla difficoltà imperiale di tenere sotto controllo gli eserciti. Il sistema fiscale romano faticava a far fronte ai costi della guerra e l’Impero non aveva risorse sufficienti per pagare regolarmente gli eserciti, che cercavano quindi bottino con iniziative non controllate. Da qui ebbero inizio i più intensi spostamenti degli eserciti germanici, che furono una delle cause della caduta dell’Impero e anche la conseguenza di un indebolimento imperiale già avviato. Le guerra divenne un’esperienza sempre più costante all’interno dei territori imperiali con una miriade di conflitti che erano un’occasione per ottenere ricchezza, prestigio e potere. Furono momenti confusi, frammentati, spesso difficili da ricostruire; tuttavia, alcuni di questi spostamenti furono l’espressione militare e politica di gruppi più definiti e coesi, popoli che costruirono e mantennero la propria identità collettiva fino a costituire regni duraturi e con una chiara fisionomia territoriale. o Il primo caso è rappresentato dai Visigoti, che nei primi anni del secolo si erano più volte ribellati al potere imperiale guidati dal loro re Alarico, fino ad assediare e saccheggiare Roma nel 410, per poi scendere in Calabria dove Alarico morì. Ma la morte del re non comportò la fine dell’unità politica e militare dei Visigoti, che lasciarono l’Italia per andare a costituire un regno nel sud della Francia, formalmente come federati dell’Impero, ma di fatto con ampia autonomia. Questo regno cambiò configurazione nel tempo, spostò il proprio baricentro verso la penisola iberica e durò per tre secoli dando vita ad una delle maggiori dominazione dell’Europa altomedievale. o Negli stessi anni si compì una migrazione dei Vandali, che valicarono il limes renano, attraversarono la Gallia e si insediarono nella penisola iberica (417); ma anche questo fu uno stanziamento temporaneo: nel 429 guidati dal re Gianserico si spostarono nella parte occidentale dell’Africa romana per conquistare dopo dieci anni le province situate fra l’attuale Tunisia e Algeria, dove costituirono un regno destinato a durare un secolo. I Vandali furono il primo popolo germanico a trasformare la propria superiorità militare in un potere politico strutturato, territorialmente definito o pienamente autonomo, che prescindeva insomma da ogni inquadramento nel contesto imperiale. o Di natura ed esiti diversi fu l’azione degli Unni nei territori imperiali: era una grande solidarietà etnica e politica poco strutturata, un potentissimo esercito che trovò unità d’azione al seguito di un efficacissimo capo militare, il re Attila. Originari dell’Asia centrale, si erano stanziati ai bordi dell’Impero nei primi decenni del V secolo diventando una costante minaccia militare, ma talvolta anche degli utili mercenari degli eserciti imperiali. Un momento di svolta fu nel 445 quando Attila prese il potere e indirizzò la forza militare unna in una durissima serie di campagne all’interno dei territori romani fino alla decisiva sconfitta subita ad opera del magister militum Ezio ai Campi Catalunici nel 451, con la morte di Attila due anni dopo. La rapida dissoluzione del dominio unno mostrò in modo evidente come la forza militare unna non fosse tradotta in una struttura politica e come il potere fosse direttamente collegato alla capacità di guida militare del suo re. Ezio, il generale che sconfisse gli Unni, era anch’esso di origine barbara, ed arrivò ai vertici grazie alle proprie capacità militari che gli consentirono di fermare un pericolosissimo nemico per l’Impero. La morte di Ezio e dell’imperatore Valentiniano III nel 454 sembrò aprire un uovo via agli eserciti e ai loro saccheggi: il segno più immediato fu un nuovo sacco di Roma condotto nel 455 dai Vandali provenienti da Cartagine, espressione più evidente dell’incapacità imperiale di tenere sotto controllo le minacce militari. Indubbiamente la capacità di azione degli imperatori andava riducendosi, sia come efficacia, sia come ampiezza territoriale: l’Africa vandala si era posta al di fuori dell’Impero, i Romani si erano ritirati dalle isole britanniche attorno al 410 e lungo il secolo sfuggirono al controllo imperiale prima la Gallia settentrionale e poi via via l’intera regione. I decenni centrali del secolo furono segnati da un ulteriore declino del potere imperiale: si alternarono sul trono gli imperatori-fantoccio, controllati dai generali fino a che nel 476 il generale Odoacre non depose l’ennesimo debolissimo imperatore, Romolo Augustolo, ma rinunciò ad insediarne uno nuovo, inviando le insegne imperiali a Costantinopoli. Il momento effettivo della deposizione dell’ultimo imperatore non fu legato a nessuna invasione: un generale dell’esercito romano, con le sue truppe già stanziate in Italia, depose un imperatore privo di potere e prese atto che un nuovo imperatore in Occidente sarebbe stato inutile. Nel 476 nessuno vide la deposizione di Romolo Augustolo come un avvenimento rilevante, nessuno pensò di aver assistito alla fine di un’epoca. La scelta di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricomporre l’unità imperiale e fu la presa d’atto che un nuovo imperatore d’Occidente sarebbe stata solo una complicazione per un mondo romano che si andava polarizzando