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Storia Medievale (Vallerani), Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo del manuale di Storia Medievale (Provero-Vallerani)

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica Storia Medievale (Vallerani) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE INTRODUZIONE LE FORME DEL DOMINIO Così come tutti “periodi” storici, anche il Medioevo è una convenzione storiografica creata artificialmente, un contenitore di processi politici, sociali e religiosi estremamente diversificati, letti e selezionali dagli storici in modi molto differenti l’uno dall’altro: il Medioevo non è affatto una precisa tappa di un processo predefinito della società europea, bensì un intreccio di eventi e di struttura da ricostruire caso per caso, nel proprio significato storico. La storia può essere “totale”, ma non può identificarsi come una storia che semplicemente ricostruisce ogni manifestazione della vita umana, dal punto di vista delle strutture sociali, materiali, politiche, culturali e religiose: infatti, ciò porrebbe tutti gli eventi del processo storico su di un unico piano, risultando, in ultima istanza, fuorviante. La via più efficace per delineare il periodo medievale – e, più in generale, qualsiasi periodo storico – è individuare quella che due importanti storici francesi quali Jacques Le Goff e Pierre Toubert hanno definito “struttura globalizzante”, ovvero l’elemento fondamentale attorno al quale si collegano i diversi sviluppi della vita associata: in questo senso, pertanto, la storia “totale” deve avere come oggetto la comprensione dei legami esistenti fra queste strutture fondamentali e le altre componenti di una società. In questa prospettiva, la struttura globalizzante del periodo medievale è il “dominio”, termine con cui non si intendono solo i modi della sottomissione politica, che pure sono necessari per definire le gerarchie sociali, ma anche i meccanismi che potevano assicurare un controllo ampio della vita associata. L’attenzione alla trasformazione dei quadri socio-politici del Medioevo ha messo in luce alcune relazioni dinamiche che ricorrono con maggiore frequenza:  re-aristocrazie;  aristocrazia-Chiesa;  intellettuali-potere;  contadini-signori. La trattazione ha inizio nel IV secolo, quando si avviano alcuni importanti mutamenti del mondo romano, con l’affermarsi del Cristianesimo ai vertici imperiali e una connotazione sempre più barbarica dell’esercito, e termina con il XV secolo, al momento della formazione degli Stati nazionali e regionali che, pur nella loro instabilità, divennero gli elementi di base della dinamica politica europea nell’età moderna. Il quadro di riferimento dominante è senza dubbio l’Europa occidentale; al suo interno, tuttavia, la specifica realtà italiana assume, a tratti, un rilievo maggiore: come per il regno longobardo tra VI e XIII secolo; per la formazione dei comuni cittadini tra XI e XIII secolo; per gli Stati regionali e le compagini monarchiche dell’Italia meridionale fra XIII e XV secolo. PARTE I LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO INTRODUZIONE Storicamente, l’idea di “Medioevo” nasce quando il Medioevo finisce: infatti, a partire dal XV secolo, gli umanisti rinascimentali identificarono il periodo medievale come una “media aetas” che si frapponeva tra loro stessi e l’età classica, a cui esplicitamente si richiamavano. In tal modo, per affermare la propria diretta discendenza dalla cultura classica, essi connotarono il millennio precedente come un mero intermezzo, un periodo di barbarismi e di declino linguistico e culturale, una rottura che andava sanata. Gli uomini del Rinascimento – formati in una cultura che vedeva nello Stato il modello politico più alto – guardavano con perplessità e disprezzo al Medioevo – e, soprattutto, ai suoi ultimi secoli, caratterizzati da un’altissima frammentazione dei poteri di cui gli Stati rinascimentali apparivano come una cura. Allo stesso tempo, però, la nozione di “Medioevo” resta utile perché indica un periodo che si colloca tra due fasi di profondo mutamento pressoché di tutte le forme della vita associata:  da un lato, la trasformazione del mondo romano (tra il IV e il VI secolo);  dall’altro, la formazione dell’Europa moderna (tra il XIV e il XVI secolo). Il periodo di transizione dall’antichità al Medioevo fu una fase segnata da un sistema articolato di cambiamenti: non soltanto le invasioni barbariche, ma una profonda trasformazione delle forme di vita: cambiarono le fedi religiose, la distribuzione dei diversi popoli in Europa e nel Mediterraneo, i sistemi politici e le forme della circolazione economica. 1 Un mutamento così complesso non può ovviamente essere ridotto a una data precisa; tuttavia, possono essere proposte alcune date, ognuna delle quali rappresenta un’interpretazione del mutamento:  476 (fine dell’impero romano d’Occidente)  esprime l’idea che la struttura fondante del mutamento sia rappresentata dalle istituzioni più alte, dal titolo imperiale;  410 (sacco di Roma da parte dei Visigoti)  privilegia una lettura etnico-militare, con la libera mobilità dei popoli barbarici nei territori dell’impero;  324 (fondazione di Costantinopoli)  evidenzia i quadri territoriali e istituzionali, con la creazione di una nuova capitale, alternativa a Roma;  313 (editto di Milano)  individua nel mutamento religioso il fattore più connotante. CAPITOLO I: L’IMPERO CRISTIANO Il cosiddetto “tardo-antico” è visto come un periodo con suoi propri connotati, in un complesso e innovativo equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo centrale, la progressiva penetrazione di nuove popolazioni nei territori imperiale e nuove forme religiose. Inoltre, esso rappresenta una fase di intensi confronti tra diversi modelli di civiltà e di spiritualità, per lo studio della quale, tuttavia, bisogna tenere in conto importanti effetti distorsivi dovuti alle fonti disponibili, poiché, da un lato, le narrazioni di parte cristiana del confronto tra pagani e cristiani hanno rapidamente messo in secondo piano le posizioni pagane; mentre, dall’altro lato, lo scontro tra mondo romano e popolazioni barbare è narrato da testi esclusivamente di ambito romano. 1. IL SISTEMA IMPERIALE TARDO-ROMANO: POTERE E PRELIEVI Un momento fondamentale di transizione nella storia romana si ebbe intorno alla fine del II secolo d.C., quando sostanzialmente terminò l’espansione militare dell’impero, che si stabilizzò nei confini segnati, in ambito europeo, dal limes renano-danubiano: a partire da questo momento, si può far iniziare l’impero tardo-antico, che non era affatto uno spazio di civiltà omogeneo, dal momento che riuniva sotto di sé popolazioni molto diverse tra loro; tuttavia, le diversità erano ottimamente coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Il potere imperiale fu ripristinato con forza sotto Diocleziano, che pose fine ai decenni di anarchia militare e riaffermò un efficace controllo sull’intero territorio, condividendo, dal 285, l’imperium con Massimiano, in una vera e propria diarchia (in cui, comunque, Massimiano risultava subordinato a Diocleziano). Nessuno dei due Augusti risiedette a Roma, che, da questo momento, iniziò lentamente a perdere le funzioni di unica capitale (fino alla fondazione, sotto Costantino, di Costantinopoli, la Nova Roma), restando però sempre sia il centro simbolico dell’impero sia la sede del Senato. In seguito, questa polarizzazione tra Oriente e Occidente si accentuò quando la diarchia divenne una tetrarchia (293), con la scelta di due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono i due Augusti nella gestione dell’impero (che risultò territorialmente suddiviso in quattro zone di influenza e controllo). Nel corso del IV secolo, poi, due furono i passaggi fondamentali:  la fondazione di Costantinopoli  nel 324, l’imperatore Costantino decise di fondare, sul luogo dell’antica città greca di Bisanzio, una nuova città, a cui diede il nome di Costantinopoli: la Nova Roma nacque in funzione di residenza imperiale, come punto di riferimento potere imperiale nel Mediterraneo orientale. Ma, fin da subito, Costantinopoli si affiancò all’Urbe per la presenza di un Senato (assemblea che da sempre rappresentava il fondamento primo del potere romano); inizialmente, il Senato costantinopolitano era solo una sorta di appendice del Senato di Roma, ma, a partire dal V secolo, quando Costantinopoli divenne una vera e propria capitale, l’assemblea senatoria orientale divenne indipendente;  il regno di Teodosio e la sua successione  la maturazione di Costantinopoli come capitale imperiale contrapposta a Roma fu resa possibile anche dalla divisio imperii formulata da Teodosio – e attuatasi stabilmente in seguito alla sua morte (395) – per assicurare un più efficace controllo dei territori dell’impero, così diversificati tra loro e così duramente minacciati sul piano militare (in particolare, a settentrione e a Oriente). Nel 395, dunque, i figli di Teodosio, Arcadio e Onorio (coadiuvati inizialmente dal generale di origine barbarica Stilicone), ottennero rispettivamente l’Oriente e l’Occidente: quindi, è a partire dai decenni a cavallo tra IV e V secolo che è corretto ragionare in termini di impero orientale. Come che sia, una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un afflusso costante di denaro, per sostenere:  la burocrazia, che costituiva il capillare sistema di controllo diffuso su tutto il territorio imperiale;  la capitale, sia per la sua burocrazia centrale sia per il rifornimento di cibo gratuito o a prezzo contenuto che gli imperatori garantivano agli abitanti liberi di Roma;  l’esercito, che rappresentava un costo rilevante anche perché si trattava di un esercito stipendiato. 2 della coesione ideologica dell’impero, ma a ciò si univano indubbie ragioni di tipo economico (requisizioni ai danni dei cristiani) e un tentativo di orientare verso obiettivi pretestuosi l’ostilità popolare. Un mutamento radicale si attuò nei primi anni del IV secolo, dopo la grande persecuzione promossa dalla tetrarchia dioclezianea del 303-304: infatti, nel giro di poco tempo (tra il 311 e il 313), si arrivò alla libertà di culto per i cristiani, innescando un processo che, nel 380, portò Teodosio – seppur in un’ottica di netto realismo politico più atto a sanare i conflitti interni all’impero che legato a una spiritualità religiosa – a decretare il cristianesimo religione ufficiale dell’impero. Tre sono le tappe che, nel corso del IV secolo, scandirono questo processo:  Editto di Milano (313)  celebrato dalla propaganda cristiana antica come il provvedimento che segnò il primato del cristianesimo sulle altre religioni, in realtà, nella sua versione originale, esso altro non fu che una lettera edittale – pubblicata da Licinio e Costantino (i quali, forse, si limitarono a confermare e a porre in atto un decreto di Galerio del 311, che già aveva posto fine alle persecuzioni e sancito la libertà del culto cristiani) – che sanciva la libertà per tutti i cittadini dell’impero di professare qualsiasi forma di confessione religiosa e, perciò, anche il cristianesimo (espressamente citato come il credo religioso più diffuso). Ad ogni modo, la figura di Costantino resta però fondamentale, soprattutto perché fu la sua azione a rendere operativo il nesso tra potere imperiale e cristianesimo: in effetti, a partire da qui, tutti gli imperatori successivi (su tutti, Teodosio) individuarono nel cristianesimo una possibile ideologia unificante del frammentato mondo romano e, cioè, un nuovo fondamento di legittimità per lo stesso potere imperiale;  concilio di Nicea (325), deputato a giudicare la questione ariana  secondo il vescovo libico Ario, l’unicità di Dio impediva che Cristo, in quanto generato, potesse essere considerato consustanziale e coeterno al Padre: proprio in ragione del fatto che semplificava, rendendolo accessibile, uno dei dogmi di più difficile comprensione per i fedeli, l’arianesimo aveva avuto larga diffusione soprattutto fra le classi popolari, ma aveva profondamente diviso il popolo cristiano. Tuttavia, tale controversia rischiava di creare una spaccatura insanabile all’interno della cristianità, considerata preoccupante dallo stesso Costantino, soprattutto per i risvolti di conflitto sociale che andava innescando: così, l’imperatore promosse la convocazione di un concilio ecumenico, che aveva il compito di pronunciarsi in merito alla questione ariana. Questa volta, però, a differenza di quanto era accaduto con il precedente concilio di Arles (314), Costantino – ormai unico imperatore e unica autorità secolare presente – non solo prese parte al concilio, ma giocò un ruolo decisivo nella scelta del Credo (che ribadì il carattere consustanziale del Padre e del Figlio, “generato e non creato” e, dunque, “della stessa sostanza del Padre”) e nella condanna come eretici di Ario e dell’arianesimo. Ma va sottolineato che, nella scelta di quella che sarebbe divenuta l’espressione dell’ortodossia cristiana, incise in modo rilevante il fatto che essa era privilegiata dalle più alte gerarchie cristiane: dunque, la soluzione nicena, favorita e sostenuta da Costantino, fu in sé più politica che religiosa. In effetti, nei decenni successivi, essa faticò a imporsi tanto in Occidente quanto in Oriente, mentre l’arianesimo continuò a diffondersi presso la popolazione e, in Oriente, trovò anche l’appoggio imperiale (di Costanzo II e di Valente). Fu poi soltanto l’autoritaria e formale imposizione di Teodosio che decretò l’ortodossia nicena come unico orientamento religioso legittimo dell’impero;  Editto di Tessalonica (380)  il pieno consolidamento a livello imperiale del cristianesimo può essere colto in questo editto (e nel concilio di Costantinopoli del 381, in seguito al quale vennero messi al bando tutti i credi cristiani divergenti da quello niceno), con cui l’imperatore Teodosio proclamò il cristianesimo religione ufficiale dell’impero: da un lato, questa decisione diede il via a una più dura azione di repressione delle forme religiose giudicate eretiche; ma, dall’altro lato, questi furono i decenni in cui l’affermazione del cristianesimo compì un salto di qualità decisivo, con la massiccia conversione dei ceti più ricchi, il cui coinvolgimento, nel periodo precedente, era stato parziale e incerto. 4. VESCOVI E MONACI Se è possibile, alla fine del IV secolo, considerare il cristianesimo la religione dominante nell’impero romano – sia per quanto riguarda le posizioni del potere imperiale sia per la sua diffusione capillare presso tutti i ceti della popolazione sia, infine, per il ruolo guida assunto dall’aristocrazia senatoria – diversamente, non si può pensare alla Chiesa cristiana come a un’organizzazione unitaria, a una Chiesa universale fin dagli inizi: in questo periodo, piuttosto, la struttura ecclesiastica portante era costituita dalla singola diocesi, la comunità cristiana di una città e del suo territorio, raccolta attorno al vescovo. La centralità del vescovo nei confronti della società cittadina nasceva innanzitutto proprio dalla sua funzione religiosa, come principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza ultraterrena; ma questa efficacia si arricchì con il progressivo inserimento della grande aristocrazia senatoria all’interno delle gerarchie ecclesiastiche: pertanto, a costituire il prestigio dei vescovi concorsero non soltanto le loro funzioni religiose, bensì anche la loro identità sociale e familiare. Nei secoli seguenti, la figura del vescovo continuò a rivelarsi centrale, in quanto sui vescovi andarono progressivamente a concentrarsi le tradizioni istituzionali, culturali e religiose del tardo-impero: in questo senso, 5 perciò, i vescovi furono i principali veicoli della tradizione romana durante la formazione e lo sviluppo dei regni romano-barbarici. Tuttavia, non esisteva una struttura unitaria al di sopra dei singoli vescovi. Tra IV e V secolo, andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori, definite come “sedi patriarcali” – Roma (l’unica sede patriarcale occidentale e la più prestigiosa dell’impero, dal momento che il vescovo romano era il diretto successore di Pietro), Antiochia, Alessandria d’Egitto e Gerusalemme, alle quali poi si aggiunse Costantinopoli: esse non rappresentavano una vera e propria gerarchia, bensì soltanto un più alto coordinamento della struttura ecclesiastica; in effetti, l’importanza di queste città si fondava soprattutto su di una superiorità di prestigio. Ed è per questo che, in riferimento all’Alto Medioevo, per sottolineare la frammentazione all’interno della gerarchia ecclesiastica, è più corretto parlare di “chiese”, poiché la sola unità di inquadramento davvero efficace era costituita dalla singola diocesi. L’importanza centrale dei vescovi è anche dovuta al fatto che furono proprio i vescovi i protagonisti del processo di evangelizzazione all’interno dell’impero: un processo di acculturazione, di scambio, di sviluppo del cristianesimo in particolar modo nelle campagne, fatto che, attraverso la rielaborazione di luoghi, forme e oggetti di culti precedenti, diede vita a santi, santuari e reliquie, permettendo al culto cristiano di assumere connotati in parte nuovi. Ma vi fu anche un secondo livello di evangelizzazione, dai territori imperiali ai margini dell’impero, presso e oltre il limes; tuttavia, l’affermazione del cristianesimo nelle zone di confine ebbe forme e tempi diversi. In questo senso, esemplare è il caso delle isole britanniche: in Inghilterra, il primo radicamento del cristianesimo fu precedente alla caduta del dominio romano e, in seguito alla conquista anglosassone, le chiese cristiane furono poste ai margini e non riacquistarono vitalità fino al VI secolo; diversamente, l’Irlanda, pur esterna all’impero, si era orientata piuttosto precocemente al cristianesimo (già nel 431 abbiamo notizia dell’invio papale di un vescovo destinato ai cristiani irlandesi). La cristianizzazione di una regione come l’Irlanda, estranea alla tradizione romana e priva di città, assunse una fisionomia particolare, con una fortissima importanza nei centri monastici e una grande spinta missionaria, in direzione sia dell’Inghilterra, sia del continente. Il ruolo del monachesimo all’interno delle società alto-medievali europee fu estremamente rilevante, ma le sue origini vanno situate nel Mediterraneo orientale del IV secolo: la vita monastica sorge come una rinuncia, come una fuga dal mondo finalizzata a seguire un metodo tendente alla purificazione e all’avvicinamento all’Essere supremo; pertanto, il monachesimo è una forma di ascesi spirituale (che assunse connotati penitenziali soltanto nell’ambito del monachesimo cristiano). Ma, nel corso del IV secolo, gli ideali monastici si affermarono anche come una forma di tacita protesta, in vista della riaffermazione di un cristianesimo puro, di un modello di vita religiosa coerente ed estrema, di fronte alla “normalità” dei fedeli cristiani. Anzitutto, il monaco era mosso da una tensione verso Dio, che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo e la capacità di avere un animo imperturbabile dalle contingenze umane: in questo senso, lo scopo centrale della vita monastica era l’ascesi personale, il perfezionamento spirituale personale. Questo principio fondamentale si tradusse in una prassi comune a tutte le diverse esperienze monastiche: l’allontanamento dal mondo e dalla società civile; un rapporto continuo con le Sacre Scritture; la rinuncia alle ricchezze; la scelta di auto-sostenersi con il lavoro. La principale divaricazione all’interno della prassi monastica consiste nella differenziazione tra:  monaci eremiti (solitari)  nella Siria e nell’Egitto del IV secolo, troviamo i primi monaci cristiani eremiti, ovvero individui isolati che si dedicavano a una vita di preghiera e ascesi. Ben presto, gli eremiti più appariscenti ed estremi (come gli stiliti, che vivevano in cima alle colonne di edifici diroccati) vennero circondati da una fama di santità, che permise un rilevante flusso di elemosine e, di conseguenza, il loro sostentamento: in questi casi, è evidente come la scelta ascetica e penitenziale convivesse con una componente di esibizione e con una forte volontà di intervenire sulla società circostante;  monaci cenobiti (in comunità)  in parte in reazione all’esperienza appariscente degli “atleti di Dio”, le prime comunità cenobitiche nacquero attraverso la ricerca di un’ascesi più intima, equilibrata e meno esibita. Nella prima metà del IV secolo, in Egitto, la scelta cenobitica fu promossa da Pacomio, tramite la messa in comune di ricchezze, edifici e lavoro e, soprattutto, la creazione di una regola che definisse comportamenti e doveri dei monaci, dando vita a una gerarchia esplicantesi soprattutto nel rispetto fra monaci e nell’obbedienza e nella disciplina dei monaci rispetto all’abate. CAPITOLO II: BARBARI E REGNI Tradizionalmente, le “invasioni barbariche”, la caduta dell’impero romano d’Occidente e la conseguente formazione dei regni romano-barbarici sono state considerate i passaggi chiave della transizione dall’antichità al Medioevo. Il processo di affermazione politico-militare delle popolazioni germaniche fu un’evoluzione di grande rilievo, che mutò i quadri politici e le forme di vita delle popolazioni e influenzò profondamente i sistemi economici mediterranei. 1. MOBILITÀ DEGLI ESERCITI 6 Il crollo del limes renano nell’inverno 406-407 fu un avvenimento che aprì ampi territori dell’impero a nuove forze, finora rimastene ai margini, e che si configurò come il risultato di uno squilibrio strutturale, legato alle profonde difficoltà imperiali nel tenere sotto controllo gli eserciti: infatti, spesso, l’istituzione imperiale non aveva risorse sufficienti per pagare regolarmente gli eserciti, che, quindi, cercavano bottino con iniziative non controllate dall’impero stesso. Proprio a partire da queste difficoltà gestionali dell’impero, ebbero inizio i più intensi spostamenti degli eserciti germanici: la guerra divenne sempre più un’esperienza costante all’interno dei territori imperiali, con una miriade di piccoli e medi conflitti che portavano violenza e insicurezza, ma che, al contempo, erano un’occasione per ottenere ricchezza, prestigio e potere. Si trattò di movimenti tendenzialmente confusi, frammentati e, per questo, spesso difficili da ricostruire; tuttavia, alcuni di questi spostamenti furono l’espressione militare e politica di gruppi più definiti e coesi, di popoli che costruirono e mantennero la propria identità collettiva per diverse generazioni, fino a dare vita a regni duraturi e con una chiara fisionomia territoriale, come:  Visigoti  più volta ribellatisi al potere imperiale, guidati dal re Alarico, nel 410, essi assediarono e saccheggiarono Roma, per poi scendere verso la Calabria e, infine, risalire sino in Gallia meridionale, dove, tra il 414 e il 418, costituirono il proprio regno, formalmente federato all’impero, ma, de facto, con ampia autonomia. Questo regno mutò poi configurazione territoriale nel tempo, spostando il proprio baricentro verso la penisola iberica e durando per circa tre secoli;  Vandali  dopo aver valicato il limes renano, essi attraversarono la Gallia e, nel 417, furono confinati dal magister militum Flavio Costanzo (“successore” di Stilicone) nella penisola iberica. Tuttavia, nel 429, sotto la guida del re Genserico, essi mossero dalle loro sedi spagnole e mossero in Africa, dove furono accolti come liberatori dai contadini e dai donatisti; dopo aver conquistato Ippona (431), si videro riconoscere, tramite un foedus, il diritto di stabilirsi nelle due regioni di Mauretania e di Numidia (435), ma la loro presenza si estese progressivamente alla Proconsolare e alla Byzacena, ben più ricche e popolose delle prime: così, nel 442, l’Africa venne divisa fra Romani (a cui tornarono la Mauretania e la Numidia) e Vandali (a cui rimasero la Proconsolare e la Byzacena, che furono occupate in piena sovranità).  Unni  essi avevano rappresentato una minaccia quasi esclusivamente per l’impero d’Oriente, al quale il re Attila aveva estorto tributi sempre più pesanti. Ma la morte di Teodosio II (450) aveva portato sul trono di Costantinopoli Marciano, un ufficiale di origine trace, che si rifiutò di pagare agli Unni il consueto tributo: ciò spinse Attila a rivolgersi verso le province dell’Occidente e, nel 451, gli Unni invasero la Gallia, ma, dopo qualche successo, egli venne fermato dal magister militum Aezio. Ma già nel 452, Attila riprese le ostilità in Italia (saccheggiando Aquileia, Milano e Pavia), ma, in un incontro presso Mantova, venne convinto da un’ambasceria di senatori romani, guidati da papa Leone I, a lasciare la penisola: di là dell’agiografia, la scelta di Attila fu dettata dalla politica anti-unna di Marciano e dalla constatazione della povertà delle terre italiche, sconvolte dalla carestia e dalla peste. Ad ogni modo, Attila morì nel 453 d.C. e, con la morte del suo carismatico condottiero, anche la temibile potenza unna venne meno. In questi decenni, il potere imperiale continuava a essere un prestigioso obiettivo politico e militare, qualcosa per cui lottare, non solo qualcosa di cui liberarsi; tuttavia, come dimostra la lunga serie di destituzioni, congiure e scontri, la capacità di azione degli imperatori andava indubbiamente riducendosi, sia in termini di efficacia politica sia in termini di ampiezza territoriale. Eppure, se la fine della pars Occidentis dell’impero fu decretata anche dalle invasioni dei popoli barbari, il momento effettivo della deposizione dell’ultimo imperatore romano non fu legato a nessuna invasione: infatti, nel 475, il magister militum Flavio Oreste si ribellò a Giulio Nepote (imperatore d’Occidente) e occupò Ravenna, deponendolo e costringendolo a fuggire in Dalmazia; dopo alcune settimane di attesa, Oreste si risolse a elevare alla porpora il proprio figlio quattordicenne, Flavio Romolo Augusto (detto “Augustolo” per via della giovane età). Tuttavia, conoscendo la buona sorte toccata a Visigoti e Vandali, gli eserciti mercenari accampati a Milano e a Pavia reclamarono un analogo trattamento, ma Oreste non poté accontentarli, siccome ciò avrebbe significato espropriare le terre dei grandi proprietari fondiari. Pertanto, i barbari si ribellarono: dopo aver proclamato loro capo Odoacre, catturarono e uccisero Oreste e, poi, si diressero a Ravenna, dove deposero Romolo Augustolo (23 agosto 476 d.C.). Anziché nominare un nuovo imperatore, Odoacre ribadì per sé il titolo di rex e inviò le insegne imperiali d’Occidente a Zenone, imperatore d’Oriente e, dunque, ormai unico imperatore. La scelta di Odoacre di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricomporre l’unità imperiale, in quanto fu la presa d’atto che un imperatore d’Occidente non era più necessario, ma, anzi, soltanto una complicazione per un mondo romano che si andava polarizzando attorno all’unico imperatore dotato di effettivo potere, quello d’Oriente: in questo senso, Odoacre propose il proprio come un dominio che avrebbe dovuto integrare un’ampia autonomia militare con il riconoscimento dell’impero. Come che sia, Odoacre si impadronì solamente dell’Italia (ormai di fatto l’unico ambito di esercizio del potere degli imperatori d’Occidente, che, nel corso del V secolo, avevano progressivamente perso il controllo della Britannia, 7 La spinta militare anglosassone marginalizzò le popolazioni di origine celtica, che, dunque, si concentrarono nella Scozia meridionale, nel Galles e nell’Inghilterra sud-occidentale; al contempo, la conquista anglosassone ridusse – pur senza cancellarla del tutto – il peso della Chiesa cristiana: non solo il clero ebbe un ruolo politicamente trascurabile, ma la stessa religione cristiana subì un profondo regresso. Fu una rottura profonda, che ebbe conseguenze importanti non soltanto sul piano economico, ma anche su quello politico, dato che, a differenza di quanto avvenne nel continente, le strutture di governo britanniche non si costruirono sulla base di una rielaborazione delle strutture romane: per esempio, l’Irlanda non subì le invasioni sassoni che avevano trasformato la struttura politica della Britannia e, in più, fu sempre al di fuori del dominio imperiale e, dunque, non sviluppò mai un modello insediativo e organizzativo di tipo urbano; così, il re era incaricato di guidare la popolazione, ma agiva sulla base di norme che non aveva il potere di modificare. Inoltre, la frammentazione politica irlandese si riflesse nel processo di cristianizzazione, che si sviluppò lentamente, regno dopo regno: siccome non esisteva un re dominante, in grado di trascinare l’intero popola alla nuova fede, assunsero un peso particolare i grandi monasteri, che furono non solo luoghi di preghiera e di perfezionamento spirituale dei monaci, ma anche centri per la cura delle anime e per il controllo dei fedeli (in pratica, in Irlanda, gli abati assunsero anche le funzioni vescovili).  VANDALI I Vandali furono il primo popolo germanico a costituire un regno totalmente autonomo all’interno dei territori imperiali (ben prima di Odoacre o dei Franchi di Clodoveo) e fu l’unico popolo il cui stanziamento non fosse stato accompagnato da alcuna forma di trattativa con l’impero. La rottura più evidente tra i nuovi dominatori e la popolazione legata alla tradizione imperiale e alla cultura romana avvenne sul piano religioso, sul quale si sviluppò una dura contrapposizione tra l’arianesimo dei Vandali e la fede principalmente cattolica degli Africani: infatti, i Vandali condussero ampie persecuzioni ai danni delle chiese, sia perché erano detentrici di grandi ricchezze – e, quindi, ottime prede per il saccheggio – sia per motivi più specificamente religiosi (d’altronde, il significato della parola “vandalo” è frutto di una cattiva stampa di cui questo popolo godette presso tutti gli intellettuali cattolici, inorriditi dalla violenza delle persecuzioni, che non avevano pari nei territori già imperiali). Eppure, l’Africa vandala fu un contesto di stabilità dal punto di vista economico e, soprattutto, fiscale: in effetti, i Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo un modello pienamente romano, con esiti importanti per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza. In seguito, con il distacco dell’Africa dall’impero, le tasse prelevate in questa ricca regione non andarono più a sostenere le ingenti spese del governo imperiale, permettendo ai sovrani vandali di accumulare notevoli ricchezze nel corso del secolo del loro dominio africano. Tuttavia, la fine del sistema fiscale imperiale non fu priva di conseguenze anche per l’economia africana, in quanto comportò un calo della domanda e, conseguentemente, innescò un calo produttivo che, a lungo termine, mutò strutturalmente i funzionamenti economici della regione. In più, la forza fiscale ed economica del regno vandalo non implicò un’analoga solidità sul piano politico-militare, principalmente a causa della mancata integrazione dei diversi popoli: così, quando l’impero ebbe la forza di progettare un’espansione da Oriente nel Mediterraneo occidentale, il regno vandalo venne assai rapidamente travolto.  VISIGOTI Nel processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali, possiamo distinguere approssimativamente tre fasi:  nel corso del V secolo  stanziamento tra il sud della Gallia e la penisola iberica: il primo insediamento stabile nello spazio politico romano risale al 418, quando i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa, nella Gallia meridionale. Dal punto di vista degli equilibri territoriali, un passaggio chiave fu la battaglia di Vouillé (507), dove il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II;  prima metà del VI secolo  riduzione del proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi e influenza dell’egemonia ostrogota di Teoderico. Nel complesso, fino alla metà del VI secolo, il dominio visigoto appare segnato da una ripresa di modelli politici romani, ma anche da una notevole instabilità e da una semplificazione economica, caratterizzate da una forte frammentazione dei circuiti commerciali;  seconda metà del VI secolo  conquista della penisola iberica (Leovigildo) e consolidamento della propria presenza con la creazione di un regno con capitale Toledo ed elaborazione di nuove forme di governo e di convivenza con la popolazione di cultura romana (Reccaredo promosse la conversione del popolo visigoto al cattolicesimo). 10 CAPITOLO III: LA SIMBIOSI FRANCA I Franchi furono il popolo barbaro che fu in grado sviluppare con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una vera e propria simbiosi, un’unione profonda, che fornì le basi per la costituzione di un nuovo popolo, in grado di integrare e sviluppare diverse culture politiche; inoltre e proprio per questo, nel giro di due secoli, i Franchi riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa, ponendo le basi per la straordinaria espansione carolingia dell’VIII secolo. 