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Il Medioevo: Inizio, Fine e Caratteristiche - Prof. Parmeggiani, Appunti di Storia Medievale

Una panoramica del Medioevo, dalla crisi dell'impero romano alla fine dei poteri papato e impero, con cambiamenti climatici, organizzazione sociale, nascita del falso, autorità papale, impero carolingio, caduta dell'impero romano d'occidente, città nell'alto medioevo, incontro tra barbari e romani, diffusione del cristianesimo, ascesa e crisi dell'impero carolingio, chiesa imperiale, battaglia di Carlo del 1214, conflitto tra papa Alessandro III e arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, elezione di Niccolò II, sacralizzazione del potere imperiale, pressioni fiscali, lega lombarda, sottomissione di Federico I al papa Alessandro III, disturbi mentali di Carlo VI e dinastizzazione delle cariche.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 11/03/2024

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Scarica Il Medioevo: Inizio, Fine e Caratteristiche - Prof. Parmeggiani e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Storia medievale Il Medioevo (da media era o media tempestas) è un’invenzione intellettuale moderna che in larga parte presuppone un’impostazione eurocentrica, gli uomini e le donne che vissero nelle regioni europee tra il V ed il XV secolo non ebbero mai la percezione di vivere nel medioevo. L’idea di medioevo vissuta nell’immaginario occidentale degli ultimi cinquecento anni è formulata nell’ambito di un forte pregiudizio negativo proprio dell’Umanesimo e del Rinascimento, è in realtà la crisi del ‘300 che ha connotato negativamente tutto ciò che ha preceduto questo periodo tanto che Vasari conierà il termine gotico proprio per riferirsi a ciò che è brutto, medievale, diverso dagli ideali di bellezza classici. In diversi momenti, però, il medioevo è stato rivalutato come un periodo capace di esprimere esperienze e valori positivi come testimonia l’attrazione che esso continua ad esercitare. Per un millennio le popolazioni non svilupparono l’idea di vivere in un’età e in uno spazio diversi da quello dell’Impero romano, ma piuttosto di essere nella continuità ininterrotta romana. A percepire la sensazione che l’età antica fosse ormi estranea alla società furono gli umanisti italiani del XIV e XV secolo, i quali formularono l’idea che un lungo intervallo di molti secoli li separasse dalla cultura degli antichi che essi avevano assunto a modello per promuovere una rinascita intellettuale. L’idea di un intervallo di 10 secoli che separava una decadenza da una rinascita, ancora prima di configurare una vera e propria media aetas, diventò poi una costante mentale suscettibile di assumere colorazioni diverse. Così, per i riformatori protestanti del 16° sec. la connotazione negativa fu rappresentata dalla corruzione, in una Chiesa imbarbarita, della vera religione, mentre per gli illuministi del 18° sec. la media aetas coincise con il trionfo dell’ignoranza e della superstizione. La cultura cattolica rispose alla polemica dei protestanti con una ricostruzione della storia della Chiesa fondata su documentazione storica originale, nel 1643 il gesuita belga Jean Bolland avviò ad Anversa il progetto di raccogliere a stampa le testimonianze scritte sulle vite dei santi (Acta sanctorum), successivamente Jean Mabillon pubblicò il De re diplomatica fondando su basi scientifiche lo studio della paleografia e della diplomatica. L’erudito francese Charles Dufresne Du Cange redasse il primo vocabolario del latino medievale, il Glossarium mediae et infimae latinitatis. Nel corso del ‘600 l’immagine negativa del medioevo fu sottoposta a revisione grazie al lavoro di Ludovico Antonio Muratori che diresse una imponente raccolta di cronache relative al periodo compreso tra il VI e il XVI secolo. Egli si rese conto che l’Italia condivideva una tradizione storica comune che si era formata non in età antica, ma nel medioevo e si dedicò a ricostruirne i tratti comuni servendosi non solo delle cronache ma anche di documenti d’archivio e componendo i Rerum italicarum scriptores e l’Antiquitates italicar medii aevi. L’inversione di tendenza si ebbe solo in età romantica, quando nella poesia epica medievale si cercarono i prodromi dell’identità delle moderne nazioni europee. Al tempo stesso, con un significativo mutamento del gusto, le cattedrali gotiche venivano celebrate come l’espressione più compiuta della spiritualità cristiana. L’interpretazione nazionalistica del medioevo si risolse nella ricerca degli elementi vincenti nella costruzione dell’Europa, se questa si era formata durante in medioevo, rivendicare il predominio di una popolazione sulle altre significava rivendicare la prevalenza di una nazione nella formazione e nell’identità dell’Europa. La riflessione sul ruolo dell’identità germanica nella civiltà europea fu sostenuta da una ricostruzione storica fondata sui documenti conservati negli archivi e nelle biblioteche. Se nella prima metà del XX secolo alcuni storici si impegnarono in interpretazioni coerenti o unitarie del medioevo tese a rivendicarne l’originalità (ex. Kantorowicz, Pirenne e la storiografia italiana del ‘900), nei decenni più recenti gli storici hanno rinunciato alle interpretazioni organiche del medioevo, privilegiando ricerche su singoli temi. La globalizzazione del mondo attuale induce, inoltre, a superare il punto di vista eurocentrico e ad aprirsi a considerare fenomeni come le migrazioni, le diaspore, le reti economiche e sociali, perciò il millennio del medioevo non è più studiato solo negli svolgimenti interni all’Occidente europeo ma anche nelle connessioni con altri mondi e con altre culture. Alle tendenze che dall’800 hanno diffuso un’immagine ideale e reinventata del medioevo si usa dare il nome di medievalismo, per distinguere la distanza che separa il medioevo indagato dagli storici da quello, ricco di luoghi comuni, che troviamo nei mezzi di comunicazione. La persistente connotazione negativa ribadisce la natura del medioevo come mera invenzione intellettuale. muovendo da presupposti che non pongano più l’Europa come punto focale d’analisi ma come una delle diverse realtà della storia, è possibile valorizzare le conoscenze specifiche della storia dell’Occidente medievale senza che questo significhi postulare la superiorità occidentale sulle altre culture. Difatti, pur mantenendo salda l’idea di una specificità della storia medievale come storia dell’Europa in formazione, essa non può prescindere da una collocazione in scenari spazio-temporali più ampi. La storia del medioevo prende origine proprio da una serie di rapporti fecondi incontri tra civiltà, in seguito alle cosiddette “invasioni barbariche” si rivelò determinante la funzione civilizzatrice del cristianesimo. L’Europa cristiana fece del Mediterraneo uno spazio di connessioni con le due grandi civiltà che si affacciarono sulle sue sponde tra il VII e l’VIII secolo, quella bizantina ortodossa e quella araba islamica che estese il suo dominio dalla penisola iberica al cuore dell’Asia persiana. Si assiste ad una serie di conflitti crescenti per il controllo delle risorse economiche nel Mediterraneo orientale e per l’accesso ai luoghi di culto della cristianità in Terrasanta. Non è possibile indicare una data precisa per dell’impero, decisiva fu la conversione al cattolicesimo, che rese i re protettori delle Chiese e delle popolazioni romane. Per via della crisi del sistema fiscale, furono i maggiori esponenti dell’aristocrazia barbarica ad assumere il controllo delle giurisdizioni territoriali col titolo di conti o duchi e col progressivo indebolimento del potere centrale, tali ufficiali fecero delle proprie prerogative pubbliche la base per la costruzione di autonomi poteri locali che gli storici chiamano “signorie”. Nello stesso periodo altre famiglie aristocratiche, non detentrici di cariche pubbliche, costruirono a partire dai propri possedimenti analoghi poteri di dominio politico: le signorie di banno o territoriali. La frammentazione signorile fu superata dalla ricomposizione territoriale avviata tra il XI e il XIII secolo da poteri monarchici affermatisi a partire da nuclei politici di origine carolingia o postcarolingia. Nel basso medioevo si assiste anche all’affermazione di autogoverni cittadini, i comuni, il cui status giuridico differenziato e il diritto di partecipare all’amministrazione urbana era legittimato dalle carte di franchigia o di comune. Soprattutto in Italia, i comuni raggiunsero un grado di piena autonomia politica. Nel medioevo si assiste al conflitto fra le tre grandi religioni monoteiste, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, appartenenti al ceppo comune risalente ad Abramo. Il cristianesimo si radicò nelle città, i ceti più umili individuarono in esso la speranza di riscatto della loro condizione. Fino all’XI secolo la cristianità non ebbe un capo, ogni chiesa era presieduta da un vescovo mantenendo un disegno orizzontale e paritario senza subordinazione gerarchica. Il vescovo di Roma era solo il vescovo più eminente in Occidente, in quanto successore di Pietro e condivideva il titolo di patriarca cin quelli orientali di Costantinopoli, Antiochia, Alessandra d’Egitto e Gerusalemme. Sedi di discussione riguardo le interpretazioni del vangelo erano i concili degli ecclesiastici, nel primo concilio di carattere universale, convocato a Nicea nel 325 dall’imperatore Costantino, fu definita l’ortodossia cattolica e vennero condannate le eresie, cioè le scelte dottrinarie diverse che le si opponevano, a cominciare dall’arianesimo. Nel XI secolo vi fu una variazione profonda, il papa promosse una ristrutturazione in senso gerarchico delle istituzioni ecclesiastiche, diventando il capo assoluto di tutta la cristianità cattolica sancendo il trionfo dell’universalismo pontificio su ogni autorità terrena. La riforma pontificia dell’XI secolo non fu accettata dalle chiese orientali portando allo scisma del 1054, da allora i cristiani d’Oriente si chiamarono ortodossi e quelli d’Oriente, che si riconoscevano nella figura del papa, cattolici. Il modello di chiesa vescovile non esaurì le esperienze di vita cristiana nel medioevo, si sviluppò anche il monachesimo, ovvero il distacco dal mondo e l’esperienza individuale (eremitica) o comunitaria (cenobitica) di ascesi spirituale che si diffuse dal IV secolo anche in Occidente. Sostenuto dal papato e dall’impero carolingio, il monachesimo fu fondamentale nell’evangelizzazione delle campagne, dove l’aristocrazia fondò monasteri maschili e femminili per corroborare la propria egemonia, anche di tipo signorile, sulla società rurale. Il fenomeno del monachesimo giunse al suo culmine nel XIII secolo co gli ordini mendicanti e la predicazione francescana, nello stesso periodo i laici cominciarono a riunirsi in confraternite, associazioni di confratelli dedite a pratiche di devozione e solidarietà e all’esercizio della carità. Il clero, invece, fu monopolizzato dalle èlites dell’impero e poi dalle aristocrazie medievali e i vescovi furono chiamati ad affiancare funzionari civili e, scomparso l’impero in Occidente, ad assumere il governo effettivo nelle città. l’imponente ruolo dei vescovi nella politica fu sancito dalla mediazione sacerdotale che i vescovi acquisirono nei rituali di sacralizzazione dei re e dalle funzioni pubbliche da essi assunte durante l’impero carolingio. Per questo motivo il clero fu un ordine sociale ricco e pieno di privilegi. Nel passaggio dall’antichità al medioevo, inoltre, si ridusse la capacità di scrittura e la memoria e la trasmissione del sapere si affidarono alla cultura orale di cui erano portatrici le popolazioni barbariche, per esempio a lungo il diritto fu dominato dalle consuetudines, cioè dalle tradizioni orali locali di organizzazione dei rapporti sociali e di risoluzione dei conflitti. Dal VI secolo alcune scuole cominciarono ad essere riattivate per la formazione del clero e, in rari casi, anche per i laici, ma la preponderanza delle istituzioni ecclesiastiche nel determinare la tradizione scritta fu assoluta fino all’XI secolo. Le invasioni barbariche condussero, progressivamente, alla morte del latino come lingua parlata e correlato a ciò è la messa per iscritto, ad un certo punto, di testi in lingua materna per necessità pratiche e per uso privato. In questo contesto originarono anche le prime letterature in lingua volgare come la poesia d’amore e la letteratura cavalleresca. Alcuni fenomeni che ebbero la propria genesi nel medioevo sono oggetto di interpretazioni controverse: -esiti dell’incontro fra la civiltà romana e quelle germaniche: sintesi che cominciò a maturare quando le stirpi germaniche fecero propria l’importanza del latifondo come base della potenza aristocratica, l’integrazione si realizzò nell’esperienza del regno dei franchi con i matrimoni misti e la convergenza degli stili di vita quello germanico prettamente militare e quello romano prettamente amministrativo. -il feudalesimo: concetto elaborato in età moderna per designare l’organizzazione sociale e politica del medioevo, l’interpretazione più recente separa i rapporti vassallatico-beneficiari dalla genesi dei poteri signorili e distingue due età feudali, la prima d’età carolingia, più propriamente vassallatica e centrata sull’elemento personale della fedeltà militare e la seconda, in cui le istituzioni feudali costituirono uno strumento di raccordo tra i sovrani e i signori territoriali. -nazioni: gli studiosi recenti mostrano che le popolazioni barbariche non costituissero enti coerenti e stabili, bensì aggregati tribali di varia origine in trasformazione secondo un processo di etnogenesi intorno a nuclei di tradizione e durante il fenomeno delle migrazioni. Mentre, la formazione di entità collettive di carattere nazionale fu l’esito di una progettualità politica e culturale e furono gli apparati istituzionali delle monarchie ad avviare la costruzione delle comunità nazionali e per questa via le nazioni divennero una componente strutturale della fisionomia politica e culturale dell’Europa. La risorsa primaria per lo studio e la conoscenza di un periodo molto lontano in cui non era molto diffusa la scrittura sono le fonti, “nulla historia sine fontibus” (Festschrift Fur Reinhard Hartel). Le fonti per la storia medievale e i tipi di approccio verso esse sono:  Fonti scritte: comprendono fonti documentarie, fonti legislative, fonti giudiziarie, amministrative e fiscali e fonti narrative. La documentazione scritta ha un’impennata vertiginosa dalla fine del XII secolo per la necessità di produzione scritta che disciplini la tassazione, l’attività giudiziaria ecc.., ma le fonti non sono mai neutre o prive di finalità (ex. encomiastica, devozionale, apologetica, propagandistica), perciò lo storico ha il compito di vagliare la produzione storiografica, le fonti edite e quelle inedite. Una macro-distinzione fra fonti scritte è tra documenti pubblici e privati. Un esempio di atto pubblico è la conferma della Magna charta libertatum di Enrico III del 1225, successore