attorno all’unico imperatore dotato di potere effettivo, quello d’Oriente: nella prospettiva politica di Odoacre, il suo dominio sull’Italia doveva probabilmente integrare un’ampia autonomia militare con il riconoscimento dell’Impero d’Oriente. Ma l’imperatore Zenone non ritenne Odoacre un alleato affidabile a cui delegare una parte così importante dell’impero e Turingi: questa rete di legami parentali gli consentì di costituire in questi anni una polarità politica di respiro europeo. La debolezza strutturale del regno ostrogoto era rappresentata dalla mancata integrazione tra Romani e Goti. La principale garanzia di stabilità era garantita dal potere regio e dalla sua collaborazione con l’aristocrazia senatoria; quando questo rapporto entrò in crisi, fu l’intero assetto politico a vacillare. Possiamo individuare l’emergere della crisi nel 518 quando l’imperatore Giustino avviò una serie di persecuzioni ai danni degli ariani, a cui Teodorico rispose con analoghe persecuzioni ai cattolici: questa fu l’espressione di una crisi più profonda, dovuta alla rottura della cooperazione tra regno e aristocrazia senatoria. Fu un processo di cui non è possibile individuarne l’avvio, né definire chiari rapporti di causa-effetto. Al momento della morte (526) Teodorico trasmise di fatto il potere alla figlia Amalasunta come tutrice del nuovo re Atalarico: era un re bambino posto sotto la tutela della madre in una situazione di chiara debolezza dinastica e politica, che tuttavia non impedì la sopravvivenza del regno. Alla morte prematura di Atalarico (534, Amalasunta si trovò in una situazione di grave debolezza e per ovviare al problema sposò e associò al trono il cugino Teodato, uno dei più ricchi aristocratici dell’Italia gota; tuttavia, questo accordo politico-matrimoniale fallì perché i coniugi scelsero posizioni politiche divergenti: Amalasunta cercò di ricostruire il rapporto fra Goti e Romani sotto la protezione dell’imperatore Giustiniano, mentre Teodato adottò la via del conflitto, scelta che prevalse all’interno dell’aristocrazia gota. Amalasunta fu deposta, imprigionata e uccisa nel 535 e Giustiniano ebbe così l’occasione di dichiarare guerra al regno ostrogoto, dando via ad una lunghissima fase bellica che in vent’anni riportò l’Italia all’interno dell’Impero. Anglosassoni, Vandali e Visigoti: Nel corso del V secolo si erano costituiti altri regni in diversi settori dell’Impero. o Il dominio romano non si era mai esteso alle isole britanniche, ma solo alla parte meridionale della Britannia; qui, l’influsso della cultura e dei modelli istituzionali romani fu rilevante, anche a comprendere terre mai romanizzate come la Scozia e l’Irlanda. Questo influsso si interruppe molto presto attorno al 410 quando i Romani abbandonarono definitivamente le isole. Qui si coglie chiaramente una rottura dei sistemi economici in seguito alla fine del dominio imperiale: gli scavi archeologici hanno evidenziato un netto impoverimento e una semplificazione degli edifici e dei reperti, una profonda crisi dell’urbanesimo e la scomparsa di artigianato su larga scala. La rottura sul piano economico fu un caso unico per la sua nettezza e la sua rapidità: appare quindi difficile spiegarla unicamente sulla base della fine del dominio imperiale e forse è più corretto inserire la rottura politica in un contesto di profonda crisi sociale. La fine del dominio imperiale fu accompagnata da una serie di incursioni di popolazioni sassoni proveniente via mare dall’attuale Germania, che via via trasformarono le proprie azioni di saccheggio in insediamenti stabili: le prime incursioni risalgono al III secolo, ma solo attorno a metà V secolo si avviarono i primi insediamenti anglosassoni. Si costituì una struttura politica altamente frammentata caratterizzata da un alto tasso di conflittualità e dalla superiorità locale di un’aristocrazia ben più povera che in altri regni. Nonostante l’inserimento delle popolazioni sassoni non fu massiccio, nella parte centromeridionale della Britannia si può individuare una prevalenza anglosassone nelle aree più orientali e una maggiore presenza celtica in quelle occidentali; ma la spinta militare anglosassone non si esaurì in questa prima fase. Al contempo la conquista anglosassone ridusse il peso della Chiesa cristiana: il clero ebbe un ruolo politicamente trascurabile e la stessa religione cristiana subì un profondo regresso. L’intera isola fu un ambito di rielaborazione della tradizione romana debole, cancellata quasi del tutto con la fine del dominio imperiale: fu una rottura profonda, evidente sul piano economico e politico (le strutture altomedievali di governo non si costruirono sulla base di una rielaborazione di quelle romane). Un’evoluzione appare avviata fra VI e VII secolo, con una tendenza alla ricomposizione attorno ad alcuni regni maggiori, in particolare la Mercia e la Northumbria. Un discorso diverso riguarda l’Irlanda che, pur subendo l’influsso romano, fu sempre al di fuori del dominio imperiale e non sviluppò mai un modello insediativo e organizzativo fondato sulle città; ma non subì nemmeno le invasioni sassoni. Pur nella povertà delle fonti, sappiamo che nel VI secolo l’isola era connotata da un’estrema frammentazione