1. CLODOVEO Il punto di partenza più ovvio per trattare del regno franco sembrerebbe Clodoveo, il re che tra il V e il VI secolo affermò il proprio dominio su gran parte della Gallia: egli fu una figura centrale nella memoria collettiva del regno franco e poi francese (tanto che Clodoveo – Clovis, Louis – fu il nome più utilizzato dai re di Francia, fino a Luigi XVIII). Tuttavia, il suo potere non nacque da un’improvvisa invasione della Gallia, ma fu l’esito di una lenta ascesa all’interno di territori in cui i Franchi erano stanziati da tempo: dobbiamo quindi ripartire da questo stanziamento e dalla Gallia tardo-antica. Una caratteristica specifica di questa regione tra IV e V secolo fu la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche e, nello specifico, la volontà di occupare sistematicamente le funzioni vescovili: infatti, la cultura, la ricchezza e le funzioni pastorali erano nelle mani dei vescovi e ne fecero i detentori di un importante potere nei confronti della comunità cittadina. In tal modo, si attivò una sorta di circolo virtuoso: siccome le sedi vescovili erano ricche e potenti, attiravano l’attenzione delle famiglie senatorie, la cui occupazione delle cariche vescovili ne aumentava ulteriormente il rilievo. E fu proprio in Gallia che l’aristocrazia senatoria entrò in modo massiccio ad occupare le sedi vescovili. Su questa regione prese il potere, nel corso del V secolo, il popolo dei Franchi, una confederazione di tribù che, tra il IV e il V secolo, avevano lentamente seguito processi diversi di romanizzazione (per esempio, pur non essendo nomadi, erano comunque estranei alle idee di latifondo e di città). Anche dal punto di vista religioso, i Franchi non costituivano un insieme compatto, seppur con una prevalenza del paganesimo, integrato da elementi di arianesimo. Ad ogni modo, in un contesto di progressiva marginalizzazione del potere imperiale, i Franchi si affermarono in Gallia non solo come una componente importante dell’esercito romano, ma come uno dei principali attori politici della regione. La prima figura di riferimento fra i Franchi fu Childerico I (metà V secolo), il quale intraprese una campagna militare contro i Visigoti, connotando l’azione militare del suo popolo in senso religioso, come lotta contro l’arianesimo, e, in tal modo, guadagnandosi una nuova legittimazione agli occhi dei Gallo-romani e, soprattutto, dei vescovi. Succeduto al padre nel 481, Clodoveo attuò un’efficace politica militare che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia, dove il definitivo declino dell’impero d’Occidente e la lontananza dall’imperatore d’Oriente avevano lasciato spazio a una pluralità di dominazioni: nei confronti di questi regni germanici, Clodoveo operò un’efficace espansione militare, che gli permise di sottomettere i Burgundi e di ridurre drasticamente il dominio di Visigoti in Gallia (battaglia di Vouillé del 507), segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale, i Merovingi. Alla presa del potere, nel giro di pochi anni, fece seguito la conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo cattolico: fu un fatto religioso, ma con importanti implicazioni politiche, perché la rapidità della conversione fece sì che, in questo regno, non si innescassero quei meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa presenti in altre popolazioni (come nei casi degli Ostrogoti, dei Visigoti e dei Vandali). Ma l’impatto della conversione sugli equilibri interni del mondo franco fu decisamente più esteso: prendendo le mosse dalle vittorie militari del re, Gregorio di Tours – forse il più importante vescovo della storia franca – descrisse come Clodoveo avesse realizzato di essere sostenuto dalla potenza di Dio; tuttavia, l’intervento determinante per la conversione di Clodoveo fu quello della moglie, la quale mise il re in contatto con Remigio, vescovo di Reims, considerato un uomo di santità tale da poter essere paragonato a Silvestro, il papa che aveva battezzato l’imperatore Costantino. Fu poi Remigio a completare la conversione del re, la cui scelta trascinò l’intero esercito, che si convertì e venne battezzato. I due elementi chiave di questo racconto sono, da un lato, la centralità dei vescovi, che trasmisero ai Franchi la religiosità e la cultura cristiana di tradizione romana, e, dall’altro, l’assimilazione di Clodoveo a Costantino, il primo imperatore cristiano, il quale, lungo l’Alto Medioevo, ritornò costantemente come modello per tutti i sovrani (Clodoveo “s’avvicinò al lavacro come un nuovo Costantino, per essere liberato dalla lebbra antica”). La narrazione di 11 Gregorio è importante perché è l’espressione diretta dell’ideologia vescovile, ovvero di quel sistema di potere che si era costruito proprio a partire dalla conversione di Clodoveo, con la piena convergenza dei vescovi attorno al potere regio: un’ideologia che diede al re franco una fortissima legittimazione. Ma l’integrazione tra Franchi e Gallo-romani si sviluppò a livelli più profondi del solo incontro tra regno e vescovi: fu l’unione delle due aristocrazie – ossia la creazione di un gruppo sociale dominante unitario – con uno stile di vita che fuse modelli di comportamento proveniente dalla tradizione romana (attenzione per il latifondo; radicamento in città; occupazione delle cariche ecclesiastiche) e da quella germanica (capacità militari; vicinanza al re; legami clientelari). In tal modo, nel corso del VI secolo, si creò un’aristocrazia mista, che combatteva e accumulava terre, che era sì vicina al re, ma che, al contempo, era attenta a radicarsi nella città, che tesseva reti clientelari e che occupava cattedre vescovili. 2. LE CHIESE FRANCHE E LA DIFFUSIONE DEL MONACHESIMO IN OCCIDENTE La rapida conversione dei Franchi al cattolicesimo e la convergenza dell’aristocrazia attorno alle sedi vescovili favorirono l’affermarsi di un modello di vescovo aristocratico, ricco e potente, e, pertanto, l’assommarsi nelle mani vescovili di una molteplicità di risorse e funzioni. Anzitutto, il vescovo era il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale: la città e il territorio circostante dovevano far riferimento al vescovo per tutto ciò che riguardava la “cura delle anime”, ovvero l’insieme di azioni pastorali e sacramentali tese a garantire la salvezza dopo la morte. Al contempo, però, i vescovi erano portatori di cultura, soprattutto letteraria e politica, in quanto possedevano una conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani: così, nella loro azione locale e nel loro affiancare i re a corte, i vescovi orientarono il sistema politico franco verso funzionamenti che ripresero modelli di tradizione romana. Infine, i vescovi erano ricchi e tale ricchezza (dovuta sia alla condizione agiata di classe sia alle offerte dei fedeli) ne faceva dei grandi patroni: infatti, i vescovi si ponevano al vertice di ampie clientele, coordinando e orientando le azioni di settori importanti della società cittadina. Tutti questi processi si accentuarono ulteriormente sia perché i re si appoggiarono politicamente alle capacità vescovili più di questo facesse il potere imperiale sia perché, nel VI secolo, a occupare le cattedre vescovili fu un’aristocrazia che stava elaborando una straordinaria forza politica e patrimoniale, valorizzando sia la tradizione senatoria romana sia quella militare franca. Eppure, le sedi vescovili non furono i soli enti religiosi importanti nella società franca del VI secolo, perché un peso di rilievo dev’essere attribuito ai monasteri. Nell’espansione del monachesimo a Occidente, risulta particolarmente significativa la vicenda di Martino di Tours: figlio di un ufficiale dell’esercito imperiale e anch’egli soldato (stanziato in Gallia), egli decise di convertisti alla vita religiosa come monaco, per poi essere scelto come vescovo di Tours (dove morì nel 397, circondato da una fama di santità). La figura di Martino di Tours risulta essere fondamentale, in quanto, già a partire da Clodoveo, i re franchi fecero di Martino un punto di riferimento della propria religiosità e un patrono del regno. E al centro di questa devozione fu proprio la scelta ascetica – il passaggio da militare a monaco – a testimoniare l’impatto che il monachesimo ebbe nell’immaginario religioso della società franca appena cristianizzata. È importante notare, a questo proposito, come mondo monastico e mondo vescovile fossero tutt’altro che separati: infatti, i grandi monasteri (come quello di Lérins) furono un bacino di reclutamento importante per i vescovi. Per comprendere appieno la diffusione e la rilevanza del monachesimo in Gallia, occorre considerare le esperienze monastiche di altre aree, che incisero profondamente sulle vicende franche: in Africa, a Ippona, sant’Agostino promosse forme di vita religiosa in comunità (inizio V secolo); soprattutto, però, è necessario far riferimento all’Italia, che, fra V e VI secolo, fu il terreno di affermazione di una grande varietà di esperienze monastiche (san Gerolamo a Roma alla fine del IV secolo e il Vivarium fondato da Cassiodoro sotto Teoderico). Una varietà di esperienze monastiche che dimostra come, seppur, nei secoli successivi, prevalse in modo netto il modello benedettino, inizialmente esso fu soltanto una delle tante forme assunte dal monachesimo in Italia nel VI secolo. Benedetto nacque a Norcia attorno al 480 e, dopo aver studiato a Roma, si allontanò dalla città per vivere una serie di esperienze ascetiche (prima eremita, poi cenobita e, infine, abate), che culminò nel 529, con la fondazione dell’abbazia di Montecassino, dove scrisse la sua Regola (un testo opera di un monaco e abate espero, che aveva vissuto forme diverse di monachesimo e che si era scontrato con le difficoltà del gestire una comunità) e dove morì nel 547. La Regola – che Benedetto scrisse rielaborando un precedente testo anonimo, noto come Regola del maestro – è fondata sul alcuni semplici principi e sulla conoscenza della natura umana e dei suoi limiti, che indusse Benedetto a proporre una forma di ascesi moderata: di base, la Regola proponeva un modello di vita ascetica in cui la principale attività dei monaci era la preghiera, mentre il lavoro trovava un posto del tutto marginale (il testo non contiene la celebre formula “ora et labora” per cui spesso è ricordato); dal punto di vista organizzativo, Benedetto propose una comunità semplice, in cui la solidarietà orizzontale tra monaci si integrava con l’obbedienza all’abate, che doveva controllare i suoi sottoposti e interpretare la Regola, adattandola alle esigenze specifiche (così, se si volesse riassumere la Regola benedettina in una formula, sarebbe “prega e obbedisci all’abate”). Inoltre, un dato di rilievo è il collegamento che Benedetto (forte delle sue esperienze precedenti) creò tra comunità ed eremiti: infatti, la Regola 12 modificarono vistosamente, ancor più delle campagne: questa trasformazione dei centri urbani dev’essere collegata alla rottura della coerenza fiscale dell’impero e alla conseguente semplificazione dei circuiti mediterranei di scambio. In generale, in tutte le città dell’impero, la rottura del quadro politico comportò una riduzione significativa sia delle ricchezze sia della disponibilità di beni provenienti da altre regioni: dunque, il cambiamento urbano dev’essere letto alla luce delle reti di scambio interregionali e dei sistemi regionali di produzione e scambio.  RETI Per comprendere i meccanismi della circolazione economica e le forme di interdipendenza tra regione diverse è utile soffermarsi sui beni di massa, di consumo (ovvero sulle materie prime alimentari e sugli oggetti di uso più comune): la città di Roma e gli eserciti limitanei erano in larga parte mantenuti grazie alle produzioni cerealicole di regioni come l’Egitto, la Tunisia o la Sicilia, con trasferimenti che non erano propriamente commerciali, bensì fiscali e che erano sostenuti da un sistema di infrastrutture (porti, strade...) che rese possibile anche uno scambio propriamente commerciale tra le diverse regioni. La prima grande rottura fu rappresentata dalla conquista vandala della Tunisia (439), che interruppe l’asse fiscale che collegava Cartagine a Roma e che garantiva alla capitale il regolare rifornimento – di matrice fiscale – di grano nordafricano: in particolare, lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme più specificamente commerciale e non fiscali, nel senso che Roma continuò a rifornirsi di questo grano, ma lo fece per via commerciale e, di conseguenza, si trattò di meno grano e di un rifornimento molto più oneroso per l’impero. Così, Roma dovette mantenersi su risorse molto più ridotte (le terre laziali e il patrimonio del suo vescovo), avviando un processo di profonda riduzione degli scambi, attestato anche dal fatto che le produzioni africane subirono una drastica riduzione, attestata dall’abbandono di laboratori e officine.  PRODUZIONE Il quadro produttivo delle regioni mediterranee ed europee dei primi secoli del Medioevo è segnato da una fortissima varietà, ma anche da alcuni caratteri e tendenze comuni, come la domanda delle élite aristocratiche (la cui ricchezza appare inferiore a quella delle aristocrazie romane dei secoli precedenti e non tale da sostituire il prelievo fiscale dell’impero, che ovunque in Occidente cessò tra V e VI secolo) e la struttura produttiva agraria di base, che si concentrava sempre attorno ai tre prodotti fondamentali – grano, olio e vino. Le differenze nascevano da molti fattori:  la specializzazione produttiva era un carattere molto adatto al sistema economico e fiscale romano, ma fu un fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamento e ridotta circolazione;  le ricchezze delle aristocrazie delle diverse regioni erano diverse e ciò condizionò pesantemente la domanda e, dunque, la produzione delle singole regioni;  i danni conseguenti alle guerre furono molto diversi da regione a regione;  il mantenimento, in alcuni regni, del sistema fiscale di tradizione romana indusse una maggiore pressione sulla popolazione e, quindi, una maggiore produzione. Dopo la rottura del legame fiscale con Roma, l’Africa romana si trovò a fronteggiare un calo produttivo, dato che la domanda aristocratica interna e l’esportazione per via commerciale non erano tali da sostenere un sistema produttivo che si era modellato per rispondere alla domanda fiscale dell’impero e della sua capitale; nemmeno la riconquista bizantina (534) portò alla ricostituzione di un sistema fiscale che coinvolgesse l’intero Mediterraneo, ma solamente a un prelievo destinato a contribuire al mantenimento della capitale, Costantinopoli, e a garantire la difesa della stessa Tunisia. L’Italia fu un’area a fortissima frammentazione economica, con prodotti artigianali che circolavano a raggio assai limitato. La rottura più profonda si attuò nel corso del VI secolo, dapprima con la lunga guerra di riconquista imperiale ai danni degli Ostrogoti (la cosiddetta guerra greco-gotica), che provocò profondi danni materiali e umani; in seguito, con la conquista longobarda, che contribuì a rendere ancora più profonda la frammentazione dell’area, spartita ora tra due dominazioni contrapposte, imperiale e longobarda. Nel regno franco, lungo il VI secolo, si assistette a un lento abbandono del sistema di prelievo fiscale; tuttavia, un dato di fondo di quest’area fu la ricchezza e, quindi, la forte domanda dell’aristocrazia, ben attestate già in età merovingia e poi accentuate in età carolingia. Caso opposto è la Britannia, dove, già all’inizio del V secolo, si constata una struttura sociale debolmente gerarchizzata, a causa della rottura totale delle reti commerciali, di una netta semplificazione dei manufatti e di una produzione ceramica esclusivamente locale. Nel complesso, pertanto, la rottura tra l’impero a est e i regni romano-barbarici a ovest fu una separazione di destini politici, ma anche di funzionamenti economici: mentre, nel Mediterraneo orientale, si conservò una rete di scambi ampia e fondata sull’azione statale, che, grazie alle produzioni di regioni come l’Egitto, la Sicilia e la Tunisia, permise di mantenere sia la capitale sia gli eserciti limitanei, diversamente, in Occidente – sia nelle aree mediterranee sia in quelle settentrionali – questo sistema non si conservò, spostando la circolazione e lo scambio su dimensioni 15 propriamente regionali, in un contesto di generale calo della popolazione connessa ad aristocrazie che, in generale, erano più povere di quelle antiche.  CONTADINI I contadini rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione – forse il 90-95%: una massa enorme, deputata a fornire i prodotti di base destinati a garantire sia la propria sussistenza sia lo stile di vita dell’élite, oltre che, in età antica, a mantenere l’esercito e l’enorme popolazione della capitale e delle altre città. In linea molto generale, si può dire che l’autonomia contadina è inversamente proporzionale alla ricchezza aristocratica: infatti, le forti concentrazioni di ricchezza fondiaria in mano aristocratica riducono i contadini circostanti a lavorare come servi, salariati o coloni degli aristocratici; diversamente, quando la quota di terra in mano aristocratica è minore, possiamo più facilmente trovare piccoli proprietari contadini, la cui sussistenza non dipende dalla volontà di un padrone. Se, quindi, gli spazi di azione economica autonoma da parte dei contadini variavano significativamente da regione a regione, le loro condizioni materiali di vita non mutarono in modo sensibile, dato che la più elaborata produzione artigiana e i prodotti di importazione non erano mai stati accessibili a questa quota di popolazione: per cui la crisi della produzione e degli scambi non incise in modo rilevante sullo stile di vita contadino. 2. LE AMBIZIONI UNIVERSALI DELL’IMPERO DI GIUSTINIANO Nel corso del IV secolo, la pars Orientis dell’impero romano era andata gravitando sempre più chiaramente attorno alla città di Costantinopoli: fondata nel 324 da Costantino, la Nova Roma non aveva assunto immediatamente la funzione di capitale, ma piuttosto di residenza privilegiata dell’imperatore, affiancato da un Senato che rappresentava una sorta di sede distaccata di quello romano. Alla fine del secolo, però, Costantinopoli si pose al centro di un dominio che comprendeva gran parte del Mediterraneo orientale e meridionale e, nel corso del V secolo, in parallelo al declino di Roma e delle altre residenze imperiali in Occidente e al più generale squilibrio tra le due partes imperii, Costantinopoli divenne la capitale dell’impero romano, riuscendo a opporre un freno efficace alle spinte barbariche (soprattutto in virtù della maggior tranquillità politica ed economica). I nuovi e più ridotti orizzonti territoriali non mutarono in modo rilevante i funzionamenti del potere e, lungo il V secolo, Costantinopoli si pose in diretta continuità con l’impero cristiano del secolo precedente, in particolare sotto tre aspetti:  le successioni al trono imperiale  la successione imperiale non si era mai fondata su una semplice e diretta ereditarietà: il modello romano tradizionale attribuiva al consenso del popolo il primo fondamento della legittima successione al trono e su questo si era innestata una visione cristiana che collegava l’ascesa al trono alla volontà divina. Di fatto, nessuna norma o prassi stabile aveva mai guidato le successioni imperiali. Una tale fluidità dei meccanismi di successione si riprodusse lungo tutto l’Alto Medioevo orientale: infatti, a Costantinopoli, non esisteva una dinastia imperiale e la lotta politica di vertice si espresse anche nei ripetuti tentativi di occupare il trono, un obiettivo che non era precluso anche a figure di origine relativamente umile (per esempio, l’imperatore Giustino era un militare di famiglia contadina che, dopo aver compiuto una grande carriera all’interno dell’esercito, era asceso al trono nel 518). Pertanto, la dinamica politica nell’impero era intessuta di scontri, guerre civili e lotte per l’accesso al trono, che, in assenza di una chiara e univoca norma che regolasse le successioni, si risolvevano sulla base di concreti rapporti di forza;  l’organizzazione burocratica  la continua instabilità politica era compensata anzitutto dalla stabilità dell’apparato burocratico, il motore che garantiva il regolare funzionamento della macchina imperiale: in questa fase, diversamente da quanto accadde in Occidente, nell’impero, si conservò la separazione tra incarichi militari e civili, che impedì fenomeni di eccessiva concentrazione dei poteri nelle mani di un singolo funzionario;  il sistema fiscale  questo sistema burocratico fu il principale strumento per gestire il prelievo fiscale. In continuità con l’impero dei secoli precedenti, si prelevavano regolari tasse sulle persone e sui loro beni: la tassa fondamentale era la cosiddetta annona, un’imposizione che integrava un prelievo sulle terre ( iugatio) e sulle persone su di esse insediate (capitatio). Ovviamente, quest’azione fiscale richiedeva la produzione di un complesso sistema documentario e amministrativo per accertare i patrimoni e le persone presenti (catasti), per prelevare le imposte, per obbligare i cittadini al pagamento e, infine, per aggiornare periodicamente i catasti: un peso burocratico considerevole che scoraggiò progressivamente i diversi regni barbarici dal procedere a queste operazioni; nell’impero, per attenuare queste difficoltà amministrative e, soprattutto, per rendere più stabili le entrate fiscali, si cercò di vincolare le persone alle terre, vietandone lo spostamento verso altri fondi e dando così vita alla figura dei coloni (persone giuridicamente libere, ma vincolate alla terra, su cui erano obbligati a risiedere e lavorare). 16 L’organizzazione di questo sistema burocratico e fiscale richiedeva la presenza di percorsi di formazione scolastica, in particolare in campo giuridico; un sistema di alta formazione che fu alla base della grande riforma legislativa di Giustiniano (528-565), che si espresse nella redazione del Corpus iuris civilis, un insieme articolato di testi giuridici, nato con l’obiettivo di dare vita a un Codice legislativo unitario e coerente. Pertanto, nel 528, Giustiniano affidò tale compito a una commissione di sette giuristi, che già l’anno seguente poté presentare all’imperatore il Codex, una raccolta delle principali norme imperiali dall’età di Adriano (fine del II secolo) fino al 529. Successivamente, nel 533, i giuristi di corte presentarono all’imperatore sia il Digesto, una raccolta organizzata e fortemente selettiva di scritti giuridici, sia le Institutiones, testi destinati all’insegnamento universitario del diritto; infine, nella seconda parte del regno di Giustiniano, furono pubblicate le Novellae, le nuove disposizioni imperiali, emanate dopo la redazione del Codex. Questi quattro testi (Codex, Digesto, Institutiones e Novellae) andarono a costituire il Corpus iuris civilis, che, quindi, nacque anzitutto da un’esigenza di funzionalità (eliminare i testi ormai anacronistici, risolvere le contraddizioni e le sovrapposizioni); ma, da questa esigenza pratica, si arrivò a una ridefinizione profonda del diritto e delle sue fonti, alla produzione di sistemi testuali destinati non solo all’uso pratico e giudiziario del diritto, ma anche alla riflessione e all’apprendimento. Il campo giuridico fu quello in cui Giustiniano lasciò il segno più importante e duraturo, ma, all’epoca, le sue azioni più vistose furono sicuramente quelle condotte sul piano militare e territoriale, nel tentativo di riconquistare l’Occidente e, dunque, di riunificare l’impero; un tentativo che poggiava su tre premesse fondamentali:  la relativa tranquillità del limes persiano permise all’impero di alleggerire questo fronte e destinare truppe ad altri scopi;  l’ampia riflessione giuridica e politica condusse a un rafforzamento ideologico e a una riaffermazione della centralità e del ruolo universale dell’impero;  infine, la politica fiscale e l’alleggerirsi dell’impegno bellico a est garantirono il consolidamento finanziario e una nuova prosperità. Questi tre elementi stimolarono e resero possibile la tutela dei mari e della navigazione nei confronti di una diffusa pirateria più o meno organizzata, attraverso il consolidamento della flotta imperiale, che, a sua volta, divenne lo strumento per avviare spedizioni di conquista verso Occidente, nel tentativo di ricreare l’unità mediterranea romana: in questa prospettiva, il primo obiettivo fu il regno vandalo di Tunisia, che, tra l’altro, era la principale minaccia alla sicurezza della navigazione mediterranea e la cui riconquista avrebbe consentito di riprendere possesso delle sue grandi produzioni agrarie e artigianali (che, fino a un secolo prima, avevano rifornito Roma). Tra il 533 e il 534, le truppe imperiali, guidate dal generale Belisario, conquistarono il regno vandalo con una certa facilità, a testimonianza di una debolezza strutturale del regno africano. Tuttavia, ben più faticose furono le altre campagne imperiali: sia la Spagna visigota sia, soprattutto, l’Italia ostrogota (535-553) misero in atto una straordinaria resistenza, che prolungò drasticamente la durata dei conflitti, causando ingenti danni materiali e umani. Dopo circa vent’anni di conflitto, Narsete (subentrato a Belisario) riuscì a sconfiggere Totila e a riportare l’Italia sotto il controllo di Giustiniano, il quale decise di costituire la sede centrale del potere imperiale a Ravenna (e non a Roma, per evitare scontri con i pontefici); era, però, un’Italia disastrata, così come disastrata era la situazione dell’aristocrazia senatoria: non a caso, immediatamente dopo la conquista, Giustiniano emanò la Prammatica sanzione (554), una norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila, soprattutto per quanto riguarda i possessi, dal momento che la ricchezza dell’aristocrazia senatoria rappresentava il primo necessario fondamento politico e fiscale del potere imperiale. Tuttavia, la fragilità del dominio imperiale in Italia emerse con chiarezza pochi anni dopo (568), quando i Longobardi valicarono le Alpi e diedero il via a una conquista lunga, violenta e discontinua, che entrò in conflitto con gli interessi dell’impero (guerra greco-gotica) e in seguito alla quale vennero a crearsi “due Italie”:  i Longobardi dominavano la Pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento;  all’Impero, restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del Meridione continentale e le grandi isole. Pertanto, il confine tra Longobardi e impero non era una linea netta e semplice, ma una trama fitta e complessa di territori e confini: di fatto, quasi ogni punto del territorio italiano era nei pressi del confine. Dal punto di vista territoriale, l’eredità di Giustiniano fu complessivamente fragile: l’Africa restò imperiale per un secolo, fino alla conquista araba; in Spagna, il consolidamento del regno visigoto non lasciò spazio alla presenza 17 (e, dal matrimonio tra la figlia di Pipino e il figlio di Arnolfo, nacque un sistema parentale potentissimo, che si andò affermando nell’intera dominazione franca, a partire proprio dalla carica di maestro di palazzo attribuita a Pipino). In ogni regno franco, il maestro di palazzo (o maiordomus) era il punto più alto di potere al di sotto del re: infatti, il maiordomus era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e metteva in atto le decisioni regie; un ruolo di grandi potenzialità, che, nei decenni successivi, divenne l’obiettivo specifico della famiglia pipinide, la cui notevole forza si espresse con chiarezza nei momenti in cui un suo esponente (come Carlo Martello all’inizio del VII secolo) riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni che andavano a costituire la dominazione franca. In questo senso, se non era possibile prendere direttamente il controllo del regno e sebbene tale regno fosse diviso in ambiti politici distinti, i maestri di palazzo Pipinidi ne garantivano una sostanziale unità. In più, mentre i Merovingi avevano costantemente consolidato il proprio potere affermando, sul piano simbolico, la propria diversità dall’insieme dell’aristocrazia, diversamente, i Pipinidi si mossero dall’interno dell’aristocrazia, legando a sé, per via clientelare (soprattutto, in termini di forza armata), le maggiori famiglie austrasiane. L’Austrasia – l’area di più profondo radicamento dei Pipinidi – era una regione dominata da un’aristocrazia ricca di terre e a forte orientamento militare: fu proprio la capacità di coordinare i vari poteri di questa aristocrazia che fondò la forza dei Pipinidi. La centralità della componente militare è ben esemplificata dalla vicenda di Carlo Martello, maiordomus di Austrasia, di Neustria e di Burgundia, morto nel 741: già il suo soprannome, “Martello” (= piccolo Marte), mette in luce la centralità della componente militare nell’immagine che Carlo volle trasmettere di sé; ma la sua forza militare fu fondamentale per trasformare una condizione politica incerta in un dominio sull’intero spazio politico franco: con la battaglia di Poitiers (732) – che, in sé, non fu una battaglia di grande rilievo militare, ma mise fine a incursioni e saccheggi – Carlo sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica, fatto che, dagli storici più vicini alla dinastia, venne esaltato come momento determinante per salvare il regno dalla minaccia islamica. Tuttavia, Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, Pipino III (o Pipino il Breve), a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi Merovingi; ma è chiaro che già a partire dai primi decenni dell’VIII secolo la famiglia pipinide si muoveva in una prospettiva di pieno controllo del regno franco, per quanto l’accesso alla corona fosse probabilmente ritenuto illegittimo. Così, il mito dei “re fannulloni” – ovvero degli ultimi re merovingi come incapaci e nullafacenti – è, appunto, un mito costruito dalla corte carolingia nel IX secolo, per riaffermare, a distanza di anni, la legittimità del proprio colpo di Stato del 751. Ma, indubbiamente, i re merovingi dell’VIII secolo si erano indeboliti: forse, il consolidato e indiscusso controllo della corona attenuò l’impegno dei Merovingi a costruire il consenso, a elaborare i rapporti con l’aristocrazia; e fu proprio su questo terreno che i Pipinidi seppero minare l’egemonia merovingia. La capacità dei Pipinidi di agire in una prospettiva ampia si può cogliere anche osservando l’appoggio dato da Carlo Martello e dal figlio Pipino III alle missioni del monaco Wynfrith nelle regioni orientali dell’attuale Germania. Wynfrith era un monaco originario del Wessex, che papa Gregorio II nominò vescovo e inviò come missionario tra Turingi, Frisoni e Sassoni, dove operò dal 722 al 754; un vescovo senza diocesi, la cui missione di costruzione di legami venne lungamente appoggiata da Carlo e Pipino e la loro azione ci dice tre cose importanti sulla politica pipinide di questi anni:  l’apertura verso i territori orientali;  la tutela delle chiese e della loro espansione;  i collegamenti indiretti con il vescovo di Roma, poiché Pipinidi e papato convergevano nella protezione di Wynfrith. Sarà soltanto nel contesto del colpo di Stato del 751 che il legame Pipinidi-papato acquistò rilievo, divenendo un’alleanza stabile, con importanti implicazioni territoriali. 2. TERRE E UOMINI Le gerarchie sociali alto-medievali erano in larga parte costruite sulla base della ricchezza fondiaria: in sostanza, essere ricco significava avere molte terre. In tutta Europa, il popolamento era infinitamente più basso di quello attuale e le campagne alto-medievali erano uno spazio a bassissima densità abitativa: infatti, il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i terreni coltivati, mentre era probabilmente piuttosto raro l’insediamento sparso (ovvero singole case contadine isolate). La forma più diffusa di insediamento era, appunto, il villaggio, che non si identificava come un semplice insieme di abitazioni, ma risultava dall’integrazione tra case e terre: in questo senso, il villaggio si presentava come un nucleo di case contadine attorno a cui si sviluppavano una serie di cerchi concentrici, che comprendevano le principali risorse agrarie (dagli orti ai campi coltivati e pascoli). La divisione tra campi e pascoli era un’alternanza d’uso delle stesse terre: infatti, il modo più efficiente per concimare la terra era di usarla periodicamente come pascolo, per cui si adottava in genere un sistema di rotazione biennale; in tal modo, su tutti i campi si alternavano un anno di sfruttamento per la cerealicoltura e un anno di riposo e di arricchimento e concimazione della terra grazie al pascolo. Data la diversa specializzazione delle terre (orti, campi, prati) e questa alternanza di usi, è naturale che la terra di una singola famiglia contadina non fosse concentrata in un 20 singolo settore del territorio del villaggio, ma fosse frammentata e dispersa, a coprire le diverse esigenze economiche della famiglia. All’esterno dei campi e dei prati, si trovavano grandi distese boschive e incolte; tuttavia, è importante sottolineare che “incolto” non significa affatto “improduttivo”. Dal bosco, la società traeva molte risorse: si prendeva la legna, principale materiale da costruzione e fonte di riscaldamento; si raccoglievano frutti più o meno spontanei; si allevavano gli animali (soprattutto i maiali, grandi riserve di proteine); si cacciava; si pescava. In questo senso, i boschi 2 erano beni comuni, gestiti e sfruttati collettivamente dagli abitanti del villaggio. In generale, i villaggi alto-medievali furono un contesto di integrazione di diversi sistemi produttivi e alimentari, l’espressione concreta della fusione latino-germanica. In tutte le regioni d’Europa, convivevano grandi e piccole proprietà, con equilibri e rapporti molto diversi da zona a zona: dove la grande proprietà era dominante, re, aristocratici e chiese disponevano di una maggior capacità di condizionamento della società circostante, perché un maggior numero di contadini era costretto, per sopravvivere, a coltivare terre dei potenti e, quindi, a dipendere dalle loro concessioni e dalla loro benevolenza; era un rapporto economico, ma anche una relazione di dipendenza sociale più ampia, che possiamo comprendere attraverso l’analisi delle forme di organizzazione e digestione delle grandi aziende agrarie. Tra il VII e l’VIII secolo, si andò elaborando una peculiare forma di gestione delle grandi proprietà fondiarie, la cosiddetta curtis: un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in molti villaggi diversi, inframmezzati alle terre di altri grandi e piccoli proprietari. In pratica, la curtis non era un’unità fisica e territoriale, bensì un’unità gestionale, alla quale facevano capo centinaia di appezzamenti più o meno grandi, dispersi in molti villaggi diversi, spesso posti a parecchi chilometri dal centro: questa dispersione aveva il vantaggio di garantire al proprietario produzioni diversificate e un ruolo importante in villaggi diversi. In questo senso, è utile precisare che curtis e villaggio erano due strutture completamente diverse, ma entravano continuamente in interferenza. La principale articolazione della curtis era la suddivisione tra due parti profondamente integrate della stessa azienda:  dominicum  parte gestita direttamente dal proprietario (o signore, dominus), spesso tramite un proprio agente, con l’impiego di manodopera servile. È evidente che il dominicum fosse il centro della curtis: qui si concentravano gli interessi del signore, attento soprattutto a garantire la produttività di queste terre. Inoltre, dalla struttura del dominicum e dalle sue specializzazioni produttive dipendeva tutta l’organizzazione della curtis e, in particolare, l’ampiezza e la distribuzione delle corvèes;  massaricium  parte suddivisa in terre date in concessione a contadini liberi, che ottenevano ognuno un manso, ovvero un insieme di terre e prati sufficienti a mantenere la propria famiglia. Ovviamente, nei confronti del proprietario, il massaro aveva un insieme di obblighi che talvolta comprendeva un censo in denaro, spesso una quota di prodotti e sempre una serie di corvées, cioè giornate di lavoro che il massaro doveva compiere sul dominicum e che, dunque, garantivano al proprietario l’afflusso sul dominicum di una manodopera abbondante negli specifici momenti dell’anno in cui era necessaria. Seppur il sistema avesse dei limiti importanti (a partire dalla rigidità degli obblighi di lavoro dei massari, che non si adattavano agli andamenti dei raccolti), la curtis era un modello gestionale adeguato al contesto economico complessivo, a debole circolazione monetaria: infatti, il sistema curtense era adatto a garantire una flessibilità di manodopera quando non sarebbe stato applicabile un sistema basato su censi in moneta e salariati stagionali. Inoltre, va precisato che, in sostanza, la distinzione tra dominicum e massaricium corrispondeva alla distinzione tra servi (impiegati stabilmente a lavorare sul primo) e liberi (che ottenevano le terre del secondo): in questo senso, nello stesso villaggio, uomini che vivevano fianco a fianco si trovavano a dover rispondere diversamente a un ricco proprietario, siccome chi era massaro era legato al signore da un contratto, mentre chi era servo era proprietà del signore. 3. RETI DI SCAMBIO È importante capire come si sia formata l’idea della curtis come sistema chiuso e autosufficiente, che a lungo è stata dominante nella medievistica. Il punto di partenza è costituito da alcune leggi emanate in piena età carolingia e, in particolare, il Capitulare de villis (ossia la “Legge sulle curtes”): in questa norma – emanata da Carlo Magno – si prevede che ogni curtis abbia al proprio interno ogni tipo di attrezzo e di artigiano, offrendo indubbiamente un’immagine di autosufficienza economica. Tuttavia, la legge è sempre la costruzione di un ideale e non è mai una raffigurazione della realtà: qui, per esempio, Carlo Magno non descrive come funzionano le curtes in generale, bensì come dovrebbero funzionare le curtes regie. Eppure, una condizione di autonomia economica non era attuabile nelle grandi aziende dell’aristocrazia e delle chiese (e, di fatto, neanche in quelle regie): in effetti, le fonti attestano la presenza di mercati settimanali, attraverso cui i prodotti delle curtes potevano confluire verso le città, i centri demici a maggiore concentrazione, con la massima 2 Constatiamo una distinzione tra due termini apparentemente sinonimi: da un lato, il nemus (= bosco), uno spazio non coltivato, ma antropizzato, ovvero vissuto, curato e sfruttato dalle comunità contadine; dall’altro lato, la silva (= foresta), i boschi lontani e inaccessibili, estranei allo spazio antropizzato e usati in modo più sporadico da aristocratici e re per la caccia. 