di Giovanni senza terra, si trova molto spesso una parte retorica (protocollo) che spiega le ragioni che hanno spinto all’emanazione dell’atto e che rivela molto della mentalità, degli influssi di una tradizione giuridica, segue il dispositivo vero e proprio e terminano una serie di clausure (estrattocollo). L’atto provato è, invece, un accordo fra privati. Nel basso medioevo è molto importante il ruolo del notaio, la documentazione privata è erogata da notai che detengono la publica fides e che sono legittimati direttamente dall’autorità imperiale, dal potere pubblico. Un esempio di fonte narrativa è un frammento della Cronica bolognese di Pietro di Mattiolo, si tratta di fonti narrative che attingono a cronache precedenti che non si sono conservate e che molto spesso hanno delle finalità evidenti. Siamo nel passaggio dal ‘300 al ‘400, Pietro di Mattiolo è un prete bolognese che non scrive per una specifica specialità, ma per ricordare gli eventi eccezionali che sono capitati nella città di Bologna, e che racconta in volgare bolognese di un terremoto avvenuto il 20 luglio 1399. dell’impero. Nel 313, invece, Costantino ottiene l’appoggio incondizionato dei cristiani con la promulgazione dell’editto di Milano sottoscritto anche da Licinio, che stabilisce la piena libertà di culto a tutto l’impero. L’editto cade un anno dopo una celebre battaglia che vide Costantino prevalere a Ponte Milvo in seguito ad un sogno in cui una voce ultraterrena gli avrebbe consigliato di apporre il monogramma di Cristo sugli scudi dell’esercito con la frase “in hoc signus vincimus”. L’editto di Milano recita: “Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede.” Difatto, la fede verrà ritenuta un patrimonio, un bene collettivo, tuttavia, dal momento che vi sono diverse declinazioni dello stesso dogma, Costantino, interessato soprattutto per ragioni politiche all’unità religiosa dell’impero, preoccupato per la diffusione dell’arianesimo, convocò il Concilio di Nicea nel 325, primo dei concili ecumenici (assemblee dei vescovi di tutta la cristianità). Vi parteciparono da 220 a 318 vescovi, in maggioranza orientali e venne condannata l’eresia di Ario facendo prevalere la tesi della consostanzialità. Il vero dogma sancito a Nicea prevede la totale unione fra natura umana e divina nella figura di Cristo generato e non creato della stessa sostanza del padre, mentre Ario negava la piena natura divina di Gesù, sostenendo la sua inferiorità rispetto al padre. Gli atti del concilio di Nicea non ci sono pervenuti, ma il gran numero di redazioni, sintesi, frammenti giunti ne testimoniano l’importanza a posteriori. L’arianesimo è un’esperienza che dura aldilà di Nicea, secondo le fonti probabilmente Costantino fu convertito e battezzato da un vescovo ariano. Il cristianesimo rimase a lungo una religione prevalentemente urbana, mentre penetrò lentamente nelle aree rurali, per questo i cristiani chiamavano coloro che rifiutavano il messaggio di salvezza “pagani” dal latino pagus, villaggio rurale. Per molte popolazioni barbariche la conversione al cristianesimo dal politeismo tribale fu mediata inizialmente dalla dottrina ariana, in conseguenza alle missioni evangelizzatrici di vescovi ariani, come il goto Ulfila e quando i popoli barbarici invasero la parte occidentale dell’impero, alla confortante unità dei tempi di Costantino e Teodosio, centrata sul modello di “chiesa imperiale” fece seguito un periodo difficile di confronto religioso. L’arianesimo sarà una bandiera identitaria contro il retaggio romano che, nella sua persistenza, rende a lungo impermeabili le due società. Il primo a convertirsi al cristianesimo cattolico fu il re dei franchi salii Clodoveo, battezzato nel 496 da Remigio vescovo di Reims, per ultimi si convertirono i longobardi. L’adozione della fede cattolica costituiva per i sovrani un allargamento della base di legittimazione del loro potere che, proponendosi come protettori delle chiese, si estendeva anche alla popolazione romana. Nei regni romano-barbarici la lunga coabitazione di due chiese, ciascuna con propri vescovi e chierici, rallentò il processo di integrazione, mentre la precocità della conversione al cattolicesimo dei franchi fu alla base della loro supremazia politica e di civiltà sull’Occidente europeo. C’è un postulato, se l’impero si fa garante dell’osservanza del dogma cattolico, tutte le forme di devianza, di opposizione rispetto al dogma sono anche delle opposizioni di natura politica verso l’imperatore e verso il suo ruolo. Le sedi patriarcali sono Antiochia, Alessandria d’Egitto, Roma, Costantinopoli e Gerusalemme, in Occidente vi è una sola sede perché è evidente la predominanza commerciale e civile dell’Oriente. Donazione di Costantino (legittimazione potere temporale all’autorità papale) Si tratta di una fonte tormentata, madre di tutti i falsi, che ha una datazione teorica al 315, quindi all’epoca di Costantino, ma fabbricato probabilmente nel 750-80 o a Roma o a S. Denis, che pretende di essere l’atto diplomatico con il quale l’imperatore Costantino avrebbe donato nel 314 a papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull’Italia e sull’interno Occidente e avrebbe onorato la Chiesa romana attribuendole i poteri e le dignità dell’impero sì che il pontefice potesse portare insegne imperiali, e che il clero di Roma avesse gli stessi onori degli ufficiali dell’impero, esprimendo inoltre la volontà che il vescovo di Roma avesse il “principatum” sui patriarchi orientali e, di conseguenza, su tutte le chiese del mondo. Ordinando, infine, che la basilica lateranense fosse venerata quale “caput et vertex” di tutte le chiese, e che il palazzo del Laterano divenisse residenza ufficiale dei pontefici. Ai tempi nessuno riteneva falsa la donazione, anzi era salda una tradizione di autenticità che risaliva al XIII sec, quando il documento era stato inserito nel Decretum Gratiani, il testo ufficiale per l’insegnamento del diritto canonico. Ma era del pari viva una secolare polemica tra canonisti e civilisti, questi ultimi infirmavano il valore giuridico della Donazione con argomenti che avevano il loro sostegno nelle leggi romane. Secondo una glossa delle Institutiones, il titolo imperiale di Augustus derivava dal verbo augere, assegnando all’imperatore il perpetuo proposito di accrescere l’impero, pertanto, i civilisti sostenevano che la Donazione non potesse avere valore giuridico, in quanto aveva provocato una diminuzione dell’Impero, violando le prescrizioni della legge imperiale. Il documento è ufficialmente riconosciuto come inautentico nel 1440 dal filologo Lorenzo Valla il quale, fondandosi sull’analisi testuale storico-filologica dell’atto e sui dati inoppugnabili che se ne possono trarre, afferma che il constitutum è senza dubbio un falso. Il documento presenta tutte le caratteristiche di un testo pubblico del tempo: protocollo, intitolatio dell’autorità che emana (Costantino), i titoli di vittoria sulle genti, la classica forma di salutatio al padre di tutti i padri (Silvestro I), segue il testo vero e proprio, contenente il racconto mitico della conversione (le fonti raccontano invece che C. si convertì all’arianesimo e fu battezzato da Eusebio di Nicomedia nel 337), segue la concessione all’autorità papale, da un punto di vista iperbolico, di tutto l’Occidente. Infatti, secondo il racconto leggendario, Costantino avrebbe deciso di trasferire l’autorità imperiale in Oriente, lasciando il controllo spirituale e temporale dell’Occidente al papa. Termina la formula di dannazione rivolta a chi contravvenisse alla volontà imperiale. Il documento non pone limiti all’affermazione temporale dei papi, avvallata dalla stessa autorità imperiale, la quale avrebbe riconosciuto la supremazia del papa, questo è un grande anacronismo, una formulazione simile verrà tentata per la prima volta soltanto molto più avanti da papa Gelasio nel cosiddetto “principio gelasiano” nella lettera all’imperatore Anastasio (494), in cui viene teorizzata la separazione fra la sfera politica, regalis potestas, e la sacrata auctoritas che le è superiore. Gelasio pone le basi per quella spartizione che si affermerà dopo l’XI secolo. Gli intenti dietro la confezione del falso sono: -tramandare la figura di Costantino come grande imperatore cattolico sinceramente convertito -innalzare e sacralizzare la figura del pontefice. Inoltre, è possibile rintracciare la fonte dalla quale il falsario ha attinto per confezionare il falso, nel V secolo maturarono una serie di racconti leggendari che mitizzavano e innalzavano le gesta e la figura di Silvestro, fra cui il racconto della conversione di Costantino. La storiografia è abbastanza concorde nel datare il falso alla metà dell’VIII secolo, durante il pontificato di Paolo I, quando era da poco avvenuta una convergenza destinata a caratterizzare l’intero Medioevo, un profondo raccordo fra la nuova dinastia dei re franchi, avviata da Pipino il breve ed il papato. Pipino il Breve era un maggiordomo di palazzo che deporrà l’ultimo re merovingio, autoproclamandosi re, perciò nasce un problema di legittimazione del potere e, benché egli fosse figlio di Carlo Martello, colui che aveva sconfitto i musulmani a Poitiers, mancava lui un forte legame con Roma. Nello stesso anno della deposizione (750-51) i longobardi riescono a conquistare Ravenna, dove dai tempi di Giustiniano risiedeva l’esarca (funzionario con poteri civili e militari) e il papa avverte bruciante la minaccia che i longobardi esercitavano ormai su Roma. Vengono ad incrociarsi due necessità: quella di protezione del papa e quella di legittimazione di Pipino il Breve, perciò nel dalle steppe asiatiche. L’incontro tra barbari e romani era cominciato ben prima delle invasioni, le popolazioni barbariche confinanti cominciarono ad entrare nell’orbita del sistema imperiale, costituendo una sorta di periferia, ma fu lo spostamento dei visigoti alla ricerca di uno stanziamento definitivo l’elemento che destabilizzò l’equilibrio politico dell’impero alla fine del IV secolo. Aggrediti dagli unni, essi erano stati accolti in Tracia nel 375, ma la lor presenza si risolse in furti e rapine fino allo scontro con l’esercito romano, che fu clamorosamente sconfitto ad Adrianopoli nel 378, dove morì lo stesso imperatore Valente. Essi tornarono in Italia e, guidati da Alarico, saccheggiarono Roma nel 410, ottennero di stanziarsi nella Gallia meridionale, dove misero sotto controllo l’intera Aquitania, costituendo nel 418 il primo regno barbarico all’interno del territorio imperiale. L’Oriente evitò eccessive contaminazioni con i barbari e badò a preservare il territorio cercando di deviare le incursioni verso Occidente, dove sentimenti di chiusura si alternarono a tentativi di integrare le popolazioni barbariche. Soluzioni pragmatiche furono la foederatio (le truppe barbariche al comando dei capi tribali erano inquadrate in veste di alleate, ricevendo un compenso) e l’hospitalitas (concessione di un terzo delle tasse sulle terre di una determinata regione a gruppi etnici che dichiararono fedeltà militare all’impero, pur rimanendo indipendenti). La mancata concessione del beneficio indusse, per esempio, i visigoti al saccheggio di Roma del 410, che suscitò un’eco vastissima nella romanità. Quando le migrazioni sembrarono cessate, i rinnovati contrasti ai vertici dello stato ne indebolirono la capacità di controllo, nel 476 il generale Odoacre depose il giovane Romolo Augustolo dando vita ad un dominio personale che non fu riconosciuto dall’imperatore d’Oriente Zenone, il quale affidò l’amministrazione della prefettura dell’Italia a Teodorico, che nel 488 aveva guidato gli ostrogoti al saccheggio di Costantinopoli. Sconfitto Odoacre nel 493, Teodorico diede vita ad un regno che avrebbe governato la penisola fino al 553. Le migrazioni barbariche non danno luogo ad una contrapposizione di civiltà, bensì a un più complesso processo di acculturazione reciproca, i barbari furono ovunque una netta minoranza rispetto alle popolazioni di origine romana, ma questi ultimi elaborarono nuove forme di convivenza sotto l’autorità dei loro sovrani. Si sperimentò l’incontro delle tradizioni e dei modelli ideologici e religiosi della romanità e laddove l’integrazione tra le due componenti fu più accentuata, i regni si rivelarono più stabili. Nel progressivo venire meno delle strutture imperiali, furono le istituzioni ecclesiastiche e garantire l’inquadramento delle popolazioni latine e la continuità col passato. I re tribali erano innanzitutto capi militari eletti dagli uomini armati (la persona è libera nella misura in cui è capace di portare le armi da ciò si può spiegare l’etimologia della parola “Arimanno” che deriva da “man” che significa “uomo” e da “her” che vuol dire esercito), che dovettero passare dalla semplice abilità di comandare sugli uomini alla capacità di governare un territorio. Mentre i romani continuano a vivere secondo le regole del diritto romano, i barbari conservano le proprie consuetudini giuridiche che privilegiano la personalità del diritto e sono prive di elementi di diritto pubblico. Quando i regni cominciarono a stabilizzarsi le popolazioni si preoccuparono di redigere per iscritto le consuetudini fino ad allora tramandate oralmente dagli anziani. Queste compilazioni, redatte in lingua latina, erano il segno del processo di acculturazione che era in atto tra le popolazioni barbariche. Si assiste ad una autentica divisione tra due società impermeabili che convivono nello stesso territorio, ciascuna con proprie leggi e religioni, i barbari sono convertiti da monaci ariani e questa religione diventa una bandiera identitaria nel senso di una rigida separazione rispetto al cristianesimo cattolico che si vede indissolubilmente legato all’impero. Quanto più precoce sarà la conversione al cristianesimo cattolico tanto più veloce sarà il processo di assimilazione fra le due società, la religione è profondamente legata alla politica e la precoce conversione del re franco Clodoveo al cattolicesimo del 496 è legata alla comprensione dell’importanza di stabilire dei rapporti con l’episcopato cattolico. La durata dei regni dipese molto dai tempi di conversione e di fusione, l’assetto più fragile risulta essere quello dei vandali, i quali spossessarono tutti i grandi proprietari romani, uccidendone molti, e cercarono di imporre a tutta la popolazione la conversione all’arianesimo. Le violenze e le proteste che si accompagnarono a questa politica indebolirono il regno e ne fecero il bersaglio della propaganda cattolica. Fu così che l’imperatore Giustiniano decise di attaccare il regno dei Vandali, sconfiggendolo con facilità. Gli ostrogoti, invece, guidati da Teodorico, il quale era stato istruito a Bisanzio presso la corte imperiale, portano avanti una politica di convivenza fino a quando Bisanzio lanciò una politica di unità religiosa perseguitando gli ariani in Oriente cui Teodorico rispose con una dura repressione antiromana che portò all’assassinio di Boezio e Simmaco, maggiori intellettuali dell’aristocrazia senatoria che