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STORIA MEDIEVALE - Riassunto (Provero - Vallerani), Sintesi del corso di Storia

Riassunto dettagliato capitolo per capitolo del libro di storia medievale di Luigi Provero e Massimo Vallerani. Permette di fare a meno del libro.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 14/04/2021

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Scarica STORIA MEDIEVALE - Riassunto (Provero - Vallerani) e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Luigi Provero & Massimo Vallerani Storia medievale Sommario Parte I ………………………………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 2 Capitolo I ……………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 2 Capitolo II …………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 6 Capitolo III ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 11 Capitolo IV…………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 13 Parte II ……………………………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 17 Capitolo I ……………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 17 Capitolo II …………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 21 Capitolo III ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 25 Capitolo IV ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 29 Capitolo V …………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 32 Parte III ……………………………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 39 Capitolo I …………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 39 Capitolo II ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 45 Capitolo III …………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 48 Capitolo IV …………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 52 Capitolo V ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 53 Capitolo VI …………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 61 Parte IV ……………………………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 67 Capitolo I …………………………………………………………………………………………………………………….. Pagina 67 Capitolo II ……………………………………………………………………………………………………………………. Pagina 72 Capitolo III …………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 78 Capitolo IV …………………………………………………………………………………………………………………… Pagina 82 PARTE PRIMA LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO L’idea di medioevo nasce quando il medioevo finisce: furono gli umanisti, a partire dal XV secolo, a individuare un periodo di mezzo (una «media aetas») che si frapponeva tra loro e l’età classica. È quindi un’idea: affermare la propria diretta discendenza dalla cultura classica e connotare il millennio precedente come un intermezzo, un periodo di barbarismi e di declino linguistico e culturale, una rottura che andava sanata. Gli uomini del Rinascimento, formati in una cultura che vedeva nello Stato il modello politico più alto, guardavano con perplessità e disprezzo il medioevo. La nozione di medioevo resta utile perché indica un periodo che si colloca tra due fasi: da un lato la trasformazione del mondo romano, tra IV e V secolo; dall’altro la formazione dell’Europa moderna, un migliaio di anni dopo. Un mutamento così complesso che ovviamente non si può ridurre a una data. Molte date sono state proposta: la classica data del 476 (la fine dell’Impero d’Occidente) esprime l’idea che la struttura fondante del mutamento sia rappresentata dalle istituzioni più alte, dal titolo imperiale; il 410 (il sacco di Roma da parte dei Visigoti) privilegia una lettura etnico-militare, con la libera mobilità dei popoli barbarici nei territori dell’Impero; il 324 (fondazione di Costantinopoli) è un modo per evidenziare i quadri territoriali e istituzionali, con la creazione di una nuova capitale, alternativa a Roma; il 313 (l’editto di Milano) indica invece nel mutamento religioso il fattore più connotante. Ma è importante ricordare che non è il fatto specifico a determinare il mutamento, ma è il mutamento strutturale a manifestarsi nel fatto. CAPITOLO I L’impero cristiano Il cosiddetto tardo-antico è visto come un periodo con i suoi propri connotati, in un complesso e innovativo equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo centrale, la progressiva penetrazione di nuove popolazioni nei territori imperiali e nuove forme religiose. 1. Il sistema imperiale tardoromano: poteri e prelievi Un momento fondamentale di tradizione nella storia romana si ebbe attorno alla fine del II secolo d.C., quando terminò l’espansione militare dell’Impero. Da qui si può far iniziare l’Impero tardoantico. L’Impero riuniva popolazioni diverse per tradizioni, lingue e religioni, con livelli di romanizzazione molto variabili; ma queste popolazioni erano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una profonda crisi lungo la seconda metà del III secolo, con una serie di lotte per il trono. Il potere imperiale fu ripristinato con forza sotto Diocleziano; condividenti il potere, a partire dal 285, con Massimiano: nasce la diarchia. Si avvia la crescente importanza di polarità diverse da Roma, come l’Oriente, dove agì Diocleziano, e la Gallia, ambito di azione di Massimiano. Questa polarizzazione si accentuò quando la diarchia divenne triarchia, con due diversi Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono i due Augusti. Fu messa in discussione le responsabilità dei diversi sovrani che assunsero un più chiaro connotato territoriale. Due passaggi furono fondamentali nel corso del IV secolo: prima la fondazione di Costantinopoli, poi il regno di Teodosio e dei suoi successori. Sull’antica città di Bisanzio, l’imperatore Costantino nel 324 decretò di fondare una città nuova: Costantinopoli, di cui nel 330 celebrò la dedicatio. Costantinopoli nacque subito come residenza imperiale; non una capitale, poiché la capitale era Roma. Costantinopoli si affermò come punto di riferimento forte del potere imperiale nel Mediterraneo orientale. L’ulteriore anomalia fu la presenza di un Senato. In questa prima fase, il Senato di Costantinopoli era solo una sorta di appendice del Senato di Roma; era l’assemblea di quei senatori che erano attenti alle aree orientali dell’Impero e per questo avevano seguito Costantino nella sua nuova residenza. Solo a partire dal V secolo, Costantinopoli divenne una vera e propria capitale. Il secondo mutamento fu la divisione stabile tra una parte orientale e una parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I. Teodosio prese atto che un efficace controllo dei territori così diversificati e così duramente minacciati avrebbe richiesto una presenza diretta dell’imperatore, possibile solo con una spartizione del territorio. I figli, L’Impero diventò cristiano a partire dai primi decenni del IV secolo. Il punto di partenza è individuabile nelle persecuzioni contro il Cristianesimo, che abbracciano la seconda metà del III secolo, a partire dall’imperatore Decio (250). Le persecuzioni furono un elemento di novità rispetto alla tradizionale tolleranza religiosa romana; vi è dietro la trasformazione e l’esaltazione intollerante del culto dell’imperatore. Il fine delle persecuzioni era il consolidamento della coesione ideologica dell’Impero oltre a ragioni economiche (requisizioni a danno dei cristiani). Un mutamento radicale si attuò nei primi anni del IV secolo, dopo la grande persecuzione del 303-304: si arrivò alla libertà di culto per i cristiani (tra il 311 e il 313), innescando un processo che portò nel 380 a fare del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero. Tre furono le tappe: l’editto di Milano (313), il concilio di Nicea (325) e l’editto di Tessalonica (380). L’editto di Milano: la sua esistenza è dubbia. Pare che Costantino si sia limitato a confermare e porre in atto un decreto di Galerio del 311, nel quale si poneva fine alle persecuzioni e si sanciva la libertà del culto cristiano. Da questi anni gli imperatori individuarono nel Cristianesimo una possibile ideologia unificante, quindi un nuovo fondamento di legittimità per lo stesso potere imperiale. La funzione collante richiedeva un’unità teologica del Cristianesimo, problema posto al concilio di Nicea del 325. A Nicea (l’odierna Iznik) la principale decisione dei vescovi cristiani fu la condanna dell’Arianesimo; ovvero la dottrina cristiana elaborata e diffusa dal prete Ario per conciliare monoteismo e trinità. Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio sarebbe stato creato dal Padre, e quindi a lui sottoposto e non eterno. Il fondamento della capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva nella divinità anche del Figlio. Il concilio di Nicea fu convocato da Costantino, un imperatore non ancora battezzato; questa iniziativa spiega l’efficacia come il collante ideologico del mondo romano era direttamente proporzionale alla sua unitarietà e coerenza. Il concilio di Nicea affermò la centralità del concilio come luogo di elaborazione teologica, e mise in evidenza il ruolo dell’Impero, il quale assunse il ruolo di tutore dei conflitti interni alla Chiesa. Nella seconda metà del IV secolo da un lato crebbe l’intolleranza del Cristianesimo romano, e dall’altro l’Arianesimo accentuò la sua diffusione nel mondo germanico: vi fu anche una traduzione della bibbia in lingua gotica, da parte del vescovo di Ulfia. I decenni centrali del secolo tracciano una linea religiosa imperiale che era stata incerta, lasciando spazio sia alle presenze ariane, sia al paganesimo di Giuliano, imperatore tra il 360 e il 363. L’editto di Tessalonica del 380, l’imperatore Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il Cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell’Impero: diede il via a una più dura azione di repressione delle forme religiose giudicate eretiche. 4. Vescovi e monaci La struttura portante della Chiesa cristiana del V secolo era costituita dalla singola diocesi, raccolta attorno al vescovo. Egli era il principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza ultraterrena. Questa efficacia si arricchì con il progressivo inserimento della grande aristocrazia senatoria. A costituire il prestigio dei vescovi erano le loro funzioni religiose e la loro identità sociale e familiare. Essi seppero agire come mediatori dei modelli istituzionali romani nei confronti dei nuovi dominatori germanici: nei vescovi andarono ad addensarsi le tradizioni istituzionale, culturale e religiose del tardo Impero. Al di sopra dei singoli vescovi non esisteva una struttura unitaria: tra il IV e V secolo andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori, definite come sedi patriarcali (Roma, Antiochia, Alessandria d’Egitto, Gerusalemme, e a metà del V secolo Costantinopoli). Esse avevano una superiorità di prestigio, un grande coordinamento nei dibattiti teologici. L’idea che Roma dovesse essere il centro della Chiesa nacque a partire dal secolo XI. Lungo l’alto medioevo è più corretto parlare di «chiese»; e furono i vescovi i protagonisti del processo di evangelizzazione all’interno dell’Impero. L’evangelizzazione delle campagne fu attuata attraverso la creazione di una rete di chiese dipendenti dal vescovo (pievi), a cui era affidato il compito di curare le anime dei vari settori della diocesi. Fu un processo di acculturazione, uno scambio, uno sviluppo. Un secondo livello di evangelizzazione fu quello attorno e oltre i limes. L’affermazione del Cristianesimo ebbe influssi limitati in queste aree (isole britanniche); in seguito la conquista anglosassone – nei decenni centrali del V secolo – pose ai margini le chiese cristiane, per poi acquistare nuova vitalità a partire dal VI secolo. In Irlanda, nello stesso periodo, già nel 431 abbiamo un vescovo e le vicende di Patrizio. La religiosità monastica trova le sue origini nel Mediterraneo orientale del IV secolo. Il monachesimo è una forma di vita presente in molte religioni diverse: quello cristiano valorizzò la penitenza come purificazione dal peccato. Questa unione di ascesi e penitenza fece sì che lo stesso termine «ascesi» assumesse connotati penitenziali. L’ascesi è l’avvicinamento a Dio. Il monachesimo si affermò come modello di vita religiosa coerente ed estrema. Questa spiegazione è una semplificazione; sembra che questa lettura fosse proposta da Giovanni Cassiano in Gallia nel V secolo; egli vide nel monachesimo la forma perfetta di Cristianesimo. Il monachesimo cristiano nacque dal richiamo all’età apostolica e la rivendicazione di una superiore perfezione religiosa. Nel tardoantico il monaco era mosso da una tensione verso Dio, che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo e la capacità di avere un animo imperturbabile: lo scopo centrale era l’ascesi personale. Si possono riscontrare degli elementi comuni: l’allontanamento dal mondo e dalla società civile, un rapporto continuo con le Sacre Scritture, la rinuncia alle ricchezze, la scelta di autosostentarsi con il lavoro. Nel IV secolo, tra Siria ed Egitto, si hanno le prime notizie sugli eremiti; singoli individui presto circondati da una fama di santità. Un flusso di elemosine si concentrò attorno agli «atleti di Dio» che scelsero di situare il proprio eremo in luoghi sì isolati, ma estremamente vistosi; come il caso degli stiliti, che vivevano in cima alle colonne di edifici diroccati. La loro era la volontà di intervenire sulla società circostante tramite l’ostentato esempio. Elemosina perché le loro preghiere serviranno anche a me. A partire dalle esperienze promosse da Pacomio in Egitto, nella prima metà del IV secolo si crea una comunità che mette in comune ricchezze, edifici e lavoro; la creazione di una regola che definisse comportamento e doveri dei monaci e desse vita a una gerarchia; una struttura di controllo e di coordinamento dei singoli. La dimensione cenobitica introdusse elementi di sostegno reciproco tra i monaci; obbedienza e disciplina nei confronti dell’abate; la messa per iscritto della regola. Il vescovo Basilio di Cesarea diede vita al monachesimo basiliano: aveva caratteristiche non si ritroveranno in Occidente, come la stretta cooperazione tra monaci e vescovo e l’ampio spazio dedicato al lavoro e all’assistenza in favore dei concittadini più deboli. Alla fine del IV secolo si avviò l’importanza del monachesimo in Occidente: san Gerolamo in Italia; sant’Agostino in Tunisia e san Martino in Francia. Questo processo deve essere letto all’interno della profonda trasformazione che subì l’intero Occidente romano: con la costituzione dei nuovi regni romano-germanici, i monaci diventarono interlocutori di rilievo. CAPITOLO 2 Barbari e regni 1. Mobilità degli eserciti Per leggere la mobilità militare nel corso del V secolo, dobbiamo ripartire dal crollo del limes del Reno nell’inverno 406- 407. Fu l’espressione di uno squilibrio strutturale: il sistema fiscale romano faticava a far fronte ai costi della guerra; gli eserciti cercavano bottino con iniziative non controllate dall’Impero. I barbari sono da tempo insediati nell’impero; gli altri invece non sono estranei, ma stanno alla periferia del sistema imperiale. A Oriente i barbari vengono esclusi dai vertici dell’esercito. A Occidente invece essi vengono coinvolti. Non è una vera e propria “invasione barbarica” violenta. Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo c’è una crisi militare. C’è centralità assoluta dei capi dell’esercito germanici che guidano l’esercito romano (vengono chiamati anche re). Ebbero inizio i più intensi spostamenti degli eserciti germanici; furono una delle cause della caduta dell’Impero, e, al contempo, furono la conseguenza di un indebolimento imperiale già avviato. La mobilità dei popoli e degli eserciti creò un contesto in cui le gerarchie sociali divennero più fluide, consentendo rapide carriere secondo forme che non appartenevano in pieno alla tradizione romana. Alcuni di questi spostamenti furono l’espressione militare e politica di gruppi più definiti e coesi: Visigoti: nei primi anni del secolo si erano più volte ribellati al potere imperiale, guidate dal re Alarico, fino a saccheggiare Roma nel 410, per poi scendere in Calabria, dove morì Alarico. Si allontanarono dall’Italia per andare a costituire, nel 414 e 418, un regno nel sud della Francia, formalmente come federati dell’Impero, ma di fatto con ampia autonomia. Questo regno, col tempo, spostò il proprio baricentro verso la penisola iberica, dove durò per tre secoli. Il sacco di Roma viene visto come un inarrestabile decadenza. I visigoti sono sia un settore dell’esercito imperiale che rivendica i pagamenti dovuti, ma sono anche un popolo autonomo che sta costruendo un proprio dominio. Vandali: valicato il limes, si insediarono nel 417 nella penisola iberica; nel 429, guidati dal re Genserico, si spostarono nella parte occidentale dell’Africa romana, per poi conquistare, dieci anni dopo, le province della Proconsolare e della Byacena (Tunisia e Algeria). Un regno che durò un secolo (439-534); i Vandali furono il primo popolo germanico a trasformare il proprio potere militare in un potere politico strutturato, che prescindeva da ogni inquadramento imperiale. Unni: solidarietà etnica e politica poco strutturata, che trovò unità d’azione solo al seguito di Attila. Originari dell’Asia centrale, si erano stanziati ai bordi dell’Impero romano nei primi decenni del V secolo. Nel 445 Attila prese il potere e indirizzò la forza militare unna verso campagne dirette all’interno dei territori romani, fino alla sconfitta decisiva subita a opera del magister Ezio, ai Campi Catalaunici nel 451. Due anni dopo Attila morì e vi fu la rapida dissoluzione del dominio unno. Ezio era un generale di origine barbara che arrivò ai vertici grazie alle proprie capacità militari: la morte di Ezio e dell’imperatore Valentiniano III, nel 454, sembrò aprire di nuovo la via agli eserciti e ai loro saccheggi. Roma venne nuovamente saccheggiata nel 455 dai Vandali provenienti da Cartagine. Lungo il V secolo l’Impero in Occidente era vivo e operativo: alcuni capi germanici, come Genserico, decisero di staccarsi dall’Impero, mentre altri agivano allo scopo di prenderne il controllo; ma la capacità di azione degli imperatori andava riducendosi. I decenni centrali del secolo furono segnati dal declino del potere imperiale: si alternarono al trono degli imperatori- fantoccio, controllati da generali come lo svevo Ricimero o il burgundo Gundobado, fino a che, nel 476, il generale sciro Odoacre non si limitò a deporre l’ennesimo debolissimo imperatore, Romolo Augustolo, ma rinunciò a insediarne uno nuovo, rinviando invece le insegne imperiali a Costantinopoli. La deposizione dell’ultimo imperatore non fu legato a nessuna invasione: un generale dell’esercito romano depose un imperatore privo di potere e semplicemente prese atto che un nuovo imperatore d’Occidente sarebbe stato inutile. Il mondo romano si andava polarizzando in Oriente. Nella prospettiva politica di Odoacre il suo dominio sull’Italia doveva integrare un’ampia autonomia militare con il riconoscimento dell’Impero, non voleva una dominazione autonoma. Ma l’imperatore Zenone non ritenne Odoacre un alleato affidabile, e pochi anni dopo fece in modo che l’Italia passasse nelle mani degli Ostrogoti di Teoderico. Ciò di cui si impadronì Odoacre fu di fatto solo l’Italia, poiché l’ambito dell’esercizio del potere degli imperatori d’Occidente si era ridotto solo a questo territorio. Alla fine del V secolo la geografia politica appare abbastanza delineata: la Gallia era in larga misura nelle mani dei Franchi, con l’eccezione delle aree controllate dai Burgundi (sud-est) e dai Visigoti (sud della Gallia e parte della penisola iberica, area in cui erano presenti anche gli Svevi nell’attuale Galizia); i Vandali controllavano la Tunisia, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica; le isole britanniche erano divise in molte dominazioni autonome in parte celtiche e in parte degli invasori angli e sassoni. Quindi riassumendo vediamo la perdita nel 417 della penisola iberica; nel 410 l’abbandono della Britannia; 429/439 la perdita del nord africa; V secolo progressiva perdita della Gallia. Il declino imperiale si sviluppa lungo tutto il V secolo quindi. 2. I nuovi regni Il quadro europeo tra V e VI secolo presenta una fondamentale divaricazione: un impoverimento della società europea da un lato, e una continuità sul piano della cultura e dei sistemi di potere, in specifico della cultura politica e dei modelli istituzionali, dall’altro (nessun regno è puramente germanico). Si nota uno spostamento degli equilibri su base regionale e sulla rottura dell’unità europea e mediterranea. C’è una frattura sul piano della produzione e degli scambi. Si assistette al crollo del sistema politico-militare romano, con il passaggio del potere nelle mani della minoranza armata costituita dai Germani: una élite politica germanica. Furono conservate alcune forme di organizzazione sociale e istituzionale, si mantennero apparato amministrativo e sistemi legislativi di tradizione romana. Fu una conservazione, ma anche una semplificazione, perché andarono perse molte funzioni dell’apparato amministrativo romano. Questo avvenne perché il modello romano era forte e presente; era la memoria di un potere statale forte ed efficace; era un sistema vivo nell’Impero d’Oriente. Il modello politico romano era efficace perché all’interno dei regni, ad affiancare e consigliare i re, erano presenti vescovi e funzionari di origine e cultura romana, portatori in prima persona di questa tradizione politica e amministrativa. Nacque un sistema politico nuovo, che rielaborò tradizioni romane e germaniche, in cui i modelli amministrativi imperiali erano affiancati da assemblee, le riunioni aristocratiche attorno ai re. Un punto chiave fu la circolazione economica indotta dallo Stato, attraverso forme di prelievo e ridistribuzione. Il sistema imperiale non resse; i regni non avevano bisogno di prelevare le tasse, poiché la burocrazia era un apparato più leggero di quello romano; l’esercito non era più costituito da professionisti stipendiati. Il passaggio dagli stipendi alle concessioni di terra fu l’affermazione di un ideale sociale ed economico romano, perché si mantenne l’idea che per essere ricchi occorresse possedere molte terra. Poi il prelievo nel tardo antico serviva anche per la capitale, che però con i regni germanici non c’è più o è molto ridotta. costituire un regno totalmente autonomo all’interno dei territori già imperiali e fu l’unico popolo il cui stanziamento non fosse accompagnato da alcuna forma di trattativa con l’Impero. Sul piano religioso vi era una contrapposizione tra i Vandali ariani e gli Africani di tradizione romana e di fede cattolica: questo provocò una dura intolleranza. I vandali operarono grandi persecuzioni ai danni dei cattolici e delle chiese. L’Africa vandala fu un contesto di stabilità economica e fiscale: da un lato rimasero intatti gli alti livelli di produttività di grano e olio, dall’altro i Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo un modello pienamente romano. Le tasse non uscivano dal regno né dovevano essere incanalate in grandi spese statali: il risultato fu che i re vandali accumularono notevoli ricchezze. L’esercito era ricompensato con le terre. Non c’è capitale. La conquista vandala segnò una rottura profonda per l’insieme dell’Impero occidentale, il quale si trovò a non poter più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane. La fine del sistema di scambio portò l’economia africana a un progressivo calo delle domande e innescò un calo produttivo. Sul piano politico e militare ci fu una totale mancanza di integrazione dei diversi popoli: quando l’Impero ebbe la forza per progettare un’espansione nel Mediterraneo occidentale, travolse assai rapidamente il regno vandalo (tra 533/534). 4.3 Visigoti Nel processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali si possono individuare tre fasi: 1. Lungo il V secolo si stanziarono tra il sud della Gallia e la penisola iberica 2. Nella prima metà del VI secolo videro ridursi il proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi 3. Nella seconda metà del secolo si consolidarono nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Nel 418 i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa al servizio degli eserciti romani, combattendo nella penisola iberica. La conquista di quest’area venne avviata nel 456 e nel 480 fu pressoché completa. In Galizia si affermò il regno degli Svevi. Il centro del dominio visigoto rimaneva nella Gallia meridionale, tra Narbona e Tolosa. I re visigoti seppero rielaborare i modelli politici di tradizione romana con redazioni di leggi scritte (da parte di Eurico, re dal 466 al 484): erano norme territoriale, destinate a tutti i sudditi. Nella battaglia di Vouillé, nel 507, il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II: si ridusse il dominio visigoto a nord dei Pirenei e la debolezza del regno lo pose sotto l’egemonia del re ostrogoto Teoderico. Fino alla metà del VI secolo, il dominio visigoto appare segnato da una ripresa dei modelli politici romani, ma anche dall’instabilità e da una semplificazione economica. Nella seconda metà del VI secolo, a partire dal regno di Leovigildo (569-586), che segnò un consolidamento territoriale e politico, si avviò una serie di conquiste che portarono al dominio sia sul regno svevo sia su larga parte del dominio bizantino: con Leovigildo pressoché l’intera penisola iberica era sotto il controllo regio. La capitale del regno divenne Toledo. L’ottica religiosa: i Visigoti erano di religione ariana e vissero a lungo in un rapporto di separazione religiosa con i cattolici: pur senza assumere le forme di una netta distinzione o di una piena contrapposizione. Leovigildo da un lato promosse la ricerca di un compromesso teologico tra ariani e cattolici, e dall’altra perseguì alcune chiese cattoliche. Reccaredo (586-601), figlio e successore di Leovigildo, promosse una conversione del popolo al Cattolicesimo (evoluto nell’Impero Romano), perché capì che gli ariani erano più deboli numericamente e il clero culturalmente. Reccaredo valorizzò la scelta religiosa in senso politico: Toledo divenne la sede di una serie di concili che assunsero funzioni sia di sedi di deliberazioni religiose ed ecclesiastiche, sia di organi di governo del regno. La Spagna visigota fu una delle dominazioni più efficaci d’Europa. CAPITOLO 3 La simbiosi franca I Franchi furono quelli che svilupparono con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una vera e propria simbiosi. I Franci, nel giro di due secoli, riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa, ponendo le basi per l’espansione carolingia alla fine dell’VIII secolo. 1. Clodoveo Nel contesto del tardo Impero, la Gallia aveva rappresentato prima un territorio di integrazione tra Romani e Celti, poi un ambito di affermazione della potenza di un’aristocrazia senatoria provinciale. Una caratteristica di questa regione fu, tra IV e V secolo, la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche. Tale convergenza fu causa ed effetto del potere vescovile: effetto perché la cattedra vescovile era un obiettivo appetibile per famiglie che volevano conservare e aumentare la propria preminenza sociale; causa perché la forza delle sedi vescovili fu accresciuta dalla presenza di esponenti delle famiglie più potenti. Nel tardoantico i Franchi erano una confederazione di tribù; erano estranei alle idee di latifondo delle città; dal punto di vista religioso erano prevalentemente pagani anche se avevano integrato elementi del Cristianesimo ariano (identità religiosa debole). Il popolo franco, tra il IV e V secolo, fu protagonista di un processo di romanizzazione: i Franchi salii si stanziarono all’interno dell’Impero a partire dalla metà del IV secolo, entrando a far parte dell’esercito romano. Nel 406-407 si batterono contro Vandali e Alani sul limes reniano; nel 451, nella vittoria di Ezio contro gli Unni, i Franchi rappresentavano delle componenti fondamentali dell’esercito romano. I Franchi si affermarono come principali attori politici della regione, ma allo stesso tempo costruirono la loro autonomia. Questo processo risale a due figure, padre e figlio, che completarono l’unione dei Franchi sotto un solo regno. Childerico I, attivo nei decenni centrali del secolo, è la figura che ci mostra la prima transizione dei Franchi da soldati al servizio dell’Impero a quella di autonomi attori politici. Childerico combatté i Visigoti sotto il comando di Egidio (figlio di Ezio). Il re franco seppe costituire un proprio specifico ruolo politico, connotando l’azione militare del suo popolo in senso religioso, come lotta contro gli ariani Visigoti: ai Franchi, che erano pure pagani, valse una nuova forza e una nuova legittimazione. Clodoveo, figlio di Childerico, seppe completare il processo di consolidamento: succeduto al padre del 481, attuò una politica militare efficace che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia. Sottomise i Burgundi e ridusse il dominio dei Visigoti in Gallia, segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale: i Merovingi. Alla presa del potere fece seguito la conversione di Clodoveo e del suo popolo al Cristianesimo cattolica; questo fece in modo che non si innescassero quei meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa. L’impatto della conversione possiamo coglierlo nella narrazione di Gregorio di Tours. L’intervento determinante fu quello della moglie di Clodoveo, che mise il re in contatto con Remigio, vescovo di Reims. Fu Remigio a completare la conversione del re. I due elementi chiave del racconto sono da un lato la centralità dei vescovi, dall’altro l’assimilazione di Clodoveo a Costantino. Questa assimilazione emerge da diversi passi del testo: la conversione legata all’aiuto di Dio nella battaglia (Vouillé per uno e Ponte Milvio per l’altro); l’analogia tra Remigio e papa Silvestro; infine, il battesimo di Clodoveo. La narrazione di Gregorio è l’espressione diretta dell’ideologia vescovile. La vera forza dell’integrazione tra Franchi e Gallo-romani fu l’unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante unitario. Tra IV e V secolo l’aristocrazia Gallo-romana era caratterizzata dall’attenzione per il latifondo, dal radicamento in città e dall’occupazione delle cariche ecclesiastiche; i gruppi dominanti franchi erano connotati dalle capacità militari, dalla vicinanza al re e dal sistema di legami clientelari. Lungo i VI secolo si creò un’aristocrazia (i Franchi) che si basava su: combatteva per accumulare terra, era vicina al re, ma attenta a radicarsi nelle città, tesseva reti clientelari e occupava cattedre vescovili. Nacque una società a istituzioni ibride. 