21 quantità di popolazione non contadina, che, dunque, cercavano costantemente un regolare afflusso di derrate dalle campagne, dove erano situati i maggior centri di produzione – appunto, le curtes (che potevano diventare esse stesse centri di mercato). In generale, comunque, lo scambio commerciale di prodotti agrari era fortemente condizionato dai grandi proprietari fondiari, in grado di portare sul mercato grandi quantità di prodotti e, pertanto, di determinare di fatto i prezzi; tuttavia, proprio la capacità commerciale dei grandi proprietari fondiari poteva rendere per loro più interessante prelevare censi in natura piuttosto che in denaro: infatti, accumulando i prodotti del dominicum e del massaricium, potevano rappresentare una forza commerciale notevole, in grado di condizionare il mercato locale, e, quindi, nel complesso, guadagnare somme maggiori di quelle che avrebbero potuto trarre dai censi in denaro pagati dai singoli contadini. Questa circolazione commerciale dei beni prodotti nelle curtes dev’essere inserita in un più ampio contesto di scambi e di circolazione monetaria: lungo il VI secolo, la coniazione monetaria romana andò semplificandosi drasticamente, lasciando spazio a una molteplicità di zecche disperse per i diversi regni europei e a una netta prevalenza della monetazione in argento. Il sistema monetario destinato ad affermarsi a livello europeo fu definito dai Carolingi nei primi decenni del loro regno: la base di riferimento era la libra, una libbra d’argento, che era divisa in 20 solidi, a loro volta divisi in 12 denarii; tuttavia, va precisato che librae e solidi erano dei puri valori di conto, non delle monete reali: l’unica moneta che veniva effettivamente coniata era il denarius. Ma esso non era una moneta di uso corrente, per le azioni economiche quotidiane (che passavano attraverso scambi di oggetti e servizi); piuttosto, il denarius era una moneta destinata al commercio e agli acquisti di terra: quindi, una moneta d’uso, ma non di uso quotidiano. La diffusione delle monete indica la costituzione di reti commerciali, che, in questi secoli, coinvolsero in modo nuovo l’Europa settentrionale: in questo senso, la comparsa di monete franche in Inghilterra e in Frisia nell’VIII secolo è l’espressione, sul piano economico e monetario, di un più ampio processo di coinvolgimento dell’Inghilterra e dell’Europa settentrionale in un sistema di civiltà europeo e cristiano che si stava polarizzando attorno all’egemonia franca. Il surplus agrario derivante dall’accresciuta pressione aristocratica (tramite l’organizzazione curtense) permise un consolidamento demografico dei centri urbani della Neustria e dell’Austrasia, ma trovò uno sbocco anche verso il mare, in un interscambio commerciale con le coste settentrionali; tuttavia, prima di tutto, lo scambio commerciale era uno scambio economico tra le élite poste sulle diverse sponde del mare, fra le quali il popolo franco – per il suo prestigio e per la superiorità del suo artigianato – assumeva un ruolo privilegiato in questi scambi. Questo scambio commerciale diede vita a un peculiare e nuovo sviluppo insediativo, con la nascita degli emporia, ossia di centri abitati con finalità specificamente commerciali, organizzati attorno ai porti e segnati da un rapido sviluppo demografico: gli emporia furono l’espressione fisica e concreta dello strutturarsi di un nuovo sistema di scambio nella vasta area che va dalla Manica al mar Baltico, direttamente connesso all’egemonia economica del mondo franco (così, nel corso dell’VIII secolo e del IX secolo, si registra una notevole espansione degli emporia, mentre la fine della dominazione carolingia segnerà il declino di molti di questi porti). Inoltre, lo sviluppo degli emporia del mare del Nord diede un forte impulso alla vitalità commerciale di questi secoli, che trovò punti di riferimento importanti nelle fiere che si tenevano a cadenza regolare in luoghi di rilievo politico e spesso religioso (come a Saint- Denis, presso Parigi, e a Piacenza). CAPITOLO II: NUOVI QUADRI POLITICI: IL REGNO LONGOBARDO Il regno longobardo fu la prima dominazione germanica in Italia a porsi in netta contrapposizione con l’Impero; tuttavia, al contempo, i Longobardi rappresentarono una dominazione esclusivamente italiana, prima che la conquista franca unisse la penisola a un quadro politico molto più ampio (in cui sarà inglobata per tutto il medioevo); infine, del regno longobardo, risulta utile dire che esso dovette convivere con le ambizioni egemoniche del papato, in una contrapposizione politico-territoriale che assunse anche connotati religiosi, tra Longobardi ariani e Romani cattolici. Le informazioni disponibili per quanto concerne l’età longobarda derivano soprattutto da due grandi testi: da un lato, la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono (inizio del IX secolo); dall’altro lato, la raccolta delle leggi promulgate dai re longobardi, a partire dall’editto di Rotari del 643. Sono fonti straordinarie e di notevole importanza, ma va sempre tenuto presente che esse contengono numerosi elementi di distorsione della realtà. 1. I LONGOBARDI IN ITALIA In base alla formazione dei regni romano-barbarici, potremmo definire la dominazione longobarda come un regno “di seconda generazione” che, imponendosi un secolo più tardi degli altri, affrontò problemi simili in un contesto profondamente mutato, di egemonia franca su larghi settori dell’Europa occidentale e di profonda ridefinizione dell’impero orientale. Se molti popoli germanici avevano a lungo vissuto alla periferia del sistema politico romano, i Longobardi erano all’estrema periferia: non del tutto separati da questo mondo, ma con contatti sporadici e influssi deboli. È probabile 22 consolidata. Un compito fondamentale avviato da Gregorio fu la rifondazione su nuove basi del ruolo politico della città di Roma (la cui centralità era ormai tramontata, anche in seguito alla scomparsa, in questi anni, del praefectus Urbis e del Senato romano): per i vescovi di Roma, la debolezza dell’impero in Italia era sicuramente un problema, ma anche un’opportunità interessante, un vuoto di potere che permetteva di agire su piani politici e amministrativi; e, in effetti, in questi secoli, tutti i vescovi erano figure centrali non solo dal punto di vista religioso, ma anche sociale e politico. Dal punto di vista politico, con Gregorio Magno, si constata un importante salto di qualità: infatti, contrattando con i Longobardi e cercando di definire forme di equilibrio tra due dominazioni che erano profondamente intrecciate dal punto di vista territoriale, egli (seguito dai suoi successori) si propose come vertice politico dell’Italia centrale, a sostituire un potere imperiale lontano e spesso assente. In questa prospettiva, le ambizioni papali al dominio sull’Italia furono fondamentali nel determinare la persistente tensione e l’ostilità nei confronti del dominio longobardo. Effettivamente, la capacità di intervento imperiale in Italia era discontinua e, in alcuni momenti, fu particolarmente debole, come nel periodo tra la metà e la fine del VII secolo, quando l’impero dovette affrontare le pressioni militari di Arabi, Bulgari e Àvari, la cui convergenza portò a una profonda crisi militare, alla perdita del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, fino all’assedio della stessa Costantinopoli da parte degli Arabi nel 717. Più in generale, dunque, queste ricorrenti crisi della capacità di azione imperiale in Italia favorirono un’ulteriore polarizzazione della società italiana attorno alle grandi sedi vescovili e, in particolare, attorno a Roma. 3. CRESCITA E FINE DEL REGNO Una delle principali fonti scritte per lo studio di questa età è rappresentata dalle leggi promulgate dai re longobardi a partire dall’editto di Rotari (643), la cui redazione va posta nel contesto del regno di Rotari (636-652), che, da un lato, estese il dominio longobardo verso alcune aree rimaste fino ad allora in mano imperiale (come la Liguria e parte del Veneto) e, dall’altro lato, avviò la trasformazione delle strutture interne al regno, con un progressivo indebolimento del potere ducale e un rafforzamento del potere regio (come la messa per iscritto delle leggi). Nell’editto, Rotari pose subito al centro la propria persona, anzitutto datando le leggi secondo gli anni del suo regno e quelli della sua vita, specificando, peraltro, che la redazione del testo ha avuto luogo nel centro fisico del potere regio (nel palazzo regale di Pavia). In seguito, egli dichiara che la legge non viene trascritta, bensì promulgata e che il suo scopo è di integrare le norme e di eliminare quelle superflue: in altre parole, non si tratta affatto di una passiva trascrizione delle consuetudini, ma di un’azione innovativa, di cui Rotari si proclama autore. Infine, si introduce il tema della memoria: di nuovo, però, non è memoria delle leggi, ma dei predecessori di Rotari. Sostanzialmente, l’editto pone in piena evidenza l’inviolabilità del re e, al contempo, individua nella volontà regia ciò che distingue la violenza lecita da quella illecita, rivendicando una più forte centralità regia, un pieno dominio sui sudditi: così, sebbene la connotazione etnica non scompaia, più importante risulta essere la connotazione politica, l’identificazione del popolo come insieme delle persone sottomesse allo stesso re. Quindi, Rotari ricorda il passato, ma vuole intervenire sul presente; ed è per questo che le sue leggi sono una fonte particolarmente preziosa per leggere le condizioni dell’Italia longobarda a metà del VII secolo: una società impoverita, principalmente rurale, in cui il principale e pressoché unico fondamento della ricchezza era costituito dalla terra; un mondo dominato da un’élite militare che articolava la propria capacità di agire sul piano militare e politico anche grazie all’uso delle fedeltà personali. Su tutto ciò cercò di imporsi il potere regio. Da Rotari in poi, i re Grimoaldo, Liutprando, Ratchis e Astolfo promulgarono costantemente nuove leggi: in questo senso, il dato davvero rilevante è che l’attività legislativa divenne un’azione normale dei re, l’espressione di una loro prerogativa riconosciuta; pertanto, la serie delle leggi costituisce l’espressione chiara del rafforzamento del potere regio. L’espansione territoriale avviata da Rotari fu proseguita da Grimoaldo (662-671), che ampliò il dominio longobardo sul Veneto e si spinse fino in Puglia, soprattutto in virtù di una straordinaria crescita militare longobarda e della declinante capacità di intervento dell’impero (che, tra l’altro, lasciarono spazio a un quadro politico italiano polarizzato attorno a due soli protagonisti: il regno longobardo e il papato). Inoltre, Grimoaldo fu il primo ad ampliare l’editto di Rotari con un piccolo gruppo di nuove leggi, procedendo nella tendenza al rafforzamento del potere regio; che, tuttavia, dovette sempre convivere con l’egemonia ducale sulla società: in effetti, nel corso del VII secolo, al fianco del tradizionale meccanismo di elezione regia, emerse anche una tendenza dinastica. Pertanto, la seconda metà del VII secolo evidenzia una serie di mutamenti che, nel complesso, delineano una tendenza al rafforzamento del potere regio, sia sul piano militare e territoriale nei confronti del dominio imperiale, sia sul piano politico nel confronto con gli altri poteri attivi all’interno del regno; una tendenza che si accentuò significativamente sotto il regno di Liutprando (714-744), durante il quale ebbe luogo un tentativo di rafforzamento delle tendenze dinastiche. 25 Militarmente, Liutprando agì su di un orizzonte pienamente italiano, nella prospettiva di costruire un dominio longobardo sull’intera penisola; tuttavia, Liutprando non arrivò mai a dominare l’Italia intera, ma questa fu una possibilità reale e concreta, di cui tutti i protagonisti – soprattutto il papato – ebbero chiara coscienza. Sul piano legislativo, Liutprando intervenne ampiamente nell’integrazione dell’editto di Rotari, in vista del consolidamento delle prerogative del regno e, soprattutto, di una chiara ideologia cattolica del regno, impegnato a estirpare usanze di matrice pagana e a proteggere le chiese: non è solo questione di conversione al cattolicesimo, ma di trasformazione dell’ideologia del potere regio, che si presentava ora come cattolico, protettore della fede e delle chiese. Tuttavia, questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte e stabile collaborazione con i vescovi, fatto che privò il regno di un sostegno materiale (con le ricche risorse fondiarie delle chiese), politico (con la loro capacità di condizionare e orientare la coscienza dei fedeli) e culturale (poiché le chiese erano in questa fase pressoché i soli centri di elaborazione di una cultura scritta di alto livello). Di particolare rilievo, sotto Liutprando, è anche l’istituzione dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio, ma il cui impatto fu significativo anche sul piano politico: infatti, il re poté disporre di una rete di funzionari dispersi nel regno che andarono a costituire un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi, un canale di efficace comunicazione politica tra il re e i sudditi; inoltre, a partire da Liutprando, non solo i duces, ma anche i sovrani si dotarono di gasindii (fedeli armati). Così, è possibile notare come i re longobardi fossero attivi sia nel costruire una trama di legami personali sia nell’affermare la condizione speciale di chi faceva parte di questa rete: in effetti, gastaldi e gasindii andarono a costituire, a diverso titolo, una rete di fedeltà raccolta attorno ai re; in altre parole, essi divennero rappresentanti del re, un compito che, per contro, i duces non assunsero mai. Dunque, attorno alla metà del secolo VIII, il regno longobardo si era consolidato al proprio interno e, al contempo, si era ormai completato il lungo processo di integrazione tra Romani e Longobardi, a costituire un popolo al cui interno non era più possibile alcuna distinzione etnica: un evidente segno di questa integrazione è, nelle leggi emanate da re Astolfo nel 750, la normativa sugli obblighi militari, senza alcun riferimento a una distinzione etnica, in quanto tutti coloro che abitavano nel regno e che dipendevano dal potere regio dovevano farsi carico dell’attività militare. E proprio il compimento del lungo processo di assimilazione fu la premessa della fine del regno longobardo. Negli anni centrali dell’VIII secolo, l’equilibrio politico tra Franchi, Longobardi e papato si ruppe definitivamente: la tensione e la ricorrente conflittualità tra Roma e i Longobardi arrivò una rottura insanabile e questo orientamento papale si saldò con la crescente potenza dei Pipinidi/Carolingi; in particolare, i papi videro nei re franchi dei validi protettori della Chiesa romana, a sostituire un impero ormai incapace di intervenire efficacemente in Italia e a contrapporsi a un regno longobardo le cui ambizioni sull’Italia centrale erano evidenti. Così, l’alleanza tra il papato e i Carolingi si concretò in due spedizioni:  dapprima, nel 751, Pipino il Breve scese in Italia e sconfisse il re Astolfo, togliendo ai Longobardi la regione di Ravenna e consegnandola alla Chiesa di Roma;  in seguito, nel 771, il figlio Carlo Magno sconfisse nuovamente i Longobardi, questa volta in modo definitivo: deposto il re Desiderio, egli si impossessò del regno annettendo l’Italia centro-settentrionale al dominio franco (774). La conquista franca pose fine al regno longobardo, ma non alla storia del popolo: infatti, dopo aver annesso i territori longobardi al proprio regno, Carlo si intitolò rex Francorum et Langobardorum e il regno d’Italia (con capitale Pavia) fu una delle grandi partizioni dell’impero carolingio. Eppure, dopo il 774, i Longobardi non vissero solo nella memoria: l’antico ducato di Benevento sopravvisse come dominazione autonoma, nonostante i ricorrenti tentativi franchi di sottometterlo. CAPITOLO III: IMPERO CAROLINGIO, ECCLESIA CAROLINGIA L’impero carolingio non solo fu la realtà politica più ampia del Medioevo occidentale, ma trasformò profondamente molti aspetti della vita associata, come le reti di scambio, il ruolo delle chiese e del papato e il funzionamento della giustizia. Pertanto, questo rappresenta un capitolo chiave: nello straordinario sviluppo politico e territoriale dell’impero carolingio, vediamo venire a maturazione le elaborazioni dei regni alto-medievali; qui si compì la più alta simbiosi tra potere regio e potere sacerdotale, si aprirono orizzonti culturali e commerciali prima assenti. Da sottolineare che l’impero carolingio e l’ecclesia carolingia fossero due realtà in piena simbiosi; in altre parole, impero ed ecclesia non erano Stato e Chiesa, ma due modi per leggere la stessa realtà, che convergevano entrambi, con strumenti diversi, verso un doppio fine: la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. 1. DAL REGNO ALL’IMPERO I regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale – i Pipinidi – che seppe costruire un potere egemone sull’intero mondo franco, grazie ad alcune azioni politiche:  l’iniziatica militare; 26  la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia d’Austrasia;  l’occupazione della carica di maiordomus nei diversi regni franchi;  la protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith, promosse dal papato nelle regioni orientali dell’attuale Germania. Il momento in cui Pipino III depose il re Childerico III e assunse il trono (751) dev’essere inteso come il punto di arrivo di un lungo processo di consolidamento del potere pipinide nei regni merovingi. In questo contesto, poco chiaro è il ruolo del papato: negli Annali del regno dei Franchi, per meglio legittimare l’azione di Pipino, l’intervento papale viene posto prima dell’incoronazione; tuttavia, nella deposizione di Childerico, l’effettivo ruolo papale fu minimo e la scelta nacque fondamentalmente all’interno del mondo franco: infatti, fu la grande aristocrazia a raccogliersi attorno ai Pipinidi e ad attuare, attraverso l’intervento cerimoniale dei vescovi, la sostituzione della dinastia regia. Ad ogni modo, il colpo di Stato si attuò rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma (simbolo della sua forza) e procedendo al rito dell’unzione del nuovo re Pipino, da parte del monaco Wynfrith (ed è a questo punto, ad approvare ciò che era già avvenuto, che intervenne papa Zaccaria). Il nesso papato-Pipinidi divenne rilevante pochi anni dopo: infatti, nel 754, il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, contro la ricorrente minaccia longobarda, l’impero di Bisanzio non era più in grado di offrire un sostegno efficace; pertanto, egli guardò al nuovo re dei Franchi, superando le Alpi per incontrarlo a Saint-Denis, dove ripeté l’unzione sia del re sia dei suoi figli (Carlo e Carlomanno), a legittimare il cambio dinastico, ovvero a sancire l’idea che il carisma regio non fosse legato solo alla persona di Pipino, ma all’insieme del gruppo parentale. Con una tale azione, papa Stefano non cercava solo un alleato contro i Longobardi, ma piuttosto un potere che assumesse in modo permanente le funzioni di protezione della Chiesa di Roma, che l’impero non era più concretamente in grado di assolvere: così, a Pipino venne attribuito il titolo di patricius (ovvero di protettore della Chiesa di Roma). La più immediata conseguenza dell’incontro del 754 fu la spedizione di Pipino in Italia, contro i Longobardi e il loro re Astolfo (che, negli anni precedenti, aveva conquistato l’Esarcato ravennate, terra imperiale su cui aveva ambizioni egemoniche il papato): non fu un’azione di conquista, ma piuttosto, coerentemente con le esigenze papali, un’azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti del papato e delle terre imperiali. Così, Pipino scese in Italia, sconfisse Astolfo, lo costrinse a restituire al papato le terre conquistate e, infine, rientrò in Gallia. Tuttavia, questa spedizione non avviò un periodo di tensione tra Franchi e Longobardi; anzi, dopo la morte di Pipino (768), i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari; sarà poi dopo la morte di Carlomanno (771) che Carlo si sarebbe mosso in una più chiara prospettiva di espansione, rompendo i rapporti amichevoli con Longobardi e Bavari. Come che sia, la tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato come parte del patrimonio del re e che, perciò, fosse diviso tra tutti i suoi figli maschi: un modello di trasmissione del potere che non ebbe affatto fine con il passaggio del regno nelle mani dei Pipinidi/Carolingi, i cui membri principali (Pipino, Carlo e Ludovico il Pio), di fatto per novant’anni (751-840), poterono governare in qualità di unico re dei Franchi; e ciò contribuì non poco a dare forza alla loro azione. Ad ogni modo, rimasto unico re dei Franchi (per la morte del fratello Carlomanno nel 771), Carlo, nel giro di pochi anni, avviò un’impressionante campagna di espansione territoriale, che gli meritò l’appellativo di “Magno” e che lo portò a costituire un dominio comprendente larga parte dell’Europa occidentale; in questa prospettiva, la conquista più importante fu sicuramente quella del regno longobardo d’Italia, in quanto Carlo dovette qui affrontare la struttura politico-territoriale più definita e, soprattutto, in quanto fu con la conquista dell’Italia che il rapporto con il papato fece un salto di qualità fondamentale, premessa per la trasformazione del regno in un impero. Con la conquista carolingia, la geografia politica dell’Italia non subì una semplificazione, ma piuttosto un’ulteriore articolazione tra:  aree franche (la parte centro-settentrionale del regno longobardo);  aree bizantine (gran parte dell’Italia meridionale);  aree papali (il Lazio, ma anche la Romagna, contesa alla volontà di controllo bizantina);  aree longobarde (l’area che faceva capo a Benevento). Pertanto, la sottomissione al dominio franco non cancellò del tutto l’identità politico-territoriale dell’Italia longobarda, anche perché lo stesso Carlo operò per conservarne alcuni elementi: si intitolò rex Francorum et Langobardorum; conservò la capitale a Pavia; assimilò progressivamente l’aristocrazia longobarda dall’interno del proprio apparato di governo. Ma l’azione militare di Carlo non si limitò all’Italia. Ma, se l’espansione verso la penisola iberica fu modesta (una serie di brevi conflitti che portarono alla costituzione della cosiddetta marca Hispanica, la fascia territoriale immediatamente a sud dei Pirenei), invece, fu di grande rilievo l’azione verso le terre poste a oriente e, in particolare, in Sassonia, dove Carlo mise in atto un’iniziativa bellica tendente in modo più deciso alla conquista, sia territoriale sia religiosa: infatti, i Sassoni erano pagani. Tuttavia, non si deve pensare a una specie di crociata ante litteram, in quanto lo scopo principale di Carlo era la sottomissione e l’assimilazione dei Sassoni, contesto in cui la dimensione religiosa, 27 immunità – concessi di norma a chiese e raramente a singoli individui – vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o per amministrare la giustizia; in tal modo, si definiva un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre, dal punto di vista fiscale, si trattava indubbiamente di un’ampia esenzione. Tuttavia, tali diplomi non possono essere letti come un diretto indebolimento del potere imperiale: piuttosto, essi erano forme di riequilibrio tra i diversi elementi (apparato funzionariale, patrimonio fiscale e chiese) che andavano a costituire la forza degli imperatori e, quindi, erano strumenti del governo regio. L’importanza delle chiese solidali con il potere imperiale è la collaborazione alla costruzione della memoria del popolo franco e della dinastia carolingia, destinata a legittimarne e a celebrarne il potere. 4. DALL’IMPERO AI REGNI Gran parte del IX secolo può essere letta come una fase di sostanziale continuità nei funzionamenti politici: in generale, il potere regio fondava la propria forza sul coordinamento efficace dell’aristocrazia (tramite i rapporti di fedeltà e gli incarichi funzionariali) e delle chiese. Abbiamo visto come la continuità da Pipino III a Ludovico il Pio avesse assicurato la presenza di un solo re (e poi imperatore) dal 751 all’840, ma non avesse cancellato una cultura politica che vedeva nel potere un elemento del patrimonio regio, destinato a trasmettersi ereditariamente a tutti i figli maschi: pertanto, durante i decenni di potere di Carlo Magno e Ludovico il Pio, si sviluppò sotto traccia la tensione tra una concezione unitaria dell’impero e le aspirazioni dei diversi membri della famiglia regia. Il problema si pose anzitutto a Carlo nei primissimi anni del secolo, di fronte alla prospettiva di una divisione tra i suoi tre figli:  Carlo, a cui destinò la parte centrale del dominio;  Ludovico, insediato in Aquitania;  Pipino, a cui assegnò l’Italia, di cui era già stato incoronato re nel 781. Nella prospettiva politica dell’imperatore, non si trattò di una semplice spartizione, bensì di un atto con implicazioni più complesse: la Divisio regni (806) individuò diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma, al contempo, insistette sul totum corpus regni e su un’idea di impero come sovrastruttura istituzionale che trovava la sua origine nel nesso con Roma e consolidava l’identità unitaria di un sistema politico avviato verso la spartizione. Tuttavia, la morte precoce di Carlo e Pipino fece sì che, alla morte di Carlo Magno (814), l’unico erede fosse Ludovico il Pio; ma questo non evitò tensioni interne al gruppo familiare: infatti, il nuovo imperatore non dovette solo gestire le ambizioni dei propri figli, ma anche quelle di Bernardo, re d’Italia, figlio del fratello Pipino. Nei primi anni del regno, Ludovico affrontò la questione con la Ordinatio imperii (817), in cui affermò con maggiore forza l’idea di unità dell’impero e di fatto ruppe con la tradizione franca di spartizione, nominando il primogenito Lotario imperatore e unico erede e attribuendo ai figli Pipino e Ludovico nuclei territoriali minori (in Aquitania e in Baviera). Ovviamente, fu una scelta che creò tensioni, ma che, soprattutto, portò alla ribellione del nipote Bernardo, il quale si vide escluso da ogni prospettiva ereditaria e seppe raccogliere attorno a sé una quota consistente dell’aristocrazia italica; tuttavia, la ribellione non ebbe successo (ma la sua vicenda è importante perché mostra come, in questi decenni, le clientele aristocratiche attorno ai Carolingi non si traducessero solo in un sostegno politico all’imperatore, ma potessero dar vita a forme di solidarietà di respiro più regionale). Se la ribellione di Bernardo fu rapidamente sconfitta, un ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita di Carlo il Calvo (823), figlio di Ludovico il Pio e della sua nuova moglie Judith, la quale, negli anni successivi, agì per garantire al figlio un futuro politico, cercando di riaffermare il principio tradizionale della patrimonialità del potere regio. Pertanto, il regno di Ludovico fu contrassegnato da ricorrenti tensioni all’interno della famiglia carolingia, il cui punto più alto fu rappresentato dagli avvenimenti dell’833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico), i quali, vedendosi minacciati dal ruolo crescente di Carlo, arrivarono a far deporre il padre in un solenne concilio in cui i vescovi franchi costrinsero l’imperatore a fare penitenza per i suoi peccati, per poi dichiararlo indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario (associato al trono nell’817). Tuttavia, le discordie tra i figli permisero a Ludovico di tornare sul trono già l’anno successivo con i pieni poteri, ma era evidente che le tensioni ereditarie non fossero affatto risolte. Alla morte di Ludovico il Pio (840), queste tensioni sfociarono in un conflitto aperto, che oppose Lotario, Ludovico e Carlo il Calvo (mentre Pipino era morto nell’838) e del quale risultano significativi tre passaggi:  la battaglia di Fontenoy (841), in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli, in una battaglia che si risolse in un massacro;  i giuramenti di Strasburgo (842) , che, prestati sia in tedesco sia in lingua romanza (di modo da farsi comprendere da entrambi gli eserciti), sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo contro Lotario;  la pace di Verdun (843), che pose fine al conflitto, assegnando, sul piano politico-territoriale: - a Carlo, il regno dei Franchi occidentali; 30 - a Ludovico, il regno dei Franchi orientali; - a Lotario, una fascia intermedia che, da nord a sud, andava dall’Alsazia all’Italia. Inoltre, nonostante la sconfitta, fu lo stesso Lotario a mantenere il titolo imperiale, in quanto primogenito, erede designato da Ludovico il Pio e controllava l’Italia, potendo tutelare la Chiesa di Roma. In seguito alla pace di Verdun, ciò che appare veramente mutato è il concetto stesso di impero: infatti, se, nell’843, si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in alcun modo in una forma di coordinamento unitario, mentre, pur con accenti diversi, gli atti dell’806 e dell’817 avevano sempre posto al cento l’idea di una superiore unità imperiale. E questo fu un mutamento di grande rilievo: non soltanto si rinnovò e si rese operativa la tradizione franca di spartizione del regno, ma si rinunciò esplicitamente a un’idea di impero come struttura operativa unitaria. Pertanto, il potere regio non cambiò natura, ma cambiò drasticamente il quadro territoriale, in quanto l’impero carolingio non fu mai più un’unità politico-territoriale di concreto riferimento; diversamente, si costituirono forme di organizzazione politica di respiro regionale, grazie al coordinamento dell’aristocrazia attorno ai diversi re. La seconda metà del secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo, che culminò nella sua a incoronazione imperiale (875), poco prima della sua morte (877); i figli di Lotario assunsero poteri regi in Italia, in Provenza e in Lorena, mentre i figli di Ludovico si affermarono nell’area tedesca. Nell’888, un figlio di Ludovico, Carlo il Grosso, il quale – seppur soltanto formalmente – aveva unito il dominio carolingio, segnò con la sua morte la scomparsa della dinastia dai vertici del potere: infatti, negli anni successivi, i Carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni, ma non furono più la dinastia dominante e, soprattutto, il loro potere non fu più un fattore unificante dei territori dell’impero. Nel complesso, quindi, è possibile individuare quattro ampie fasi della storia dei Pipinidi/Carolingi:  inizio del VII secolo-751  grande dinastia dell’aristocrazia austrasiana, che costruì il proprio potere all’interno del regno merovingio;  751-840  con Pipino III, Carlo Magno e Ludovico il Pio, essi controllano, attraverso un singolo re, il popolo franco prima e un grande impero poi;  840-888  il sistema di potere carolingio si articola in regni distinti e separati, senza una vera unità dinastico- territoriale;  888-987 (la morte senza eredi di Ludovico V, re di Francia)  i Carolingi sono una delle dinastie che, nei diversi regni, si contende il potere, in una fase particolarmente conflittuale. CAPITOLO IV: IL MEDITERRANEO BIZANTINO E ISLAMICO La nascita dell’Islam fu una trasformazione religiosa, ma immediatamente si tradusse anche in una ridefinizione dei sistemi politici di ampi territori già appartenenti all’impero romano/bizantino e ai regni romano-barbarici. Dalla Siria alla Spagna, larga parte delle coste mediterranee furono direttamente coinvolte in questo processo fino alla valle dell’Indo. 1. LE ORIGINI DELL’ISLAM Nel tardo-antico, la penisola araba era strutturata attorno alla convivenza di due grandi gruppi:  da un lato, le popolazioni urbane di città come La Mecca e Yathrib (la futura Medina), attive sul piano commerciale;  dall’altro lato, tribù nomadi di pastori, che rifiutavano sia la vita urbana sia le forme di più ampio coordinamento politico. In questo quadro, era riconoscibile una centralità della Mecca non solo per le sue funzioni commerciali, ma anche per il prestigio connesso al culto della Ka’ba, una pietra nera di origine meteorica, meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso, nella penisola araba prevalevano forme di politeismo parzialmente corrette da alcune tendenze al monoteismo, in parte derivanti da influssi ebraici e cristiani. Questo era il contesto in cui, nei primi decenni del VII secolo, si mosse Muhammad: nato alla Mecca attorno al 570 da una famiglia mercantile, egli iniziò la sua opera religiosa nel 612, quando alcune visioni lo convinsero di essere un inviato di Dio, incaricato di declamare la parola divina, che invitava a una fede rigidamente monoteista, organizzata attorno ad alcuni precetti fondamentali. Proprio dall’idea di declamazione (qara’a) deriva al-Qur’an, ovvero il Corano, 31 il Libro sacro dell’Islam, il quale, a differenza di quelli del cristianesimo e dell’ebraismo (che sono parola ispirata da Dio), è direttamente parola di Dio, di cui Muhammad fu solo portavoce. Tuttavia, la predicazione di Muhammad costituiva una minaccia per il potere dei grandi clan della Mecca, che trovavano un elemento di forza e ricchezza nei pellegrinaggi alla Ka’ba, sostenuti da un forte sincretismo religioso di stampo decisamente politeistico. Così, l’isolamento politico convinse Muhammad a fuggire a Yathrib (622) – che assumerà il nome di Città del Profeta, ossia Medina – e tale fuga del Profeta (l’Ègira) è considerata un momento fondativo, tanto da segnare l’inizio del calendario islamico: infatti, pur non mutando il messaggio religioso di Muhammad, ne cambiò totalmente le prospettive politiche, avviando l’organizzazione, attorno al Profeta, di una comunità politico-militare a base religiosa, senza limitazioni etniche. In tal modo, Muhammad poté divenire un fattore unificante delle tribù arabe che, per quanto separate, già in precedenza avevano espresso tendenze verso la convergenza culturale e politica: il monoteismo salvifico proposto dalla predicazione del Profeta divenne il collante per un efficace coordinamento politico-militare e questa convergenza delle tribù beduine garantì a Muhammad una forza tale da consentirgli di rientrare alla Mecca (630). Alla morte di Muhammad (632), la religione islamica aveva assunto un ruolo guida alla Mecca nell’intera penisola arabica: un potente fattore di coesione ideologica che permise di dar unità politica a forze prima disperse e, su questa base, di avviare un’azione militare che, nel giro di pochi decenni, sottomise agli Arabi numerosi territori. Nel corso degli anni Trenta, sotto la guida dei primi califfi (i successori di Muhammad), gli Arabi cancellarono l’impero persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di Bisanzio, conquistando la Siria, la Palestina e avviando la conquista dell’Africa settentrionale. Inoltre, seppur l’attacco diretto a Costantinopoli (674-678) non ebbe esito, nel giro di pochi decenni, le armate arabe ebbero la possibilità di compiere una rapida espansione a comprendere tutta l’Africa romana, fino a conquistare, nei primi anni dell’VIII secolo, la Spagna visigota. Di fatto, l’espansione nel mediterraneo si arrestò nel 717-718, mentre, in Oriente, il dominio islamico venne affermato fino all’Uzbekistan e alla valle dell’Indo: pertanto, nel giro di pochi decenni, si costituì un quadro territoriale amplissimo – dall’Atlantico ai confini dell’impero cinese – che non aveva antecedenti in alcuna dominazione dei secoli precedenti. Tuttavia, fin dagli inizi, l’azione politico-militare dei califfi fu segnata da fratture legate alla successione a Muhammad. Si contrapposero tre posizioni:  sunniti  rifacendosi alla sunna (la tradizione), essi ritenevano che il califfo dovesse esser eletto sulla base del consenso degli anziani, all’interno della tribù di Muhammad;  sciiti  seguaci di Alì (cugino e genero di Muhammad), essi davano la massima importanza al carisma familiare e, quindi, ritenevano che il califfo dovesse essere scelto all’interno della famiglia del Profeta;  kharigiti  ritenevano che il califfo dovesse essere scelto unicamente per merito, indipendentemente dalla sua appartenenza tribale o familiare. La rottura si realizzò con l’uccisione di Alì, quarto califfo (661): nella maggioranza del mondo islamico, prevalse l’orientamento sunnita e la funzione califfale fu assunta dalla dinastia degli Omayyadi, un importante clan della Mecca; eppure, in alcuni settori del mondo islamico, in opposizione al dominio sunnita degli Omayyadi, si conservò una tradizione culturale e religiosa che si richiamava ad Alì e al nucleo familiare di Muhammad, ritenuto detentore di uno speciale carisma ereditario: qui ebbe origine l’opposizione tuttora viva tra Sunniti e Sciiti. Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e conservarono il potere fino al 750, completando l’espansione territoriale dell’Islam, ponendo importanti problemi di convivenza tra gli Arabi e le popolazioni sottomesse; infatti, il califfato aveva una doppia natura:  da un lato, un carattere etnico, come dominio degli Arabi su altre popolazioni;  dall’altro lato, un carattere religioso, come affermazione dei musulmani sui non-credenti. Questo perché, seppure i due piani fossero concettualmente distinti, nell’età omayyade, essi erano strettamente intrecciati, dal momento che l’Islam era concepito dall’élite al potere come la religione degli Arabi, con un diretto legame tra identità etnica e identità religiosa. Pertanto, all’interno del dominio islamico, esistevano due contrapposizioni:  tra islamici e non islamici (regolata ed esplicita)  distinzione che non si tradusse in forme di persecuzione, dato che fu ampia la tolleranza verso altre fedi, in particolare verso il cristianesimo e l’ebraismo: dunque, i sudditi del califfo di religione non islamica poterono continuare a praticare la propria fede, ma furono posti in una condizione giuridica inferiore, con l’obbligo di pagare una tassa specifica;  tra gli Arabi e gli islamici di origine non araba (meno esplicita ma di grande incidenza)  la divisione interna ai fedeli islamici – tra Arabi e non Arabi – non era formalizzata in modo così chiaro, ma, concretamente, il sistema di potere islamico era un sistema arabo e i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi come clienti a una tribù araba. Da notare come gli Omayyadi posero il proprio centro a Damasco, in Siria, portando a una marginalità politica della penisola arabica, riducendo La Mecca e Medina a centri di rilievo esclusivamente religioso. Inoltre, in parallelo alla grande conquista e all’islamizzazione di nuovi territori, il Corano fu oggetto di una profonda opera di interpretazione e 32 l’egemonia e un efficace controllo indiretto (l’Europa orientale e l’Italia meridionale), spesso generando la collisione con l’impero carolingio. La lotta territoriale fra bizantini e carolingi fu anche una divisione politica e, soprattutto, una divisione tra le chiese di Roma e di Costantinopoli, contrapposte sia sul piano teologico sia sul piano dell’ordinamento ecclesiastico. Mentre, sul piano delle gerarchie ecclesiastiche, alla fine del IX secolo, si raggiunse una forma di compromesso, con il riconoscimento di una superiorità formale di Roma, priva di concrete implicazioni giurisdizionali, tuttavia, sul piano teologico, le divisioni non furono mai sanate; e, in questa fase, una questione chiave fu quella del Filioque: il Credo elaborato a Nicea nel 325 aveva subìto un’interpolazione nella sua versione latina, che recitava che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio (Filioque), posizione ritenuta inaccettabile dal clero orientale, che, invece, affermava che lo Spirito Santo procedesse unicamente dal Padre. La contrapposizione tra i patriarcati di Roma e Costantinopoli fu uno degli elementi che articolavano a una più complessa opposizione tra gli ambiti di potere che facevano capo ai due imperi; un’opposizione che trovava espressione evidente nell’Europa orientale: in effetti, oggetto delle pressioni concorrenti dei due imperi (e delle chiese di Roma e di Costantinopoli) furono soprattutto gli Slavi, un mondo variegato e frammentato, un insieme complesso di popoli, con alcuni caratteri culturali e linguistici comuni. In questo ambito, tra IX e X secolo, due sono le dominazioni da ricordare: i Bulgari e la cosiddetta Grande Moravia; due diverse dominazioni slave che, in questi secoli, si orientarono verso il cristianesimo, in quanto esso offriva un riferimento religioso forte, un modello di organizzazione e di gerarchizzazione della società e una nuova legittimazione del potere regio. Tuttavia, pur cercando la conversione, i principi slavi temevano che essa implicasse una sottomissione a uno dei due grandi imperi cristiani; in questo contesto, la chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: negli anni centrali del IX secolo, nelle terre slave, operarono due fratelli missionari ed esperti conoscitori della lingua slava, Costantino e Metodio, i quali crearono una grafia apposita per rendere fedelmente i suoni di questa lingua; con questa scrittura, essi poterono tradurre i principali testi sacri e liturgici e, di fatto, avviare un processo di profonda assimilazione culturale delle popolazioni salve, che rientrarono nell’orbita di influenza di Bisanzio. Caratteri profondamente diversi ebbe, invece, la rinnovata pressione bizantina verso l’Italia, area in cui il IX secolo segnò un doppio mutamento:  da un lato, il neonato impero carolingio attirò nella sua orbita i territori bizantini del centro-nord;  dall’altro lato, la conquista islamica della Sicilia privò l’impero della sua principale base fiscale. Pertanto, dal momento che la presenza bizantina in Italia sembrava destinata a scomparire, dopo essere salito al potere, Basilio I cercò di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio controllo tra Puglia e Calabria: si trattò di un rafforzamento militare, ma anche di un riordinamento amministrativo, che estese all’area italiana l’ordinamento tematico che stava diffondendosi in tutto l’impero. CAPITOLO V: SOCIETÀ E POTERI NEL X SECOLO Nel corso della cosiddetta “età post-carolingia”, per l’impero carolingio, si ripropone lo stesso rischio dell’impero romano; spesso, però, i secoli dopo la fine dell’impero sono spesso ridotti a una lettura in termini di declino e superamento. Indubbiamente, nel X secolo, vediamo tramontare definitivamente la struttura imperiale unitaria – che aveva rappresentato un’intelaiatura politica, istituzionale e culturale che attraversava gran parte dell’Europa occidentale: quindi, non si tratta di negare questo declino, ma di leggerlo cercando anche e soprattutto le novità, i meccanismi di costruzione del potere e della società, che, nel X secolo, assunsero forme oggettivamente nuove. 1. I MUTAMENTI DEI POTERI COMITALI L’impero carolingio non crollò sotto il peso di massicce invasioni militari dall’esterno, ma mutò la natura dall’interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e, soprattutto, per un cambiamento capillare dei comportamenti politici dell’aristocrazia e delle chiese. Sicuramente, tra la fine del IX e la metà del X secolo, le terre dell’impero furono colpite da nuove minacce militari (di Saraceni, Ungari e Normanni), ma le incursioni non furono la causa della crisi dell’impero, bensì, piuttosto, ne furono una conseguenza, cioè furono rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. A partire dalla metà del IX secolo, le divisioni dell’impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia: inizialmente, era un rapporto fondato sullo 35 scambio tra servizi militari e governativi (che gli aristocratici fornivano al re) e la redistribuzione di ricchezze (che il re operava in favore degli aristocratici); successivamente, nella seconda metà del IX secolo, questo equilibrio mutò perché si ridusse in modo sensibile la capacità redistributiva dei re: infatti, le grandi espansioni territoriali di Carlo Magno erano da tempo terminate e, conseguentemente, i re non potevano più disporre di un continuo afflusso di nuove terre, popoli da governare, bottino, prigionieri, ovvero di tutte quelle risorse che Carlo aveva potuto concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà. Al contempo, però, proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell’appoggio militare aristocratico. Sostanzialmente, dunque, nella contrattazione politica tra i re e i grandi aristocratici, l’equilibrio si era spostato in favore di questi ultimi: infatti, i re avevano un gran bisogno dell’aiuto degli aristocratici, ma avevano meno risorse con cui ricompensarlo, per cui i sovrani furono più disposti – o costretti – a cedere alle loro richieste; e ciò che più di tutto i funzionari chiedevano era la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. Inoltre, in piena età carolingia, appariva chiaro che essere vassallo del re era cosa ben diversa da essere un suo funzionario (un conte o un marchese); ma, nei decenni successivi, non fu più così: così, la carica di conte era sì un servizio in favore del re, ma era anche un’opportunità, una risorsa politica ed economica; e, dall’altro lato, i re, più deboli dei loro predecessori, non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e si appoggiavano soprattutto sui legami personali, sulle clientele vassallatiche. Perciò, le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici: il conte era anche vassallo e la funzione di governare un comitato era per lui un’opportunità e una risorsa, ovvero era qualcosa di non troppo diverso da un beneficio vassallatico. Solo all’inizio dell’XI secolo vediamo comparire nelle fonti l’affermazione esplicita che una carica comitale era concessa in beneficio, ma già nei decenni precedenti la disitinzione sembra perdere chiarezza: in questo quadro, va inserito il capitolare Quierzy-sur-Oise (877), una legge attraverso cui Carlo il Calvo definì una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il conte fosse morto mentre il figlio era impegnato in spedizione con l’imperatore; nulla di sostanzialmente rivoluzionario: semplicemente, si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata ai parenti del conte, ai suoi funzionari, al vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale. Quest’idea è direttamente connessa alla rivendicazione da parte dell’imperatore del suo diritto di scegliere chiunque egli volesse come nuovo titolare del comitato; tuttavia, va sottolineata la tendenza all’ereditarietà nella prassi e nella cultura del tempo: infatti, se il figlio del conte non avesse seguito l’imperatore in Italia, sarebbe toccato naturalmente a lui prendere la gestione del comitato alla morte del padre. Al contempo, è importante notare un passaggio in cui Carlo aggiunge che “ugualmente dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli”: pertanto, si conservava con piena chiarezza la distinzione tra conti e vassalli, tra gli incarichi di ufficio e i rapporti vassallatici, seppur le evoluzioni dei due piani viaggiassero parallelamente. Se, quindi, né il capitolare di Quierzy né nessun’altra legge deliberò mai la stabilità o l’ereditarietà delle funzioni, la prassi politica si orientò in questa direzione: in tal modo, tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, la stabilità ereditaria della funzione favorì il radicamento dei conti nelle regioni governate, rendendo possibile la concentrazione del patrimonio del conte (potere dinastico) all’interno delle aree da lui governate (potere funzionariale). Così, nel corso degli anni e delle generazioni, in un processo di regionalizzazione delle aristocrazie, la famiglia comitale acquisiva terre, fondava chiese e stringeva legami matrimoniali all’interno del distretto che governava, portando alla fusione della funzione comitale e della potenza dinastica. In più, nel momento in cui il conte era anche un grande proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: ovviamente, egli era più attento e presente nelle aree in cui disponeva di terre, chiese, castelli e vassalli, mentre era assai più distaccato dalle zone in cui analoghe concentrazioni patrimoniali erano nelle mani di altre dinastie e chiese. Va, però, precisato che, in alcuni casi – cioè quando riguardava le terre delle chiese immunitarie – questo “astensionismo” dei conti da alcuni settori del comitato aveva un validissimo motivo giuridico: infatti, i diplomi di immunità imponevano agli ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese e suggerivano al conte una politica astensionista, per concentrarsi sulle zone in cui il suo intervento era più facile e più promettente (ossia quelle aree in cui il potere derivante dalla funzione comitale era sostenuto dalla ricchezza personale del conte). Nel corso del X secolo, un ulteriore elemento di diversificazione del territorio – soprattutto in Italia – fu la formazione dei poteri vescovili sulle città: in effetti, in molti casi, la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore e la difficoltà di controllare comunità complesse e socialmente stratificate indussero (o costrinsero) gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Fu un’evoluzione fondamentale sia per la storia delle chiese sia per l’elaborazione delle capacità politiche delle comunità cittadine italiane; tuttavia, in questo contesto, ci interessa soprattutto per mostrare come il potere dei conti fosse discontinuo, con aree di forza e di debolezza, e con un’assenza pressoché totale dei conti in alcuni settori del territorio. Pertanto, l’esito generale fu un cambiamento strutturale sia nel legame tra il regno e le realtà locali sia nel rapporto tra aristocrazia e territorio e, più nello specifico, tra i grandi funzionari regi e i distretti loro affidati: un indebolimento 36 del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; inoltre, dal punto di vista militare, appare tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re e del suo apparato. 2. MINACCE ESTERNE: LE INCURSIONI DI SARACENI, UNGARI E NORMANNI La crisi del potere carolingio alla fine del IX secolo fu anzitutto una crisi della capacità imperiale di controllare militarmente i territori, che lasciò campo aperto a iniziative non di ampi eserciti impegnati in conquiste territoriali, ma di piccole bande che compivano incursioni più o meno rapide, con intenti di saccheggio: per quanto agissero in modo autonomo e disordinato, queste bande possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: i Normanni, provenienti dalla Scandinavia; gli Ungari, insediati nelle steppe dell’attuale Ungheria; e i Saraceni, bande di pirati attivi in diversi punti del Mediterraneo. I Saraceni rappresentano sicuramente il gruppo dai contorni più indefiniti e sfuggenti: se, tradizionalmente, essi erano identificati come pirati islamici provenienti dalle coste meridionali del Mediterraneo, probabilmente, invece, ci troviamo di fronte a gruppi etnicamente misti, impegnati in attività di saccheggio via mare, con incursioni attestate a partire dagli anni Sessanta del IX secolo; ma, alla fine del secolo, i Saraceni compirono un salto di qualità importante, con la costituzione di basi permanenti sulle coste settentrionali del Mediterraneo, tra cui la più nota era Fraxinetum, nella baia di Saint-Tropez, da cui partirono una serie di spedizioni di saccheggio nell’entroterra e sulle Alpi, che cessarono solo dopo che il conte di Arles e il marchese di Torino si allearono per attaccare e distruggere la base saracena (972). Dunque, non fu un tentativo di espansione territoriale della dominazione islamica, ma l’accentuarsi di una pirateria marittima endemica: sfruttando la propria mobilità e, soprattutto, la debolezza dei regni di Francia e d’Italia, gruppi di armati seppero muoversi tra le coste e l’entroterra dell’Europa meridionale, con operazioni che non tendevano mai a una conquista durevole, ma al saccheggio. La cronologia degli attacchi ungari non è molto diversa da quella degli attacchi saraceni, dal momento che anche le azioni di saccheggio degli Ungari derivarono anzitutto dalla debolezza dei poteri regi: tra la metà del IX e la metà del X secolo, si sono contate una trentina di pesanti incursioni di cavalieri ungari tra la Germania e l’Italia settentrionale. La grande efficacia militare degli Ungari li rese nemici pericolosi, ma anche dei preziosi alleati, dei quali, in diversi momenti, nelle dure lotte politiche che segnarono il regno italico nella prima metà del X secolo, i diversi aspiranti al trono sfruttarono l’aiuto. Pertanto, la conflittualità interna ai regni di Germania e d’Italia fu una grande opportunità per gli Ungari, in quanto non solo permise loro di saccheggiare chiese e città mal difese, ma offrì anche la possibilità di combattere, ben ricompensati, per i potenti locali. In seguito all’intervento di re Ottone I di Sassonia, gli Ungari furono definitivamente sconfitti (955): nei decenni successivi, le scorrerie cessarono, si avviò la conversione degli Ungari al cristianesimo e l’Ungheria divenne un regno stabilmente alleato della Germania. Su spazi radicalmente diversi si mossero i Normanni. Lo sviluppo degli scambi nel mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi, in operazioni commerciali e di pirateria, due livelli che spesso si confondevano: infatti, i commercianti viaggiavano armati perché dovevano difendersi, ma, se si arrivava in porti e luoghi poco o per nulla difesi, queste armi potevano diventare strumento di saccheggio; d’altronde, i pirati erano pronti a trasformarsi in commercianti nel momento in cui la difesa locale non consentiva operazioni violente. Questa mobilità è evidente già tra VIII e IX secolo, verso la Russia (Vareghi), verso l’Inghilterra (Vichinghi) e verso le coste settentrionali dell’Europa (Normanni). A est, prevalse la dimensione commerciale: le navi a fondo piatto – che permettevano di risalire i grandi fiumi – consentirono un commercio in profondità ai Vareghi, i quali, però, seppero trasformare la propria azione economica in stanziamento stabile, con la creazione di emporia, insediamenti fortificati destinati a funzionare prima di tutto come luoghi di scambio. In Occidente, l’azione militare dei Normanni può essere scandita in tre fasi:  dai primi decenni del IX secolo, essi attuarono piccole incursioni di rapina sulle coste dell’Inghilterra e della Frisia;  dai decenni centrali del secolo (nel quadro delle progressive difficoltà militari dell’impero carolingio e della persistente frammentazione politica inglese), le incursioni crebbero di scala, con flotte di decine di navi che permettevano di risalire i fiumi e attaccare città come Londra (851) e Parigi (885);  alla fine del secolo IX, le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili, all’interno dei regni inglesi della Mercia e dell’East Anglia e nel nord del regno franco, attorno alla foce della Senna. Quest’ultimo insediamento fu infine riconosciuto e legittimato dal re Carlo il Semplice, dando vita al ducato di Normandia (911), con il quale si avviò un processo di assimilazione politica e culturale: infatti, i Normanni si convertirono al Cristianesimo e il ducato divenne in tutto e per tutto analogo ai grandi principati territoriali che si spartivano il territorio francese e si coordinavano attorno al re; anzi, il ducato di Normandia divenne un 37 sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e reinsediare Gregorio (998). L’anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d’Aurillac, uno dei più grandi intellettuali di quei decenni, il quale assunse il nome di Silvestro II (richiamandosi direttamente al papa che aveva battezzato Costantino). Le nomine di Gregorio e di Silvestro sono una testimonianza importante della nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell’impero e indicarono anche una possibile evoluzione del papato: infatti, pontefici di alto livello intellettuale, svincolati dalle lotte di potere interne all’aristocrazia cittadina, avrebbero potuto consentire una crescita del papato sotto tutti i punti di vista, sia sul piano ecclesiastico sia su quello culturale sia, infine, nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Tuttavia, questa prassi di nomina imperiale di papi d’Oltralpe non ebbe seguito. La morte precoce di Ottone III (1002) aprì una breve crisi dinastica, che, in Germania, si risolse rapidamente all’interno dello stesso gruppo parentale, con l’ascesa al trono del cugino Enrico II. Ma, dal punto di vista italiano, la successione da Ottone a Enrico ebbe implicazioni diverse: infatti, poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d’Italia Arduino, marchese di Ivrea, il quale, dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico (1004) e lasciò il regno nelle mani del re sassone. Nonostante il fatto che il potere di Arduino fu breve, precario e senza seguito, tuttavia, la sua elezione rese visibile una tensione sotterranea, ovvero una ricorrente volontà dell’aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re.  FRANCIA Anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno e, nell’888, lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: infatti, prese il potere il conte Oddone di Parigi, segnando l’inizio di un’instabilità politica che caratterizzò i decenni successivi. Ma un primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: in effetti, alcuni settori dell’aristocrazia scelsero di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nell’893 e si contrappose a Oddone, la cui morte (898) rese Carlo unico e indiscusso re di Francia; tuttavia, la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, anno in cui i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. Il cambiamento più profondo fu costituito dal diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Ad ogni modo, si scelsero i re all’interno del gruppo parentale derivante da Oddone (quelli che identifichiamo come i Robertini), ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio di Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l’idea di una vera e propria dinastia regia; d’altronde, come negli altri regni, in questi decenni, i grandi prìncipi di Francia, liberi dal peso condizionante del carisma regio carolingio, cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re; ma, al contempo, nessuno poteva ignorare la presenza forte e ingombrante di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca – appunto, i Robertini. Un equilibrio delicato, che lo stesso Ugo il Grande, nonostante la sua potenza, scelse di non rompere imponendo la propria elezione a re: così, egli preferì far tornare dall’esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987. L’azione di Ugo si spiega in un quadro in cui le dinastie principesche rappresentavano i principali attori politici del regno: in questo senso, i Carolingi erano figure concretamente deboli, ma simbolicamente forti e legittime e, pertanto, rinunciando la corona e permettendo il ritorno sul trono dei Carolingi, Ugo evitò di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri prìncipi, fatto che avrebbe sicuramente suscitato un’opposizione nei suoi confronti. Così, il processo che, in questi decenni, segnò i meccanismi politici del regno di Francia non fu tanto il ritorno dei Carolingi, ma la costruzione dell’egemonia dei Robertini, che culminò con l’ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto (987), da cui prese il via la dinastia capetingia, che conservò la corona di Francia fino al 1328. Il 987 è tradizionalmente considerata una data chiave della storia francese, momento fondativo della monarchia nazionale. Ma l’ascesa al trono di Ugo Capeto fu l’esito coerente di un lungo processo di affermazione della dinastia ai vertici del regno, avviato con la massima evidenza un secolo prima, quando il conte Oddone di Parigi era stato incoronato re alla morte di Carlo il Grosso. Lungo il secolo XI, il potere regio conservò un duplice carattere di forza egemone, di cui era generalmente riconosciuta la superiorità, e di forza regionale, un principato territoriale non molto diverso dalle altre dominazioni in cui si articolava il territorio francese: dunque, è sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono nuovi funzionamenti politici e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che, in larga misura, facevano a meno del re.  AI MARGINI DEL MONDO CAROLINGIO I processi di costruzione del potere regio si realizzarono anche in aree poste al di fuori degli antichi confini dell’impero, in particolare in Inghilterra e in Spagna. Mentre la tradizione politica inglese lungo l’Alto Medioevo vedeva un’alta frammentazione politica, il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: 40  da un lato, la progressiva crescita delle incursioni normanne;  dall’altro lato, una crescente egemonia del regno del Wessex, (parte sud-occidentale dell’Inghilterra), che riuscì a conservarsi autonomo dall’espansione normanna per lungo tempo. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande, che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Alla morte di Alfredo, salì al trono il figlio Edoardo che dovette rifondare il proprio dominio e riaffermare il controllo sulla Mercia. Fu solo poi all’inizio del secolo XI che si costituì infine un regno inglese unitario: infatti, controllando, al contempo, i regni di Danimarca e Norvegia, il re norvegese Knut arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex (1016) e, quindi, su tutti i principali regni inglesi. Alla morte di re Edoardo (1066), la corona fu contesa da diversi personaggi: il duca del Wessex Harold Godwinson, il re di Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo. Il primo fu rapidamente incoronato re, ma, nell’autunno, subì gli attacchi quasi contemporanei degli altri due, sconfiggendo Harald, per poi, però, essere sconfitto e ucciso da Guglielmo ad Hastings. I decenni successivi furono segnati da due processi: da un lato, l’integrazione tra aristocrazia normanna e inglese; e, dall’altro lato, un’intensa ridefinizione delle gerarchie sociali, con una nuova ed efficace centralità del potere regio. Nella penisola iberica, la conquista araba nel VIII secolo non aveva coinvolto l’intera penisola, ma aveva dissolto l’unità visigota; in seguito, la convivenza tra emiri e regni cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo, ma, in questo periodo, non diede vita né a una volontà islamica di conquista sistematica dell’intera penisola né a un’organica spinta alla conquista cristiana (a quella che in seguito diverrà la Reconquista). Piuttosto, si assiste a una continua interferenza fra le diverse dominazioni: così, da un lato, i re cristiani cercarono di operare attivamene nelle dinamiche interne all’emirato, sostenendo singole fazioni in lotta per il potere e approfittando delle fasi di instabilità politica; ma al contempo la maggior forza militare islamica permise l’affermarsi di un’egemonia di fatto dell’emiro sull’intera penisola, che, tuttavia, non cancellò i regni cristiani. Analogamente, nella penisola iberica del X secolo, i regni cristiani e l’emirato non erano né mondi separati né dominazioni in totale contrapposizione; piuttosto, erano articolazioni regionali poste su diversi livelli di potenza, protagoniste di un’intensa dinamica politica, non sempre e non necessariamente fondata sulla contrapposizione armata: fu un equilibrio dinamico e conflittuale, ma definì un quadro di sostanziale stabilità territoriale delle diverse dominazioni. Soltanto alla fine del secolo XI, in parallelo con la formazione dell’ideale crociato, la Reconquista assunse una forma strutturata, efficace, ideologicamente organizzata e sostenuta dal papato, segnando l’avvio di un processo di espansione territoriale dei regni cristiani ai danni dell’emirato. 4. MODELLI DI ORDINE SOCIALE La fine dell’impero carolingio fu segnata da nuove forme dell’azione locale degli ufficiali regi; da un’intensa mobilità militare che, dai confini dell’impero, penetrò fino nelle aree centrali; e dalla formazione di nuovi regni. Tuttavia, sono riconoscibili alcune linee di tendenza comuni, soprattutto nella lotta politica, interna alla grande aristocrazia, non solo per avvicinarsi al re e trarne benefici, ma anche per impadronirsi dello stesso potere regio: infatti, in tutti i regni europei, i re erano pienamente parte della dinamica politica aristocratica e il territorio dominato direttamente dal re non era di norma molto diverso dai principati che si suddividevano il regno. I protagonisti della vita politica erano in modo sempre più evidente le grandi dinastie discese dagli ufficiali pubblici. Una trasformazione così profonda indusse anche i gruppi intellettuali (ovvero i grandi chierici, vescovi e monaci) a un ampio processo di riflessione sulle forme del potere: la questione chiave era come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio. Il modello di ordine politico più noto è quello che gli storici chiamano la “tripartizione funzionale”, elaborata, in testi diversi, da Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai, nei primi anni dell’XI secolo: in sostanza, il corpo sociale deve essere diviso tra chi prega (gli oratores), chi combatte (i bellatores) e chi lavora (i laboratores); ma il dato davvero qualificante di questa teoria era la necessaria reciprocità tra le diverse condizioni: infatti, chi pregava lo faceva per salvare le anime di tutti, chi combatteva garantiva la sicurezza di tutti e chi lavorava assicurava il sostentamento di tutti. E soltanto da questa reciprocità potevano nascere equilibrio e ordine. Un modello profondamente diverso fu rappresentato dalle “paci di Dio”: non si tratta di teorie politiche elaborate in testi, ma di un sistema cerimoniale. A partire dagli ultimi anni del X secolo, alcuni vescovi del sud della Francia convocarono delle grandi assemblee destinate a ristabilire la pace in una regione: erano momenti a forte impatto cerimoniale, in quanto i vescovi radunavano un gran numero di reliquie e su di esse tutti gli abitanti dovevano giurare il rispetto di alcune norme fondamentali. La novità delle “paci di Dio” non era rappresentata dalle norme in sé, bensì nasceva dal fatto che queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma dalla volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti a forte intensità religiosa e cerimoniale: in sostanza, le “paci di Dio” erano la pace del re in assenza del re. La tripartizione funzionale e le paci di Dio sono modelli opposti da vari punti di vista, in quanto, da un lato, la tripartizione è un modello di ordine espresso in testi di alto livello intellettuale e che, probabilmente, fu di debole 41 circolazione e, dunque, ebbe un impatto minimo; dall’altro lato, le paci di Dio non si fondarono su di una teoria politica altamente formalizzata, ma su di un sistema di pratiche cerimoniali, variamente rielaborate lungo il secolo XI, che ebbero sicuramente un fortissimo impatto sulla società a cui si rivolgevano, direttamente coinvolta nei riti e nei giuramenti destinati a fondare la pace. Inoltre, mentre la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una chiara centralità dei vescovi (destinati a fungere sia da garanti della salvezza eterna sia da guide intellettuali nel presente), diversamente, le paci di Dio, seppur guidate dai vescovi, si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento: così, se il problema fondamentale era quello di contenere e regolare la violenza aristocratica, da un lato, la tripartizione lo fece delimitando i campi di azione dei diversi corpi sociali (i cavalieri dovevano limitarsi a combattere al comando del re e sotto la guida spirituale dei vescovi), mentre, dall’altro lato, nelle paci di Dio, tutti diventavano promotori di un nuovo ordine attraverso il giuramento. In comune, dunque, vi è soprattutto una profonda trasformazione del rapporto tra i vertici delle chiese e i fedeli, che decretava che la piena appartenenza alla società passava attraverso la piena sottomissione alla fede e ai vescovi: in sostanza, essere fedeli significava essere sudditi di un complessivo sistema di dominazione. 