politica, divisa in decide di regni i cui re avevano potere militare e politico, ma forse non legislativo (ovvero, il re guidava la popolazione ma agiva sulla base di norme che non aveva il potere di cambiare). La frammentazione politica si riflesse nel processo di cristianizzazione, che si sviluppò lentamente, regno dopo regno, dove non esisteva un re dominante in grado di trascinare l’intero popolo alla nuova fede. La cristianizzazione dovette modellarsi sulle strutture politiche e sociali: non potendo organizzarsi attorno alle città e alle sedi vescovili, assunsero qui un peso particolare i monasteri, non solo luogo di preghiera e di perfezionamento spirituale dei monaci, ma anche centri per la cura delle anime. Anche qui l’alta frammentazione politica andò semplificandosi con l’affermazione dei cosiddetti overkings, re più potenti di altri che imposero un controllo militare su dominazioni minori, che conservarono però la propria struttura istituzionale e un significativo margine di autonomia politica. o Le provincie della Proconsularis (Tunisia) e della Byzacena (Algeria) erano terra ricca dal punto di vista agrario, aree di produzione olearia e granaria, tali da rifornire tramite le tasse larghi settori dell’Impero. L’importanza economica di questa zona derivava dalla sua relativa sicurezza, tale da non rendere necessario costosi contingenti militari; in sostanza, le tasse prelevate dal Nordafrica consentivano di stipendiare gli eserciti stanziati sui confini più pericolosi, come il limes del Reno e del Danubio o quello persiano. Queste aree rimasero ricche, ma il destino della loro produzione mutò con l’affermarsi del regno Vandalo. I Vandali si erano stanziati nella penisola iberica nel 417 ma nel 429 sotto la guida di Gianserico attraversarono lo stretto di Gibilterra e si imposero sulle terre africane fino al 534. Fu il primo popolo germanico a costituire un regno totalmente autonomo all’interno dei territori imperiali e fu l’unico popolo il cui stanziamento non fu accompagnato da nessuna forma di trattativa con l’Impero. Il regno vandalo fu connotato da elementi contraddittori: la rottura più evidente avvenne sul piano religioso con lo svilupparsi di una contrapposizione fra Vandali ariani e gli Africani di tradizione romana e di fede cattolica. Questo fu l’unico caso in cui la differenza religiosa fra ariani e cattolici si espresse nelle forme di una dura intolleranza: i Vandali condussero ampie persecuzioni ai danni delle chiese, sia in quanto detentrici di grandi ricchezze, sia per motivi propriamente religiosi. L’Africa vandala fu però un contesto di stabilità dal punto di vista economico e fiscale: l’archeologia evidenzia pochi segni di discontinuità a testimonianza di una persistente ricchezza; al contempo, rimasero alti i livelli di produttività di grano e olio; ma soprattutto, caso unico fra i regni romano-germanici, i Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo un modello pienamente romano. Le tasse così prelevate da questa regione non andarono più a sostenere le spese del governo imperiale, ma allo stesso tempo nel regno vandalo erano poco rilevanti i capitoli di spesa sostenuti dalle tasse in ambito romano, cioè la capitale, la burocrazia e l’esercito. Le tasse, quindi, non uscivano dal regno, né dovevano essere incanalate in grande spese statali: il risultato fu che i re vandali accumularono notevoli ricchezze. La conquista vandala segnò una rottura profonda per l’Impero Occidentale, che si trovò a non poter più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane: dal quarto e quinto decennio del V secolo si colgono segni di una difficoltà finanziaria e fiscale dell’Impero e le crescenti crisi militari nella seconda metà del secolo sono certamente collegate alla difficoltà di garantire gli stipendi degli eserciti germanici. La fine del sistema fiscale, però, non fu privo di conseguenze per l’economia africana: comportò un calo della domanda, quindi un calo produttivo che a lungo andare mutò i funzionamenti economici della regione; al contempo, la forza fiscale ed economica del regno vandalo non implicò una solidità sul piano politico-militare proprio a causa della mancata integrazione fra i diversi popoli. o Si possono distinguere tre fasi del processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali: lungo il V secolo si stanziarono nel sud della Gallia e nella penisola iberica; nella prima metà del VI secolo videro ridursi il dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi; nella seconda metà del VI secolo consolidarono la propria presenza nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Il primo insediamento stabile nello spazio politico romano risale al 418 quando si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa (sud della Gallia) e si posero al servizio degli eserciti romani. Quest’area fu ambito della loro successiva espansione avviata nel 456 e completata attorno al 480: non fu l’affermazione di un pieno dominio sulla penisola, in quanto restarono in mano imperiale alcune aree della costa mediterranea, mentre in Galizia si affermò il regno degli Svevi. In questo contesto i re visigoti rielaborarono i modelli politici di tradizione romana in un processo reso evidente