2. Le chiese franche e la diffusione del monachesimo Il vescovo era prima di tutto il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale. Al contempo erano portatori della cultura: cultura letteraria, politica, conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani. Durante il VI secolo, i vescovi seppero trasmettere questa esperienza ai re franchi. I vescovi erano ricchi personalmente, perché spesso erano esponenti della grande aristocrazia franca; erano ricche anche le sedi vescovili, nel cui patrimonio andavano accumulandosi i beni donati da chi cercava benevolenza, protezione e preghiere. I vescovi erano anche i centri della cultura e della memoria del popolo franco. Dobbiamo ricordare, però, che la principale fonte riguardo ai vescovi, è rappresentata dalle ‘Storie’ di Gregorio di Tours. Lungo la metà del IV secolo cogliamo l’emergere di esperienze prima eremitiche (di singoli individui), poi cenobitiche (di comunità). La vicenda di Martino di Tours è significativa: egli, figlio di militare, fu soldato prima di convertirsi alla vita religiosa come monaco, per poi essere scelto come vescovo di Tours dove morì nel 397. La sua fama andò ben al di là di Tours; i re franchi fecero di Martino un punto di riferimento della propria religiosità e un patrono del regno. Mondo monastico e mondo vescovile: essi erano tutt’altro che separati, perché condividevano la funzione della preghiera e del culto (l’Opus Dei). Il più noto monastero della Gallia di questi secoli fu Lérins, nato nei primi anni del V secolo su un’isola al largo di Cannes. Fu centro di spiritualità, luogo di formazione culturale e destinazione prediletta per gli aristocratici che sceglievano la vita religiosa. Le esperienze monastiche di altre aree: in Africa, sant’Agostino di Ippona, all’inizio del V secolo, promosse forme di vita in comunità; San Gerolamo, alla fine del IV secolo in Italia, affermò una grande varietà di esperienze monastiche, influenzate dal modello di Lérins. Come lo fu il caso di Vivarium, il monastero fondato da Cassiodoro, che vide nel monastero un luogo di conservazione e rielaborazione della cultura classica. Benedetto – la cui vita ci è nota attraverso i ‘Dialoghi’ di papa Gregorio Magno – nacque a Norcia attorno al 480 e, dopo aver studiato a Roma, si allontanò dalla città per vivere come eremita, come cenobita e come abate; tali esperienze culminarono nel 529 con la fondazione dell’abbazia di Montecassino, dove scrisse la sua Regola, e dove morì nel 574. È un ‘opera di un monaco e abate esperto, che aveva vissuto forme di monachesimo e si era scontrato con le difficoltà del gestire una comunità. La Regola che Benedetto scrisse rielaborando un precedente testo anonimo (noto come ‘Regola del maestro’), è fondata su alcuni semplici principi: forma di ascesi moderata; avere, di base, un modello di vita ascetica; il lavoro trovava un posto marginale. Nel testo non si trova la formula «ora et labora», piuttosto, se vogliamo avvicinarci a tale significato, si trova la formula «prega e obbedisci all’abate». Dal punto di vista organizzativo, la solidarietà orizzontale tra i monaci si integrava con l’obbedienza all’abate: il testo contiene alcuni principi ispiratori che l’abate doveva adattare alle specifiche condizioni ed esigenze locali. Il collegamento tra comunità ed eremiti: la Regola vede nel cenobitismo la via di ascesi proposta a tutti e nell’eremitismo una forma superiore di formazione. All’inizio del IX secolo, la Regola divenne il testo normativo di riferimento, però non diede vita a un «ordine benedettino»: il vertice della comunità era l’abate. La regola di Benedetto ha quindi una buona flessibilità che porta al suo successo e alla prevalenza su altre forme monastiche in occidente. Il monachesimo irlandese presenta una forte centralità istituzionale dei monasteri; un’accentuata attenzione per la dimensione penitenziale e da una forte spinta missionaria. Il movimento dei monaci irlandesi verso il continente vede come protagonista san Colombano, che alla fine del VI secolo fondò una serie di monasteri in Gallia (il più noto è Luxueil), per poi trasferirsi in Italia, dove fondò l’abbazia di Bobbio. 3. I regni e l’aristocrazia L’Aristocrazia – militarmente forte, ricca di terre, attenta a occupare le cariche ecclesiastiche – fu la base della forza egemonica del popolo franco. L’aristocrazia era ben coordinata attorno al re. La scelta di Clodoveo di promuovere una redazione scritta delle leggi franche, lex Salica si rivelò azzeccata; il testo risale al 510, e nel prologo della legge il re non è presentato come autore e promulgatore della norma. Il protagonista è il popolo con i suoi aristocratici, che per cercare la pace e la giustizia si affidano alla saggezza di quattro uomini. Al centro del sistema politico troviamo l’assemblea degli uomini liberi (il mallus), luogo delle scelte politiche, dell’elaborazione legislativa e delle decisioni giudiziarie. La scrittura delle leggi è un atto tipicamente romano, ma non è un’affermazione del potere regio. Riprendere il modello romano non significa emularne direttamente le strutture di potere. I Franchi organizzarono una forma di controllo del territorio attraverso la sua suddivisione in distretti, affidati ognuno a un come (conte) responsabile della giustizia, dell’esercito e del prelievo: il quadro distrettuale non arrivò mai a ricoprire omogeneamente l’intero territorio franco. Il nesso tra i re e l’aristocrazia era formato da una rete di rapporti di tipo clientelare, fondata sulla capacità regia di organizzare e guidare il proprio seguito armato (la cosiddetta trustis). Le due forme di collegamento erano la delega di funzioni territoriali (ogni aristocratico controlla parte del territorio) e il rapporto personale. Circolazione economica: nel regno franco, non dovendo stipendiare l’esercito e in assenza di una costosa capitale, il prelievo delle imposte dirette divenne nel complesso superfluo, fino all’abbandono tra il VI e VII secolo. L’impatto politico volontà divina). Solo nel X secolo cominciò ad affermarsi un principio dinastico. La conflittualità politica si ritrovava anche nell’ippodromo: associazioni nate con uno scopo ludico-sportivo potevano divenire strutture di pressione politica. La stabilità dell’apparato burocratico: nell’Impero si conservò, in questa fase, la separazione tra incarichi militari e civili, che impedì fenomeni di eccessiva concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo funzionario. Lo Stato viveva sulla relazione tra la capitale e le province; dal punto di vista militare vi era una distinzione tra gli eserciti limitanei (sul limes) e quelli comitatenses (che affiancavano l’imperatore). Il prelievo fiscale: si prelevavano regolari tasse sulle persone e sui loro beni. La tassa fondamentale era l’annona, che integrava un prelievo sulle terre (iugatio) e sulle persone su di esse insediate (capitatio). Questa azione richiedeva la produzione di un sistema documentario amministrativo per accertare i patrimoni e le persone presenti: catasti. Un peso burocratico considerevole; nell’Impero, per attenuare queste difficoltà amministrative e per rendere più stabili le entrate fiscali, si cercò di vincolare le persone alle terre, dando vita alla figura dei coloni. La circolazione monetaria era viva. L’organizzazione richiedeva percorsi di formazione scolastica, in particolare in campo giuridico. Le più grandi erano le scuole di diritto di Roma, Costantinopoli e Beirut. La riforma legislativa di Giustiniano (imperatore del 528 al 565) si espresse nella redazione del ‘Corpus iuris civilis’, un insieme articolati di testi giuridici. La legislazione romana era composta da una miriade di testi, spesso contraddittori, emanati in contesti e in momenti diversissimi; tali testi dovevano essere coordinati e selezionati per dare vita a un Codice legislativo unitario e coerente. Questo è il primo incarico che Giustiniano affidò, nel 528, a una commissione di sette giuristi guidati da Triboniano. Egli, l’anno seguente, poté presentare il ‘Codex’, una raccolta delle principali norme imperiali dall’età di Adriano (alla fine del II secolo) fino al 529. Nel 533 i giuristi di corte presentarono sia il ‘Digesto’ (o Pandette), una raccolta organizzativa e selettiva di scritti di giuristi, sia le ‘Institutiones’, testi destinati all’insegnamento universitario del diritto. Nella seconda parte del regno di Giustiniano, furono pubblicate le ‘Novellae’, ovvero le nuove disposizioni imperiali, emanate dopo la redazione del Codex. Questi quattro testi andarono a costituire il ‘Corpus iuris civilis’ (Codex, Digesto, Institutiones, Novellae). Il piano militare e territoriale per riunificare l’Impero prevedeva la riconquista della Tunisia, di parte delle coste mediterranee della Spagna e dell’Italia. Questo piano fu l’esito di processi che integravano aspetti militari, ideologici ed economici. Vi furono tre premesse fondamentali: la relativa tranquillità del limes persiano, l’ampia riflessione giuridica e politica (disponibilità di risorse) e il rafforzamento ideologico. La tutela dei mari e della navigazione nei confronti della diffusa pirateria poteva essere garantita col ricreare l’unità mediterranea romana. Il primo obiettivo fu il regno vandalo di Tunisia. Le truppe di Belisario conquistarono il regno vandalo tra il 533 e il 534 con una certa semplicità. Più complessa fu le campagne nella Spagna visigota: la conquista non si estese mai al di là della fascia costiera mediterranea compresa tra Valencia e Cadice. L’Italia ostrogota fu oggetto di una campagna che richiese quasi vent’anni (dal 535 al 553). Le armate bizantine guidate da Belisario attaccarono da sud, conquistando la Sicilia per poi risalire la penisola. La conquista di Ravenna si ebbe nel 540, che indusse le due parti a una trattativa e a una spartizione dell’Italia, riservando agli Ostrogoti la regione a nord del Po. L’anno seguente salì al trono italico Totila; il re condusse una campagna militare con una parziale riconquista dei territori imperiali. La reazione di Giustiniano fu la sostituzione di Belisario con Narsete e in una nuova campagna via terra, a partire dalla Dalmazia, nel 553 portò alla piena conquista dell’Italia. Immediatamente dopo la conquista, Giustiniano emanò la Prammatica sanziona (554), una norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila. L’imperatore ricostituì un quadro di governo imperiale sull’Italia, organizzato attorno a un funzionario, l’esarca di Ravenna. La fragilità del dominio imperiale in Italia permise, pochi anni dopo (568), l’invasione attraverso le Alpi dei Longobardi. Essi si impadronirono rapidamente del Friuli e del nord-est, per poi espandersi all’intera pianura padana. Partirono in una serie di spedizioni in Toscana e verso il centro e il sud dell’Italia, ma anche oltre le Alpi, nelle aree controllate dai Franchi. Si crearono due Italie: i Longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del Meridione continentale e le grandi isole. Entrambe le dominazioni erano discontinue, con alcuni punti di frizione, come l’area umbra; l’Africa restò imperiale fino alla conquista araba; in Spagna la presenza imperiale fu del tutto cancellata nel 625. 3. Dibattiti teologici e identità locali Nel V e VI secolo il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: la questione era la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana: Cristo dev’essere pienamente Dio, per garantire l’efficacia salvifica dell’incarnazione e della morte; ma al contempo dev’essere pienamente uomo, perché solo così gli si può riconoscere una piena e reale sofferenza della carne. Il culto mariana, il ruolo di Maria, fu al centro del dibattito fin dalle prime importanti formulazioni, quelle di Nestorio, sacerdote cresciuto e formato ad Antiochia, in Siria, ma divenuto poi vescovo di Costantinopoli nel 428. Nestorio sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte (umana e divina) e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di «madre di Dio», sostituendolo con quello di «madre di Cristo», cioè di Gesù congiunto con il Figlio. Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso del 431, su iniziativa dell’imperatore Teodosio II. Questo aveva una debolezza intellettuale. Dobbiamo notare come non si trattasse di un libero scontro intellettuale tra i singoli teologi; fu un grande dibattito teologico, ma fu al contempo la divisione tra le più importanti sedi della Chiesa. Il Nestorianesimo si conservò negli episcopati sottoposti all’Impero dei Sassanidi e lì sopravvisse anche dopo il VII secolo. La via teologica opposta, elaborata in ambito alessandrino, fu il Monofisismo (una sola natura): umanità e divinità di fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado sia di soffrire concretamente, come uomo, sia di operare la redenzione in quanto Dio. Questa posizione subì una 25 condanna pochi anni dopo, nel concilio di Calcedonia del 451, convocato dall’imperatore Marciano. Il Monofisismo offuscava le due nature, ne cancellava la specificità. Il concilio di Calcedonia propose una soluzione di compromesso: il Diofisismo (due nature). La presenza di due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona di Cristo; una formula, questa, che divenne dominante, poiché sostenuta dalle grandi sedi patriarcali di Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. La decisione del concilio di Calcedonia si imposero grazie alla capacità di pressione e coercizione del potere imperiale. I monofisisti rimasero numerosi nelle chiese del Mediterraneo orientale e meridionale, soprattutto in Egitto; le tesi nestoriane furono condannate nel 431. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e per l’ortodossia religiosa era una componente fondamentale dell’ideologia universalistica: obbedire o non obbedire ai decreti conciliari significava anche aderire più o meno solidamente al sistema di potere imperiale. Un’urgenza prioritaria per l’imperatore era sanare un’unità teologica ed ecclesiastica. Possiamo così comprendere meglio gli interventi imperiali a Efeso nel 431, quando Teodosio II condannò il Nestorianesimo; a Calcedonia nel 451, concilio convocato dall’imperatore Marciano. L’intervento di Giustiniano condannò i Tre capitoli, i testi diofisiti; si trattò di un tentativo consapevole di avvicinare i monofisiti d’Egitto. Ma il progetto fallì; il vescovo di Roma Vigilio decise infine di adeguarsi all’orientamento imperiale (nel concilio di Costantinopoli del 553), altre province ecclesiastiche diedero vita a un vero e proprio scisma, sanato solo nel secolo successivo. Nel VII secolo l’azione dell’imperatore Eraclio (610-641) mirò a riavvicinare i monofisiti: promosse la posizione detta del Monotelismo (monos télos, un solo scopo), l’idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite però da un’antica attività e un’unica volontà, connessa alla fondamentale unità della persona. Il tentativo fallì: il monotelismo fu condannato nel concilio di Costantinopoli del 681, mentre ormai le regioni sudorientali erano passate nelle mani islamiche. L’unità teologica non minava quindi l’unità imperiale, il suo superamento non era più un obiettivo politico rilevante. PARTE SECONDA Il sistema di dominazione altomedievale CAPITOLO 1 Nobili, chiese e re: ricchezze e poteri Tra VI e VIII secolo la geografia politica dell’Europa occidentale appare molto più stabile. Non ne consegue una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. Tre sono le chiavi fondamentali di questo periodo: l’equilibrio politico tra le aristocrazie e i re, lo sfruttamento delle risorse agrarie, l’apertura di nuove reti di scambio. 1.Nobili e re Con i regni altomedievali ci troviamo di fronte a un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento e l’azione politica autonoma dell’aristocrazia. Gli elementi comuni, che in tutti i regni connotano il rapporto tra re e aristocrazia, si possono individuare dei processi di ridistribuzione clientelare e il carattere militare del potere regio. Era fondamentale per le famiglie aristocratiche partecipare al circuito di solidarietà e redistribuzione che faceva capo al re. Nodo di questo circuito era il carattere militare del potere regio: i re erano garanti della pace e della giustizia, quindi la loro funzione principale era quella di capi militari. All’inizio del VII secolo il regno visigoto è in piena fase di consolidamento: si completò la conquista della penisola iberica nel 625; la conversione al Cattolicesimo fu completata; il processo di centralizzazione del potere, tramite la redazione delle leggi completata dal re Recesvinto nel 654. L’ideale regio richiamava la tradizione imperiale. Il modello era l’Impero cristiano, fondato sulla cooperazione tra il sovrano e i vescovi; espressione di tale modello fu il concilio di Toledo. I concili erano sia assemblee ecclesiastiche sia organi di governo regio: i concili di Toledo avevano una funzione di guida del popolo visigoto sotto il doppio aspetto di cura delle anime e di governo degli uomini. La centralizzazione non comportò un controllo pieno dell’aristocrazia: infatti numerosi furono i colpi di Stato per impadronirsi del trono, non per l’autonomia. Il regno visigoto alla fine del VI secolo era probabilmente la struttura politica più forte e coesa dell’Occidente europeo. Ma questo consolidamento lasciava spazio a un imperfetto controllo militare del territorio: la conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. In Irlanda la conversione al Cattolicesimo aveva posto al centro i monasteri, sia per l’organizzazione ecclesiastica sia per l’apertura verso l’opera missionaria di san Colombano. La struttura politica dell’isola, divisa in una moltitudine di regni, non cambiò. La stessa pluralità si trova in Britannia, ma si assiste a una più chiara tendenza alla gerarchizzazione e una tensione di lento avvicinamento ai modelli continentali. Il VII secolo è segnato dal completamento del processo di conversione al Cristianesimo e dall’apertura a influssi provenienti dalla Gallia franca (rete commerciale che attraversa il mare del nord); durante il VII secolo si può considerare la Britannia come un’area che fa parte dell’Europa cristiana. Rimase debole il livello di urbanizzazione, con uno sviluppo delle città portuali dalla fine del VII secolo. I rapporti tra i diversi regni non sono chiari perché le fonti sono molto sfuggenti: sono sicuramente attestati molti regni, però il principale cronista inglese, il monaco Beda, mostra di pensare all’Inghilterra come a uno spazio unitario di civiltà. Sicuramente: • Esisteva una pluralità di regni, a diversi livelli di importanza, ma c’è un’identità britannica unitaria • Alcuni erano più definiti e stabili come la Mercia, Northumbria, East Anglia, il Wessex, il Sussex, l’Essex e il Kent • Tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un’egemonia dei re di Mercia sui regni meridionali: si consolidò alla fine dell’VIII secolo sotto il re Offa • Il contenuto effetti di questa egemonia è difficile da definire Solo nel IX secolo si può constatare l’esistenza di un regno inglese unitario. Rispetto alla grande ampiezza territoriale del VI secolo, il dominio franco nel periodo successivo subì una parziale riduzione, fino a ridursi pressappoco all’attuale Francia e la parte più occidentale della Germania. Il controllo e la presenza dei re all’interno di questo territorio erano diversificati: i Merovingi, privi di una capitale stabile, furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi. La mobilità regia dipendeva dalle contingenze e dalle emergenze militari; l’azione regia si ovvero la legge sulle curtes (il termine villa e curtis sono sinonimi). Emanata da Carlo Magno, si prevede che ogni curtis abbia al proprio interno ogni tipo di attrezzo e di artigiano; anche una varietà di prodotti agrari e di oggetti che dovranno essere raccolti all’interno dell’azienda. Ma la legge è la costruzione di un’ideale, non la realtà effettiva; rappresenta come si vorrebbe che la realtà fosse. Carlo Magno stava imponendo un funzionamento a tutte le curtes di proprietà regia: inoltre, la legge rappresenta la volontà di autonomia economica. La situazione normale, che le fonti ci tramandano, è ricca di mercati settimanali, dove la confluenza dei prodotti della curtes va verso la città; la confluenza dimostra anche una piccola disponibilità di moneta nelle mani dei coloni. I re, le chiese e i nobili franchi erano ricchi e potenti, anche più delle aristocrazie di altri regni contemporanei. Il loro obiettivo era di trarre dalle terre il massimo disponibile, giacché la forza dell’aristocrazia era fondata su una ricchezza fondiaria, che poneva la società contadina in una condizione di oggettiva debolezza. L’aristocrazia aveva, dunque, il potere di imporre forti richieste di censi e lavoro. Le curtes sono strumenti per consentire la pressione sulle risorse agrarie. Gli aristocratici ottengono il massimo del reddito tramite: il prelievo e la commercializzazione dei prodotti. Oggi la chiesa ricca è sospetta; nell’alto medioevo invece è giusto così. Il peccatore, per salvare la propria anima, la può affidare alle preghiere di uomini santi. Ciò si fa donandogli delle terre e si determina un arricchimento delle chiese. Pure non ci troviamo di fronte a una società priva di scambi e moneta. Era una rete commerciale che trovava i suoi punti di riferimento sia nelle città, sia nelle curtes: le città erano centri demici a maggiore concentrazione di popolazione non contadina che cercava un regolare afflusso di derrate dalle campagne; le curtes erano i principali centri di produzione, dove i surplus erano indirizzati verso gli sbocchi commerciali. Lo scambio commerciale di prodotti agrari era fortemente condizionato dai grandi proprietari fondiari, in grado di portare sul mercato grandi quantità di prodotti e quindi di determinare di fatto i prezzi. Emblematico è il passo della ‘Cronaca di Novalesa’ (pag. 93). È interessante notare come la capacità commerciale dei grandi fondiari poteva rendere per loro più interessante prelevare censi in natura piuttosto che in denaro: accumulando i prodotti del dominicum e del massaricium, potevano rappresentare una forza commerciale notevole, in grado di condizionare il mercato locale. Per i grandi proprietari, per le chiese e i monasteri, occorre ragionare in termini di patrimonio, di sistema economico complessivo. I patrimoni monastici erano costituiti da nuclei piuttosto dispersi, il che implicava problemi di gestione e di trasporto, ma permetteva una grande varietà di produzioni. Non esisteva un’autosufficienza della singola curtis, ma esisteva una tendenza all’autosufficienza a livello di sistema. Circolazione monetaria: la coniazione monetaria lungo il VI secolo è caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di zecche disperse nei vari regni europei (argento). Il sistema destinato ad affermarsi a livello europeo fu definito dai Carolingi nei primi decenni del loro regno: la base di rifornimento era la libra, una libbra d’argento (400 g), che era divisa in 20 solidi, a loro volta divisi in 12 denarii. Librae e solidi erano dei puri valori di contro, non delle monete reali: l’unica moneta effettivamente coniata era il denarius (10-15 euro). Il surplus agrario permise un consolidamento demografico dei centri urbani della Neustria e dell’Austrasia, ma trovò sbocco verso il mare. Nel mare del Nord, i Franchi potevano mettere in gioco ceramiche, cereali, vino; mentre dal nord provenivano pellicce e schiavi. Vino e ceramiche di pregio semplicemente non erano prodotti nelle regioni del nord. Questo scambio commerciale diede vita agli emporia, ovvero centri abitati con finalità specificatamente commerciali, organizzati attorno a porti e segnati da un rapido sviluppo demografico. In assenza di una tradizione urbanistica romana, occorre distinguere le diverse regioni che si affacciavano sul mare: nel regno franco c’era Quentovic, e Dorestad (gli emporia si andarono a sovrapporre a una rete urbana preesistente; in Inghilterra Londra e York rappresentarono una fase di rinascita; in Scandinavia, i centri di Ribe e Birka furono vere e proprie novità. Altro segno della vitalità commerciale di questi secoli è la presenza delle fiere, che si tenevano a cadenza regolare in luoghi di rilievo politico e spesso religioso. I porti italiani, inquadrati nelle strutture dell’Impero Bizantino, assunsero una funzione di collegamento commerciale tra le diverse parti del Mediterraneo. CAPITOLO 2 Nuovi quadri politici: il regno longobardo Il regno longobardo fu il primo regno germanico in Italia a posti in netta contrapposizione con l’Impero; ma al contempo i Longobardi rappresentarono una dominazione esclusivamente italiana. Il regno longobardo convisse con le ambizioni egemoniche del papato, in una contrapposizione politico-territoriale che assunse anche connotati religiosi, tra Longobardi ariani e Romani cattolici. Al centro della scena troviamo la questione etnica, l’identità longobarda. Questo aspetto ha subito profonde trasformazioni grazie a due processi tra loro connessi: l’integrazione della storia longobarda nella più ampia storiografia europea dedicata ai regni romano-germanici da un lato, e la crescita della ricerca archeologica dall’altro. Le informazioni disponibili derivano soprattutto da due grandi testi: la ‘Storia dei Longobardi’ scritta da Paolo Diacono all’inizio del IX secolo, pochi anni dopo la caduta del regno sotto il controllo dei Franchi; la raccolta delle leggi promulgate dai re longobardi, a partire dall’editto di Rotari del 643. Si tratta di leggere le fonti tenendo presente che esse non sono nate per rappresentare o descrivere la realtà, ma per intervenire su di essa. 1. I Longobardi in Italia I regni nati nel V secolo subirono nei due secoli seguenti importanti trasformazioni: i regni dei Vandali e degli Ostrogoti furono cancellati dall’espansione militare dell’Impero; il regno dei Franchi consolidò il proprio dominio sulla Gallia; i Visigoti rinsaldarono la loro presa sulla penisola iberica; nelle isole britanniche emergeva un’incerta superiorità di alcuni regni più importanti; Ostrogoti, Svevi e Burgundi scomparvero; nella penisola italiana si affermò il nuovo regno dei Longobardi. Potremmo definire la dominazione longobarda come un regno romano-germanico «di seconda generazione», che si impose un secolo più tardi rispetto agli altri regni. Del sistema politico romano, i Longobardi erano all’estrema periferia, ma ebbero con esso contatti sporadici e influssi deboli. È probabile un’origine scandinava del popolo, protagonista di spostamenti e stanziamenti, prima nella Germania settentrionale (dal I secolo d.C.), poi nella Pannonia (Ungheria, tra IV e V secolo). Qui i Longobardi si insediarono vincendo l’ostilità dei Gepidi, ed ebbero a che fare con le tensioni militari causate dagli Àvari; qui si innescarono i primi rapporti con l’Impero, con cui i Longobardi stipularono un foedus. La migrazione nacque sia da un accentuarsi delle tensioni militari con gli Àvari, sia dalle evidenti possibilità di bottino offerte dall’Italia. I longobardi erano un popolo-esercito, ovvero un popolo la cui attività principale era combattere. Si trattò di una conquista, ma fu anche una migrazione, perché al seguito degli armati, scese in Italia l’intero popolo longobardo. Dobbiamo dunque ragionare in termini di etnogenesi; nel momento in cui si avviò la spedizione, si unirono all’esercito molti gruppi che nulla avevano a che fare con i Longobardi. Jörg Jarnut ha definito l’esercito longobardo in viaggio verso l’Italia come un «magnete in movimento». Il processo di etnogenesi ebbe dunque una forte accelerazione. Alboino riuscì ad attivare un circolo virtuoso: il progetto di conquista dell’Italia offriva buone prospettive, questo attirò nuovi gruppi armati, che a loro volta rafforzarono Alboino. Alboino e i Longobardi valicarono le Alpi nel 568 e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua, che divise l’Italia in due parti: il regno longobardo e i domini imperiali. I longobardi controllavano la pianura padana, la Tuscia, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, la Puglia, la Calabria e le grandi isole. Le strutture di potere: il popolo-esercito longobardo era organizzato in corpi militari chiamati farae, un termine da collegare alla radice germanica di fahren, viaggiare. A capo di queste farae troviamo dei capi, duces: essi erano guide militari, ma anche coloro che guidavano e comandavano l’intero popolo longobardo. Il potere regio nasceva prima di tutto dal coordinamento delle farae e dei duchi. I duchi si stanziarono nelle diverse regioni del regno longobardo, tuttavia non possiamo ragionare ancora in termini di ducati, di circoscrizioni territorialmente definite, ma di sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediavano. Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura si innestava il potere regio. Il re era prima di tutto una guida militare. Il re longobardo era elettivo, teoricamente scelto dall’assemblea degli esercitali (uomini liberi appartenenti all’esercito), ma di fatto nominati dai duchi. In contrapposizione il re non nominava i duchi. Non c’era alcun automatismo, né dinastia di lunga durata. Re Alboino fu ucciso, forse da una congiura di palazzo, nel 572, e a lui succedette Clefi, che però rimase in carica solo due anni, per essere poi anch’egli ucciso. Dal 574 al 584, i Longobardi rimasero senza un re: i duchi ritennero che un re non fosse necessario, fosse un’inutile complicazione per un potere che di fatto risiedeva concretamente nelle loro mani. Dieci anni dopo, in seguito alle pressioni dei Franchi, i duchi si convinsero a scegliere nel 584 un nuovo re. Da qui in avanti i Longobardi non ebbero sempre un re; la persona scelta nel 584 come re fu Autari, figlio di Clefi. Da qui in avanti vediamo giocare continuamente i due principi, elettivo e dinastico. Ma l’idea di «principio dinastico» non significava solo successione di padre in figlio; così, alla morte di Autari, i Longobardi posero la successione nelle mani della vedova Teodolinda, che sposando il duca Agilulfo ne fece il nuovo re. La progressiva costruzione dell’egemonia regia avvenne nella fase matura del regno, ovvero tra VII e VIII secolo. Tuttavia, dobbiamo notare come al contempo, fin dai primi anni, si affermasse nel regno una pratica politica rilevante, e cioè l’identificazione di una capitale: Pavia. Pavia fu la sede del re e degli organismi che a lui facevano capo; questa scelta, compiuta nei primi decenni del regno, ebbe ripercussioni a lungo termine, tanto che Pavia rimase la capitale del regno e sede del palatium regio fino al secolo XI. Ma molte altre città del regno conservarono una funzione politica come residenze dei duchi. Certo, le città italiane in questi decenni subirono un significativo declino; però si trattò della manifestazione più chiara del mutamento delle funzioni urbane nel contrasto del paesaggio dai funzionamenti politici e fiscali di tradizione romana a quelli tipici dei regni altomedievali. 