5. NUOVE CHIESE, NUOVI POTERI Se è ben noto il rinnovamento radicale attuato nella Riforma dell’XI secolo, va però precisato che la trasformazione si avviò già nel X secolo, su due piani: da un lato, un profondo rinnovamento del monachesimo, prima con l’affermazione di Cluny, poi con la diffusione di nuove forme di vita religiosa, a più chiaro orientamento eremitico; dall’altro lato, un nuovo e diverso coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. Intorno al 910, secondo una pratica comune all’interno della grande aristocrazia, il duca Guglielmo d’Aquitania fondò l’abbazia di Cluny e la affidò all’abate Bernone; tuttavia, differentemente dalla prassi comune, la prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva di Cluny: in sostanza, i monaci di Cluny ottennero la piena gestione dell’abbazia e il pieno diritto di scegliere al proprio interno i nuovi abati. Al contempo, l’abbazia fu svincolata anche dal controllo del vescovo di Mâcon, la diocesi in cui territorialmente era situata l’abbazia: la protezione e benedizione del monastero vennero affidate direttamente al vescovo di Roma. Quindi, l’abbazia di Cluny nacque all’insegna della piena autonomia, sia dal potente fondatore sia dalle strutture del potere ecclesiastico: in questo quadro, i cluniacensi seppero dare vita a una forma di vita religiosa peculiare: pur muovendosi all’interno della Regola benedettina, essi ne diedero un’interpretazione specifica, che pose al centro la dimensione della liturgia e della preghiera. Il monachesimo di Cluny propose un’accentuazione coerente con la tradizionale impostazione benedettina, con un ulteriore ampliamento del tempo dedicato alla preghiera, un’accresciuta solennità dei momenti liturgici e una specifica attenzione alle preghiere per l’anima dei defunti. Pertanto, Cluny fu l’espressione di un monachesimo dalla disciplina e dalla spiritualità rigorose, un modello di vita religiosa che garantiva ai propri benefattori le efficaci preghiere di uomini santi; inoltre, fu pienamente parte del sistema aristocratico di dominazione: era un’abbazia ricca e potente, alleata dei prìncipi e della grande aristocrazia. Tutte queste peculiarità di Cluny permisero ai cluniacensi, nel giro di pochi decenni, di acquisire una grande fama all’interno e al di fuori del regno di Francia, tanto che già il secondo abate, Oddone, fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose, in declino dal punto di vista della spiritualità e della disciplina. Ma, in questa capacità di Cluny di rinnovare la vita religiosa in altri monasteri, possiamo cogliere gli inizi di quello che diventerà il connotato più specifico e innovativo del monachesimo cluniacense, ovvero la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall’abbazia borgognona: una congregazione, un insieme di enti religiosi che riconoscevano tutti la propria guida nell’abate Cluny; e, dunque, questi nuovi enti monastici non erano abbazie, ma priorati: infatti, essi erano retti ognuno da un priore che faceva diretto riferimento all’unico abate di Cluny. In pratica, nel corso del X e dell’XI secolo, molti aristocratici, se volevano fondare un ente monastico che garantisse con le sue preghiere la salvezza delle loro anime, scelsero di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato, sottoposto all’abate Cluny e svincolato da qualunque controllo laico. Il punto di massimo trionfo di Cluny fu raggiunto negli ultimi anni dell’XI secolo: nel 1088, il priore di Cluny Oddone fu eletto al soglio pontificio, assumendo il nome di Urbano II. Egli fu un papa importante non solo per Cluny, ma anche per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica europea: infatti, a lui si deve, nel 1095, la proclamazione della prima crociata. Ma l’XI secolo fu segnato anche dall’emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti diversi, con una più netta ispirazione eremitica: esperienze in cui la volontà eremitica si risolveva in una dimensione comunitaria, in gruppi che si separavano in modo netto dal mondo, operando importanti e radicali scelte di isolamento, povertà e penitenza, dal momento che il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido e troppo legato al mondo. Il grande successo di queste esperienze ci segnala l’avvio di un lento cambiamento nella coscienza religiosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere: in questo senso, mutò profondamente anche il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine e, in generale, con la società e i poteri circostanti. Infatti, si affermò il loro pieno controllo politico e sociale sulle città, fondato sui profondi legami tra 42 vescovi di opposti schieramenti: in particolare, Milano fu sede di un conflitto assai aspro tra i riformatori (i patarini) e l’alto clero locale. Lo scontro fu aperto dalla contestazione del cloro corrotto da parte di un chierico del clero minore, Arialdo, che riuscì a trascinare una parte dei fedeli in una sollevazione violenta contro i preti giudicati indegni: prima contro i preti sposati o concubinari e poi contro quelli accusati di simonia. La predicazione di Arialdo non si limitava a denunciare i costumi corrotti del clero milanese, ma sosteneva anche la nullità dei sacramenti impartiti dai preti indegni, invitando i fedeli a disertare le loro chiese. Eppure, il radicalismo dei riformatori si dimostrò sia eccessivo sul piano politico sia pericoloso su quello teologico: infatti, le mediazioni tentate dai pontefici romani fallirono, mentre le violenze contro le chiese suscitarono una reazione dell’alto clero milanese, che non risparmiava un uso altrettanto deciso della violenza armata. Gradualmente, venne meno anche l’appoggio della Chiesa di Roma, in particolare perché la negazione del valore dei sacramenti impartiti dai preti indegni era una posizione dottrinalmente ambigua, siccome implicava una svalutazione della natura divina dei sacramenti che potevano essere “macchiati” dalla persona fisica del prete. La conclusione ingloriosa del movimento patarino mostra bene la natura contraddittoria della riforma: da un lato, le spinte verso una religiosità più vicina al messaggio evangelico trovavano un appoggio genuino presso i fedeli laici che richiedevano un clero più puro; dall’altro lato, questi interventi dei laici erano sempre più spesso respinti dalle istituzioni ecclesiastiche come indebite intrusioni nei dogmi della fede e come minaccia all’autonomia del clero. La Chiesa, come istituzione, doveva essere superiore e indipendente rispetto ai comportamenti dei suoi ministri e, dunque, tanto più lo era rispetto ai fedeli che doveva guidare verso la salvezza. Il papato riformatore sotto la protezione imperiale affrontò anche altri nodi dell’istituzione ecclesiastica, a partire dal ruolo del papato stesso: infatti, il primato di Roma andava rafforzato sia verso l’esterno, dopo che una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo (che ancora oggi separa la Chiesa d’Oriente, definita come ortodossa, da quella cattolica latina), sia verso l’interno, in quanto il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti (soprattutto nel momento, contestatissimo, delle elezioni). La questione dell’unità della Chiesa si pose intorno al 1053, in occasione di una nuova diatriba che si era aperta con il patriarca di Costantinopoli (anche se, in realtà, già da secoli le due chiese seguivano riti e credenze diverse): per il papa, le altre chiese erano ridotte a “serve” di Roma, mentre Bisanzio ammetteva come proprio capo solo Gesù e non Pietro. La rottura fu un atto importante nell’auto-rappresentazione del papato: non solo fornì argomenti a favore alla tesi dell’unicità della Chiesa di Roma come guida della cristianità, ma rafforzò anche la convinzione – non da tutti accettata – che solo il vescovo di Roma (vale a dire il papa) fosse depositario dell’eredità di Pietro. In forme ancora non ben definite, si pose il problema del ruolo del papato all’interno della Chiesa stessa, del suo primato, delle sue funzioni, dei rapporti con le altre figure istituzionali. Qualche anno dopo lo scisma, si aprì la questione dell’elezione del papa: i papi “tedeschi” erano protetti dalla forza di Enrico III, ma il papato, come istituzione, non era ancora stabile; e, quindi, in assenza di procedure certe, ogni elezione poteva essere contestata, ogni papa accusato di simonia e di usurpazione. In questo contesto, emerse la figura di Ildebrando di Soana, nominato da Leone IX arcidiacono e amministratore della Chiesa romana, al servizio di tutti i papi riformatori di quegli anni: grande sostenitore del rinnovamento delle chiese locali, Ildebrando aveva acquisito sufficiente autorità in seno alla curia romana da imporre come papa il vescovo di Firenze, Gerardo, che fu eletto a Siena sotto il nome di Niccolò II e che, una volta consacrato, nel concilio di Roma (1059), presentò un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto solo ai cardinali-vescovi, riducendo il popolo e il clero di Roma e lasciando uno spazio ambiguo all’approvazione imperiale. La sottrazione dell’elezione papale dal ristretto ambito romano contribuì a dare un rilievo universale al papato, dotando la Chiesa di una guida riconosciuta da un collegio qualificato di prelati. E fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Ildebrando di Soana, salito al trono papale sotto il nome di Gregorio VII (1074). 2. IL MOMENTO DEL CONFLITTO. IL PONTIFICATO DI GREGORIO VII Sotto il suo governo si raggiunse la fase di massimo conflitto fra la Chiesa di Roma e i poteri laici ed ecclesiastici dell’impero: le ragioni di questo conflitto si devono in parte alle tensioni accumulate nei decenni precedenti tra il papato e l’episcopato, in parte all’intransigenza del programma di Gregorio VII, il quale inseguiva l’altissimo obiettivo di un inquadramento della società e dei poteri laici ed ecclesiastici in una gerarchia unica con al vertice il pontefice di Roma. Si trattava certamente di un modello ideale e irrealizzabile; eppure, influenzò notevolmente il modo di rappresentare la nuova Chiesa, incentrata sul primato del pontefice romano: infatti, il papato veniva presentato come fulcro della cristianità e la cristianità come sinonimo di “società”. Sostanzialmente, Gregorio fornì la Chiesa di strumenti culturali e ideologici per immaginarla, rompendo la vecchia tradizione della spartizione delle aree di governo della società tra papa e imperatore. Dopo l’elezione (avvenuta, in modo tutt’altro che regolare, per acclamazione), Gregorio VII proseguì con vigore l’azione di riforma del clero, cercando di imporre un rigido programma di controllo sui comportamenti degli ecclesiastici; tuttavia, ben presto, dovette prendere atto delle accanite resistenze alla sua azione riformatrice, in particolare contro i decreti di purificazione del clero che prevedevano una severa repressione della simonia e del 45 nicolaismo. Le contestazioni furono attuate nella stessa città di Roma (dove molti preti concubinari preferirono rinunciare ai voti piuttosto che interrompere le proprie relazioni coniugali) e, in maniera più aspra, in Germania e in Normandia (dove i rispettivi vescovi rifiutarono di sottostare alla riforma gregoriana, arrivando ad accusare Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli), nella rivendicazione dell’autonomia delle Chiese episcopali nei confronti del nuovo modello di gerarchia ecclesiastica imposto dal papa. Davanti a queste ripetute ostilità, Gregorio VII rispose attaccando direttamente il clero ribelle. Durante il concilio di Roma (1075), egli colpì i vescovi disobbedienti minando la base del potere politico dell’episcopato: l’investitura laica dei vescovi, cioè il potere del re – o di un’autorità laica – di concedere a un ecclesiastico beni materiali, terreni, edifici e, a volte, anche la carica di vescovo. In particolare, attaccando l’investitura di benefici, Gregorio contrastò questo sistema politico di fedeltà tra i vescovi e l’imperatore: come aveva fatto per la simonia, Gregorio cambiò radicalmente il significato dell’investitura, condannando l’intervento dei laici come indebita intromissione nelle cose sacre; all’opposto, l’investitura doveva essere considerata un atto contrario allo “statuto dei santi padri”, che metteva in pericolo la stessa religione cristiana. Così, nel concilio di Roma, si dispose che “nessun chierico o prete riceva in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro”; in seguito, la forma del divieto fu precisata nei concili del 1078 e del 1080, quando si menzionò esplicitamente l’investitura imperiale: “nessun chierico riceva l’investitura di un episcopato, di un’abbazia e di una chiesa dalle mani dell’imperatore o di un’altra persona laica”. In sostanza, Gregorio rivendicò per la Chiesa di Roma un’onnipotenza senza rivali, una centralità riconosciuta da tutti in virtù del prestigio assoluto dell’ufficio papale; lo mostra bene un documento molto famoso, inserito nel registro di Gregorio VII e conosciuto come Dictatus papae: una lista di 27 tesi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. In base a questo testo, “solo il papa” poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, dividere e unire episcopati, spostare i vescovi da una diocesi a un’altra; e ancora, usare le insegne imperiali, essere omaggiato dai prìncipi con il bacio del piede, scomunicare e addirittura deporre gli imperatori. Inoltre, a questi poteri sovrani, corrisponde un’indiscussa superiorità giurisdizionale: infatti, nessuno poteva giudicare il papa, modificare le sue decisioni o condannare chi presentava appello alla sua corte, in quanto la decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava alla Chiesa di Roma, che fu definita da Gregorio come “esente da imperfezioni”; in altre parole, il papa non errava mai (dogma dell’infallibilità papale). In più, la Chiesa di Roma (e, quindi, del papa) comprendeva tutti i veri cattolici: di conseguenza, chi non faceva parte della Chiesa romana non era considerato cattolico. Il Dictatus dà l’impressione di un tentativo reale di Gregorio di imprimere alla Chiesa di Roma un crisma istituzionale nuovo, in grado di garantire la preminenza pontificia nei confronti di tutti gli altri poteri laici ed ecclesiastici, impero compreso; dei vari canoni che compongono il Dictatus, uno in particolare sembra essere stato inserito proprio da Gregorio: il potere di deporre l’imperatore (che non era solo una sanzione spirituale, ma la decretazione dello scioglimento dei sudditi dal dovere di fedeltà al re). E ciò si vide bene dopo la deposizione del vescovo di Milano, il simoniaco Goffredo, che Gregorio aveva sostituito con Attone; tuttavia, incurante di questa scelta, Enrico IV nominò il suddiacono Tedaldo, aprendo un contenzioso lungo e di estrema violenza: infatti, nei due anni seguenti, Gregorio VII ed Enrico IV usarono tutti gli strumenti a disposizione per delegittimare, scomunicare e deporre il proprio avversario, ricorrendo alle stesse armi (concili, elezione di un nuovo sovrano e di un nuovo pontefice) e nutrendosi della medesima retorica salvifica (entrambi ponendosi come salvatori della cristianità in nome di Dio, davanti alla minaccia dell’anticristo). Così, nel concilio di Worms (1076), Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’impero, in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa, vessillo tipico della regalità altomedievale di cui Enrico IV si appropriò per opporsi a Gregorio, il quale rischiava di dividere la Chiesa provocando uno scisma. Per contro, nel sinodo romano (1076) fu scomunicato e deposto Enrico IV. Ma, sul piano ideologico, la risposta di Enrico ancora più audace: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio (e non del papa), che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità; e, sulla base di questo rapporto diretto con la divinità, l’imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Con il sostegno di una parte rilevante dell’episcopato, Enrico IV fu in grado di convocare concili con un’ampia partecipazione dei vescovi italiani e tedeschi, i quali rinnovarono la deposizione di Gregorio VIII eleggendo un nuovo papa (anti-papa per Roma) nella figura del vescovo Guiberto, il potentissimo arcivescovo di Ravenna, che, per circa un decennio, governò come pontefice legittimo agli occhi dei fedeli dell’imperatore. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa (1077), il conflitto riprese più violento di prima: nel concilio di Roma (1080) Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore, sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano; l’anno seguente, Enrico scese a Roma, insediando Guiberto e facendosi incoronare imperatore. Assediato, Gregorio fu salvato dai Normanni, ma dovette abbandonare Roma e morì in esilio a Salerno. 46 Tra gli effetti reali del conflitto, emerse il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli esiti della lotta fra il partito imperiale e papale, a condizionare la vita concreta delle chiese furono le scelte prese di volta involta dia laici nelle città e nelle diocesi dell’impero; e, dunque, si affermò una nuova coscienza nei laici sull’importanza di intervenire sulla natura e la trasmissione del messaggio religioso. Ad ogni modo, i papi seguenti (come Urbano II e Pasquale II) continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere investiture di chiese da parte dei laici: tutte le investiture, senza distinzione fra lo “spirituale” (consacrazione) di competenza ecclesiastica e il “temporale” (terre e immobili) che poteva, a rigore, dipendere anche da donativi dell’imperatore. Dopo alcuni conflitti tra papa Pasquale II e l’imperatore Enrico V, ci si rese conto che Il dissidio non poteva essere risolto con un atto di separazione violenta delle sfere spirituale e temporale dell’azione dei vescovi; al contrario, i due piani dovevano coesistere: si doveva tener conto sia della profonda implicazione politica dei vescovi, inseparabili dalla trama dei poteri laici, sia della natura sacrale del loro potere spirituale, riservato alla Chiesa. Così, a Worms (1122), Enrico V e papa Callisto II trovarono un accordo che rispettava queste complesse relazioni fra sacro e profano: nello specifico, si decise che al papa sarebbe spettata l’investitura con l’anello e il pastorale (simbolo del potere spirituale e del matrimonio mistico del vescovo con la sua chiesa), mentre al re l’investitura dei regalia con lo scettro. 3. PRETESE UNIVERSALI E DEFINIZIONI ISTITUZIONALE DELLA CHIESA Il papato aveva trovato una soluzione al conflitto, ma ne era uscito fortemente indebolito sul piano politico. Tuttavia, alla fine dell’XI secolo, il papa di Roma si presentava come un’istituzione nuova, un centro di potere spirituale e politico in grado di condizionare non solo i contesti locali, ma la stessa politica dei regni europei: in effetti, già dagli anni Settanta, il raggio di intervento dei pontefici verso i re europei si era esteso moltissimo, riflesso di un ampliamento senza precedenti delle regioni sottoposte alla religione cristiana. Il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali: infatti, la Chiesa aveva un altro fine, la salvezza delle anime; usava un altro potere, l’ordine sacramentale consegnato da Dio in via esclusiva al clero; aveva un nuovo esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma; e un nuovo popolo che coincideva con tutti i fedeli abitanti nei regni. Su questa visione ideologica di una Christianitas, la Chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale e religioso in grado di condizionare per secoli la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. Cosa era “religione”, doveva essere giudicato solo da uomini di Chiesa, perché l’elaborazione del messaggio evangelico era stato affidato esclusivamente alla Chiesa di Roma erede di Pietro: di conseguenza, lo spazio per altre fedi e per altri modi di vivere la scelta religiosa doveva adeguarsi a questi limiti. L’intensa produzione normativa della Chiesa di Roma nei decenni della riforma si nutriva di una più ampia e capillare attività dei concili provinciali delle chiese cristiane: gli stessi temi ritornavano da un concilio all’altro, assumendo, di volta in volta, una forma più precisa; pertanto, raccolte di decisioni conciliari e di lettere pontificie furono preparate già alla fine dell’XI secolo. Tuttavia, per mettere ordine su queste materie così complesse, un maestro di nome Graziano, attivo a Bologna intorno al 1140, mise insieme una raccolta di canoni chiamata Decreto: un’opera che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ecclesiastico affrontate con metodo dialettico, nell’ottica di rendere coerenti passi diversi in aperta contraddizione. Il risultato non fu sempre semplice, ma, a dispetto della sua disorganicità, il Decreto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa (i canonisti), i quali presero il nome di “decretisti”. Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti di materie ecclesiastiche fu un evento cruciale per la storia della Chiesa: i canonisti intervenivano su tutto, partendo sempre dal “caso concreto”, analizzato nel suo contesto e nelle sue specificità; in altre parole, per i canonisti – e, in generale, per il diritto della Chiesa – non vi sono leggi umane assolute da applicare a tutti, ma casi da risolvere secondo equità, tenendo conto delle specifiche circostanze. Tuttavia, un sistema così duttile, che adattava continuamente il diritto ai casi singoli elaborando ogni volta soluzioni diverse, aveva bisogno di alcune linee guida, che indicassero una direzione di sviluppo verso cui indirizzare la Chiesa: in primo luogo, emerse la necessità di rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. Così, da un lato, i vescovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi; dall’altro lato, i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso propri rappresentanti (i legati apostolici), incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione delle cause in corso: in tal modo, se non ridimensionato, il potere del vescovo ne usciva almeno sottoposto a quello del pontefice in caso di conflitto. L’attribuzione di una facoltà di conoscere e di decidere sui casi più importanti fu a lungo una prerogativa rivendicata dai papi di Roma per affermare il proprio ruolo di guida suprema della Chiesa: in particolare, i casi da decidere furono distribuiti in base alla gerarchia dei gradi interni alla Chiesa. Negli ultimi anni del XII secolo, si affermò anche una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero: l’inquisitio ex officio, che divenne presto uno strumento utile per imporre la supremazia politica del papa attraverso l’esercizio di un potere giurisdizionale superiore. L’inchiesta partiva dalla “fama”, ossia da una voce collettiva su una persona o un fatto, suscitata dal comportamento riprovevole di un chierico, che, creando “scandalo”, 47 per i morti aiutavano a mantenere il ricordo delle persone scomparse, ma ora potevano anche abbreviare le pene, lenire i dolori e accumulare un capitale di meriti che aiutava l’anima del defunto a superare gli ostacoli delle pene temporanee del regno di mezzo. In tal modo, prese forma una nuova “economia religiosa” – donazioni per assicurare la sepoltura in luoghi prestigiosi e la celebrazione delle messe, cappelle votive di famiglia dove continuare un culto riservato dei propri antenati, tombe monumentali all’interno delle chiese – che trasformò in profondità non solo i costumi funerari, ma anche gli spazi sacri delle città: le chiese divennero lentamente un luogo collettivo di culto delle memorie familiari. Così, il fedele si trovò inquadrato in una vita duplice e speculare, con un rimando continuo fra ciò che si compiva sulla terra e ciò che si sarebbe subìto nell’aldilà. La nascita delle eresie segnò un punto importante nella costruzione della Chiesa come istituzione. In sostanza, seppur tutto ciò che si sa delle numerosissime correnti ereticali provenga unicamente da fonti ecclesiastiche (e, quindi, è fortemente distorto secondo gli schemi culturali e le fonti dottrinali di chi indagava e scriveva), eresie erano tutte quelle idee, quelle dottrine e quei comportamenti che, in modi diversi, negavano le basi della missione divina della Chiesa. Già nei decenni centrali dell’XI secolo, comparvero una serie di movimenti religiosi di ispirazione pauperistica, che contestavano le strutture ecclesiastiche in nome di un ritorno allo spirito e alla lettera del vangelo, venendo immediatamente definiti come eterodossi ed ereticali (per la negazione del valore dei – o di alcuni – sacramenti, dei santi, della dottrina della Chiesa e così via): questi fenomeni – molti dei quali caratterizzati da forme di ascetismo religioso – testimoniano l’ampia circolazione, negli anni vicini alla Riforma della Chiesa, dei temi monastici della povertà, del rifiuto della carne e del ritorno a un modello di vita evangelico; ma mostrano anche la pericolosità di queste ricerche individuali di una purezza originaria, una volta slegate dai riti ufficiali della Chiesa. Colpiva, in particolare, il rifiuto dei sacramenti, accompagnato spesso da una resistenza accanita alle richieste economiche delle chiese: in altre parole, questi movimenti non attaccavano la dottrina cristiana in sé, bensì la Chiesa in quanto istituzione, la sua funzione di dispensatrice del potere di salvare gli uomini. Sostanzialmente, dunque, eretici divennero tutti coloro che rifiutavano la mediazione della Chiesa, rivendicando, sull’esempio degli Atti degli Apostoli, un rapporto diretto con Dio e con lo Spirito Santo; ma, soprattutto, eretici furono definiti tutti coloro che rifiutavano di obbedire ai precetti della Chiesa, continuando a praticare scelte di vita religiosa vietate. Per questo, furono colpite anche persone che nulla avevano di eterodosso, se non la pretesa di predicare il vangelo, come avvenne per Valdo e i suoi seguaci: Valdo era un mercante al servizio del vescovo riformatore di Lione e aveva fondato una comunità di ispirazione pauperistica, dove predicava e leggeva il vangelo tradotto in volgare. In un primo momento, egli cercò e ottenne l’approvazione di papa Alessandro III, il quale, nel concilio Laterano III (1179), approvò il suo voto di povertà assoluta, ma gli impose di no predicare il vangelo; tuttavia, Valdo rifiutò di obbedire e, dunque, fu scomunicato come eretico nel 1184: ormai, si trattava di un’“eresia dell’obbedienza”, dove il vero reato consisteva, appunto, nel disobbedire a un ordine di Roma. In sostanza, non si colpiva un’anti-Chiesa, una contro-istituzione, ma la volontà di vivere e diffondere il messaggio religioso come forma di salvezza a disposizione dei fedeli. Diverso, invece, si presenta il caso delle sette dualiste conosciute sotto il nome di “catari”, alle quali – scoperte intorno al 1140, dapprima in Germania e, poi, in Francia meridionale e in Italia – si attribuiva una dottrina apertamente non cristiana: un dualismo di fondo, che riconosceva due princìpi, il bene e il male, come coesistenti e in conflitto continuo tra loro; nella sua forma radicale, sulle orme del manicheismo antico, il dualismo cataro intendeva la vita terrena come una forma di purificazione continua dalla materialità del corpo fino all’autoconsunzione e al suicido assistito. Ma, soprattutto, a differenza di altri movimenti legati a figure di predicatori itineranti, le fonti di parte cattolica attribuivano ai catari una natura istituzionale di vera anti-Chiesa (chiese catare locali, organizzate sul modello cattolico, con vescovi e preti divisi per diocesi e, addirittura, un “papa” venuto dall’Oriente). Inoltre, sembra che la diffusione del credo cataro sia stata particolarmente intensa nei ceti urbani, tra artigiani e lavoratori che contestavano apertamente la Chiesa cattolica: un’adesione apparentemente massiccia, che, però, non trova riscontro al di fuori delle fonti inquisitoriali. Ad ogni modo, di certo, la repressione fu violenta e colpì veramente migliaia di persone classificate come eretiche: la legislazione antiereticale fu gradualmente inasprita, con la messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici; ne è un esempio lampante la decretale di Lucio III Ad abolendam (1184), preparata insieme all’imperatore Federico Barbarossa. In prima battuta si colpirono tutte le eresie, qualunque nome avessero assunto, senza grandi distinzioni; in secondo luogo, il vero reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizione: in primo luogo, l’eresia è disobbedienza. Contro le persone considerate eretiche non erano necessarie prove certe: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo (il quale, una o due volte l’anno, doveva indagare nelle parrocchie) per discolparsi pubblicamente del proprio comportamento non comune a quello dei fedeli. Così, sotto la categoria di eresia, veniva ricompresa qualsiasi forma di non conformismo religioso, lasciando, però, uno 50 spazio assai ampio all’arbitrio dei denunciatori di decidere cosa fosse un “comportamento comune” e uno non comune. Infine, su convocazione dell’autorità ecclesiastica, le autorità laiche erano incaricate dell’esecuzione materiale delle sentenze: re, baroni, conti e città dovevano prontamente rispondere alla chiamata del vescovo e punire i colpevoli. Pochi anni dopo, in un’altra bolla papale, la Vergentis in senium (1199), l’eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà (che, nel diritto imperiale romano, era severamente punito con la morte): l’eretico doveva essere scomunicato, isolato, privato dei beni e della possibilità di fare testamento (morte civile). Pertanto, l’eresia segnò la linea di confine fra il gregge dei fedeli e i “lupi” rapaci che li minacciavano dall’esterno o, peggio, che, mascherati da agnelli (falsi monaci e falsi uomini pii), li ingannavano con false credenze: il sacerdote, medico dell’anima, doveva scoprire la malattia (il “cancro” dell’eresia) e operare con decisione per salvare il corpo (estirpando violentemente il cancro). Per la Chiesa dell’XI e del XII secolo, l’eretico andava “sterminato” da parte dell’autorità pubblica: dunque, si doveva legittimare la violenza giusta e disciplinare gli uomini armati che monopolizzavano l’arte della guerra. CAPITOLO II: LA GUERRA, LA CHIESA, LA CAVALLERIA Nel corso della seconda metà dell’XI secolo, si assistette a un ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. In tal modo, sulla spinta di questa sacralizzazione della violenza contro i nemici della Chiesa, negli anni finali del secolo, il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi santi subì un’improvvisa torsione bellica: invece di partire per pregare sul santo sepolcro, quattro armate franco-normanne-tedesche partirono per combattere, riuscendo pure a prendere Gerusalemme. Il pellegrinaggio si trasformò in guerra santa e portò alla nascita di nuovi Stati “cristiani” nell’Oriente musulmano e nuove forme di unione di vita religiosa e vita militare. 1. IL CONTROLLO DELLA VIOLENZA E LE PACI DI DIO Nelle cronache del X e dell’XI secolo (quasi tutte redatte da religiosi o in monasteri), il tema della violenza smodata e gratuita di una milizia senza regola si fa prepotente: descrizioni di massacri, torture, martirii di uomini religiosi mettono sotto accusa non solo i barbari del nord e dell’est (come i Vichinghi e gli Ungari), ma anche i “mali cristiani” che attaccano e saccheggiano le chiese, usurpano le terre, uccidono i contadini dei monasteri. Dietro a queste narrazioni così vivide e raccapriccianti, si cela una profonda esigenza di ordine e una strategia di difesa di lunga durata: un ordine diverso da quello carolingio, più localizzato, limitato a spazi regionali e sub-regionali più facilmente controllabili, e indipendente dall’intervento regio. Le “paci o “tregue” erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle violenze in nome di Dio (divieto di portare armi, attaccare battaglia, molestare i poveri e invadere le chiese): in queste assemblee di laici ed ecclesiastici, si ordinava la sospensione dell’attività bellica in momenti e spazi determinati (generalmente, nei giorni sacri). Erano spazi e luoghi sacri che, in primo luogo, salvaguardavano i beni e le persone ecclesiastiche e, in seconda battuta, disciplinavano l’attività armata da esercitare in ambiti determinati (ad esempio, era lecito continuare a combattere una guerra giusta, sotto il comando di un’autorità legittima). Quindi, nei concili, si affermava – seppur soltanto implicitamente – la presenza di un’autorità laica legittima, che doveva amministrare la giustizia, far rispettare la pace e, in caso, usare una violenza lecita per proteggere le chiese. 2. LA SACRALIZZAZIONE DELLA GUERRA E LE PRIME CROCIATE Questa violenza militare regolata – sottoposta a un controllo ecclesiastico sempre più stringente e inquadrata nell’azione protettrice dell’autorità laica – aprì la strada a un processo più ampio di una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede e strumento di espansione della religione cattolica. Nei decenni successivi al 1050, insieme alla Riforma della Chiesa, si sviluppò un’intensa attività bellica per conquistare o liberare le regioni periferiche dell’Europa in mano agli infedeli e agli eretici (cioè a tutte le forze locali che si opponevano in qualche modo alla Chiesa di Roma). I papi riformatori sostennero attivamente queste guerre, concedendo ai cavalieri che accettavano di combatterle privilegi spirituali, ma anche un vero e proprio statuto di “miles sancti Petri” (es. nel 1063, papa Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati per chi partiva a combattere in Spagna i musulmani). Gli appelli alle spedizioni militari sotto il vessillo di san Pietro si fecero numerosi sotto Gregorio VII, il quale, in una lettera del 1073, invitò nuovamente i prìncipi cristiani a liberare il regno di Spagna dalle mani dei pagani, restituendolo alla “Chiesa di san Pietro”, che lo aveva “in proprietà”. Inoltre, egli incitò il vescovo di Cartagine a resistere contro la persecuzione dei Saraceni e invitò i milites “in servizio di san Pietro” a soccorrere i cristiani di Costantinopoli, perseguitati dai Saraceni. Sostanzialmente, combattere contro gli eretici, gli scismatici, gli infedeli e i nemici di san Pietro (e, dunque, della Chiesa) assunse una nuova dimensione religiosa: la qualifica di “soldato di Cristo” si diffuse e venne concessa a molti prìncipi laici che si impegnavano in conflitti religiosi (es. al principe di Danimarca e ai patarini milanesi). Tutti i soldati 51 che combattevano una “guerra di Dio” meritavano una ricompensa nel regno dei cieli: ai morti in battaglia in difesa della Chiesa, fu assicurato l’ingresso in paradiso, di cui il loro vero signore, san Pietro, possedeva le chiavi. 3. LE SPEDIZIONI IN TERRASANTA La Chiesa predispose diversi strumenti di inquadramento ideologico e culturale, a cominciare dalla concessione generalizzata di indulgenze e della remissione dei peccati per i morti nelle guerre di liberazione o nei pellegrinaggi armati: infatti, se la morte era una forma di penitenza, allora meritava una ricompensa spirituale; modello che fu ripreso nel 1095 da Urbano II, per i pellegrini che partivano per la Terrasanta. I pellegrinaggi, come forma di devozione, ebbero uno straordinario successo nell’XI secolo; inoltre, un ricchissimo mercato di reliquie attivava da tempo una serie di circuiti locali di chiese e monasteri che conservavano i resti dei santi o dello stesso Salvatore: si scatenò una vera e propria competizione internazionale per accaparrarsi le reliquie più importanti, che conferivano prestigio politico ai loro possessori. Sostanzialmente, il possesso delle reliquie, la difesa dei luoghi e delle vie di pellegrinaggio (es. proteggere il “cammino di Santiago” dalle incursioni dei Mori) furono importanti strumenti di legittimazione per un’aristocrazia militare in cerca di un sistema ordinato di preminenze locali. L’appello al pellegrinaggio a Gerusalemme fu lanciato da Urbano II durante il concilio di Clermont (1095), dove il papa dapprima sottolineò l’inutilità della guerra fra cristiani, incitandoli a combattere i “pagani”, nemici della fede, e, in seguito, offrì l’indulgenza plenaria a tutti i pellegrini intenzionati a partire: fu questo il primo atto ufficiale di quelle che, secoli dopo, furono chiamate le “crociate”. Nel concilio di Clermont, papa Urbano II aveva confezionato una bolla con materiali ampiamente usati anche dai suoi predecessori: il pellegrinaggio come penitenza, la necessità di proteggere i pellegrini anche con le armi, la liberazione dei luoghi sacri dagli infedeli e la remissione dei peccati promessa ai morti in battaglia per la fede (e non per gli onori e/o il denaro). In questo contesto, nuova non era tanto la destinazione (Gerusalemme), quanto piuttosto l’inaspettata risposta all’appello papale, con la partenza di una serie di spedizioni penitenziali e militari alla volta della città santa: le armate furono quattro e si mossero in piena autonomia l’una dall’altra; tuttavia, tutti rispondevano al medesimo appello: riaprire il pellegrinaggio verso il santo sepolcro, reso difficile dall’avanzata dei Turchi, e rivendicare i luoghi santi come possesso della cristianità (tanto che i Saraceni venivano presentati come gli usurpatori di un bene che, di diritto, spettava ai cristiani). Dopo un lungo viaggio, gli eserciti europei raggiunsero Costantinopoli, e, spinti dall’imperatore di Bisanzio (che li vedeva come un utile strumento per riaffermare la sua presenza nei territori orientali occupati dai musulmani), iniziarono una lenta discesa verso la Palestina: una serie di fortunate campagne militari permise ai cavalieri europei di conquistare numerose città importanti, come Nicea (1097) e Antiochia (1098); qui, tuttavia, i gruppi militari si divisero, in quanto alcuni furono scoraggiati dalle durissime condizioni delle guerre in territori desertici. Coloro che invece decisero di arrivare a Gerusalemme dovettero organizzare un nuovo lungo assedio della città: dopo cinque settimane, i cavalieri entrarono dentro Gerusalemme (15 luglio 1099); tutte le fonti sono concordi nel ricordare un eccidio di inaudita violenza della popolazione musulmana ed ebraica, seguito da un saccheggio durato almeno quindici giorni: evidentemente, il pellegrinaggio si era trasformato in una conquista militare senza regole o limiti. A questo punto, Baldovino di Boulogne (fratello di Goffredo di Buglione) si fece incoronare re (25 dicembre 1099), mentre i territori conquistati negli anni precedenti furono organizzati in principati autonomi: contee di Edessa e di Tripoli, principato di Antiochia e regno di Gerusalemme. La prima crociata impose una presenza “cristiana” in Medio Oriente che sarebbe dovuta durare un paio di secoli, anche se la fase delle conquiste iniziò a declinare pochi anni dopo la vittoria del 1099. Le successive spedizioni non ottennero lo stesso successo. Dopo la caduta di Edessa (1144), Luigi VII di Francia organizzò una seconda spedizione, con la benedizione di papa Eugenio III e il concorso dell’imperatore Corrado III: senza uno scopo preciso, a metà tra pellegrinaggio armato e timidi tentativi di conquista, questa spedizione finì in un nulla di fatto. Peggio ancora andò la terza crociata, successiva alla dura sconfitta inflitta ai latini ad Hattin (1187) da Saladino, un sunnita che dominava una vasta compagine territoriale tra Egitto e Siria: la vittoria di Hattin aprì a Saladino le porte della Palestina, con la conquista di Gerusalemme e degli Stati cristiani della costa. La caduta della città santa spinse i re a organizzare una terza spedizione, che, appunto, si rivelò disastrosa: l’imperatore Federico I morì attraversando un fiume; un’epidemia decimò i crociati davanti ad Antiochia; il re di Francia abbandonò la spedizione, mentre gli altri capi dovettero venire a patti con il Saladino, che concesse generosamente il permesso di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme e ai mercanti italiani di commerciare con gli Stati della costa. Nel corso delle crociate, in armonia con il processo di espansione “armata” della cristianità, presero vita alcuni ordini monastici di natura militare; si tratta di una creazione originale del primo secolo XII, che univa la preghiera e la vita monastica con una difesa attiva e armata della fede, che doveva garantire l’assistenza ai pellegrini, la cura dei malati nei luoghi sacri e lungo le vie di pellegrinaggio: 52 dal basso, attuate senza alcuna delega, valorizzando le basi locali del potere, ovvero la terra, i castelli e le clientele armate. I poteri signorili partivano dalla terra, dal grande possesso fondiario: solo chi era ricco di terra aveva le risorse per imporre il proprio dominio sui vicini più deboli; dunque, ci troviamo di fronte a una vera e propria forma di potere politico, una dominazione territoriale proiettata non solo sui contadini che coltivavano la terra del signore, ma su tutti i vicini. 