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STORIA MEDIEVALE, Provero-Vallerani, PARTE SECONDA, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto della seconda parte del manuale.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica STORIA MEDIEVALE, Provero-Vallerani, PARTE SECONDA e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! IL SISTEMA DI DOMINAZIONE ALTOMEDIEVALE-PARTE SECONDA: Il periodo fra VII e X secolo è un’epoca segnata da profonde trasformazioni degli assetti di potere ed economici; ma è anche un periodo con alcuni importanti caratteri di stabilità: cessata l’intensa mobilità di popoli dei secoli V e VI e concluso il processo di rielaborazione dell’eredità romana, ci troviamo davanti a sistemi di dominazione fondati su un delicato equilibrio fra i poteri regi e l’aristocrazia. La dinamica fra regno e aristocrazia è quindi una chiave fondamentale di lettura per questi secoli, ma quando parliamo di “dominazione” altomedievale dobbiamo intendere questo termine in senso ampio: non è solo questione di potere regio, ma anche di ricchezza, di controllo degli uomini e delle risorse, di controllo delle loro anime attraverso le chiese. Così diviene importante anche l’integrazione fra potere regio ed ecclesia, utile per comprendere appieno la natura e l’efficacia della dominazione aristocratica: la potenza si esercitava assolvendo funzioni di governo e di guida militare, accumulando possessi fondiari, sfruttando la terra in modo efficacie, costruendo chiese e occupando funzioni ecclesiastiche. Un ruolo centrale era inoltre ricoperto dai legami personali e clientelari, vero donamento delle dominazioni altomedievali. Gli sviluppi successivi, interni ai singoli regni, costituirono sì una dissoluzione del nesso carolingio, ma furono del tutto coerenti con le dinamiche che avevano portato alla costruzione dell’Impero stesso. CAPITOLO 1. NOBILI, CHIESE E RE: RICCHEZZE E POTERI: Tra VI e VII secolo la geografia politica dell’Europa occidentale appare molto più stabile: la mobilità dei popoli germanici rallenta e la fisionomia territoriale dei principali regni appare definita e, nonostante uno stato di guerra quasi endemica fra le diverse dominazioni, non ne consegue una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. Si tratta dunque di regni maturi, che hanno superato la fase generativa. Tre i concetti chiave di lettura dei funzionamenti sociali di questi secoli: l’equilibrio politico tra re e aristocrazia, lo sfruttamento delle risorse agrarie, l’apertura di nuove reti di scambio. Nobili e re: Nei regni altomedievali ci troviamo di fronte a un equilibrio fra la capacità regia di coordinamento e l’azione politica autonoma dell’aristocrazia. Gli elementi comuni si possono individuare nei processi di redistribuzione clientelare e nel fondamentale carattere militare del potere regio. Per quanto riguarda le forme clientelari bisogna tenere presente che questi re erano sensibilmente più poveri: disponevano di una massa di risorse minore per raccogliere attorno a sé l’aristocrazia del regno; ma appare comunque evidente come questo precesso di redistribuzione fosse relativamente efficace, tanto che le famiglie aristocratiche furono sempre attente a conservare un legame con la corte. Era per loro fondamentale partecipare al circuito di solidarietà e redistribuzione che faceva capo al re e nodo di questo circuito era il carattere militare del potere regio: se i re erano garanti della pace e della giustizia, la loro principale funzione restò sempre quella di capi militari, tanto che l’esercito ebbe sempre una doppia connotazione, come esercito di popolo e come seguito del re. o Ad inizio VII secolo il regno visigoto è in piena fase di consolidamento: si completò la conquista della penisola iberica, mentre la conversione al Cristianesimo avviata a fine VI secolo si era rapidamente completata con una cancellazione quasi totale dell’arianesimo. Il secolo fu connotato da un processo di centralizzazione del potere: la dimostrazione più evidente è la redazione delle leggi (Liber iudiciorum) completata da re Recesvinto nel 654, un testo in cui sono dominanti le influenze del diritto romano che viene integrato solo in parte dalle tradizioni di origine germanica. Qui, il modello efficace era l’Impero cristiano, fondato sulla cooperazione fra sovrano e vescovi, che trovò espressione nei concili di Toledo: erano questi sia assemblee ecclesiastiche, sia organi di governo del regno. I vescovi costruirono un vero rapporto di simbiosi con il potere regio e il fatto di raccogliersi attorno al re e di cooperare con il suo potere era radicato profondamente nella natura stessa della loro funzione. I concili di Toledo ebbero quindi una funzione complessiva di guida del popolo visigoto, sotto il doppio aspetto di cura delle anime e di governo degli uomini. La centralizzazione del potere non comportò un pieno controllo dell’aristocrazia: sono numerosi i conflitti, i colpi di stati e le deposizioni di re; ma questi episodi sono rivelatori della centralità assunta dal potere regio e i tentativi di impadronirsi del regno e i sostituire il re, dimostrano che i duchi erano interessati più al controllo del potere centrale che a creare poteri locali autonomi. Il potere regio era quindi una struttura forte, cui l’aristocrazia voleva avvicinarsi. Nel complesso, il regno visigoto alla fine del VII secolo era probabilmente la struttura politica più forte e coesa dell’Occidente europeo, ma questo consolidamento del potere regio lasciava spazio a un imperfetto controllo militare: all’inizio del secolo seguente, la conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. o Le isole britanniche nel VII secolo restarono caratterizzate dall’alta frammentazione politica, ma emersero alcune tendenze al mutamento. In Irlanda la conversione al Cristianesimo lungo il VI secolo aveva posto al centro i monasteri, sia per l’organizzazione ecclesiastica, sia per l’apertura verso orizzonti europei, evidenti con l’opera missionaria di Colombano. Non cambiò invece la struttura politica dell’isola, divisa in una moltitudine di regni con diversi livelli di dominazioni, tutte connotate dal titolo regio. o La stessa pluralità dei regni si trova in Britannia, ma con una più chiara tendenza alla gerarchizzazione. Il VII secolo è segnato da completamento di conversione al Cristianesimo e dall’apertura di influssi provenienti dalla Gallia franca (con matrimoni che unirono le diverse famiglie regie): di fatto si può considerare quest’area come parte a pieno titolo dell’Europa cristiana. Rimase invece debole il livello di urbanizzazione, con uno sviluppo delle città portuali che appare significativo solo a partire da fine VII secolo. Per quanto riguarda i rapporti fra i diversi regni, l fonti sono sfuggenti: da un lato, sono sicuramente attestati molti regni, di diverse dimensioni e importanza; dall’altro, il principale cronista inglese del secolo è il monaco Beda, che mostra chiaramente di pensare all’Inghilterra come uno spazio unitario di civiltà. Sono questi due dati divergenti ma non propriamente contraddittori: esisteva sì una pluralità di regni, ma alcuni di questi appaiono più definiti e stabili (Mercia e Northumbria); inoltre, tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un’egemonia dei re di Mercia sui regni meridionali, superiorità che si consolidò solamente a fine VIII secolo con il re Offa; infine, il contenuto effettivo di questa egemonia è difficile da definire. o Nel regno dei Franchi fra VII e VIII secolo si andarono costruendo le basi del potere di quella che a fine VIII secolo diverrà la dinastia più potente d’Europa, ovvero i Carolingi. Per comprendere ciò, bisogna partire dai funzionamenti interni del regno merovingio lungo il VII secolo: il controllo e la presenza dei re nel territorio erano quanto mai diversificati e i Merovingi furono sempre itineranti fra i diversi palazzi regi; non si trattava però di una sistematica itineranza finalizzata a ripercorrere regolarmente tutte le regioni del regno. Il fondamento principale del potere merovingio era il legame con l’aristocrazia: un legame solido, tanto che l’aristocrazia non era disposta ad accettare un re che non fosse della dinastia merovingi. I Merovingi erano più ricchi di qualunque altra famiglia ed erano i soli possibili re. Fu invece all’interno dell’aristocrazia franca, nel regno di Austrasia, che crebbe la famiglia dei Pipinidi/Carolingi. Nei primi anni del VII secolo, nel contesto delle lotte al potere interne alla famiglia merovingia, Arnolfo di Metz e Pipino di Landen (i leader dei due principali clan aristocratici di Austrasia) si unirono per appoggiare l’ascesa al trono di re Clotario II e ne furono ricompensati: Arnolfo con la carica di vescovo di Metz e Pipino con quella di maestro di palazzo del regno di Austrasia. Il maestro di palazzo ( maiordomus) era il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e attuava le decisioni regie. Un ruolo di grandi potenzialità che divenne l’obiettivo della famiglia pipinide nei decenni successivi. La forza della dinastia si espresse con chiarezza nel momento in cui il suo esponente, Carlo Martello, ad inizio VIII secolo riuscì a ricoprire la carica di maestro di palazzo nei diversi regni di dominazione franca, garantendone una fondamentale unità. Tuttavia, non era possibile prendere direttamente il controllo del regno: quando Grimoaldo nel 656 esiliò il re merovingio Dagoberto e fece incoronare il proprio figlio Childeberto, si scontrò con la dura opposizione di larghi settori dell’aristocrazia, tanto che Grimoaldo fu sconfitto e giustiziato. Per comprendere la forza dei Pipinidi bisogna concentrarsi fondamentalmente sul loro rapporto con l’aristocrazia franca e soprattutto quella austrasiana: i Pipinidi si mossero infatti all’interno dell’aristocrazia legando a sé per via clientelare le maggiori famiglie austrasiane; era questa l’area di più profondo radicamento dei Pipinidi, una regione dominata da un’aristocrazia ricca di terre e a forte orientamento militare. La capacità di coordinamento dell’aristocrazia dei Pipinidi si tradusse direttamente in forza armata, in una capacità di agire militarmente in modo autonomo e non sempre al servizio dei re merovingi. La centralità della componente militare si vede bene nella vicenda di Carlo Martello, il cui soprannome, “Martello”, piccolo Marte, mette in luce la centralità della componente militare nell’immagine che Carlo seppe dare di sé; la sua forza militare fu fondamentale per trasformare una condizione politica incerta in un dominio, di fatto, sull’intero spazio politico franco. La sua impresa più celebre fu la battaglia di Poitiers del 732, quando sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica: mise fine ad incursioni e saccheggi, ma fu anche un momento determinante per salvare il regno da una minacciata conquista islamica. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio Pipino III (o Pipino il Breve) a prendere la corona nel 751 deponendo gli ultimi Merovingi; ma è chiaro che già nei primi decenni del VIII secolo la famiglia si muoveva in una prospettiva di pieno controllo dell’intero mondo franco. Non c’è dubbio che i re del VIII secolo fossero indeboliti: probabilmente l’indiscusso controllo della corona attenuò l’impegno dei Merovingi a costruire il consenso, a elaborare i rapporti con l’aristocrazia; fu proprio questo il terreno dell’elaborazione clientelare e della costruzione del consenso aristocratico su cui i Pipinidi seppero fondare il proprio potere. La loro capacità di agire in una prospettiva più ampia, che coinvolgesse l’intero territorio franco ma anche i territori posti al di là dei confini, si può cogliere nell’appoggio dato alle missioni del monaco Wynfrith, inviato come missionario da papa Gregorio II tra Turingi, Frisoni e Sassoni (722-754). Carlo e Pipino appoggiarono a lungo la sua missione e la loro questo quadro è più facile situare i dati relativi a mercati, trasporti di merci, pedaggi, etc. se il commercio era molto debole, pure non ci troviamo di fronte ad una società priva di scambi e di moneta. Era una rete commerciale che trovava i suoi punti di riferimento sia nelle città, sia nelle curtes: le città erano i centri con la maggiore concentrazione di popolazione non contadina, che quindi cercava costantemente un regolare afflusso di derrate dalle campagne; le curtes erano i principali centri di produzione e non è strano che divenissero quindi essere stesse dei centri di mercato. Di fatto, abbazie erano in grado di accumulare e convogliare verso i mercati masse imponenti di grano e vino, cosicché non solo partecipavano allo scambio commerciale, ma erano esse stesse il motore portante di questi mercati. Emblematico il passo della Cronaca di Novalesa in cui viene descritta la scena dei mercanti in attesa per vedere quanto stati fossero abbondanti i beni messi in vendita da queste grandi abbazie; da qui emerge con chiarezza l’immagine dei grandi proprietari fondiari come figure attive sul mercato e questo ci permette di riconsiderare la natura e le funzioni dei censi che ricevevano i massari. Non dobbiamo pertanto pensare agli obblighi dei massari come una regolare transizione dai censi in natura a quelli in denaro; e soprattutto, non dobbiamo pensare che i censi in natura derivassero da un modello economico fondato sul baratto e quelli in denaro da un sistema orientato al commercio e alla monetazione. Proprio la capacità commerciale dei grandi proprietari fondiari poteva rendere interessante prelevare censi in natura piuttosto che in denaro. Ma il brano della Cronaca di Novalesa ci presenta un ulteriore elemento, ovvero i trasferimenti dalle diverse corti al monastero: in molti casi, i patrimoni monastici erano costituiti da nuclei piuttosto dispersi, il che implicava problemi di gestione e di trasporto, ma permetteva al contempo di far confluire nel patrimonio monastico terre poste in ambienti molto diversi e quindi una grande varietà di produzione. Un grande monastero era spesso in grado di produrre tutte le derrate alimentari che potevano essere necessarie