dalla precoce redazione di leggi scritte (re Eurico, 466-484): non erano le leggi del popolo visigoto, ma norme territoriali destinate a tutti i sudditi del re visigoto a prescindere dalla loro etnia. Per quanto riguarda gli equilibri territoriali, passaggio chiave fu la battaglia di Vouillé (507) quando il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II: questa battaglia ridusse ulteriormente il dominio visigoto a nord dei Pirenei, mentre la debolezza del regno lo pose sotto l’egemonia del re ostrogoto Teodorico fino alla sua morte (529). Nel complesso, fino a metà Vi secolo il dominio visigoto appare segnato da una ripresa dei modelli politici romani, ma anche da una notevole instabilità e da una semplificazione economica, caratterizzata da una forte frammentazione dei circuiti commerciali. Una fase di trasformazione complessiva è rappresentata dalla seconda metà del VI secolo a partire dal regno di Leovigildo (569-86) che segnò un consolidamento territoriale e politico, con una serie di conquiste che portarono sotto il controllo visigota sia il regno svevo, sia larga parte del dominio bizantino. La trasformazione del dominio visigoto sotto Leovigildo deve essere però letta in un’ottica religiosa: i Visigoti, di religione ariana, vissero a lungo un rapporto di separazione con la maggioranza romana di religione cattolica. La convivenza tra i due popoli trovava nella religione un elemento di separazione: sotto Leovigildo le tensioni vennero alla luce e il re, preso atto dell’importanza della religione come base ideologica per l’unità del suo regno, promosse la ricerca di un compromesso teologico fra ariani e cattolici, ma nel frattempo perseguì alcune chiese cattoliche. Tuttavia, un tentativo di affermazione dell’arianesimo su tutti i sudditi era improponibile, sia per l’inferiorità culturale e teologica del clero ariano, sia perché gli ariani erano pochi. La scelta più coerente fu quella adottata da Reccaredo (586-601), figlio e successore di Leovigildo, che promosse una conversione del popolo al cattolicesimo con un successo relativamente rapido, dato che ad inizio VII secolo l’arianesimo sembrava sostanzialmente cancellato dal regno. Reccaredo valorizzò la scelta religiosa in senso politico: Toledo, capitale del regno, divenne sede di una serie di concili che assunsero sia funzioni di sedi di deliberazione per questioni religiose, sia di organi di governo del regno. Tali concili furono l’espressione concreta dell’accordo strutturale fra regno e vescovi che permise un potenziamento del re e un sicuro controllo dei sudditi. CAPITOLO 3.LA SIMBIOSI FRANCA: I Franchi furono quelli che svilupparono con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una simbiosi, un’unione profonda a costituire un nuovo popolo, in grado di integrare e sviluppare diverse culture politiche. Inoltre, come conseguenza, riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa, ponendo le basi per la straordinaria espansione carolingia a fine VIII secolo. Clodoveo: Il punto di partenza più ovvio sembrerebbe Clodoveo, il re che fra V e VI secolo affermò il proprio dominio; tuttavia, il suo potere non nacque da un’improvvisa invasione della Gallia, ma fu l’esito di una lenta ascesa all’interno di territori in cui i Franchi erano stanziati da tempo. Nel contesto del tardo Impero, la Gallia aveva rappresentato prima un territorio di integrazione tra Romani e Celti, poi un ambito di affermazione patrimoniale e politica dell’aristocrazia senatoria. Una caratteristica specifica di questa regione fu, fra IV e V secolo, la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche, e in specifico la volontà di occupare sistematicamente le funzioni vescovili. La convergenza delle famiglie senatorie a ricoprire queste cariche fu causa ed effetto del potere vescovile: effetto, perché la cattedra vescovile era un obiettivo appetibile per le famiglie che volevano conservare e aumentare la propria preminenza sociale; causa, perché la forza delle sedi vescovili fu ulteriormente accresciuta proprio dalla presenza di esponenti delle famiglie più potenti. Si attivò una sorta di circolo virtuoso: le sedi vescovili erano ricche e potenti, quindi attiravano l’attenzione delle famiglie senatorie, la cui occupazione delle cariche vescovili ne aumentava ulteriormente il rilievo. Ed è proprio la Gallia il territorio in cui questi processi ebbero li sviluppo più chiaro: su questa regione prese il potere nel corso del V secolo il popolo dei Franchi. Nel tardoantico i Franchi non erano un popolo compatto, ma una confederazione di tribù che, pur non essendo nomadi, esprimevano una cultura politica e un rapporto con il territorio profondamente diversi da quelli romani, con una sostanziale estraneità alle idee di latifondo e di città. Il popolo franco fu protagonista tra IV e V secolo di un lento processo di romanizzazione che si avviò molto prima della loro conquista del poterei in Gallia; un processo che coinvolse con intensità diversa tutte le tribù: alcuni gruppi, infatti, come i Franchi salii, si stanziarono all’interno dell’Impero a partire dalla metà del IV secolo entrando a far parte dell’esercito romano e combattendo quindi contro altre popolazione barbariche in momenti