1. UN POTERE SENZA DELEGA: TERRE, CASTELLI, CLIENTELE I protagonisti del mutamento furono i signori, ma con questa parola ci riferiamo sia alle dinastie sia alle chiese, due facce dello stesso sistema di dominio aristocratico, che fu caratterizzato dall’efficacia locale e dalla piena autonomia dal controllo regio. Ovviamente, vi erano differenze tra chiese e dinastie, ma furono i poteri signorili nel loro complesso a rappresentare la novità di questa fase storica. Ogni signoria seguì una storia a sé, ma gli elementi messi in gioco furono in linea di massima gli stessi: terre, castelli e clientele rappresentarono le fondamentali basi dei nuovi poteri signorili. Nell’Alto Medioevo, essere ricchi significava prima di tutto essere ricchi di terre: la circolazione monetaria era debole e discontinua e le terre assunsero molte funzioni economiche, ma anche sociali. In questa prospettiva, la terra serviva per mantenere uno stile di vita aristocratico, ma anche per legare a sé una clientela di fedeli; inoltre, con le donazioni di terra, si esprimeva la propria devozione nei confronti delle chiese, ottenendo preghiere per la propria anima. Pertanto, le terre avevano un’importanza economica, una rilevanza sociale e un’efficacia simbolica molto più forti che nella nostra società. La rilevanza sociale della terra era già alta in età carolingia, ma la terra assunse un’ulteriore rilevanza sul piano sociale quando il coordinamento regio venne meno e, conseguentemente, chiese e dinastie poterono tradurre con grande libertà la propria eminenza economica in potere signorile. Siccome la giustizia regia era lontana, in quanto il conte non interveniva più all’interno di tutti i villaggi (ma concentrava la propria azione nei villaggi dove disponeva di un ricco patrimonio personale), i contadini si trovarono a cercare protezione nell’unico potente con cui erano in rapporto, ovvero il proprietario della terra che coltivavano: era un rapporto economico (scambio terra-lavoro), ma vi erano tutte le premesse perché si evolvesse in un rapporto di più completa sottomissione. Questo avvenne quando il signore costruì castelli e raccolse clientele armate: dunque, la capacità di azione militare aristocratica avviò la trasformazione dei contadini in sudditi dei signori; una dominazione più ampia, che emulava le prerogative e i compiti del potere regio (giustizia, protezione, fisco). In questa prospettiva, bisogna vedere nel castello un passaggio del processo che permise di trasformare la superiorità economica dell’aristocrazia in una forma di dominio sulla società circostante: diversamente da quanto si è pensato per molto tempo, le incursioni saracene e ungare non furono la causa dell’incastellamento, ma la conseguenza della debolezza militare del re e della sua incapacità di garantire sicurezza e pace sociale; le incursioni non determinarono la crisi del potere regio, ma la resero pienamente evidente. Per la prima metà del X secolo, si sono conservati diplomi regi che autorizzano chiese, signori o comunità a costruire castelli, per difendersi contro i “pagani e i cattivi cristiani”: si tratta di fonti importanti, che mettono in luce la presa d’atto regia della propria incapacità di proteggere tutto il territorio; il riconoscimento di una legittima iniziativa militare di altri attori politici; la presenza di una violenza diffusa, di una minaccia alla pace sociale che derivava solo dai comportamenti dei “cattivi cristiani”, ovvero membri della stessa aristocrazia. Ma non bisogna neppure sopravvalutare l’importanza di questi diplomi: infatti, non è il castello autorizzato dal re che, in quanto tale, diventa il centro del potere; ma, piuttosto, è qualunque castello, nato per iniziative e su basi diverse, a divenire luogo di esercizio della giurisdizione e, quindi, a essere legittimato dalla sua stessa efficacia. Se il regno non poteva proteggere i suoi sudditi, questi dovettero cercare protezione dove la potevano trovare: in genere, nelle città, ci si raccolse attorno ai vescovi, mentre, nelle campagne, furono i grandi possessori fondiari ad avere le risorse e l’interesse a costruire un piccolo apparato militare, un sistema di fortificazioni e di uomini armati in grado di proteggere i propri vicini; ed è per questo che furono fondamentali i castelli. Nell’XI secolo, attorno ai castelli, si sviluppò un processo di coinvolgimento e sottomissione della popolazione circostante, un processo per cui la protezione garantita dal castello si poteva estendere a gruppi progressivamente più ampi, persone legate in vario modo al signore: anzitutto, il signore e la sua familia (compresi i servi); i vassalli che affiancavano il signore nelle sue azioni armate; i contadini che coltivavano le sue terre; e, infine, i vicini che, semplicemente, avevano bisogno della sua protezione. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia e dalle corvées per la manutenzione del castello, ovvero contropartite molto specifiche, direttamente legate al castello e alla sua efficacia (es. costruzione di fossati, rinnovamento delle palizzate e così via), dando vita a un rapporto di scambio tra protezione e servizi e, più in generale, all’affermazione concreta ed evidente della capacità del signore di sostituire il potere regio nel difendere la pace. 55 Nell’XI secolo, si affermò la centralità della cavalleria, prima dal punto di vista militare e poi da quello sociale, nell’economia delle signorie: i cavalieri erano persone specializzate, ben equipaggiate, in grado di combattere a cavallo e, quindi, di contrastare i signori concorrenti e di prevalere sui contadini appiedati e male armati. Infatti, due erano gli ambiti in cui i fedeli del signore dovevano esercitare la propria forza: da un lato, combattere i potenti vicini, che minacciavano i beni, i poteri e i sudditi del signore; dall’altro lato, minacciare gli stessi sudditi, ottenere la loro obbedienza e il pagamento di quanto dovuto. Per coordinare queste bande armate, i signori si servivano anzitutto dei legami vassallatici, una realtà antica la cui natura fondamentale di patto di fedeltà non era mutata, ma le cui funzioni sociali e politiche si erano arricchite: in questa fase, possiamo vedere nei rapporti vassallatici la principale forma di “coesione gerarchizzata” all’interno dell’aristocrazia militare. “Coesione”, perché il legame vassallatico andava al di là della pura funzionalità militare, creava un sistema di solidarietà personale che vincolava sia il vassallo nei confronti del signore tra di loro; e “gerarchizzata”, perché tutte le trasformazioni del vassallaggio non arrivarono mai a cancellare l’idea della superiorità del signore: il vassallaggio fu sempre e prima di tutto l’atto cerimoniale con cui il vassallo riconosceva di essere inferiore, ma sempre dal punto di vista della relazione con il signore e non della condizione sociale; in questo senso, l’immagine della “piramide feudale” è fuorviante. Pertanto, gli storici hanno scelto di sostituire l’immagine della piramide con quella di una rete confusa, discontinua, con dei nodi molto più importanti degli altri, a rappresentare quelle dinastie che raccoglievano attorno a sé clientele ampie e potenti; ma, con tutti i suoi difetti, l’immagine della rete mette in rilievo sia la marginalità del re sia la fondamentale funzione del vassallaggio come struttura di coesione sociale, sia verticale sia orizzontale, e non come rigido apparato politico-militare. Per le dinastie impegnate a costruire poteri signorili locali, i rapporti vassallatici rappresentarono un’importante integrazione, in due direzioni opposte: riunendo attorno a sé i vassalli, i signori poterono costituire la propria forza armata, garantirsi la capacità di protegger e di minacciare i sudditi (un’azione di cui i castelli costituivano premessa necessaria, ma non sufficiente); ma, al contempo, i signori potevano integrare la propria base fondiaria, grazie ai benefici spesso cospicui che potevano ottenere. Pertanto, questi legami intervenivano in modo importante a integrare due basi fondamenti del potere dei signori: la loro ricchezza fondiaria e la loro capacità militare; al contempo, il sistema dei legami vassallatici contribuiva a dar forma ed espressione alla gerarchia interna al mondo signorile. 2. LA FORMAZIONE DEI POTERI SIGNORILI Il punto di partenza del processo di sviluppo signorile è rappresentato dalla struttura del potere in età carolingia, fondata sul controllo delegato dal re ai suoi ufficiali (conti e marchesi), a cui spettava la giurisdizione su un territorio ampio e abbastanza uniforme: gli ufficiali regi erano non solo i principali detentori del potere, ma anche il centro della società aristocratica regionale. Il punto di arrivo è – nell’XI secolo – la trasformazione territoriale dei distretti comitali e marchionali: i confini dei distretti persero rilievo, il potere si proiettò su quadri sociali e territoriali molto piccoli, costruiti sulla base della concreta capacità di azione delle singole dinastie signorili. L’attenuarsi della capacità regia di controllo lasciò maggiore spazio all’iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi, così come avvenne per l’insieme dell’aristocrazia. Da questo punto di vista, bisogna distinguere tra l’Italia e gli altri regni di tradizione carolingia: nella maggior parte del regno italico, le dinastie di tradizione funzionariale svilupparono poteri analoghi alle altre famiglie signorili, seppur più ampi; mentre in Francia, in Borgogna e in Germania, poterono sviluppare veri e propri principati territoriali, dominazioni che erano molto più ampie e strutturate delle normali signorie di castello e che riprendevano molte strutture e funzionamenti del potere regio. In Italia, in linea generale, conti e marchesi non riuscirono a controllare l’insieme del distretto, cioè non trasformarono il comitato o la marca in un dominio dinastico autonomo, ma, semplicemente, costituirono poteri signorili sulla base delle proprie terre, castelli e clientele. Se, quindi, ci si concentra sulla realtà italiana, l’unica vera differenza qualitativa era nei titoli: i documenti fanno riferimento ai signori con il titolo di dominus (“signore”), mentre i discendenti dei conti e dei marchesi continuavano a usare i titoli che richiamavano le funzioni un tempo ricoperte dai loro antenati; continuare a definirsi comes era un modo per evidenziare la memoria di questa antica funzione e, quindi, affermare la propria maggiore legittimità a esercitare il potere. L’aristocrazia funzionariale e i grandi possessori si assimilarono progressivamente e, da punti di partenza lontani, giunsero a risultati analoghi: dominazioni patrimonializzate, fondate sul concreto controllo di terre e persone e organizzate attorno alle fortificazioni. L’esito fu una società rurale organizzata attorno a una moltitudine di dominazioni signorili (varie per ampiezza e origine) condividevano la capacità di unire poteri di matrice diversa: ai tradizionali rapporti di dipendenza economica e personale che univano i contadini ai grandi proprietari fondiari, si erano aggiunte sia le concrete protezioni armate imposte dal signore sia giurisdizioni e imposte di tradizione pubblica. All’interno dei singoli villaggi, questi poteri e prelievi erano condivisi e spartiti tra diversi signori, con forme molto diverse da luogo a luogo, dal momento che le basi fondamentali del potere signorile avevano una protezione sul territorio molto diversa: da un lato, il castello era un’efficace forma di difesa per tutte le persone che vivevano 56 abbastanza vicine da rifugiarvisi e, quindi, la sua efficacia si estendeva omogeneamente al territorio circostante; dall’altro lato, invece, il patrimonio fondiario di un signore era normalmente frammentato e disperso e, pertanto, all’interno di un singolo villaggio coesistevano patrimoni di diverse chiese e dinastie aristocratiche. Ma le due cose coesistevano: infatti, i signori cercavano anzitutto di trasformare i propri contadini in sudditi, ovvero di creare un potere ricalcato sul proprio patrimonio fondiario; al contempo, chi aveva costruito un castello, lo usava per cercare di sottomettere l’intera popolazione dell’area circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori, tra chi controllava un castello e chi disponeva di un grande patrimonio fondiario nei pressi di quel castello. Ma, soprattutto, ne derivarono forme di convivenza e di spartizione del potere signorile all’interno dei singoli villaggi, spartizioni che non seguivano regole o modelli di valore generale, ma erano diverse da luogo a luogo, in una convivenza tra “signorie territoriali”, organizzate attorno a un castello e proiettate sul territorio circostante, e “signorie fondiarie”, signorie minori, costruire sul patrimonio fondiario dei signori e sul controllo dei contadini che lo coltivavano. Un ulteriore elemento di complessità derivava poi dal fatto che questi poteri giurisdizionali signorili erano considerati come parte del patrimonio del signore e, quindi, subivano gli esiti delle spartizioni ereditarie, delle vendite, delle concessioni impegno, come qualunque altro bene: così, spesso vediamo signori che comprano, vendono, spartiscono singoli diritti giurisdizionali; e, pressoché ovunque, l’esito è un quadro di altissima frammentazione del potere, per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori. 3. CHIESE POTENTI E CHIESE PRIVATE È però importante riflettere sulle peculiarità delle chiese, sulle diverse caratteristiche che le ponevano in una posizione particolare nel sistema politico signorile: in particolare, le chiese avevano un’importantissima funzione archivistica; al contempo, le chiese furono le principali sedi di riflessione politica e di elaborazione di modelli di ordine sociale. Ma, al di là del dato documentario, chiese e dinastie presentano alcune importanti differenze nella propria azione politica locale. Le chiese erano punti di fortissimo addensamento fondiario: i laici donavano le proprie terre alle chiese per garantirsi le preghiere di monaci e chierici; pertanto, se c’era un flusso quasi continuo di beni dai laici alle chiese, questi patrimoni non subivano poi gli stessi processi di frammentazione e dispersione dei patrimoni laici, siccome non subivano divisioni ereditarie, e, al contempo, il diritto canonico non permetteva alle chiese di vendere i propri beni. Ma la ricchezza e la stabilità patrimoniale non erano i soli elementi di vantaggio che le chiese potevano sfruttare per dare maggior forza alla loro azione come poteri signorili: un altro elemento importante era rappresentato dall’immunità, una larga esenzione fiscale e una tutela dei beni delle chiese, che introduceva l’idea che gli edifici e le terre delle chiese non fossero spazi come gli altri, ma fossero connotati politicamente in modo specifico, come un ambito in cui gli ufficiali regi non potevano intervenire. Per quanto riguarda i comportamenti verso i sudditi, invece, le forme di coercizione e violenza fondavano tanto il dominio aristocratico quanto quello monastico e clericale (spesso per mano altrui). Tuttavia, le chiese non erano solo protagoniste dello sviluppo signorile, ma erano anche strumenti di questo sviluppo: infatti, erano molte le cosiddette “chiese private”, enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un’altra chiesa. Occorre però condurre due discorsi parzialmente distinti, sulla base della distinzione tra:  “chiese in cura d’anime”  tutti quegli enti religiosi la cui finalità era quella di officiare i culti destinati ai laici, dalle cattedrali alle piccole chiese di villaggio. Nell’Alto Medioevo, il sistema dominante era quello delle pievi: erano le articolazioni della diocesi, chiese create dai vescovi e destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi. Ciò che davvero le connotava era prima di tutto la presenza del fonte battesimale: la pieve era il passaggio obbligato per i nuovi nati, lì si compiva il rito che segnava l’ingresso nella comunità cristiana. Al fianco delle pievi, però, c’erano molte chiese e cappelle minori che non erano dotate di diritti battesimali, ma che rappresentavano luoghi di riunione della società locale. Queste chiese nascevano spesso dall’azione dei signori, che procedevano sia a costruire l’edificio sia a garantire al suo interno la presenza di chierici. La chiesa era il centro della vita sociale locale, il luogo in cui gli abitanti del villaggio si riunivano regolarmente per le funzioni religiose, ma anche per trattare le questioni pratiche che coinvolgevano la collettività (es. gestione dei pascoli, delle acque, e così via). L’atto di costruire e proteggere la chiesa era per il signore un modo per impadronirsi di uno dei centri simbolici della società locale: in tal modo, il signore che garantiva la sussistenza di molti contadini e la loro relativa sicurezza garantiva anche un normale accesso al sacro, una chiesa vicina in cui i contadini-sudditi potevano riunirsi regolarmente;  monasteri privati  la funzione dei monaci non era quella di curare i poveri, diffondere la cultura o proteggere i viandanti, ma quella di pregare, prima di tutto per compiere il proprio personale percorso di ascesi e poi per la salvezza ultraterrena dei propri benefattori: dunque, per un laico, fondare un monastero 57 territorio, in quanto essa viveva con il territorio circostante, ne assorbiva le risorse in surplus, attirava nuovi abitanti, assicurava lo scambio di prodotti e merci lavorate. Nel corso del XII secolo, questo movimento assunse ritmi più ordinati: le mura definirono ovunque lo spazio urbano separato dalla campagna, mentre gli atti giuridici ufficiali sanzionarono lo statuto politico di città. Nel corso del XIII secolo, un processo di stratificazione sociale mise in luce i contrasti e le gerarchie interne al mondo urbano. Seppur a prezzo di una forte emarginazione delle frange basse dei ceti salariati, lo spessore economico delle città ne fece dei soggetti politici di primo livello: furono i prìncipi ora ad aver bisogno delle città e più ancora i regni, che conferirono alle città comunali uno statuto privilegiato. 1. LE BASI DELLO SVILUPPO URBANO La città – sia come centro urbano sia come organo politico – è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali, in particolare:  il legame con il territorio circostante  elemento di natura economica e demografica, in quanto non esisteva un centro abitato che non dipendesse direttamente dai movimenti di popolazione e dai processi produttivi del territorio circostante. I dati demografici segnalano quasi ovunque un aumento della popolazione nelle campagne e, dunque, un aumento delle migrazioni e dell’attività agricola, in grado di mantenere una popolazione in crescita, deve aver accompagnato lo sviluppo dei centri urbani. In più, la città non riusciva a mantenersi da sola e, dunque, con il suo territorio, il centro urbano conservò un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime e redistribuiva prodotti finiti, una volta lavorati. E, quindi, evidentemente, il territorio rappresentò sempre un nodo di scambio indispensabile, un insieme di relazioni socio-economiche che alimentavano la funzione di “cento redistributivo” svolta dalla città;  la capacità di trasformare la condizione degli abitanti  tramontato il mito delle città come “isole borghesi” in un mare di signorie, due dati sembrano ricorrere in maniera costante nelle trasformazioni del tessuto sociale delle città tra XI e XII secolo: - da un lato, la dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città: infatti, alla metà del secolo XI, i legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano ancora forti; - dall’altro lato, la capacità di trasformazione degli abitanti delle città, i quali, nel corso del XII secolo, tendono a riconoscersi come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri derivanti dalla comune appartenenza alla città. Il principale processo di trasformazione sociale avvenuto nelle città riguarda proprio la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città: una relativa libertà personale – estesa anche alle persone di origine servile –, una solidarietà necessaria per dar corpo alle richieste collettive da indirizzare ai signori, il comune bisogno di uno “stato di pace” che salvaguardasse le persone e le cose dei cittadini;  il decisivo impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani  il terzo elemento da tenere presente è proprio quello politico dei rapporti fra centri urbani e i poteri signorili della regione che spesso avevano sede in città. In alcuni casi, questi rapporti furono di collaborazione immediata e, anzi, di vera e propria promozione dello sviluppo urbano (es. i duchi normanni sostennero la fondazione di nuovi centri cittadini, come Caen): in queste città, gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo del signore; in tal modo, i residenti in città divennero proprietari e poterono lasciare in eredità i loro beni urbani, creando una popolazione di cittadini indipendenti dagli oneri signorili sul suolo. Privilegi simili si trovano nelle città tedesche del Reno (es. Colonia e Worms): non solo i signori le fondarono, promuovendo il popolamento dei nuovi centri, ma applicarono anche uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada-mercato principale, collegata alle porte della città. La natura strategica della fondazione della città-mercato richiese la creazione di una nuova popolazione di abitanti-proprietari con una debole, ma persistente relazione di dipendenza dai signori; ma è chiaro che queste concessioni facevano parte di un progetto di rafforzamento del potere pubblico locale: infatti, lo sviluppo precoce di una rete urbana favoriva una maggiore stabilizzazione delle regioni interessate, grazie al popolamento di zone prima poco attive, al potenziamento delle vie commerciali che assicuravano lo scambio di merci nella regione e alla crescita delle entrate signorili garantite dalle imposte pagate dai cittadini. Così, i prìncipi che favorirono le città furono anche quelli che realizzarono uno Stato relativamente accentrato, con una rete di ufficiali minori nelle città e la formazione di una corte con funzioni fiscali e giudiziarie intorno al signore. Non sempre, però, le cose andarono in questo modo, dal momento che, in molte regioni, la nascita di un’autonoma rappresentanza della città (chiamata, in maniera ancora generica, “comune”) fu osteggiata fortemente dai poteri signorili dominanti alla fine dell’XI secolo. Ad ogni modo, sia in caso di collaborazione che di opposizione, è indubbio che le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall’autorità superiore. Tanto i giuramenti di comune, che dovevano essere approvati dal potere locale, quanto le “franchigie”, carte di libertà concesse ai cittadini che 60 provenivano direttamente dal signore, riguardavano anzitutto la concessione di poteri giudiziari civili alle corti cittadine e alcune esenzioni dalle tasse sui commerci e sui suoli urbani. Del resto, la sensazione che le città europee avessero una natura doppia – quasi bicefala – è rafforzata dalla presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato, gli ufficiali signorili, balivi o siniscalchi, che detenevano il controllo militare e la giustizia alta di sangue per conto del signore; dall’altro lato, gli scabini (i giudici della città) e i consoli che “rappresentavano” la fascia di popolazione ammessa alla vita politica della città. Ma, in realtà, questa sistemazione apparentemente semplice delle istituzioni urbane nasconde una costruzione più complessa, dal momento che, all’interno di un quadro politico incardinato sui poteri signorili locali, molti prìncipi laici ed ecclesiastici trovarono opportuno riconoscere l’esistenza di nuovi soggetti sociali ed economici che reclamavano un ruolo attivo nella vita politica della regione. Così, i residenti nelle città chiedevano soprattutto la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le attività produttive e le relazioni commerciali assicurando un flusso di interscambio con il territorio; al contempo, si riconoscevano fedeli al principe. A loro volta, i signori dovevano garantire queste sfere di autonoma organizzazione dei cittadini, limitare le loro pretese fiscali, premiare con dei privilegi che assicuravano la libertà questa fedeltà politica al loro dominio. 2. LE CITTÀ TRA XII E XIII SECOLO: UNIFICAZIONE E DIFFERENZIAZIONE SOCIALE Dalla metà del XII secolo in avanti, il fenomeno urbano si assestò lungo linee di sviluppo relativamente costanti. In primo luogo, le città formate spesso da parti differenti – borghi, cité, castello, chiese, in mano ad autorità diverse – furono riunite in un’unica realtà territoriale urbana: la costruzione di nuove mura rese visibile questo processo. Tra il XII e la prima metà del XIII secolo, tutte le città furono circondate da una nuova cerchia di mura, che, oltre agli edifici, inglobava ampie zone di terreno non costruito, messo a coltivazione con vigne e orti: in tal modo, le mura divennero il simbolo della città, assorbirono per anni le energie tecniche ed economiche della popolazione e alimentarono la prima fiscalità urbana, visto che tutti i cittadini dovevano contribuire a finanziare la costruzione della nuova cinta secondo i diversi livelli di ricchezza. Inoltre, segnarono un confine più netto con il territorio esterno, alimentando una coscienza civica più accentuata rispetto al primo secolo di vita delle città: abitare e “appartenere” alla città indicava una condizione giuridica e sociale diversa attribuita alle persone residenti. Nel corso del XII e XIII secolo, per via dello sviluppo economico, la popolazione urbana è percorsa da un inarrestabile processo di stratificazione sociale e di differenziazione fra gruppi diversi: in sostanza, il comune urbano appariva non meno gerarchizzato del territorio circostante, sia, in primo luogo, all’interno dei ceti che guidavano il comune (nascita di una nuova élite economica di estrazione borghese) sia, in secondo luogo, a livello della popolazione urbana (frastagliato mondo artigianale, gerarchizzato secondo i diversi mestieri, ma anche secondo le funzioni che venivano svolte all’interno dello stesso mestiere). Tuttavia, il prestigio sociale raggiunto da alcune corporazioni di mestiere riguardava soltanto i maestri in possesso dei mezzi tecnici più costosi e avanzati, per diminuire man mano che le fasi di lavorazione si facevano più pesanti: in effetti, le attività in cui si maneggiavano le cose “sporche” – il sangue, le carni seccate del cuoio, le tinture – e si svolgevano fasi di lavorazione solo meccaniche “macchiavano” la persona, ne riducevano la qualità umana e giuridica, isolando un gruppo sociale sospetto, inaffidabile, sempre a rischio di caduta verso la condizione irredimibile di “infame” (termine tecnico che, nel Medioevo, indicava persone senza diritti e senza reputazione, escluse dai tribunali e, soprattutto, prive di qualsiasi rappresentanza politica). Nel corso del XIII secolo, le città divennero elementi vitali del corpo politico dei regni, una volta che questi riuscirono a stabilizzare la loro presenza al centro del gioco politico europeo; e, infatti, furono proprio i regni a “usare” meglio le città e a fornire un quadro generale di sviluppo ai ceti urbani in cerca di affermazione. CAPITOLO V: I REGNI E I SISTEMI POLITICI EUROPEI FRA XI E XIII SECOLO Nei secoli centrali del Medioevo, il reticolo dei poteri dell’Europa sembra lasciare poco spazio ai tentativi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governo di un re: signorie e castello ormai autonome; un ceto militare in cerca di una faticosa sistemazione in reti stabili di alleanze; principati regionali in conflitto e gelosi della propria autonomia; città in crescita come centri economici in grado di influenzare gli assetti regionali. Naturalmente, i re esistevano, ma, fino a buona parte del XII secolo, il loro potere aveva limiti ben precisi: controllavano un territorio ristretto, dovevano contrattare le principali azioni di governo con i grandi potentati locali, provenivano da dinastie poco legittimate che faticavano a imporre i propri candidati alla successione al trono. Tra l’XI e il XIII secolo, i compiti delle monarchie erano più elementari – e, allo stesso tempo, più difficili – di quanto gli storici abbiano immaginato: anzitutto, bisognava affermare un “diritto a esistere” come entità politiche superiori e, 61 quindi, sforzarsi di recuperare un coordinamento dei poteri sparsi in mani diverse e contesi da prìncipi regionali da tempo abituati a governare in piena autonomia i propri territori. Gli strumenti usati variarono da regione a regione, ma ovunque furono improntati al più spregiudicato opportunismo politico, a un’empirica capacità di adattarsi alle realtà circostanti e di superare i vincoli posti dai rapporti di forza esistenti. 1. LIMITI DEI REGNI NEI SECOLI XI E XII All’affacciarsi del XII secolo, i poteri di tipo monarchico che si erano affermati dopo la dissoluzione del regno carolingio mostravano una serie di debolezze strutturali che si traducevano in vincoli e limiti alle capacità d’azione dei singoli re. In primo luogo, le dinastie regnanti si fondavano ancora sul terreno assai incerto delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del continente europeo; una trama debole, che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra famiglie. Ma, tuttavia, una trama che era in grado di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni. Pensiamo alla Francia: il suo assetto mutò radicalmente quando il ducato di Aquitania fu unito, per via matrimoniale, alla contea di Angiò e alla Normandia e, quindi, all’Inghilterra sotto il dominio di Enrico II della dinastia Plantageneta; in tal modo, prese vita una configurazione politica sovraregionale che sovrastò a lungo il re di Francia, per poi eclissarsi all’inizio del 1204. Un altro esempio macroscopico di unione e divisione di territori è il regno dei Normanni nell’Italia del sud: dopo una prima invasione sparsa, nel 1130, Ruggero II unì Sicilia, Puglia e Calabria in un solo regno, che, già alla fine del XII secolo, passò – sempre per via matrimoniale – all’imperatore svevo Enrico VI, che lo trasmise a suo figlio Federico II in eredità. È difficile, in questa situazione, tracciare una chiara geografia dei regni tra l’XI e il XII secolo, fatto salvo il caso inglese, dal momento che, sul piano politico, i regni non si distinguevano ancora così chiaramente dai tanti principati vicini, spesso più forti e più estesi. I regni erano soprattutto potenze regionali; o, meglio, dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza, visto che un’effettiva supremazia politica era ancora incerta e poco sostenuta dagli altri prìncipi: più che di veri e propri regni, dovremmo allora parlare di principati a tendenza egemonica o di regioni inquadrate in sistemi di alleanze con al vertice un re. A questa mobilità dei quadri territoriali (molto acuta in Francia e in Spagna), si aggiunse anche la difficoltà tecnica di coordinare, sul piano feudale, una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi a seconda dei signori di riferimento: nel XII secolo, i re erano signori “parziali” di grandi vassalli, i quali, a loro volta, avevano propri vassalli, che non erano per nulla legati al re, ma avevano obblighi solo verso il proprio signore; in altre parole, vigeva ancora un principio di solidarietà orizzontale, secondo il quale “il vassallo di un vassallo del re, non è un vassallo del re”. Ultimo grande limite dei regni era l’assenza di un vero apparato di funzionari pubblici: infatti, in genere, i grandi uffici regi erano nelle mani della stessa alta nobiltà che circondava il re, alternando favore e ostilità secondo i casi. In più, se è vero che esisteva solido (ma ristretto) apparato burocratico di corte in mano ad ecclesiastici di grande levatura, è altrettanto vero che il loro intervento si limitava per lo più a garantire il funzionamento della corte regia sul piano culturale e politico e non potevano certo diventare uno strumento di governo dei singoli territori. 