ai monaci e molto più; anche a questo livello, la ricerca di autosufficienza non implicava affatto la chiusura della dimensione commerciale: questi patrimoni garantivano l’autonomia economica del monastero ma anche la creazione di una quota di prodotti commerciabili. Questa circolazione commerciale dei beni prodotti nelle curtes deve essere inserita in un contesto di scambi e circolazione monetaria più ampio: la coniazione monetaria romana andò semplificandosi lungo il VI secolo, lasciando spazio a una molteplicità di zecche disperse per i diversi regni europei e a una netta prevalenza di monetazione in argento. Non ci troviamo di fronte a una moneta di uso corrente, per i minuti scambi quotidiani; è piuttosto una moneta destinata al commercio e agli acquisti di terra. Una moneta d’uso, quindi, ma non di uso quotidiano. Le monete e la loro diffusione sono ottimi segnali per cogliere il costituirsi di reti commerciali che in questi secoli arrivarono a coinvolgere in modo nuovo l’Europa settentrionale: la comparsa di monete franche in Inghilterra nel VIII secolo è un prezioso indizio del coinvolgimento di queste regioni in una rete di scambi che trovava una forte polarità nell’Austrasia franca e si ampliava verso il mare del Nord. Il surplus agrario derivante dall’accresciuta pressione aristocratica permise un consolidamento demografico dei centri urbani della Neustria e dell’Austrasia, ma trovò uno sbocco anche verso il mare, in un interscambio commerciale con le coste settentrionali: le sponde del mare del Nord rappresentavano infatti zone economiche diverse, con produzioni integrabili. Ma lo scambio commerciale era prima di tutto uno scambio economico tra le élite poste sulle diverse sponde del mare e da questo punto di vista era uno scambio diseguale: il prestigio del popolo franco e la superiorità del suo artigianato rendevano i prodotti provenienti da questo regno molto richiesti dalle élite del nord. Questo scambio commerciale diede vita a un peculiare e nuovo sviluppo insediativo, con la nascita degli emporia, centri abitativi con finalità commerciali organizzati attorno ai porti e segnati da un rapido sviluppo demografico. Nati con specifiche funzioni commerciali, assunsero rapidamente caratteristiche urbane e furono alla base del successivo sviluppo delle città: da questo punto di vista, occorre distinguere le diverse regioni che si affacciavano sul mare, come nel caso del regno franco, in cui gli emporia si sovrappongono ad una rete urbana preesistente, o in Inghilterra, dove rappresentarono una fase di rinascita dopo la brusca rottura dell’urbanesimo romano ad inizio V secolo. Gli emporia furono quindi l’espressione concreta dello strutturarsi di un nuovo sistema di scambio nella vasta area che va dalla Manica al mar Baltico, direttamente connesso all’egemonia franca, mentre la fine della dominazione carolingia segnerà poi il declino di molti di questi porti, che furono inoltre colpiti anche dalle incursioni vichinghe a causa dell’allentamento del controllo militare prima garantito dal potere franco. Un ulteriore segnale di vitalità commerciale di questi secoli, infine, trovò punti di riferimento importanti nelle fiere che si tenevano a cadenza regolare in luoghi di rilievo politico e spesso religioso. CAPITOLO 2. NUOVI QUADRI POLITICI: IL REGNO LONGOBARDO: Il regno longobardo fu la prima dominazione germanica in Italia a porsi in netta contrapposizione con l’Impero; al contempo, i Longobardi rappresentarono una dominazione esclusivamente italiana, prima che la conquista franca unisse la penisola a un quadro politico molto più ampio; infine, il regno longobardo convisse con le ambizioni egemoniche del papato in una contrapposizione politico-territoriale che assunse anche connotati religiosi, tra Longobardi ariani e romani cattolici. Con l’attenuarsi delle letture di orientamento nazionalistico e religioso, è rimasta al centro della scena la questione etnica, cioè l’identità longobarda, i rapporti tra le due popolazioni e la loro assimilazione. Questo aspetto ha subito profonde trasformazioni nella seconda metà del XX secolo grazie a due processi tra loro connessi: da un lato l’integrazione della storia longobarda nella storiografia europea dedicata ai regno romano-germanici; dall’altro la crescita della ricerca archeologica, che ha rivoluzionato le conoscenze rispetto alle ridottissime fonti scritte relative all’età longobarda. I testi di cui si può fruire compongono un patrimonio limitato dal punto di vista tipologico: le informazioni disponibili derivano da due grandi testi, la Storia dei Longobardi, scritta da Polo Diacono ad inizio IX secolo, e la raccolta delle leggi promulgate dai re longobardi, a partire dall’editto di Rotari del 643. Due fonti che richiedono un’analisi molto attenta della natura di questi testi per cogliere gli elementi di distorsione della realtà: bisogna leggere le fonti tenendo conto che esse non sono nate per rappresentare o descrivere la realtà, ma per intervenire su di essa. Le leggi nacquero dal tentativo dei re di consolidare il proprio potere, mentre la narrazione di Paolo Diacono ha delle finalità meno evidenti, dato che non si sa dove e per chi abbia scritto il testo, che in ogni caso fu una libera narrazione condizionata dal contesto in cui nacque. I Longobardi in Italia: I regni nati nel V secolo subirono nei due secoli successivi importanti trasformazioni; alcune dominazioni scomparvero più o meno rapidamente, ma nella penisola italiana si affermò un nuovo regno, quello dei Longobardi. Potremmo definire questa dominazione come un regno romano-germanico di “seconda generazione” che si impose un secolo più tardi degli altri regni, ma si mosse in un contesto profondamente mutato di egemonia franca su larghi settori dell’Europa occidentale e di profonda ridefinizione dell’Impero orientale. I Longobardi si trovavano all’estrema periferia: è probabile un’origine scandinava del popolo, protagonista di una serie di spostamenti e stanziamenti, prima in Germania, poi in Pannonia, dove si insediarono vincendo l’ostilità dei Gepidi, ma questo non pose fine alle tensioni militari, soprattutto in seguito alle pressioni degli Avari; qui, si innescarono i primi rapporti con l’Impero con cui i Longobardi stipularono un foedus e per cui combatterono occasionalmente come mercenari, senza integrarsi però nei quadri imperiali. L’esercito che nel 568 mosse alla conquista dell’Italia era quindi costituito da un popolo che conosceva la romanità ma che non si era romanizzato: si mosse sia probabilmente in seguito ad un accentuarsi delle tensioni con gli Avari, sia per le evidenti possibilità di bottino offerte dal territorio italiano, ricco, ma militarmente debole. I Longobardi erano un popolo-esercito la cui attività principale era combattere: la loro fu una conquista, un’azione militare violenta, ma fu anche una migrazione perché scese in Italia l’intero popolo longobardo, donne e bambini. Sappiamo però che le definizioni etniche e i nomi di popolo erano quanto mai fluidi, perciò quando parliamo di “longobardi” dobbiamo intendere l’insieme delle persone che in un dato momento si riconoscevano come tali. L’iniziativa dei longobardi e del loro re Alboino fu una grande opportunità di impadronirsi delle ricchezze concentrate nelle città italiane: pertanto, nel momento in cui si avviò la spedizione, si unirono all’esercito molti gruppi che nulla avevano a che fare con i longobardi; ma unirsi all’esercito significava unirsi anche al popolo e riconoscere lo stesso re. Dal punto di vista strettamente militare, Alboino attivò un circolo virtuoso, attirando nel suo esercito gruppi armati che a loro volta rafforzarono lo stesso Alboino e quindi migliorarono le prospettive della sua spedizione. Alboino e i longobardi valicarono le Alpi nel 568 e diedero vita a una conquista lunga e violenta che divise l’Italia in due parti, il regno longobardo e i domini imperiali. I longobardi controllavano la Pianura Padana, la Tuscia e i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, Ravenna, la laguna Veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del sud e le grandi isole; in pratica, entrambe le dominazioni erano discontinue. Questa discontinuità territoriale è importante perché ci aiuta a comprendere le persistenti tensioni che contrapposero i longobardi all’Impero e al vescovo di Roma nei due secoli successivi; al contempo, questa disorganicità territoriale deve essere letta alla luce della struttura di potere interna all’esercito e al popolo. Non dobbiamo pensare che il re fosse l’unico potere alla guida dei longobardi: anzi, si trattava di un potere limitato e condizionato. Per comprendere meglio, bisogna ripartire dai caratteri fondamentali del popolo longobardo, un popolo-esercito attraversato da reti di fedeltà e organizzato in corpi militari chiamati fare, cioè gruppi uniti da una solidarietà militare a capo delle quali troviamo dei duces, dei capi, guide militari e anche coloro che guidavano e comandavano l’intero popolo longobardo. Il potere regio nasceva prima di tutto dal coordinamento delle farae e dei duchi. L’ampia autonomia dei duchi si rivela proprio nelle forme dell’espansione longobarda in Italia, coordinata da Alboino, ma in parte esito delle iniziative autonome dei duchi, che una volta scesi in Italia si stanziarono nelle diverse regioni individuando delle sedi fisse. I duchi avevano ben chiaro su quali persone comandassero, ma molto minore era l’interesse a definire quali spazi questo potere esercitasse. Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura si innestava il potere regio: anche il re era prima di tutto una guida militare, garantiva la capacità bellica del suo popolo: nella cultura tradizionale longobarda non era concepibile un re che non fosse un valoroso guerriero. Il re longobardo era elettivo, teoricamente scelto dall’assemblea degli esercitali, ma di fatto nominato dai duchi. Il re era indubbiamente superiore, ma non era lui a nominare i duchi, che invece avevano il potere di scegliere il re, il che non impediva ricorrenti tendenze dinastiche in cui il figlio del re riusciva ad imporsi come suo successore, ma ciò non avveniva in maniera automatica. Durante i primi decenni del regno longobardo in Italia emergono alcuni cambiamenti importanti dal punto di vista del potere regio, dei meccanismi di successione e quindi del rapporto duchi-re. Re Alboino fu ucciso forse da parte di una congiura di palazzo e forse con l’appoggio dell’Impero nel 572 e gli succedette Clefi, in carica solo due anni, per essere poi anche egli ucciso. Dal 574 al 584 il longobardi rimasero senza un re: in quel momento, finita la fase di conquista e di conflitto con l’Impero, i duchi ritennero che un re non fosse necessario; sono ancora una volta le esigenze militari a spiegare il ritorno del potere regio dieci anni dopo: le pressioni dei franchi e la conseguente esigenza di coordinamento convinsero i duchi a scegliere un nuovo re, Autari, figlio di Clefi. Nel momento in cui i duchi presero atto che un re era necessario scelsero una figura ritenuta adatta forse anche per la sua ascendenza, per un carisma di derivazione paterna. Così alla morte di Autari i longobardi posero la successione nelle mani della vedova Teodolinda che sposando il duca Agilulfo, ne fece il nuovo re. Molti dei re via via eletti durante il VII secolo discendevano proprio da questa coppia regia. Ci troviamo di fronte ad un potere regio militarmente importante, ma che dovette costruire via via la propria eminenza nei confronti dei duchi; ma la costruzione progressiva dell’egemonia regia è un processo riconoscibile nella fase matura del regno fra VII e VIII secolo. Tuttavia, fin dai primi anni del secolo si affermò una pratica politica rilevante e tutt’altro che ovvia: l’identificazione di una capitale. Delle tre capitali italiane del tardo Impero (Roma, Ravenna e Milano) le prime due erano precluse ai longobardi, ma essi a Milano preferirono Pavia, già residenza di Teodorico. Per i longobardi Pavia non fu solo una residenza regia, ma una vera e propria capitale, sede del re e degli organismi che a lui facevano capo. Questa scelta ebbe ripercussioni di lungo periodo, tanto che Pavia rimase capitale fino al XI secolo. Non dobbiamo pensare ai longobardi come un popolo ostile e diffidente nei confronti del mondo cittadino di tradizione romana: si insediarono, invece, nelle città e le scelsero come centri politici e militari. Le città italiane in questi decenni subirono un declino accertabile per via dell’archeologia: non si trattò di una brusca rottura, ma della chiara manifestazione del mutamento delle funzioni urbane nel contesto del passaggio dai funzionamenti politici e fiscali di tradizione romana quelli tipici dei regni altomedievali. Longobardi e Romani: La coppia regia Teodolinda-Agilulfo ha costituito un passo importante nel processo di costituzione del potere regio e anche per la storia religiosa dei longobardi. Questa coppia efficace nel mondo di governare i longobardi era costituita da un turingio e da una bavara: nessuno dei due era longobardo di sangue, ma la loro adesione al nesso politico longobardo ne faceva candidati ideali. Questo ci offre un’immagine efficace della fluidità etnica del popolo longobardo, del continuo processo di etnogenesi. I segni del continuo processo di etnogenesi si colgono in fonti diverse, ma un caso particolarmente evidente è la redazione a metà del VII della Origo gentis longobardorum, un racconto delle vicende del popolo longobardo dalle origini fino alla costruzione del regno in Italia. Raccontare la storia di un popolo è un modo di rafforzare l’identità e la coesione: si concentra appunto sull’origine, sul momento in cui un popolo aveva assunto un nome e un identità collettiva, si era riconosciuto come popolo. E l’origine dei longobardi si pone tra guerra e religione: i Winnili combattono i Vandali, ma sarà il dio Wotan a concedere loro la vittoria e ad attribuire loro il nome di “longobardi”. Le altre fonti scritte sono assai elusive per quanto riguarda l’identità etnica e le relazioni tra longobardi e