chiave. Si batterono, infatti, contro Vandali e Alani al momento del crollo del limes del Reno (406-07) e ancora nel 451, guidati dal generale Ezio, contro gli Unni a Chalons-en-Champagne. Proprio questa fase rappresentò un cambiamento profondo negli assetti di potere in Gallia e quindi nel ruolo dei Franchi: in un contesto di progressiva marginalizzazione del potere imperiale, i Franchi si affermarono come una componente importante dell’esercito romano e come uno dei principali attori politici della regione. Questo processo può essere evidenziato considerando due figure, padre e figlio, che si succedettero come re dei franchi. La prima figura fu Childerico I, attivo nei decenni centrali del secolo, il quale combatté contro i Visigoti sotto il comando di Egido (figlio di Ezio), ma proprio in questa campagna il re franco seppe costituire un proprio specifico ruolo politico, connotando l’azione militare del suo popolo in senso religioso come lotta contro i Visigoti ariani: questo valse ai Franchi una nuova forza e una nuova legittimazione agli occhi dei Gallo-romani e soprattutto dei vescovi. Il figlio di Childerico, Clodoveo, succeduto al padre nel 481 attuò un’efficace politica militare che gli permise di affermare il proprio controllo su gran pare della Gallia, dove il definitivo declino dell’Impero d’Occidente e la mancanza dell’imperatore d’Oriente avevano lasciato spazio ad una pluralità di dominazioni tra qui i Burgundi e i Visigoti. Nei confronti di questi regni germanici Clodoveo operò un’efficacie espansione militare che permise di sottomettere i Burgundi e di ridurre drasticamente il dominio dei Visigoti grazie alla battaglia di Vouillé (507), segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale, i Merovingi. Alla presa del potere fece seguito la conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo cattolico: fu questo un fatto religioso ma con implicazioni politiche, in quanto proprio la rapidità della conversione fece sì che non si innescassero in questo regno quei meccanismi di contrapposizione identitaria di base religiosa che abbiamo visto nei casi dei Visigoti, degli Ostrogoti e dei Vandali. Seguendo la narrazione di Gregorio di Tours, forse il più importante vescovo della storia franca, il racconto prende le mosse dalle vittorie militari di Clodoveo che rivelarono al re l’appoggio e la potenza del vero Dio; ma l’intervento determinante fu quello della moglie di Clodoveo, che mise il re in contatto con Remigio vescovo di Reims, che completò la conversione del re, la cui scelta trascinò l’intero esercito che si convertì e venne battezzato. I due elementi chiave del racconto sono la centralità dei vescovi, che trasmisero ai Franchi la religiosità e la cultura cristiana di tradizione romana e l’assimilazione di Clodoveo a Costantino, il primo imperatore cristiano, che lungo l’alto medioevo ritornò costantemente come modello per tutti i sovrani. La narrazione di Gregorio è importante in quanto aristocrazia, il cui primo fondamento fu una rete di rapporti di tipo clientelare, fondata sulla capacità regia di organizzare e guidare il proprio seguito armato. Le due forme di collegamento (la delega di funzioni territoriali e il rapporto personale) sono da vedere come una forma di integrazione: il re affidava funzioni alle persone di cui si fidava, ovvero ai suoi fedeli, alla sua trustis. Questo pone al centro dell’attenzione la ricchezza e la capacità redistributiva del re, la sua possibilità di ricompensare i fedeli: in generale, il passaggio dall’Impero ai regni fu segnato da un mutamento nelle forme di circolazione economica e negli strumenti usati per ricompensare l’esercito. Se in età tardoimperiale l’esercito era formato da professionisti stipendiati e mantenuti dallo Stato, in molto regni germanici gli eserciti erano ricompensati con concessioni di terra: il regno franco seguì questo modello e perciò il prelievo delle imposte dirette divenne un’azione amministrativa difficile e superflua, che incontrò crescenti resistenze fino ad essere abbandonata fra VI e VII secolo. Perciò i Merovingi furono molto più poveri degli imperatori dei secoli precedenti e questo ebbe un forte impatto politico perché i re avevano meno possibilità di redistribuire ricchezze ai propri fedeli e quindi erano più deboli e dipendenti dal consenso aristocratico; tuttavia, se li si confronta con altri regni germanici, i Franche erano probabilmente i più ricchi. I re disponevano perciò di una grande quantità di risorse economiche e politiche, di beni che potevano essere usati per consolidare i loro rapporti con le famiglie aristocratiche. Di conseguenza, la società politica franca era fortemente polarizzata attorno al re: le famiglie aristocratiche, per quanto ricche, cercavano di aumentare la propria potenza tramite i legami politici e clientelari con il re; questo, tuttavia, non implicò una dinamica di corte: i Merovingi avevano una serie di residenze privilegiate, concentrate soprattutto nella Gallia del nord, che consentivano loro di essere presenti nelle diverse regioni del loro regno, ed è in queste residenze che l’aristocrazia franca si riuniva periodicamente attorno ai propri re. Più difficile da cogliere è il legame che univa i Merovingi