2. Longobardi e Romani La coppia formata da Teodolinda e Agilulfo si presta per iniziare una riflessione sulle identità etniche nel regno, poiché infatti la prima era bavara e il secondo turingio. Essa rappresenta un’immagine efficace della fluidità del popolo longobardo. I segni del continuo processo di etnogenesi si colgono attorno alla metà del secolo VII, nella ‘Origo gentis Langobardorum’ («L’origine del popolo dei Longobardi»), un racconto delle vicende del popolo longobardo dalle origini fino alla costruzione del regno d’Italia. E l’origine dei Longobardi si pone – in questa narrazione – tra guerra e religione: i Winnili combattono i Vandali al seguito dei propri capi, Ibor e Aione, ma sarà solo il dio Wotan, concedendo loro la vittoria e attribuendo il nome di «Longobardi», a sancire la vera e propria genesi di questo popolo. Le altre fonti scritte sono assai elusive: il termine «Langobardi» sembra essere usato per indicare l’insieme delle persone sottoposte al potere del re longobardo, così come «Romani» identifica gli abitanti di quelle parti d’Italia rimaste in mano imperiale. Sono infine da trattare con prudenza le fonti archeologiche, e in particolare i corredi funerari; corredi che scompaiono attorno alla metà del VII secolo (scramasax, una spada usata dai Longobardi). Al momento dell’invasione, la ricchissima aristocrazia senatoria subì una profonda riduzione delle ricchezze e dei poteri; gli aristocratici romani furono esclusi dal potere nel regno, subirono importanti espropriazioni, emigrarono verso le aree imperiali riunendosi attorno alle grandi chiese vescovili di Roma e Ravenna. Ma nel giro di poche generazioni la convivenza egli stessi luoghi, i matrimoni misti e l’assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica, lasciando un peso sempre maggiore alle differenze politiche, alla dipendenza dal re longobardo o dall’imperatore. La religiosità longobarda, al momento della discesa in Italia, comprendeva credenze pagane tradizionali e Cristianesimo ariano. La fede ariana divenne un perno attorno a cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai Romani. Paolo Diacono, parlando del regno di Rotari (636-652), un re ariano, dice: «in quasi ogni città del suo regno c’erano i due vescovi, uno cattolico e uno ariano». Inoltre, Teodolinda era cattolica, mentre il re Agilulfo restò ariano, ma acconsentì al battesimo cattolico del figlio Adaloaldo e appoggiò l’opera missionaria del monaco irlandese Colombano. Questo non fu l’avvio di una conversione dei re o dell’intero popolo longobardo al Cattolicesimo: vediamo piuttosto una lunga convivenza di Cattolicesimo e Arianesimo nel popolo e nella corte, al contempo una tendenza alla conversione dei Longobardi al Cattolicesimo. Questa convivenza di due fedi ridusse rapidamente le potenzialità dell’Arianesimo come fattore di consolidamento. In Italia non si realizzò quel processo di simbiosi tra il regno e i vescovili; le cariche vescovili non divennero – come accadde invece altrove – un obiettivo politico per l’élite del regno. L’identità ariana e la lenta e contrastata conversione al Cattolicesimo contribuirono anche all’ostilità che oppose il regno al vescovo di Roma. Questa ostilità ebbe origine politico territoriale, cioè la frammentazione del territorio tra la dominazione longobarda e quella imperiale, le quali avevano molti punti di tensione. La componente religiosa intervenne a dare forza ideologica alla tensione, a delineare i re longobardi come «eretici» contro i quali dovevano coalizzarsi le forze cattoliche della penisola. La tensione non fu mai superata di fatto. Roma era l’unica sede patriarcale dell’Occidente e un CAPITOLO 3 Impero carolingio, ecclesia carolingia (sono la stessa cosa) L’impero carolingio trasformò in profondità molti aspetti della vita associata: le reti di scambio, il ruolo delle chiese e del papato, i funzionamenti della giustizia. Impero carolingio ed ecclesia carolingia: si tratta della piena simbiosi tra due realtà che appaiono separate ai nostri occhi, ma non a quelli degli uomini del IX secolo: l’ecclesia era l’insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi e nell’imperatore, che convergevano con strumenti diversi un doppio fine, la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. 1. Dal regno all’Impero Nei decenni a cavallo tra VII e VIII secolo, i regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale: i Pipinidi. I passi specifici che portarono all’incoronazione di pipino non sono facili da cogliere. Il punto più sfuggente è il ruolo del papato; nella narrazione degli ‘Annali del regno dei Franchi’, pone l’intervento papale (papa Zaccaria) prima dell’incoronazione; ma nella deposizione di Childerico l’effettivo ruolo papale fu probabilmente minimo e la scelta nacque invece all’interno del mondo franco. Fu grazie alla grande aristocrazia, che i Pipinidi riuscirono a raccogliere attorno a sé, che il colpo di Stato ebbe successo: esso si attuò rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma e procedendo al rito dell’unzione del nuovo re, Pipino III, da parte del monaco Wynfrith. Nel 754 il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, davanti alla minaccia Longobarda, l’Impero bizantino non era in grado di offrire un sostegno efficace. Quindi si volse al nuovo re dei Franchi; superò le Alpi per incontrare Pipino a Saint-Denis, dove ripeté l’unzione sia del re sia dei suoi figli, Carlo e Carlomanno (sacralizzazione del potere regio che va alla dinastia dei carolingi). Papa Stefano cercava un potere che assumesse in modo permanente le funzioni di protezione della Chiesa di Roma. L’incontro di Saint-Denis fu la premessa per una spedizione franca in Italia, ma l’attribuzione a Pipino del titolo di patricius (protettore della Chiesa di Roma) andava al di là del contingente intervento militare. Pipino si trovò di fronte alla necessità di mettere in gioco un sistema di atti di legittimazione: il rinnovo dell’unzione da parte di Stefano II; l’alleanza stabile il papa; il consenso aristocratico; la costruzione di un racconto dell’ascesa al trono orientato a legittimare la deposizione di Childerico. A quest’ultima esigenza ci pensò ancora Eginardo, biografo di Carlo Magno, che scrisse dopo l’814. È proprio da Eginardo che nacque la tradizione dei «re fannulloni». La spedizione di Pipino in Italia contro i Longobardi fu un’azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti del papato e delle terre imperiali. Pipino scese in Italia, sconfisse Astolfo, lo costrinse a restituire al papato le terre conquistate e poi tornò in Gallia. Pipino morì nel 768. La vedova Bertrada e i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari: Carlo o il fratello (o forse entrambi) si unirono con due figlie del re longobardo Desiderio (o quanto meno fu progettato); una terza principessa longobarda sposò il duca di Baviera Tassilone. Dopo la morte di Carlomanno, Carlo si avviò verso una politica di chiara espansione militare, rompendo i rapporti amichevoli con i Longobardi e i Bavari. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato parte del patrimonio del re. Questo modello di trasmissione del potere non ebbe fine con i Pipinidi/Carolingi, ma i nuovi re poterono fruire di un lungo periodo in cui il potere rimase a un solo re: Pipino, il cui fratello Carlomanno aveva scelto una vita religiosa; poi Carlo, che condivise il potere con il fratello Carlomanno fino alla morte di questo; infine, Ludovico il Pio, che dopo la morte dei fratelli rimase unico erede ci Carlo, e regnò dall’814 all’840. L’espansione territoriale di intrapresa da Carlo gli guadagnò l’appellativo di Magno. Facevano ora parte del dominio franco la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, la Svizzera, l’Austria e l’Italia centro-settentrionale. La conquista più importante fu quella del regno longobardo per due motivi: Carlo si trovò ad affrontare una struttura politico-territoriale più definita; il rapporto con il papato fece un salto di qualità. La conquista carolingia non andò a comprendere tutta l’Italia, e neppure tutta l’Italia longobarda: la geografia politica dell’Italia appare frammentata tra aree franche, bizantine, papali e longobarde. Carlo, in seguito alla conquista, si intitolò rex Francorum et Langobardorum, conservò la capitale a Pavia e assimilò l’aristocrazia longobarda. L’espansione verso la penisola iberica fu modesta: una serie di brevi conflitti si succedettero dal 778 (carolingi sconfitti dai Baschi a Roncisvalle) all’813, e portarono alla costituzione della marca Hispanica, la fascia territoriale a sud dei Pirenei, inquadrata nel regno franco. I conflitti con i Sassoni si erano ripetuti nel corso dell’VIII secolo. Sotto Carlo Magno l’azione militare franca cambiò progressivamente natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilare complessivamente la popolazione; più decisa era la conquista della coloritura religiosa della Sassonia. Lo scopo di Carlo era la sottomissione e l’assimilazione dei Sassoni, tramite la fondazione di una serie di diocesi in ambito germanico. Una guerra lunga, quella contro i Sassoni, che durò dal 772 all’803. La Baviera fu posta sotto un controllo più diretto, limitando le ambizioni autonomistiche del duca Tassilone, vassallo dei re carolingi; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico-militare, la marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. Le marche erano luoghi di difesa e di scambio. Nel caso dell’area austriaca, Carlo sconfisse in modo netto gli Àvari e impose agli Slavi una forma di egemonia sostanzialmente pacifica. Dinamiche simili si istituirono con i Danesi, le cui incursioni indussero Carlo alla costruzione di un lungo terrapieno noto come Danewirke. Sempre sul piano commerciale si articolarono i rapporti tra il mondo franco e i regni anglosassoni; significativo fu l’influsso dei modelli politici grazie ai quali il re Offa di Mercia diede vita a una larga egemonia sui regni anglosassoni meridionali. La linea d’azione papale negli anni a cavallo tra VIII e IX secolo fu volta al consolidamento di un’egemonia sull’Italia centrale, e alla definizione di un rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro va posta l’incoronazione di Carlo il giorno di Natale dell’800: papa Leone III, fuggito da Roma per scampare alle minacce dei suoi oppositori (crisi del potere papale), fu riportato a Roma e reinsediato sulla cattedra papale da Carlo. Le fonti non permettono di leggere con certezza in che misura l’incoronazione fosse un’iniziativa papale o carolingia. Importante per i papi era poter contare su un impegno stabile e definito di Carlo a proteggere la sede papale; questo era il primo significati del titolo imperiale. La nozione chiave non fu quindi quella di Impero, ma quella di imperatore che protegge la chiesa. Alla fine dell’VIII secolo la curia papale produsse la ‘Donazione di Costantino’, un falso documento del IV secolo che attestava la cessione al papato di tutte le regioni occidentali dall’Impero. La produzione della falsa donazione è segno del fatto che la collaborazione con i Carolingi non era l’unica opzione politica della corte papale. Carlo incontrò delle tensioni ideologiche con Bisanzio, perché di fatto un imperatore esisteva già. Il titolo imperiale era per definizione universale; peraltro, questo titolo, era un richiamo molto specifico a Costantino e all’Impero Romano. L’incoronazione fu oggettivamente un atto di concorrenza e di ostilità nei confronti di Bisanzio, reso possibile da una debolezza congiunturale dell’Impero orientale, governato in quegli anni da un’imperatrice reggente (Irene) e indebolito da un conflitto religioso importante (il movimento iconoclasta). La concorrenza con Bisanzio era stata avviata già prima dell’incoronazione dell’800, con atti di Carlo che sembravano evocare una prospettiva politica superiore a quella dei predecessori: il sostegno all’opera missionaria verso est, la convocazione di concili ecclesiastici e la costruzione di una nuova capitale ad Aquisgrana. Questa concorrenza, però, era poco utile alla politica carolingia; e non sembra casuale il fatto che, al momento di incoronare il figlio Ludovico il Pio nell’813, Carlo scegliesse di non sottolineare le implicazioni propriamente imperiali e romane. 2. Conti, Vassalli e liberi Il re era itinerante, ma non per questo poteva dare vita a una forma di governo diretto tramite un sistema di deleghe. L’efficacia del potere carolingio si fondava sul coordinamento dell’aristocrazia laica e delle chiese. Per quanto riguarda l’aristocrazia laica, i conti erano funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio (comitato), al cui interno assolvevano, di fatto, tutte le funzioni spettanti al re, come la guida militare, la giustizia e il prelievo fiscale. Marchesi: alcune aree erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche. Il potere dei marchesi non era sensibilmente diverso da quello dei conti. Gli aristocratici assumevano le funzioni di conte o di marchese in aree lontane dalle proprie regioni di provenienza cosicché la potenza derivava dalla delega ricevuta e non per il potere personale. Constatiamo che in questi decenni la carica di conte era temporanea: si veniva sostituiti o si veniva trasferiti ad altri compiti per conto del regno. Il legame tra l’imperatore e le realtà locali erano garantiti anche da altri funzionari: i missi regis, gli inviati del re. Essi erano gli occhi, le orecchie e la voce del re, funzionari in grado di garantire il collegamento tra centro e periferia, controllando o sostituendo i conti. Si parla sempre di uomini fidati del re. Negli ultimi decenni del secolo VIII, sotto Pipino III e Carlo Magno, viene definito il rapporto vassallatico. Il termine vassallo aveva in origine un’accezione sociale bassa. Ora il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare a un potente ottenendone in cambio protezione e un sostegno economico (una concessione di una terra). Il passo del giuramento del duca di Baviera Tassilone a Pipino negli ‘Annali del regno dei Franchi’ è importante per diversi elementi specifici: i gesti che vengono compiuti; il carattere fortemente personale e coinvolgente del rapporto; l’uso di tutto ciò per dare forma ai rapporti tra due potenti. La rete di fedeltà attraversava l’intera aristocrazia franca; i re carolingi si ponevano al vertice di una trama di rapporti vassallatici. Il concetto di Reichsadel (aristocrazia del regno) è utile per mettere in luce come le famiglie aristocratiche trovassero solo attorno al re una coesione tale da renderle un corpo sociale unitario. I vassalli regi furono l’ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi. Questa prassi divenne una norma sotto Ludovico il Pio, che stabilì che chi veniva nominato conte doveva giurare fedeltà vassallatica al re. I due piani si sostenevano a vicenda. I rapporti vassallatici e l’apparato funzionariale devono essere considerati anche come parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. Da un lato gli imperatori si mossero in una prospettiva statale; dall’altro prendiamo atto che la sostanza di cui era fatto questo governo era il coordinamento della grande aristocrazia. Il re era potente perché coordinava in modo efficace un’aristocrazia che disponeva a sua volta di ricchezza e potere. Il regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un rapporto diretto con i liberi, con i pauperes (gli inermi, in opposizione ai potentes). Lungo l’età carolingia vediamo gruppi di contadini che si presentavano davanti alla giustizia del conte o anche al palazzo regio per chiedere di essere difesi da un potente, che tentava di sottometterli e asservirli. Questi contadini sono sistematicamente sconfitti, ma l’elemento più importante è il fatto che le loro richiese fossero portate davanti alla giustizia regia, nella convinzione che una sentenza favorevole fosse possibile. 3. Le chiese carolinge Dall’800 in poi il rapporto fra re e papa fu intimo. I chierici non potevano giurare e non potevano combattere né portare armi: quindi il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Né i vescovi divennero conti: le funzioni di governo territoriale dell’Impero carolingio furono sempre affidate ai laici. Spesso vediamo i vescovi in qualità di missi regi: erano i vescovi, in quanto tali, a considerarsi e ad agire come collaboratori del re. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculiari del clero, come la capacità di orientare le anime dei fedeli verso l’ubbidienza al re; ma erano in gioco anche le concrete risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e le loro clientele vassallatiche. Nei capitolari (ovvero le leggi) l’imperatore poteva dare ordini ai propri vassalli, ai conti, ai marchesi, ai vescovi e agli abati. I monasteri non avevano compiti pastorali, non guidavano le anime dei fedeli laici. Erano nuclei di santità, centri di preghiera e di ascesi; erano luoghi fondamentali per l’elaborazione culturale; erano grandi punti di concentrazione di ricchezze (cambia solo l’aspetto delle anime). Tutti questi aspetti devono essere tenuti presente per comprendere l’impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò con la riforma promossa da Ludovico il Pio e attuata da Benedetto di Aniane, che consolidò la disciplina interna ai monasteri e impose la Regola di Benedetto. Le chiese non erano concepite come enti estranei al potere imperiale, ma piuttosto come sue articolazioni locali; esse cooperavano al controllo regio sulla società. I diplomi di immunità (atti di concessione regia), concessi di norma a chiese, vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere le tasse o per amministrare la giustizia. Per quanto riguarda quest’ultima, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava di un’ampia esenzione, era un territorio inviolabile. Tali diplomi erano forme di riequilibrio tra i diversi elementi: l’apparato funzionariale, il patrimonio fiscale e le chiese. Le chiese si occupavano della memoria del regno. Anche gli intellettuali, che si riunirono alla corte di Carlo Magno e Ludovico il Pio, collaborarono a costruire la memoria del popolo franco e della dinastia carolingia. «Costruire la memoria» significa operare alcune scelte narrative e ideologiche ben precise; esaltare le imprese dei maestri di palazzo dei pipinidi (come la battaglia di Poitiers); o la creazione della leggenda dei «re fannulloni», gli ultimi Merovingi. La cultura di corte operava quindi in ambiti diversi: le leggi e gli atti di governo. Strumentale a tutto ciò era la lingua latina; è indubbio che nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari. Ma la lingua del potere, della liturgia e in generale dello scritto era il latino, la cui efficacia attraversava tutti i territori All’interno del dominio islamico esistevano due diseguaglianze: una tra islamici e non islamici, l’altra tra gli Arabi e gli non islamici di origine araba. La prima distinzione non si tradusse in forme di persecuzione, dato che fu ampia la tolleranza verso le altre fedi, in particolare con l’Ebraismo e il Cristianesimo, però c’è distinzione giuridica e fiscale. La divisione interna ai fedeli islamici – tra Arabi e non Arabi – non era formalizzata in modo così chiaro. Gli Omayyadi posero il proprio centro a Damasco, in Siria, riducendo La Mecca e Medina a centri di rilievo religioso, quindi lontani dall’Arabia. Questa fu anche la fase di sistemazione della fede islamica: il Corano fu oggetto di una profonda opera di interpretazione e di commento. Via via fu influenzato dalle tradizioni culturali delle popolazioni sottomesse. Tutto ciò peraltro non si tradusse in un libero sincretismo culturale, dato che gli anni a cavallo tra VII e VIII secolo furono segnati anche dalla piena affermazione dell’arabo come lingua ufficiale, sia sul piano religioso che su quello amministrativo. Il secolo omayyade fu segnato dal lento processo di affermazione del carattere universale dell’Islam e di superamento della sovrapposizione tra identità religiosa islamica e identità etnica araba. Il piano economico: le conseguenze economiche dell’espansione araba per i bizantini furono catastrofiche. Bisanzio traeva sostegno dalle province più produttive sul piano agrario come l’Egitto, la Tunisia e la Sicilia. La perdita delle prime due costrinse l’Impero a ridurre i propri orizzonti politico-militari, e dovette dare una nuova importanza alla Sicilia. Dal punto di vista amministrativo e fiscale il califfato fu pienamente un erede delle strutture romane e conservò un sistema di prelievo coerente con i precedenti modelli imperiali. 2. Bisanzio: crisi e riorganizzazione di un Impero Dalla metà del VII secolo alla fine dell’VIII, l’Impero romano d’Oriente subì gli effetti dell’affermarsi di due nuove dominazioni: l’espansione dell’Islam da un lato e la dominazione carolingia in Europa dall’altro. È a partire da questa fase che possiamo parlare di Impero «bizantino». I mutamenti tra VII e VIII secolo tolsero all’Impero una prospettiva universale, trasformandolo definitivamente in una dominazione regionale polarizzata sull’Egeo e attorno alla capitale. Dalla fine del VI secolo andò declinando il grande progetto giustinianeo. I successi militari effimeri e la ripresa delle pressioni sul confine avevano svuotato le casse imperiali, portando a una condizione di irrequietezza di settori dell’esercito che faticavano a ricevere gli stipendi. Infine, le tensioni religiose avevano reso difficili i rapporti sia con la cristianità occidentale sia con le regioni che avevano conservato posizioni monofisite. Sul piano militare la svolta fu segnata dal regno di Eraclio (610-641), che si affermò sull’Impero persiano fino a eliminarne la minaccia per Bisanzio, che favorì però gli islamici. Sotto il suo regno si avviò una lunga riforma introducendo il cosiddetto ordinamento tematico: si abbandonò il sistema provinciale organizzato da Costantino, in favore di un’organizzazione per temi (la parola thema in origine si riferiva a un corpo militare, passò a indicare una struttura istituzionale di una piccola regione). Al suo interno, la difesa fu affidata a militari di professione, il cui mantenimento era garantito dalla concessioni di terre e di esenzioni fiscali. Fu una trasformazione che fu avviata da Eraclio e compiuta dai suoi successori lungo il VII e l’VIII secolo. Qui si situa un duplice mutamento: la riunione dei poteri militari e civili nelle stesse mani e l’abbandono del sistema di finanziamento dell’esercito basato su tasse e stipendi. Un nuovo momento di rottura nella storia bizantina fu rappresentato – tra la metà dell’VIII secolo e la metà seguente – dal movimento iconoclasta e dalla sua affermazione alla corte imperiale. L’iconoclasmo fu un orientamento religioso che riteneva necessaria, per un culto più puro, la distruzione delle immagini religiose: contestare le immagini di Cristo, sul piano intellettuale, era facile perché esse potevano rappresentare la natura umana del Cristo e non quella divina. Gli iconoduli (coloro che difendevano le immagini) rispondevano ricordando che il concilio di Calcedonia aveva ribadito che entrambe le nature avevano conservato le proprie caratteristiche, e quindi era lecito rappresentare la natura umana di Cristo. L’editto dell’imperatore Leone III, del 730, vietò la venerazione delle immagini. Questo finì per creare gravi conflitti all’interno e all’esterno dell’Impero: all’interno, perché il culto delle immagini aveva un grande rilievo per la religiosità dei monaci e laici; all’esterno, perché poneva Bisanzio in diretta contrapposizione alla Chiesa di Roma. Imperatori come Leone III e Costantino V erano alla ricerca di una religiosità più austera e di un’ortodossia rigorosa. Vi furono anche esigenze di ordine politico; nell’iconoclasmo vi era la volontà di rivendicare il ruolo dell’imperatore come principale mediatore tra il mondo e Dio. Nel concilio di Hierea del 754, Costantino V ottenne la condanna formale del culto delle immagini. La condanna di Hierea non fu l’esito di un concilio ecumenico, ma fu opera solo della Chiesa bizantina, dato che fu dura l’opposizione del mondo monastico. I monaci furono promotori della resistenza all’iconoclasmo e furono oggetto di condanne e persecuzioni. La pressione iconoclasta si attenuò con Leone IV (asceso al trono nel 775) e poi con la vedova Irene, che alla morte del marito, nel 780, assunse la reggenza in nome del figlio. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò la liceità del culto delle immagini, senza porre fine ai conflitti tra iconoclasti e iconoduli. L’iconoclasmo fu riaffermato, in forme più moderate, nel concilio di Costantinopoli dell’815, ma in questi decenni la sua funzione andò esaurendosi. Il movimento iconoclasta andò così a indebolirsi, fino a essere condannato in un nuovo concilio di Costantinopoli nell’843. L’orientamento iconoclasta di Bisanzio fu un elemento di allontanamento tra le due chiese (Roma e Costantinopoli). La scelta papale di trovare nel regno franco il nuovo protettore della Chiesa aveva un concreto fondamento geo-politico; ovvero la progressiva marginalizzazione dell’Impero bizantino rispetto al territorio italiano e l’incapacità di proteggere il papato (come con i Longobardi nel 751, il papa dovette rivolgersi ai pipinidi). Le fonti tra VIII e IX secolo mostrano che molti dei territori italiani formalmente appartenenti all’Impero bizantino seguirono strade che li portarono verso forme di più ampia autonomia. La più solida base italiana dell’Impero bizantino fu la Sicilia: qui, però, l’azione imperiale fu interrotta dalla conquista islamica lungo il IX secolo. 3. Le articolazioni del mondo islamico e bizantino Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti da una nuova dinastia, gli Abbasidi, discendenti di uno zio di Muhammad. Il mutamento segnò lo spostamento della capitale nella neonata città di Baghdad; la natura del califfato perse le caratteristiche arabe per divenire più pienamente un dominio islamico. L’articolazione territoriale ed etnica del califfato: gli emiri (delegati del califfo a governare ampi territori) assunsero una piena autonomia d’azione. Nell’800 il califfo Harun al-Rashid delegò il governo dell’Ifriqiya (il Nordafrica) all’emiro Ibrahim al-Aghlab, gli concesse anche di trasmetterla dignità all’interno della propria famiglia (gli Aghlabiti), la quale realizzò la conquista della Sicilia. Alla fine del X secolo fu l’Egitto a rendersi autonomo, grazie alla dinastia dei Fatimidi, i quali rivendicarono per se stessi il titolo califfale (910). La penisola iberica fu sottoposta al dominio islamico dall’inizio dell’VIII secolo: l’area assunse una fisionomia politica più definita quando prese il potere un principe omayyade. L’emirato di al-Andalus convisse a lungo con i regni cristiani. Esso seppe coordinare sotto di sé una popolazione molto varia, che comprendeva l’aristocrazia araba, le truppe berbere e le popolazioni locali. L’emirato finì per affermarsi come una delle maggiori potenze europee del secolo X, tanto che gli emiri di al-Andalus assunsero un titolo califfale nel 929, in diretta concorrenza sia con gli Abbasidi di Baghdad, sia con i Fatimidi d’Egitto. Il dominio islamico, incentrato su Cordova, finì per articolarsi in dominazioni autonome (tayfas), che, a partire dalla fine dell’XI secolo, subirono la pressione militare dei cristiani durante la Reconquista. La conquista della Sicilia: dall’827 gli Aghlabiti dell’Ifriqiya avviarono una vera e propria campagna di conquista, che si concluse alla fine del secolo. La presenza di un dominio organizzato e unitario divenne anche una base per incursioni nelle aree peninsulari, fino ad affermare per alcuni decenni il controllo islamico su Bari. Alla fine dell’XI secolo, l’isola fu conquistata dai Normanni e riunita all’Italia peninsulare meridionale. Nell’867 salì al trono del dominio bizantino Basilio I, i cui discendenti (i Basilidi) conservarono il potere fino al 1025 e segnarono una fase di rafforzamento di Bisanzio. Gli imperatori basilidi costruirono una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti, un insieme di territori formalmente autonomi, ma che rientravano dell’orbita di influenza dell’Impero. L’Europa orientale e l’Italia meridionale furono l’oggetto della pressione egemonica degli imperatori bizantini e carolingi. La divisione tra le chiese di Roma e di Costantinopoli: sul piano delle gerarchie ecclesiastiche si raggiunse una forma di compromesso alla fine del IX secolo, con il riconoscimento della superiorità formale di Roma, priva di concrete implicazioni giurisdizionali; sul piano teologico le divisioni non furono mai sanate. Una questione chiave, che emerse in questa fase, fu quella detta del Filioque: il Credo elaborato a Nicea nel 325 aveva subito un’interpolazione nella sua versione latina, la quale recitava che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (Filioque), posizione ritenuta inaccettabile dal clero orientale, poiché affermava che lo Spirito procedesse unicamente dal Padre. Gli Slavi: la definizione unitaria di «Slavi» è una semplificazione; essi erano un complesso di popoli, con alcuni caratteri culturale e linguistici comuni. Le dominazioni da ricordare sono quelle dei Bulgari e la Grande Moravia. I Bulgari esercitarono una pressione militare sui confini imperiali lungo l’VIII secolo per poi subire un processo di assimilazione religioso-culturale nella seconda metà del IX secolo, in particolare sotto il khan Boris; nei decenni successivi furono segnati dall’azione militare contro l’Impero, che nei primi anni del X secolo culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace: esso era stato suggellato con il matrimonio tra la figlia del khan Simeone e l’Imperatore minorenne Costantino VII. Il patto fu cancellato dall’imperatore Romano Lecapeno, e il potere dei Bulgari declinò dopo la morte di Simeone. La Grande Moravia: fu un dominio esteso tra i territori delle attuali Germania, Boemia e Ungheria, che arrivò a coordinare molte popolazioni slave, per poi dissolversi nel corso del X secolo. Queste diverse dominazioni slave si orientarono verso il Cristianesimo, il quale offriva un riferimento religioso e un modello di organizzazione e gerarchizzazione della società. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma temevano che ne implicasse una sottomissione a uno dei grandi imperi cristiani. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: negli anni centrali del IX secolo, due fratelli missionari, Costantino e Metodio, crearono una grafia apposita per rendere fedelmente i suoni di questa lingua (il glagolitico); con questa scrittura poterono tradurre i principali testi sacri e liturgici che di fatto avviarono il processo di assimilazione culturale delle popolazioni slave, che rientrarono nell’orbita di influenza di Bisanzio. La rinnovata pressione bizantina verso l’Italia: Basilio I non poté intervenire in modo significativo né nella Sicilia islamica, né nelle terre in mano carolingia (centro – nord). Cercò di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando il proprio controllo tra Puglia e Calabria. Egli estese all’area italiana l’ordinamento tematico, ma dal punto di vista territoriale fu un’azione molto limitata. Capitolo 5 Società e poteri del X secolo I territori già compresi nell’Impero carolingio, nel X secolo seguirono percorsi divergenti ma coerenti: divergenti, perché i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche; coerenti, perché le principali linee di tendenza furono comuni. Il periodo di cui trattiamo è la cosiddetta «età postcarolingia». Nel X secolo vediamo tramontare definitivamente la struttura imperiale unitaria; mentre gli elementi residui dell’ordinamento carolingio si unirono con una liberissima sperimentazione di forme di potere totalmente nuove. 