romani: il termine “longobardi” sembra essere usato per indicare l’insieme di persone sottoposte al potere del re longobardo, così come “romani” indica gli abitanti di quelle regioni d’Italia rimaste in mano imperiale. Sono infine da trattare con prudenza le fonti archeologiche, in particolare i correi funerari, in cui troviamo armi, gioielli, simboli religiosi, etc. ma questi oggetti potevano sia ricordare l’origine di un morto, sia indicavano più spesso ciò che egli voleva essere o le sue scelte. Perciò le questioni relative all’identità longobarda, ai processi di etnogenesi e ai rapporti tra longobardi e romani non possono essere delineate in modo netto; alcuni passaggi appaiono tuttavia chiari: al momento dell’invasione, i ceti eminenti romani subirono una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri. Gli aristocratici romani furono esclusi dal potere del regno, subirono espropriazioni, emigrarono verso le aree imperiali riunendosi attorno alle grandi chiese vescovili di Roma e Ravenna. Nel regno, il potere si concentrò nelle mani del longobardi e soprattutto dei loro duchi: nei primi decenni dopo l’invasione l’identità etnica era probabilmente chiara, ma questa chiarezza andò sfumando rapidamente poiché nel giro di poche generazioni, la convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti, l’assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica. È un processo di cui è particolarmente difficile cogliere la cronologia: vediamo il punto di partenza, cioè una sostanziale opposizione etnica negli anni immediatamente successivi alla conquista; e vediamo il punto di arrivo attorno a metà VIII secolo quando l’appartenenza al popolo e all’esercito longobardo era un fatto politico e territoriale; ma non possiamo individuare i passaggi intermedi. Esiste però un aspetto importante dell’identità collettiva longobarda su cui ci si può soffermare, ed è la religione. Al momento della discesa in Italia la religiosità longobarda comprendeva credenze pagane tradizionali e cristianesimo ariano. La loro conversione solo parziale al cristianesimo è una manifestazione della loro debole romanizzazione. Non si delineò una netta distinzione ed opposizione tra romani cattolici e longobardi ariani; ma indubbiamente la fede ariana divenne un perno attorno a coscienza lo stesso papato. Un secondo aspetto in cui il regno di Liutprando ebbe rilievo fu quello legislativo, con più di 150 articoli di legge emanati fin dal primo anno di regno. Questa attività legislativa testimonia prima di tutto il consolidamento delle prerogative del regno, che rivendicava a sé un nuovo accentramenti di potere; ma di nuovo, è importante considerare anche i contenuti di queste norme: ciò che vediamo emergere è una chiara ideologia cattolica del regno, impegnato ad estirpare usanze di matrice pagana e a proteggere le chiese. Questo è esito non solo della conversione al Cattolicesimo, ma di trasformazione dell’ideologia del potere regio, che si presentava ora come cattolico, protettore della fede e delle chiese. Tuttavia, questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte e stabile collaborazione con i vescovi: la lunga tensione religiosa tra cattolici e ariani, la gravitazione dell’episcopato italiano attorno alle sedi di Roma e Ravenna, la persistente conflittualità politico-territoriale tra aree longobarde e imperiali; la mancata collaborazione dei vescovi privò il regno di un sostegno materiale, politico e culturale. Con Liutprando divennero pienamene visibili alcuni processi di consolidamento del potere regio: di particolare rilievo è l’istituzione dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio; il re poté infatti disporre di una rete di funzionari dispersi nel regno, seppur formalmente privi di compiti giurisdizionali, che andarono a costituire un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi. I gansidii (i fedeli armati) sono attestati al seguito di duchi e di altri potenti, ma le leggi si concentrarono a definire lo status speciale dei gansidii regi, di coloro che si erano legati alla persona del re tramite un personale rapporto di fedeltà. Possiamo quindi vedere che i re erano attivi sia nel costruire una trama di legami personali, sia nell’affermare la condizione speciale di chi faceva parte di questa rete: gastaldi e gansidii andarono a costituire una rete di fedeltà raccolta attorno al re. Attorno alla metà del VIII secolo il regno longobardo si era quindi consolidato all’interno, con crescente potere dei re nei confronti dei duchi, il cui controllo sulla società restò tuttavia sempre molto forte. Al contempo si era ormai completato il processo di integrazione fra romani e longobardi, il cui segno evidente è nelle leggi emanate da re Astolfo nel 750, la normativa sugli obblighi militari modulati in base alla ricchezza fondiaria o mobile (nel caso dei mercanti), senza riferimento a una distinzione etnica; era questo il completamento di un lungo processo di assimilazione. Su queste basi i longobardi del VIII secolo sembrano costituire un regno militarmente forte, la cui potenza si proiettava minacciosa su altre parti della penisola; eppure, era la premessa della fine del regno. Negli anni centrali del secolo, l’equilibrio politico fra longobardi, Franchi e papato si ruppe definitivamente, in primis per un cambiamento da parte del papato che si orientò alla potenza crescente del regno franco: i papi che si succedettero lungo la seconda metà del secolo videro nei re franchi Pipinidi/Carolingi dei validi protettori della Chiesa Romana. L’alleanza tra il papato e i Carolingi si concretizzò in due spedizioni: nel 754 Pipino il Breve scese in Italia, sconfisse il re Astolfo e tolse ai longobardi Ravenna dandola alla Chiesa di Roma; vent’anni dopo il figlio Carlo Magno sconfisse di nuovo i longobardi e questa volta in modo definitivo: deposto il re Desiderio, si impossessò del regno annettendo l’Italia centro-nord al dominio franco. La conquista franca pose fine al regno, ma non alla storia longobarda. Il territorio conservò la propria identità: Carlo si intitolò rex Francorum et Longobardorum; assimilò l’aristocrazia longobarda all’interno del proprio seguito e del proprio apparato di governo; il regno d’Italia fu in seguito una delle grandi partizioni dell’impero Carolingio; Pavia continuò a essere la capitale. Nei secoli successivi il principato di Benevento, che si mantenne autonomo, si andò segmentando in unità politiche minori. Solo nel secolo XI, i Normanni ricostruirono l’unità politico-territoriale del sud Italia, riunendo le piccole dominazioni di origine longobarda e bizantina del continente, e annettendo poi la Sicilia, che dal IX secolo era in mano araba. CAPITOLO 3. IMPERO CAROLINGIO, ECCLESIA CAROLINGIA: Nello straordinario sviluppo politico e territoriale dell’Impero carolingio vediamo venire a maturazione le elaborazioni dei regni altomedievali; qui si compi la più alta simbiosi tra potere regio e sacerdotale, si aprirono orizzonti culturali e commerciali prima assenti. Occorre chiarire da subito che Impero carolingio ed ecclesia carolingia (cioè l’insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi) non erano due realtà distinte o in opposizione, bensì due modi per leggere la stessa realtà. Dal regno all’Impero: Nei decenni a cavallo fra VII e VIII secolo i regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale, i Pipinidi, che seppero costruire un potere egemone sull’intero popolo franco grazie a iniziativa militare, alla costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia Austrasiana, all’occupazione della carica di maestro di palazzo e alla protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith. Una data chiave è il 751, quando Pipino III depose il re Childerico III e assunse il trono: questo momento deve essere prima di tutto visto come un punto di arrivo, un completamento di un lungo processo di consolidamento del potere pipinide. I passi che portarono all’incoronazione di Pipino non sono facili da cogliere in quanto le vicende sono tramandate dalle narrazioni redatte nelle chiese del regno, solidali ai Pipinidi. Il punto più sfuggente è rappresentato dal ruolo del papato: gli Annali del regno dei Franchi narrano che due ambasciatori erano stati inviati a papa Zaccaria per chiedergli se fosse bene che i re dei Franchi non avessero alcun potere reale e il papa avrebbe risposto che era meglio che fosse chiamato re chi aveva il potere effettivo; di conseguenza, i Franchi avrebbero individuato in Pipino il loro nuovo re. La narrazione pone l’intervento papale prima dell’incoronazione per legittimare l’azione di Pipino; ma nella deposizione di Childerico, l’effettivo ruolo papale fu probabilmente minimo, mentre fu la grande aristocrazia a decidere di raccogliersi attorno ai Pipinidi. Il colpo di Stato si attuò richiudendo Childerico in un monastero, tagliandogli la folta chioma (simbolo di potere) e procedendo al rito di unzione del nuovo re da parte del monaco Wynfrith. L’intervento del papa probabilmente giunse in seguito ad approvare quanto già era avvenuto; ma soprattutto, il nesso fra papato e Pipinidi divenne incisivo pochi anni dopo quando nel 754 il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, contro la ricorrente minaccia militare longobarda, l’Impero di Bisanzio non era più in grado di offrire un sostegno a Roma, che dovette trovare altrove un nuovo protettore. Il papa si volse quindi al nuovo re dei Franchi: superò le Alpi per incontrare a Saint-Denis, dove ripeté l’unzione sia del re, sia dei suoi figli. Papa Stefano non cercava solamente un alleato contro i Longobardi, ma piuttosto un potere che assumesse in modo permanente le funzioni di protettore della Chiesa di Roma. L’incontro a Saint-Denis fu quindi la premessa di un intervento militare franco in Italia contro re Astolfo, ma anche, con l’attribuzione a Pipino del titolo di patricius (protettore della Chiesa), di un impegno permanente di collaborazione e protezione del papato. Al contempo, il nuovo re aveva l’esigenza di legittimare il suo potere, trovandosi di fronte alla necessità di mettere in gioco una sistema di atti di legittimazione sul piano cerimoniale, politico e storico; e questa esigenza di legittimazione non si esaurì rapidamente: ancora Eginardo, il biografo di Carlo Magno, dedicò una famosa pagina a descrivere il vuoto titolo regio di Childerico e il potere concreto e dinastizzato dei Pipinidi: è importante notare come sessant’anni dopo la presa del potere, la corte regia fosse ancora attenta a costruire una narrazione storia tesa a legittimare il colpo di Stato di Pipino. La conseguenza più immediata dell’incontro del 754 fu la spedizione di Pipino in Italia contro i Longobardi di Astolfo: non fu una spedizione di conquista, ma piuttosto un’azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti dei territori del papato e delle terre imperiali. Pipino sconfisse Astolfo, lo costrinse a restituire al papato le terre conquistate e poi tornò in Gallia; questa azione non avviò quindi un periodo di tensione tra Franchi e longobardi, come si vide poi in seguito quando la vedova di Pipino e i figli Carlo e Carlomanno, avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami tra Franchi, Longobardi e Bavari. Tuttavia, fu una politica di equilibrio che durò pochi anni: dopo la morte di Carlomanno, Carlo si mosse in una prospettiva di espansione, rompendo i rapporti amichevoli con Longobardi e Bavari. Per comprendere meglio l’azione militare di Carlo, dobbiamo seguire i passaggi che portarono a concentrare nelle sue mani il controllo dell’intero popolo dei Franchi. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse parte del patrimonio del re e perciò fosse diviso fra tutti i suoi figli maschi: questo modello di trasmissione del potere passò dai Merovingi ai Pipinidi, tuttavia i nuovi re poterono fruire di un lungo periodo in cui il potere rimase ad un solo re, prima con Pipino, il cui fratello Carlomanno si era ritirato a vita religiosa; poi con Carlo, che condivise il potere con il fratello Carlomanno fino a quando nel 771 la morte del fratello lo lasciò unico re; infine Ludovico il Pio, che dopo la morte dei fratelli rimase unico erede di Carlo. Di fatto per 90 anni ci fu sempre un solo re dei Franchi e ciò contribuì a dare forza alla loro azione. Ma questo non cancellò la tradizionale concezione patrimoniale del regno. Carlo, rimasto unico re dei franchi, in pochi anni avviò un’impressionante campagna di espansione militare e lo portò a costituire un dominio comprendente larga parte dell’Europa occidentale. La conquista più importante fu quella del regno longobardo d’Italia, dove Carlo si trovò ad affrontare la struttura politico-territoriale più definita, e grazie alla quale il rapporto con il papato fece un salto di qualità fondamentale. Dal punto di vista militare la conquista non fu difficile: la difesa longobarda si concentrò sul confine alpino, poi nella capitale Pavia, dove un lungo assedio pose fine al regno di Desiderio. La conquista carolingia non andò a comprendere tutta l’Italia, rimanendo estranee al dominio franco le terre bizantine e papali, mentre il ducato di Benevento a sud rimase autonomo. La geografia politica dell’Italia non subì quindi una semplificazione con la conquista dei carolingi, ma piuttosto un’ulteriore articolazione tra aree franche, bizantine, papali e longobarde (cartina pagina 121). Ma l’azione militare di Carlo non si limitò all’Italia: l’espansione verso la penisola iberica fu modesta, con una serie di breve conflitti dal 778 all’813, che portarono alla costituzione della cosiddetta marca Hispanica (fascia territoriale subito a sud dei Pirenei). Fu invece di grande rilievo l’azione verso le terre poste ad oriente, in particolare in Sassonia: i conflitti con i Sassoni si erano ripetuti a più riprese nel corso del VIII secolo; sotto Carlo Magno l’azione militare franca cambiò progressivamente natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilarne la popolazione, unendo un’iniziativa bellica tendente in modo più deciso alla conquista ad una coloritura religiosa del