all’insieme della popolazione: la tradizione politica germanica attribuiva alle assemblee dell’esercito grandi poteri, dall’elezione del re alle decisioni legislative. Questi poteri andarono attenuandosi con il crescere della forza di mediazione aristocratica e del carattere dinastico della monarchia, riducendo l’assemblea ad una funzione di ratifica. Questo non implicò la scomparsa delle assemblee, ma una loro ridefinizione: la grande assemblea dell’esercito rimase il luogo delle principali decisioni politiche e il punto di partenza per le grandi spedizioni, che si sviluppavano sempre nei mesi estivi perché in questa stagione era possibile garantire rifornimenti a uomini e cavalli. Al contempo assunsero importanza le assemblee regionali, occasioni di deliberazione politica ma soprattutto giudiziaria, come momenti di risoluzione dei conflitti locali. Tali assemblee ebbero quindi un rilievo politico e giudiziario, ma non portarono a una frammentazione del regno in dominazioni minori: il regno e la corona erano considerati parte del patrimonio del re e in quanto tali venivano spartiti fra i discendenti del re. Di fatto, tutta la storia franca del VI e VII secolo è una vicenda di continue fratture e ricomposizioni del regno e solo in poche brevi fasi ci troviamo di fronte ad un singolo re in grado di governare l’intero popolo franco. Non fu un processo disordinato, perché si andarono delineando alcune fondamentali partizioni: i regni di Austrasia, Neustria, Burgundia e Aquitania; inoltre, fondamentale elemento di unità, tutti i processi di divisione e ricomposizione si attuarono sempre all’interno della famiglia merovingia: era chiaro che solo i membri della stirpe merovingia erano legittimi aspiranti alla corona. Queste divisioni ovviamente limitarono l’azione dei re franchi verso l’esterno del regno, ma, nonostante ciò, la forza dell’aristocrazia e del re fu tale da consentire una duratura ed efficace egemonia che andò ben oltre la Gallia: i Franchi del Vi secolo esercitarono un controllo indiretto ma efficace su larga parte dell’attuale Germania e affermarono una più discontinua egemonia sull’Italia longobarda. Questa ampiezza del dominio franco sarebbe stata in parte intaccata nel corso del VII secolo e solo alla fine del VIII secolo si affermò in pieno con l’espansione carolingia. CAPITOLO 4. LA ROTTURA DEL MEDITERRANEO: Roma, già in età repubblicana, aveva realizzato un quadro politico territoriale che non ha eguali, ovvero l’unità del Mediterraneo: fu un’unità politica che non cancellò la varietà delle forme di vita, di lingua o di culto; il dominio romano restò un insieme di società molto diverse, riunite dalla sottomissione politica, dall’apparato burocratico e da un capillare sistema fiscale. La fine dell’Impero occidentale è il fondamento necessario per comprendere sia la profonda ridefinizione dei circuiti economici, sia il nuovo assetto dell’Impero, ridotto a prospettive poco più che regionali nel Mediterraneo orientale; infine, le dispute teologiche che in questi secoli divisero il Cristianesimo riprodussero l’approfondimento delle divisioni tra le diverse parti dell’Impero Romano. Produzione e scambi in Occidente: I funzionamenti economici altomedievali sono molto difficili da leggere attraverso le fonti scritte, perciò l’intervento dei dati archeologici ha assunto un peso via via maggiore, fino a suggerire nuovi paradigmi esplicativi: ciò implica che l’interpretazione dell’economia altomedievale sia profondamente cambiata in parallelo allo sviluppo dell’archeologia medievale. Per condurre un’indagine di questo tipo per l’alto medioevo l’indicatore migliore è costituito dai resti ceramici: la ceramica è infatti abbondante in pressocché tutti i siti e le analisi permettono di individuarne con certezza la provenienza; inoltre, diversi tipi di ceramica ci offrono risposte a problemi in parte differenti: da un lato, ci dà indicazioni sulla domanda aristocratica, sull’importazione o sulla produzione locale, mentre le anfore ci informano sullo scambio interregionale di prodotti agrari, da che erano trasportati in esse. Il sistema economico romano subì una prima trasformazione a partire dal II secolo quando l’Impero terminò la sua lunga fase di espansione. Questo dato militare e territoriale ebbe implicazioni rilevanti sul piano economico perché la grande stagione delle conquiste aveva indotto una sorta di crescita “drogata” sostenuta dall’ingente afflusso di bottino e schiavi; questo afflusso rallentò con il rallentare dell’azione militare romana e si avviò una lunga stazione di complessivo equilibrio, in cui i costi dell’unificazione politica pesarono in modo rilevante. I primi secoli del medioevo non possono essere letti come una frattura totale, ma sicuramente ci fu un mutamento profondo che comportò la rottura dei più grandi circuiti di scambio e la crisi di molte forme di produzione, nel contesto di un generale calo demografico. Per leggere questo mutamento economico il punto di partenza è la trasformazione sul piano politico e militare, la fine del dominio imperiale sull’Occidente, con la conseguente interruzione dei meccanismo fiscali che avevano garantito l’intercambio fra le diverse regioni dell’Impero: all’interno delle