erano stati influenti alla corte di Teodorico. Dopo la fondamentale vittoria ad Adrianopoli, i visigoti si muovono giù verso la Grecia per creare il primo regno visigoto nel 418 in Aquitania, che perderanno successivamente alla sconfitta a Vouillé del 507 contro i Franchi. Nel 589 il re ostrogoto Recaredo, con la finalità pratica e politica di legare a sé l’episcopato per dare una base territoriale al regno, si converte al cattolicesimo. Una piena integrazione, invece, si realizzò nel regno dei franchi, un insieme eterogeneo di tribù sparse tra cui i salii stanziati all’interno del confine dal IV secolo sul basso Reno e i ripuarii insediati fra Treviri e Colonia. Essi vissero a lungo sottoposti ai romani, continuando ad obbedire ai propri re e nel 406 parteciparono alla difesa del confine imperiale sul Reno, come federati dei romani e successivamente contro i visigoti come “difensori romani” della popolazione del nord della Gallia. Clodoveo, re dal 481 al 511, superò il frazionamento tribale e affermò la sua autorità sugli altri capi militari, ponendo le basi per la costruzione del regno. Nel 507 a Vouillé sconfisse i visigoti occupando tutta l’Aquitania e costringendoli a spostarsi in Spagna. Clodoveo comprese l’importanza di stabilire contatti stretti con l’episcopato cattolico e nel 496 si fece battezzare dal vescovo di Reims, Remigio, presentandosi come protettore delle chiese. La conversione diretta dal politeismo al cristianesimo cattolico, senza passare per l’arianesimo, agevolò i rapporti col clero, che riconobbe l’autorità del re. Il suo ruolo di sovrano fu maggiormente rafforzato quando ricevette dall’imperatore bizantino il titolo di patricius e nel 510 quando fece redigere il Pactus legis salicae, che fissaqva per scritto le norme di convivenza della sua popolazione. Nella grande potenza vennero a crearsi quattro frazionamenti regionali: la Neustria (la nuova terra dell’ovest), l’Austrasia (la terra dell’est), l’Aquitania (non costituì mai un regno a sé stante) e la Burgundia (antico regno dei burgundi). Col tempo, l’elemento germanico si fondeva sempre più con quello romano, si celebravano matrimoni misti e vi era convergenza fra gli stili di vita, dalle famiglie aristocratiche venivano reclutati i conti (comites) che risiedevano nelle città con compiti giudiziari e militari e i duchi, a capo di più ampie circoscrizioni territoriali. Approfittando della debolezza dei re nel corso del VIII secolo l’amministrazione dei vari regni fu sempre più controllata dai maestri di palazzo e una grande famiglia dell’aristocrazia austrasiana, i pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Heristal, a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio di lui, Carlo Martello avviò una forte espansione e nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica, arrestandone l’avanzata verso nord. La vittoria portò alla deposizione di Childerico III, alla proclamazione di Pipino il Breve come re, l’affermazione dei pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma, Pipino si fece ungere col sacro crisma nel 754 da papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo, futuro Carlo Magno. Le lotte per la successione al re ostrogoto Teodorico offrirono l’occasione all’imperatore Giustiniano per inviare truppe in Italia nel 535, dopo un lungo un lungo conflitto che durò fino al 553, Giustiniano ristabilì il dominio imperiale sull’Italia estendendo anche la legislazione bizantina. I longobardi si erano trasferiti dalle foci dell’Elba in Pannonia alla fine del V secolo , da lì pressati da altri popoli essi migrarono in Italia attraverso il Friuli nel 569 guidati dal re Alboino e si insediarono in modo disomogeneo in tre aree principali: la pianura padana, la Toscana e i territori intorno a Spoleto e Benevento, le coste rimasero invece ai bizantini Historia langabardorum Una fonte fondamentale per la conoscenza del popolo longobardo, in cui la struttura è un elemento assento è la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, sopravvissuta in molti codici e che ha la finalità di tramandare l’etnogenesi, cioè le modalità in cui il popolo si è formato e consolidato. Paolo Diacono era un monaco appartenente alla famiglia dei duchi del Friuli (i longobardi valicano le Alpi dal Friuli) in contatto con la corte franca che scrive quest’opera a Montecassino intorno al 787-796, in un momento storico in cui è già caduto il regnum d’Italia settentrionale. La storia è articolata in sei libri, i dati certi che abbiamo sull’HL sono pochi: fu redatta a Cassino, dove Paolo dice di star scrivendo sia nel I libro (26) che nell’ultimo (VI, 2 e 40). Il testo ebbe immediata fortuna, in particolare nell’Italia settentrionale, da cui provengono tutti i nostri più antichi mss.: un dato che ha nutrito l’ipotesi che l’opera sia stata scritta nel Regno Italico, su impulso di Carlo e di Pipino re d’Italia, per facilitare la conoscenza e la comprensione reciproca di Franchi e Longobardi. L’idea ha un’utilità e un senso: è plausibile un interesse franco verso l’HL e sono reali l’attenzione di Paolo alla prospettiva carolingia e la sua accettazione del Regno Franco in Italia. Ma ciò non può portare a cancellare altre sicure ragioni del testo né le indicazioni che l’autore stesso dà sui tempi e luoghi della sua scrittura. La diffusione dell’HL al nord si spiegherà con i rapporti di Cassino con l’Italia tutta, la fama personale di Paolo e l’interesse che per una storia che riguardava in primo luogo il Regno Longobardo poteva nutrire non solo la corte franca, ma anche la popolazione del Regno. Il contesto storico-politico in cui l’HL fu scritta non può essere meglio precisato e ciò rende più difficile metterla in stretto rapporto con i duchi di Benevento, dall’orientamento politico allora mutevole, ipotesi comunque basata sulla sopravvalutazione dello schema e della struttura del testo, che non sono gli unici elementi validi per capire le intenzioni e le ragioni di un’opera storiografica, scritto volontario e consapevole in ogni sua parte. Dubbio è anche il punto finale previsto da Paolo: l’HL manca di dedica, prologo, epilogo, è meno curata linguisticamente negli ultimi libri, non giunge alla caduta del Regno indipendente né al tempo della sua scrittura, ma solo alla morte di Liutprando (744), di cui l’ultimo capitolo (VI, 58) traccia un grande ritratto. La fonte che leggiamo racconta del momento in cui, dopo la morte di Clefi, la proclamazione di Autari pose termine a quel periodo della storia dei Longobardi in Italia che si suole denominare “interregno ducale”, perché i Longobardi, non avendo dato a Clefi, vittima di un assassinio nel 574, un successore, erano da allora rimasti senza un re che ne fosse il capo supremo e sotto il governo di altrettanti capi particolari quanti erano i loro duchi. "Per annos decem regem non habentes, sub ducibus fuerunt" scrive Paolo Diacono. Con la scelta di A. si volle in un certo modo riannodare il filo della tradizione monarchica longobarda al punto in cui era stato troncato dieci anni prima. A. era infatti figlio di Clefi, il re al quale si doveva se l'indipendenza dei Longobardi in Italia da Bisanzio aveva, potuto superare la gravissima crisi seguita all'assassinio di Alboino. Promotore della sua elezione fu senza dubbio il duca di Trento Evino. Paolo Diacono esalta i valori di solidarietà ed enfatizza i caratteri positivi di questa popolazione, l’HL è, dunque la maggiore opera storica che ci conservi il ricordo di una delle più oscure epoche del Medioevo e anche da ciò deriva la sua importanza e fortuna. La Chiesa e il monachesimo La religione nel medioevo non è un concetto che riguarda solo la sfera spirituale, ma anche quella politico-economica, oltre che culturale. Ad esempio, il controllo dei monasteri si vaste aree e territori si traduce in un controllo di carattere politico. La diffusione del cristianesimo nell’Impero Romano fu accompagnata da un’organizzazione sempre più ordinata delle comunità di fede, le chiese. Tendenza di fondo fu la separazione fra laici e il clero, dedito all’esercizio del culto e alla gestione dei beni delle chiese. Il vescovo era la guida spirituale e amministrativa della comunità, affiancato dai preti dediti alla predicazione e alle celebrazioni liturgiche e dai diaconi che svolgevano compiti di assistenza e amministrazione. I laici, invece, partecipavano insieme al clero all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari delle comunità. L’incremento dei fedeli e delle ricchezze fece delle Chiese vere e proprie potenze economiche con patrimoni equivalenti a quelli delle grandi famiglie aristocratiche e tutelati sacralmente da confische ed esenti dalle imposte. Le chiese si svilupparono nelle città e l’ambito su cui si esercitava il ministero del vescovo era il territorio circostante, la diocesi, che tese a corrispondere alla circoscrizione amministrativa urbana di origine romana. Dal V secolo furono evangelizzate anche le campagne e l’autorevolezza dei vescovi crebbe insieme all’assunzione di funzioni di guida civile e politica, oltre che spirituale. Essi venivano scelti tra le famiglie delle élites urbane e diventarono punti di riferimento di gruppi e di clientele di laici e di ecclesiastici, sia cittadini sia contadini. Alcune sedi maggiori, fondate da apostoli, affermarono la loro preminenza sulle province circostanti: Roma in Occidente, Alessandria in Egitto, Antiochia in Oriente e insieme a Gerusalemme e Costantinopoli i loro metropoliti ebbero il titolo di patriarchi. Fino a tutto il X secolo la chiesa cattolica fu priva di un’organizzazione centralizzata e di un vertice quale sarebbe stato, poi, il papa. Allora un ruolo centrale fu svolto dalle assemblee del clero, convocate periodicamente dai metropoliti in sede provinciale (sinodi), meno frequenti erano le adunanze (concili) tra i vescovi delle varie province della cristianità, nei concili universali convocati in genere dagli imperatori si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e si emanavano le leggi ecclesiastiche (canoni). Il cristianesimo dei primi secoli presentava una varietà di culture teologiche e di interpretazioni del dogma, perciò il problema centrale fu quello di conciliare il principio del monoteismo con la molteplicità delle persone divine (la trinità). Le dispute dottrinali si concentrarono sulla definizione della natura di Cristo, nel IV secolo si confrontarono la dottrina che sosteneva la natura non pienamente divina di Cristo, difesa da Ario di Alessandria e quella che sosteneva la consustanzialità (cioè identità di sostanza e di natura) del figlio col padre promossa da Anatasio di Alessandria. Nel V secolo il patriarca di Il tratto dominante del testo è la moderazione, Benedetto elabora un modello di vita monastica realizzabile, concretamente attuabile, lontano dalla rigidità dell’ascesi estrema. Per Benedetto la perfezione interiore (obiettivo del monaco è liberarsi da qualsiasi contingenza della materialità) si raggiunge al meglio in comunità, per cui elabora precise scansioni della giornata, nelle quali anche il riposo ha un ruolo importante (il monaco deve dormire almeno 8 ore). Compito principale è la preghiera (7 preghiere diurne e 1 notturna) il lavoro, scandito in proporzione ai momenti di luce e buio. Il lavoro è funzionale all’ascesi, ad un percorso interiore di lotta contro il vizio, che in questo caso è quello dell’ozio. Direttamente proporzionale alle ore di lavoro deve essere anche il sostentamento alimentare, Benedetto idea un modello volto al necessario, alla moderazione e alla sobrietà che sarà la chiave del suo successo. Nella prima parte della fonte Benedetto elenca i tipi di monaci e stila la regola sulla base dell’esperienza ed è ricorrente l’idea del monachesimo come milizia, seppur interiore e spirituale. La stessa milizia diventerà, invece, difensiva con gli ordini monastici cavallereschi che difendono le vie di pellegrinaggio verso la Terra santa e si ritroverà, anche in senso verticale, nella bolla di canonizzazione di San Domenico di Guzman da papa Gregorio IX. San Domenico, però, combatte gli eretici, cancro che corrode la cristianità, con la predicazione, in questo senso ai domenicani è attribuito l’incarico inquisitoriale (l’Inquisizione non esiste ancora). Ecco che il concetto di milizia investe tutta la cristianità, assumendo connotazioni diverse dal monachesimo tradizionale a quello nuovo, rappresentato dagli ordini mendicanti. È bene specificare che, quando si parla di ordini mendicanti, si entra nella prospettiva dei frati (domenicani e francescani) Teoricamente mondi chiusi e autonomi, benché pronti all’ospitalità, i monasteri furono spesso centri di grande irradiamento politico, economico e culturale che arricchiva le comunità con gli scriptoria, dove si copiavano e conservavano i manoscritti dell’antichità e furono punti di riferimento per diversi gruppi sociali che potevano entrare a far parte della comunità come monaci o conversi. Poi, Benedetto critica i modelli nefasti di monaci, ad esempio i Sarabaiti, che non si distaccano dai vizi e non si disciplinano, sono “senza superiore e rinchiusi non negli ovili del Signore). Il monaco, per Benedetto, non deve essere superbo, deve amare la castità (l’obbligo del celibato diviene un dogma a partire dall’XI secolo per evitare la dispersione dei beni della chiesa agli eredi, rischio smembramento res ecclesiae). Difatti, a differenza dei nuovi ordini mendicanti, nel monachesimo la povertà non è un valore in sé, vi è un divieto della proprietà individuale, ma non collettiva. Ad esempio, l’abbazia di Nonantola, fondata dai duchi longobardi, non ha patrimonialità fondiaria limitate alle zone attigue al monastero, ma ha dimensione sovraregionale e sovralocale. I monaci furono protagonisti principali dell’evangelizzazione delle popolazioni rurali, una fisionomia particolare mostrò il monachesimo sviluppatosi in Irlanda, che ha avuto un ruolo cardine per l’inquadramento ecclesiastico di un’area non romanizzata e priva di importanti centri urbani, abitata da tribù guidate da sacerdoti del culto celtico (druidi). L’evangelizzazione fi avviata da Patrizio, monaco della Britannia, nel V secolo, nell’isola priva di città fu il monachesimo a costruire l’ossatura dell’intera struttura ecclesiastica, furono i grandi abati a svolgere le funzioni riservate ai vescovi. I monaci riescono ad armonizzare il messaggio cristiano con quello pagano attraverso un sincretismo fra cultura cristiana e celtica. Ci è uno slancio “missionario” (peregrinatio pro Deo) quale distacco dal mondo. Il monachesimo irlandese fa dell’instabilitas il proprio valore, contrariamente al principio della stabilitas loci individuato a Calcedonia. L’evangelizzazione parte dalle coste occidentali della Scozia, dove viene fondato il monastero di Iona per arrivare fino alla Gallia. Si impone la figura di Colombano, cui si devono le importanti fondazioni di Luxeuil, San Gallo e Bobbio (in una zona di confine sull’appennino piacentino, di fondazione regia voluto da Agiulfo nel 612, marito della cattolica Teodolinda, la