conflitto. I Sassoni erano infatti pagani e nel 772 Carlo fece distruggere l’Irminsul, un idolo di grande importanza per la religiosità sassone. Lo scopo di Carlo era la sottomissione e l’assimilazione dei Sassoni, e in questo contesto la dimensione religiosa era una delle componenti di un’identità di popolo che si voleva cancellare; inoltre, il processo di assimilazione si espresse anche nella fondazione di una serie di diocesi in ambito germanico destinate a funzionare in virtù di un complessivo inquadramento delle popolazioni sottomesse. Quella contro i Sassoni fu una guerra lunga, con una serie di ribellioni, massacri, di leggi emanate appositamente per porre sotto controllo questo popolo. L’espansione verso est continuò in Baviera, posta sotto un più diretto controllo; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico-militare, la marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. Il confine e il suo controllo avevano grande importanza, ma il confine non corrispondeva ai limiti dell’influenza della dominazione carolingia: in Spagna e in Austria le marche erano sì luoghi di difesa, ma anche di scambio nei confronti delle popolazioni poste all’esterno dell’Impero. Nell’area austriaca Carlo sconfisse gli Avari e impose agli Slavi una forma di egemonia sostanzialmente pacifica; dinamiche simili si istituirono più a nord, nei confronti dei danesi, le cui continue incursioni indussero Carlo a costruire una grande opera fortificatoria, il Danewirke, la cui efficacia militare creò un quadro di sicurezza sotto il quale poterono crescere gli scambi. Sempre sul piano commerciale, si articolarono i rapporti con i regni anglosassoni: il re Offa di Mercia diede vita a una larga egemonia sui regni anglosassoni meridionali, adottando linguaggi e modelli politici di imitazione franca. Nel complesso, fu un dominio immenso, la cui novità fu l’attribuzione a Carlo del titolo di imperatore: la conquista carolingia in Italia fu coerente con le aspettative del papato, ma l’esito non fu probabilmente quello auspicato; il papa, infatti, aveva maturato lungo il VIII secolo un’ambizione di egemonia, ma la sconfitta longobarda non lasciò campo libero all’azione papale, motivo per cui la linea d’azione papale fra VII e IX secolo fu volta al consolidamento dell’egemonia sull’Italia centrale e alla definizione di un rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro va posta l’incoronazione di Carlo il giorno di Natale dell’800: papa Leone III, fuggito da Roma per sfuggire ai suoi oppositori, fu riportato in città e reinsediato sulla cattedra papale da Carlo e, riottenuta la pienezza dei suoi poteri, incoronò Carlo imperatore. Indubbiamente, tale titolo diede maggior rilievo al potere di Carlo, affermandone in modo simbolico la superiorità rispetto ad ogni altro sovrano dell’Europa occidentale. Tuttavia, il titolo imperiale fu contemporaneamente funzionale alle esigenze del potere papale: le difficoltà di Leone III avevano messo in rilievo la debolezza papale ed era quindi molto importante per i papi poter contare su un impegno stabile e definito di Carlo a proteggere la sede papale; associare Carlo alla memoria di Costantino, il primo imperatore cristiano, la cui funzione principale era appunto vista nella protezione della Chiesa di Roma. La collaborazione fra Impero e papato fu quindi un dato di fondo e il titolo imperiale di Carlo fu espressione di questa unione; ma sottotraccia rimase viva una potenziale tensione: proprio a fine VIII secolo la curia papale produsse la Donazione di Costantino, un falso documento del IV secolo che attestava la cessione al papato di tutte le regioni occidentali dell’Impero. Il papato in questi anni non usò la Donazione, ma il fatto stesso che sia stata prodotta è segno del fatto che già a fine VIII secolo la pacifica collaborazione con i carolingi non era l’unica opzione politica della corte papale. Quando Leone incoronò Carlo imperatore, un Impero già esisteva a Bisanzio e questo comportò ovvie tensioni ideologiche: il titolo imperiale era per definizione universale e quindi concettualmente non appariva lecito affermare l’esistenza di due imperatori; inoltre, il titolo imperiale di Carlo era un richiamo molto specifico a Costantino e all’Impero Romano, ovvero quella struttura politica rispetto cui Bisanzio si poneva in piena continuità. L’incoronazione imperiale di Carlo fu quindi un gesto di concorrenza e di ostilità nei confronti di Bisanzio, reso possibile da una debolezza dell’Impero orientale, governato in quegli anni da un’imperatrice (Irene) e indebolito da un conflitto religioso molto importante (l’iconoclastia). Conti, vassalli e liberi: La costruzione dell’Impero pose ovviamente problemi dii governo: il re era itinerante ed era quindi necessario un sistema di deleghe che garantisse sia il controllo dei sudditi da parte dei rappresentati regi, sia il controllo regio su questi ultimi. In linea generale, l’efficacia del potere carolingio si basava sul coordinamento dell’aristocrazia laica e delle chiese: per quanto riguarda la prima, la funzione chiave era quella dei conti, funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio (comitato), assolvendo a tutte le funzioni spettanti al re (guida militare, giustizia, prelievo). Alcune aree poste ai confini erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, affidate ai marchesi, il cui potere non era diverso da quello dei conti. Conti e marchesi erano esponenti di grandi gruppi parentali aristocratici, ma la forza dell’Impero si espresse nella capacità di separare la loro potenza personale da quella esercitata a nome dell’imperatore: gli aristocratici assumevano funzione di conte o di marchese in aree lontane dalle proprie regioni di provenienza. Su questo piano vedremo un’evoluzione a partire dagli ultimi decenni del IX secolo, quando le funzioni comitali divennero via via più stabili, fino a diventare vitalizie ed ereditarie. Questo permise una progressiva convergenza tra potenza dinastica e funzionariale: chi governava un territorio per decenni consolidava anche la propria forza personale. I legami tra imperatore e le realtà locali erano garantite anche da altri funzionari, i missi regi, gli inviati del re. Talvolta avevano un ambito specifico di riferimento, talvolta no; in alcuni si sovrapponevano all’ordinamento comitale, in altri erano gli unici rappresentanti dell’imperatore. È importante sottolineare come l’apparato di governo non fosse fatto di sconosciuti ma di fedeli del re, aristocratici direttamente a lui legati. Queste forme di fedeltà assunsero una forma più definita negli ultimi decenni del VIII secolo sotto Pipino III e Carlo Magno in quello che viene definito il rapporto vassallatico. Il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare l'anno successivo: fu un potere pieno, ma appare evidente come le tensioni ereditarie non fossero affatto risolte. Alla morte di Ludovico il Pio nell’840 queste tensioni sfociarono in un conflitto aperto che opposero Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Tre passaggi sono particolarmente significativi: la battaglia di Fontenoy dell’841, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli; i giuramenti di Strasburgo che nell’842 sancirono l’alleanza fra Ludovico e Carlo; e la pace di Verdun dell’843 che pose fine al conflitto. A Fontenoy la battaglia si risolve in un massacro, mostrando in modo evidente come l’unità dell’aristocrazia attorno al potere imperiale fosse finita. A Strasburgo Ludovico e Carlo si coalizzarono contro Lotario ma il dato più significativo è rappresentato dalle forme assunte dal doppio giuramento: per farsi comprendere dai due eserciti, Carlo prestò giuramento in tedesco, mentre Ludovico lo fece in lingua romanza. Lo scopo di questa scelta è evidente: ognuno fece in modo di essere compreso dai seguaci dell’altro; questo giuramento, quindi, esprime su un piano concreto la presa d’atto dell’esistenza di spazi di civiltà diversi, presa d’atto che si tradusse sul piano politico-territoriale l’anno seguente a Verdun, quando i tre fratelli spartirono l’impero. A Carlo andò il regno dei Franchi occidentali, a Ludovico il Germanico quello dei Franchi orientali, mentre Lotario ottenne una fascia intermedia che andava dall’Alsazia fino all’Italia; inoltre, fu Lotario a mantenere il titolo imperiale, in quanto primogenito ed erede designato da Ludovico il Pio, ed era anche colui che controllava l’Italia e quindi era nelle condizioni di attuare il compito di tutela della Chiesa di Roma. La novità di questi anni non fu tanto la divisione territoriale, quanto il concetto stesso di Impero: se infatti nell’843 si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in alcun modo in una forma di coordinamento unitario. Fu un mutamento di grande rilievo: non solo si rinnovò e si rese operativa la tradizione franca di spartizione dell’impero, ma si rinunciò esplicitamente a un’idea di Impero come struttura operativa unitaria. Il potere regio, quindi, non cambiò la sua natura, ma cambiò drasticamente il quadro territoriale: l’Impero carolingio non fu mai più un quadro politico-territoriale di concreto riferimento. Si costituirono invece forme di organizzazione politica di respiro regionale grazie al coordinamento dell’aristocrazia attorno ai diversi re. La seconda metà del secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo che culminò nella sua incoronazione imperiale nel 875 poco prima della morte; i figli di Lotario assunsero in vari momenti poteri regi in Italia, Provenza e in Lorena; i figli i Ludovico il Germanico si affermarono in Baviera. Mell’888 Carlo il Grosso (figlio di Ludovico) segnò con la sua morte la fine della dinastia: non la fine biologica, ma la sua esclusione dai vertici del potere: negli anni seguenti i carolingi non furono più la dinastia dominante e soprattutto il loro potere non fu più un fattore unificante dei territori dell’Impero. Per concludere, si possono identificare quattro fasi della storia dei Pipinidi/Carolingi: o Inizi VII-751, furono una grande dinastia dell’aristocrazia austrasiana, che costruì il proprio potere all’interno del regno merovingio; o 751-840, Pipino III, Carlo Magno, Ludovico il Pio: un singolo re carolingio controllò il popolo franco e poi un grande impero; o 840-888, il sistema del potere carolingio si articolò in regni distinti e separati, senza una vera unità dinastico- territoriale; o 888-987, i Carolingi furono una delle dinastie che, nei diversi regni, si contendevano il potere, in una fase particolarmente conflittuale; CAPITOLO 4. IL MEDITERRANEO BIZANTINO E ISLAMICO: Nei decenni tra VII e VIII secolo si assistette a una profonda trasformazione dei quadri di vita di gran parte del Mediterraneo meridionale e orientale: la nascita dell'Islam fu prima di tutto una trasformazione religiosa, ma immediatamente si tradusse anche in una ridefinizione dei sistemi politici di ampi territori già appartenenti all’Impero Romano bizantino e ai regni romano-germanici. Partendo quindi dall'esperienza religiosa di Muhammad e dalla sua predicazione, possiamo analizzare i primi secoli di storia islamica come un processo di mutamento su molti piani, che coinvolse tutte le forze attive nel Mediterraneo. In particolare, all'affermazione dell'Islam dobbiamo collegare i processi di ridefinizione dell'Impero bizantino: una riduzione degli orizzonti territoriali, non più proiettati sulle ambizioni universali proprie della tradizione imperiale romana; una ridefinizione dei funzionamenti interni; una nuova centralità dell'esercito. Ma la storia bizantina dei secoli centrali del medioevo non fu solo una vicenda di crisi, ma anche di ricostruzione su nuove basi (militari, fiscali e ideologiche) di una potenza sovraregionale in grado di esercitare un'efficace egemonia su larghi settori dell'Europa orientale. Le origini dell'Islam: La penisola araba nel tardoantico era strutturata attorno alla convivenza di due grandi gruppi: da un lato le popolazioni urbane di città come la Mecca e Yathrib (la futura Medina), attive sul piano commerciale, dall'altro lato tribù nomadi di pastori che rifiutavano sia la vita urbana, sia le forme di più ampio coordinamento politico. In questo quadro era riconoscibile una centralità della Mecca, non solo per le sue funzioni commerciali, ma anche per il prestigio connesso al culto della Ka’ba, una pietra nera di origine meteoritica, meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso, nella penisola prevalevano forme di politeismo parzialmente corrette da alcune tendenze al monoteismo. Questo era il contesto in cui si mosse nei primi decenni del VII secolo, Muhammad: iniziò la sua opera religiosa nel 612, quando alcune lo convinsero di essere un inviato di Dio, incaricato di declamare la parola divina, che invitava a una fede rigidamente monoteista, organizzata attorno ad alcuni precetti fondamentali. Proprio dall'idea di declamazione deriva il Corano, il libro sacro dell'Islam: il Corano- diversamente dall'Antico e dal Nuovo Testamento - non è solo parola ispirata da Dio, ma è direttamente parola di Dio, di cui Muhammad fu solo portavoce. La predicazione di Muhammad fu prima trasmessa oralmente, poi raccolta in una redazione scritta che fu completata nei decenni centrali del secolo, dopo la morte del Profeta. La predicazione di Muhammad costituiva però una minaccia per il potere dei grandi clan quraishiti della Mecca, che trovavano un elemento di forza e ricchezza nei pellegrinaggi alla Ka'ba, sostenuti da un forte sincretismo religioso di stampo decisamente politeistico. L'isolamento politico di Muhammad lo convinse nel 622 a fuggire a Yathrib (che assumerà il nome di Città del Profeta, ovvero Medina). La fuga del Profeta (l'Egira) è considerata un momento fondativo, tanto da segnare l'inizio del calendario islamico: se infatti lo spostamento a Medina non mutò il messaggio religioso di Muhammad, ne cambiò to talmente le prospettive politiche, avviando l'organizzazione attorno al Profeta di una comunità politico-militare a base religiosa, senza limitazioni etniche, dato che la umma (la comunità) si basava unicamente