2. L’INGHILTERRA DALLA CONQUISTA AL DUECENTO Guglielmo il Conquistatore (re 1066-1087) sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066 e, nella famosa battaglia di Hastings, sconfisse il re appena eletto, Harold. La veloce invasione del regno d’Inghilterra portò alla sostituzione immediata delle élite aristocratiche anglosassoni da parte dei baroni normanni; tuttavia, i Normanni non trovarono un deserto e fondarono il loro dominio su una base solida di istituzioni pubbliche che non sparirono subito dopo la conquista: il regno normanno conservò molte caratteristiche dell’epoca precedente, sia per necessità sia per opportunismo. Prima della conquista, il regno d’Inghilterra era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale (shires), assegnate a ufficiali pubblici (ealdormen o earls); al di sotto degli shires, esistevano circoscrizioni minori, le centene (hundreds), formate da gruppi di dieci famiglie (tithing): erano unità che godevano di ampia autonomia organizzativa e avevano come fine principale l’amministrazione della giustizia attraverso il mantenimento della “pace”. Le assemblee di hundreds e dei villaggi discutevano anche di questioni fiscali, ma il carattere giudiziario delle sedute era prevalente: i processi seguivano i costumi locali e applicavano quello che lo stesso re chiamava il “diritto della gente” ( folkright). Tuttavia, per il mantenimento dell’ordine, la pace era centrale anche nella legislazione regia: infatti, i sovrani inglesi continuavano a emanare leggi sulla pace come ordine e pacificazione dei conflitti. In sostanza, la pace del regno era un compito del re, ma era condiviso con le comunità che avevano un ruolo attivo nell’organizzazione della vita locale. Anche Guglielmo riprese questa tradizione, tanto più che il tema della pace era per lui urgente dopo le guerre di conquista e la repressione dei baroni inglesi: così, nel giuramento dell’incoronazione, egli si impegnò a mantenere i diritti delle chiese e a governare “il popolo suddito in modo giusto e attraverso le leggi”. Ma la realtà era un’altra: infatti, da un lato, i baroni normanni che avevano seguito Guglielmo in Inghilterra esigevano, come premio della loro fedeltà, non solo l’assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica 62 nella sua Vita di Luigi VI il Grosso, sostiene una teoria per cui, poiché ogni feudo “muoveva” da un altro feudo e solo il re non aveva superiori, allora tutti gli altri prìncipi erano “vassalli del re”, tra i quali lo stesso Enrico I, che avrebbe ottenuto il feudo di Normandia per “generosa liberalità del re di Francia”). Allo stesso tempo, però, Sugerio ricordava come le azioni militari del re fossero sempre sollecitate da un esplicito mandato degli uomini di Chiesa: in particolare, Luigi interveniva contro i castellani quando questi minacciavano le chiese e turbavano la “pace pubblica”; in quei casi, la spedizione militare era approvata da un concilio provinciale di vescovi che invocavano il re come difensore armato della Chiesa. Se la presenza costante della mediazione ecclesiastica poteva apparire come un elemento di debolezza, con il tempo, divenne un punto di forza: infatti, poco alla volta, per merito di Sugerio, il re assunse questa funzione di paciere, si arrogò il dovere di mantenere la pace, di imporre una “pace del Re” dove prima si cercava una pace di Dio. Il cambiamento avvenne sotto il figlio e successore di Luigi VI, Luigi VII (1137-1180), sempre coadiuvato da Sugerio, che fu nominato anche reggente quando il re partì per la seconda crociata del 1144. Nei due anni di reggenza, Sugerio riuscì a disegnare una nuova funzione della monarchia attraverso una serie di atti di governo fatti in nome e per il bene del “regno”: in tal modo, si configurava un’entità astratta che esisteva anche in assenza del re, imponendosi come soggetto politico da rispettare e temere. Rientrato in patria dalla Terrasanta, durante il concilio di Soissons (1155), Luigi VII proclamò “la pace per tutto il regno”, un atto importante proprio per la dimensione sovralocale che aveva assunto il re, grazie al suo compito di pacificatore. E il concetto fu ribadito nel concilio di Reims (1157), dove si attribuì al re il compito di assicurare la pace e di punire i colpevoli che i signori locali non avevano perseguito: così, da un lato, si assegnava al re una funzione superiore e sostitutiva rispetto ai signori locali (interveniva in caso di negligenza); dall’altro lato, si indicava chiaramente come “mantenere la pace” equivalesse a esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti. Per tutto il XII secolo, le guerre continue, diffuse e cruente che i re francesi combatterono non portarono a nessun accrescimento territoriale del regno; tuttavia, neanche i poteri regionali confinanti fecero grandi progressi. Solo in un caso i prìncipi minacciarono direttamente i confini del regno: quando, per ragioni matrimoniali, si unirono i ducati di Normandia, di Aquitania e il regno d’Inghilterra sotto il dominio dei duchi d’Angiò (più tardi detti Plantagneti, dalla pianta di ginestra presa a simbolo della casata). Infatti, Luigi VII aveva sposato Eleonora d’Aquitania, che avrebbe portato in dote il riottoso e lontano ducato d’Aquitania; tuttavia, al ritorno dalla crociata, il re francese decise di divorziare da Eleonora, la quale, dopo pochi mesi, sposò il giovane conte d’Angiò, Enrico (figlio di Enrico I duca di Normandia e re d’Inghilterra), il quale, divenuto re con il nome di Enrico II, aggiungeva a questi titoli anche il ducato di Aquitania, unendo in un solo dominato tutta la Francia nord-occidentale e meridionale. Così, iniziò quella che alcuni storici chiamano la “prima guerra dei cento anni” fra i re francesi e i re inglesi: una serie di guerre e di tregue che si prolungò fino alla morte di Luigi VII senza grandi conseguenze territoriali. Anzi, le guerre continue misero alla prova le reti di alleanze di entrambi i re, che si mostrarono molto permeabili l’una con l’altra: gli stessi prìncipi potevano schierarsi con estrema facilità con Enrico II o con Luigi VII secondo le convenienze del momento. Deceduto nel 1180, Luigi VII lasciò il figlio Filippo Augusto – incoronato già nel 1179 – in balìa di due potenti clan di protettori: i conti di Champagne per via di madre e i conti di Fiandra per via matrimoniale. Anche il regno di Filippo si apriva sotto le stesse urgenze di sempre: contenere le pretese dei baroni francesi e difendersi dalla minaccia plantageneta. Il regno di Filippo Augusto è considerato da molti storici il punto di svolta della monarchia francese, sia per la durata quarantennale del suo governo sia per le trasformazioni che impresse ai metodi di governo del regno. In primo luogo, le guerre contro i baroni francesi furono questa volta fruttuose e fortunate: sfruttando la dote della moglie, il re costrinse Filippo d’Alsazia a cedere al regno due contee importantissime (Vermandois e Artois). In secondo luogo, nel corso dello scontro ventennale con gli anglo-normanni, Filippo sfruttò invece le divisioni interne alla dinastia Plantageneta, indebolita da una competizione fratricida tra i due figli di Enrico II, Giovanni e Riccardo, che, dopo alterne vicissitudini, ne portò alla rovina il dominio continentale. A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato sia contro il padre sia, con maggior vigore, contro il fratello Giovanni. Alla sua morte, Giovanni subentrò come erede unico, ma senza avere un reale supporto né fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni: questo portò alla conquista della Normandia da parte di Filippo. In questo contesto, la battaglia combattuta a Bouvines (1214) fu uno dei rari eventi bellici a influenzare in profondità le vicende dei regni europei della prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano riuniti tutti i suoi avversari storici: il re inglese Giovanni Senzaterra, l’imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra, il duca di Brabante e molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare, nello stesso momento, anche le maggiori resistenze alla sua espansione verso la Fiandra e il nord del regno: in particolare, dopo Bouvines, Filippo non fu più costretto a difendersi e poté iniziare una politica più aggressiva (anche se a volte con esiti fallimentari, come il più volte ripetuto tentativo di invadere l’Inghilterra). 65 La cosiddetta “crociata albigese” (la spedizione che, fin dal 1209, i baroni del nord della Francia avevano condotto, per conto del papa, contro il conte di Tolosa) aveva aperto un’insperata via di penetrazione verso i principati del sud. Infatti, i cavalieri francesi erano riusciti a sostituire temporaneamente il conte di Tolosa e l’impresa aveva consegnato nelle mani di Filippo una potentissima arma per giustificare un intervento armato contro un vassallo – il conte di Tolosa, appunto – che nulla aveva fatto per essere attaccato: la lotta contro l’eresia. In effetti, il conte era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III e gli eretici erano sciolti dai giuramenti di fedeltà e potevano essere privati dei beni: in tal modo, Filippo poteva rivendicare la spedizione come atto in difesa della fede, una risorsa che i re francesi sfruttarono con grande abilità. Più di altri, Filippo riuscì ad assicurare al regno una superiorità economica in grado di sostenere un apparato militare così imponente e incerto: il budget del 1202-1203 mostra bene come il re francese fosse riuscito non solo a razionalizzare la contabilità e l’amministrazione locale, ma a sfruttare con abilità le pieghe finanziarie dei rapporti feudali (le entrate erano composte per la maggior parte dai proventi delle rendite agricole del dominio regio e dalle tasse sulle città, che iniziavano a contribuire sensibilmente alla ricchezza del regno). La possibilità di sfruttare meglio il dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo, responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita. Inoltre, l’amministrazione centrale era stata affidata a un personale diverso: scomparsi i grandi del regno e i baroni che tramsettevano per ereditarietà le cariche, furono chiamati esponenti della media cavalleria e della nobiltà urbana, membri dell’ordine templare specializzati nella contabilità finanziaria; insomma, un ceto amministrativo fedele al re, non legato da pericolose dipendenze verso i grandi vassalli del regno. Ma, a rendere ragione della novità, furono le entrate “straordinarie”, che riguardano in gran parte tasse “feudali”: forte della sua superiorità politica (per la quale non era tenuto a prestare omaggio a nessun principe di cui pure era vassallo), Filippo riuscì a sfruttare sul piano economico tali prerogative feudali, richiedendo enormi somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo e per la “custodia” dei feudi regi nei momenti di minorità dell’erede. Inoltre, il re riuscì anche a monetizzare il mancato servizio militare, imponendo una tassa per assoldare dei “sergenti”. In più, nelle zone contese, creò dei feudi-rendita da assegnare a cavalieri e signori locali, in modo da comprare la loro neutralità in caso di guerra. In sostanza, dunque, struttura feudale e struttura amministrativa del regno si svilupparono in parallelo e non in contrasto: fu proprio la sapiente combinazione di strumenti giuridici ed economici diversi ad assicurare il successo della politica regia, rendendo Filippo uno dei prìncipi più potenti e solidi sul piano finanziario, in grado di resistere più a lungo nelle guerre locali, ma anche di offrire di più, rispetto ai concorrenti, a tutti quei dominati locali che avessero accettato la sottomissione al regno di Francia. 4. I REGNI SPAGNOLI La Spagna dell’XI secolo era divisa in numerose contee con aspirazioni monarchiche, relegate in prevalenza nella parte settentrionale della penisola; il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano: infatti, la storia della Spagna è stata profondamente segnata dalla conquista araba dell’VIII secolo, che mise fine al regno Visigoto di Toledo. Tuttavia, un regno cristiano avrebbe continuato a esistere a nord, per poi risvegliarsi nell’XI secolo e iniziare una lenta, ma inarrestabile riconquista dei territori verso sud: in questo senso, “Reconquista” è il termine usato ancora oggi dagli storici per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso medioevo; quasi una riacquisizione di una cosa già posseduta e ora tornata nelle mani dei legittimi proprietari, dal momento che la presenza araba si configurava come un’occupazione illegittima (visione trionfalistica che, però, pecca di alcune esagerazioni ideologiche). Nell’XI secolo, i regni spagnoli non erano esattamente dei “regni”, ma, di fatto, erano contee di dimensione regionale, che occupavano solo la parte settentrionale della penisola (dai Pirenei alla Galizia). Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel Duecento avanzato, quando le formazioni di carattere regio – Castiglia e Aragona – definirono meglio la loro natura territoriale. In questo contesto, anche l’identità etnica delle popolazioni era incerta: la lunga permanenza della dominazione araba aveva chiaramente creato una popolazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe come “ispanica”. Tuttavia, la separazione dei due mondi cristiano e musulmano non era così netta come ci si aspetterebbe. L’interesse della storia spagnola fra XI e XII secolo risiede più nella profonda commistione politica fra i regni “cristiani” del nord e i vari califfati del centro-sud, piuttosto che nello scontro brutale fra religioni opposte: infatti, furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e alleanza tra i re spagnoli (soprattutto di Aragona e Castiglia) e i diversi potentati delle città della frontiera. In sostanza, pertanto, la Reconquista fu una celebrazione in termini epici di una mutazione politica molto lunga, che solo in parte dipese dalle conquiste militari dei prìncipi cristiani: infatti, senza la profonda e diffusa crisi della dominazione almoravide tra XI e XII secolo, la Spagna musulmana non avrebbe cessato di esistere. È vero, tuttavia, che la guerra all’infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli: i sovrani più impegnati nelle guerre di espansione – il re di Castiglia e quello di Aragona-Catalogna – ricorsero spesso a 66 questo armamentario retorico quando affrontarono conflitti armati con i califfati confinanti, trovando nell’esaltazione religiosa delle attività belliche un forte sostegno ideologico alle loro pretese monarchiche. Eppure, la prima metà del XII secolo fu segnata da guerre nel complesso poco decisive sul piano territoriale e che videro sempre la prevalenza degli Almoravidi; nei decenni successivi, alcune spedizioni cristiane ottennero qualche successo: per esempio, la “cavalcata” di Alfonso VII verso Cordova e Cadice del 1133 è rimasta famosa. Ma erano razzie e saccheggi, non guerre di occupazione. La possibilità di uno scardinamento del sistema di governo musulmano fu aperta dalla crisi interna del regno almoravide. Provenienti dal Maghreb, gli Almoravidi avevano esteso una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa; tuttavia, ben presto, la rigidità dei costumi religiosi, la differenza linguistica e culturale dall’élite precedente e, soprattutto, un regime fiscale opprimente resero il governo almoravide lontano e ostile alla popolazione andalusa, anche per via delle persecuzioni delle minoranze. Ma la reazione agli Almoravidi partì dal Marocco: in un decennio, una setta di Almohadi riuscì a conquistare il Marocco e a espandersi in Andalusia, dove trovarono il sostengo anche delle maggiori città spagnole. Per la Reconquista, questa mutazione nel quadro politico musulmano segnò una sostanziale battuta d’arresto, soprattutto quando l’esercito musulmano sconfisse Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos (1195). La reazione “cristiana” iniziò nei primi anni del Duecento, con la proclamazione di una crociata anti-musulmana (1211) da parte di Innocenzo III. In seguito alla vittoria di Alfonso VIII a Las Navas (1212), la penetrazione nelle regioni sottoposte ai musulmani si fece più veloce: tra il 1212 e il 1240, i territori nelle mani dei prìncipi cristiani (soprattutto in quelle del re di Castiglia) raddoppiarono e si moltiplicarono gli insediamenti di comunità “cristiane” sotto il controllo regio; inoltre, la sottomissione politica dei territori veniva accompagnata da una vasta opera di popolamento delle regioni acquisite. In effetti, la creazione di villaggi e di città – abitati da contadini e piccoli cavalieri in funzione di una colonizzazione agricola – divenne un tratto distintivo della Reconquista: il “ripopolamento” si basava sulla fondazione di città con un esteso territorio e sulla concessione di lotti di terre agli abitanti, incaricati anche della difesa militare della zona; un misto di colonizzazione agraria e militare che conferiva agli abitanti una natura duplice di contadino-soldato. In queste nuove città, le terre erano distribuite in base alla capacità militare delle persone e, dunque, i cavalieri erano favoriti sia come proprietari sia come militari. Naturalmente, queste iniziative di ripopolamento tenevano conto anche dei contesti sociali e militari dei luoghi colonizzati, soprattutto di quelli in cui la popolazione era necessariamente mista, con musulmani ed ebrei come componente stabile dei centri abitati: più la conquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema, risolto il più delle volte con l’emarginazione economica e spaziale degli ex-infedeli, rinchiusi in quartieri etnici nelle città o relegati nelle campagne. Va ricordato il carattere pubblico di queste iniziative: infatti, furono i re ad autorizzare l’insediamento, la divisione delle terre e anche le forme di autonomia che tali città conservavano. Più che in Francia, per certi versi, in Spagna, le città e i centri abitati, godevano di un’autonomia “protetta”, in uno sviluppo armonico di competenze locali e inquadramento regio del popolamento nelle regioni di frontiera. Questa peculiare organizzazione per insiemi sociali con diversi diritti e doveri condizionò profondamente la struttura politica dei regni: infatti, i re si trovarono davanti gruppi sociali con una precisa fisionomia politica, provvisti di autonomia e con una spiccata propensione a rivendicare una rappresentanza collettiva davanti agli organi regi (città, cavalieri e nobili, mercanti si costituirono in leghe, fraternità, corporazioni). In questo senso, le monarchie spagnole mantennero a lungo un carattere pattizio che spinse i re, fin dal XII secolo, a convocare ampie assemblee dei grandi del regno, con le città e i consigli comunali, che deliberavano sui grandi temi della politica regia (le Curie generali o Cortes). Questa molteplicità di presenze istituzionalizzate, il carattere fortemente militare dell’aristocrazia del regno e la necessaria condivisione delle decisioni maggiori in assemblee composite rimasero caratteristiche di fondo dei regni spagnoli per lungo tempo. 5. LA GERMANIA E L’IMPERO A prima vista, la Germania dell’XI secolo presenta un quadro territoriale più stabile rispetto ai regni vicini: infatti, i quattro ducati tradizionali – Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia – erano ben saldi nelle mani delle grandi famiglie dell’aristocrazia, che coordinava una galassia di conti e castellani, scabini di città privi di una reale autonomia. Per quanto riguarda la Germania, i dati demografici disegnano una crescita impressionante della popolazione: dai quattro milioni del XII secolo agli otto milioni del Duecento (che salirono a quattordici nel Trecento); una crescita che alimentò un ampio movimento migratorio verso est, dove i prìncipi tedeschi chiamavano coloni per stabilizzare i propri dominati. Tuttavia, l’impero, come istituzione, continuava ad avere un funzionamento intermittente. Per tradizione, l’imperatore era eletto dai grandi prìncipi a capo dei ducati maggiori e poteva contare sul ducato di Franconia e sui possessi personali della dinastia come base del proprio potere: era una base cospicua, ma non tale da superare nettamente 67 importava quale fosse l’origine della terra, ma quanto ogni barone poteva dare in termini militari. Semmai, fu lo stesso Catalogo a creare un nesso “feudale” di fedeltà militare dei baroni verso il re: infatti, ora che i doveri erano quantificati, i cavalieri erano tenuti all’aiuto in guerra secondo le cifre stabilite dal Catalogo. Ma si trattò, appunto, dell’inquadramento, sotto il profilo dell’aiuto militare, di un ceto di potenti recalcitrante a sottomettersi politicamente al re. Davanti all’instabilità del ceto militare, i re normanni ricorsero anche ad altri strumenti di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia: in primo luogo, lo sfruttamento delle stesse terre demaniali (di diretta pertinenza regia). Lo sfruttamento del demanio fu la chiave di volta del sistema economico normanno, non solo perché si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del dominio – e, quindi, un apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali più sicuri –, ma anche perché nelle terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino. Anche sul piano legislativo, i re normanni si mostrarono attivi: recuperando testi diversissimi (da fonti romane imperiali a tradizioni bizantine, fino ai modelli papali), i re della dinastia Altavilla rivendicarono un potere esclusivo verso i sudditi latini, musulmani e greci, stabilirono una dipendenza dei baroni dal re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero realmente una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. Anche in questo caso, gli strumenti utilizzati erano una miscela di organizzazione amministrativa e di diritto feudale: in particolare, i re cercarono di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni, attraverso una rete di giustizieri regi che avocavano a sé le cause maggiori, controllando soprattutto i matrimoni. Pertanto, alla fine del XII secolo, il regno normanno viveva in questa polarità di tensioni politiche: una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale; un mondo contraddittorio e complesso, con cui il giovanissimo Federico II dovette fin da subito confrontarsi e scontrarsi. 7. LA SUCCESSIONE IMPERIALE E IL REGNO DI FEDERICO II Il figlio di Enrico VI e di Costanza, Federico II, ereditò subito il regno di Sicilia, ma, per il titolo imperiale, le cose erano più complicate. Infatti, il primo conflitto per la successione vedeva contrapposti Filippo di Svevia e Ottone di Sassonia (in una riproposizione della tradizionale faida tra guelfi e ghibellini), competizione di cui, per un decennio, fu arbitro papa Innocenzo III, che cambiò più volte idea. Però, il papa era anche tutore legale del giovane Federico, che divenne presto un altro pretendente all’impero: infatti, nel 1211, Innocenzo III appoggiò Federico, che fu eletto re di Germania nel 1214. In seguito, Federico fu prima eletto re dei Romani e poi, nel 1220, consacrato imperatore da papa Onorio III: ora, nelle sue mani, Federico II riuniva le sorti dell’impero e dei tre regni di Germania, Italia e Sicilia. Sulla linea del nonno Federico I Barbarossa, Federico II operò subito per un rafforzamento dei suoi domini nelle regioni meridionali, dove agì duramente e con successo nel recupero dei beni della sua casata e del regno: quando agiva come signore, Federico rafforzò molto il controllo politico dei suoi domini personali, incrementando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici e promuovendo le città del ducato. Tuttavia, quando agiva come re di Germania, le cose andavano in maniera diversa. Risiedendo relativamente poco in terra tedesca, Federico doveva creare da lontano le condizioni per mantenere la pace del regno attraverso compromessi continui con i potentati regionali: più che dominare in maniera coercitiva le aristocrazie locali, doveva sforzarsi di non provocare ribellioni contro il suo governo. Così, al momento dell’elezione imperiale (1220), Federico emanò un atto molto importante per i futuri assetti del regno: un privilegio ai prìncipi ecclesiastici di Germania, in cui si concedevano amplissime autonomie giurisdizionali, tali da rendere assai labile il controllo regio su estese porzioni del regno in mano alle chiese locali. Anche in Sicilia, Federico II operò per recuperare i beni usurpati dai nobili durante il periodo della reggenza materna: così, appena maggiorenne, egli aveva formato un consiglio di giuristi incaricato di elencare tutte le possessioni del re e un inventario dei beni sottratti alla corona. Nel 1220, Federico ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni: attraverso un esplicito ricorso al diritto come regolatore dei rapporti fra il re e la nobiltà (un diritto regio, fatto dal re e applicato dal re “giudice”), richiese a tutti i possessori di presentare i privilegi emanati dal padre Enrico VI o dalla madre Costanza, con la perdita dei diritti per chi non presentava titoli validi o li aveva contraffatti. Nel 1231 – lo stesso anno in cui il figlio Enrico cedeva a Worms i privilegi ai prìncipi tedeschi – Federico II emanò, a Melfi, il più importante atto legislativo del suo regno: il Liber constitutionum o Liber Augustalis, dove l’ideologia regia riceveva una sistemazione di grande spessore culturale. Ma il regno d’Italia continuava a sfuggirgli. Divisa in distretti cittadini largamente autonomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l’Italia centro-settentrionale aveva seguito una via parzialmente diversa dalle altre regioni: dunque, l’inquadramento regio fu più debole per tutto l’XI e metà del XII secolo. 8. CONCLUSIONI 70 Il quadro delineato è pieno di contrasti: i tentativi dei re di porsi come vertice di una configurazione sovraregionale che esisteva solo sulla carta; le contraddizioni generate dalle incerte fedeltà dei grandi, che mal sopportavano il peso dell’inquadramento regio; le tensioni continue con gli apparati pubblici promossi dai re. In questo senso, se pensiamo alla costruzione di apparati monarchici “nazionali” in termini di processo evolutivo, si trattò certamente di un processo interrotto, tutt’altro che risolto all’affacciarsi del Duecento. Se, invece, guardiamo alle soluzioni pratiche, agli strumenti di governo, ai sistemi amministrativi, allora il giudizio cambia. I re si proposero – o si imposero – come le autorità legittimate:  da un lato, a ricomporre un quadro unitario di questi poteri dispersi;  dall’altro lato, a creare un nuovo equilibrio fra le prerogative della potenza privata dei signori (laici ed ecclesiastici) e l’esercizio di funzioni pubbliche di coordinamento e di pacificazione riservate al potere regio. Perché era questo che, alla fine, il re doveva fare: assicurare una convivenza possibilmente ordinata dei principati, delle città, delle signorie, delle popolazioni rurali, disciplinando la violenza del ceto militare; e recuperare, almeno sul piano simbolico, le funzioni di controllo della vita politica degli antichi territori del regno. Ma non si andava oltre. Nessuno pretendeva un controllo diretto e capillare dei territori locali da parte dei sovrani né una vera sottomissione degli individui al governo regio: i potentati regionali potevano essere messi al servizio del re nei momenti di necessità, ma non “appartenevano” al re come depositario di un potere pubblico unico e sovrano. In sostanza, i re potevano contare sulle fedeltà dei territori, ma non sui territori in quanto suoi dominati. Per promuovere le funzioni regie, i monarchi usarono metodi molto diversi fra loro, in combinazioni altrettanto variabili; nonostante la pretesa di superiorità “sovrana”, essi dovevano procedere in maniera empirica e graduale:  in primo luogo, in maniera non dissimile dai vicini potenti, i re fecero ampio ricorso al diritto feudale per intervenire in territori esterni al loro dominio: rivalutando la loro funzione di senior rispetto ai prìncipi loro vassalli, essi intervennero spesso nelle liti fra potenti e negli scontri fra questi e i loro vassalli minori. Inoltre, i re si appellarono alla natura ormai patrimoniale del feudo: nel XII secolo, la gran parte dei feudi o dei benefici era considerata parte integrante del patrimonio dei vassalli e poteva essere trasmesso in eredità o in dote. I re approfittarono di questa trasmissibilità del feudo, sia con politiche matrimoniali accorte sia attraverso un controllo serrato dei passaggi ereditari (es. tattica usatissima dai re di Francia fu la rivendicazione dei territori delle mogli);  in secondo luogo, su di un piano invece più tecnico-amministrativo, i re capirono che una chiave importante del successo dipendeva dai funzionari di corte e dagli ufficiali locali che dovevano governare i soggetti del loro dominato. Se, fino alla prima metà del XII secolo, i maggiori uffici erano affidati, per via ereditaria, a grandi vassalli di rango principesco, a partire dalla fine del XII secolo, a corte emersero persone di livello sociale medio, spesso di origini non nobili che presero il posto dei grandi vassalli: essi avevano meno ambizioni ed erano più fedeli; ma, soprattutto, si dimostrarono capaci di usare tecniche contabili più complesse, perché i regni, come i grandi principati, avevano bisogno di rinnovare i sistemi di prelievo e gli apparati finanziari per condurre campagne militari efficaci. In questa prospettiva, siccome la guerra si era monetizzata e bisognava, dunque, avere risorse disponibili e in crescita, il controllo del territorio si rivelò uno strumento importante, sia sul piano giudiziario sia sul piano fiscale. Così, sotto la direzione del ristretto nucleo di corte, gli agenti locali (chiamati balivi o siniscalchi) divennero i collettori locali del fisco regio: curarono la raccolta delle tasse, individuarono nuovi soggetti tassabili e nuove fonti di reddito, sfruttando meglio il “dominio” dei prìncipi e integrando nella contabilità regia anche le nuove acquisizioni, prima di tutto le città. Importante, in questo senso, fu anche l’elaborazione culturale e giuridica della sovranità: non si trattava solo di promuovere teorie sulla monarchia, ma di porre il sovrano come “vertice politico” in base a cui gli altri poteri dovevano conformare il proprio spazio di azione. Il re occupava una sfera di potere in qualche modo superiore perché era in grado di fare cose che gli altri prìncipi non potevano ripetere: le funzioni di pacificatore; di giudice supremo; di difensore della fede e dell’ortodossia delle popolazioni; di detentore legittimo dei poteri pubblici concessi feudalmente. CAPITOLO VI: NUOVE STRUTTURE POLITICHE NELL’ITALIA MEDIEVALE: CITTÀ E COMUNI 1. NASCITA DEL COMUNE CONSOLARE: UNA RAPPRESENTANZA AUTONOMA DELLE FORZE CITTADINE Alla metà dell’XI secolo, le città italiane si presentavano come una collettività senza capo, una comunità di cittadini che si autogovernava al di fuori di un preciso ordine gerarchico di poteri delegati. Il conte (imposto dai Carolingi nelle città del IX secolo) era ormai una figura lontana: i suoi discendenti si erano da tempo rifugiati nei loro castelli, disinteressandosi della vita contadina. La figura di maggior rilievo era indubbiamente il vescovo: guidava la vita cittadina, ne assicurava l’unità religiosa e la pace sociale, mediava i conflitti e, soprattutto, deteneva importanti diritti pubblici – il mercato, i dazi sulle merci, la giustizia civile – che certo costituivano la base per un potere superiore di coordinamento della vita politica. Tuttavia, il vescovo non prese mai il posto del conte come funzionario pubblico inserito nella gerarchia del regno, come avvenne in Germania e in Francia, paesi in cui il rapporto 71 del vescovo con il sovrano era molto più stretto e, tra i poteri donati dai regnanti ai vescovi, si trovava spesso anche la carica di “conte”. In Italia, invece, la situazione era più complessa: infatti, i vescovi ricevettero dagli imperatori molti privilegi di natura pubblica, ma non la carica di conte. Il vescovo rappresentava l’unità spirituale e politica della città, ma, al contempo, era un grande signore feudale, con interessi economici da tutelare: in tal modo, le città italiane dovettero cercare un delicato equilibrio tra forze sociali diverse, costrette a cooperare nonostante i conflitti che le dividevano. Le famiglie di tradizione militare, legate al vescovo (fedeltà in cambio di terreni in beneficio), trovavano nel servizio feudale uno sbocco politico ed economico necessario per mantenere il prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad ampliare la propria potenza privata con frequenti usurpazioni di terreni di proprietà vescovile: pertanto, i conflitti interni – mediati dalla curia episcopale, che aveva i tratti tipici delle corti feudali – erano frequenti e contrassegnarono la vita interna delle città italiane per lungo tempo. Nella prima metà dell’XI secolo, gli imperatori intervennero spesso a favore dei vescovi, ma la funzionalità del governo cittadino era una cosa più complessa di un semplice raccordo milites-vescovo: infatti, nelle città, si muovevano gruppi sociali diversi in grado di condizionare il governo del publicum – la sfera pubblica e collettiva della vita dei cittadini –, che si configurava come un coacervo di alleanze e di cooperazioni forzate fra il vescovo, i suoi milites e i cives (gli abitanti politicamente attivi). In molte realtà urbane, i cives erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di ricchezza e di mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune categorie di professionisti: giudici, avvocati, notai, grandi mercanti impegnati nell’amministrazione cittadina; si trattava di un nucleo di persone centrale per la costruzione delle istituzioni cittadine, in quanto la cultura tecnica dei giudici era necessaria per dare “forma” ai governi cittadini: fornire regole di funzionamento, inquadramenti culturali dell’azione di controllo degli uomini e assistenza diretta nelle questioni giudiziarie. Al ceto dei giudici, si affiancavano le élite economiche della città: i mercanti, i cambiatori, i prestatori di denaro. Un ceto tecnico ormai necessario al governo della città e in cerca di un ruolo politico più attivo: la collaborazione con il vescovo certamente li aiutava, così come la connessione con i giuristi creava solidarietà orizzontali molto forti nella difesa degli interessi economici dei cives. Al di sotto, si trovavano tutti gli abitanti senza particolari qualifiche, soggetti al potere del vescovo, esposti alle angherie dei suoi vassalli, ma capaci di farsi sentire come “corpo collettivo” nelle assemblee pubbliche, che dovevano ratificare le decisioni più importanti. Questo groviglio di interessi divergenti trovava nel vescovo un punto di raccordo relativamente stabile: infatti, nei momenti di conflitto, era il vescovo a risolvere le liti e a imporre la pace, spesso con un giuramento collettivo che impegnava tutti gli abitanti al rispetto della tregua; chi rompeva la tregua si poneva fuori e contro la comunità e, dunque, veniva bandito, cacciato dalla città come un criminale. E, in alcune città, esisteva anche un’entità istituzionale collettiva di “buoni cives” che agiva sotto la protezione del vescovo, minacciando la scomunica religiosa e civile contro i malfattori: appunto, una cooperazione di forze sociali diverse non ancora inquadrate in uno schema istituzionale rigido. Tuttavia, stava prendendo forma la struttura politica della città, come luogo di convivenza di una popolazione ordinata e “pacificata”. Nel corso dell’XI secolo, le città crebbero per numero di abitanti, per attività economiche, per rilievo culturale e, soprattutto, per l’importanza delle decisioni politiche che venivano prese nelle assemblee: le città divennero centri decisionali che regolavano sempre di più la vita delle persone, anche nel contado. E fu proprio l’aumento delle funzioni di coordinamento economico e politico che spinse i vescovi e le élite urbane a creare una nuova