coppia aveva intessuto un rapporto epistolare con Gregorio Magno e il loro figlio Adaloaldo, convertitosi al cattolicesimo, viene deposto dia maggiori esponenti longobardi). La fondazione di Bobbio è figlia, dunque, di un principio strategico della corona longobarda in espansione verso l’area ligure, non ancora conquistata. Questi centri sono fondamentali per gli scriptoria, centri di cultura e istruzione in cui si trasmettono dei testi della classicità. Inoltre, questo monachesimo esporta il modello della penitenza tariffata, individuale, eseguibile in ambito privato ed iterabile, principio che tornerà utile nel concetto di crociata come forma di penitenza. I libri penitentiales, i penitenziari sono una sorta di tariffario per cui ad una certa serie di peccati corrisponde una determinata serie di penitenze. I principali ordini monastici del pieno medioevo sono: -i cluniacensi: dominano i secc. X-XI, casa madre è l’abbazia di Cluny, fondata nel 909/910 dal duca Guglielmo di Aquitania -i cistercensi: dominano il sec XII, casa madre è l’abbazia di Citeaux, fondata da Roberto di Molesme nel 1098 Lo sviluppo dei poteri territoriali da parte di vescovi e abati intorno alle grandi proprietà, alle fortezze e alle immunità possedute dalle chiese episcopali e dai monasteri, diede vita ad una fitta trama di signorie ecclesiastiche largamente autonome. Le famiglie aristocratiche che avevano fondato chiese e monasteri “privati” cercarono di impossessarsi delle cariche ecclesiastiche rendendole ereditarie e chi riusciva ad ottenerle era, spesso, sprovvisto di autentica vocazione. La necessità di interventi di riforma fu avvertita già dai sovrani carolingi, che putarono a rafforzare la formazione del clero, fu istituita la decima (la decima parte del raccolto e del reddito in generale) gestita dai vescovi e destinata a sostenere il clero, a tutte le comunità monastiche fu estesa la regola benedettina. Soprattutto in Germania i legami tra re e vescovi rimasero stretti e furono rafforzati dalla concessione di beni e diritti di giurisdizione in cui si distinse la dinastia degli Ottoni. Vescovi e abati divennero organico supporto dell’autorità regia, che si assicurò la facoltà di designarli scegliendoli tra figure di elevato rigore morale, col Privilegium del 962, Ottone I ribadì anche il controllo imperiale sull’elezione pontificia, già sancito dalla Contitutio romana di Ludovico il Pio dell’824, da allora e fino al 1058 i papi furono tutti legati al trono imperiale. Dal X secolo fu sempre più stringente l’esigenza di riforma: la moralizzazione dei costumi del clero e la tutela delle istituzioni ecclesiastiche dai condizionamenti del mondo laico. Tra l’8° e l’11° secolo un ampio movimento di riforma scosse così il monachesimo. Fu soprattutto per iniziativa dei monaci del monastero francese di Cluny, nel 10° secolo, che questo nuovo spirito religioso prese forme più mature. Da Cluny si affermò un messaggio di riforma spirituale della Chiesa, che doveva riscattarsi dalla corruzione che la dominava e dalle ingerenze del potere politico che subiva. I monaci di Cluny, che definirono una nuova regola, eliminarono l’obbligo di dedicare parte del tempo al lavoro manuale: i religiosi dovevano anzitutto dedicarsi alla preghiera e al silenzio. Cluny e la rete dei monasteri collegati, infine, per evitare interferenze delle autorità locali, civili ed ecclesiastiche, si posero direttamente sotto la dipendenza della Santa Sede. Cluny è una svolta per il Medioevo, perché rappresenta l’inizio dell’esenzione monastica, esso è fondato nel 910 da duca di Aquitania Guglielmo e, pur nascendo come monastero privato, l’abbazia riuscì ad acquisire una forte autonomia sotto la guida dei grandi monaci, grazie all’immunità concessa dal duca e all’esenzione, assicurata dal papato, dalla dipendenza diretta dal vescovo della loro diocesi. Guglielmo vuole che il monastero sia esente da qualsiasi tipo di giurisdizione se non quella di Pietro e Paolo, apostoli incarnati dalla figura del papa e il meccanismo è funzionale allo sviluppo verticistico dell’autorità papale. È il modello cluniacense dell’esenzione a incentivare un’autodeterminazione della chiesa con a capo un vertice l’autorità papale, mentre fino a questo momento la chiesa aveva un modello orizzontale. N.B. Chiesa imperiale (modello strutturale in cui gli ecclesiastici svolgono compiti e funzioni civili in nome dell’imperatore, sono funzionari pubblici), chiesa privata (fenomeno per cui i signori laici potevano costruire sui propri terreni un’istituzione ecclesiastica ed avere controllo su di essa). La carta di fondazione di Cluny da una città all'altra per predicare il messaggio cristiano. Egli fondò l'ordine dei predicatori, che nel corso dei secoli ha fornito alla Chiesa numerosi uomini di cultura, impegnati nella lotta contro l'eresia e nello studio della teologia, ossia della riflessione su Dio e sulla fede. Nella Francia meridionale incontrò gli eretici catari, che rifiutavano la divinità di Gesù, la Croce e l'autorità della Chiesa. Riuscì a convertirne alcuni, ma si rese conto che solo sacerdoti istruiti, capaci di spiegare la parola di Dio e la dottrina cristiana e pronti a imitare la vita in povertà di Cristo e degli Apostoli, potevano replicare in modo convincente alle loro critiche. Domenico è impegnato con gli eretici su un piano dialettico, li combatte con la parola e senza la repressione, inoltre li imita nell’aspetto dell’essenzialità, di vita evangelica e autenticamente povera. I frati domenicani ebbero approvata la propria regola da Onorio III nel 1216 e si distinsero successivamente come inquisitori in virtù della loro preparazione dottrinale (ex. Tommaso d’Aquino). Nel 1215, quando si svolge il quarto concilio lateranense, il canone 10 è ispirato a Domenico, poiché si prevedeva la presenza, al fianco dei vescovi, di uomini predicatori potentes operae et sermonae. -Francescani: ordine dei frati minori (principio di modestia vitae), fondato da Francesco di Assisi nel 1223, fondato sulla imitatio Christi, spogliandosi dei beni e formando una fraternitas di laici, la cui clericalizzazione è più tarda. Cercò di mettere in pratica i precetti del Vangelo e volle predicare l'amore per il prossimo. Fu subito seguito da molti compagni, insieme ai quali percorreva instancabilmente villaggi e città, diffondendo il messaggio di pace e di carità annunciato da Cristo. Dopo la morte di Francesco si assiste ad una divisione interna tra conventuali e spirituali, poi condannati eretici. Bolla di canonizzazione “fons sapientiae” Ci restituisce l’idea di come il papato abbia condizionato lo sviluppo e l’approvazione di questi ordini con finalità politica. La lettera di papa Gregorio IX proietta un’immagine di Domenico decisamente declinata in senso militare (nella regola di Benedetto il monachesimo è militia, ma militia interiore: qui è militia contro gli eretici). Inoltre, la chiesa è rappresentata come trainata da 4 quadriche: la prima dei monaci benedettini, la seconda dei cistercensi, la terza dei florensi (Gioacchino da Fiore fa della dimensione profetico-apocalittica la dimensione fondamentale delle sue opere) la quarta, che costituisce la milizia metaforicamente armata, è trainata da Francesco e Domenico. Il papa descrive la vigna del Signore (la Chiesa) in balia delle volpi (termine col quale si identificano gli eretici), si dice che il giorno sta volgendo al tramonto (metaforicamente ci si sta avvicinando alla fine dei tempi) e con l’approssimarsi di un anti-Cristo (Federico II), arrivano in modo provvidenziale questi nuovi ordini chiamati a combattere gli avversari della Chiesa (contesto escatologico). Questi ordini si giocano la loro legittimazione ecclesiologica, cioè la loro funzione utile, necessaria all’interno della Chiesa, se fanno ciò che viene loro richiesto. Nell’impero bizantino la Chiesa continuò a dipendere dal ruolo sacrale attribuito al sovrano, l’imperatore era vicario di Dio sulla terra e garante della difesa e del rafforzamento delle comunità cristiane. A differenza della Chiesa cattolica, le chiese locali mantennero una forte autonomia, in una struttura centrata sulle assemblee consiliari e priva di un vertice gerarchico come quello che in Occidente si venne stabilendo dall’XI secolo intorno all’autorità del papa. Anche il movimento monastico ebbe grande sviluppo, i cenobi crebbero in ricchezza e acquisirono influenza sulle popolazioni rurali favorendo il culto dei danti e delle reliquie e la venerazione delle immagini sacre. Il protagonismo degli imperatori nelle controversie dottrinali e l’aspirazione del papato a difendere la propria autonomia nei confronti di ogni potenza temporale furono alla base del graduale allontanamento del mondo religioso e culturale bizantino da quello occidentale. Già in epoca giustinianea l’editto dei Tre Capitoli aveva suscitato un primo scisma dei vescovi occidentali. La politica iconoclasta imbracciata dagli imperatori dal 726 provocò l’immediata opposizione del papato e la fine del dominio bizantino nell’Italia centro-settentrionale con la cacciata degli esarchi di Venezia, Ravenna e Roma. Le diocesi balcaniche ed egee furono separate dalla giurisdizione romana, segnando così la divisione fra greca e latina. L’espansione bizantina nei Balcani acuì tra il IX e il X secolo la competizione con la Chiesa romana per l’evangelizzazione delle popolazioni slave e bulgare. In un clima conflittuale, papa Niccolò I si ingerì nella scelta del patriarca di Costantinopoli scomunicando nell’863 il titolare Fozio, nominato dall’imperatore al posto del manco Ignazio nell’858. Sancendo lo scisma, Fozio accusò a sua volta la Chiesa cattolica di eresia per la formula contenente lo Spirito Santo estranea a quella fissata a Nicea. In gioco era anche il controllo delle diocesi dell’Italia meridionale e le controversie dottrinali e liturgiche offrirono il pretesto per la scomunica reciproca tra il papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario nel 1054. Lo scisma fra chiesa orientale, ortodossa e quella cattolica, che rivendicò il primato del papa, non fu più ricomposto. Il Mediterraneo nell’alto Medioevo Dissolto in Occidente, l’impero romano continuò la sua vicenda in Oriente, l’imperatore Giustiniano (527-565) elaborò un programma di renovatio imperii, una restaurazione che ridesse all’impero la sua espansione originaria e un assetto unitario. Obiettivo la riconquista dei territori mediterranei dove si erano formati i domini barbarici, gli eserciti imperiali abbatterono in segno dei vandali nell’Africa settentrionale e quello degli ostrogoti in Italia (guerra greco-gotica che portò, dal 535, alla conquista di tutta la penisola italica con Ischia e della Dalmazia), recuperarono le coste meridionali della penisola iberica in mano ai visigoti. Tuttavia, le imprese guidate di Belisario e Narsete comportarono lunghe campagne militari e ingenti oneri economici. Sul fronte orientale Giustiniano strinse accordi con il sasanide Cosroe I che avrebbe dovuto assicurare paci eterne con l’impero persiano a fronte di onerosi tributi in oro. L’ambizioso progetto di Giustiniano fu sostenuto da diverse riforme, quella religiosa a sostegno dell’ortodossia, amministrativa col rafforzamento della rete di funzionari statali per frenare gli abusi dei grandi proprietari terrieri e giuridica, con la redazione di un nuovo codice, il Corpus iuris civilis, tanto che Dante, nel VI canto del Paradiso lo definirà il restauratore della decaduta autorità imperiale. L’opera, di capitale importanza per la scienza giuridica di ogni tempo, si presenta composta di 4 parti:  Codice giustinianeo: 12 libri, suddivisi per argomento, redatti in latino che raccolgono le leggi dei predecessori a partire da Adriano, giù Teodosio II aveva tentato una sistemazione delle leggi imperiali da Costantino in poi.  Institutiones: trattato, redatto in latino, sui fondamenti del diritto romano destinati all’insegnamento  Digesto: raccolta redatta in latino delle sentenze e dei pareri dei maggiori giuristi romani al fine di fornire esempi autorevoli a chi era chiamato ad interpretare la legge  Novelle: raccolta, redatta prevalentemente in greco, delle nuove costituzioni emanate dallo stesso Giustiniano. L’azione di Giustiniano fu l’ultimo tentativo di restaurazione dell’impero romano sull’Oriente e sull’Occidente, ma i successori non ebbero le risorse militari ed economiche per amministrare l’intero spazio Mediterraneo. La conquista parziale dell’Italia da parte dei longobardi nel 569, il primo assestamento degli slavi nei Balcani nel 592 e l’abbandono definitivo della penisola iberica nel 629 spostarono il baricentro dell’impero definitivamente verso Oriente. La presenza bizantina, all’indomani della conquista Longobarda, rimarrà in parte nell’area campana ma, soprattutto, nella Puglia e nella Calabria e Sicilia. L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era stato riorganizzato e affidato ad un funzionario, l’esarca, L’Islam e il Corano Il vasto territorio della penisola arabica era sempre rimasto ai margini degli imperi bizantino e persiano, il nomadismo delle tribù dava vita a confederazioni politicamente instabili e l’unico elemento di coesione era costituito dal pellegrinaggio al santuario della Ka’ba, nella città della Mecca, dove si conserva un frammento di meteorite. Con la nascita dell’islam e la rivelazione del suo testo sacro, il Corano, nascerà una nuova religione capace di dare un collante religioso e ideologico a questo insieme di tribù. I musulmani non impongono con la forza il loro credo religioso, ma riconoscono uno statuto speciale ai non mussulmani ebrei e cristiani che non hanno l’obbligo di convertirsi a patto che paghino una tassa in cambio della protezione della comunità. Contro i politeisti, invece, è ammessa la jihad, una guerra santa per la conversione. Le motivazioni del repentino successo dell’islam sono molteplici, esso si pone come guida religiosa e politica della penisola arabica, fa propri alcuni riti ed usanze (ex. pellegrinaggio) già diffusi ponendosi in continuità col passato. Figura cardine è Maometto, appartenente al clan dominante dei Qurayshiti, sposa una ricca vedova, ma ha una posizione piuttosto marginale. Ritiratosi in meditazione spirituale, nel 610 riceve dall’arcangelo Gabriele la rivelazione della parola di Dio (Allah), che richiedeva una sottomissione assoluta (islam) del fedele. Questo pose in conflitto Maometto con le famiglie meccani che fondavano la loro fortuna sul rispetto delle varie religioni e il profeta fu costretto, con i suoi seguaci, alla migrazione (égira) nell’oasi di Medina, nel 622, da cui comincia il calendario islamico. L’islam si pose come modello politico in cui la sfera spirituale era indistinguibile da quella temporale, Maometto guidò personalmente le razzie contro i vari clan costringendoli a sottomettersi e anche la Mecca cedette nel 630 e fu eletta a luogo sacro dell’islam. Da allora il mondo arabo si trovò a godere di una compattezza religiosa e politica e ad essere identificato con il mondo mussulmano. I cinque pilastri della fede islamica sono:  Doppia professione di fede (Shahda): Allah è un dio che non genera e non viene generato, è un dio antitrinitario, molto diverso da quello cristiano.  