1. I mutamenti dei poteri comitali L’Impero mutò la propria natura dall’interno. A partire dalla metà del IX secolo le divisioni dell’Impero indussero una trasformazione nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia. Sotto Carlo Magno, esso era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione. Questo equilibrio mutò perché si ridusse la capacità redistributiva dei re, infatti le grandi espansioni territoriali di Carlo Magno erano da tempo finite. Al contempo i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell’appoggio militare aristocratico. Il re aveva bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarlo, per cui finirono per cedere alle loro richieste: i funzionari chiedevano la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. I conti e i marchesi, negli ultimi decenni del IX secolo, restavano sempre più a lungo nella propria sede e spesso trasmettevano la propria funzione a un figlio; un mutamento della funzione, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. I re non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e si appoggiavano sui legami personali, sulle clientele vassallatiche. Perciò le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici. Muta l’equilibrio complessivo perché il re ora ha meno da dare (ridotta capacità di regia redistribuzione). I re cedono all’aristocrazia e al fatto che conti e marchesi possono rimanere più tempo nello stesso posto. Il capitolare di Quierzy dell’877: in esso, Carlo il Calvo definì in queste norme una procedura straordinaria (d’emergenza) per gestire i comitati nel caso in cui il conte morisse mentre il figlio era impegnato in spedizione (venne emanato prima della spedizione di Carlo in Italia). Si stabilirono delle forme di gestione provvisoria, in attesa che giungesse la decisione imperiale. Questa idea di provvisorietà è connessa alla rivendicazione da parte dell’imperatore del suo diritto di scegliere il nuovo titolare del comitato: se il figlio del conte non avesse seguito l’imperatore in Italia, sarebbe toccato naturalmente a lui prendere la gestione del comitato alla morte del padre. Inoltre, si stabilisce che i fedeli del re, dopo la sua morte, potranno ritirarsi a vita religiosa trasmettendo le proprie funzioni a «un figlio o un parente capace di servire lo stato». Carlo aggiunge che «ugualmente dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli»: conti e vassalli non erano la stessa cosa, si conservava la distinzione dei due piani. Se un conte muore è il figlio che assume la carica. Il secondo processo fu la concentrazione del patrimonio del conte all’interno delle aree da lui governate. Perché se so che mio figlio sarà qui conte cerco di acquisire altre terre. Tra la fine del IX secolo e l’inizio del X vediamo come la lunga durata delle cariche e la loro trasmissione ereditaria mutarono le politiche delle dinastie, favorendo il loro radicamento nelle regioni governate. La funzione comitale e la potenza dinastica si fusero con un generale processo di regionalizzazione delle aristocrazie. Questo portò a un ulteriore mutamento: è dato dal fatto che il conte era anche un grande proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più attento e aristocratiche italiche che mirano alla corona regia. A questi gruppi appartenevano Berengario, Guido e Lamberto di Spoleto; più gli Anscarici (marchesi di Ivrea), gli Adalbertini (marchesi di Tuscia). Furono i settori della grande aristocrazia italica a chiamare Rodolfo di Borgogna. L’uccisione di Berengario (924) non lasciò campo libero a Rodolfo, che si trovò a scontrarsi con Ugo di Provenza, che lo sconfisse e lo costrinse a ritirarsi in Borgogna nel 926. Il regno di Ugo segnò un periodo di relativa continuità del potere regio fino al 946, quando ritornò al di là delle Alpi e lasciò il regno italico al figlio Berengario II. Nel frattempo, crebbero le ambizioni egemoniche del re di Germania Ottone I, che scese prima in Italia e impose la propria egemonia a Berengario; poi affermò il diretto controllo sul regno italico unendo i regni di Germania e Italia. 3.2 Germania L’ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che morì nel 911, lasciando aperto lo spazio politico per l’affermazione di nuovi re. Si impose un principio elettivo per cui il nuovo re era scelto dall’insieme dei duchi: ma tale principio non dovette sempre convivere con le tendenze dinastiche, ovvero con la volontà di grandi famiglie aristocratiche di appropriarsi della corona in modo permanente. Tutta la storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell’ottica della convivenza tra potere principesco e potere regio, tra principio elettivo e principio dinastico. Nel 911, alla morte di Ludovico, fu scelto come re uno dei grandi duchi, Corrado di Franconia, ma il suo regno fu costantemente minacciato dall’ostilità di alcuni settori della grande aristocrazia. Il principale avversario di Corrado fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse a un accordo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re nei domini del duca sassone. Nel 919, alla morte di Corrado, l’aristocrazia tedesca scelse il duca di Sassonia come nuovo re che, da quel momento in avanti, per più di un secolo trasmise la corona all’interno della dinastia dei duchi di Sassonia. Nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia, iniziò la conquista dell’Italia, poi completata dal figlio, Ottone I. L’azione di Ottone si situò in un contesto particolarmente complesso: da un lato le divisioni interne all’aristocrazia italica, tra chi sosteneva Berengario e chi si richiamava alla potente regina Adelaide, vedova di Lotario; dall’altro la posizione di Berengario, che negli anni precedenti si era posto sotto la protezione di Ottone; e infine i conflitti tra lo stesso Ottone e il figlio primogenito di Liutdolfo, che ambiva al potere sull’Italia. L’intervento di Ottone fu quello di protezione della regina vedova (che Ottone sposò a Pavia nel 951) e della sia superiorità su Berengario. Intanto le tensioni tra Ottone e il figlio si trasformarono in un vero e proprio conflitto; Liutdolfo aveva cercato di riunire i grandi del regno di Germania al suo seguito. Il quadro politico italiano fu temporaneamente pacificato con il riconoscimento di Berengario II e del Figlio Adalberto come re sottoposti a Ottone; quindi, egli si concentrò nel conflitto contro il figlio, che si risolse nel 954 con un atto di sottomissione da parte di Liutdolfo. La pacificazione all’interno del regno fu la premessa per la vittoria di Lichfield del 955, con cui Ottone mise fine alla minaccia delle incursioni ungare. Nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia, prendere direttamente possesso del regno e – l’anno successivo – ottenere a Roma la corona imperiale. La sconfitta definitiva di Berengario II richiese ancora una fase di guerra, che si concluse solo nel 964). I meccanismi di ascesa al trono: il re di Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva poi scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. A partire da Ottone si affermò una vera e propria dinastia regia: la forza della famiglia sassone poté condizionare le scelte dei duchi sia nel 973, alla morte di Ottone I, sia nel 938, quando Ottone II lasciò il regno a Ottone III. Si ripropose una continuità familiare come in età carolingia, ma con due differenze: la successione al trono avveniva sì all’interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso una forma di elezione; fu più chiara un’idea di linea dinastica di successione a vantaggio esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. C’è il pieno controllo dell’aristocrazia ducale: la forza di Ottone I e del figlio si espresse nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo di membri del loro stesso gruppo parentale. Ottone III pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum (Rinnovamento dell’Impero Romano): il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di elemento tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina (la madre di Ottone III, Teofano, era una principessa bizantina). Nel 996, mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona imperiali, lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV. Ottone impose come papa un proprio cugino, Bruno di Worms, che divenne Gregorio V. La nomina di Gregorio fu un fatto nuovo perché il papa proveniva da Oltralpe: fino a quel momento era stata l’aristocrazia romana ad avere il pieno controllo dell’elezione papale. Non a caso i Romani si ribellarono all’elezione, tanto che lo stesso Ottone dovette intervenire militarmente nel 998 per sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e reinsediare Gregorio. L’anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d’Aurillac, che prese il nome di Silvestro II. L’azione di Ottone mostra una nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell’Impero, tanto che lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città, in analogia e in concorrenza con il palazzo papale del Laterano. Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente con l’ascesa al trono del cugino Enrico II. Poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d’Italia Arduino, marchese di Ivrea. Dopo una breve resistenza, egli fu sconfitto da Enrico nel 1004. La successiva lontananza di Enrico dall’Italia lasciò spazio ad Arduino per ricostruire una rete di solidarietà e alleanze; solo nel 1024 una nuova discesa in Italia di Enrico pose fine alla vicenda di Arduino. L’elezione di Arduino rese visibile una tensione sotterranea, una ricorrente volontà dell’aristocrazia italica a imporre le proprie decisioni nella nomina del re. Negli anni successivi, alcuni settori dell’aristocrazia italiana cercarono altrove un nuovo re, contattando il principe francese Guglielmo d’Aquitania. 3.3 Francia In Francia la svolta fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso che, nell’888, lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: il conte Oddone di Parigi. Questo non fu un netto e lineare cambiamento di dinastia regia, piuttosto l’inizio di un’instabilità politica che segnò i successivi decenni. Elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi che si contrapposero ai conti di Parigi: alcuni settori dell’aristocrazia scelsero di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nell’839 e si contrappose a Oddone, la cui morte, nell’898, rese Carlo unico re di Francia, grazie a un accordo con gli eredi di Oddone. Carlo fu un re debole, e la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. «Grandi del regno»: il regno francese subì un cambiamento profondo costituito dal diversificarsi del territorio, con la suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Regioni come la Borgogna, la Champagne, l’Aquitania o l’Anjou si organizzarono attorno ad altrettante dinastie di conti e duchi, detentrici di domini territoriali non molto diversi dal dominio regio. Negli anni successivi l’aristocrazia francese pose sul trono prima Roberto di Neustria (fratello di Oddone), poi Rodolfo di Borgogna (genero di Roberto); si scelsero i re all’interno del gruppo parentale di Oddone, ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio del re Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l’idea di una vera e propria dinastia regia. Nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna, Ugo il Grande decise di non imporre la propria elezione a re e preferì far tornare dall’esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia. Ugo, rinunciando alla corona, evitò probabilmente di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri principi. Il principio che in questi decenni segnò i meccanismi del regno di Francia fu la costruzione dell’egemonia dei Robertini, che culminò nel 978 con l’ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia dei Capetingi. Il 987 è tradizionalmente il momento fondativo della monarchia nazionale: l’ascesa al trono di Ugo Capeto. Nel X secolo la corona fu a lungo nelle mani degli ultimi Carolingi, ma i Robertini espressero un potere analogo a quello regio. Lungo il secolo XI il potere regio conservò un duplice carattere: di forza egemone e di forza regionale. È sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono i nuovi funzionamenti politici, e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che, in larga misura, facevano a meno del re. 3.4 Ai margini del mondo carolingio Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, che alla fine del secolo si trasformarono in un dominio stabile; dall’altro lato una crescente egemonia del Wessex, regno nella parte sudoccidentale dell’Inghilterra. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande (871-899), che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Ma questa fase non segnò l’inizio di uno stabile dominio unitario: alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo (899-924), ma i potenti inglesi non gli riconobbero tutti i poteri del padre. Edoardo dovette rifondare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Alla sua morte (924) i destini di Mercia e Wessex si separarono di nuovo. Fu solo all’inizio del XI secolo che si costituì un regno inglese unitario sotto il re norvegese Knut, che nel 1016 arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e Norvegia. Il potere di Knut non ebbe seguito, ma due elementi della sua vicenda ebbero esiti di lungo periodo: l’unificazione dell’Inghilterra; integrazione tra i regni che si affacciavano sul mare del Nord. Questa integrazione tornò in primo piano pressoché a ogni successione sul trono inglese. Alla morte del re Edoardo, nel 1066, la corona poté essere contesa dal duca di Wessex Harold Godwinson, il re di Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo (Guglielmo il Grande). Il primo fu incoronato re, ma nell’autunno subì gli attacchi quasi contemporanei degli altri due, sconfiggendo Harald, per essere però poi sconfitto e ucciso da Guglielmo ad Hastings il 14 ottobre. La battaglia di Hastings segna l’affermazione sul territorio inglese dell’aristocrazia normanna. I decenni successivi furono segnati dall’integrazione tra l’aristocrazia normanna e quella inglese. La parte centrale e meridionale della penisola iberica aveva costituito l’emirato di al-Andalus, mentre nel nord si erano formati i regni cristiani delle Asturie e di Pamplona/Navarra. Assistiamo a una continua interferenza tra le diverse dominazioni, a intrecci politici da un territorio all’altro. I re cristiani cercarono di operare attivamente delle dinamiche interne all’emirato, approfittando della sue fasi di instabilità politica. Particolarmente attivo in questo senso fu il regno delle Asturie, il cui centro politico si spostò all’inizio del X secolo da Oviedo a León (noto quindi come il regno di León). La maggiore forza militare islamica permise l’affermarsi di un’egemonia di fatto dell’emiro sull’intera penisola, che tuttavia non cancellò i regni cristiani. Già dalla fine del IX secolo erano presenti della cultura politica dei regni cristiani le basi ideologiche della Reconquista; ma in questa fase tali elementi non andarono a comporre un sistema ideologico coerente. Fu un equilibrio dinamico e conflittuale, ma definì un quadro di sostanziale instabilità territoriale delle diverse dominazioni. 4. Modelli di ordine sociale I re non erano più in grado di creare gli assetti politici locali, ma al più di condizionarli, orientarli o legittimarli. I protagonisti della vita politica erano le grandi dinastie discese dagli ufficiali pubblici, le chiese vescovili e monastiche e i nuovi nuclei signorili. Quindi c’è la ricerca di un modello di ordine nel quadro della debolezza regia. I gruppi intellettuali (i grandi chierici, i vescovi e i monaci) ebbero un grande peso nel processo di riflessione sulle forme del potere: la questione chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio. In alcuni testi emerge già la volontà della ricerca di un modello di ordine politico. Il modello della «tripartizione funzionale» era una teoria secondo cui il corpo sociale dovesse essere diviso tra chi pregava (oratores), chi combatteva (bellatores) e chi lavorava (laboratores). Il dato qualificante era la necessaria reciprocità tra le diverse condizioni. Ognuno serve agli altri due. Questo modello non è la vera descrizione della realtà: è un modello ideale che tiene conto della realtà ma facendone grande astrazione. Così è come dovrebbe funzionare la società. Il contesto in cui questa teoria nacque fu durante il regno di Roberto il Pio (figlio e successore di Ugo Capeto), un momento in cui il potere regio era quanto mai incerto. La riflessione è indirizzata a pensare come si potesse raggiungere un equilibrio in assenza di un reale ed efficace potere regio. Le paci di Dio sono un rito, un sistema cerimoniale, piuttosto che una presentazione di una teoria politica all’interno di testi elaborati. Alcuni vescovi del sud della Francia, a partire dagli ultimi anni del X secolo, convocarono delle grandi assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire e giurare sulla pace in una regione. I vescovi radunavano un gran numero di reliquie e su di esse tutti gli abitanti della regione dovevano giurare il rispetto di alcune norme fondamentali, La prima assemblea di cui abbiamo notizia fu tenuta a Charrouz nel 989. La novità era rappresentata dal fatto che queste norme erano affermate dalla convergente volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti a forte intensità religiosa e cerimoniale. Modelli opposti: la tripartizione è un modello di ordine espresso in testi di alto livello intellettuale e, probabilmente, di debole circolazione; un modello destinato a una lunga fortuna, ma che ebbe un impatto assai ridotto. Le paci di Dio si fondarono su un sistema di pratiche cerimoniali ed ebbero un fortissimo impatto sulla società a cui si rivolgevano. «Sistemi concorrenti»: la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una chiara centralità dei vescovi. Le paci di Dio si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento. In comune: in entrambi i modelli c’era una profonda trasformazione del rapporto tra i vertici delle chiese e i fedeli. Sfumò ulteriormente la distinzione tra suddito e fede: l’ecclesia era l’intera società. L’inquadramento religioso era un inquadramento delle credenze e delle persone, ed essere fedeli significava essere sudditi di un complessivo sistema di dominazione. 5. Nuove chiese, nuovi poteri La trasformazione si avviò già nel X secolo su due piani: il rinnovamento del monachesimo e il nuovo coinvolgimento dei vescovi nelle strutture di potere. Nel 910 il duca Guglielmo d’Aquitania fondò l’abbazia di Cluny, nella diocesi di Macon, non lontano da Lione, e l’affidò all’abate Bernone. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva di Cluny: in genere, le fondazioni aristocratiche di monasteri implicavano un patronato della famiglia. Al contempo l’abbazia fu svincolata dal controllo del vescovo di Macon: la protezione e benedizione del monastero erano affidate direttamente al vescovo di Roma. Cluny nacque nella più totale autonomia, dato che la lontananza di Roma garantiva di fatto che il papa non si sarebbe intromesso concretamente nelle vicende dell’abbazia. Pur muovendosi all’interno della Regola benedettina, i Cluniacensi diedero un’interpretazione specifica, ponendo al centro la dimensione della liturgia e della preghiera: una liturgia più ricca termine viene da un personaggio degli ‘Atti degli Apostoli’, Simon Mago, un samaritano che esercitava la magia, convertito al Cristianesimo. Simone fu identificato come l’iniziatore di tutte le sette dissidenti cristiane, e in particolare la simonia; ovvero la volontà di comprare o di vendere cose spirituali con un mezzo materiale, il denaro. I teologi e i giuristi riformatori dichiararono le cose sacre, dagli oggetti alle chiese fino alle cariche ecclesiastiche, «indisponibili», fuori mercato perché senza prezzo. Si trattava di una posizione di principio, poiché esisteva un dato politico più terreno che ne limitava l’attuazione: la vendita delle cariche era una pratica assai diffusa tra le élite politiche dell’Occidente cristiano, e pagare per la carica era una forma di ringraziamento per chi l’aveva assegnata e di investimento per chi l’aveva comprata. Nessuna corruzione dei costumi ecclesiastici quindi; la Chiesa episcopale funzionava così. I riformatori dovettero faticare non poco per trasformare una pratica corrente in un delitto intollerabile e poi in un’eresia. Il celibato del clero: per buona parte dell’alto medioevo, gli esponenti del clero potevano, in alcuni casi, avere moglie. Dopo aver preso gli ordini non era più possibile sposarsi, ma se si accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio, la situazione rimaneva sospesa in un limbo di tolleranza. A volte le consuetudini legali legittimavano lo stato matrimoniale del chierico. Più diffuso era il concubinato, la semplice convivenza con una donna al di fuori del matrimonio. Questa prassi fu presa di mira e severamente censurata dal partito imperiale riformatore. Queste pratiche furono condannate dal concilio di Pavia del 1046 in avanti. Nel concilio di Reims del 1049, l’iniziativa riformatrice assunse i toni teatrali e drammatici di un processo pubblico: la confessione spontanea, anche se evitava la deposizione, portava ugualmente all’abbandono della sede e della carica di vescovo, contro ogni tradizione locale. Si ponevano così le basi di un primato del papa di Roma sulla sorte dei vescovi, che potevano essere rimossi per indegnità e immoralità. Le tensioni riguardavano anche la base dei fedeli, chiamati in causa dalle lotte fra i vescovi di opposti schieramenti. Milano fu sede di un conflitto tra i riformatori, chiamati patarini, e l’alto clero locale. Lo scontro fu aperto dalla contestazione del clero corrotto da parte di un chierico del clero minore, Arialdo, che riuscì a trascinare una parte dei fedeli in una sollevazione violenta contro i presti sposati o concubinari. Arialdo sosteneva anche che la nullità dei sacramenti impartiti dai preti indegni, invitando i fedeli a disertare le loro chiese. (sono contro la simonia e il nicolaismo, vogliono migliore qualità di chi guida le anime). I patarini tennero in scaccola Chiesa milanese per decenni. Il movimento ricevette l’appoggio dei papi riformatori che inviarono il vessillo di san Pietro a Erlembaldo, un cavaliere nobile. Le mediazioni dei pontefici romani fallirono, mentre le violenze suscitarono una reazione dell’alto clero milanese. Gradualmente, venne meno anche l’appoggio della Chiesa di Roma; in particolare la negazione del valore dei sacramenti impartiti dai preti indegni implicava una svalutazione del valore dei sacramenti, che potevano essere «macchiati» dalla persona fisica del prete. Una visione così terrena del sacro fu condannata dal papato come eresia pochi anni dopo. Interventi dei laici: i fedeli laici richiedevano un clero più puro, ma spesso, tali richieste, venivano respinte dalle istituzioni ecclesiastiche. I chierici dovevano essere guidati solo da altri uomini di Chiesa, non dai laici. Il primato di Roma andava rafforzato sia verso l’esterno che verso l’interno. Verso l’esterno una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo: la Chiesa d’Oriente, definita come ortodossa (aveva come capo solo Gesù, non Pietro o il papa). La rottura diventa insanabile per volere del papa, che si ritiene infallibile e vertice di tutte le chiese (non accettabile da Bisanzio). Verso l’interno il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti, soprattutto nel momento, contestatissimo, delle elezioni. La questione dell’unità della Chiesa si pose intorno al 1053, in occasione di una nuova diatriba che si era aperta con il patriarca di Costantinopoli. La lettera scritta dal patriarca Michele Cerulario, in cui i vescovi latini venivano invitati ad abbandonare pratiche da lui ritenute «giudaiche», come la comunione con il pane non levitato. Leone IX rispose con due lettere, redatte probabilmente da Umberto di Silvacandida, e poi con un’ambasceria di due cardinali. Negli scritti emergeva chiara la nozione che la Chiesa di Roma «non poteva sbagliare» (in quanto istituita da Pietro) e guidava la cristianità come una monarchia. L’ambasciata di Umberto finì con la scomunica del patriarca e formalizzo la rottura con la Chiesa di Roma. La rottura fu un atto importante nell’autorappresentazione del papato: fornì argomenti a favore alla tesi dell’unicità della Chiesa di Roma come guida della cristianità. In forme non ancora definite, si pose il problema del ruolo del papato all’interno della Chiesa. L’elezione del papa: il papato, come istituzione, non era ancora stabile; in assenza di procedure certe, ogni elezione poteva essere contestata. Ne fu un esempio il breve pontificato di Benedetto X, un nobile romano imposto dalla famiglia dei Tuscolani. Il pontificato di Benedetto ebbe la funzione di far emergere un gruppo di intellettuali riformatori che prese in mano la reazione, contestando le modalità irregolari della sua elezione. Ildebrando di Soana, nominato da Leone IX arcidiacono e amministratore della Chiesa romana, fu al servizio di tutti i papi riformatori di quei decenni. Ildebrando aveva acquisito sufficiente autorità in seno alla curia romana da imporre come papa il vescovo di Firenze, Gerardo con il nome di Niccolò II. Il nuovo papa presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto solo ai cardinali, escludendo i laici e lasciando uno spazio ambiguo all’approvazione imperiale. I papi di prima erano tedeschi, avevano orientamento riformatore e l’impero condizionava le elezioni. L’obiettivo del decreto è avere piena autonomia istituzionale a prescindere dall’impero. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Gregorio VII, non è tedesco, ma della Toscana. Egli è l’esito e il culmine della riforma. 2. Il momento del conflitto. Il pontificato di Gregorio VII Il pontificato di Gregorio VII ha rappresentato una fase di massimo conflitto fra la Chiesa di Rome e i poteri laici ed ecclesiastici dell’Impero. Le ragioni del conflitto si devono in parte alle tensioni accumulate nei decenni precedenti fra il papato e l’episcopato, in parte all’intransigenza del programma di Gregorio VII: infatti egli aveva come obiettivo l’inquadramento della società e dei poteri laici ed ecclesiastici in una gerarchia unica con al vertice il pontefice di Roma. Gregorio non costruì una vera teocrazia, ma fornì la Chiesa di strumenti culturali e ideologici per immaginarla. Ildebrando di Soana divenne papa nel 1074, dopo un’elezione per acclamazione (tutt’altro che regolare, non dai cardinali), e proseguì con vigore l’azione di riforma del clero. Egli dovette prendere atto delle accanite resistenze alla sua azione riformatrice: in particolare contro i decreti di purificazione del clero che prevedevano una severa repressione della simonia e del nicolaismo. In Italia l’accoglienza dei canoni moralizzatori fu debole. In Germania le reazioni furono più violente. L’arcivescovo di Brema rifiutò di obbedire ai legati gregoriani e impedì loro di convocare il concilio. Al concilio di Erfurt, faticosamente riunito nell’ottobre 1074, il clero locale accusò Gregorio di essere un eretico e di sostenere dogmi folli. In Normandia, il vescovo riformatore Giovanni fu preso a sassate dal suo clero e dovette fuggire. L’opposizione riguardava l’ampiezza dei poteri rivendicati dal papa di Roma. Gregorio VII rispose attaccando direttamente il clero ribelle. Durante il concilio di Rom del 1075 colpì l’investitura laica dei vescovi disobbedienti. Fin dall’età carolingia, i re franchi e i potenti locali avevano il potere di scegliere il candidato e di dotare un vescovato di beni materiali. In Germania, anche prima di Ottone I, era all’imperatore che il vescovo giurava fedeltà. Gregorio cambiò il significato dell’investitura, condannando l’intervento dei laici come indebita intromissione nelle cose sacre. Nel concilio di Roma del 1075 si dispose che «nessun chierico o prete riceva in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro». La forma del divieto fu precisata nel concilio del 1078 e del 1080, quando si menzionò esplicitamente l’investitura imperiale («dalle mani dell’imperatore»). Gregorio VII rivendicò per la Chiesa di Roma un’onnipotenza senza rivali. Lo mostra bene il documento conosciuto come Dictatus papae: una lista di 27 testi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. «Solo il papa» poteva: deporre un vescovo o riconciliarlo; emanare nuove leggi; dividere e unire episcopati; spostare i vescovi da una diocesi a un’altra; usare le insegne imperiali; essere omaggiato dai principi con il bacio del piede; scomunicare e deporre gli imperatori. Nessuno poteva giudicare il papa: la decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava alla Chiesa di Roma, definita da Gregorio come «esente da imperfezioni». La Chiesa di Roma comprendeva tutti i veri cattolici; l’idea di Christianitas emerge da questo documento come un corpo compatto sotto la guida, unica, del papato. Il Dictatus è stato studiato e discusso. Dei vari canoni che lo compongono uno in particolare sembra essere stato inserito proprio da Gregorio: il potere di deporre l’imperatore. La deposizione scioglieva i sudditi dal dovere di fedeltà al re. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, Gregorio aveva nominato Attone. Incurante di questa scelta, Enrico IV nominò il suddiacono Tedaldo, aprendo un contenzioso lunghissimo e violento. Nei due anni seguenti, Gregorio ed Enrico IV usarono tutti gli strumenti a disposizione per delegittimare, scomunicare e deporre il proprio avversario. Ricorsero alle stesse armi e si nutrirono della medesima retorica salvifica. Nel concilio di Worms del 24 gennaio 1076, Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa: Enrico si appropriava del vessillo per opporsi a Gregorio che rischiava di dividere la Chiesa provocando uno scisma. Nel sinodo romano del febbraio 1076 fu invece scomunicato e deposto Enrico IV: Gregorio giustificò il suo atto rivendicando per la sede romana «il potere di legare e slegare in cielo e in terra». La risposta di Enrico fu sul piano ideologico: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio (e non del papa) che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità; l’imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Dalla sua Enrico IV aveva la forza militare e il sostegno di una parte rilevante dell’episcopato. Fu così in grado di eleggere un nuovo papa (antipapa per Roma) nella figura del vescovo Guiberto, arcivescovo di Ravenna. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077 – Enrico chiese perdono e dopo tre giorni Gregorio lo concesse – il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore. Enrico scese a Roma e inseguendo Guiberto e facendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio, assediato, fu salvato dai Normanni, divenuti ora fedeli del papa, ma dovette abbandonare Roma, per morire in esilio a Salerno. Da questi scontro le due autorità universali ne uscirono fortemente indebolite. Tra gli effetti reali del conflitto, emerse il ruolo assunto dalle popolazioni locali; infatti, furono le scelte prese di volta in volta dai laici nelle città e nelle diocesi dell’Impero a condizionare la vita concreta delle chiese. Il tema delle investiture sembrava sommerso da ben altre urgenze. I papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere le investiture di chiese da parte dei laici: tutte le investiture, senza distinzione fra lo «spirituale» (consacrazione) di competenza ecclesiastica, e il «temporale» (terre e immobili), che poteva dipendere dai donativi dell’imperatore. Urbano II impose nel 1095 il divieto per i chierici di prestare giuramento di fedeltà a un laico. Nel 1099, sempre Urbano, lanciò la scomunica contro i vescovi che avessero concesso gli ordini sacerdotali a un prete già investito da un laico. Il papa Pasquale II, eletto nel 1099, aveva raggiunto un accordo con i re di Francia e Inghilterra che rinunciarono a eleggere i vescovi con anello e pastorale, limitandosi alla conferma dell’eletto. In Germania, il papa cercò un accordo nel 1111 con Enrico V, in cui tutti i vescovi del regno avrebbero dovuto rinunciare ai poteri temporali. Ma furono gli stessi vescovi italiani e tedeschi a protestare contro queste decisioni, tanto che Enrico V aveva sconfessato l’accordo con il papa. Pasquale II sospese l’incoronazione dell’imperatore, ma fu arrestato e, dopo due mesi di prigionia, il 12 aprile 1111, capitolò riconoscendo il potere del re di investire con l’anello e il pastorale i vescovi. Una capitolazione completa che sollevò altre proteste da parte romana. Pasquale fu costretto dai vescovi ad annullare quest’ultimo privilegio nel concilio lateranense del 1112 e a confermare la condanna di Enrico. Ma i due piani dovevano coesistere, così, a Worms, Enrico V e il papa Callisto II (23 settembre 1122) trovarono un accordo: al papa spettava l’investitura con l’anello e il pastorale, simbolo del potere spirituale e del matrimonio mistico del vescovo con la sua chiesa; al re l’investitura dei regalia con lo scettro. In Germania le elezioni dei vescovi e degli abati erano fatte alla presenza dell’imperatore, mentre nelle altre parti dell’Impero veniva prima la consacrazione e dopo sei mesi l’investitura. 