sul la comune osservanza di precetti religiosi. Muhammad poté divenire un fattore unificante delle tribù arabe che, per quanto separate, già in precedenza avevano espresso tendenze verso la convergenza culturale e politica: il monoteismo salvifico proposto dalla predicazione del Profeta divenne il collante per un efficace coordinamento politico-militare, e garantì a Muhammad una forza tale da consentirgli nel 630 di rientrare alla Mecca, dove seppe coinvolgere i gruppi quraishiti più potenti e dove valorizzò il pellegrinaggio alla Ka'ba, purificato degli elementi politeisti e trasformato in senso islamico. Alla morte di Muhammad, nel 632, la religione islamica aveva assunto un ruolo guida alla Mecca e nell'intera penisola arabica: un potente fattore di coesione ideologica che permise di dare unità politica a forze prima disperse e su questa base avviare un'azione militare che nel giro di pochi decenni sottomise agli Arabi territori di straordinaria ampiezza. Sotto la guida dei primi califfi (i successori di Muhammad), negli anni ’30 gli Arabi cancellarono l'Impero persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di Bisanzio, conquistando la Siria, la Palestina e avviando la conquista del Nordafrica, a partire da Alessandria d'Egitto. L'azione si sviluppò via terra e via mare e rapidamente ridusse la capaci à militare bizantina a uno spazio ristretto, tra Costantinopoli l'Egeo: l'attacco diretto alla capitale imperiale, tra 674 e 678, non ebbe esito, ma nel giro di pochi decenni le armate arabe ebbero la possibilità di compiere una rapida espansione a comprendere tutto il Nordafrica romano, fino a conquistare, nei primi anni dell'VIII secolo, la Spagna visigota. Di fatto l'espansione si arrestò nel 717-718 e negli stessi anni seppero affermare il dominio islamico in Oriente, fino all'Uzbekistan alla valle dell'Indo. Nel giro di pochi decenni si costituì quindi un quadro territoriale amplissimo, dall'Atlantico ai confini dell'Impero cinese, che non aveva antecedenti in alcuna dominazione dei secoli precedenti. L’azione politico-militare dei califfi fu però segnata da fratture legate alla successione Muhammad. Si contrapposero tre posizioni: o i sunniti, che si rifacevano alla sunna, la tradizione, ritenevano che il califfo dovesse essere eletto sulla base del consenso degli anziani, all'interno della tribù di Muhammad; o gli sciiti, seguaci di Alì (cugino e genero di Muhammad), che davano la massima importanza al carisma familiare e ritenevano quindi che il califfo dovesse essere scelto all'interno della famiglia del Profeta; o i kharigiti, che ritenevano che il califfo dovesse essere scelto unicamente per merito, indipendentemente dalla sua appartenenza tribale o familiare. La rottura si realizzò nel 661 con l'uccisione di Ali, quarto califfo: nella maggioranza del mondo islamico prevalse l'orientamento sunnita e la funzione califfale fu assunta dalla dinastia degli Omayyadi, un importante clan della Mecca; ci fu tuttavia una spaccatura: in opposizione al dominio sunnita degli Omayyadi, in alcuni settori il mondo islamico si conserva una tradizione culturale-religiosa che si richiamava ad Ali. Qui ebbe origine l'opposizione tuttora viva tra Sunniti e Sciiti. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e conservarono il potere fino al 750, con quattordici successivi califfi: fu sotto i primi Omayyadi che si completò l'espansione territoriale dell'Islam e questo pose importanti problemi di convivenza tra gli Arabi e le popolazioni sottomesse. Il califfato aveva infatti una doppia natura: da un lato un carattere etnico, come dominio degli Arabi su altre popolazioni; dall'altro un carattere religioso, come affermazione dei musulmani sui non credenti. Se i due piani sono concettualmente distinti, nell'età omayyade erano strettamente intrecciati, dato che l'Islam era concepito dall'élite come la religione degli Arabi, con un diretto legame tra identità etnica e identità religiosa. All'interno del dominio islamico, esistevano quindi due contrapposizioni: una regolata ed esplicita, tra islamici e non islamici, l'altra, meno esplicita tra gli Arabi e gli islamici di origine non araba. La prima distinzione, ovvero la contrapposizione di fede, non si tradusse in forme di persecuzione, dato che fu ampia la tolleranza verso altre fedi, in particolare verso le grandi religioni del Libro (l'Ebraismo e il Cristianesimo); i sudditi del califfo di religione non islamica poterono continuare quindi a praticare la propria fede, ma furono posti in una condizione giuridica inferiore, con l’obbligo di pagare una tassa specifica. La divisione interna ai fedeli islamici - tra Arabi e non Arabi - non era invece formalizzata in modo così chiaro, ma concretamente il sistema di potere islamico era un sistema arabo e i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti a una tribù araba. I decenni del dominio omayyade furono però un periodo di profonda trasformazione: gli Omayyadi posero il proprio centro a Damasco, in Siria, e questo portò a una marginalità politica della penisola arabica, riducendo La Mecca e Medina centri di rilievo esclusivamente religioso. Inoltre, questa fu la fase di sistemazione della fede islamica: il Corano, di cui si era giunti a una redazione definitiva pochi anni prima, fu oggetto di una profonda opera di interpretazione e commento; ma quest'opera di riflessione si sviluppò in parallelo alla grande conquista e all'islamizzazione di nuovi territori, e la stessa riflessione fu via via influenzata dalle tradizioni cultura delle popolazioni sottomesse. Tutto ciò non si tradusse in un libero sincretismo culturale, dato che proprio gli anni a cavallo tra VI e VIII secolo furono segnati anche dalla piena affermazione dell'arabo come lingua ufficiale, sul piano non solo religioso, ma anche amministrativo. Possiamo dire che il secolo omayyade fu segnato dal lento processo di affermazione del carattere universale dell'Islam e di superamento della sovrapposizione tra identità religiosa islamica e identità etnica araba. Questo processo troverà il suo compimento con l'ascesa al potere, nell'VIII secolo, degli Abbasidi e con lo spostamento del centro califfale a Baghdad. L'affermazione islamica su larghi settori del Mediterraneo ebbe al contempo riflessi importanti sul piano economico. Come abbiamo visto l'interdipendenza economica tra le diverse parti del Mediterraneo si era rotta lungo il V secolo: il Mediterraneo del VII secolo da tempo non era più un'unità economica; tuttavia, meccanismi di interdipendenza su base fiscale si erano conservati nell'ambito dell'Impero orientale: Bisanzio, la sua amministrazione e i suoi eserciti traevano un sostegno importante dalle province più produttive sul piano agrario, come l'Egitto, la Tunisia e la Sicilia. La perdita delle prime due fu un colpo pesante per l'economia dell'Impero, che dovette ridurre i propri orizzonti politico-militari e dare nuova importanza alla Sicilia, che nell'VIII secolo divenne la principale fonte di risorse agrarie per l'Impero. Il mutamento economico fu probabilmente meno radicale per le popolazioni che passarono sotto il dominio islamico: dal punto di vista amministrativo e fiscale il califfato fu erede delle strutture romane e conservò un sistema di prelievo coerente con i precedenti modelli imperiali. Bisanzio: crisi e riorganizzazione di un Impero: Nel giro di un secolo e mezzo, dalla metà del VI alla fine dell'VIII, l’Impero Romano d'Oriente subì i pesanti effetti dell'affermarsi di due nuove dominazioni: l'espansione dell'Islam sottrasse all'Impero ampi territori del Medoterranep orientale e meridionale, riducendolo a una potenza regionale, priva del sostegno economico delle ricche produzioni del Nordafrica; alla fine del secolo seguente, l'affermarsi in Europa del carolingio si pose in diretta concorrenza sul piano ideologico, con l'attribuzione a Carlo Magno del titolo imperiale, richiamo sia alla tradizione romana di proteggere la Chiesa di Roma. Indubbiamente i mutamenti tra VII e VIII secolo tolsero all'Impero una prospettiva universale, trasformandolo in modo definitivo in una dominazione regionale, fortemente polarizzata sull'Egeo e intorno alla capitale. Per comprendere i mutamenti di questa fase, dobbiamo risalire alla fine del VI secolo, quando andò rapidamente declinando il grande progetto giustinianeo: i successi militari erano stati nel complesso effimeri e si erano rinnovate le pressioni sui confini di popolazioni ostili, ma al contempo il lungo impegno militare aveva svuotato le casse imperiali e aveva portato a una condizione di continua irrequietezza di settori dell'esercito che faticavano a ricevere gli stipendi; infine le tensioni religiose avevano reso difficili i rapporti sia con la cristianità occidentale sia con le regioni che, ai confini con l'Impero persiano, avevano conservato posizioni monofisite condannate dai concili del V e VI secolo. Sul piano militare, una svolta significativa fu segnata dal regno di Eraclio (610-641), che si affermò sull'Impero persiano fino a eliminarne di fatto la minaccia per Bisanzio; ma questa vittoria fu la premessa per l'affermazione del dominio islamico. Se quindi i successi militari di Eraclio ebbero di fatto breve durata, sotto il suo regno si avviò una lunga riforma destinata a mutare completamente le forme organizzative dell'Impero sia sul piano militare sia su quello civile, introducendo il cosiddetto ordinamento tematico. L'Impero bizantino, nei primi secoli di vita, aveva conservato alcune scelte fondamentali dell'età romana e in particolare la netta separazione tra potere amministrativo e potere militare e dall'altro un esercito stipendiato grazie alle tasse prelevate soprattutto nelle grandi province cerealicole. La riduzione territoriale e la costante pressione militare suggerirono agli imperatori di attuare in specifiche regioni una forte concentrazione di truppe e di attribuire pieni poteri amministrativi ai comandanti militari. Si abbandonò il complesso sistema provinciale organizzato da Costantino, in favore di un'organizzazione per temi: la parola thema, che in origine si riferiva a un corpo militare, passò a indicare una struttura istituzionale, il complessivo inquadramento di una piccola regione. Al suo interno, la difesa fu affidata a militari di professione, il cui mantenimento non era però garantito da uno stipendio, ma dalla concessione di terre e di esenzioni fiscali. Fu una trasformazione lenta e profonda, avviata da Eraclio ma compiuta dai suoi successori lungo il VII e l'VIII secolo, in conseguenza soprattutto delle conquiste islamiche: fu infatti la perdita delle grandi province cerealicole dell'Egitto e della Tunisia a rendere impraticabile il sistema tradizionale romano. Qui si situa un duplice mutamento: da un lato la potere che facevano capo ai due imperi, un'opposizione che trovava espressione evidente nell'Europa orientale, area su cui entrambi gli imperi cercavano di imporre la propria egemonia. Oggetto delle pressioni concorrenti dei due imperi (e delle chiese di Roma e Costantinopoli) furono in particolare gli Slavi, un mondo variegato e frammentato, per cui la definizione unitaria di «Slavi» è senza dubbio una semplificazione. Si trattava di un insieme complesso di popoli, con alcuni caratteri culturali e linguistici comuni, che in alcune fasi trovarono forme di ampio coordinamento politico. Due sono le dominazioni da ricordare, i Bulgari e la cosiddetta Grande Moravia. I Bulgari esercitarono una pressione militare sui confini imperiali lungo l'VIII secolo per poi subire un processo di assimilazione religioso-culturale nella seconda metà del IX; ma i decenni successivi furono segnati una ripresa dell'azione militare contro l'Impero, che nei primi anni del X seco to culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace largamente favorevole ai Bulgari, con un accordo matrimoniale; il patto fu però cancellato dall'affermazione a Costantinopoli di un nuovo imperatore, Romano Lecapeno, e il potere dei Bulgari declinò dopo la morte del khan Simeone. Al contempo però, tra IX e X secolo, andò affermandosi la Grande Moravia, un dominio esteso tra i territori delle attuali Germania, Boemia e Ungheria, che arrivò a coordinare molte popolazioni slave, per poi dissolversi nel corso del X secolo. Queste diverse dominazioni slave si orientarono in questi secoli verso il Cristianesimo, che offriva un riferimento religioso forte ma anche un modello di organizzazione e gerarchizzazione della società e una nuova legittimazione del potere regio che era visto come una derivazione divina. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma ne temevano alcune implicazioni politiche, ovvero che la conversione implicasse una sottomissione a uno dei due grandi imperi cristiani; non è quindi casuale che oscillassero tra Roma e Costantinopoli e spesso si orientassero verso il patriarcato più lontano, meno minaccioso. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: negli anni centrali del IX secolo operarono nelle terre slave due fratelli missionari, Costantino e Metodio, esperti conoscitori della lingua slava, che crearono una grafia apposita per rendere fedelmente i suoni di questa lingua (la scrit ura glagolitica, da cui derivò quella cirillica). Con questa scrittura poterono tradurre i principali testi sacri e liturgici e di fatto avviare un processo di profonda assimilazione culturale delle popolazioni slave, che rientrarono nell'orbita di influenza di Bisanzio. Ebbe caratteri profondamente diversi la rinnovata pressione bizantina verso l'Italia, area in cui il IX secolo segnò un doppio mutamento: da un lato il neonato Impero carolingio attirò nella sua orbita i territori bizantini del centro-nord; dall'altro la conquista islamica della Sicilia privò l'Impero della sua principale base fiscale. Nel momento in cui salì al potere la dinastia dei Basilidi, la presenza bizantina in Italia sembrava quindi destinata a scompari re o a divenire del tutto marginale. Basilio I reagì a questa tendenza, ma al contempo dovette fare i conti con la realtà: non poté intervenire in modo significativo né nella Sicilia islamica, ma cercò invece di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio con trollo tra Puglia e Calabria. Fu un rafforzamento militare ma anche un riordinamento amministrativo; dal punto di vista territoriale, invece, fu un’azione molto limitata: oltre ai domini diretti carolingi, anche Venezia, Ravenna, Roma, Benevento e la Sicilia islamica restarono al di fuori della portata dei sovrani bizantini. CAPITOLO 5. SOCIETÀ, E POTERI NEL X SECOLO: I territori già compresi nell'Impero carolingio nel X secolo seguirono percorsi divergenti ma coerenti: divergenti, perché i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche; coerenti, perché le principali linee di tendenza furono comuni. Per l'Impero carolingio si ripropone infatti lo stesso rischio dell'Impero Romano; indubbiamente nel X secolo vediamo tramontare definitivamente la struttura imperiale unitaria che aveva rappresentato un’intelaiatura politica, istituzionale e culturale che attraversava gran parte dell'Europa occidentale; non si tratta quindi di negare questo declino, ma di rileggerlo cercando soprattutto le novità, i meccanismi di costruzione del potere e della società che nel X secolo assunsero forme oggettivamente nuove. Nello specifico caso italiano, i secoli X e XI sono spesso visti come un periodo di declino dell'ordinamento carolingio o come preparazione dell'età comunale; il nostro intento è quello di mettere in rilievo i peculiari funzionamenti di questa fase, in cui gli elementi residui dell'ordinamento carolingio si unirono con una liberissima sperimentazione di forme di potere totalmente nuove. I mutamenti dei poteri comitali: L'Impero non crollò sotto il peso di massicce invasioni militari dall'esterno, ma mutò natura dell'interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e soprattutto per un cambiamento capillare dei comportamenti politici dell’aristocrazia e delle chiese. Tra fine IX e la metà del X secolo le terre dell’Impero furono colpite da nuove minacce militari, ma questa nuova mobilità militare si comprendere solo alla luce dell'indebolimento regio e della nuova autonomia delle forze locali: in altri termini, le incursioni non furono la causa della crisi dell'Impero, ma ne furono piuttosto la conseguenza, furono rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. A partire dalla metà del IX secolo le divisioni dell'Impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia. Questi rapporti avevano assunto sotto Carlo Magno una duplice veste, con la convergenza attorno al re di rapporti vassallatici e incarichi funzionariali. Era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione: i servizi (militari, di governo) che i grandi garantivano al re, e la redistribuzione di ricchezze (benefici feudali, funzioni prestigiose, cariche ecclesiastiche ecc.) che il re operava in favore degli aristocratici. Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò perché si ridusse in modo sensibile la capacità redistributiva dei re: le grandi espansioni territoriali di Carlo Magno erano da tempo terminate, i re non potevano più disporre di un continuo afflusso di nuove terre, popoli da governare, bottino, prigionieri, ovvero di tutte quelle risorse che Carlo aveva potuto concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà. Al contempo, proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell'appoggio militare aristocratico e che i più grandi gruppi parentali fossero spesso contesi tra i diversi re: famiglie di questo livello avevano infatti patrimoni e relazioni parentali in tutta Europa e potevano rientrare nelle clientele vassallatiche dell'uno o dell'altro re. In sostanza, nella contrattazione politica tra i re e i grandi aristocratici, l'equilibrio si era spostato in favore di questi ultimi: i re avevano un grande bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarlo, per cui furono più disposti (o costretti) a cedere alle loro richieste; e ciò che più di tutto i funzionari chiedevano era la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. A partire dagli ultimi decenni del IX secolo i singoli funzionari restavano sempre più a lungo nella propria sede e spesso trasmettevano la propria funzione a un figlio; questo processo fu accompagnato da un mutamento nella natura stessa della funzione, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. Abbiamo ricordato come i conti e i marchesi fossero sia funzionari del re sia suoi vassalli: in piena età carolingia, appariva chiaro che essere vassallo del re era cosa ben diversa da essere un suo funzionario. Ma non così nei decenni successivi: da un lato che la carica di conte era un servizio in favore del re, ma era anche un'opportunità, una risorsa politi ca ed economica; e dall'altro lato che i re, più deboli dei loro predecessori, non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e si appoggiavano soprattutto sui legami personali, sulle clientele vassallatiche. Perciò le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici: il conte era anche vassallo. Solo all'inizio dell'XI secolo vediamo comparire nelle fonti l'affermazione esplicita che una carica comitale era concessa in beneficio, ma già nei decenni precedenti la distinzione sembra perdere chiarezza e si assiste a un'evoluzione parallela dei legami vassallatici e de gli incarichi funzionariali. In questo quadro va inserito il capitolare di Quierzy-sur-Oise dell'877, una legge ingiustamente famosa perché di fatto Carlo il Calvo non deliberò nulla di rivoluzionario; dal testo della norma possiamo cogliere quale fosse la prassi politica diffusa: ciò che Carlo definì era solamente una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il contre morisse mentre il figlio era impegnato in una spedizione con l’imperatore. Sostanzialmente, si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata ai parenti del conte, ai suoi funzionari, al vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale. È importante sottolineare proprio questa idea di provvisorietà delle soluzioni proposte, perché è direttamente connessa al rivendicazione da parte dell'imperatore del suo diritto di scegliere chiunque egli volesse come nuovo titolare del comitato. Ma il passaggio più significativo è forse costituito dalle prime parole del passo: se il figlio del conte non avesse seguito l'imperatore in Italia, sarebbe toccato naturalmente a lui prendere la gestione del comitato alla morte del padre. L'imperatore rivendicava il diritto di nominare poi un altro detentore stabile della carica, ma appare chiaro che nella prassi del tempo che il successore naturale di un conte era sempre il figlio, a meno che ne fosse impedito; nelle ultime righe del brano, quando si stabilisce che i fedeli del re, dopo la sua morte, potranno ritirarsi a vita religiosa («rinunciare al mondo») trasmettendo le proprie funzioni a un figlio o un parente capace di servire lo stato. Al contempo è importante notare un passaggio breve ma significativo in cui, al termine delle disposizioni relative ai conti, Carlo aggiunge che «ugualmente dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli»: conti e vassalli non erano la stessa cosa, si conservava con piena chiarezza la distinzione dei due piani; ma l'evoluzione degli incarichi di ufficio e quella dei rapporti vassallatici viaggiavano parallele, facevano parte dello stesso ampio processo di ridefinizione dei rapporti tra il re e i grandi che si raccoglievano attorno a lui. Abbiamo visto che anche i conti dell'età di Carlo Magno erano potenti e ricchi di terre, ma andavano a svolgere funzioni di governo in regioni lontane da quelle del proprio radicamento patrimoniale: potenza dinastica e potere funzionariale restavano due elementi distinti, sia sul piano concettuale, sia su quello geografico (si era ricchi in un posto, si era conti in un altro posto, spesso molto lontano). Tra la fine del IX secolo e l'inizio del X vediamo invece come la lunga durata delle cariche e la loro trasmissione ereditaria mutarono profondamente le politiche di queste dinastie, favorendo il loro radicamento nelle regioni governate: la fa miglia comitale acquisiva terre, fondava chiese e stringeva legami matrimoniali all'interno del distretto che governava, e così la funzione comitale e la potenza dinastica si fusero convergendo stessi spazi. Fu un generale processo di regionalizzazione delle aristocrazie, sia perché i quadri politici generali erano ora di respiro più, sia perché – anche all'interno di questi regni più ridotti - gli interessi di una famiglia aristocratica tendevano a concentrarsi in ben specifiche regioni. Ma questo comportò un ulteriore mutamento, dato che, nel momento in cui il conte era anche un grande proprietario all'interno del comi-tato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più presente nelle aree in cui disponeva di terre, chiese, castelli e vassalli, ed era assai più distaccato dalle zone in cui analoghe concentrazioni patrimoniali erano nelle mani di altre dinastie e chiese. In alcuni casi questo «astensionismo» dei conti da alcuni settori del comitato aveva un validissimo motivo giuridico, quando riguardava le terre delle chiese immunitarie: i diplomi di immunità imponevano infatti agli ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese e questo certo suggeriva al conte una politica astensionista, un allontanamento da queste aree per concentrarsi sulle zone in cui il suo intervento era più facile e più promettente. Sul lungo periodo questi comportamenti portarono alla formazione di poteri locali, ma già nel X secolo si constata come il territorio del comitato non fosse tutto uguale, ma fosse il campo di affermazione di diverse chiese e dinastie, che fondavano la propria potenza prima di tutto sul possesso fondiario. Tra queste dinastie, la famiglia comitale spiccava per rilevanza, per legittimità e spesso per ampiezza del patrimonio, ma anche i conti erano specificamente attenti a quei settori del territorio in cui si concentravano i loro possessi. Possiamo cogliere alcune implicazioni di questo processo attraverso un diploma concesso a un conte nel 940: Il conte Aleramo ottiene qui sia un grande possesso (la corte di Foro), sia il pieno potere pubblico sul villaggio di Ronco. Entrambi i villaggi sono posti all'interno della circoscrizione governata dallo stesso Aleramo, su cui già disponeva del pieno potere, ma da questo momento questi diritti giurisdizionali saranno suoi non in quanto funzionario delegato dal re, ma come parte a tutti gli effetti del suo patrimonio: se anche in futuro il re imporrà un altro conte al suo posto, il potere giurisdizionale su Ronco resterà nelle mani di Aleramo e dei suoi eredi. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu - soprattutto in Italia - la formazione dei poteri vescovili sulle città: fu un'evoluzione fondamentale sia per la storia delle chiese, sia per l'elaborazione delle capacità politiche delle comunità cittadine italiane; ma qui ci interessa soprattutto per mostrare come il potere dei conti fosse discontinuo, con aree di forza e di debolezza, e con un'assenza pressoché totale dei conti in alcuni settori del territorio. L'esito generale - con miriadi di varianti locali - fu quindi un cambiamento strutturale sia nel legame tra il regno e le realtà locali, sia nel rapporto tra aristocrazia e territorio, e più in specifico tra i grandi funzionari regi e i distretti loro affidati. Tutte queste evoluzioni ci mostrano chiaramente un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori: appare tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re e del suo apparato ed in questo contesto che dobbiamo situare le nuove minacce armate che colpirono l'Europa occidentale dalla fine del IX secolo. Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni: Il periodo compreso tra gli ultimi decenni del IX secolo e la metà del X fu segnato da un'intensa mobilità di gruppi armati che dall'esterno dell'Impero carolingio partirono per una serie di incursioni e saccheggi nelle ricche terre dell'Italia, della Francia e della Germania, oltre ad una lunga opera di conquista dell'Inghilterra. La crisi del potere carolingio alla fine del IX secolo fu prima crisi della capacità imperiale di controllare militarmente territori e lasciò quindi campo aperto a iniziative di piccole bande che - per terra o via mare- compivano incursioni più o meno rapide, con intenti di saccheggio. Queste bande, per quanto agissero in modo autonomo e disordinato, possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: i Normanni, provenienti dalla Scandinavia; gli Ungari, insediati nelle steppe dell'attuale Ungheria; e i Saraceni, bande di pirati attivi in diversi punti del Mediterraneo. o I Saraceni rappresentano sicuramente il gruppo dai contorni più indefiniti e sfuggenti: se tradizionalmente erano identificati come pirati Saraceni islamici provenienti dalle coste meridionali del Mediterraneo, negli ultimi decenni è stata pesantemente messa in dubbio una così chiara identità etnica e religiosa. Ci troviamo probabilmente di fronte gruppi etnicamente impegnati in attività di saccheggio via mare, con incur ioni attestate partire dagli anni '60 del IX secolo; ma alla fine del secolo compirono un salto di qualità importante, con la costituzione di basi permanenti sulle coste settentrionali del Mediterraneo, tra cui la più nota era Fraxinetum, nella baia di Saint- Tropez, da cui partirono una serie di spedizioni di saccheggio nell'entroterra e sulle Alpi, che cessarono solo dopo 972. Non fu quindi un tentativo di espansione territoriale, ma l'accentuarsi di una pirateria marittima endemica. Resta però assai difficile leggere l'effettiva consistenza e ampiezza dell'azione saracena: le fonti che la descrivono sono costituite esclusivamente dalle narrazioni prodotte nelle chiese e nei monasteri che subirono razzie, testi che tendono a mettere in rilievo i danni, le violenze e il terrore che provocavano. Proprio la paura è il dato di fondo che dobbiamo sottolineare: non sempre è chiaro se effettivamente un singolo episodio di saccheggio sia stato reale; ma certamente nella prima