Preghiera: cinque volte al giorno ha luogo la preghiera: all'alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio, al tramonto e nella notte, prima di pregare, il fedele deve purificarsi, deve cioè compiere abluzioni; generalmente ogni moschea è provvista di una fontana nel cortile e, una volta purificato, il musulmano può compiere la preghiera (una serie di genuflessioni e prosternazioni), volgendosi verso Mecca.  Ramadan: è il mese sacro del digiuno che celebra il momento in cui Maometto avrebbe ricevuto la rivelazione, bisogna astenersi dall’alba al tramonto dal cibo e alla fine del mese c’è una grande festa finale.  Pellegrinaggio alla Mecca: deve essere compiuto almeno una volta nella vita del credente, che ne abbia le possibilità economiche. Questo rituale, già presente nella Penisola Arabica nel 7° secolo, è stato 'islamizzato' da Maometto che ne fece uno dei pilastri dell'Islam. I principali luoghi del pellegrinaggio sono la moschea di Mecca che contiene la Ka'ba, l'edificio cubico dove è conservata la Pietra nera, sacra già prima dell'Islam.  L’elemosina: ha valore di purificazione, è una tassa regolata dalla legge su alcuni beni ed è distinta dall’elemosina volontaria che i benestanti dovrebbero attuare per aiutare i confratelli. Il libro sacro dei musulmani è il Corano (parola che deriva dall'arabo al-Qur'an, letteralmente “la lettura”, è diviso in 114 capitoli (sure), composti di versetti contrassegnati con numeri. L’ordine non è cronologico e tiene conto della lunghezza dei singoli capitoli, ed è ordinato in modo decrescente. Il contenuto del Corano è generalmente diviso in tre grandi parti: i precetti, ossia le leggi che regolano la vita del credente; le storie, racconti cioè che riguardano Maometto o altri profeti (l'Islam crede in tutti i profeti biblici precedenti, da Noè a Gesù, rispetto ai quali Maometto è l'ultimo o il sigillo) e varie leggende; le esortazioni e gli ammonimenti. Il Corano comprende quindi le regole che il musulmano è tenuto a seguire. Questi precetti riguardano sia il comportamento quotidiano del credente ‒ per esempio, quante preghiere deve fare in un giorno ‒ sia precetti di ordine morale-religioso ‒ per esempio, il divieto di credere negli dèi pagani o adorare simboli. Nel Corano vengono conservati alcuni istituti caratteristici della civiltà preislamica come la razzia, il pellegrinaggio, la poligamia. Nella nostra fonte guardiamo soprattutto la parte relativa al Paradiso promesso ai perfetti fedeli, come nel cristianesimo c’è una grande pressione escatologica. Il testo è un potente coagulo per le tribù disomogenee e porterà ad una espansione vertiginosa. Alla morte di Maometto nel 632 il problema della successione nella guida della vita pubblica fu risolto con la creazione della figura del califfo, incaricato di tenere unita la comunità e di far rispettare la legge divina (sharia) contenuta nella rivelazione del profeta. La scelta del primo califfo cade su un parente di Maometto, Abu Brak, suocero di Maometto, la dinamica di successione è dunque elettiva, mentre successivamente si instaurerà una dinastia, una successione pre-ordinata. Sono anni di espansione verso settentrione, verso l’Iraq, la Siria e la stessa Gerusalemme viene conquistata negli anni 30 del settimo secolo (N.B. quando cominceranno le crociate Gerusalemme è in mano islamica da quattro secoli e mezzo). Con l’elezione del quarto califfo elettivo, Alì, cugino del profeta, esplose il conflitto tra: -Sciiti: per i quali il califfo doveva appartenere alla famiglia del profeta e dei suoi discendenti e per i quali la funzione di capo religioso è inscindibile dall’autorità politica -Sunniti: i musulmani che seguono la tradizione (sunna) del profeta e per i quali autorità religiosa e politica sono nettamente distinte. Nel 661 questi ultimi ebbero la meglio sui partigiani di Alì, che fu ucciso e il nuovo califfo Mu’awiya, del clan degli Omayyadi, introdusse un modello imperiale sull’esempio bizantino e persiano, con una capitale amministrativa posta a Damasco e affermò il principio ereditario del califfato. Sotto la dinastia omayyade l’impero raggiunse la sua massima estensione con la conquista del nord-Africa e della penisola iberica visigota (Spagna) nel 711. La dinastia omayyade, ma già in parte i califfi elettivi, non impose un’alterazione del tessuto sociale e delle dinamiche sociali, ma solo un governatorato di tipo militare lasciando inalterati assetti sociali interni e, dietro tassazione, la libertà di culto delle religioni monoteiste e questo è uno dei motivi che spiega il successo di questa espansione rapida e quasi ben accetta dalle popolazioni assoggettate, abituate all’incursione, alla pratica della razzia (che il Corano non condanna). L’espansione si arrestò solo di fronte alla reazione dei franchi, che si opposero agli arabi a Poitiers nel 732, e dei bizantini, che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. Sostenuto dalle elites non arabe convertite all’islam, un discendente di Maometto, Abul Abbas, rovesciò gli Omayyadi nel 750, dando il via alla dinastia califfale degli Abassidi. Muovendo la capitale da Damasco a Baghdad il baricentro dell’impero si spostò dal Mediterraneo verso l’Asia. Il potere centrale imitò i modelli imperiali persiani, con un apparato burocratico diviso in tre rami (cancelleria, esattoria fiscale e amministrazione militare) e posto sotto il controllo del visir, potentissimo funzionario di corte. Il territorio fu diviso in province, dette emiri. In Sicilia e in Spagna si giunse ad una straordinaria miscela etnica e religiosa che fece del califfato un luogo di convivenza e di eccellenza intellettuale e artistica che filtrò in Occidente l’antica cultura ellenistica. L’unità politica dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emirati cominciarono a promuovere politiche autonome (come succederà a duchi, conti e marchesi nell’impero carolingio). Nel 945, a Baghdad, la dinastia persiana dei Buwayhidi ebbe la delega del governo degli Abbasidi, che conservarono solo nominalmente il titolo califfale e nel 1058 ai persiani si sostituii la dinastia turca dei Selgiuchidi che assunse la guida dell’islam, conducendolo, nel 1071 alla conquista dell’Anatolia bizantina. L'Impero bizantino temeva l'avanzata dei Turchi e domandò al papa in Occidente di inviare una spedizione armata. Nel 1095, papa Chiaramente questo principio favorisce le casse del papato e nel canone ad liberandam di Innocenzo III è introdotto il principio di commutazione del voto per cui chi non volesse partire ma avesse la possibilità di finanziare la partenza di qualcun altro avrebbe ottenuto la stessa ricompensa spirituale e gli stessi privilegi. È chiaro, dunque, che dopo quattro secoli di dominazione islamica di Gerusalemme, la reazione cristiana arrivi nell’XI secolo, secolo di svolta fra i poteri universali e l’autorità papale capisce che può allargare la propria egemonia ponendosi al capo di un fenomeno che coinvolgeva tutta la cristianità, il pellegrinaggio e che sarà il successo delle crociate, percepite come “pellegrinaggi in armi”. Difatti, il pellegrinaggio veniva affrontato da uomini di ogni condizione sociale, per devozione, per adempimento di un voto o per espiazione dei peccati e le principali vie di pellegrinaggio erano Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. L’elite dei regni che vengono a crearsi è costituita da cavalieri e nobili che nei paesi di origine erano esclusi dalla primogenitura ereditaria e che, invece, avevano trovato nei paesi d’oltremare occasioni di guadagno economico. Protagonisti furono i cavalieri, tra l’XI e il XII secolo il mestiere di cavaliere venne specializzandosi e diffondendosi anche per effetto della sempre minore fedeltà armata dei vassalli ai propri signori, che si rivolgevano, perciò, a specialisti della guerra. Dal XIII secolo l’addobbamento cavalleresco fu riservato quasi esclusivamente ai discendenti dei cavalieri, che costituirono così un vero e proprio ceto ereditario. Prima della fonte “Urbano II secondo bandisce la prima crociata”, già al concilio di Piacenza, nel marzo del 1095, in seguito alla comparsa di ambasciatori di Alessio I imperatore di Bisanzio, fu dal papa Urbano II fatto un vivace invito ai presenti di accorrere in Oriente in soccorso dell'Impero bizantino. lo stesso anno il papa si recò in Francia e indisse per il 18 novembre seguente un concilio a Clermont per la riforma della chiesa francese. Nell'ultima sessione (27 novembre) tenuta su una pubblica-piazza, il papa riprese l'invito ad intervenire in Oriente: i principi, dopo aver accettato la pace di Dio, dovevano rivolgere le armi contro i nemici della fede, riscattare il Santo Sepolcro e liberare la cristianità d'Oriente dagli oppressori. Probabilmente Urbano II, a Clermont come a Piacenza, pensava solo ad appoggiare l'imperatore di Bisanzio, di cui sperava il ritorno all'unità religiosa, nella sua lotta contro i Turchi. Urbano II venne stabilendo i principî fondamentali della crociata: il giuramento di partire fu considerato come inviolabile, sotto pena di scomunica, vennero istituite le “tregue di Dio” per cui non si poteva combattere nei giorni festivi. Vi sono 4 redazioni di questa fonte, quella che leggiamo è di Roberto il Monaco e, benché il fallimento della prima fase (crociata degli straccioni) e il successivo recupero di Gerusalemme nel 1099 per mano dei maggiori esponenti dell’aristocrazia normanna e francese, quello che colpisce è il successo di questo discorso. Si pone l’accento su Gerusalemme, obiettivo che sacralizza la crociata e di cui la richiesta d’aiuto di Costantinopoli costituisce il volano. Viene messa al centro la ricompensa spirituale del cammino e per la quale la storiografia più recente ridimensiona gli obiettivi di conquista. L’impresa è legittimata da Dio col famoso passo “Deus vult”, per una riappropriazione di ciò che di diritto spettava alla cristianità a parte di una militia Christi, un esercito che milita per Dio. È un appello che dà il via ad un reclutamento largo, trasversale, ma poso coordinato in senso militare e fa anche capolinea il principio di commutazione del voto che sarà canonizzato nel quarto concilio lateranense. La prima crociata che non raggiunge Gerusalemme è la quarta (1202-1204), sotto Innocenzo III, in cui la costruzione della flotta è talmente impegnativa dal punto di vista economico che l’esercito crociato non riesce a far fronte al debito contratto, i veneziani si propongono di sostenerli impegnandoli in una prima deviazione a Zara, rivale commerciale veneziana e poi di una spedizione contro Costantinopoli che fu saccheggiata nel 1204 dando vita ad un nuovo “impero latino d’Oriente” destinato a sopravvivere per circa un sessantennio. La sesta crociata, indetta da Innocenzo III e organizzata dal suo successore Onorio III, vede Federico II sordo all’appello. Richiamato più volte, egli sarà scomunicato da Gregorio IX, ma partirà comunque ottenendo un accordo col sultano d’Egitto Malik al-Kamil che, per interessi interni concederà Gerusalemme all’imperatore. Nel Medioevo gli atti compiuti da uno scomunicato e gli accordi con gli infedeli non erano validi giuridicamente, ma in questo caso c’è un disorientamento generale nelle fonti per cui l’azione di Federico II porterà ad una temporanea riappacificazione col papato. L’ascesa e la crisi dell’impero carolingio Pipino il Breve si fece eleggere re da un’assemblea del popolo franco e, nel 754, fu unto e consacrato solennemente da papa Stefano II nella basilica di Saint-Dnis in cui venne proclamato patrocious romanorum (=protettore dell’autorità papale), in cambio di ciò Pipino scese due volte in Italia contro Astolfo re dei Longobardi (754 e 756), battendolo e donando al papa i territori reclamati. Alla morte del padre e del fratello Carlomanno, Carlo Magno ereditò il regno franco, secondo le tradizioni germaniche e porterà a termine la sinergia con l’autorità papale. Nel 771 Carlo ripudiò la moglie Ermengarda, figlia del re dei longobardi Desiderio, il quale accolse a corte la vedova di Carlomanno e i suoi partigiani. Carlomagno, sollecitato da papa Adriano I, impose a Desiderio di abbandonare al papa le terre che aveva occupato nell’esarcato e nel ducato romano e, avuto un rifiuto, attraversò le Alpi (773) col suo esercito, per i passi del Cenisio e del San Bernardo, superò per aggiramento la chiusa di Val di Susa, s’impossessò di tutta l’Italia settentrionale e, occupata Pavia (774), si intitolò re dei franchi e dei longobardi, rinnovando ad Adriano I i riconoscimenti che aveva già fatto Pipino nella promessa di Quierzy. Carlo guidò un’espansione militare su larga scala che nel volgere di un trentennio diede vita ad un’imponente costruzione politica nell’Occidente europeo: fu spento il ribellismo di regioni come la Borgogna, l’Aquitania e la Provenza, dove furono sostituite le dinastie di conti e fu rinsaldato il legame con il re, nel 772 fu avviata una lunga guerra contro i sassoni ai quali fu imposta con forza l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi e fu portata avanti una guerra formalmente di religione contro i musulmani che valse la conquista della marca di Spagna, attuale Catalogna. L’impero franco si proponeva quale erede di quello romano e delle sue ambizioni universalistiche e perseguì l’intento unificatore su diversi piani. Dal punto religioso si assiste alla diffusione della regola benedettina in tutti i monasteri, all’inaugurazione di una competizione filologica per decretare un testo critico unico della Bibbia. L’uniformità è ricercata anche dal punto di vista culturale e grafico, egli sostenne lo sviluppo di una fitta rete di scuole vescovili e di centri scrittorii presso i monasteri, per elevare l’istruzione del clero e dei funzionari pubblici. Nella cosiddetta scuola palatina veniva insegnato il trivio (=arti sermocinali: dialettica, retorica e grammatica) e il quadrivio (=arti reali: la musica, l’aritmetica, l’astronomia e la geografia), presso la cancelleria fu elaborata anche una scrittura uniforme e chiara detta “carolina”, che rese leggibili in tutto il regno gli atti pubblici. Per conferire al dominio imperiale unità culturale egli si circondò di intellettuali in larga parte ecclesiastici, fra cui l’anglosassone Alcuino di York, il longobardo Paolo Diacono, il visigoto Bendetto di Aniane cui il sovrano affidò l’elaborazione dell’ideologia imperiale incardinata sui valori cristiani. Benché non sapesse scrivere, anche Carlo era un uomo colto per i tempi, si faceva leggere le il quale affermò che vi sono tre poteri preminenti nella cristianità, quello del papa (chiamato a giudizio), quello dell’imperatore romano e bizantino. Al momento, però, sul trono bizantino vi era una donna, Irene, fatto inaccettabile e che legittimava l’intervento di Carlo. Il momento dell’incoronazione ci viene tramandato da Eginardo, un