3. Pretese universali e definizione istituzionale della Chiesa Il papato era uscito indebolito dal conflitto: erano stati più numerosi gli antipapi che i papi eletti e riconosciuti dal partito riformatore. I papi ufficiali raramente risiedettero a Roma per un lungo tempo e, altrettanto frequentemente, erano cacciati da Roma. Lo scontro diretto con Enrico IV aveva anche dimostrato che non era difficile deporre un papa. Era un papato diverso quello che emerse: sdoppiato, conteso, militarizzato e sottoposto al giudizio di vescovi e regnanti; un centro di potere spirituale e politico in grado di condizionare i contesti locali e la stessa politica dei regni europei. Tuttavia, la Chiesa aveva un altro fine, la salvezza delle anime; usava un altro potere, l’ordine sacramentale (consegnato da Dio in via esclusiva al clero); aveva un nuovo esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma; e un nuovo popolo che coincideva con tutti i fedeli abitanti nei regni. Christianitas: la Chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale e religioso in grado di condizionare per secoli la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. La crescita della complessità istituzionale della Chiesa andava di pari passo con la lenta costruzione di un sistema di inquadramento dei fedeli con la definizione di un’ortodossia dottrinale. Cosa era «religione» doveva essere giudicato solo da uomini di Chiesa. L’intensa produzione narrativa della Chiesa di Roma nei decenni della riforma si nutriva di una più ampia e capillare attività dei concili provinciale delle chiese cristiane. Per mettere ordine su queste materie così complesse, un maestro di nome Graziano, attivo a Bologna intorno al 1140, mise insieme, nel corso di alcuni anni, una raccolta di canoni chiamata ‘Decreto’. L’opera riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ecclesiastico affrontate con metodo dialettico. A dispetto della sua disorganicità, il Decreto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi della Chiesa (canonisti), che presero il nome di «decretisti» (commentatori del Decreto). Lo sviluppo di un ceto di giuristi fu un evento cruciale. I canonisti intervenivano su tutto, partendo sempre dal «caso concreto»; per i canonisti non co sono leggi (umane) assolute da applicare a tutti, ma casi da risolvere secondo equità. Un sistema così duttile, che adattava continuamente il diritto ai singoli casi elaborando ogni volta soluzioni diverse, mise in luce la necessità di un rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. Da un lato, i vescovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi: il vescovo era il responsabile del clero cittadine e delle parrocchie di campagna, accentrava a sé una serie di funzioni di controllo, giudicava le cause ecclesiastiche della diocesi. Dall’altro lato, i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali attraverso propri rappresentanti, chiamati legati apostolici, incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione della cause in corso. Negli anni finali del XII secolo si modificò la titolatura del papa in «vicario di Cristo», dove la diretta rappresentanza del divino qualificava in senso sacro la figura del papa. Le decisioni collettive della Chiesa erano prese all’interno del concilio «ecumenico» che riuniva tutti i vescovi del mondo cristiano. Sia il clero urbano sia le esperienze religiose monastiche andavano definite e sottoposte a una regola comune. I canonici, materialità del corpo fino all’autoconsunzione e al suicidio assistito. Ai catari si attribuisce una natura istituzionale di vera anti-chiesa con le sue chiese catare locali organizzate su modello cattolico, con vescovi e preti divisi per diocesi, e addirittura un «papa» venuto dall’Oriente. La provenienza orientale del culto e il collegamento assai incerto con sette dualistiche orientali (chiamati bogomili) aumentavano la dimensione misteriosa e minacciosa del catarismo. La diffusione del credo cataro sembra sia stata particolarmente intensa nei ceti urbani, tra artigiani e lavoratori. Le prime attestazioni del dualismo nel XII secolo sono state i nomi dei cosiddetti vescovi catari; tuttavia, essi sono per lo più inventati o distorti. Non è mai stato trovato un solo testo dottrinale riconducibile a un gruppo cataro e non agli inquisitori. La repressione fu violenta e colpì migliaia di persone classificate come eretiche. La messa in opera di un sistema di controllo e di punizione coinvolse direttamente i laici. Ne è un esempio la decretale di Lucio III ‘Ad avolendam’ (dalle prime due parole della lettera) preparata insieme all’imperatore Federico Barbarossa nel 1184. In prima battuta non sono menzionate idee, ma gruppi formalizzati di eretici; in secondo luogo, il vero reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizione. L’eresia è in primo luogo disobbedienza, rifiuto di sottomettersi alla mediazione dei sacerdoti. Contro queste persone non erano necessarie prove certe: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. La ricerca dei sospetti era affidata al vescovo, mentre il dovere di denunciare i sospetti ricadeva su alcune persone degne della parrocchia, una sorta di informatori del luogo, che dovevano portare all’attenzione del vescovo gli eretici noti, le persone che si riunivano in segreto e tutti quelli che tenevano un comportamento diverso dal normale: era, di fatto, lasciato ampio spazio all’arbitrio dei denunciatori. Pochi anni dopo, in un’altra bolla papale, la Vergentis in senium del 1199, l’eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà. Prevalse l’immagine medica, dove il sacerdote, medico dell’anima, scopre la malattia, il «cancro» dell’eresia e opera con decisione per salvare il corpo. La Chiesa del XI e XII decise di far tagliare, eradicare il cancro dall’autorità pubblica. CAPITOLO 2 La guerra, la Chiesa, la cavalleria Dalla fine del X secolo l’assenza di una forte autorità centrale liberava una violenza incontrollata che colpiva le fasce deboli della società. Tra X e XI secolo alcuni vescovi tentarono di frenare questa violenza, di incanalarla verso un uso legittimo della forza: se esistesse una violenza giusta che difendeva lo stato di pace, sarebbe potuto esistere anche una «guerra giusta». Nel corso della seconda metà del secolo XI si assiste a un ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi santi subì un’improvvisa torsione bellica: il pellegrinaggio si trasformò in guerra santa. Nacquero nuovi Stati «cristiani» nell’Oriente musulmano e nuove forme di unione di vita religiosa e vita militare: gli ordini monastici cavallereschi. Tentativo riuscito sul piano della ideologia, ma poco efficace sul piano del disciplinamento delle clientele militari. Si cercò quindi di rispondere con una rinnovata concezione dei doveri impliciti nel legame di vassallaggio: aumentarono le occasioni di sequestro del bene concesso (chiamato ora «feudo») in caso di disobbedienza, fu imposta ai vassalli una fedeltà esclusiva e un impegno a non attaccare il proprio signore. Anche la diffusione di modelli letterari di cavalieri ideali contribuì a rafforzare l’idea di una comune appartenenza a un ceto eletto. La differenza non era ancora fra nobili e non nobili, ma fra signori potenti e signori meno potenti. 1. Il controllo della violenza e le paci di Dio Nelle cronache dei secoli X e XI il tema della violenza smodata e gratuita si fa prepotente. Dietro queste narrazioni, si cela una profonda esigenza di ordine: ma l’ordine invocato era diverso da quello carolingio, era un ordine più localizzato. Le «paci» o «tregue», come furono chiamate nella seconda ondata di concili del secolo XI, erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle violenze in nome di Dio: divieto di portare armi, attaccare battaglia, molestare i poveri e invadere le chiese. L’attività armata era da esercitare in ambiti determinati: era lecito continuare a combattere una guerra giusta, sotto il comando di un’autorità legittima; era lecita la violenza armata come atto di giustizia sotto il controllo di un potere pubblico. Le paci di Dio sono intese come una difesa dei beni delle chiese dalle «rapine» degli aristocratici violenti e ribelli. Una difesa che era presa in carico da autorità laiche fedeli all’episcopato. Nei concili si affermava, implicitamente, la presenza di un’autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia. 2. La sacralizzazione della guerra e le prime crociate Questa violenza militare regolata aprì la strada a un processo di inserimento della guerra nella vita religiosa, di definizione di una dimensione religiosa della guerra. Un processo di rivalutazione che coinvolse anche la figura del cavaliere. Si sviluppò, nei decenni successivi al 1050, un’intensa attività bellica. I papi riformatori sostennero queste guerre, concedendo ai cavalieri un vero e proprio statuto di «combattente di Cristo». Già sotto Leone IX, bande di «cavalieri (milites) della chiesa di san Pietro» furono radunate in difesa dei beni del papato di Roma contro i Normanni. Nel 1063 papa Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva a combattere in Spagna i musulmani. Sempre contro i Normanni, anche Gregorio VII schierò la «milizia di san Pietro» nel 1074, ma poi furono gli stessi Normanni, una volta tornati alleati del papa, a riconoscersi come milites. Gli appelli sotto il vessillo si san Pietro si fecero numerosi sotto Gregorio VII; non si tratta di un’anticipazione della crociata, quanto della maturazione di un linguaggio della guerra che diventa «santa». Nel 1089 Urbano II concesse un’altra indulgenza e la vita eterna per la conquista di Tarragona, promessa da Raimondo II di Catalogna. La qualifica di «soldato di Cristo» si diffuse ai morti in battaglia in difesa della Chiesa; a loro fu assicurato l’ingresso in paradiso. Vi era dunque la contrapposizione degli interessi della Chiesa di Roma, e dunque di Dio, di estirpare la serie infinita di nemici, manifestazioni diverse di un’unica presenza diabolica. 3. Le spedizioni in Terrasanta I pellegrinaggi, come forma di devozione, ebbero uno straordinario successo nel secolo XI e motivazioni diversissime. Il viaggio è inteso come forma di penitenza, e la penitenza come strumento di salvezza. Inoltre, un ricchissimo mercato di reliquie scatenò una competizione internazionale per accaparrarsi quelle più importanti. Emersero alcuni poli di attrazione religiosa come Santiago di Compostela, in Spagna, ma fu la via per Gerusalemme che interessò maggiormente i diversi fedeli. Il viaggio era pericoloso, l’ostilità di alcuni musulmani impediva a volte di arrivare a destinazione: il ricorso alla protezione armata di soldati era relativamente diffuso. L’appello al pellegrinaggio a Gerusalemme lanciato da Urbano II durante il concilio di Clermont nel 1095 entusiasmò i presenti. Il papa offriva l’indulgenza plenaria a tutti i pellegrini intenzionati a partire. Fu il primo atto ufficiale di quelle che furono chiamate «crociate». Nelle fonti del secolo XI il termine ancora non esisteva, come non esisteva l’idea di crociata, almeno non nelle forme leggendarie. Nel 1095, durante il concilio di Clermont, il papa Urbano II aveva confezionato una bolla con materiali ampiamente usati anche dai suoi predecessori. Nuova non era tanto la destinazione, Gerusalemme, ma l’inaspettata risposta all’appello papale. Una prima armata, spontanea e disorganizzata, si disperse presto, dopo aver sterminato le comunità ebraiche incontrate lungo il percorso. Una seconda era guidata da nuclei scelti di cavalieri normanni e francesi e riuscì ad arrivare a Gerusalemme. Le armate in realtà furono quattro e si mossero in piena autonomia una dall’altra: i lorenesi di Goffredo di Buglione; i cavalieri della Francia meridionale del conte di Tolosa e dal vescovo Ademaro de Puy (indicato da Urbano come capo della spedizione); i fedeli del duca di Normandia; i contingenti dei Normanni d’Italia del sud. Tutti rispondevano all’appello di riaprire il pellegrinaggio verso il santo sepolcro, reso difficile dall’avanzata dei Turchi a spese dei Fatimidi. Gli eserciti europei raggiunsero Costantinopoli, e, spinti dall’imperatore di Bisanzio, che li vedeva come un utile strumento per riaffermare la sua presenza nei territori orientali occupati dai musulmani, iniziarono una lenta discesa verso la Palestina. Nicea fu la prima a cadere nel giugno 1097; l’anno successivo cadde Antiochia, presa e tenuta da Boemondo di Taranto. Qui i militari si divisero: Baldovino di Boulogne (fratello di Goffredo di Buglione) aveva conquistato Edessa, intravide la possibilità di impiantare una dominazione stabile. Gerusalemme fu assediata per cinque settimane prima di cadere il 15 luglio 1099: i cavalieri entrarono dentro la città e fecero un massacro, su cui tutte le fonti concordano. Baldovino di Boulogne si fece incoronare re il 25 dicembre 1099, mentre i territori conquistati negli anni precedenti furono organizzati in principati autonomi: contee di Edessa e di Tripoli, principato di Antiochia e regno di Gerusalemme. Le successive spedizioni non ottennero lo stesso successo. Dopo la caduta di Edessa nel 1144, Luigi VII di Francia organizzò una seconda spedizione che finì con un nulla di fatto. Peggio andò la terza crociata, successiva alla dura sconfitta inflitta ai latini ad Hattin nel 1187 dal Saladino, esponente sunnita della dinastia ayyubide. Saladino conquistò Gerusalemme e gli Stati cristiani della costa. La terza crociata è importante perché fu presa in carico dai re, ma fu lo stesso un’ecatombe: l’imperatore Federico I, che morì attraversando un fiume; un’epidemia decimò i crociati davanti ad Antiochia; il re di Francia abbandonò la spedizione mentre gli altri capi dovettero venire a patti con il Saladino, il quale concesse il permesso di venire in pellegrinaggio a Gerusalemme senza armi. Ordini monastici di natura militare: si tratta di una creazione originale del XII secolo. Inizialmente era una difesa armata che accompagnava i pellegrini durante il viaggio e curava i malati. I primi, con caratteri più volti all’assistenza, furono gli ospedalieri di san Giovanni, nati intorno all’ospedale di san Giovanni per assistere i pellegrini del santo sepolcro, e riconosciuti dal papa nel 1112 come ordine religioso. Nel corso del XII secolo, l’ordine iniziò ad accogliere anche dei cavalieri da impiegare in campagne militari. I templari, fondati in Terrasanta nel 1119, ebbero una connotazione più militare, tutelano i pellegrini. Otto cavalieri giurarono davanti al patriarca di Gerusalemme di difendere i cammini per la Terrasanta e di osservare i voti monastici. Approvati dal concilio di Troyes, dove ricevettero la regola, i Cavalieri del Tempio, reclutati dal mondo aristocratico, si distinsero per la capacità di combattere e fondarono numerose piazzeforti e castelli in Terrasanta. I monaci-guerrieri erano i componenti di tali ordini, e una doppia natura avevano anche le sedi dove si riunivano: monasteri-caserme, soggette al rispetto di una regola religiosa. Nell’opera ‘Elogio della nuova cavalleria’, il cistercense Bernardo di Chiaravalle legittimò i templari e li prese a modello di una nuova milizia spirituale. Questa attenzione ai valori della guerra si tradusse nell’intervento attivo di monaci cistercensi nella fondazione di nuovi ordini militari. Si stabilì un nesso fra espansione del Cristianesimo e penetrazione di «eserciti cristiani»: in Spagna nacque, tra gli altri, nel 1158 l’ordine militare di Calatrava, fondato dall’abate cistercense Raimondo di Fitero; nel 1202, Dietrich, radunò alcuni cavalieri tedeschi sotto l’ordine della «Milizia di Cristo in Livonia», attivo nei paesi baltici. La difesa dei cristiani si accompagnava alla conversione violenta dei «pagani» e alla loro sottomissione militare. Proprio nei territori baltici gli ordini militari, soprattutto quello teutonico, riuscirono a impiantare un vero «Stato militare», con il sostegno dei vescovi e dei principi locali. Restava ugualmente irrisolto il problema di coordinare un ceto militare laico molto fluido, che se in parte rispondeva a questi appelli religiosi, doveva vivere comunque in un mondo dove i rapporti sociali e politici rispondevano a logiche diverse da quelle immaginate dagli intellettuali ecclesiastici. 4. Da guerrieri a cavalieri: la disciplina del ceto militare A capo di una schiera di fedeli armati, i conti, i duchi e gli altri principi dell’Europa medievale cercavano in vari modi di tenere legati a sé i vassalli e i cavalieri. Nel tardo secolo XI, la fluidità delle clientele armate rivela l’urgenza di una disciplina della fedeltà e dell’attività bellica. Nell’Europa dell’XI e XII secolo si procedette in due modi: Il primo, più concreto, cercava di inserire i membri della milizia in una rete di rapporti di fedeltà tendenzialmente gerarchica, che, almeno in teoria, doveva limitare l’attività bellica a precise azioni di guerra decise dai poteri superiori; Il secondo sistema era invece di natura culturale e ideologica, e tendeva a imporre un modello di comportamento basato sull’autolimitazione dell’azione violenta in base a un’etica propria del cavaliere. Va detto che la fedeltà militare era spesso messa in secondo piano rispetto ai disegni di affermazione personale dei cavalieri; inoltre, la fedeltà poteva essere concessa a più signori contemporaneamente. A complicare il quadro delle relazioni impossibili, intervenivano anche le «riserve» di fedeltà, ovvero le eccezioni all’aiuto militare da prestare al signore. Se contiamo che l’aiuto militare era a «tempo», durava in genere quaranta giorni, è chiaro che condurre una guerra e radunare i propri fedeli era quasi impossibile. Anche il modo di intendere il bene materiale concesso in cambio della fedeltà – il beneficio – era cambiato: il beneficio era sentito dai vassalli come un bene «proprio», che poteva essere trasmesso ai figli in eredità. Questa stabilità dei benefici era stata sancita anche dall’imperatorie Corrado II nell’editto del 1037, in cui si rafforza il ruolo di giudice dell’imperatore, si stabiliva il divieto di sequestrare i benefici dei vassalli senza giusta colpa e di trasferire il beneficio in eredità per via maschile. Col tempo si diffuse anche la tendenza ad alienare i benefici con una vendita o una sotto infeudazione che sottraeva al signore la scelta del nuovo concessionario. I giuristi milanesi del secolo XII classificarono il feudo fra i diritti «reali», vale a dire relativi alle cose, attribuendo al vassallo un diritto quasi uguale a quello del proprietario. La disponibilità materiale del bene era, dunque, nelle mani del vassallo. Per contrastare la dispersione delle fedeltà e l’ereditarietà dei benefici si sperimentarono alcune regole di protezione dei diritti del signore, come la commise: il sequestro del feudo in caso di disobbedienza. Ricorrere alla commise richiedeva una capacità militare in grado di spiegare le resistenze del vassallo e un prestigio riconosciuto dagli altri vassalli della curia che dovevano giudicare il loro compagno infedele. Più diffuso era il ricorso al feudo «ligio», una fedeltà privilegiata che si doveva al signore in particolare: funzionò, in tal senso, una clausola di riserva «negativa», giurata dal vassallo di non combattere contro il proprio signore. Alla base dei rapporti feudali restava ancora la natura del feudo, legata più al modo di intendere la relazione fra i due contraenti piuttosto che al carattere giuridicamente definito del feudo. La giustizia dei secoli XI e XII ricopriva questa funzione di «redistribuzione concordata», dove i giudici, ormai sostituiti dai vassalli dei signori superiori, dovevano garantire l’applicazione del nuovo patto raggiunto. Ma la sentenza, spesso, operava una compensazione fra le due parti. Non si arrivò mai a costruire uno «schema piramidale», che fu un’immagine tarda e in buona parte inventata: nulla di più lontano dalla realtà del secolo XII. 5. L’ideale cavalleresco e la socialità di corte I romanzi cavallereschi propagandarono un’immagine idealizzata del cavaliere. Lo status di cavaliere aveva riti di entrata e modelli di comportamento più codificati nel corso del secolo XII; in particolare il cosiddetto «addobbamento», il rito di entrata nella cavalleria. e personale, si erano aggiunte le protezioni armate imposte dal signore e le giurisdizioni e imposte di tradizione pubblica (come il fodro, l’imposta per il mantenimento dell’esercito regio, o l’albergaria, dovuta per l’ospitalità degli uffici regi). All’interno dei singoli villaggi, questi poteri e privilegi erano condivisi e spartiti tra diversi signori. Il castello e la sua efficacia si estendeva omogeneamente al territorio circostante, mentre il patrimonio fondiario di un signore era frammentato e disperso. Se pensiamo al potere signorile come a un’emanazione diretta del castello, la sua forma naturale sarebbe quella di un dominio piccolo ma omogeneo sul territorio; se lo pensiamo come proiezione del patrimonio signorile, penseremmo a un potere estremamente frammentato e disperso. Le due cose coesistevano: i signori cercavano prima di tutti di trasformare i propri contadini in sudditi; al contempo, cercavano di sottomettere l’intera popolazione dell’area circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori e ne derivarono forme di convivenza e di spartizione del potere signorile. All’interno di una signoria organizzata attorno a un castello e proiettata sul territorio circostante («signoria territoriale»), convivevano signorie minori, costruite sul patrimonio fondiario dei signori e sul controllo dei contadini che lo coltivavano («signorie fondiarie»). Spesso le spartizioni erano più complesse, con accordi che andavano a definire singoli diritti. Un ulteriore elemento di complessità deriva dal fatto che i poteri signorili erano considerati parte del patrimonio del signore, e quindi subivano gli esiti delle spartizioni ereditarie, delle vendite e delle concessioni in pegno. L’esito è un quadro di altissima frammentazione del potere, per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori. 3. Chiese potenti e chiese private Questione di fonti: per tutto l’alto medioevo, le fonti scritte si sono tramandate attraverso le chiese e i loro archivi; la massima parte delle azioni laiche sono per noi visibili solo perché sono condotte in collaborazione o in conflitto con una chiesa, oppure perché o laici hanno depositato la propria documentazione nell’archivio della chiesa. Chiese e dinastie presentano differenze nella propria azione politica locale. Le chiese erano dei punti di fortissimo addensamento fondiario: da un lato, perché i laici donavano le terre per assicurarsi le preghiere di monaci e chierici; dall’altro, perché questi patrimoni non subivano gli stessi processi di frammentazione e dispersione dei patrimoni laici (non subivano divisioni ereditarie e, al contempo, il diritto canonico proibiva alle chiese di vendere i propri beni). Un altro elemento importante era l’immunità: una larga esenzione fiscale e una tutela dei beni delle chiese; in più, l’immunità introduceva l’idea che gli edifici e le terre delle chiese fossero spazi connotati politicamente in modo specifico. Le forme di coercizione e violenza: i monaci e chierici compivano e facevano compiere atti di violenza nei confronti dei propri concorrenti, e ancora di più nei confronti dei propri sudditi. Le «chiese private» erano enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un’altra chiesa. La definizione di «chiese in cura d’anime» comprende tutti quegli enti religiosi la cui finalità era quella di officiare i culti destinati ai laici. Nell’alto medioevo, il sistema dominante era quello delle pievi: erano le articolazioni delle diocesi, chiese create dai vescovi e destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi; non erano come le parrocchie di età moderna, perché le pievi si occupavano di circoscrizioni molto più ampie. Le connotava la presenza del fonte battesimale. Al fianco delle pievi c’erano molte chiese e cappelle minori in tutti i villaggi. I vescovi concedono la fonte battesimale alle singole chiese di villaggio. Quindi una persona può trovare il conte e il vescovo nella sua zona senza andare troppo lontano. Queste chiese, che la documentazione registra in modo molto discontinuo, nascevano spesso dall’azione dei signori e le controllavano. Le ragioni di questa azione signorile sono diverse: in parte fu il tentativo di mettere le mani su una quota della decima; e in parte c’era la prospettiva simbolica e identitaria della chiesa come centro della vita sociale locale. I monasteri privati godono di una documentazione molto più ampia. L’atto di nascita è rappresentato dall’iniziativa di un aristocratico. La funzione dei monaci era quella di pregare per il proprio personale percorso di ascesi, e poi per la salvezza ultraterrena dei propri benefattori. La fondazione aveva anche un’importanza materiale: il monastero privato poteva avere, nelle intenzioni del fondatore, una funzione di riserva patrimoniale sicura per sé e i propri discendenti: il monastero non avrebbe potuto alienarle, e la famiglia del fondatore ne avrebbe avuto sempre ampia disponibilità, grazie al controllo sulla nomina dell’abate. Ma molti monasteri, a partire dall’XI secolo, si svincolarono dal controllo dei laici e spesso usarono il patrimonio per le proprie specifiche politiche. L’espressione di «gruppo familiare» è fluida: gli atti di fondazione dei monasteri erano un modo per definire l’ampiezza e i limiti del gruppo parentale del fondatore, e cioè, le persone per cui pregare erano, in genere, elencate analiticamente. I contenuti della protezione che la famiglia signorile garantiva al monastero: il diritto a ricevere le preghiere dei monaci, a essere seppelliti all’interno del monastero, a nominare nuovi abati; dall’altro, il dovere a proteggere il monastero, i suoi membri e i suoi beni. Questo insieme di diritti e doveri passava ereditariamente. Mondo di eredi: la posizione politica del singolo dipendeva in larga misura da ciò che aveva ereditato. Perciò, era importante sapere di chi si è figlio ed erede, quali altre persone avessero diritto a condividere gli stessi beni e gli stessi diritti. Dai monaci si potevano anche ottenere terre in concessione. 4. Produzione e prelievo in un’età di sviluppo Il dato fondamentale è che nel corso dell’XI secolo i contadini diventarono sudditi. In assenza di qualunque potere di controllo, i signori usavano la propria forza armata per togliere ai sudditi la maggior quantità possibile di prodotti e di denaro. Questa pressione signorile rispondeva alla logica di un’economia signorile che era essenzialmente un’economia di spesa: non si trattava di dissipare le ricchezze, ma di usarle per costruire il proprio potere. Un analogo atteggiamento si ritrova nelle grandi sedi monastiche. L’aumento demografico tra il secolo VIII-IX e il XII cambiò la composizione delle famiglie contadine, moltiplicò i flussi migratori che alimentarono la creazione di nuovi centri rurali in funzione di colonizzazione. «Sistemare» gli uomini divenne una preoccupazione costante dei signori nel secolo XII. Mutarono anche le condizioni di lavoro con un generale innalzamento delle qualità degli strumenti tecnici a disposizione e, soprattutto, riguardo alle tecniche d’aratura: si nota un maggiore ricorso agli attrezzi in ferro, in particolare gli aratri a versoio. Esisteva un legame stretto fra il nuovo aratro in ferro e i tempi di lavorazione del terreno. L’aratro in ferro permetteva arature più profonde e più frequenti, aumentando la produttività dei semi. Da qui, un’osservazione più attenta dei cicli produttivi favorì la diffusione del riposo periodico: un terzo o la metà del campo era lasciato a «maggese», mentre sulla parte rimanente erano concentrati gli sforzi di aratura e concimatura. In ampie zone d’Europa, l’investimento sull’agricoltura divenne redditizio. Forme di produzione e forme di dominazione non possono essere del tutto separate. Da un lato la signoria bannale fu il principale motore dello sviluppo, finanziando alcune trasformazioni tecniche e incoraggiando in molti casi l’estensione delle colture; dall’altro lato questo stesso sviluppo rese concretamente possibile l’aumento del prelievo signorile. I prelievi signorili potevano essere di origine pubblica, come il fodro e l’albergaria, o di natura signorile: il focatico gravava sui nuclei familiari; telonei erano chiamati i le tasse sui pedaggi; il ripatico insisteva sull’uso dei fiumi, il boscagio su quello dei boschi e l’acquatico su quello dell’acqua. Si produceva di più, per pagare di più. 5. L’inquadramento delle popolazioni rurali e l’azione politica contadina La stragrande maggioranza della popolazione delle campagne era costituita da contadini, da rustici. Ma la realtà di questi era assai diversificata, e dobbiamo constatare un’ampia varietà di condizioni economiche. La diversificazione del mondo contadino assunse connotati più propriamente politici, grazie alla capacità degli strati superiori della società contadina di entrare a far parte dei sistemi di solidarietà clientelare. Vediamo contadini che svolgevano specifiche funzioni per conto dei signori e instauravano con esso un vero e proprio legame clientelare. Vediamo – all’interno della società contadina – un gruppo con alcuni connotati peculiari: una certa forza economica, la capacità di redistribuire terre e lavoro ai vicini più poveri, l’assunzione di incarichi di fiducia per conto del signore, la creazione di legami clientelari con le famiglie aristocratiche e le maggiori chiese locali. Parliamo di «comuni rurali» per tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava, agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale; si trattava in larga misura di imitazioni dei comuni cittadini. I testi che meglio mostrano l’esistenza e i funzionamenti dei comuni rurali sono le «franchigie», atti in cui i signori e sudditi mettevano per iscritto diritti e doveri. Ne è un esempio il caso di una tra le più antiche carte di franchigia italiane, l’accordo del 1058 tra la grande abbazia di san Silvestro di Nonantola, nei pressi di Modena. L’abate Gotescalco concesse alcune garanzie fondamentali agli abitanti del villaggio; i contadini ottennero inoltre il pieno uso degli incolti e si impegnarono in cambio a costruire tre lati delle mura del castello, lasciando all’abate la costruzione dell’ultimo lato; infine, le due parti si diedero garanzie reciproche del rispetto dell’accordo. Le garanzie erano le penalità imposte per chi avesse violato gli accordi; accordo fondato sulla reciprocità degli obblighi. Reciprocità non significa parità. Lo stesso nucleo dell’atto, ovvero l’accordo per spartirsi i lavori di fortificazione, ci mostra come la protezione fosse un’esigenza condivisa dai signori e sudditi. Un altro dato importante è costituito dalle clausole iniziali, le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Le ricorrenti forme di resistenza contadina non puntavano mai alla cancellazione del dominio signorile, ma a ottenere il rispetto delle norme fondamentali. Infine, la concessione dei beni comuni: la gestione collettiva dei beni comuni è un aspetto poco documentato per questi secoli. I beni comuni avevano un peso importante, sia sul piano economico, sia su quello politico, come nodo della contrattazione tra signori e della cooperazione contadina. Nuovi centri abitati: esigenze di ripopolamento suggerirono ai grandi possessori di creare condizioni favorevoli per attrarre abitanti. In molti di questi insediamenti i suoli furono subito concessi in proprietà agli abitanti: per esempio le sauvetés (spazi salvaguardati) della Francia sudorientale, agglomerazioni abitate in funzione di colonizzazione agricola poste sotto la protezione della Chiesa. In Italia queste fondazioni furono leggermente più tarde e presero il nome di villenove o villefranche. Alla rivoluzione agricola si accompagnò una «rivoluzione» insediativa, una tendenza all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. CAPITOLO 4 Le città nell’Europa medievale Nel corso del secolo XI si sviluppò una fitta rete di città in molte regioni europee, in particolare: la Francia settentrionale intorno a Parigi; le Fiandre e il corridoio verso le città tedesche lungo il Reno e la Mosa; una costellazione di città sul Baltico; le città della Provenza e della Linguadoca; l’Italia, dove però il sistema urbano assunse una natura istituzionale diversa. Un fenomeno che ha riguardato contri di origine molto diversa: dai villaggi rurali, ai borghi nati intorno ai castelli (città castrensi) o alle abbazie (città ecclesiastiche), dalle città di origine romana, ai piccoli porti di scambio. Gli storici hanno avanzato spiegazioni per giustificare questa rinascita urbana, ma le letture sono insufficienti. Dobbiamo quindi cercare su altre vie, come il fatto che la città europea non può essere separata dal suo territorio. Essa era legata anche ai centri di potere signorile che governavano i principati regionali. Nel corso del XII secolo questo movimento assunse ritmi più ordinativi; mentre nel corso del XIII secolo un processo di stratificazione sociale mise in luce i contrasti e le gerarchie interne al mondo urbano: furono i principi ora ad aver bisogno delle città e più ancora dei regni, che conferirono alle città comunali uno statuto privilegiato. 