singole regioni, si ridussero le funzioni delle città e mutarono i sistemi di produzione e scambio; a livello macroeconomico, si trasformarono le forme di circolazione e dello scambio ed ebbe fine l’Interdipendenza fra le diverse parti dell’Impero. Possiamo leggere il mutamento attraverso quattro aspetti: le città, le reti interregionali di scambio, le forme della produzione e la società contadina. o Città : La crisi riguardò principalmente le città la cui importanza in età antica era dettata dalla loro funzione come centro del potere e del fisco imperiale, dove le élite cittadine, raccolte nelle curiae, erano fiscalmente responsabili di fronte all’Impero. Il tramonto del sistema imperiale allontanò le élite dalle città: in un contesto di generale calo demografico, la crisi delle funzioni dei centri urbani fu accompagnata da una loro drastica riduzione di popolazione, ben leggibile per via archeologica. Gli scavi mostrano per questi secoli case più semplici e frazionate, l’occupazione degli spazi pubblici da parte di chiese o edifici privati, una vera e propria frammentazione dello spazio urbano in una serie di piccoli insediamenti discontinui. Questa è una tendenza generale, ma in Italia ad esempio si assistette a una maggiore continuità dei centri urbani, che entrarono in crisi nei decenni centrali del VI secolo. Fra tutte, quella che subì la trasformazione più radicale fu Roma: era stata una metropoli di un milione di abitanti, centro simbolico e reale del potere imperiale e sede del Senato; proprio per queste ragioni l’Impero contribuiva in modo rilevante al mantenimento della popolazione cittadina con la distribuzione dell’ annona. Venuti meno l’Impero e il suo sistema fiscale, Roma poté sostenersi con le risorse provenienti dal Lazio e dalle terre del suo vescovo, disperse in varie parti d’Italia. Fu quindi naturale e necessaria una rapida riduzione della popolazione urbana fino ad arrivare alla cifra di 20.000 abitanti che vivevano all’interno della cerchia delle mura aureliane, organizzandosi attorno al vescovo e al suo palazzo. Nel complessivo quadro europeo e mediterraneo, questa crisi non significò affatto la fine dell’urbanesimo perché i centri urbani conservarono molte funzioni nei confronti del territorio circostante; ma indubbiamente le città cambiarono faccia in modo vistoso, ancora più delle campagne. Certo è che le città di questi secoli furono profondamente diverse da quelle dell’età precedente: questa trasformazione deve essere collegata alla rottura della coerenza fiscale dell’Impero e quindi alla lenta semplificazione dei circuiti mediterranei di scambio; in tutte le città dell’Impero la rottura del quadro politico comportò infatti una riduzione significativa delle ricchezze e della disponibilità dei beni provenienti dalle altre regioni. o Reti : Per comprendere i meccanismi di circolazione economica e le forme di interdipendenza fra le diverse regioni è utile soffermarsi non tanto sui beni di lusso, quanto sui beni di massa, di consumo, ovvero sulle materie prime alimentari e sugli oggetti di uso comune, comprendere dove e come sono prodotti e dove sono rivenduti. Come visto, le reti di scambio in età antica sia erano strutturate a partire dall’azione dello Stato, le cui spese rendevano necessari un’entrata fiscale sostanziosa e un trasferimento di beni tra le diverse regioni dell’Impero: in pratica la città di Roma e gli eserciti lungo il limes erano in gran parte mantenuti grazie alle produzioni cerealicole di regioni come Egitto, Tunisia o Sicilia, con trasferimenti che non erano commerciali, bensì fiscali. Questi, erano sostenuti da un sistema di infrastrutture che rese possibile anche uno scambio propriamente commerciale tra le diverse regioni: possiamo dire che in età romana il commercio viaggiava “sulle spalle” delle tasse; per questo, la fine dell’unità territoriale imperiale ebbe conseguenze così rilevanti sul piano economico. La prima grande rottura fu rappresentata dalla conquista vandala della Tunisia (439) che interruppe l’asse fiscale Cartagine-Roma che garantiva alla capitale il regolare rifornimento di grano nordafricano. Questa rottura ebbe un impatto profondo su tre livelli: 1) Lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme più commerciali e non fiscali, non impedendo dunque l’afflusso di grano tunisino verso l’Italia, ma cambiando la natura di questo flusso, cioè Roma continuò a rifornirsi di questo grano per via commerciale, ma si trattò di meno grano e di un rifornimento più oneroso; 2) Roma dovette mantenersi su risorse molto più ridotte e avviò un processo di profonda riduzione; 3) Le produzioni africane subirono una riduzione, con da un lato l’esportazione verso Roma e l’Europa che si era ridotta drasticamente, dall’altro con l’aristocrazia in area tunisina che non era abbastanza numerosa e ricca per sostenere di prodotti pari a quella che aveva caratterizzato la regione in età romana. o Produzione : Il quadro produttivo delle regioni mediterranee ed europee dei primi secoli del medioevo è segnato da una fortissima varietà ma anche da alcuni caratteri e tendenze comuni. Dobbiamo porre al centro dell’attenzione la domanda dell’élite, la cui ricchezza appare inferiore a quella