panegirista che affermò che Carlo si sentì contrariato, o per il topos modestiae (riluttanza regale) o per il rituale eseguito che esalta il ruolo centrale del popolo romano, difatti l’incoronazione successiva del giglio Ludovico avverrà ad Aquisgrana e il papa assisterà passivamente. Nel libro pontificalis è raccontato lo stesso avvenimento ma con una prospettiva diversa, che, invece, esalta il pontefice. Fedele alla tradizione, Carlo Magno dispose nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli, unico sopravvissuto Ludovico il Pio ne ereditò il potere dopo la morte nell’814. Nell’824, con la Constitutio romana, vincolò la consacrazione papale a un preventivo giuramento di fedeltà all’imperatore. La sua successione, disposta fin dall’817 aprì invece lotte violente tra gli eredi prima della sua morte. Nell’842 la battaglia di Fontenoy contrappone Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico al fratello Lotario e porterà ai Giuramenti di Strasburgo, in cui Ludovico riceverà la Germania e Carlo la Francia e i due giureranno in antico tedesco e in antico francese, poi l’accordo siglato a Verdun nell’843 riconobbe a Ludovico i territori ad est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più ad occidente e a Lotario quelli compresi nella fascia intermedia dal nord al regno d’Italia. La morte senza eredi di Ludovico II nell’875 avviò il crollo della dinastia carolingia che si estinse nell’887 con la deposizione del malato Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno. Le lotte dinastiche, infatti, avevano finito col rafforzare il potere delle aristocrazie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio patrimonio le cariche pubbliche di conti, marchesi e duchi. Nell’età postcarolingia venne così affermandosi un sistema sociale orientato in senso aristocratico che si fondava anche sugli arricchimenti resi possibili dal sistema curtense. Se sotto Carlo Magno i titoli di duchi, conti e marchesi e i loro benefici erano revocabili e ridistribuibili, quando il quadro unitario dell’impero si sgretola, i grandi benefici cominciano ad essere riconfermati agli eredi del defunto. Il capitolare emanato da Carlo il Calvo nell’877 a Quierzy-sur-Oise sancì che le cariche e i benefici rimasti vacanti non dovessero essere attribuiti ad altri prima del rientro dei figli del deceduto, formalizzando implicitamente l’ereditarietà dei benefici maggiori derivanti dal potere pubblico. Poi, nel 1037, con l’Edictum de beneficiis, l’imperatore Corrado II il Salico ratificherà l’estensione del carattere ereditario anche ai benefici minori, di derivazione signorile, di fatto legittimando le realtà signorili esistenti. Quindi, gli ufficiali pubblici (conti e marchesi) inizialmente di nomina imperiale riuscirono a rendere ereditaria la propria funzione, riducendo la capacità di controllo del sovrano. I conti e i marchesi si trasformarono in grandi signori e dinasti locali, l’origine della loro autorità derivava dall’ordinamento imperiale, ma il loro potere era fondato su nuove basi, ampiamente svincolate dal controllo di qualsiasi autorità pubblica. Dalla fine del IX secolo essi esercitarono le loro funzioni su territori ormai differenti dalle circoscrizioni pubbliche che gli storici chiamano contee e marchesati, una nomenclatura che traduce una ridefinizione anche geografica. Vescovi e monasteri ottennero dai sovrani delle concessioni di immunità che esoneravano le proprie proprietà dai munera e dal controllo degli ufficiali pubblici finendo col creare delle isole di giurisdizione autonoma che, con la crisi dell’impero carolingio, si diffusero ampiamente anche ai grandi proprietari laici che poterono così rafforzare i loro poteri signorili. Intorno alle grandi proprietà vennero affermandosi poteri signorili fondiari, ma anche signorie di banno (viluppo dei poteri del signore oltre l’area delle terre di proprietà e il gruppo di chi le lavora, su un territorio dunque non limitato al patrimonio fondiario, che coinvolge contadini indipendenti e coloni di altri signori. Un mezzo per estendere l’autorità dei signori su tutti i residenti delle aree limitrofe fu il fenomeno dell’incastellamento, la creazione di castelli per la difesa portava con sé la pretesa di esercitare le prerogative di natura pubblica, il districtus o “banno”. Si tratta, perciò, di un periodo, quello postcarolingio, caratterizzato da una frammentarietà di poteri, un sistema che si ricomporrà solo nell’XI secolo con l’affermazione delle monarchie nazionali, benché inizialmente solo formali. Viene definendosi il fenomeno della chiesa imperiale, per cui l’ordinamento ecclesiastico è assoggettato all’imperatore non per volontà di egemonia, ma perché i vescovi saranno funzionari dell’autorità pubblica ed eserciteranno i poteri pubblici per volontà degli stessi imperatori. La Chiesa imperiale è una struttura portante dell’impero, ma con la molteplicità dei poteri si assiste alla formazione di Chiese private (ex. Cluny) e porterà alla necessità di una riforma cui si assisterà nell’XI secolo. Solo alla fine dell’XI secolo nel regno dei Franchi Occidentali si affermò la potenza dei conti di Parigi che con Ugo Capeto ottennero il titolo regio nel 987, anche se la dipendenza dei grandi signori dal re fu poco più che formale. La situazione che si formò nel regno italico fu più instabile, territorialmente il regno ricalcava quello longobardo e carolingio e continuarono a rimanere fuori i domini bizantini, arabi e longobardi del meridione. A contendersi la corona furono soprattutto gli esponenti di quattro grandi famiglie che avevano le loro radici in principati territoriali: i duchi e i marchesi di Spoleto, di Toscana, di Ivrea e del Friuli. Al titolo di re d’Italia era connessa la dignità imperiale, con la consuetudine carolingia, perciò quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato ad intervenire contro Berengario II ricevette, oltre a quella di re d’Italia nel 961 anche la corona imperiale nel 962. Da quel momento si saldò il nesso tra le corone e i re di Germania cominciarono a scendere periodicamente in Italia per poter cingere le altre corone. Nel regno dei Franchi Orientali il figlio di Enrico di Sassonia, Ottone I riuscì ad essere eletto re ad Aquisgrana e rafforzò l’autorità regia e la sua incoronazione a Roma nel 962 restaurò l’autorità imperiale su nuove basi. La legittimazione del potere di Ottone I deriva dalla sua capacità di respingere gli Ungari nella battaglia decisiva di Lechfeld. Il rilancio del ruolo sacrale dell’imperatore ribadì la sua funzione di protettore della cristianità, con il privilegium del 962 Ottone riconobbe alla chiesa le donazioni carolinge ma stabilì che il papa, una volta eletto, dovesse prestare giuramento all’imperatore e il giuramento deve precedere la consacrazione. La sua politica è improntata al grande coinvolgimento degli ecclesiastici nel governo (chiesa imperiale), egli delega le cariche pubbliche ai vescovi, legati tramite un rapporto vassallatico beneficiario, essi vengono investiti dall’imperatore di un beneficio. Il nipote, Ottone III, vagheggiò una renovatio imperii carica di elementi simbolici di tradizione romana elaborata dal consigliere di corte Gerberto d’Aurillac, che fece eleggere papa nel 999. Dal IX secolo si assiste anche a nuove incursioni, quelle dei saraceni, degli ungari e degli scandinavi. Dalla Danimarca si spinsero verso l’Inghilterra e la Francia i normanni, i quali crearono un ducato nella Francia settentrionale che da loro prese il nome di Normandia. Nell’Italia meridionale, approfittando dei conflitti fra bizantini e longobardi, i normanni sconfiggeranno i bizantini nel 1053 nella battaglia di civitate e nel 1059 venne concessa loro dal papa l’intera area meridionale in feudo. Deciso fautore della riforma ecclesiastica, Niccolò II convocava quel Concilio lateranense che, nell'aprile 1059, decretava che l'elezione del papa fosse riservata ai soli cardinali, escludendo l'intervento della nobiltà romana e limitando il ruolo dell'imperatore a una forma di vago assenso. La rottura tra papato e impero spinse N. a cercare nuove alleanze; e nell'agosto 1059 stipulò a Melfi un accordo con il normanno Roberto il Guiscardo, cui conferì, in cambio dell'omaggio feudale, il ducato di Puglia, Calabria e Sicilia. Poté così, con l'aiuto normanno, impadronirsi dell'antipapa (fortificatosi, nel frattempo, a Galeria), che fu poi deposto dal concilio. Questo nel 1060 emanò i famosi decreti contro la simonia, che avrebbero acuito ancor più il dissidio fra Chiesa e Impero. Il processo di ricomposizione territoriale che caratterizza la storia politica dell’Occidente dell’XI-XIII secolo ebbe i suoi principali protagonisti nelle monarchie. Dalla frammentazione politica che era seguita all’impero carolingio presero vita intorno ai nuovi poteri monarchici alcune aree che avrebbero poi definito le principali identità politiche nell’epoca successiva: l’Inghilterra, la Francia, l’Italia meridionale, la penisola iberica. Ogni re era inizialmente un grande signore territoriale non differenziandosi dai poteri dei grandi principi territoriali, essi consultarli nel caso di nuove imposizioni fiscali, fu anche formato un consiglio (magna curia) di 25 baroni che avrebbero dovuto assistere il re nel governo del regno. Tra il X e l’XI secolo l’Italia meridionale era caratterizzata da forte frammentazione politica, aveva subito i tentativi di riconquista degli imperatori d’Occidente e Oriente, le dominazioni longobarde e l’espansione araba. All’interno di quel che rimaneva del ducato longobardo di Benevento si erano sviluppate due entità autonome, il principato di Salerno e la contea di Capua, mentre la stessa Benevento si era data alla Chiesa di Roma. Il superstite dominio bizantino si limitava ormai alla Puglia, sottoposta ad un catapano e alla Calabria, retta da uno stratego. Le maggiori città sulle coste campane Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi si erano rese difatti autonome e proposte al capo di piccole contee. La Sicilia, in mano agli arabi da più di un secolo soffriva la divisione dei dominatori musulmani. La stessa Puglia fu scossa da un’insurrezione fomentata dall’imperatore Enrico III. In un contesto così frammentato, all’inizio dell’XI secolo, giunsero dal ducato di Normandia numerosi cavalieri chiamati da longobardi e bizantini, in lotta fra loro. I normanni riuscirono a costituire piccoli domini quale ricompensa per i servizi militari prestati. Rainulfo Drengot ottenne la contea di Aversa dal duca di Napoli e Guglielmo d’Altavilla la contea di Melfi dal principe di Salerno. Nel 1047 i capi normanni prestarono omaggio all’imperatore Enrico III provocando la reazione del papa, le cui truppe furono sconfitte a Civitate nel 1053. Allontanatosi il papa dai bizantini in seguito allo scisma del 1054m morto Enrico nel 1056, i capi normanni strinsero un importante accordo con Niccolò II a Melfi nel 1059 che, in cambio della sottomissione feudale, conferiva a Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, intorno al quale si erano coagulati gli interessi dei normanni ormai insediatisi nel Mezzogiorno, il titolo di duca di Puglia e di Calabria, di terre cioè ancora in parte da conquistare. L’accordo di Melfi garantiva al papato un prezioso alleato nello scenario mediterraneo e, a sua volta, Roberto garantiva un supporto militare assicurandosi un’alta legittimazione del proprio dominio. Sotto la sua guida i normanni occuparono la quasi totalità dell’Italia meridionale, conquistando la Calabria, la Puglia, Amalfi e Salerno. Il fratello Ruggero avviò la conquista della Sicilia nel 1061 che si prolungò per un trentennio e Urbano II gli concesse nel 1098 l’autorità di legato apostolico, con il compito di ridefinire le circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola, profondamente islamizzata e di nominare i titolari delle sedi vescovili. Ruggero II riunificò i diversi principati normanni, raccogliendo l’eredità dell’ultimo duca di Puglia e Calabria, nonostante l’opposizione di Onorio II. Apertosi lo scisma tra il suo successore Innocenzo III, e Anacleto II, Ruggero II si schierò con l’antipapa, dal quale ottenne il titolo di re di Sicilia ricevendo l’unzione sacra e assumendo una dignità superiore rispetto a tutti i poteri esistenti nel nuovo regno. Nel 1140 promulgò, nelle assise di Ariano, una serie di ordinamenti volti a disciplinare i rapporti tra la corona e le giurisdizioni particolari dei feudatari delle città e perseguì anche una politica espansionistica in Africa e in Gracia che lo portò alla conquista di Gerba, Tripoli e Corfù. Alla sua morte senza eredi maschi, dopo le aperte rivolte dei baroni e delle città, salì al trono Costanza, figlia di Ruggero II, che avendo sposato nel 1186 l’erede al trono imperiale Enrico degli Hohenstaufen portò in dote il regno di Sicilia alla dinastia sveva. Alla morte del conte di Lecce Tancredi d’Altavilla, che i baroni siciliani avevano eletto re, Enrico IV si impadronì del regno nel 1195, reprimendo duramente la rivolta dei nobili, e procedendo con risolutezza all’annientamento del gruppo dirigente normanno che si era affermato intorno alla monarchia. Il secolo XI e la Riforma della Chiesa Col termine riforma si intende generalmente il processo svoltosi nella cristianità occidentale tra l’XI e il XII secolo, volto a sganciare le istituzioni ecclesiastiche dal controllo dei laici e a ricomprenderle in un ordine gerarchico che faceva capo al papa. Le cause dello sviluppi di esigenze di riforma sono: l’ingerenza dei laici nel controllo delle cariche ecclesiastiche prevalentemente ambite per motivi di lucro (fenomeno della chiesa privata che lede i margini di intervento dell’autorità vescovile), degradazione morale, ma anche culturale del clero con forme diffuse di simonia e concubinato, e il sentimento diffuso di necessità di riforma che matura inizialmente in ambito monastico, in particolare con Cluny, benché la storiografia più recente ne ridimensioni il ruolo. L’XI secolo segna un diaframma decisivo nel Medioevo separando due sfere di competenza, il regum e il sacerdotium. Tra i momenti iniziali di questo movimento riformatore si trova un input imperiale, al Concilio di Sutri del 1046, l’imperatore Enrico III depose tra papi rivali allora esistenti, rappresentanti dell’aristocrazia romana, e impose al soglio pontificio il proprio confessore col nome Clemente II, questi e i papi tedeschi che lo seguirono portarono aventi attraverso la convocazione di concili la lotta contro la simonia e il concubinato, pratiche che a lungo erano state percepite come abituali e si cercò di far adottare al clero secolare uno stile di vita fino a quel momento tipico del mondo monastico. I riformatori si preoccupavano di risolvere i principali problemi di moralità del clero:  La simonia: compravendita delle cariche ecclesiastiche  Il nicolaismo: le pratiche di concubinato, è un elemento di natura patrimoniale perché può dar vita alla disgregazione del patrimonio della chiesa. L’offensiva moralizzatrice, in cui si distinsero il cardinale