metà secolo era diffusa la paura e le fonti delle chiese mostrano in modo indiscutibile come fosse chiaramente percepita l’insufficienza della difesa militare contro bande violente in grado di muoversi con notevole libertà nei territori meridionali dell'Impero carolingio. (marchesi di Ivrea) o gli Albertini (marchesi di Tuscia), E ancora, dopo la morte di Lamberto e la sconfitta di Ludovico, furono settori della grande aristocrazia italica a chiamare in gioco un nuovo aspirante re, offrendo la corona a Rodolfo di Borgogna. La politi-ca italiana restò quindi polarizzata attorno a diversi pretendenti al trono: Berengario e Rodolfo fino al 924, con l'uccisione di Berengario che però non lasciò campo libero a Rodolfo, che si trovò a scontrarsi con Ugo di Provenza, che lo sconfisse e lo costrinse a tornare in Borgogna nel 926. Il regno di Ugo segnò un quanto meno di relativa continuità del potere regio: tenne la corona fino al 946, quando lasciò il regno italico al figlio Lotario, che dovette convivere sempre con il forte potere del marchese d'Ivrea Berengario. Anche la morte di Lotario (950) e il passaggio della corona a Berengario Il non posero fine alle tensioni perché crebbero le ambizioni egemoniche del re Germania Ottone I, che prima scese in Italia e impose la propria egemonia a Berengario; poi, una volta rafforzato il proprio potere in ambito tedesco, affermo il proprio pieno e diretto controllo sul regno italico, unendo i regni di Germania e Italia. Germania: L'ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che mori nel 911, lasciando aperto lo spazio politico per l'affermazione di re. Si impose un principio elettivo, per cui il nuovo re era scelto dall'insieme dei duchi: ma tale principio dovette sempre convivere con le tendenze dinastiche, ovvero con la volontà di grandi famiglie aristocratiche di appropriarsi della corona in modo permanente. Tutta la storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell'ottica della convivenza tra potere principesco e potere regio, e quindi tra principio elettivo e principio dinastico: il re, nelle fasi di maggior forza, era in grado di imporre il proprio figlio come successore; ma nei momenti di debolezza regia o di crisi dinastica tornava in primo piano il principio elettivo, ed erano quindi i grandi principi a stabilire chi dovesse prendere la corona. Nel 911, alla morte di Ludovico, fu scelto come re uno dei grandi duchi, Corrado di Franconia, ma il suo regno fu costantemente minacciato dall'ostilità di alcuni settori della grande aristocrazia. Principale avversario di Corrado fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse a un accordo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re nei domini del duca sassone. Di fatto questo accordo tra i due principi più potenti del regno fu premessa per l'ascesa di Enrico al regno nel 919, quando alla morte di Corrado l'aristocrazia tedesca scelse il duca di Sassonia come nuovo re. Da quel momento in avanti per più di un secolo la corona si trasmise all'interno della dinastia dei duchi di Sassonia, prima direttamente di padre in figlio, poi a un cugino, Enrico II. Il dominio dei re sassoni ampliò rapidamente i propri orizzonti: nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia (la fascia intermedia tra Germania e Francia), ma l'ampliamento più rilevante fu sicuramente la conquista del regno d'Italia, attuata dal figlio. Ottone I, a partire dal 951. L'azione di Ottone si situò in un contesto particolarmente complesso: da un lato le divisioni interne all'aristocrazia italica, tra chi sosteneva Berengario e chi si richiamava alla potente regina Adelaide, vedova di Lotario: dall'altro la posizione di Berengario, che negli anni precedenti si era posto sotto la protezione di Ottone; e infine i conflitti tra lo stesso Ottone e il figlio primogenito Liutdolfo che ambiva ad affermare il proprio potere personale sull’Italia. L'intervento di Ottone in Italia fu quindi l'affermazione sia della sua protezione della regina vedova (che Ottone sposò a Pavia nel 951), sia della sua superiorità su Berengario II; ma al contempo le tensioni tra Ottone e il figlio si trasformarono in un vero e proprio conflitto. Questo progetto non si poté attuare immediatamente proprio perché il re dovette impegnarsi a condurre il difficile scontro con il figlio in Germania, dove Liutdolfo aveva cercato di riunire i grandi del regno al suo seguito. Il quadro politico italiano fu quindi temporaneamente pacificato con il riconoscimento di Berengario II e del figlio Adalberto come re sottoposti a Ottone, che assunse il controllo diretto del nord-est della penisola; Ottone si concentrò poi nel conflitto politico militare contro il figlio, che si risolse a suo favore solo nel 954, con un atto di sottomissione da parte di Liutdolfo. La pacificazione interna al regno e l'accresciuto controllo sull'aristocrazia furono le premesse per la grande vittoria di Lechfeld del 955, con cui Ottone mise fine alla minaccia delle incursioni ungare e affermò con evidenza la sua condizione di massimo potere politico-militare dell'Europa di tradizione carolingia. Su queste premesse nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia, prendere direttamente possesso del regno e ottenere a Roma la corona imperiale, che poteva pretendere proprio in quanto detentore del regno d'Italia e quindi effettivo protettore della Chiesa di Roma. Da questo momento in avanti si definì un quadro istituzionale che si mantenne sostanzialmente stabile per il resto del medioevo, con l'Impero costituito dall’unione dei regni fi Germania e Italia (ai quali si aggiunse nel 1034, il regno di Borgogna). Il re di Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva poi scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. A partire da Ottone, si affermò una vera e propria dinastia regia: la famiglia sassone poté condizionare in modo determinante le scelte dei duchi sia nel 973, alla morte di Ottone I (che aveva associato il figlio Ottone II al trono garantendogli così la successione), sia nel 983, quando Ottone II lasciò il regno a Ottone III, di soli tre anni, che fu riconosciuto re dall'aristocrazia ducale. Se quindi si ripropose una continuità familiare, come in età carolingia, dobbiamo notare due differenze importanti: prima di tutto la successione al trono avveniva all'interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso una forma di elezione: inoltre, fu più chiara un'idea di linea dinastica, di successione a vantaggio esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. Questa convergenza attorno agli Ottoni si comprende meglio se considera com'era costituita la cosiddetta aristocrazia ducale: la forza di Ottone I e del figlio si espresse infatti nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parentale. nominando come duchi i cugini, i cognati e i generi del re. Si delineò un sistema di potere estremamente solido, con una piena occupazione dei ruoli di potere nel regno da parte di un unico gruppo parentale, sotto la guida della linea dinastica costituita dai re. Le cose cambiarono con Enrico Il che, come abbiamo visto, apparteneva a un ramo collaterale della famiglia, e che promosse l'ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici, non appartenenti al gruppo parentale regio. La fondamentale continuità politica che segnò il potere degli Ottoni lungo la seconda metà del secolo subì però un mutamento rilevante sotto Ottone III, che pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum: il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di elementi tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina (la madre di Ottone III, Teofano, era una principessa bizantina), al fine di esprimere un'idea imperiale modellata in riferimento non solo all'età carolingia, ma soprattutto a quella romana. Il riferimento a Roma non era solo un richiamo al passato, ma una precisa volontà di intervento nel presente: nel 996 mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona imperiale, lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV: Ottone impose come papa un proprio cugino, Bruno di Worms, che di venne Gregorio V e pochi mesi dopo incoronò Ottone imperatore. La nomina di Gregorio fu un fatto del tutto nuovo perché il nuovo papa proveniva da Oltralpe, dall'aristocrazia tedesca. La novità fu tanto più radicale se si considera che, dopo il declino dell'Impero carolingio, l'aristocrazia romana nel X secolo aveva avuto il pieno controllo dell'elezione papale; non a caso i Romani si ribellarono duramente all'elezione di Gregorio, tanto che dovette intervenire militarmente lo stesso Ottone nel 998n per sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e insediare Gregorio. L’anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d'Aurillac, che assunse il nome di Silvestro Il a richiamarsi direttamente al papa che aveva battezzato Costantino e che aveva quindi posto le basi dell'Impero cristiano. Queste due nomine sono una testimonianza importante degli ideali politici che guidavano l'azione di Ottone III e della nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell'Impero, tanto che lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città. Ma le nomine di Gregorio e di Silvestro indicarono anche una possibile evoluzione del papato: pontefici di alto livello intellettuale, svincolati dalle feroci lotte di potere interne all'aristocrazia cittadina, avrebbero potuto consentire una crescita del papato sia sul piano ecclesiastico, sia su quel la culturale, sia infine nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Ma questa prassi di nomina imperiale di papi d'Oltralpe non ebbe seguito, e solo dalla metà del secolo successivo, con l'affermarsi dei movimenti i formatori. il papato poté cambiare la propria fisionomia, Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente all'interno dello stesso gruppo parentale, con l'ascesa al trono del cugino Enrico II, che si mosse in direzioni parzialmente diverse rispetto ai predecessori, dando spazio a nuovi gruppi aristocratici che ascesero alle cariche ducali. Ma dal punto di vista italiano questo ebbe implicazioni diverse: poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell'Italia settentrionale si raduno a Pavia per incoronare re d'Italia Arduino, marchese di Ivrea. La vicenda di Arduino sul trono fu assai veloce: dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico nel 1004 e si ritirò nelle aree da lui direttamente controllate, lasciando il regno nelle mani del re sassone. Non fu una sconfitta definitiva, e la successiva lontananza di Enrico dall'Italia lasciò spazio ad Arduino per ricostruire una rete di solidarietà e alleanze: solo nel 1014 una nuova discesa in Italia di Enrico pose fine alla vicenda di Arduino che si ritirò in monastero e poco dopo morì. L’ elezione di Arduino rese visibile una tensione sotterranea, ovvero una ricorrente volontà dell'aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re; così avvenne anche negli anni successivi, quando alcuni settori dell'aristocrazia italiana cercarono altrove un nuovo re, contattarono ad esempio un grande principe francese. Guglielmo d'Aquitania, per offrirgli la corona. I decenni attorno al Mille andarono quindi a definire, nei regni di Germania e d’ Italia, un duraturo equilibrio tra regno e aristocrazia. Francia: Come in Italia e in Germania, anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno, e una svolta fondamentale fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso, nell'888, che lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: prese infatti il potere il conte Oddone di Parigi con cui iniziò un'instabilità politica che segnò i successivi decenni. Anche qui si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche del regno, ma un primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni settori dell'aristocrazia scelsero infatti di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nell'893 e si contrappose a Oddone, la cui morte, nel 898, rese Carlo unico re di Francia. Fu un re debole, che, come abbiamo visto, poté frenare le incursioni normanne solo concedendo a Rollone un ampio settore del regno; e la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. Il cambiamento più profondo fu costituito dal diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi: regioni come la Borgogna, la Champagne, l'Aquitania o l'Anjou si organizzarono attorno ad altrettante dinastie di conti e duchi, detentrici dei domini territoriali non molto diversi dal dominio regio; anzi, il territorio effettivamente dominato dai re non era certo più grande dei vari principati. Negli anni successivi l'aristocrazia francese pose sul trono prima Roberto di Neustria (fratello di Oddone), poi Rodolfo di Borgogna (genero di Roberto): si scelsero i re all'interno del gruppo parentale derivante da Oddone (quelli che identifichiamo come i Robertini), ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio del re Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l'idea di una vera e propria dinastia regia. In questi decenni i grandi principi di Francia, liberi dal peso condizionante del carisma regio carolingio, cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re; ma al contempo nessuno poteva ignorare la presenza forte e ingombrante di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca, ovvero i Robertini. Era un equilibrio delicato, come fu evidente nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna: Ugo il Grande, nonostante la sua potenza, scelse di non imporre la propria elezione a re e preferì far tornare dall'esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987. La scelta di Ugo può sembrare una rinuncia, ma fu probabilmente un segno di realismo: se la forza dei Robertini era notevole, es si non erano certo gli unici potenti del regno. Le dinastie principesche rappresentavano i principali attori politici del regno e Ugo, rinunciando a rivendicare la corona e lasciando spazio ai carolingi evitò probabilmente di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri principi, fatto che avrebbe sicuramente suscitato la loro