1. Le base dello sviluppo urbano La città è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali. Tre elementi, più di altri, hanno determinato le vicende dello sviluppo urbano nell’Europa medievale: • Il legame con il territorio; • La capacità di trasformare la condizione degli abitanti; • Il decisivo impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani. Il primo elemento è di natura economica e demografica e mette in relazione i centri urbani con il territorio circostante. L’idea di Henri Pirenne (storico belga) attribuiva la nascita dei centri urbani a una nuova classe di abitanti, i mercanti: ma tale idea è stata abbandonata, poiché i dati demografici segnalano un aumento della popolazione nelle campagne. Dunque, un aumento delle migrazioni e dell’attività agricola deve aver accompagnato lo sviluppo dei centri urbani. Con il suo territorio, il centro urbano conservò un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime e redistribuiva prodotti finiti, una volta lavorati. La città svolge la funzione di «centro redistributivo». Il secondo elemento riguarda la composizione sociale delle popolazioni urbane. La ricerca ha rilevato due dati che ricorrono in maniera costante. In primo luogo, la dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città: piccoli contadini, artigiani, agenti dei signori laici ed ecclesiastici, cavalieri della curia, grandi vassalli e i loro signori si addensavano a ridosso della «cité», la residenza signorile. Le città erano nel secolo XI organismi plurimi e divisi anche spazialmente. Il secondo dato insiste sulla capacità di trasformazione degli abitanti delle città. Sia i vecchi residenti sia gli immigrati dal territorio tendono a riconoscersi, nel corso del XII secolo, come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri. Li univa una comune aspirazione all’autonomia economica. Il principale processo di trasformazione sociale riguarda la nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città: una relativa libertà personale e il comune bisogno di uno «stato di pace». Alcuni signori li accettarono volentieri; tuttavia, ottenere questo riconoscimento per molte città non fu né semplice né automatico. Il terzo elemento è dato dai rapporti fra i centri urbani e i poteri signorili della regione. In alcuni casi questi rapporti furono di collaborazione immediata, di vera promozione dello sviluppo urbano (soprattutto i conti di Fiandra). In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo dal signore: non sempre i cittadini possedevano i suoli urbani e molto spesso pagavano un affitto per il terreno. A questa forma di autonomia, si aggiunsero alcuni privilegi giudiziari, l’esenzione da alcune imposte sui beni commerciali e il permesso di costruire le mura come protezione e delimitazione dello spazio urbani. Privilegi simili si trovano anche nelle città tedesche del Reno o della Mosa. Una politica analoga fu seguita dal duca di Sassonia, Enrico il Leone, che promosse la fondazione di Monaco (intorno al 1158), Hannover e Lubecca. Queste concessioni facevano parte di un progetto di rafforzamento del potere pubblico locale. I principi che favorivano le città furono anche quelli che realizzarono uno Stato relativamente accentrato, con una rete di ufficiali minori nelle città e la formazione di una corte. Non sempre le cose andarono in questo modo. In molte regioni del regno di Francia, per esempio, la nascita di un’autonoma rappresentanza della città, chiamata «comune», fu osteggiata dai poteri signorili dominanti alla fine del secolo XI. Questi scontri erano più frequenti nelle città antiche, dominate da autorità ecclesiastiche che avevano più da perdere. Le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall’autorità superiore. Tanti i giuramenti di comune, quanto le «franchigie», riguardavano la concessione dei poteri giudiziari civili alle corti cittadine e alcune possesso per eredità e l’acquisizione di terre successiva alla conquista. Il termine feudo aveva in molti casi un senso molto vicino alla proprietà. Sotto Guglielmo si pose il problema di inquadrare le terre distribuite ai grandi baroni normanni e agli enti ecclesiastici. Inoltre, qualificare i grandi possessi come concessioni regie permetteva di legare al possesso di terra l’assolvimento di precisi obblighi militari. L’esigenza di conoscere quanti erano gli effettivi e quali risorse il regno poteva disporre spinse Guglielmo a ordinare una grande inchiesta in tutte le contee inglesi sullo stato delle terre nel regno inglese prima e dopo la conquista. Fu l’origine del Domesday book, il più completo e ambizioso censimento medievale di uomini e terre e del potenziale economico dei beni. Le migliaia di dati raccolti gli avrebbero permesso di sapere su quanti uomini poteva contare per l’esercito regio e quanto poteva chiedere in tasse da tutti i possessori. Il Domesday book è organizzato per contee, per scendere poi ai feudi, alle centene, alle ville e infine ai manor, l’unità base della proprietà contadina. Si richiedeva sia il censimento di tutti i beni posseduti, sia una stima del valore dei beni registrati in tre momenti diversi: «al tempo di re Edoardo (1020-1066), quando Guglielmo lo diede (concesse tale proprietà) e ora». Enrico I, figlio e secondo successore di Guglielmo (1100-1135), in occasione della sua elezione, emanò una Carta delle libertà in cui prometteva un ritorno alle «antiche consuetudini» inglesi contro quelle nuove illegittime e ingiuste (dei Normanni, le quali opprimevano con le tasse eccessive il popolo). Con la sua Carta, Enrico limitò il campo d’azione dei baroni attraverso un controllo sulla trasmissione ereditaria delle terre baronali (la terra, prima di passare agli eredi, doveva essere riassegnata dal re) e la punizione delle loro malefatte contro la legge (prima godevano di una sostanziale impunità); al contempo, rafforzò la giustizia regia nelle singole località. Alla morte di Enrico, fu incoronato re il nipote Stefano di Blois (1135-1154), cui si contrappose la figlia di Enrico, Matilde. Scoppio una guerra di successione, che ebbe come conseguenza il rafforzamento del potere dei baroni: essi si impossessarono delle maggiori cariche pubbliche e cercarono di renderle ereditarie. L’azione del successore Enrico II (nipote di Enrico I) intese porre rimedio a questo stato di violenza. Il regno di Enrico II (1154-1189) è stato forse il periodo più importante per l’Inghilterra del XII secolo. Egli prese in moglie Eleonora d’Aquitania e, così facendo, unì la Normandia, l’Inghilterra e l’Aquitania sotto il suo governo; e presero forma in maniera più definita le istituzioni monarchiche del regno inglese. La corte divenne un luogo di controllo e di mediazione, di raccordo fra il centro e le comunità. L’elemento qualificante fu la capacità di connettere la curia con i sudditi attraverso lo sviluppo di due sistemi istituzionali. Il primo sistema era fisso, incentrato sul giustiziera, delegato dal re a rappresentarlo in sua assenza, e la «curia regia», composta dai grandi del regno che dovevano esprimere formalmente un consenso alle decisioni del re. Lo Scacchiere fu il responsabile delle finanze pubbliche con potere di controllo su tutti gli ufficiali. Il secondo sistema era mobile e prevedeva un collegio di giudici itineranti che amministravano l’alta giustizia per conto del re nelle singole contee (justice in eyre), riunite in sei «circuiti» da percorrere nel corso dell’anno. Enrico predispose la costituzione del sistema delle giurie dei «dodici uomini saggi» nelle comunità, incaricati di giudicare i colpevoli e tenerli in custodia fino all’arrivo dei giudici regi. Per quelli che non potevano aspettare l’arrivo dei giudici, il re potenziò le funzioni giudiziarie della corte centrale a Londra: i casi dibattuti aumentarono, così fu necessaria una nuova corte di giustizia situata a Westminster (il Bench). Enrico estese la protezione regia agli eredi dei vassalli dei «tenents in chief» (i feudi maggiori), assicurando, o facilitando, la successione ereditaria nei feudi minori. Enrico ordinò a tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento proporzionale al reddito. Enrico usò di frequente l’inchiesta come forma di conoscenza collettiva delle situazioni del regno. Sotto Enrico le inchieste rivestirono una funzione più strettamente politica: distinguere i baroni fedeli da quelli infedeli, separare i ricchi dai meno ricchi e controllare i comportamenti della grande aristocrazia attraverso un aggiornamento continuo dei loro doveri. Enrico portava con sé il fardello dei possedimenti continentali, e questo stato di guerra continua lo costrinse a emettere delle imposte impopolari. La crisi del regno sotto i figli di Enrico II fu accelerata dalle lotte dinastiche tra i due fratelli, Riccardo, re tra il 1189 e il 1199 e Giovanni Senzaterra (1199-1216), dalla lontananza del re e dalla pressione fiscale. Sotto il regno di Giovanni Senzaterra, i rapporti con la Chiesa e i baroni si deteriorarono rapidamente. Dopo la sconfitta subita a Bouvines per opera di Filippo Augusto nel 1214, Giovanni fu apertamente contestato dai grandi del regno: essi lo costrinsero a firmare un documento di concessioni assai ampie al «popolo», la Magna Carta. La carta riprendeva, nelle intenzioni dei baroni, le antiche libertà concesse da Enrico I, ma in realtà configurava un nuovo equilibrio di potere tra il re e i baroni. Preceduta da una carta di richieste dei baroni, la Magna Carta si configura come un grande patto di limitazione delle prerogative regie in materia fiscale, in materia feudale e nella trasmissibilità del feudo. Il re non poteva imporre tasse senza il generale consenso dei baroni, eccetto nei casi riservati, e doveva convocare pubblicamente l’assemblea mediante lettere di citazione rivolta a tutti i grandi del regno. Il ritorno alle consuetudini serviva a diminuire i pesanti obblighi fiscali che Giovanni aveva imposto sul passaggio dei feudi agli eredi: l’erede doveva pagare una cifra fissa per riscattare il feudo paterno; se era minorenne poteva ottenere il bene senza riscatto; chi teneva il bene durante la minorità dell’erede era responsabile del suo deterioramento; gli ufficiali regi non potevano sequestrare i beni immobili in caso di debito o prendere prodotti della terra senza il consenso del proprietario. 3. Il regno di Francia da Luigi VI a Filippo Augusto In Francia, da tempo al re sfuggiva completamente il controllo: del ducato d’Aquitania (in mano alla dinastia di Guglielmo IX); la contea di Tolosa e di Provenza; di centri commerciali come Marsiglia, Montpellier Narbonne. In Bretagna e in Normandia i poteri erano condivisi con l’Inghilterra, e la contea di Champagne era in mano alla dinastia di conti da sempre riottosi a una vera sottomissione al re. Inoltre, la contea di Fiandra non si percepiva come parte del regno francese. I principi dei ducati più estesi e antichi, per decenni, si rifiutarono di prestare omaggio al re: da tempo si erano dati una struttura «monarchica» di dimensioni regionali. Luigi VI (1108-1137) provò a concentrarsi su due punti: disciplinare i castellani ribelli all’interno del suo dominio; e all’esterno frenare l’espansione del re inglese, Enrico I, e fronteggiare le aspirazioni dei conti di Fiandra e di Champagne- Blois. Il fronte interno: Luigi VI era sostenuto da alcuni vescovi e da un consigliere, Sugerio abate di Saint Denis, da molti ritenuto il vero inventore della monarchia; Luigi si lanciò in una serie di battaglie «punitive» contro potenti locali interni ed esterni al suo dominio. Sugerio fornì un inquadramento ideologico, sostenendo la teoria che ogni feudo «muoveva» da un altro feudo e che solo il re non aveva superiori, poteva presentare tutti gli altri principi come necessariamente dipendenti dal re. Nell sua ‘Vita di Luigi VI il Grosso’, Sugerio definì il duca di Normandia come «vassallo del re». Chiamato in aiuto dal vescovo di Clermont per un oltraggio subito dai conti di Alvernia, Luigi si secò con un esercito nella regione: il duca d’Aquitania decise di chiedere la pace e fece atto di sottomissione al re. Per Sugerio il feudo d’Aquitania «muoveva» dal duca di Aquitania che a sua volta l’aveva ricevuto dal re: ecco una sequenza gerarchica che «metteva ordine» nell’intricato gioco delle dipendenze feudali. Sugerio ricordava come le azioni militari del re fossero sempre sollecitate da un esplicito mandato degli uomini di Chiesa. Luigi interveniva contro i castellani quando questi minacciavano le chiese e turbavano la «pace pubblica»; la spedizione militare era approvata da un concilio provinciale di vescovi che invocavano il re come difensore armato della Chiesa. Questa funzione di paciere fu assunta, poco alla volta, dal re; e fu questo uno dei grandi meriti di Sugerio, cioè trasmettere al re il dovere di mantenere la pace, di imporre una «pace del Re». Il cambiamento avvenne con il figlio di Luigi VI, Luigi VII (1137-1180), coadiuvato da Sugerio, che fu nominato anche reggente quando il re partì per la seconda crociata del 1144. Nei due anni di reggenza, Sugerio, nominato anche legato papale, riuscì a disegnare una nuova funzione della monarchia, la quale si configurava come un’entità che esisteva anche in assenza del re, imponendosi ora come soggetto politico da rispettare e temere. La lotta contro i castellani ribelli continuò anche dopo il ritorno di Luigi VII in patria (1147), ma fu condotta all’interno di una pace ormai laicizzata e attribuita al re. Nel 1155, durante il concilio di Soisson, Luigi VII proclamò la «pace per tutto il regno». Il concetto fu ribadito nel concilio di Reims del 1157, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace e di punire i colpevoli che i signori locali non avevano perseguito. L’idea che la Francia si sia formata grazie alle armi è un’esagerazione degli storici dell’Ottocento: le guerre continue combattute per tutto il XII secolo non portarono nessun accrescimento territoriale vero; e neanche i poteri regionali confinanti fecero grandi progressi. Solo in un caso i principi minacciarono direttamente i confini del regno: quando si unirono i ducati di Normandia, di Aquitania e il regno d’Inghilterra sotto il dominio dei duchi d’Angiò, più tardi detti Plantageneti. Luigi VII aveva sposato Eleonora d’Aquitania, ma il re francese, ritornato dalla crociata, decise di divorziare da Eleonora, la quale, dopo pochi mesi, sposò il giovane Enrico conte d’Angiò. L’attrito con i re francese fu inevitabile, perché se Enrico come duca di Normandia era vassallo di Luigi VII, come re inglese si sentiva suo pari se non superiore per quanto riguardava il controllo della Francia atlantica meridionale. Iniziò quella che alcuni storici chiamano la «prima guerra dei cento anni» fra i re francesi e i re inglesi: una serie di guerre e di tregue che si prolungò fino alla morte di Luigi VII senza grandi conseguenze sul piano territoriale. Luigi VII morì nel 1180, lasciando il figlio Filippo, incoronato già nel 1179, in balia di due potenti clan di protettori: i conti di Champagne per via di madre, e i conti di Fiandra per via matrimoniale, avendo sposato il giovane Filippo la nipote del conte Filippo d’Alsazia a capo di quella contea. Il regno di Filippo Augusto è considerato da molti storici come il punto di svolta della monarchia francese, sia per la durata sia per le trasformazioni che impresse ai metodi di governi del regno. Le guerre contro i baroni furono fruttuose e fortunate: il re costrinse Filippo d’Alsazia a cedere al regno due contee, il Vermandois e l’Artois. Nel corso dello scontro con gli anglonormanni, Filippo sfruttò le divisioni interne alla dinastia Plantageneta, indebolita dalla competizione fratricida tra i figli di Enrico, Riccardo e Giovanni. Enrico II impiantò in Normandia un’amministrazione regia di alto livello: le finanze erano gestite dallo Scacchiere, a imitazione del modello inglese; una capillare rete di ufficiali locali, chiamati balivi, assicurava il controllo dei luoghi strategici del ducato. I balivi erano nominati dal duca ed erano amovibili, cioè incaricati a tempo; essi erano reclutati dalla classe media di funzionari fedeli in primo luogo al re. La competizione tra Giovanni Senzaterra e Riccardo portò alla rovina il dominio continentale dei Plantageneti. A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato. Alla sua morte, Giovanni subentrò, ma senza avere un reale supporto né fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni. Questo portò alla conquista della Normandia da parte di Filippo nel giugno 1204. Il re francese riuscì ad allearsi con i baroni normanni, ai quali riconobbe ampie autonomie, e a estendere un’influenza diretta sui ducati dipendenti, come quello di Bretagna. La battaglia di Bouvines nel 1214 influenzò profondamente le vicende dei regni europei della prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano uniti tutti i suoi avversai storici: il re inglese Giovanni Senzaterra, l’imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra, il duca di Brabante (che governava territori a nord-est di Parigi), molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare nello stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione. Filippo non fu più costretto a difendersi e poté iniziare una politica aggressiva, anche se a volte con esiti fallimentari (come l’invasione dell’Inghilterra); altre imprese ebbero maggior successo. La «crociata albigese», spedizione che i baroni del nord della Francia fin dal 1209 avevano condotto per conto del papa contro il conte di Tolosa, aveva aperto la via di penetrazione verso i principati del sud. I cavalieri francesi al comando di Simone di Montfort erano riusciti a sostituire temporaneamente il conte di Tolosa. Filippo intervenne solo nel 1219; e poi ancora nel 1221 tentò di riprendere il controllo della città, senza successo. Il conte di Tolosa era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III e gli eretici erano sciolti dai giuramenti di fedeltà e potevano essere privati dei beni. Filippo poteva così rivendicare la spedizione come atto in difesa della fede. Filippo riuscì ad assicurare al regno una superiorità economica in gradi di sostenere un apparato militare così imponente: circa l’80% delle spese del regno riguardava la guerra e il mantenimento dell’esercito. Il budget del 1202-1203 mostra come il re francese razionalizzò la contabilità e l’amministrazione locale, incassando il 20% dalle tasse sulle città, il 7% dalla giustizia più una quota di cui non è specificata la provenienza (16%). La creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo, responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita migliorò l’amministrazione centrale; introducendo anche tecniche contabili e di controllo. L’amministrazione centrale era stata affidata a un personale diverso: furono chiamati esponenti della media cavalleria e delle nobiltà urbana, membri dell’ordine templare specializzati nella contabilità finanziaria. Le entrate «straordinarie» riguardavano in gran parte le tasse «feudali»: Filippo usò l’idea che il re non era tenuto a prestare omaggio a nessun principe di cui pure era vassallo. Forte di questa superiorità, Filippo richiese enormi somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo: per riottenere la contea di Fiandra i diversi eredi dei conti dovettero sborsare circa 75.000 lire, fra il 1190 e il 1227. Altrettante ne chiese per la «custodia» dei feudi regi nei momenti di minorità dell’erede. Il re riuscì anche a monetizzare il mancato servizio militare imponendo una tassa per assoldare dei «sergenti». Nelle zone contese creò dei feudi-rendita da assegnare a cavalieri e signori locali. In sostanza la struttura feudale e la struttura amministrativa del regno svilupparono in parallelo. 4. I regni spagnoli La Spagna del secolo XI era divisa in numerose contee con aspirazioni monarchiche: il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano. Il dominio aravo è stato letto dalla storiografia spagnola come una lunga parentesi del regno visigoto, mai del tutto scomparso. Un regno cristiano avrebbe continuato a esistere, per poi risvegliarsi nel XI secolo e iniziare la Reconquista (il termine celebrativo usato dagli storici per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso medioevo). È evidente che questa è una visione trionfalistica. I regni spagnoli nel secolo XI non erano esattamente dei «regni»; erano di fatto contee di dimensione regionale. La contea di Barcellona rimase a lungo legata alle vicende della Francia meridionale; Navarra, Aragona, León e Castiglia erano formazioni territoriali estremamente fluide; e ancora per tutto il XII secolo, la loro esistenza come regni fu intermittente. La Castiglia assorbì León, ma con due fasi di separazione fra il 1065 e il 1072 e poi fra il 1157 e il 1230. Navarra e Aragona furono unite fino al 1134, per poi avere due sovrani diversi. Il conte di Barcellona divenne governante dell’Aragona quando Raimondo Berengario IV sposò la figlia infante di Ramiro II d’Aragona (1150). Anche l’identità etnica della popolazione si riconobbe come «ispanica» solo dopo la fine del dominio musulmano. La separazione dei due mondi, cristiano e musulmano, non era così netta: c’era una profonda commistione politica fra i regni «cristiani» del nord e i vari califfati del centro sud; innumerevoli furono i casi di collaborazione, protezione, scambio e alleanza. Alfonso VI di Castiglia (1040-1109), per esempio, cacciato dal fratello, trovò ospitalità presso il califfo di Toledo e, una volta divenuto re, intervenne in suo favore contro una fazione nemica. Il famoso Cid, Rodrigo Díaz (1034- 1049), un cavaliere castigliano esiliato da Alfonso, prestò servizio come mercenario presso diversi principi musulmani e forme di controllo regio sul continente, si moltiplicarono le congiure e le sollevazioni dei baroni. L’autonomia dell’aristocrazia normanna sul continente rimase a lungo un serio ostacolo alla tenuta della monarchia. Colpa del feudalesimo? No, il regno normanno non era feudale. Piuttosto era diffusa una concezione mista del possesso di terra, a volte chiamata «feudo»: da un lato, le terre erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista ed erano sentite come proprie dai discendenti dei primi guerrieri; dall’altro si conservava un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento, e gli si riconosceva un diritto sulle terre per averle conquistate. Lo stesso re si accontentava di veder riconosciuto un diritto all’aiuto militare e poco altro. Siamo davanti a un’ambiguità di linguaggio delle fonti, dove la parola feudo presentava una dimensione complessa, in cui la tenuta materiale del bene era più importante del diritto astratto di chi l’aveva concesso. Il ‘Catalogo dei baroni’ è un censimento di tutti i cavalieri normanni del regno e del loro potenziale militare-fiscale redatto nel 1142: esso non contiene affatto l’elenco dei feudatari del re, ma l’elenco dei soldati che i baroni normanni, in base ai loro patrimoni, potevano armare in caso di guerra. Fu il Catalogo a creare un nesso «feudale» di fedeltà militare dei baroni verso il re. I re normanni ricorsero ad altri strumenti di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle estese terre demaniali, queste sì di diretta pertinenza regia: si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città di dominio e quindi un apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali più sicuri; nelle terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino, tramite un controllo diretto e un prelievo sotto forme di surplus disponibile. Sul piano legislativo: nelle assise di Melfi del 1129 Ruggero II proclamò una pace del regno, vale a dire il divieto di guerre private in favore della giustizia del re. In una successiva assemblea del 1132 riaffermò l’obbligo di fedeltà dei baroni. Nelle «assise» di Ariano del 1140 si sforzò di affermare la superiorità regia e il controllo pubblico sui baroni, soprattutto sul piano fiscale e giudiziario. I re della dinastia Altavilla rivendicarono un potere con caratteri di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; stabilirono una dipendenza dei baroni dal re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. I re cercarono di limitare le prerogativa giurisdizionali dei baroni attraverso una rete di giustizieri regi che avocavano a sé le cause maggiori, controllando i matrimoni per impedire eccessive concentrazioni di patrimoni e stemperando le richieste arbitrarie dei signori verso i propri dipendenti. Le comunità o i singoli potevano rivolgersi con una relativa facilità ai tribunali regi per lamentarsi di richiese eccessive dei loro signori. Il regno normanno, alla fine del secolo XII, viveva in una polarità di tensioni politiche: una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale. 7. La successione imperiale e il regno di Federico II Il figlio di Enrico VI e di Costanza, Federico, ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complicate. Il primo conflitto vide contrapporsi Filippo di Svevia e Ottone di Sassonia, una riproposizione della tradizionale faida fra guelfi e ghibellini. Arbitro era il papa Innocenzo III, che cambiò più volta idea, prima in favore di Filippo e poi, dopo il 1208, a favore di Ottone. Il papa era anche tutore legale del giovane Federico. Federico era già re di Sicilia per via di madre e una nomina imperiale gli avrebbe consegnato anche il regno d’Italia, accerchiando completamente Roma e i domini pontifici. Nel 1211 Innocenzo III appoggiò Federico, che fu eletto re di Germania nel 1214. Uscito vincente dalla battaglia di Bouvines, Federico fu prima eletto re dei Romani e poi, nel 1220, consacrato imperatore da papa Onorio III. Federico II operò un rafforzamento dei suoi domini nelle regioni meridionali: agì con successo nel recupero dei beni della sua casata e del regno, favorito dagli alleati degli Svevi e dall’appoggio dei «ministeriali», i cavalieri di basso rango. Federico rafforzò il controllo politico dei suoi domini personali, incrementando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici (scudalsci, margravi, procuratori) e promuovendo le città del ducato. Come re di Germania: Federico risiedette relativamente poco in terra tedesca e da lontano doveva creare le condizioni per mantenere la pace del regno; doveva sforzarsi di non provocare ribellioni aperte contro il suo governo. Nel 1120, Federico emanò un atto: un privilegio ai principi ecclesiastici di Germania in cui si concedevano amplissime autonomie giurisdizionali, tali da rendere assai labile il controllo regio su estese porzioni del regno in mano alle chiese locali. Questo si trasformò in un pericoloso precedente politico. Un decennio dopo, quando il figlio di Federico, Enrico, per domare una ribellione dei principi tedeschi nel 1231, dovette concedere loro una serie di privilegi molto simile a quelli concessi ai principi ecclesiastici. Nonostante la contrarietà di Federico per l’operato del figlio, Federico confermò le concessioni nel 1233, rafforzando l’autonomia dei principi. In Sicilia: appena maggiorenne, Federico aveva formato un consiglio di giuristi incaricato di elencare tutte le possessioni del re e un inventario dei beni sottratti alla corona. Nel 1120 in un’assise legislativa valida per il regno, tenuta a Capua, Federico ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni: richiese a tutti i possessori di presentare i privilegi emanati dal padre Enrico VI o dalla madre Costanza, con la perdita dei diritti per chi non presentava titoli validi o li aveva contraffatti. L’apparato retorico utilizzato fu quello del ricorso esplicito al diritto come regolatore dei rapporti fra il re e la nobiltà, applicato dal re «giudice». Nel 1231, lo stesso anno in cui il figlio Enrico cedeva a Worms i privilegi ai principi tedeschi, Federico emanava a Melfi il ‘Liber constitutionum’ i ‘Liber Augustalis’, dove l’ideologia regia riceveva una sistemazione di grande spessore culturale. Ma il regno d’Italia continuava a sfuggirgli. Divisa sotto il governo collettivo dei comuni, l’inquadramento regio fu più debole per tutto il secolo XI e metà del XII: le città ben sapevano di essere inserite in un regno assente. 8. Conclusioni L’analisi dei contesti «nazionali» ha messo in luce un quadro pieno di contrasti: i tentativi dei re di porsi come vertice di una configurazione sovraregionale che esisteva solo sulla carta, le contraddizioni generate dalle incerte fedeltà dei grandi, le tensioni continue con gli apparati pubblici promossi dai re. Le carte territoriali sono ancora occupate dalle macchie irregolari e mutevoli dei principati regionali, in teoria legati feudalmente ai re. Se invece guardiamo alle soluzioni pratiche, il giudizio cambia. I re si proposero, o si imposero, come le autorità legittimate da un lato a ricomporre un quadro unitario di questi poteri dispersi e dall’altro a creare un nuovo equilibrio fra le prerogative della potenza privata e dei signori e l’esercizio di funzioni pubbliche di coordinamento e di pacificazione riservate al potere regio. I re potevano contare sulle fedeltà dei territori, non sui territori in quanto suoi dominati. I re fecero ampio ricorso al diritto feudale per intervenire in territori esterni al loro dominio; intervennero spesso nelle liti fra potenti e fra questi e i loro vassalli minori. Sia i re di Francia che l’imperatore di Germania usarono spesso le curie feudali per regolare i conti con i grandi vassalli avversari. La natura patrimoniale del feudo: i re approfittarono di questa trasmissibilità del feudo, sia con politiche matrimoniali accorte sia attraverso un controllo serrato dei passaggi ereditari. La frenetica attività di controllo delle nascite, morti, eredità che animava le corti europee del XII e XIII secolo si spiega in questo modo. In altri casi i re non esitarono a comprare i feudi e principati usando il denaro per acquisire poteri pubblici su territori, in teoria, di loro pertinenza: l’acquisto in denaro di un feudo dava garanzie enormemente maggiori di stabilità. Sul piano tecnico-amministrativo, i re capirono che una chiave importante del successo dipendeva dai funzionari di corte e dagli ufficiali locali. Nella prima metà del secolo XII i maggiori uffici di corte erano affidati a grandi vassalli, spesso gli stessi che guidavano o progettavano le resistenze contro i re. Verso la fine del XII secolo questa tendenza si invertì: a corte emersero persone di livello sociale medio, sposso di origini non nobili, che avevano meno ambizioni ed erano più fedeli; essi si dimostrarono capaci di usare tecniche contabili più complesse e di rinnovare i sistemi di prelievo. La guerra si era monetizzata. Gli agenti locali, chiamati balivi o siniscalchi, divennero i collettori locali del fisco regio: curarono la raccolta delle tasse, individuarono nuovi soggetti tassabili e nuove fonti di reddito e integrarono nella contabilità regia le nuove acquisizioni (prima di tutto le città). Le corti monarchiche erano superiori ai loro vicini rispetto all’elaborazione culturale e giuridica delle forme di potere. Si trattava di porre il sovrano come «vertice politico» in base a cui gli altri poteri dovevano conformare il proprio spazio d’azione. Il re occupava una sfera di potere superiore perché era in grado di fare cose che gli altri principi non potevano ripetere: le funzioni di pacificatore, di giudice supremo, di difensore della fede e dell’ortodossia delle popolazioni, di detentore legittimo dei poteri pubblici concessi feudalmente. CAPITOLO 6 Nuove strutture politiche nell’Italia medievale: città e comuni La città medievale è stata considerata nell’Ottocento come la sede delle popolazioni latine, contrapposte a una nobiltà feudale germanica del territorio; primo embrione delle libertà italiane contro l’imperatore tedesco. Dal primo ventennio del Novecento le città furono accusate di essere piccoli organismi corporativi, luoghi di passioni in politiche insensate e violente, generatrici di fazioni e di quello spirito grettamente «municipalista». Negli ultimi decenni è stata messa in dubbio la capacità della città di essere veramente un centro in grado di coordinare ambiti territoriali coerenti. Anche sul piano politico si tende a contenere l’esperienza comunale in un campo ristretto di realizzazioni limitate e temporanee. Sono critiche parziali e in parte riduttive. 