Umberto di Silvacandida il monaco Pier Damiani, puntò alla deposizione dei sacerdoti simoniaci, individuati nei vescovi di nomina imperiale, e alla scomunica dei preti concubinari. Una forte spinta al rinnovamento venne anche dal laicato, che contestava le ricchezze accumulate e gestite dai perlati e il loro coinvolgimento nelle questioni temporali. Lotte violente si ebbero soprattutto a Milano, dove il movimento popolare prese il nome di patarìa e giunse a non riconoscere la validità sei sacramenti amministrati dai sacerdoti concubinari. Le varie espressioni della riforma trovarono solo nell’XI secolo l’elemento capace di coordinarle nel papato. Fu l’imperatore Enrico III ad agire a sostegno dell’istituzione pontificia eleggendo dei papi riformatori. Fu significativa l’opera del cluniacense Leone IX, che chiamò a Roma gli esponenti della lotta alla simonia. Alla morte di Enrico III, l’elezione, nel 1058, di Niccolò II avviene al di fuori dell’influenza imperiale, con una procedura subito ratificata nel Decretum in Dictatus papae, Gregorio VII Si tratta di un documento molto scarno composto da un’intitolazione e 27 proposizioni opera diretta del pontefice, che è stato rinvenuto, senza destinatario e datazione, in un registro papale dove sono contenute le epistole tra le lettere del 3 e 4 marzo 1075. Si tratta, con molta probabilità, dell’indice di una collezione canonica, il protagonista degli enunciati è il papa, modello di una chiesa ormai verticistica (“solo, soltanto”). Esso ribadiva l’autorità superiore del papato sia sulla Chiesa che sui poteri laici, solo il papa poteva deporre i vescovi, convocare i concili, giudicare senza essere giudicato, deporre gli imperatori, l’obbedienza veniva fatta coincidere l’ortodossia e chi si opponesse alla chiesa romana era considerato eretico. Si delinea, nel documento, il progetto di una monarchia universale della Chiesa che fu attuato progressivamente da Gregorio VII e dai suoi successori. La contrapposizione fra papato e impero si focalizzò sulle designazioni dei vescovi, da una parte la rivendicazione del papa alla nomina sovvertiva la consuetudine dei sovrani di scegliere i presuli investendoli di poteri pubblici, dall’altro proprio l’investitura laica era ritenuta all’origine della corruzione del clero episcopale. Preoccupati di difendere le ricchezze materiali, i vescovi si schierarono in genere con l’imperatore, nel 1076 Enrico IV convocò un concilio di vescovi tedeschi che dichiarò deposto il papa, aprendo un duro conflitto. Gregorio VII reagì scomunicando l’imperatore, sciogliendone i sudditi da ogni obbedienza. Enrico IV indusse il pontefice a revocare la scomunica con un clamoroso atto di penitenza restando per tre giorni davanti al castello della contessa Matilde di Canossa, dove Gregorio era ospite, finché non fu ricevuto e rilegittimato. Dopodiché, però, egli fece eleggere come antipapa l’arcivescovo di Ravenna, che nel 1084 nomina Enrico IV imperatore. Enrico IV riesce a nominare il papa proprio attraverso la falsificazione del decreto di Niccolò II. Tratto in salvo dai fedeli normanni, Gregorio VII morì a Salerno nel 1085. Successivamente, due papi monaci assumono un atteggiamento più compromissorio, il cluniacense Urbano II indice la prima crociata e durante il pontificato di Pasquale II riemergono tensioni con l’autorità imperiale a causa della reazione dell’episcopato tedesco verso la perdita dei regalia per l’effetto della rinuncia di Enrico V alla nomina di vescovi e abati e si passa ad una nuova pravilegium, in cui si riconcedeva all’autorità imperiale il controllo dell’episcopato. La vera soluzione si ottenne nel 1122 a Worms tra Callisto II ed Enrico V, il concordato stabiliva che l’elezione dei vescovi dovesse essere fatta ovunque nel rispetto dei canoni, del clero e dal popolo delle città e distingueva la consacrazione spirituale, riservata al clero, dall’investitura temporale, lasciata all’imperatore. In Germania il sovrano poteva investire i vescovi prima della consacrazione, in Italia e in Borgogna, questa doveva precedere l’investitura temporale. Sul medio e lungo periodo l’effetto fu quello di restringere le prerogative dei vescovi al piano pastorale e spirituale, rendendo impossibile l’attribuzione di poteri civili caratteristica del precedente sistema. Proponendosi come guida suprema della cristianità, il papato animò anche la lotta contro i suoi nemici, guidando il movimento crociato che dalla fine dell’XI secolo si propose la liberazione dei luoghi santi della Palestina. Papato e impero rinnovarono tra il XII e il XIII secolo i rispettivi progetti di supremazia universalistica sulla cristianità e dando luogo a nuovi conflitti di cui fu teatro l’Italia. Dopo il concordato di Worms l’azione politica del papato divenne irreversibile e allo stesso modo l’elezione di Federico I nel 1155 restaurò l’autorità imperiale, tuttavia gli imperatori furono impegnati a gestire l’autonomia rivendicata dai principi territoriali tedeschi e i papi entrarono in conflitto con i grandi monarchi per il controllo delle immunità e delle cariche ecclesiastiche nei regni. Alla base dell’idea di supremazia imperiale di Federico I, teorizzata dal suo cancelliere Rinaldo di Dassel, c’era l’idea che il potere imperiale era conferito direttamente da Dio attraverso l’unzione e non era mediato dall’incoronazione del pontefice e cominciò ad essere utilizzata l’espressione di sacrum imperium. Da qui la determinazione di non riconoscere la supremazia papale e il sostegno all’elezione dell’antipapa Vittore IV nel 1159, che aprì uno scisma ricomposto solo con il tardivo riconoscimento di Alessandro III. Federico I si propose di pacificare la Germania e di riaffermare il potere imperiale in Italia in aperto conflitto con le città. nel 1158 egli convocò a Roncaglia un’assemblea pubblica del regno d’Italia in cui riaffermò, con la Constitutio de regalibus, le prerogative (regalìe) dell’autorità regia. La crescita delle pressioni fiscali spinse molte città alla formazione di un’alleanza, detta “lega lombarda” sostenuta da papa Alessandro III, che sconfisse militarmente e costrinse Federico I Barbarossa a concedere, attraverso la pace di Costanza del 1183, l’esercizio delle regalìe ai comuni in cambio del riconoscimento formale dell’autorità imperiale. Prima di morire durante la terza crociata nel 1190, Federico I assicurò al figlio Enrico VI l’eredità del regno di Sicilia combinandone il matrimonio con Costanza d’Altavilla, tuttavia egli morì nel 1197 quando il figlio Federico era un bambino e la madre ne affidò la tutela al papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano vassalli, che lo incoronò nel 1208. L’elezione a re di Germania nel 1212. Dove confermò diverse prerogative regie ai principi e alle città, aprì a Federico II la strada per l’incoronazione imperiale nel 1220. Egli riuscì a perseguire una piena affermazione della propria sovranità solo nel regno di Sicilia, mentre fu vano il tentativo di imporre l’autorità imperiale sulle città del centro-nord, sostenute da papa Gregorio IX, che scomunicò Federico II nel 1227 per eresia. In Sicilia Federico II si innestò sulle preesistenti strutture normanne e sviluppò un efficiente apparato amministrativo, costituito da organismi centrali, circoscrizioni provinciali e ufficiali di nomina regia delle città. nel 1231 Federico raccolse nel Liber augustalis la sua legislazione, che rivela il disegno di un governo ordinato del territorio per l’esercizio della giustizia e della fiscalità regia. Dopo gravi sconfitte a Parma e Fossalta dove i bolognesi catturarono il figlio Enzo, Federico II morì e gli subentrò il figlio Corrado e alla morte di questi il minore Corradino, che fu usurpato nel 1258 da un figlio illegittimo di Federico, Manfredi, che non fu riconosciuto come sovrano dal papa. Le lotte di successione indussero il papa francese Urbano IV, signore feudale dei re di Sicilia, ad affidarne la corona a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, che sconfisse Manfredi a Benevento nel 1266 e occupò il regno. La battaglia di Benevento è un evento di grande importanza storica, perché con la sconfitta e la morte di Manfredi e la conquista del regno di Sicilia da parte di Carlo d’Angiò, rappresentò il primo atto della definitiva vittoria del papato nella lotta contro gli svevi e l’inizio della dominazione angioina nell’Italia meridionale. Si aprì allora una grave fase di instabilità politica che vide il titolo regio tedesco e quello imperiale vacanti fino al 1273 quando fu eletto imperatore Rodolfo I d’Asburgo. L’imperatore si ridusse ad essere definitivamente un sovrano tedesco e si diffuse l’idea che l’impero cristiano dovesse essere retto dal potere universale del pontefice. Affinando la teoria teocratica elaborata da Gregorio VII, che attribuiva al papato il potere assoluto su tutti i governi, fu Innocenzo III a sviluppare una dottrina coerente che ne affermava la supremazia universale. Attraverso la metafora del sole (la Chiesa che brilla di luce propria) e la luna (l’impero che brilla di luce riflessa) espressa nel 1198, egli sancì il principio per cui il papa, vicario di Cristo, riceveva da Dio il potere spirituale e temporale, delegando l’autorità imperiale ai sovrani che dovevano esercitarla sotto il controllo della chiesa. Innocenzo IV sostenne il diritto di poter deporre gli imperatori (come fede lui stesso con Federico II) e Bonifacio VIII ribadì la subordinazione del potere civile a quello religioso. La pretesa dei papi si fondava sulla Constitutm Constantini, documento falsificato che attribuiva la concessione a papa Silvestro della pars occidentis. Col pontificato di Innocenzo III si assiste all’affermazione del potere pontificio anche nelle vicende politiche, egli elaborò quell’organica idea di crociata che ispirò il rilancio della reconquista spagnola, le spedizioni in Oriente e la crociata contro i catari che inaugurò la serie di guerre interne alla cristianità che i papi avrebbero condotto contro i dissidenti e i nemici politici. Un’intensa partecipazione alle vicende politiche europee contraddistinse l’operato dei pontefici per tutto il XIII secolo, alla fine del secolo si succedettero due papi che incarnavano opposte concezioni della chiesa. Celestino V, caratterizzato da intensa spiritualità ma digiuno di esperienza politica, quando si rese conto delle difficoltà che si opponevano ai suoi progetti, abdicò e poi Bonifacio VIII, che celebrò la preminenza dell’autorità pontificia attraverso la proclamazione nel 1300 del primo La Costituzione sulle regalìe (+ tetso di Ottone di Frisinca da lez 02.12.22) Gli iura regalia sono i diritti pertinenti al sovrano per sua concessione ad altra autorità, caratteristica della manifestazione della sovranità nel campo giurisdizionale e amministrativo. Federico I scende in Italia su richiesta papale, per porre freno a un tentativo di nascita di un’esperienza comunale a Roma, dove invece il domus temporale era il papa, detentore delle regalie. L’elaborazione della teoria dei regalìa deriva dalla Constitutio de regalibus, emanata da Federico I Barbarossa alla dieta di Roncaglia (1158), diretta a rivendicare al sovrano quei diritti e beni pubblici che i Comuni italiani avevano usurpato. Nella dieta di Roncaglia come regalie vennero catalogate sia alcune funzioni regie, sia il diritto di battere moneta, la riscossione delle tasse e l’imposizione di munera. Le città, però, rivendicarono il diritto all’autogoverno, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò alla formazione di leghe tra le città venete e lombarde, poi fuse nella “lega lombarda” giurata a Pontida nel 1167, che propose la Proposta di Montebello all’imperatore e lo sconfisse clamorosamente in battaglia a Legnano nel 1176. L’anno dopo, si stabilisce la Tregua di Venezia con i comuni e c’è una sottomissione di Federico I al papa Alessandro III di cui aveva contrastato l’elezione. Pace di Costanza 1183 Conclusa nel 1183, tra Federico Barbarossa e i rappresentanti di città dell’Italia settentrionale e centrale, pur riconfermando il diritto imperiale di approvazione dei consoli e l’obbligo della corresponsione di determinate regalie, segnò il riconoscimento della vita in gran parte autonoma dei Comuni. Fu considerata perciò come la magna charta delle libertà comunali e, come atto normativo imperiale, diventò una vera e propria fonte di diritto comune. Si tratta di un vero e proprio spartiacque nel passaggio dal comune consolare a quello podestarile. È interessante qui vedere in latino: civitates munire (dotarsi di mura, difendersi dai rivali) et extra civitates munitiones eis facere licet: non si dice fino a quando🡪 tendenza a lasciare indefiniti molti aspetti nella speranza da parte imperiale di ridefinire quegli accordi e da parte comunale di interpretarli in maniera estensiva. Paradossalmente, i comuni non disconosceranno l’imperatore, non c’è una sconfessione del ruolo dell’imperatore, per lo meno della presenza dell’autorità imperiale, gli riconosceranno anche materialmente un tributo, un censo. Purtroppo, qui manca la parte del riconoscimento, c’è un indennizzo, una tantum in occasione della pace, c’è il riconoscimento di un censo annuo all’imperatore, ma i comuni, questi, usufruiscono degli iura regalia (punto 36). Tuttavia, lo scontro fra imperatore e comuni si riapre con Federico II, i comuni che volevano preservare la propria autonomia dalle sue pretese di sovranità, risuscitarono la Lega Lombarda. Nel 1237 a Cortenuova Federico piegò la Lega, ma invece di cercare un accordo favorevole per le parti, cercò di imporre una resa incondizionata. La lotta allora riprese e questa volta al fianco dei Comuni si schierò anche il papa, che scomunicò per la seconda volta lo Svevo (1239). Federico conobbe l'amarezza della sconfitta: nel 1248, presso Parma, subì una grave disfatta; l'anno dopo i Bolognesi catturarono a Fossalta Enzo, figlio prediletto dell'imperatore. Lo sviluppo politico maturò pienamente nella prima metà del XIII secolo, dando luogo ad un primo ampliamento del gruppo dirigente, alla stabilizzazione delle istituzioni e ad un decisivo riordinamento amministrativo e giuridico. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica che si muovevano tra le città contribuendo a rendere omogenee le pratiche di governo: presiedere i consigli cittadini, guidare l’esercito, mantenere l’ordine e amministrare la giustizia. Il nuovo regime consentì di superare il sistema consolare che era stato egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potente (milites) e il podestà cominciò anche a far redigere per iscritto le sue leggi e consuetudini, gli statuti. C’è anche un’evoluzione degli spazi fisici del governo, prima chi coadiuvava il vescovo si trovava negli spazi antistanti la cattedrale (i vescovi avevano potere politico), con la formazione degli arenghi ci si sposta nelle piazze con una laicizzazione degli spazi. La scelta del podestà super partes tradisce una forte conflittualità tra i comuni. L’espansione demografica e il boom economico causano l’esclusione di alcune classi politiche, il popolo riuscì a mobilitare le sue società armate a base rionale per imporre nello spazio politico proprie istituzioni che affiancarono quelle del comune: i governi di popolo. Alla morte di Federico II nel 1250, lo spazio politico delle città fu condiviso da più soggetti: il popolo, le corporazioni di mestiere (arti), le parti (partes) e dai poteri signorili. Ciascuna di queste forze si affermò con proprie istituzioni e statuti, agendo in uno spazio condiviso e rielaborando i valori e i linguaggi del discorso pubblico cittadino. L’effetto più evidente fu la moltiplicazione dei processi di esclusione anche dalle stesse città. Protagonisti principali furono le parti che erano venute a formarsi all’interno delle città tra i fautori dell’impero (pars imperii) e quelli del papato (pars ecclesiae) nel contesto del conflitto fra gli imperatori svevi e il papato. Gli schieramenti cercarono di egemonizzare lo spazio politico cittadino, raccordandosi a reti di alleanze intercittadine che, nella seconda metà del ‘200, assunsero i nomi di guelfa (fautori della chiesa) e ghibellina (fautori dell’impero). L’affermazione violenta di una parte si traduceva nell’esclusione dalla città dell’altra, spogliata dai beni e privata della cittadinanza. Inoltre, i conflitti che avevano opposto il “popolo” all’aristocrazia urbana subirono un’accelerazione a causa dell’incapacità di coniugare la disciplina della società con il mantenimento di un carattere aperto alla partecipazione politica. In alcune città i governi di popolo non esitarono ad escludere dagli uffici politici alcune famiglie dell’aristocrazia militare, colpendoli con una legislazione speciale che li indicò come magnati, escludendoli di fatto e penalizzandoli. Nella seconda metà del XIII secolo ci si rese conto dell’inadeguatezza delle istituzioni comunali e si compì quasi ovunque il superamento dei governi comunali in soluzioni spesso ibride: governi di parte, di popolo o a guida personale. La nuova varietà di configurazioni è bene esemplificata dal caso di Firenze, dove tra il XIII e il XIV secolo si alternarono governi di popolo, esclusioni magnatizie, bandi ed esili di parte, esperienze signorili e chiusure in senso oligarchico. L'affermazione di forme di potere personale e signorile fu contemporanea a quella dei governi di popolo, in molte città i consigli municipali cominciarono a conferire ad un singolo cittadino eminente, un potere incondizionato svincolato dagli statuti della città. Al signore (dominus) così eletto erano assegnati compiti di difesa militare, di sicurezza ed era autorizzato ad espellere i membri delle fazioni avverse. In seguito all’affermazione di dominazioni di tipo signorile, le articolazioni di tipo comunale rimangono inizialmente in vita ma vengono sempre più popolati da personalità vicine al signore: i consigli vengono permeati dalla clientela del signore, ormai svuotati dal valore politico. Se la prima età comunale era caratterizzata dall’unanimità, ora si viene affermando un’azione plurale dal punto di vista decisionale. spade, che poi decide se concederla. Questa ideologia che postula il primato della classe sacerdotale riprende il principio di necessitas gelasiano (l’autorità temporale deve essere dipendente da quella spirituale), il sicut universitatis conditor di Innocenzo III, la dottrina aristotelica degli intermediari che legittima il ruolo di mediatore del papa e anche il principio del Dictatus papae (prima sedes a nemine iudicatur). Al culmine dello scontro fra Bonifacio VIII e Filippo IV, il re fu scomunicato dal papa. Su consiglio di Guglielmo di Nogaret, uno dei giuristi che orchestrava la campagna di discredito del pontefice, il re concepì il disegno di condurre il papa davanti ad un tribunale francese per sottoporlo a giudizio di lesa maestà. Nel 1303 una spedizione guidata dallo stesso Nogaret e appoggiata dalla famiglia romana dei Colonna, nemica storica dei Caetani cui apparteneva Bonifacio VIII, lo raggiunse ad Anagni, in quel momento sede della curia, dove fu coperto di insulti e arrestato nell’evento noto come schiaffo di Anagni. Il papa fu poi liberato, ma morì pochi giorni dopo, l’episodio mostrò che le pretese teocratiche dei pontefici non avevano più alcuna possibilità di concreta realizzazione. Nonostante lo scandalo, infatti, il re riuscì a far eleggere papa nel 1305 il vescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, salito al soglio col nome di Clemente V. temendo un’accoglienza ostile da parte dei romani, nel 1309, il nuovo pontefice trasferì la curia pontificia ad Avignone, dove sarebbe rimasta fino al 1377. La lunga permanenza della curia ad Avignone rafforzò i rapporti tra il papato e il regno di Francia, consolidando l’asse guelfo che dominò la scena politica europea del Trecento, tanto che i sette pontefici del periodo furono tutti francesi. Le entrate di cui i papi avignonesi poterono disporre ne fecero la quarta potenza finanziaria d’Europa dopo i regni di Francia, Inghilterra e Napoli. Tuttavia, si moltiplicarono i fenomeni di corruzione, particolare sviluppo ebbe la vendita delle indulgenze, cioè della remissione delle pene temporali inflitte ai peccatori che in precedenza erano state concesse in seguito a preghiere e pellegrinaggi (giubileo indetto da Bonifacio VIII), ma dal XIV secolo fu sempre più facile ottenerle con una semplice elargizione in denaro. Perciò, la curia pontificia fu oggetto di accuse di immoralità e mondanizzazione, Dante Alighieri definì la corte di Avignone un luogo di corruzione e scrisse di una “cattività avignonese”, cioè di una prigionia del papato da parte della corona francese. Fu Gregorio IX, nel 1377, a riportare la curia a Roma, ma alla sua morte si aprì un conflitto interno al collegio dei cardinali per i contrasti tra prelati italiani e francesi. I cardinali italiani elessero papa l’arcivescovo di Bari, Urbano VI e i francesi il cardinale di Ginevra, Clemente VII e si trasferì di nuovo ad Avignone. Si aprì così uno scisma interno alla Chiesa d’Occidente. In un ambiente così corrotto, molti manifestavano esigenze di spiritualità più intima e rigorosa e, sulla scia delle dottrine millenaristiche di Gioacchino da Fiore, le correnti spirituali francescane, assertrici di un pauperismo radicale, si contrapponevano alla Chiesa come istituzione di potere e, quando nel 1322 il capitolo generale dell’ordine approvò alcune affermazioni sulla povertà di Cristo, papa Giovanni XXII le condannò come eretiche. Dai francescani si distaccò Gherardo Segarelli, fondando la setta degli apostolici, che si propose si rinnovare la purezza di dottrina e di vita dell’età degli apostoli, ma il movimento fu condannato come ereticale e Gherardo condannato al rogo, lo succedette fra Dolcino contro cui Clemente V bandì una crociata. La crescente attesa escatologica che si manifestava nelle correnti pauperistiche e spiritualistiche indusse la Chiesa a riconoscervi dei pericolosi fermenti di eresia e tra il XIII e il XIV secolo si assiste ad un’ondata di processi. In Italia, fu soprattutto papa Giovanni XXII, che aspirava a riaffermare il predominio pontificio, a lanciare una crociata armata e processi per ribellione ed eresia. L’accusa di eresia era strumentale alla difesa della sovranità pontificia. I tentativi di ricomposizione derivarono dal movimento conciliarista, per il quale solo un concilio ecumenico avrebbe potuto riportare ordine nella Chiesa. Nel 1409 fu convocato a Pisa un concilio che definì scismatici ed eretici entrambi i pontefici ed elesse un nuovo papa nella figura dell’arcivescovo di Milano, Alessandro V, gli altri due pontefici si rifiutarono di abdicare e i papi divennero addirittura tre. Lo scisma si concluse con il Concilio di Costanza (1414-1418) con l’elezione di papa Martino V (1417). Il movimento conciliarista fu anche alla base della fondazione di Chiese nazionali, che ruppero definitivamente l’unità della cristianità. L’indebolimento papale, infatti, consentì ai sovrani di svincolare dal controllo della curia il governo delle istituzioni ecclesiastiche, nel 1438 il re di Francia emanò la Prammatica sanzione, che proclamava l’elezione locale di vescovi e abati e la drastica riduzione dell’intervento papale in tema di tasse e benefici. Dalla metà del XV secolo furono raggiunti accordi con i sovrani europei che riconoscevano loro ampi gradi di controllo locale delle tasse, delle giurisdizioni e degli uffici ecclesiastici in cambio del riconoscimento della superiore autorità pontificia. Le crisi del Trecento Il Trecento è un periodo di forte crisi demografica, economica, dei poteri universali che portano a forti tensioni sociali e conflittualità. La crisi demografica fu acuita dalla comparsa ciclica di carestie, la più importante delle quali fu quella del 1315-17 e dalla ricomparsa della peste in Occidente che si presentava con ondate frequente, la più virulenta fu quella nota come “peste del 1348”, di cui lo stesso Boccaccio scrive. Tra le conseguenze della crisi demografica vi fu un decremento della manodopera, il cui riflesso nelle città e nelle campagne fu l’aumento dei salari e, conseguentemente, dei prezzi. L’intervento dei poteri politici fu tardivo e si tradusse, comunque, in forme di controllo non occasionali (ex. lo Statuto dei lavoratori del 1351 in Inghilterra). Si assiste ad un calo della produzione manifatturiera e del commercio e al fallimento di numerose compagnie bancarie. Questi e altri mutamenti portarono ad una ridefinizione del sistema economico (riorganizzazione del lavoro, apertura di nuove rotte commerciali, ecc..). Il Trecento fu caratterizzato dal frequente ripetersi di rivolte di carattere sociale a fronte di un aggravio delle condizioni generali e di una sperequazione della distribuzione della ricchezza. I moti più celebri furono quello della jacquerie nella Francia del Nord (1358), la rivolta dei contadini inglesi del 1381, per l’Italia il tumulto dei Ciompi del 1378. La frequenza e l’ampiezza delle rivolte sono legate alla debolezza dei poteri centrali, anche su base locale. Dal punto di vista politico, il fenomeno più importante dell’Europa dei secoli XIV e XV fu rappresentato dal rafforzamento in senso statale dei regni, cioè da una loro maggiore stabilità politico-amministrativa e territoriale. La formazione degli stati europei tra il XIV e il XV secolo si svolse in continuità con i precedenti processi di affermazione dei poteri monarchici, i territori degli stati non rappresentarono delle realtà unitarie, bensì delle entità composite e l’autorità dei sovrani non fu mai esercitata ovunque nel regno in forma diretta e assoluta, ma il loro potere fu limitato sempre da un’eterogenea pluralità di organismi politici minori. L’esito dei conflitti e delle resistenze dei corpi politici fu la ricerca da parte dei sovrani di modi di legittimazione che derivassero da accordi consensuali che portarono a riconoscere la sovranità dei re in cambio del riconoscimento dei diritti e delle autonomie locali. Le città e i signori si sottomisero all’autorità dei sovrani e questi delegarono loro una parte del governo dei territori dello stato. I sovrani si proposero come mediatori tra i vari corpi politici, furono dunque i patti, più che il consolidamento dei poteri monarchici, a rendere più stabili gli stati del XIV e XV secolo. Il riaffacciarsi degli imperatori in Italia offrì l’occasione ai signori cittadini di rafforzare la propria autorità attraverso l’attribuzione del titolo di vicario, in cambio di cospicui tributi, Enrico VII lo concesse ai Scala a Verona, ai Visconti a Milano ai Bonacolsi a Mantova e ai Camino a Treviso. Nel corso del XIV secolo si rovesciò sui signori una gran quantità di legittimazioni vicariali che, col richiamo all’impero come fonte dei poteri esercitati, ne affrancarono l’autorità dalla legittimità loro conferita dai consigli cittadini. Vi furono fenomeni irreversibili come la dinastizzazione delle cariche, la creazione di organi di governo dipendenti direttamente dai signori, lo svuotamento dei poteri delle assemblee cittadine, l’abolizione degli uffici comunali e la formazione di vere e proprie corti nel quadro di un tangibile consolidamento autoritario del potere. Tra il XIV e il XV secolo il quadro frammentario dell’Italia comunale e signorile fu ricomposto in un sistema politico più strutturato e stabile di stati territoriali a dimensione regionale, protagoniste furono alcune realtà urbane e signorili capaci di esprimere forza economica e volontà espansionistica. A promuovere la formazione dei maggiori stati territoriali furono grandi città come Firenze, Venezia e anche Milano, che sostenne con la propria potenza sociale ed economica l’intraprendenza politica e militare della dinastia dei Visconti. La competizione politico-militare che nei primi decenni del Quattrocento aveva forgiato la frammentazione degli stati territoriali italiani conobbe un’ulteriore accelerazione nei decenni centrali del secolo quando l’alleanza tra i Visconti e gli Aragonesi insediò le armi sul trono di Napoli Alfonso V nel 1442, e la morte senza eredi di Filippo Maria Visconti nel 1447 scatenò lo scontro per la successione nel ducato di Milano. Nel 1450 esso pervenne nelle mani del condottiero marchigiano Francesco Sforza, che aveva sposato una figlia naturale di Filippo Maria. A sostenerlo furono i fiorentini, anche per contrapporsi all’avanzata che i veneziani avevano attuato in Lombardia occupando Lodi e Piacenza, col consenso e l’appoggio del duca di Savoia e del re di Napoli. La guerra si protrasse fino al 1453 quando la notizia della caduta di Costantinopoli indusse i veneziani a concentrarsi nuovamente sulle vicende del loro “dominio da mar”, minacciato dall’avanzata dei turchi. Una pace fu stipulata a Lodi nel 1454, sancendo l’ascesa di Francesco Sforza al dicato di Milano e alcune delle conquiste di Venezia in territorio lombardo. Tra il 1454 e il 1455 fu stretta anche una lega tra gli stati situati “infra terminos italicos”, cioè nei confini italiani che prevedeva una durata di 25 anni rinnovabili e la creazione di un esercito comune per la difesa da attacchi dall’estero a cominciare dalle mai dismesse rivendicazioni angioine sul regno di Sicilia. Alla lega, promossa dal duca di Milano, da Venezia e da Firenze, aderirono il papa, il re di Napoli, il duca d’Este e quasi tutti gli altri stati minori. Si consolidò così l’assetto del sistema politico italiano incentrato sui cinque stati maggiori: ducato di Milano, stati territoriali di Venezia e di Firenze, stato pontificio e regno di Sicilia. L’obiettivo di mantenere la pace fu raggiunto per circa un quarantennio, nonostante conflitti locali e l’equilibro rimase in piedi fino a quando il re di Francia Carlo VIII di Valois scese col proprio esercito in Italia tra il 1494 e il 1495 impossessandosi del regno senza opposizioni di rilievo. La discesa del re di Francia chiuse la fragile stagione dell’equilibrio autarchico e inaugurò un duro periodo di contesa dei paesi stranieri per il controllo dell’Italia.
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