ostilità. I Carolingi che salirono al trono lungo la seconda metà del secolo X non furono certo dei re-fantocci, ma fu la costruzione dell'egemonia dei Robertini il processo che segnò i meccanismi politici del regno di Francia, che culminò nel 987 con l'ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la dina stia capetingia, che conservò la corona di Francia fino al 1328. Il 987 è tradizionalmente considerata una data chiave della storia francese, momento fondativo della monarchia nazionale: si chiuse una lunga fase storica (con la fine della dina stia carolingia) e se ne aprì un'altra ancor più lunga, con la piena affermazione dei Capetingi. Ma deve anche essere chiaro che l'ascesa al trono di Ugo Capeto, resa possibile da una contingente crisi dinastica carolingia, con la morte senza eredi di Ludovico V, fu l'esito di un lungo processo di affermazione della dinastia ai vertici del regno avviato con la massima evidenza un secolo prima, quando il conte Oddone di Parigi era stato incoronato re alla morte di Carlo il Grosso. Nel X secolo la corona fu a lungo nelle mani degli ultimi Carolingi, ma i Robertini espressero un potere analogo a quello regio e furono senza dubbio la dinastia principesca che con maggior forza si mosse in un orizzonte politico che comprendeva l'intero regno. La transizione del 987 non modifico radicalmente i funzionamenti del potere, ed elementi di continuità si riscontrano anche nei decenni seguenti: lungo il secolo XI il potere regio conservò un duplice carattere di forza egemone e di forza regionale, un principato territoriale non molto diverso dalle altre dominazioni in cui si articola il territorio francese. Ma soprattutto non furono i re a creare la struttura politica locale o a imporre modelli di ordine politico: è sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono nuovi funzionamenti politici e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che in larga misura facevano a meno del re. Ai margini del mondo carolingio: Se l'Impero si articolò in quattro dominazioni principali, processi di costruzione del potere regio si realizzarono anche in aree poste al di fuori degli antichi confini dell'Impero, e in particolare in Inghilterra e in Spagna. La tradizione politica inglese lungo l'alto medioevo vedeva un'alta frammentazione politica, che solo a fatica si era organizzata, tra VII e VII secolo, in un numero relativamente ridotto di regni e in una discontinua e incerta egemonia del regno di Mercia, soprattutto sotto la guida del re Offa, alla fine dell'VIII secol. Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, che alla fine del secolo si trasforma in un dominio stabile sull'area centro-orientale; dall'altro lato una crescente egemonia del Wessex, regno posto nella parte sudoccidentale dell'Inghilterra, che riuscì a lungo a conservarsi autonomo dall'espansione normanna. Il culmine fu il regno di Alfredo il Grande (871-899), che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Ma questa fase non segnò l'inizio di uno stabile dominio unitario sull'Inghilterra centro-occidentale: alla morte di Alfredo sali al trono il figlio Edoardo (899.924), ma il fatto che i potenti inglesi lo accettassero come re non implicò che gli riconoscessero tutti i poteri che aveva accumulato il padre: Edoardo dovette quindi rifondare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Ma di nuovo si tratto di un'unione precaria, legata alla personale capacità di dominio del re, alla cui morte (924) i destini di Mercia e Wessex si separarono di nuovo. Per tutto il X secolo non si può parlare di un regno inglese unitario, ma ancora di una pluralità di regni che a tratti si legavano e si staccavano con una discontinua egemonia di singoli re sul territorio. Fu solo all'inizio del secolo XI che si costituì infine un regno inglese unitario: fu infatti il re norvegese Knut che nel 1016, partendo dai domini normanni dell'Inghilterra orientale, arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e quindi su tutti i principali regni inglesi; ma non solo: Knut controllava infatti al contempo i regni di Danimarca e Norvegia. Questo immenso potere di Knut non ebbe seguito, ma due elementi della sua vicenda ebbero esiti di lungo periodo: da un lato preghiere di uomini santi; al contempo, non fu un elemento politicamente destabilizzante, ma fu pienamente parte del sistema aristocratico di dominazione: era un'abbazia ricca e potente, alleata dei principi e della grande aristocrazia. Per tutti questi motivi, nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono una grande fama e già il secondo abate, Oddone (927-942), fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose. Gli interventi di Oddone incontrarono spesso delle resistenze nelle diverse comunità monastiche, attente a difendere la propria autonomia: molte abbazie riformate da Oddone non conservarono un legame con Cluny nei decenni successivi. Ma in questa capacità di Cluny di rinnovare la vita religiosa in altri monasteri possiamo cogliere gli inizi di quello che di venterà il connotato più specifico e innovativo del monachesimo cluniacense, ovvero la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall'abbazia borgognona; una congregazione, un insieme di enti religiosi che riconoscevano tutti la propria guida nell'abate di Cluny. La congregazione fu composta in parte da antiche abbazie che si sottoposero al controllo di Cluny per rinnovare la pro pria vita spirituale e consolidare la propria disciplina: fu la costituzione di nuovi enti monastici che non erano abbazie, ma priorati. Il vertice di un monastero era l'abate, assistito dal priore: in questi nuovi enti monastici l'abate non c'era, perché l'unico abate era quello di Cluny. Molti aristocratici del X e soprattutto dell'XI secolo, quando vollero fondare un ente monastico che garantisse con le sue preghiere la salvezza delle loro anime, scelsero di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato, sottoposto all'abate di Cluny e svincolato da qualunque controllo laico. Le basi della congregazione furono poste nel X secolo, con i lunghi abbaziati di Oddone e Maiolo e poi, a cavallo tra X e XI, di Odilone, abate dal 994 al 1049: in tutto questo periodo l'abbazia seppe acquisire un grande prestigio, anche grazie al suo legame con la sede papale, ma fu soprattutto lungo il secolo XI che i priorati cluniacensi si diffusero in larghi settori d'Europa, dalla Spagna alla Germania, all'intera penisola italiana. Di fatto, alla fine del secolo XI molte sedi monastiche in Europa si richiamavano direttamente a una dipendenza da Cluny, o esprimevano una forma di vita monastica profondamente influenzata dal modello cluniacense. Il punto di massimo trionfo di Cluny fu raggiunto negli ultimi anni del secolo XI: nel 1088, l'elezione al soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II, un papa importante, non solo per la storia di Cluny, ma anche per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica europea. A lui infatti si deve, nel 1095, la proclamazione della prima crociata, un fenomeno destinato a trasformare in modo importante i rapporti con il Mediterraneo, le strutture degli scambi commerciali e soprattutto l'identità sociale. Ma in parallelo alla crescita di Cluny il secolo XI fu segnato dall'emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, con una più netta ispira zione eremitica. Su questa linea si pose prima di tutto Romualdo che sulla base di precedenti esperienze eremitiche, attorno al 1023 fondo il monastero di Camaldoli (sugli Appennini toscani), dando vita a un movimento che, dopo la morte di Romualdo, trovò un punto di riferimento in Pier Damiani, un grande intellettuale, una delle guide dei movimenti riformatori. Modello per molti versi simile fu quello di Vallombrosa (non lontano da Camaldoli), fondato nel 1035-1036 da Giovanni Gualberto, già monaco benedettino: la comunità era nettamente e rigidamente isolata dal mondo, in una sorta di eremitismo collettivo. L’ elemento connotante di queste esperienze monastiche, non erano forme individuali di eremitismo, ma esperienze in cui la volontà eremiti ca si risolveva in una dimensione comunitaria. Il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido e troppo legato al mondo, e si operavano quindi scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. Il grande successo di queste esperienze ci segnala l'avvio di un lento cambiamento nella coscienza religiosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere: se la ricchezza dei monasteri altomedievali era vista come un segno tangibile del loro successo e quindi della loro santità, i due piani lentamente divergevano, attorno a un ideale di religiosità povera, priva di potere lontana dal mondo. Parallelamente a questa vivace dinamica di trasformazione del mondo monastico, mutò profondamente anche il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine e in generale con la società e i poteri circostanti. Fin dall'età i vescovi erano elemento strutturale del sistema di potere regio, come consiglieri e coadiutori del re. Con la fine dell'Impero e la crisi della capacità regia di controllo, la natura del potere vescovile muto, e si affermò il loro pieno controllo politico e sociale sul le città, fondato sui legami tra vescovo e società cittadina, sul progressivo allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche su specifiche concessioni regie. Proprio da questi diplomi regi dobbiamo partire, per comprendere gli equilibri che portarono all'affermazione di un pieno potere vescovile sulle città. Partiamo da un caso specifico, il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962: la concessione al vescovo Uberto è enorme in quanto Ottone gli assegnò tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città e per una fascia di tre miglia attorno, il potere giudiziario sugli abitanti della città. Di fatto, il vescovo di Parma assunse tutti i poteri già spettanti al conte; ma questo non significa che il vescovo assumesse le funzioni di conte: i poteri, infatti, non gli furono delegati, come faceva un re nei confronti dei suoi funzionari, ma gli furono concessi in piena e completa proprietà alla sede, in quella che, da un punto di vista strettamente giuridico, sembrerebbe una completa abdicazione regia, una totale rinuncia a esercitare il potere. Non è così, poiché la concessione a Uberto di Parma non fu un caso isolato: tra X e XI secolo, molti altri vescovi ricevettero diplomi simili con ampie concessioni di poteri giurisdizionali, trasferiti dal re alla proprietà della sede vescovile. Non fu una politica sistematica, ma certo fu una scelta adottata nel quadro di una politica imperiale molto pragmatica, pronta a sostenere di volta in volta il potente locale più favorevole agli interessi imperiali. Dal punto di vista regio, il senso politico di queste operazioni si coglie considerando i meccanismi di trasmissione del potere comitale: i conti avevano ormai abbastanza dinastizzato la propria carica, senza che il regno fosse concretamente ed effettivamente in grado di opporsi, ma certo il vincolo tra re e funzionari era indebolito. Dall'altra parte i re erano sicuramente in grado di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o al meno impedendo l'elezione di vescovi ostili. Perciò un re forte come Ottone I poteva intervenire, non cacciando il conte, ma riducendone l'autorità in favore del vescovo, che costituiva un potere affidabile per il re, che sapeva di poter contare su una rete di vescovi fedeli o comunque non ostili, un vescovo non poteva avere eredi legittimi, e quindi alla sua morte il re sarebbe potuto intervenire per nominare un successore più affidabile. Il potere del vescovo non era quello di un funzionario e formalmente non doveva rispondere al re, perché i poteri gli erano con cessi in piena proprietà, ma nella concreta dinamica politica affidare ampi poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace controllo della società locale. I vescovi erano uno strumento di potere efficace prima di tutto grazie ai loro profondi legami con la città e i suoi ceti eminenti: la plurisecolare solidarietà tra vescovi e cives assumeva contorni assai concreti, per ché le principali famiglie andavano a costituire sia il gruppo dei canonici (il clero che più direttamente assisteva il vescovo), sia la clientela vassallatica vescovile. Questi gruppi familiari fungevano quindi da raccordo tra vescovo e società e da guide della comunità cittadina, soprattutto sul piano militare. Non sorprende quindi che alcuni diplomi imperiali associno direttamente il vescovo ai concives, o che in alcuni casi gli imperatori concedessero due diplomi paralleli, uno per il vescovo e uno per i suoi concittadini: così, ad esempio, nel 1014 Enrico II confermò al vescovo di Savona tutti i suoi possessi, le chiese e i di ritti, minutamente elencati e in un diverso diploma, confermò i possessi degli uomini di Savona, tutelandoli da eccessive e pretese fiscali di conti e marchesi. Caso emblematico è costituito dagli arcivescovi di Milano, probabilmente la sede episcopale più potente dell'Italia del nord: gli arcivescovi nel secolo XI agirono alla guida della città e di un'ampia clientela vassallatica, con un rilevantissimo potere politico, pur senza ottenere mai dall'Impero un diploma che ratificasse tale potere. Le concessioni imperiali ai vescovi italiani si concentrarono nell'età dei re sassoni, da Ottone I a Enrico II (ovvero dal 961 al 1024), per poi attenuarsi nei decenni centrali del secolo XI, quando il rapporto tra l’Impero e i vescovi fu progressivamente coinvolto nei profondi muta menti legati alla Riforma. L'età ottoniana fu un periodo di intensa e continuativa azione imperiale sull'Italia e sul le sue chiese. L'azione imperiale perse efficacia nei decenni successivi, ma questi diplomi accompagnarono il definirsi di un equilibrio politico che ebbe un rilevante impatto nella storia delle città italiane, in quella simbiosi tra potere vescovile e comunità cittadina che condizionò pesantemente la formazione dei comuni cittadini.
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