delle aristocrazie romane e non tale da sostituire il prelievo fiscale dell’Impero, che ovunque in Occidente cessò fra il V e VI secolo. Altro dato comune a tutto il Mediterraneo era la struttura produttiva agraria di base, che si concentrava sempre attorno ai tre prodotti fondamentali: grano, olio e vino. La differenze nascevano invece da molti fattori: la specializzazione produttiva, che fu un fattore di debolezza in un quadro di maggior isolamento e ridotta circolazione; le ricchezze dell’aristocrazia delle diverse regioni erano diverse e questo condizionò pesantemente la domanda e quindi la produzione; anche i danni conseguenti alle guerre furono molto diversi da regione a regione; infine, il sistema fiscale di tradizione romana in alcuni regni più conservato più a lungo e questo indusse una maggiore pressione sulla popolazione e quindi una maggior produzione. Queste varianti si possono cogliere attraverso alcuni casi regionali. 1. L’Africa romana che, dopo la rottura del legame fiscale con Roma del 439, si trovò a fronteggiare un calo produttivo dato che la domanda aristocratica interna e l’esportazione per via commerciale non erano tali da sostenere un sistema produttivo. Nel 534 l’Impero d’Oriente riconquistò la regione riattivando una circolazione di tipo fiscale, ma questo non bastò ad invertire la tendenza al declino, che dobbiamo invece ricondurre alla generale caduta della domanda in tutto il Mediterraneo in seguito all’impoverimento delle aristocrazie; dobbiamo poi notare che la conquista bizantina nel 534 non portò alla ricostituzione di un sistema fiscale che coinvolgesse l’intero Mediterraneo, ma solo a un prelievo destinato a contribuire al mantenimento della capitale (Costantinopoli) e a garantire la difesa stessa della Tunisia. È chiaro che nel VI secolo la pressione economica sulle risorse della regione non raggiunse l’intensità dell’età antica. 2. L’Italia fu un’area di fortissima frammentazione economica : già per il V secolo si constata un impoverimento dell’aristocrazia la cui domanda non era tale da sostenere un rilevante sistema di produzione e scambio; ma sicuramente la rottura più profonda si attuò lungo il VI secolo, prima con la guerra di riconquista imperiale ai danni degli Ostrogoti, poi con la conquista longobarda, dove la prima per la sua durata provocò profondi danni materiali e umani, la seconda approfondì la frammentazione dell’area. 3. Nel regno franco lungo il VI secolo si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale, ma un dato di fondo di quest’area fu la ricchezza e quindi la forte domanda dell’aristocrazia. 4. In Britannia, invece, si constata già ad inizio V secolo una rottura totale delle reti commerciali, una netta semplificazione dei manufatti e una produzione ceramica esclusivamente locale. Nel complesso possiamo dire che la rottura tra Impero a est e regno romano-barbarici a ovest fu una separazione di destini politici, ma anche di funzionamenti economici. Nel Mediterraneo orientale si conservò una rete di scambi ampia e fondata sull’azione statale che permise di mantenere sia la capitale, sia gli eserciti del limes grazie alla produzione di regioni come Egitto e Sicilia, e dal VI secolo la Tunisia; in Occidente, invece, questo sistema non si conservò, spostando la circolazione e lo scambio su dimensioni propriamente regionali in un contesto di generale calo della produzione connessa ad aristocrazie che erano nel complesso più povere di quelle antiche. o Contadini : La condizione contadina è uno dei dati più sfuggenti: totalmente esclusi dalla produzione di documenti scritti, i contadini dei primi secoli del medioevo possono essere visti o indirettamente attraverso i testi prodotti dalle chiese o per via archeologica. I contadini rappresentavano la maggioranza della popolazione, forse il 90-95%: una massa enorme, deputata a fornire i prodotti di base destinati a garantire sia la propria sussistenza, sia lo stile di vita dell’élite, a mantenere l’esercito e l’enorme popolazione della capitale e delle altre città. La transizione al medioevo fu segnata da un parziale abbandono delle città e quindi ad un aumento relativo della popolazione rurale; relativo, perché aumentò la percentuale di persone che abitavano in campagna, ma qui come in città si assistette ad un generale calo demografico. In linea molto generale possiamo dire che l’autonomia contadina è inversamente proporzionale alla ricchezza dell’aristocrazia: è questa una chiave di lettura semplicistica, ma indubbiamente le forti concentrazioni di ricchezza fondiaria in mano aristocratica riducono i contadini circostanti a lavorare come servi, salariati o coloni; quando invece la quota di terra in mano aristocratica è minore, possiamo trovare più facilmente piccoli proprietari contadini la cui sussistenza non dipende dalla volontà del padrone. Nell’Europa dei primi secoli del medioevo l’aristocrazia era complessivamente più povera di quella romana e il controllo che esercitava era meno diretto e meno opprimente; tutto ciò si tradusse in forti variazioni regionali: basti contrapporre le aristocrazie impoverite di molte regioni italiane che lasciavano spazio a piccoli nuclei di
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