1. Nascita del comune consolare: una rappresentanza autonoma delle forze cittadine Alla metà del secolo XI era difficile capire chi comandava nelle città italiane; anche gli imperatori tedeschi indirizzavano i diplomi alle città italiane con un soggetto generico. Le città italiane si presentavano come una collettività senza capo. Il conte, imposto dai Carolingi nel secolo IX, era ormai un ricordo lontano. I suoi discendenti si erano rifugiati nei loro castelli nel contado; le famiglie dei funzionari minori, come i «visconti» o gli «avvocati», conservavano ancora qualche diritto di natura economica ma lo dovevano condividere con il vescovo. Egli era la figura di maggior rilievo: guidava la vita cittadina, ne assicurava l’unità religiosa e la pace sociale, mediava i conflitti e deteneva importanti diritti pubblici – il mercato, i dazi sulle merci, la giustizia civile. Tuttavia il vescovo non prese mai il posto del conte nella gerarchia del regno, come invece avvenne in Germania e in Francia. In Italia, il vescovo rappresentava l’unità spirituale e politica della città, ma era al contempo un grande signore feudale, con interessi economici da tutelare. Le famiglie di tradizione militare, legate al vescovo (giuravano fedeltà in cambio di terreni dati in beneficio), trovavano nel servizio feudale uno sbocco politico ed economico, ma non rinunciavano ad ampliare la propria potenza privata. I conflitti interni, mediati dalla curia episcopale, erano frequenti: gli imperatori nella prima metà del secolo XI intervennero più volte a favore dei vescovi. Nelle città si muovevano gruppi sociali diversi in grado di condizionare il governo del publicum – la sfera pubblica e collettiva−, che si configurava come un coacervo di alleanze e di cooperazioni forzate tra il vescovo, i suoi milites e i cives (un insieme indeterminato di abitanti attivi). I cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di ricchezza e di mestiere. La parte alta era composta da alcune categorie di professionisti distinti dai semplici abitanti. La cultura tecnica dei giudici era necessaria per dare «forma» ai governi cittadini: fornire regole di funzionamento, inquadramenti culturali dell’azione di controllo degli uomini, assistenza diretta nelle questioni giudiziarie. Al ceto dei giudici si affiancavano le élite economiche della città, i mercanti (negotiatores), i cambiatori, i prestatori di denaro. Questi erano in cerca di un ruolo politico più attivo: la connessione con i giuristi creava solidarietà orizzontali nella difesa degli interessi economici dei cives. Al di sotto, si trovavano tutti gli abitanti senza particolari qualifiche. Questo groviglio di interessi divergenti trovava nel vescovo un punto di raccordo relativamente stabile: era il presule a risolvere le liti e a imporre la pace. Chi la rompeva veniva bandito come un criminale. Esisteva un’entità istituzionale collettiva di «buoni cives» che agiva sotto la protezione del vescovo, che minacciava la scomunica religiosa e civile contro i malfattori. Nel corso del secolo XI le città crescevano: proprio l’aumento delle funzioni di coordinamento economico e politico spinse i vescovi e le élite urbane a creare una nuova istituzione che si occupasse del governo urbano. Fra il 1090 e il 1120 circa, compaiono in quasi tutte le città italiane dei magistrati chiamati «consoli». Il consolato medievale era diverso da quello romano: era formato da un numero variabile di membri, da quattro a sei, a volte anche dodici, che si riunivano in genere nel palazzo del vescovo; provenivano spesso da famiglie di suoi vassalli, della media e alta aristocrazia urbana, con l’apporto determinante dei giudici. Le somiglianze con il modello antico rimanevano la durata annuale della carica e il carattere «elettivo» della nomina. I consoli erano «eletti» da un organo collettivo della città, l’assemblea generale dei cives, detta concio. Nel corso degli anni si rese necessario coinvolgere le forze sociali più attive nella vita politica della città. Si creò un «consiglio cittadino», formato da un centinaio di persone, in grado di affiancare i consoli: lentamente prese piede una politica di tipo «parlamentare». Nel corso dei primi decenni del secolo XII, i consoli si garantivano facendo approvare i propri atti dalla «maggioranza» del consiglio: il principio di maggioranza. Il fondamento della «libertà» delle città italiane: fra i cittadini e le istituzioni si stabiliva un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco: un patto giurato di natura pubblica (chiamato «breve»), che legittimava i nuovi magistrati ad agire come rappresentanti ufficiali della comunità, a imporre un ordine delle relazioni sociali garantito da strumenti coercitivi, come il bando, e regolare la vita economica della collettività. Doveva avere un surplus di potere da contrapporre alle forze ostili o riluttanti a sottomettersi al volere dei nuovi magistrati. Fu un processo di maturazione anche sul piano culturale e lessicale, come mostra la compara, solo nei decenni finali del XII secolo, della parola «comune». Nato come aggettivo (‘di tutti’), assunse nel tempo una connotazione politica che lo trasformò in sostantivo, «ciò che è comune». Al comune, inteso come forma di governo della città, si può così applicare il linguaggio della res publica, dello Stato, perché si tratta di un’istituzione distinta dagli uomini. Il governo della città aveva così una direzione di sviluppo: una forma di politica comunale. 2. Le funzioni di governo: giustizia, economia e controllo del territorio Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo le città italiane affrontarono una serie di sfide importanti: l’aumento demografico; l’ampliamento delle zone abitate; l’inserimento sociale dei nuovi arrivati; la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione politica; riformulare le istituzioni comunali secondo differenti equilibri sociali. La crescita economica e politica delle città portava nuove tensioni: la giustizia divenne una funzione prioritaria della nuova magistratura. Per molti storici, il vero inizio del comune come istituzione va individuato nell’atto di nascita di tribunali cittadini. Con l’aiuto dei giudici e dei notai si instaurarono delle corti comunali, aperte a tutti, dove era possibile presentare una lamentela e ottenere giustizia: chi compiva un reato grave, come la «pace della città», veniva bandito e la società rionali, o «società in armi», che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. Si aggiunsero, in un secondo momento, le società di mestiere, o «corporazioni di Arti». Tuttavia, in una fase iniziale, prevalse uno spirito unitario e federativo. Le società si diedero col tempo una struttura comune, coordinata, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario, chiamato «Popolo», una vera istituzione pubblica. Le società avanzarono richieste di natura politica come riservare ai membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili (che non pagavano le tasse pubbliche), impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e assicurare una pace interna della città. Davanti a questa pressione, il sistema consolare si rivelò incapace di superare le divisioni interne: alcune città iniziarono a cercare soluzioni alternative. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza, che fu chiamato podestà. Era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città: il potere politico, la giustizia, la direzione economica e il comando degli eserciti cittadini. Ma tra i podestà locali crebbero le rivalità interne; così si decise di chiamare come podestà delle personalità «esterne» alla città, sempre in carica un anno e con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo seguito (chiamato la «famiglia» del podestà). Il compromesso funzionò e, fra il 1190 e il 1220, tutte le città passarono al governo del podestà forestiero. Il podestà doveva intervenire per sanare le discordie, assicurare gli scambi, difendere il comune dagli attacchi esterni, guidare l’attività dibattimentale dei consigli e amministrare la giustizia. Ma molti podestà si specializzarono, facendo del podestariato una vera e propria professione. Furono scritti manuali specifici (libri de regimine) per istruire i podestà. La cultura duecentesca costruì un vero sistema di conoscenze scientifiche, come ‘L’arte di reggere la città’. Per introdurre la nascita delle istituzioni urbane, gli intellettuali comunali ripresero da Cicerone e Agostino il mito della parola civilizzatrice. La legge era creata dagli stessi cives nei consigli, che nel periodo podestarile assunsero una grande importanza. Per compensare il potere del magistrato forestiero, bisognava rafforzare il consiglio comunale: esso fu allargato (da 500 a mille), e avrebbe dovuto eleggere il podestà e approvare le sue decisioni; al suo interno si prendevano le scelte principali per la vita politica ed economica della città. Il podestà proponeva gli argomenti da discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta (chiamata «posta») e alla fine decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza, che poteva essere palese o segreta. I voti erano espressi con delle palle, o delle fave, di colo bianco e nero che ogni consigliere depositava in una sacca al momento del voto. Il conteggio era affidato a due frati eremitani e a due Anziani. Alleanze familiari e «parti» continuavano a esistere, ma l’intero sistema sembrava girare attorno a questo rapporto bilanciato fra podestà e organi consiliari. Rispetto al secolo precedente erano aumentati gli abitanti delle città. Il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico, sia su quello politico: le corporazioni contavano ormai diverse migliaia di membri. Iscriversi alle Arti era diventato molto importante per i cittadini del XIII secolo. In primo luogo, per un motivo economico: per poter aprire un’attività, bisognava essere iscritti all’arte. La seconda ragione era di natura politica: il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato. In molti comuni, alla fine del Duecento, fu liberalizzata l’iscrizione alle Arti: non si doveva per forza esercitare un mestiere, era sufficiente avere l’intenzione di appartenere a quella società e avere sufficienti conoscenze per essere accettati. 5. Il governo delle corporazioni nel Duecento Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo delle città in nome di una nuova idea di comunità. In un primo momento, il Popolo duplicò le istituzioni comunali, affiancando al podestà e al consiglio del comune, un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo, chiamato il Capitano del Popolo, che guidava il Consiglio del Popolo; poi instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti (a Bologna gli Anziani, a Firenze e Perugia i Priori, a Siena i Nove): un vero e proprio governo «collegiale» formato dal podestà, dal capitano, dai due consigli (del comune e del Popolo) coordinati dai rappresentanti delle Arti. Una volta giunto al potere, all’interno del Popolo si formarono dei gruppi egemoni: il dominio delle «Arti maggiori» a Firenze ne è un esempio. I grandi commercianti e banchieri tendevano a limitare i gruppi artigianali minori. Furono i notai a influenzare in modo diretto l’indirizzo politico del governo: essi si dimostrarono i custodi gelosi e i diligenti esecutori di quella politica di «controllo totale». In tutte le città furono create liste generali di appartenenza «qualificata» alla città; si censirono i residenti con elenchi di cittadini divisi per parrocchie o cappelle; quindi i contribuenti, distribuiti in liste fiscali di soggetti al fodro e poi in estimi più moderni, con una valutazione reale della ricchezza individuale. Le dichiarazioni dei contribuenti venivano trascritte in grandi registri e alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito un valore totale che rappresentava la cifra dell’estimo di quel cives, la sintesi della sua ricchezza. Fu un’operazione lunga e costosa, che aprì la via all’adozione di un criterio proporzionale nella raccolta delle imposte pubbliche. In base a questi elenchi generali si elaborarono liste «secondarie» di appartenenti ai consigli, alle società territoriali e corporative (le matricole), agli uffici comunali; chi non era iscritto all’estimo, chi non si presentava in consiglio e così via. Il presupposto di questa rivoluzione delle prassi documentario fu in controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi, ma sintetici e facilmente aggiornabili. La giustizia divenne più severa. Si presero provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari; in città si pose un limite ai prezzi degli affitti delle case; fu vietato tassativamente di esportare grano fuori del contado o di ammassare frumento nei periodi di carestia per aumentare il prezzo. Il contado: negli ultimi decenni del Duecento le pretese delle città comunali aumentarono: divisero il territorio per zone amministrative corrispondenti a prolungamenti dei quartieri cittadini (le proporzioni del contado presero il nome dei quartieri urbani); al loro interno, queste partizioni furono suddivise a loro volta in aree minori, affidate a un ufficiale cittadino, il vicario o il podestà; i castelli furono controllati direttamente da contingenti militari anch’essi di provenienza urbana. Si impose alle comunità del contado una serie di doveri fiscali e annonari. Liste di villaggi con la quota di grano che dovevano assicurare alla città si sommarono gli estimi del contado, che definivano in maniera coercitiva una quota fissa di tasse per i singoli villaggi in base a un conteggio ipotetico degli abitanti. Anche la disciplina sull’accoglimento dei comitatini in città si fece più rigida, con provvedimenti di chiusura verso gli immigrati rurali meno integrabili nel tessuto urbano. Il comune di Popolo ricercava una «legittimità» più alta del regime podestarile. I meccanismi elettivi delle corporazioni moltiplicavano i rappresentanti delle singole società in piccoli consigli societari, che a loro volta eleggevano i Priori o gli Anziani. La tensione fra la tendenziale apertura delle istituzioni e la necessità di una gerarchia interna delle forme di partecipazione rese instabili le conquiste politiche del Popolo. La divisione in «fazioni» o «parti», gruppi di famiglie alleate politicamente contro una parte avvera, si era diffusa durante le guerre contro Federico I, e contro Federico II, tra il 1226 e il 1250. Fu in quel periodo che le famiglie e le città si contrapposero tra guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell’imperatore. In molte città le Parti, guelfa o ghibellina, divennero un’istituzione con propri consigli e podestà. Alle tensioni di classe, si aggiungevano gli odi di fazioni. Il Popolo, facendo del tema della pace l’ideale politico della città, tentava di sostenere l’equilibrio assai fragile tra governi di popolo e fazioni. La pace andava imposta e difesa contro le angherie dei potenti e soprattutto forniva la motivazione ideologica per prendere provvedimenti di emergenza: leggi speciali, chiamate «ordinamenti di giustizia» o leggi «antimagnatizie». Per «magnati» si intendevano tutti quei «grandi» che si opponevano al comune e lo minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone fu vietato di assumere cariche comunali, fu imposto un regime speciale nelle questioni giudiziarie e, a molti di coloro che non rispettavano questi precetti, fu comminato il «bando» e l’esilio dalla città. Si affermò la teoria del «bene comune» come fine ultimo della politica. La fonte era un’opera di Aristotele, la ‘Politica’, che giudicava giusti e legittimi solo i regimi che inseguivano il «bene di tutti» e non del singolo. Il «bene comune» faticò a essere raggiunto senza il ricorso a strumenti repressivi contro gli avversari e non fu considerato affatto «comune» dalla parte perdente. I conflitti sociali e le lotte di fazione provocarono una reazione di rigetto delle istituzioni comunali e il potere fu assunto da una personalità di prestigio: un signore, dominus in latino, che si impose sulle forze cittadine. In Lombardia si sperimentarono alleanze ibride. Fu l’intervento diretto di Carlo d’Angiò a favorire la creazione di governi formalmente di Popolo e «guelfi», dove l’accesso alle istituzioni dirigenti era riservato agli iscritti nei libri matricolari delle società di Arti e di Armi. Nelle città «signorili», i consigli comunali furono sciolti o lasciati in vita come semplici organi di ratifica delle decisioni prese dal signore; la parte avversa al potere doveva lasciare la città; gli spazi di partecipazione vennero gradualmente ridotti. Le città italiane entrarono in una fase di sperimentazione, con momenti di governo autocratici in mano a un signore e ritorni improvvisi a governi comunali. Quello che in fondo era in gioco in tutte le città era il cuore del sistema comunale-podestarile: cioè la delega del potere a un magistrato forestiero. Sia nei governi repubblicani-comunali, sia in quelli signorili, il potere politico doveva tornare nelle mani delle forze politiche cittadine. PARTE QUARTA Crisi e inquadramento delle società europee (metà XIII-XV secolo) Nei secoli successivi la messa in opera di questi apparati ancora imperfetti si scontrò con una serie di difficoltà strutturali che ne misero in forse l’esistenza. Da un lato le pretese di questi poteri erano altissime: i re e i papi si ergevano al di sopra delle istituzioni e della società reclamando poteri quasi assoluti. Dall’altro, queste stesse pretese suscitarono resistenze fortissime in seno alla società e ai gruppi politici più organizzati. Si possono notare quattro fili principali: la Chiesa e il controllo dei fedeli, l’affermazione della monarchia come forma di governo, la saldatura fra le istituzioni del regno e le forze sociali, l’inquadramento gerarchico dei rapporti sociali in una convivenza disciplinata di ceti diversi. I regni si dibattevano in contraddizioni altrettanto profonde: fu proprio questo il periodo in cui più forte si fece la resistenza ai re e più violenta la lotta delle fazioni per il dominio dei regni. I ceti signorili e in generale dei detentori di capitali e di mezzi di produzione si sforzarono di imporre un controllo diretto e più «economico» sui processi di produzione e sulla forza lavoro. I rapporti fra masse di lavoratori non proprietari e i poteri politici ed economici furono spesso turbolenti, segnati da ribellioni violente e da repressioni feroci. CAPITOLO 1 Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378) 1. La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Il concilio lateranense IV riassumeva un’intensa stagione di riforme e di innovazioni istituzionali che riguardavano il governo della Chiesa. Sotto Innocenzo III fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa. Fu stabilito: l’obbligo di scrittura degli atti giudiziari. Si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all’anno al proprio parroco e ricevere l’eucarestia a Pasqua; il matrimonio doveva essere celebrato in chiesa e confessarsi una volta all’anno. Andare in chiesa divenne un segno di adesione esplicita alla comunità dei fedeli. Le posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni; in alcuni casi di recidività del soggetto si passava all’eliminazione fisica. Il concilio fu guidato da Innocenzo III, che aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati. Lo sviluppo dell’apparato burocratico, con poteri decisionali riservati al papa, influenzò la riflessione dottrinale relativa al potere del pontefice. Verso la metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del pontefice si concentrarono sulla natura giuridica di questo potere: «la potestà assoluta del papa» (origine divina delle prerogative papali). I canonisti distinsero un potere ordinario del papa, che era in accordo con le leggi, e un potere assoluto − sciolto cioè dalle leggi e superiore alle leggi stesse – che il papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della Chiesa. La questione dell’infallibilità del pontefice era sorta in relazione al passo del vangelo di Luca. Nel secolo XII questo passo era stato interpretato come una prova di fiducia nella Chiesa universale che non poteva errare mai. Nel Duecento, invece, si affermò un’interpretazione letterale: era proprio Pietro a non sbagliare mai. Le pretese di governo del papa sulle istituzioni ecclesiastiche: Sotto Innocenzo III, i legati divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa soprattutto per le questioni interne alla Chiesa; i canonisti, definendo il legato papale «un altro papa», sancirono la sua superiorità rispetto ai vescovi locali. Nel corso del Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di metter sotto controllo l’elezione dei vescovi. Scavalcarono spesso il capitolo cattedrale e si riservarono il potere di trasferire i vescovi da una sede all’altra. Ovviamente, queste azioni suscitarono molte resistenze. Le tensioni generate dai contrasti fra il papa e i vescovi durarono a lungo e diedero vita a una corrente politica chiamata «conciliarismo», che affermava la superiorità del concilio sul papa. Nel secolo XIII le posizioni erano ancora ambigue. I giuristi si divisero: alcuni sostennero che il papa non poteva decretare cose contrarie ai concili generali; altri pensavano che le decisioni dei concili valevano solo se approvate dall’autorità del papa. L’accentramento dell’autorità nella figura del papa richiese un notevole sforzo organizzativo. Le funzioni di governo del papato si muovevano ormai in uno spazio d’azione di ambito europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l’afflusso delle decime da tutto il mondo cristiano, e quello giudiziario, con un numero crescente di cause che giungevano a Roma per essere risolte dal papa. I cappellani del papa furono sostituiti da una nuova magistratura, gli auditori delle cause, che si spartivano i processi con i cardinali romani. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due strumenti di governo: i Le persone indicate come eretiche venivano prelevate e interrogate singolarmente. Si trattava di una procedura semplificata: limitata capacità di difesa dei sospetti, possibilità di usare un ampio ventaglio di minacce fisiche, ricorrere alla tortura in caso di presunzioni «violente». Una volta che aveva capitolato, l’imputato poteva scegliere: pentirsi o mantenere ferma la propria fede. Il fine dell’inquisizione antiereticale non era quello di determinare gli eretici, ma di spingere al pentimento e all’abiura. Le pene per gli irriducibili erano severe. Accogliendo le leggi emanate da Federico II contro gli eretici (1239), Innocenzo IV aveva inserito un esplicito assenso alla pena di morte da infliggere agli eretici impenitenti. Era lecito anche il ricorso alla tortura, il sequestro dei beni, la distruzione delle case. 4. L’uso politico dell’eresia: re e pontefici alla ricerca del carisma Nel corso del Duecento, la lotta all’eresia divenne un’arma politica che contribuì alla costruzione del potere sovrano nell’Occidente medievale. Lo dimostra il conflitto tra Federico II e il papato, usando l’accusa di eresia equiparandola al reato di lesa maestà. Quando però Federico ruppe violentemente con il papato e venne scomunicato dal papa durante il concilio di Lione nel 1245, si trovò additato come eretico. La lotta del papato si trasformò in una crociata, che proseguì anche contro i suoi eredi (Manfredi e Corradino) e contro i suoi seguaci. Rimanevano in Italia potentissimi dominati fedeli al partito dell’Impero e oppositori della Chiesa. Lo stretto legame che si era creato in questi anni fra potere e peccato, fra atti di governo e religiosi, fra tirannia e demonio ci dice che ormai la stessa nozione di potere politico stava cambiando: contro l’eresia potevano e dovevano intervenire i re cristiani dell’Europa medievale. Due episodi, entrambi legati al re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314), devono essere ricordati come emblematici: il conflitto con Bonifacio VIII e il processo contro i templari. Il conflitto con Bonifacio VII verteva su due elementi fondamentali della politica pontificia: la difesa dell’immunità della Chiesa dal fisco e dalla giustizia del re. Filippo il Bello aveva forzato la mano per ben due volte: la prima, imponendo una tassa al clero francese in occasione della guerra; la seconda, mettendo sotto processo un vescovo. La reazione di Bonifacio fu quella di minacciare il re di scomunica e di richiamarlo all’ordine; il pontefice riaffermò in una bolla il potere assoluto del papa su tutti i principi laici, la Unam Sanctam. Bonifacio era un papa potente, di grande cultura giuridica, violento nel rapporto con i poteri laici. Ma aveva molti punti deboli: le lunghe lotte contro la rivale famiglia romana dei Colonna, contrapposta a quella dei Caetani, dalla quale Bonifacio proveniva; le continue resistenze dei comuni allo Stato della Chiesa; una fronda di cardinali suoi oppositori sparsi in mezza Europa. Filippo il Bello usò lo scontro per affermare una reale indipendenza del re di Francia da poteri superiori: accusando Bonifacio di essere un pontefice eletto illegittimamente, si ergeva a vero protettore della Chiesa. Filippo inviò in Italia il suo cancelliere Guglielmo di Nogaret, che fece prigioniero Bonifacio ad Anagni costringendolo a non pubblicare la bolla di scomunica contro il re. Dopo un mese, nel giugno del 1303, Bonifacio morì, e si aprì una nuova crisi del pontificato. Il processo a Bonifacio prevedeva due lunghe serie di accuse di nefandezze di natura sessuale, un contatto quotidiano con i demoni, una blasfemia ripetuta e idee apertamente eretiche. Un’altra accusa celebre intentata dal re di Francia è quella rivolta contro i templari. L’insofferenza del re verso i templari francesi era cresciuta nei primi anni del Trecento. Filippo aveva bisogno di denaro, ma i templari, che custodivano il tesoro regio, gli negarono dei prestiti ingenti. Filippo fece arrestare i generali dell’ordine e tutti i templari del regno. I capi d’imputazione erano numerosi e giravano intorno al nesso tra eresia, culto demoniaco e condotte sessuali illecite. In pochi anni il reato di stregoneria, di patti segreti con il demonio, uniti a comportamenti sessuali illeciti, divenne un modulo d’accusa molto usato nei casi di opposizione politica e di lesa maestà. Il papa Giovanni XXII mise sotto accusa il vescovo Ugo Geraud e Bernardo Delizioso, un francescano oppositore dell’Inquisizione; i principi ghibellini dell’Italia centro-settentrionale. I processi lanciati da Giovanni XXII tra il 1315 e il 1320 erano i segni evidenti di un papato sotto attacco: confinato ad Avignone, il papato doveva governare la cristianità da una città piccola e sotto l’influenza diretta, se non proprio il controllo, del re di Francia. Eppure, il lungo settantennio avignonese rappresentò per la Chiesa un momento di forte sviluppo della pratiche amministrative di gestione dei beni e degli affari. I registri pontefici acquistarono una forma più matura, il controllo dei legati si fece più attento, la contabilità fece progressi enormi. Il ritorno del papato a Roma nel 1378 non riuscì a pacificare la Chiesa. L’elezione del papa italiano Urbano VI fu contestata dai cardinali francesi che elessero a loro volta Roberto di Ginevra sotto il nome di Clemente VII, insediato ad Avignone. La spaccatura in seno alla chiesa: una parte sosteneva il papa romano e un’altra il papa francese. La divisione mise in luce la debolezza storica del papato nel rappresentare l’unità religiosa dei regni europei. L’esperienza conciliarista aveva provato a proporre un’idea di Chiesa basata sulla fratellanza e la condivisione delle decisioni. Tuttavia, la proposta si dimostrò debole rispetto a un papato ormai arroccato sul primato del pontefice e anche verso le chiese locali. Capitolo 2 La costruzione dello spazio politico dei regni europei Nel corso del XIV secolo, le società furono inquadrate in strutture regie più ampie e più definite. Non c’è tendenza lineare verso la costruzione di stati nazionali. Gli stessi poteri subiscono contestazioni e ci sono sempre ridefinizioni dei quadri territoriali. I poteri regi sono flessibili e si devono adattare alle concrete condizioni interne. 1. La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra Nessuna evoluzione lineare è riscontrabile nelle vicende dei singoli regni europei nel corso dei due secoli in esame. Ma emerge comunque un dato comune: la diffusa tensione contro la forma monarchica, attaccata sui criteri di successione, sui poteri da esercitare, sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Da queste tensioni emerge un dato di fondo: l’estrema flessibilità della forma monarchica. Le monarchie sopravvissero grazie alla loro debolezza, alla possibilità di rimodellare velocemente i sistemi di governo in caso di necessità. In Francia, sotto Filippo il Bello l’apparato centrale si fece più pesante e pervasivo. Le finanze furono rinnovate aumentando il carico fiscale dei sudditi; la giustizia rimase nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della Chiesa. Messo sotto controllo il papa ad Avignone, il re si lanciò in ardite speculazioni finanziarie; ma l’esperimento fu un mezzo disastro economico. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il suo successore, Luigi X. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli: le carte di libertà presentate misero sotto accusa le funzioni pubbliche basilari della monarchia; cioè il controllo della giustizia e la fiscalità. Con l’esaurirsi della dinastia capetingia (1328) e il passaggio del regno alla linea dei Valois si riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. La guerra dei cento anni mise in luce le debolezze del sistema politico francese: un esercito pesante e lento, basato ancora sui cavalieri; una scarsa capacità di mobilitazione della popolazione; un sistema fiscale largamente imperfetto; una fortissima frammentazione territoriale. Già dal XII secolo le regioni atlantiche erano inglese; parte della Borgogna si rivoltò; le regioni del sud furono in parte riassorbite dai re spagnoli. La prima fase della guerra vide la sconfitta degli eserciti francesi a Crécy nel 1346, a Poitiers nel 1356 (dove il re francese Giovanni il Buono fu preso prigioniero), e ad Azincourt nel 1415. Nella seconda fase prevalsero gli aspetti politici: a minacciare il regno era anche una spaccatura interna all’alta aristocrazia francese. La guerra civile era iniziata nel 1392, quando si era aperto un conflitto fra due membri della corte di Carlo VI, un re debole e impazzito: da un lato Giovanni senza Paura duca di Borgogna e dall’altro il fratello del re, Luigi duca d’Orléans. Lo scontro aperto scoppiò quando Luigi, con l’approvazione del reggente, impose una nuova tassa, subito respinta dagli altri principi. Presero allora forma due partiti: gli Armagnacchi, fedeli al duca d’Orléans, e i Borgognoni, seguaci del duca di Borgogna. La resistenza alla politica fiscale degli Orléans divenne il filo conduttore della guerra civile. Quando i Borgognoni conquistarono Parigi per la seconda volta, nel 1418, abolirono tutte le tasse nelle città. Gli orleanisti abbandonarono Parigi e la Francia settentrionale, per creare un regno itinerante nelle regioni centrali, detto regno di Bourges. Per diversi anni, non si seppe chi fosse veramente il re di Francia. I sostenitori del re erano anche i sostenitori di un apparato pubblico centralizzato e potente. Il partito dei Borgognoni era favorevole a un assetto politico più decentrato. La complicazione divenne massima quando in seguito al tratto di pace di Troyes, con il quale la Francia era riuscita a raggiungere una tregua con gli inglesi, il re d’Inghilterra Enrico V (1387-1422) sposò Caterina, la figlia del re francese Carlo VI. Non solo Carlo VI aveva esautorato l’erede legittimo, il delfino Carlo (poi VII), ma aveva eletto come suo «figlio» e successore il re inglese. Alla morte dei due re (Carlo VI ed Enrico V), l’erede inglese, Enrico VI, pretese legittimamente di essere eletto re di Francia. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti, che sostenevano l’altro figlio del re francese, Carlo VII. Due partiti e due re: i Borgognoni, alleati di Enrico VI (inglese); gli Armagnacchi a sostegno di Carlo VII, il vero re francese. Nell’ultimo ventennio la guerra volse a favore della Francia: una serie di campagne vittoriose fra il 1449 e il 1453 permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano inglese, anche se la guerra si spense per le divisioni che colpirono l’Inghilterra. Le vicende di Luigi XI mostrano le contraddizioni dello Stato monarchico francese alla fine del Quattrocento. Ribelle al padre, esiliato nel Delfinato per quattordici anni (1447-1461), Luigi, divenuto re, cercò di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati. Gli si contrappose un fronte composto da suo fratello Carlo, il duca di Borgogna, i signori di armagnac, Alençon e Bourbon. Contro questi ultimi, Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria, dopo averli accusati di lesa maestà. Sotto lo strato di questi eventi politici, emergeva lentamente la costruzione istituzionale di un regno radicato nelle sue funzioni di base: le ordinanze regie sulla fiscalità, la moneta, la Chiesa, la giustizia, l’esercito e gli ufficiali pubblici (resi inamovibili nel 1476). Tuttavia, la costruzione di uno spazio politico francese riposava ancora sulle alleanze dinastiche e sulle morti senza eredi dei principi vassalli, che assegnavano al re di Francia, come tutore legittimo, il principato vacante. Solo in questo modo, tra il 1460 e il 1490, le regioni più distanti e autonome furono «attaccate» al regno di Francia: nel 1461 il Delfinato; l’Angiò nel 1480; una parte del ducato di Borgogna, smembrato nel 1482; la Provenza nel 1486; la Bretagna nel 1498, grazie a un matrimonio con la principessa ereditaria. L’Inghilterra del primo Trecento: dopo un lungo regno di Edoardo I, i successori misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia: • Un regno incapace di finanziarsi, impoverito e in mano al volere dei grandi; • Un ruolo spropositato dei baroni, che per decenni attaccarono la Corona; • Un Parlamento – l’assemblea di nobili, ecclesiastici e rappresentanti dei comuni – molto forte nell’imporre un controllo stretto intorno al re e alla gestione delle finanze regie, ma non altrettanto forte nel proporsi come garante di un assetto istituzionale stabile. La monarchia inglese, nel corso del XIV secolo fu segnata da una successione di re deposti, dimessi o uccisi. Nel Quattrocento, il vuoto di potere continuò. Durante questo vuoto di potere due erano le forze che potevano aspirare a trovare un ordine: il Parlamento e i Grandi. Il Parlamento inglese assunse nel Trecento un vero ruolo di controllo e di indirizzo della politica regia. Nel 1310 propose un rimedio alle deficienze finanziarie del regno, sottoponendo a un controllo periodico le finanze pubbliche. Non riesce a dare stabilità istituzionale al regno. L’assenza di un re e le competizioni per il trono favorirono un frazionamento del regno inglese in ducati semi-indipendenti. Nel 1453 questa ostilità fazionaria si polarizzò attorno al conflitto fra la casa dei Lancaster, che aveva a lungo dominato in Parlamento, e quella di York. La guerra delle Due Rose terminò con l’ascesa al trono dei Tudor (1485). Sul piano territoriale l’unità dell’Inghilterra era tutt’altro che scontata: i re scozzesi riuscirono a mantenere un regno di Scozia separato da quello inglese; il dominio sul Galles era incerto e indebolito da continue ribellioni interne; i territori in Francia furono perduti dopo il 1453. Indebolimento nel 1400 quindi per l’Inghilterra. Anche nelle monarchie spagnole il peso delle lotte interne per la corona determinò una serie di cambiamenti a catene delle dinastie e di scontri fra pretendenti. In Castiglia, la successione dinastica fu sempre un problema. I regni spagnoli rimasero legati in una rete di relazioni parentali. Un esponente del ramo cadetto dei Trastámara divenne re di Aragona nel 1412 come Ferdinando I d’Aragona (1380-1416). Il figlio Alfonso V di Aragona, detto il Magnanimo, acquisì il regno di Napoli nel 1442 dopo una lunga lotta con i francesi, dopo essersi assicurato anche la Sardegna. La struttura interna dei singoli regni era molto diversificata: se in tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee rappresentative influenti, le Cortes, la composizione e il ruolo di queste istituzioni variava da caso a caso. In Castiglia, le Cortes erano formate quasi esclusivamente dai rappresentanti delle città. Il ceto intellettuale e amministrativo della città, i letrados, aveva trovato nel rapporto con il re un sistema di promozione e di ascesa sociale. I letrados divennero i più grandi difensori della monarchia assoluta del re. In Catalogna e Aragona i rappresentanti del regno – Chiesa, nobiltà e città – ebbero amplissimi poteri sulle finanze e sulla legislazione. I re di Aragona e di Navarra erano costretti a chiedere consiglio e consenso alle Cortes quasi per ogni cosa. Un matrimonio e una successione contestata portarono all’unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona. Nel 1469 Isabella di Castiglia sposò l’erede al regno di Aragona, Ferdinando, che divenne re di Castiglia e Aragona. Si trattava di di fatto l’unificazione di tutta la Spagna, a guida castigliana, si completò nel corso del regno, dopo la caduta dell’ultima enclave musulmana di Granada (1492). 2. L’Impero e i regni dell’est: crisi e flessibilità della forma monarchica Fra il Duecento e il Quattrocento l’Impero perse i regni d’Italia, di Borgogna e di Germania. L’Italia era formalmente sotto l’Impero, ma Enrico VII di Lussemburgo fu l’ultimo imperatore a tentare di comprenderla in una dominazione unitaria. La nozione di Impero nei territori tedeschi del basso medioevo, sul piano politico-territoriale, incise assai poco. Da un lato, i candidati alla carica di imperatore erano relativamente deboli, dall’altro la natura elettiva del regno garantiva ai principi elettori, un potere di intervento diretto. L’imperatore era uno di loro e la famosa Bolla d’oro del 1356, concessa da Carlo IV ai principi elettori, concedeva loro la piena autonomia giurisdizionale nei propri territori e un potere di controllo sull’attività imperiale. Il Collegio degli elettori era convinto di essere un’entità superiore al re-imperatore: poteva eleggere o deporre l’imperatore. Anche i principi regionali conservarono un’autonoma linea d’azione. Il comune aveva da tempo chiesto prestiti volontari e coattivi dai cittadini; intorno agli anni Quaranta del Trecento, si decise di non restituire più il capitale ma solo gli interessi, in rate annuali. I cittadini fiorentini iniziarono a comprare delle cedole del debito pubblico: davano denaro in prestito e ricevevano nel tempo gli interessi. Il metodo ebbe un enorme successo. Il sistema del debito pubblico finanziato dai cittadini (ma era possibile anche per i forestieri comprare cedole del monte) era in uso in altri due grandi Stati repubblicani: Genova e Venezia. Qui l’oligarchia finanziaria aveva un rilievo enormemente superiore. I sistemi istituzionali riconobbero la necessità di stabilizzare il governo con un capo supremo, eletto a vita, il doge, contornato da una serie di consigli ristretti e larghi che controbilanciassero i poteri all’interno dell’aristocrazia urbana. Il modello veneziano raggiunse quasi la perfezione. I contrappesi e i controlli incrociati fra un ufficio e l’altro permisero a tutta l’aristocrazia di partecipare alla vita politica, senza arrivare a minacciare la stabilità dello Stato con guerre civili. Si individuò le famiglie nobili che potevano partecipare al governo inserendole in elenchi fissi: un’oligarchia chiusa, rinnovata con prudenza. Capitolo 3 Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione conflittuale La definizione dell’assetto politico dei territori europei si configura come un insieme di processi necessariamente intrecciati: un’integrazione conflittuale fra monarchie, istituzioni territoriali e forze sociali. Da un lato la corte centrale e l’ideologia monarchica si definirono meglio sul piano culturale e amministrativo. Dall’altro, anche i «paesi» si organizzarono per proprio conto: la loro esistenza, tuttavia, era strettamente legata a quella del regno. Le regioni dovevano essere «regioni di un regno» per contare politicamente; da qui lo sforzo di usare le assemblee rappresentative. Nonostante queste assemblee funzionassero con il voto a maggioranza, i voti si pesavano e non si contavano. L’aristocrazia il suo peso lo fece sentire sempre, e lo fece accettando una relativa integrazione nelle strutture pubbliche. Trasformandosi in nobiltà del regno, si inseriva in un nuovo ordine politico che alla fine del XV secolo sembra vedere la luce: un grande «corpo della nazione», con la monarchia come testa e guida delle altre componenti che in armonia dovevano svolgere le funzioni assegnate secondo la scala gerarchica. 1. Immagini e ideologie del re Fra Tre e Quattrocento, l’ideologia monarchica si sviluppò pienamente sia sul piano rituale, sia su quello giuridico- istituzionale. C’è la discontinuità dinastica, ma c’è consolidamento dell’ideologia monarchica. L’ingresso dei giuristi e dei teologi negli organi consiliari di cui si circondarono i re segnò per la cultura di corte uno stacco netto rispetto al passato: una superiorità politica e istituzionale del re rispetto agli altri poteri territoriali. L’ingresso dei giuristi nelle corti europee risale almeno alla metà del Duecento. L’affermazione delle università consentì al diritto di trasformarsi in una vera e propria scienza: i giuristi conoscevano la legge insieme al funzionamento della meccanica pubblica. La natura del potere regio era il tema che attirava maggiormente la loro attenzione. Il potere del re poteva assumere due forme: un potere ordinato e ordinario per amministrare il regno, e un potere assoluto, vale a dire sciolto dal rispetto delle leggi. Su questo potere di deroga si basava la preminenza del re. Alcuni giuristi cercarono di mettere dei limiti a questo potere: il re doveva comunque avere una causa necessaria per non rispettare le leggi. Altri però affermarono che questa causa doveva essere considerata sempre implicita. Un corrente assai diffusa in Inghilterra legava il re alla legge. Pur attribuendo al re una superiorità netta rispetto ai sudditi, lo riteneva comunque sottoposto alla legge. La tradizione inglese conservò questa dimensione di monarchia regolata. La fragilità dei re favorì la nascita di un concetto più astratto di regno: emerse la nozione di Corona come astrazione personificata del regno, investita dei beni e dei diritti pubblici. Questi erano inalienabili e indisponibili, non potevano essere ceduti dal re perché non appartenevano a lui personalmente. In Inghilterra il processo fu precoce. In Francia arrivò solo nel 1319; e solo dal 1361 si inserì nel testo del giuramento del re. La monarchia, come istituzione, ne uscì molto rafforzata. La guerra dei Cento anni e il pericolo di avere un re straniero misero in luce una nozione più complessa di regno, inteso come comunità di persone che appartenevano, per nascita, allo stesso paese. La natio (nascita) comune era un legame naturale e l’ordine naturale delle cose imponeva che fosse un re francese a governare sul popolo francese. L’aggettivo naturale si diffuse ovunque nella pubblicistica regia: con il termine naturale si indicava un’obbligazione necessaria e spontanea verso il proprio paese e il proprio signore, che era necessario difendere dagli attacchi esterni. C’è il connotato religioso del potere regio soprattutto in Francia e in Castiglia. Altri autori insistevano anche sull’amore che il re doveva avere per il suo popolo e che doveva ricevere dai sudditi. La figura del re divenne oggetto di devozione religiosa. Le virtù assegnate al re furono tradotte in poteri di governo: • La protezione dei poveri e dei deboli richiedeva un rafforzamento della giustizia pubblica verso i potenti arroganti che affliggevano i sudditi; • La misericordia del re si tradusse in un potere di grazia (il re poteva condonare le pene); • L’amore verso il re portava con sé una celebrazione religiosa della sua superiorità istituzionale; • I fondamenti celesti del regno rafforzavano l’immagine della monarchia come scudo protettivo, guida naturale della nazione La salvezza della «nazione» finiva per giustificare una politica fiscale sempre più pesante, un’intromissione della giustizia pubblica e anche una richiesta crescente del coinvolgimento diretto dei sudditi nella difesa della patria. 2. L’amministrazione del regno: corti, ufficiali, fiscalità Con la costruzione di un sistema burocratico a più livelli si ebbe, da un lato, un rafforzamento sensibile dell’amministrazione centrale; dall’altro la costruzione di una rete di ufficiali pubblici nei territori. Su questa base si impiantò il sistema fiscale. Organi centrali, uffici territoriali e sistema fiscale sono elementi che troviamo in tutte le monarchie europee. Lo sviluppo di una burocrazia pubblica fu importante perché: • Favoriva una vita autonoma del regno che funzionava anche «senza re»; • Assicurava una presenza capillare nei territori di un corpo di ufficiali che «rappresentavano» il re in quel luogo; • Permetteva la promozione del ceto intermedio urbano In genere, le funzioni della corte erano essenzialmente tre: fornire al re un consiglio ristretto; assistere il re nelle principali funzioni di governo; amministrare le finanze. Nei regni più organizzati, come la Francia e l’Inghilterra, una rete di ufficiali pubblici esisteva già nella prima metà del Duecento. L’evoluzione dei secoli successivi riguardò la loro diffusione. La burocrazia pubblica divenne uno dei maggiori canali di ascesa nelle società del basso medioevo, che garantiva una formazione di base. La diffusione delle scuole cittadine e delle università servì da acceleratore in tal senso. C’era un radicamento famigliare nelle cariche. La fiscalità pubblica nel basso medioevo aveva assunto due forme: la fiscalità indiretta era composta dalle imposte messe sui beni prodotti o sui beni di consumo, e ricadeva sui consumatori in maniera indistinta (la gran parte dei sistemi finanziari dei regni europei si basava su questo tipo di imposte); le tasse dirette gravavano sui beni dei singoli individui o dei nuclei familiari. In teoria erano tasse straordinarie che si potevano chiedere solo in casi eccezionali. Una volta deciso l’ammontare complessivo, la ripartizione per individui era delegata ai consigli cittadini o agli organi rappresentativi territoriali che suddividevano il carico fra tutti gli abitanti secondo un principio proporzionale. L’imposizione fiscale era una questione politica. Due erano i punti rilevanti: in base a quale potere il re poteva imporre una tassa ed esigere dai sudditi il pagamento; e quando era necessario il consenso dei sudditi alle richieste del re. Imporre una tassa senza consenso implicava un potere del re di fatto assoluto: accettare il consenso significava invece che il potere del re doveva trovare un limite nella libertà dei sudditi. Il problema dello Stato coincideva con il problema del «finanziamento dello Stato». Le resistenze al potere regio di imporre tasse senza consenso furono sempre numerosissime. 3. Assemblee e parlamenti: la società locale nei sistemi monarchici Per governare regni sempre più grandi e costosi era necessario chiedere l’aiuto delle comunità. Già nel corso del Duecento, acquisirono un rilievo nuovo le tradizionali assemblee del regno, formate dai rappresentanti dei diversi corpi del paese: in Inghilterra il Parlamento, diviso in una Camera bassa dei comuni e nella Camera alta dei nobili. In Francia gli Stati generali. Si distinguevano Stati provinciali, che discutevano problemi locali da sottoporre al re o eleggevano i rappresentanti della regione per gli Stati generali, e Stati generali, convocati dal re per discutere questioni diverse. In Spagna le Cortes erano assemblee di eletti che avevano un vero potere di controllo sull’operato del re. Ampia autonomia godevano, nei territori dell’Impero, le Diete. La loro convocazione era richiesta quando si trattavano questioni inerenti al regno sul piano economico e militare. L’Inghilterra è il regno che più ha usato il sistema delle assemblee. I motivi di queste riunioni riguardavano, il più delle volte, le richieste finanziarie del re: da tempo, nel regno inglese, dare soldi al re era un atto politico. L’esame delle domande regie era severo. Nel corso del Duecento i parlamenti si riunirono con frequenza crescente; dal 1284 le riunioni divennero regolari e i giuristi si sforzarono di trovare una giustificazione teorica della loro utilità nel principio romanistiche che «ciò che riguarda tutti da tutti deve essere approvato». Le sedute delle assemblee assunsero funzioni diverse: si votava se concedere o meno l’aiuto; si presentava al re lamentele sull’amministrazione pubblica; si disponevano riforme sullo stato del regno, e nuovi regolamenti da sottoporre al re; si negoziavano privilegi locali e favori. In altre parole, svolgevano di fatto anche un’attività legislativa. In Inghilterra, le decisioni del parlamento, chiamate «statuti», non potevano essere modificate dal re, ma solo da un altro statuto. Tuttavia è bene non generalizzare (e non mitizzare) queste assemblee come un potere contrapposto al re o come una sorta di democrazia in nuce. Queste assemblee conservavano alcune caratteristiche strutturali: • Erano ancora «temporanee», con una periodicità variabile; • Avevano una rappresentanza sociale «limitata», (salvo il caso castigliano) non rappresentavano tutti gli ordini nello stesso modo; • Non erano ideologicamente contro la monarchia; • Fissarono la divisione in ordini, conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico. Queste assemblee non erano rappresentative nel senso moderno del termine: non erano elette dal popolo e avevano una composizione sociale interna molto sbilanciata. I membri degli ordini maggiori, ecclesiastici e baroni, erano convocati individualmente ed erano presenti di persona; mentre le città e i comuni dovevano inviare solo dei rappresentanti scelti tra «i migliori e più saggi» del luogo (da 2 a 6). La frequenza dipendeva soprattutto dalla funzione delle assemblee e dalla regione in cui si tenevano: nei territori con molte città le riunioni erano molto frequenti. La drastica diminuzione delle convocazioni nell’ultima parte del Quattrocento pone delle domande circa la funzione di queste assemblee come «contropotere» dei re alla fine del medioevo. Si è molto discusso sul ruolo politico di queste assemblee, da alcuni storici viste come un embrione di democrazia moderna; da altri ridotte a camere di consultazione dei re che, al massimo, prendevano atto delle loro richieste. È difficile dare una risposta univoca. Il solo limite che il re poteva avere consisteva nell’autolimitazione delle proprie pretese secondo ragione e non certo nel rispetto di un patto con il «popolo». Tuttavia, dei re, in momenti alterni, si convinsero a stringere dei patti e in alcuni casi a rispettarli. Viste da vicino le assemblee non sembrano essere un blocco monolitico di interessi del paese coalizzati contro il re, ma un insieme sociale ogni volta diversi, in parte manipolato dall’alta aristocrazia e in parte determinato dai rapporti di dipendenza del re con alcune forze locali. Questo spiega il declino delle assemblee rappresentative alla fine del XV secolo. Convocate sempre più raramente, molte di esse non avevano più la capacità di proporre una politica autonoma né di rivendicare un potere di veto sulle decisioni del re. I motivi di questo declino furono diversi, ma tra loro collegati: • I re, alla fine del Quattrocento, avevano in genere reintegrato i beni della corona, ridotto il numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi; • La tassazione ordinaria era un dato accettato: si poteva discutere l’importo ma non la sua imposizione; • La nobiltà e la medio-alta aristocrazia terriera e urbana erano ormai esenti dalle imposte ordinarie; se prima dovevano partecipare alle assemblee per proteggere i propri interessi, alla fine del XV secolo questo non era più necessario. Nella seconda metà del Quattrocento l’alta aristocrazia cambiò strategia, espandendo la penetrazione nell’amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo (la diplomazia e l’attività militare), entrò nell’alto funzionariato regio coprendo le cariche di ufficiali maggiori nei territori, contrattò con il re dei privilegi pesanti. Nel corso del XV secolo i re cedettero ai signori gran parte delle tasse regie da riscuotere nei loro stessi territori: i nobili erano gli esattori di se stesse nei loro domini. I re cercarono di coinvolgere una parte della nobiltà in forme private di cogestione del potere: si chiamavano privados i signori entrati nella «privanza del re» a cui venivano affidate alcune funzioni di governo come especiales servidores. L’integrazione della nobiltà in varie forme, istituzionali e personali, rafforzò le monarchie. Le forze sociali e le istituzioni costituivano ormai un blocco unico, un organismo unitario, un corpo vivente: il re come testa e tutti gli ordini sociali come organi, ognuno con una propria funzione specifica, e coordinato con gli altri. Ma questa armonia e unità richiedevano che tutte le componenti facessero solo quello che spettava loro senza deviare dai propri compiti: una pluralità di forze, disposte in ordine gerarchico, che non potevano cambiare né posto né ruolo nel funzionamento della macchina sociale. Il corpo divenne uno straordinario strumento di legittimazione della gerarchia. provvisori composti in maggioranza da piccoli artigiani alleati ad alcuni esponenti della borghesia mercantile. Le rivolte più importanti furono quelle che saldarono le ribellioni delle campagne con un’agitazione interna alla città. Così avvenne a Parigi nel XIV secolo: l’episodio più noto è il governo provvisorio di Étienne Marcel, il prevosto dei mercanti sollevatosi contro l’eccessivo carico fiscale imposto dal re Giovanni il Buono. Dopo la sconfitta di Poitiers, i borghesi parigini tentarono il governo popolare diretto da Marcel; una figura appartenente alla grande borghesia mercantile che si appoggiò alla piccola borghesia artigiana. Il governo provvisorio di Marcel ebbe inizio il 3 marzo 1357. Nelle campagne vicino a Parigi i contadini si rivoltarono contro i loro signori nel luglio del 1358. Il movimento prese il nome di jacquerie e si accanì contro i piccoli nobili di campagna, accusati di non difendere il paese dalle scorribande e di aumentar i prelievi. Étienne Marcel pensò di poter abbracciare anche questa rivolta, ma la borghesia parigina, quella «vera» si spaventò delle ambiguità del governo di Marcel e ne decretò la caduta. Marcel fu ucciso nei disordini del luglio 1358; l’erede al trono entrò a Parigi, tolse di mezzo pochi seguaci del prevosto e iniziò subito una politica di pacificazione. La rivolta inglese del 1381: la rivolta dei contadini era nata in seguito alla pressione fiscale della cosiddetta Polltax, una tassa diretta ma non proporzionale, da pagare in base al numero delle persone. I rivoltosi arrivarono a Londra e furono accolti dal popolo londinese e dal basso clero. Il re fu costretto a trattare, concedendo l’abolizione della servitù e altri privilegi. La rivolta venne domata ugualmente e il capo delle bande contadine, Wat Tyler, fu impiccato insieme agli altri. La rivolta dei Ciompi in Italia: l’agitazione dei ciompi, lavoratori salariati del tessile, insieme ad altre categorie di lavoranti, pose la questione della rappresentanza interna alle Arti. Si chiesero la formazione di nuove Arti minori e uno spazio nel governo. I ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378 e si mostrarono ostili ai monti. Fu questo a spaventare il resto della città e a promuovere una repressione feroce verso gli artigiani più esposti. Ogni partecipazione politica degli artigiani era destinata al fallimento perché metteva a repentaglio lo Stato e i suoi equilibri sociali. Punti in comune in queste rivolte: i meccanismi ingiusti del sistema fiscale; l’utilizzo improprio delle tasse prelevate dallo Stato; il valore diminuito della moneta (svalutata); il basso potere d’acquisto dei salari; la generale esenzione fiscale che in tutti i regni l’aristocrazia aveva ottenuto; il gravare della tassazione diretta solo sulle campagne. Non si trattava di inseguire il sogno irrealizzabile di un rovesciamento del mondo, ma del bisogno più concreto di difendere livelli di vita incertissimi ed esposti a ogni possibile variazione. Per poter conoscere il potere d’acquisto consentito dal salario, dobbiamo conoscere i bisogni primari irrinunciabili. Diversi tentativi di calcolare il costo della vita sono stati fatti per l’Inghilterra o per la Toscana della metà del Trecento. Sono calcoli ipotetici; eppure, l’immagine che ci consegnano è ugualmente utile. Non esiste una chiara divisione fra «poveri» e «non poveri»; esistono condizioni diverse secondo i cicli di vita: se il salario medio di un operaio poco specializzato poteva essere sufficiente per un lavoratore celibe, il medesimo salario diventava drammaticamente insufficiente in caso di lavoratore con famiglia e due figli. Si aggiungevano poi variazioni impreviste come una carestia, un’epidemia o una guerra. Il dato che emerge dalle serie degli indici del potere d’acquisto calcolate per singole realtà medievali è proprio l’estrema variabilità negli anni. Più che la povertà in sé, era il rischio della povertà che pesava sulle economie urbane. 3. Povertà e assistenza: nuovi modelli di solidarietà e la promozione di élite sociali Per fronteggiare questa povertà ciclica, le società urbane tardomedievali elaborarono un complesso sistema di aiuti caritatevoli e di assistenza organizzata: ospedali, confraternite, chiese e monasteri si impegnarono nell’opera di redistribuzione delle donazioni ai poveri della città. Capire chi erano i poveri meritevoli di assistenza non era semplice. L’etica francescana era basata su un atto di volontà ispirato da una superiore conoscenza delle cose del mondo e dei suoi valori: non a caso era definita come povertà «volontaria». Diverso era il caso della povertà involontaria che colpiva gli indigenti di nascita e in generale i mendicanti. I poveri involontari non erano molto considerati dal mondo ecclesiastico. Fin dal tardo XII secolo, canonisti e teologi avevano distinto i poveri meritevoli, che erano grati della carità ricevuta e si impegnavano a trovare un’occupazione per sopravvivere, dai poveri oziosi che spendevano le elemosine in taverna senza lavorare. Il peccato (mortale) era proprio quello di appropriarsi di risorse destinate ad altri. Erano i religiosi a capire chi fosse veramente povero e di quanto avevano bisogno; ed erano quindi i religiosi a dover amministrare la carità pubblica. Gli ospedali per i malati si moltiplicarono: essi mantennero sempre un’attività di assistenza dei poveri, sia con la distribuzione diretta di elemosine, sia con l’assistenza domiciliare alle persone incapaci di muoversi. La maggioranza dei soggetti assistiti che ricevevano l’elemosina erano donne, che si presentavano come madri di famiglie numerose, come vedove, come malate o come giovani da sistemare. Le donne erano oggetto di tipi di assistenza garantita da istituti specializzati: ad esempio gli ospedali per il parto e le confraternite specializzate nel fornire le doti per le giovani donne povere, al momento del matrimonio. La funzione di dotare la giovane aveva anche un esplicito significato morale: salvare le giovani della città dalla prostituzione. Meritoria era l’assistenza ai bambini orfani e abbandonati accolti negli ospizi per infanti. Si chiariscono i nodi sociali e istituzionali che la carità metteva in luce. Da un lato bisognava far convergere tutte le donazioni e le elemosine verso istituti specializzati in opere pie selezionate da religiosi. Dall’altro si dovevano assistere insiemi di persone scelte in base alla loro capacità di mettere a frutto la beneficienza che la collettività aveva concesso. La messa in comune delle sostanze dei cittadini più facoltosi doveva favorire una redistribuzione controllata della ricchezza fra i poveri. Il modello cristiano dell’assistenza prevedeva ricchi generosi e poveri laboriosi. Per molti esponenti laici delle classi agiate, aiutare i poveri aveva anche un’altra funzione: evitare che torme di mendicanti girassero indisturbate per la città. I poveri potevano essere aiutati, ma non dovevano restare inattivi. Gli stessi orfanotrofi allevavano i ragazzi per avviarli al lavoro nelle botteghe «come figlioli». La ricchezza materiale, in beni e in denaro, non era mai stata del tutto condannata dal pensiero cristiano. Di per sé la ricchezza non era un male, ma facilmente poteva essere usata male. I minori francescano, insieme ai predicatori, furono all’avanguardia nella riflessione cristiana sull’economia pubblica della città. Il bene comune, pensiero cardine politico bassomedievale, era stato ripreso da un’immagine molto frequente nei testi biblici: i francescani attualizzarono la metafora del «monte» come luogo di concentrazione della grazie infinita di Cristo da distribuire a tutti. Quel termine fu trasferito alle nuove istituzioni laiche che dovevano mettere in comune le ricchezze della città per distribuire ai bisognosi in forme caritatevoli. Monti furono chiamati gli istituti pubblici fondati su capitali messi in comune con scopi morali. Nel Quattrocento, i nuovi monti a scopo caritatevole si specializzarono nell’assistenza di particolari categorie di persone.
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