istituzione che si occupasse specificatamente del governo urbano: così, in quasi tutte le città italiane, fra il 1090 e il 1120 circa, compaiono dei magistrati chiamati “consoli” (in un chiaro rimando alla tradizione romana). Il consolato medievale era formato da un numero variabile di membri – da quattro a sei – che, in genere, si riunivano nel palazzo del vescovo, a sottolineare, almeno nella fase iniziale, una dipendenza de facto dal potere episcopale. Inoltre, i consoli provenivano spesso da famiglie di vassalli del vescovo (media e alta aristocrazia urbana), con l’apporto determinante dei giudici; un’origine sociale che ne condizionò a lungo le scelte di governo, chiaramente a difesa degli interessi delle classi alte. Tuttavia, rimanevano delle somiglianze con il modello romano, come la durata annuale della carica e, soprattutto, il carattere elettivo della nomina: infatti, i consoli non erano nominati da un’autorità superiore, ma erano eletti da un organo collettivo della città – l’assemblea generale dei cives (detta concio) – che li investiva del potere di governo. In più, nel corso degli anni, si creò un “consiglio cittadino”, formato da un centinaio di persone, in grado di affiancare i consoli nelle scelte più importanti: in tal modo, nei comuni italiani, prese lentamente piede una politica di tipo “parlamentare”. E, sempre più spesso, nel corso dei primi decenni del XII secolo, i consoli si garantivano facendo approvare i propri atti dalla “maggioranza” del consiglio: così, il principio di maggioranza – così importante per la storia delle istituzioni dell’età moderna – entrò nella politica nel comune italiano. Ed era proprio questo il fondamento della “libertà” delle città italiane: l’autonomia di scelta dei propri governanti e le decisioni politiche legittimate dalla maggioranza di un’assemblea cittadina eletta dagli stessi cives. In tal modo, si stabiliva un legame diretto fra i cittadini e le istituzioni, rafforzato da un giuramento reciproco dei consoli verso la 72 A sua volta, però, Milano non capiva l’imperatore: forse illusi da un secolo e più di “non-intervento” dei re germanici nelle faccende italiane, i comuni avevano smarrito il senso delle proporzioni (e Milano anche il limite delle buone maniere che si devono a un imperatore); così, i milanesi cercarono di comprare con denaro contante il permesso dell’imperatore di mantenere il dominio sulle due città (Lodi e Como). Ma, naturalmente, Federico rifiutò e mise al bando i milanesi: fu guerra. Nel 1155, l’imperatore conquistò Asti e distrusse Tortona; in seguito, nel 1158, attaccò Brescia e saccheggiò la stessa Milano: si annunciava una guerra lunga, che mise a confronto, per quasi un trentennio, Federico Barbarossa con il mondo comunale italiano. Ma anche per i comuni si trattò di uno scontro traumatico, che minacciava la sopravvivenza stessa del sistema comunale in Italia. Infatti, Federico aveva un’idea molto precisa dei suoi poteri da imperatore: nella dieta di Roncaglia (1158), Federico proclamò il principio che ogni potere discendeva dall’imperatore e richiese ufficialmente la restituzione di tutti i diritti regi usurpati, a suo dire, dalle città: le tasse regie, il potere di elezione dei consoli, i palazzi pubblici, le imposte sulle strade e sui fiumi, e così via. Dopo la distruzione di Milano del 1158, Federico impose alle città ribelli dei “rettori” di nomina imperiale (i cosiddetti “podestà imperiali”), i quali si distinsero per la violenza e per la rapacità con cui raccoglievano le tasse da destinare alla guerra. Il tema fiscale divenne subito un campo di scontro vitale per le città italiane, poiché non solo gli ufficiali regi chiedevano ingenti esborsi di denaro ai cives, ma anche perché questi soldi non restavano in città, andando invece ad alimentare un sistema di dominio sovra-cittadino e centralizzato: il fisco pubblico, da sistema di integrazione dei residenti in una collettività di cittadini, tornò a essere un segno di sottomissione. A queste condizioni, nessuna città avrebbe accolto spontaneamente il governo imperiale; per di più, quando, nel 1162, Federico attaccò una seconda volta Milano, radendola al suolo, i comuni – anche quelli alleati dell’imperatore – si misero in allerta e, vedendo nel governo imperiale una minaccia grave alla propria autonomia, decisero di reagire. In quegli anni, le città venete avevano creato una lega di comuni alleati, impegnati a prestarsi aiuto in caso di attacco: l’idea funzionava e, dunque, decisero di riprenderla le città lombarde (Milano, Cremona, Como, Lodi, Bergamo, Brescia, Piacenza, Bologna), le quali, nel 1168, giurarono la prima alleanza inter-cittadina, chiamata Lega Lombarda. A differenza di quanto si pensi, la Lega Lombarda non fu affatto il primo nucleo della “nazione italiana” in armi contro lo straniero, ma, semplicemente, un’alleanza tattica di città che, pur in conflitto tra di loro, sospesero le ostilità per difendersi da un pericolo maggiore (il dominio imperiale), che rischiava di minare le basi della politica cittadina. La Lega era governata dai rettori, eletti da tutte le città; aveva un tribunale proprio per risolvere le controversie fra i comuni; coordinava sul piano militare le azioni delle singole città, spostando eserciti e aiutando i membri in difficoltà. Ma la Lega fece anche altro: diffuse fra tutti i comuni alleati un modello unico e coerente di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di pertinenza del comune intoccabile da parte delle altre città. Inoltre, l’alleanza con papa Alessandro III (in suo onore fu fondata la città di Alessandria nel 1167) rafforzò la natura ideologica della Lega, che diventava il baluardo della “libertà” delle città italiane contro il tiranno Federico Barbarossa. Sul piano militare, le azioni di disturbo, prolungate negli anni, furono molto più efficaci dei pochi scontri in campo aperto per fiaccare le armate imperiali, dal momento che, nonostante il titolo solenne di imperatore, Federico aveva risorse limitate: infatti, a ogni spedizione militare, egli doveva convincere i prìncipi tedeschi a fornire uomini per l’esercito imperiale e non sempre questi erano disposti a concederli. In più, le città italiane alleate fornivano aiuto, ma chiedevano in contraccambio sempre nuovi privilegi (che Federico concedeva fiaccando il suo governo “monarchico” in Italia). Dopo un decennio di battaglie cruente, in un momento di stanchezza, avvenne lo scontro di Legnano (1176), in cui i comuni lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito imperiale: fu una vittoria modesta sul piano militare, ma formidabile su quello propagandistico. Aiutati anche dalla Chiesa, i comuni lombardi usarono Legnano come “sanzione divina” della loro giusta lotta contro il “tiranno”. Ma la diplomazia prevalse: nel 1177, il papa riuscì a strappare all’imperatore una tregua di cinque anni (pace di Venezia) e, allo scadere del termine, nel 1183, si raggiunse una concordia definitiva tra l’impero e le città, a Costanza. La pace di Costanza ricevette interpretazioni diverse dai protagonisti:  Federico Barbarossa la intendeva come una “grazia imperiale”, un atto di generosità con cui consentiva alle città di continuare a godere dei diritti pubblici (sempre di origine regia), dopo una formale concessione imperiale;  al contrario, le città ne fecero la loro “carta costituzionale”, una sorta di riconoscimento “di fatto” delle istituzioni consolari come forma di autogoverno delle città. Sta di fatto che, da allora, le istituzioni comunali non furono più messe in discussione e, dopo il 1183, Federico pose fine alle guerre d’Italia, dedicandosi a imprese guerresche più gloriose (come la crociata e la liberazione di Gerusalemme da Saladino). Tuttavia, nonostante la vittoria, la fine del periodo imperiale – che aveva permesso ai comuni di superare un lungo periodo di tensione – fece emergere nuovi conflitti politici e sociali. Gli anni della guerra avevano richiesto un grande sforzo collettivo da parte della cittadinanza non solo in termini economici, ma anche in termini di impegno personale: 75 il grosso degli eserciti comunali era composto di pedites, vale a dire di normali cittadini che lasciavano la propria attività per combattere sotto il comando di una cavalleria aristocratica spesso infida e dispotica. Inoltre, la partecipazione all’esercito rendeva visibile a tutti la propria “appartenenza alla città” e, allo stesso tempo, rendeva insopportabile l’esclusione dal governo sancita dal ceto consolare al potere: così, si aprì una competizione violentissima, aggravata dall’inadeguatezza del regime consolare, ormai dominato da una ristretta e litigiosa oligarchia di famiglie. 4. L’AFFERMAZIONE DEL COMUNE APERTO: PODESTÀ, CONSIGLI E GOVERNI DI POPOLO Le famiglie aristocratiche che dominavano il consolato pretendevano di comandare quasi per diritto, in base a una prerogativa – tipica del sistema signorile – che legava il potere politico alla detenzione della forza militare. Tuttavia, dopo le guerre federiciane, il collegamento fra “potere politico” e “forza” fu apertamente contestato dalla cittadinanza non-nobile: così, tra gli ultimi anni del XII e i primi del XIII secolo, in quasi tutte le città, scoppiarono disordini violenti, con interi quartieri che si ribellavano all’iniqua ripartizione delle tasse imposte dai consoli in occasione di costose imprese militari. Non si contestava tanto il comune in sé, ma la ristrettezza del ceto dirigente (che prendeva le decisioni per tutti), la sua sordità alle richieste di giustizia sociale e anche la prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare agli interessi della città; fra l’altro, i milites ricevevano dal comune un cospicuo risarcimento per le perdite subite in battaglia e, quindi, erano doppiamente avvantaggiati sul piano fiscale: infatti, erano esenti dalla maggior parte delle imposte e, in più, si accaparravano una parte delle entrate grazie al risarcimento dei danni. Pertanto, si organizzarono nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non nobili, le societates:  in primo luogo, sorsero le società rionali (o “società di armi”), che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura;  in un secondo momento, si aggiunsero le società di mestiere (o “corporazioni di Arti”), più complesse nella loro composizione mista artigianale e mercantile. In una fase iniziale, prevalse uno spirito unitario e federativo: inizialmente, le società avevano uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma, col tempo, si diedero una struttura comune, coordinata, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario, una vera istituzione pubblica che si affiancava al comune come ente esterno e interno allo stesso tempo. In altre parole, il Popolo cercò di cambiare il comune secondo i propri indirizzi di governo. Ben presto, infatti, le società avanzarono richieste di natura politica, come riservare ai membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili, impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e, soprattutto, assicurare una pace interna della città. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare fu incapace di superare le divisioni interne e soddisfare le richieste di apertura. E, dunque, preso atto di questa crisi, alcune città cercarono soluzioni alternative. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città: questo magistrato fu chiamato podestà ed era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città (il potere politico, la giustizia, la direzione economica e il comando degli eserciti cittadini). I primi incarichi furono assegnati a podestà locali, ma le rivalità interne aumentarono: dunque, si decise di chiamare come podestà delle personalità “esterne” alla città, provenienti da altri comuni, sempre in carica un anno e con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo seguito. Il podestà forestiero dava maggiori garanzie di imparzialità rispetto alle lotte interne: infatti, data la brevità della carica, non creava poteri personali e, con la sua sola esistenza, toglieva alle forze politiche cittadine un motivo di scontro. Il compromesso funzionò e, fra il 1190 e il 1220, tutte le città passarono dal regime consolare al governo del podestà forestiero, con istituzioni simili e problemi comuni. Ad ogni modo, il podestà si presentava come uno snodo centrale della vita politica cittadina: pertanto, molti podestà si specializzarono nella politica itinerante e ricoprirono la carica in diversi comuni, rendendo il podestariato una vera e propria professione (la prima di carattere squisitamente politico che il Medioevo ricordi, come nota, nella sua celebre opera su La politica come professione, il grande filosofo sociale tedesco Max Weber). A questo proposito, furono scritti manuali specifici, i libri de regimine, per istruire retoricamente e politicamente i podestà, riprendendo da Cicerone e Agostino il mito della parola civilizzatrice: come sostiene Brunetto Latini, dopo un’età primitiva, era venuta un’età della parola e della civilitas, che si fondava su due elementi principali:  la centralità della parola nella scienza del governo;  la centralità della legge come fondamento del vivere civile. La legge era creata dagli stessi cives nei consigli, i quali, sotto il regime podestarile, assunsero un’importanza molto maggiore che nel periodo precedente: infatti, il consiglio comunale divenne il cuore politico del comune, non solo perché doveva eleggere il podestà e approvare le sue decisioni, ma perché, al suo interno, si prendevano le scelte principali per la vita politica ed economica della città. Il podestà proponeva gli argomenti da discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta e, alla fine, decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza (che poteva essere palese o segreta). 76 Il principio di maggioranza (“una testa, un voto”), per di più espresso in segreto, suonava come rivoluzionario alle orecchie del ceto nobiliare e apriva le porte a un modo di far politica completamente diverso: naturalmente, alleanze familiari e “parti” continuavano a esistere, ma ora, se si voleva essere approvati in consiglio, bisognava elaborare programmi politici più complessi e approfonditi. L’intero sistema sembrava girare intorno a questo rapporto bilanciato fra podestà e organi consiliari: il podestà guidava la politica cittadina, ma il consiglio disponeva le cose da fare. In tal modo, il ruolo di comando del singolo fu equilibrato dal “potere dei molti”, in un sistema istituzionale originale e di grande spessore ideologico. Tuttavia, rispetto al secolo precedente, era diventato molto più difficile trovare una sintesi generale degli interessi dei cittadini: anzitutto, perché erano aumentati gli abitanti, per via di uno straordinario flusso di immigrati dal territorio circostante o da altre città, che formavano una popolazione in genere poco specializzata, addensata nei quartieri periferici, non compresi nelle mura. Pertanto, fu necessario trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. In questo contesto, il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico sia su quello politico, tanto che le diverse corporazioni contavano ormai diverse migliaia di membri. Dunque, iscriversi alle Arti era diventato molto importante per i cittadini del XIII secolo:  in primo luogo, per un motivo economico, dal momento che le corporazioni controllavano il lavoro e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti: quindi, per poter aprire un’attività, era necessario essere iscritti all’Arte;  in secondo luogo, per un motivo politico, in quanto, nella seconda metà del Duecento, il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato enormemente: i consoli delle Arti (o ministeriali) erano confluiti in un consiglio unitario del Popolo, che prendeva decisioni sempre più importanti per tutta la città. Peraltro, in molti comuni, alla fine del Duecento, fu liberalizzata l’iscrizione alle Arti: non si doveva per forza esercitare un mestiere, ma era sufficiente avere l’intenzione di appartenere a quella società e avere sufficienti conoscenze per essere accettati. In tal modo, si era compiuto il passaggio a società pienamente politiche (e non più – o non solo – corporative). 5. IL GOVERNO DELLE CORPORAZIONI NEL DUECENTO Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo della città in nome di una nuova idea di comunità, fondata sul lavoro artigianale e sui commerci, su una giusta divisione delle spese pubbliche e sulla pace sociale. In un primo momento, il Popolo duplicò le istituzioni comunali, affiancando al podestà e al consiglio del comune, un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo, chiamato il Capitano del Popolo (a guida del Consiglio del Popolo); poi, nei comuni in cui riuscì a prevalere, instaurò un nuovo governo coordinato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti: un governo “collegiale” forato dal podestà, dal capitano e dai due consigli del comune e del Popolo (es. a Bologna presero il nome di Anziani, a Firenze e Perugia di Priori, a Siena dei Nove). Una volta salito il Popolo al potere, si formarono presto, al suo interno, gruppi egemoni che influenzarono l’indirizzo di fondo della politica comunale delle singole città, nelle quali furono create liste generali di appartenenza “qualificata” alla città, in un processo di razionalizzazione delle pratiche di governo: in primo luogo, si censirono i residenti, con elenchi cittadini divisi per parrocchie; in seguito, si censirono i contribuenti, distribuiti prima in liste fiscali di soggetti al fodro (l’antica tassa pubblica di matrice regia) e poi, in estimi più moderni, con una valutazione reale della ricchezza individuale. Fu un’operazione lunga e costosa, che, però, aprì la via all’adozione di un criterio proporzionale nella raccolta delle imposte pubbliche: vale a dire che si pagavano le tasse in proporzione alla ricchezza reale. Se, sul piano ideologico, si trattò di una mezza rivoluzione (in quanto, per la prima volta, si intaccavano i patrimoni più ricchi), tuttavia, sul piano pratico, le cose andarono in maniera diversa: certo, chi aveva dichiarato di più pagava più tasse; eppure, le cautele prese dalla nuova oligarchia erano efficaci: i capitali mobili sfuggivano all’estimo; gli sconti per i crediti non pagati erano concessi con generosità; e, infine, dare soldi al comune non era avvertito come una perdita di capitale, ma come un investimento. In base a questi elenchi generali che delimitavano la cittadinanza (residenti e contribuenti), si elaborarono liste “secondarie” di appartenenti ai consigli, alle società territoriali e corporative e agli uffici comunali, con l’obiettivo di facilitare la ricerca di chi non era iscritto all’estimo, chi non pagava le tasse, chi non si presentava in consiglio, e così via. Il presupposto di questa rivoluzione delle prassi documentarie fu il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi, ma sintetici e facilmente aggiornabili: tutti gli aspetti delle relazioni fra i cittadini e le istituzioni erano ormai immessi in strumenti “contabili” che misuravano l’affidabilità dei singoli cives. Anche la politica repressiva del comune si adeguò all’uso di questi mezzi più sofisticati. La giustizia divenne più severa: fatto salvo il principio che tutti potevano recarsi ai tribunali pubblici per difendere i priori diritti, si concessero ai giudici poteri speciali per scoprire e punire severamente le infrazioni contro l’ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza della nobiltà militare. 77 loro modo al mantenimento del “corpo” della nazione, una figura ideale sempre più usata alla fine del Medioevo per indicare il legame dinamico fra le parti e il tutto: per continuare a vivere, bisognava restare uniti e ripetere nel tempo le funzioni assegnate a ciascun organo; cambiare ruolo, rifiutare la propria condizione metteva a rischio l’equilibrio generale della società. E i re si posero come i garanti di questa necessaria stabilità. CAPITOLO I: IL PAPATO, GLI ORDINI MENDICANTI E LA CRISI DELLA CHIESA (1215-1378) La vasta costruzione dottrinale e pastorale elaborata nei 150 anni successivi alla Riforma fu sistematizzata all’inizio del Duecento sotto Innocenzo III, in un famoso concilio ecumenico tenutosi a Roma nel 1215, in Laterano: il concilio lateranense IV disciplinava e rinnovava la procedura giudiziaria interna alla Chiesa, la lotta agli eretici e le pratiche pastorali da seguire nelle diocesi, inquadrando queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato sulla figura del papa come guida spirituale e politica dell’intera cristianità. In tal modo, dunque, la curia pontificia di Roma divenne un vero centro di potere e di controllo della vita religiosa delle diverse diocesi europee. In seguito, nel tardo Duecento, presero forma anche nuove teorie teocratiche, preparando il terreno per la dottrina della potestà assoluta del papa e della sua infallibilità: il papa prendeva sempre le decisioni giuste per la Chiesa, emanava leggi valide per tutti e poteva derogare da quelle stesse leggi, grazie all’autorità di dispensare dalla loro osservanza. Il concilio lateranense IV promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei primi anni del Duecento, soprattutto ai due principali ordini mendicanti:  i predicatori, fondati da Domenico di Caleruega (più tardi, domenicani);  i minori, seguaci di Francesco d’Assisi (più tardi, francescani). Con il loro esempio, i nuovi ordini riuscirono a conquistare un ruolo di guida delle coscienze delle popolazioni urbane in qualità di predicatori e di confessori e si posero come mediatori fra le istanze di ordine della Chiesa e le domande dei laici di una partecipazione attiva alla vita religiosa. Certo, come inquisitori, esercitarono una funzione di “polizia”, ma questo rientrava nei loro compiti di difensori della fede e di devoti servitori del papa di Roma. Infatti, l’eresia divenne un campo di tensioni fortissime nel mondo politico-religioso del tardo Medioevo:  da un lato, esisteva chiaramente l’eresia religiosa, quella perseguita dagli inquisitori;  dall’altro lato, però, il reato di eresia fu sempre di più applicato alla politica: in tal modo, la ribellione si confuse con l’eresia in un unico reato di lesa maestà che richiedeva un intervento eccezionale del potere religioso e civile. Tuttavia, il ricorso spregiudicato all’eresia per salvare la Chiesa dalle resistenze dei fedeli riottosi non mise il papato del XIV secolo al riparo da una crisi politica senza precedenti: dapprima, lo scontro fra Bonifacio VIII e il re di Francia (1303), culminato con un processo per eresia intentato contro il papa ormai defunto; poi, l’abbandono di Roma e il trasferimento del papato ad Avignone per un settantennio (1307-1378); e, infine, dopo il primo tentativo di riportare la sede a Roma nel 1378, uno scisma fra un papa romano e un anti-papa francese che divise in due l’Europa per un altro cinquantennio. Le pretese di dominio avanzate dai papi romani sul mondo cristiano si scontrarono con le debolezze interne della Chiesa e dovettero fare i conti con il sistema politico dei regni europei, che non accettava più inquadramenti dall’alto, neanche sul piano religioso. 1. LA CHIESA DEL PAPA: APOGEO E CRISI DEL PAPATO Con il concilio lateranense IV, sotto la guida autoritaria di Innocenzo III, fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa e fu stabilito l’obbligo di scrittura degli atti giudiziari. Inoltre, si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all’anno al proprio parroco e ricevere l’eucarestia a Pasqua; chi si rifiutava non poteva entrare in chiesa né esservi sepolto. Anche il matrimonio doveva essere celebrato in chiesa ed erano vietati gli sposalizi fatti in segreto. In tal modo, andare in chiesa divenne un segno di esplicita adesione alla comunità dei fedeli, mentre disertare le funzioni religiose era considerato un atto di rifiuto che meritava l0esclusione dagli spazi sacri. Tutte le posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni di una persona scomunicata: una vera “morte civile”, aggravata, nei casi di recidiva, dall’eliminazione fisica eseguita dalle autorità secolari. Il concilio lateranense IV fu guidato con mano ferma da Innocenzo III, che aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati, mentre l’assemblea dei vescovi si era limitata a ratificare i documenti, senza intervenire nel merito: era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano nelle decisioni che riguardavano lo “Stato della Chiesa”, vale a dire il suo assetto istituzionale. Naturalmente, lo sviluppo dell’apparato burocratico in forme sempre più centralizzate influenzò non poco la riflessione dottrinale relativa al potere del pontefice: verso la metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del papa si concentrarono sulla natura giuridica di questo potere, formalizzando la concezione di una “potestà assoluta” del pontefice. E, d’altronde, il cambio di titolazione avvenuto sotto Innocenzo III – da vicario di san Pietro a vicario di 80 Cristo – andava già in questa direzione: infatti, esso sottolineava l’origine divina delle prerogative papali, che, dunque, non potevano essere messe in discussione da persone o istituzione terrene. Inoltre, i canonisti di metà Duecento distinsero un potere ordinario del papa, che era in accordo con leggi, e un potere assoluto – cioè sciolto dalle leggi e superiore alle leggi stesse – che il papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della Chiesa; in questa prospettiva, i teorici della supremazia papale arrivarono a sostenere anche che il papa non potesse sbagliare, che fosse infallibile. Partendo dal passo del vangelo di Luca (22, 32) in cui Cristo esorta Pietro (“Ma io ho pregato per te Pietro, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”), da Innocenzo III in avanti, venne interpretato letteralmente: era Pietro a non sbagliare mai e questo potere si era naturalmente trasmesso ai pontefici suoi successori, che, dunque, erano caratterizzati da una capacità sovrumana per volere divino. La pretesa infallibilità del papa si basava sempre sul potere di “definire i dubbi”, di decidere delle cose in sospeso: in sostanza, era un potere discrezionale (arbitrario) che conferiva al papa una superiore capacità di “definire le cose”. Queste esaltazioni del ruolo del papa costituivano una base teorica alle concrete pretese di governo del papa sulle istituzioni ecclesiastiche. In primo luogo, furono rafforzate le competenze dei legati pontifici, i quali, sotto Innocenzo III, divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa, soprattutto per le questioni interne alla Chiesa: tanto che i canonisti, definendo il legato papale “un altro papa”, ne sancirono ufficialmente la superiorità rispetto ai vescovi locali. Nel corso del Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l’elezione e il trasferimento dei vescovi; tuttavia, la natura e l’estensione del potere pontificio suscitarono naturalmente molte resistenze: quali leggi poteva trascendere il papa? Fin dove poteva dirsi assoluto il suo potere? E, soprattutto, il papa poteva contrapporsi al concilio di tutti i vescovi? Le tensioni generate dai contrasti fra il papa e i vescovi durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica chiamata appunto “conciliarismo”, che affermava la superiorità del concilio sul papa. Tuttavia, nel XIII secolo, le posizioni erano ancora ambigue: già il Decretum di Graziano, pur riconoscendo la validità dei primi quattro grandi concili ecumenici, assegnava al papa il potere di definire gli articoli di fede. In più, i giuristi del Due-Trecento si divisero: alcuni sostennero che il papa non potesse decretare cose contrarie ai concili generali; altri, invece, pensavano che le decisioni dei concili valessero solo se approvate dall’autorità del papa. E la questione diveniva urgente quando si poneva il caso della deposizione di un papa giudicato eretico. Ad ogni modo, nel corso del Duecento, il diritto della Chiesa fu profondamente rinnovato. Alla base del nuovo diritto, furono poste proprio le lettere pontificie (chiamate decretali): scritte generalmente in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati, le numerosissime decretali pontificie assunsero un valore generale e furono raccolte in cinque collezioni (le Cinque compilazioni), che divennero presto punti di riferimento importanti per regolare la vita delle chiese. Una tappa rilevante di questo percorso fu la redazione di un Codice unico, che riordinò le compilazioni precedenti: il cosiddetto Liber extra, voluto da Gregorio IX e composto dal frate domenicano Raimondo di Peñafort nel 1234. Da un insieme di “casi” particolari, si ottenne una serie di “regole” generali che disciplinavano tutte le materie di diritto canonico in armonia con le decisioni prese dai diversi pontefici (fra tutti, Innocenzo III) e dai concili ecumenici. L’operazione ebbe un enorme successo e rimase il testo normativo di riferimento fino al primo vero Codice di diritto canonico del 1917. L’accentramento dell’autorità nella figura del papa richiese un notevole sforzo organizzativo della curia romana, la quale cercò di articolare meglio le funzioni di governo del papato, che si muoveva ormai in uno spazio d’azione di ambito europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l’afflusso delle decime da tutto il mondo cristiano, e quello giudiziario, con un numero crescente di cause che giungevano a Roma per essere risolte dal papa. In tal modo, la curia romana divenne la più importante sede giudiziaria dell’Occidente medievale – la sola di natura veramente internazionale – che riceveva richieste da tutte le diocesi europee. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali strumenti di governo:  i peccati riservati al papa, ossia i peccati dai quali solo il pontefice poteva assolvere;  il potere di concedere una dispensa dall’osservanza di alcune norme canoniche, secondo il principio che solo il legislatore che aveva fatto la legge poteva sciogliere dal rispetto della regola. Il sistema delle dispense si sviluppò rapidamente, accogliendo un numero crescente di richieste nelle materie che disciplinavano il matrimonio, la concessione di benefici e le carriere degli ecclesiastici, tanto che fu anche istituito un ufficio destinato a ricoprire un ruolo centrale nella Chiesa basso-medievale: la Penitenzieria, in genere affidata a un esponente degli ordini mendicanti. Pertanto, la Chiesa romana aveva raggiunto una centralità indiscussa nel mondo politico e religioso del Medioevo europeo, avendo maturato strumenti di governo delle proprie istituzioni, di guida spirituale e ideologica delle masse dei fedeli, di salvaguardia delle sue prerogative politiche ed economiche. Tuttavia, come è intuibile, le sfuggiva il 81 controllo pieno delle sensibilità religiose presenti nelle società medievali sempre più articolate e complesse sul piano sociale ed economico. 2. NUOVE FORME DI RELIGIOSITÀ MONASTICA: GLI ORDINI MENDICANTI In questo contesto di grandi conflitti fra una Chiesa sempre più centrata sul papa di Roma e una massa di fedeli che chiedeva, e si guadagnava, nuovi spazi di vita religiosa dentro e fuori le istituzioni ecclesiastiche, presero forma due movimenti religiosi destinati a cambiare in profondità la struttura della Chiesa medievale: i predicatori (fondati da Domenico di Caleruega) e i minori (fondati da Francesco d’Assisi), chiamati ordini mendicanti. Essi proponevano un modello di vita vicino alla povertà del vangelo, fondato sulla rinuncia ai beni, sul lavoro come sostentamento, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti nelle piazze; e questa rinuncia ai segni del potere tipici del monachesimo tradizionale (i mendicanti non erano monaci, ma frati) li rese più credibili come pastori e come guide spirituali. I mendicanti riuscirono a svolgere un importantissimo ruolo di mediazione:  da un lato, essi furono in grado di mantenere nell’ortodossia una gran parte dei fedeli più critici verso le ricchezze della Chiesa istituzionale;  allo stesso tempo, essi divennero anche uno strumento di controllo delle coscienze e di repressione dell’eterodossia in tutte le sue forme: infatti, ai due ordini fu affidata l’Inquisizione contro l’eresia, un tribunale speciale contro i crimini ideologici e politici che si sovrappose con severità inflessibile alla normale giustizia vescovile. L’origine dei frati predicatori (più tardi chiamati anche domenicani) è strettamente legata alla lotta anti-ereticale, che fu condotta intensamente in Francia meridionale agli inizi del Duecento, sotto l’impulso di Innocenzo III: infatti, fu proprio attraversando le terre della Francia meridionale “infestate” dai catari che un canonico spagnolo – Domenico da Caleruga – decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l’eresia. Domenico si rese presto conto che la predicazione dei cistercensi – da tempo abituati a un’aperta ostentazione di potere e poco inclini alle controversie dottrinarie – era spesso inefficace e, in alcuni casi, contro-producente; soprattutto nel caso del “catarismo”, che si basava su di un’accesa contestazione dei poteri sacramentali della Chiesa e sulla predicazione e sulla pratica di una povertà densa di richiami spirituali al primo cristianesimo: una contestazione che trovava sempre più ascolto nelle popolazioni locali. In particolare, Domenico ebbe l’intuizione di unire una predicazione esemplare con una preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici: per Domenico, “esemplare” voleva dire che il predicatore doveva essere di esempio e, dunque, fare propri quegli ideali di povertà e di semplicità che la popolazione sembrava apprezzare come segno di coerenza di vita e di fede. Così, Domenico scelse di presentarsi vestito umilmente e a piedi (senza i carri e i militi di scorta dei cistercensi) e di accettare il confronto con tutti, cercando di persuadere i fedeli che la povertà non era in contrasto con la fede e che era possibile anche all’interno della Chiesa cattolica. Sostenuto inizialmente dal vescovo di Tolosa, Domenico organizzò un primo gruppo di seguaci che, nel corso degli anni Venti e Trenta del Duecento, aumentò in maniera notevole: nel 1237, si contavano già quattromila frati. Ad ogni modo, il nuovo ordine fu approvato da papa Onorio III nel 1216 e, poco dopo, nel 1221, ne furono redatte le Costituzioni, che definirono le forme di vita in comune: promozione della povertà individuale e dell’elemosina come sostentamento; intensa attività di predicazione in accordo con i vescovi locali; vita in comune nei conventi. Tuttavia, la caratteristica principale dei predicatori fu la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli eretici: fin da subito, una formazione scolastica e, poi, universitaria fu un criterio necessario per entrare nell’ordine; inoltre, nei conventi, doveva esservi anche un insegnante di teologia per i giovani monaci e lo studio era parte integrante della vita conventuale. Naturalmente, questa tensione culturale favorì, da un lato, un reclutamento di persone già dotate di un titolo accademico e, dall’altro lato, l’ingresso nell’università di maestri provenienti dall’ordine dei predicatori (come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Raimondo di Peñafort). L’origine dei minori è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d’Assisi, nato nel 1182 da un agiato mercante di Assisi e lentamente convertito a una vita religiosa che presentava fin da subito caratteri di originalità: infatti, Francesco usava un linguaggio nuovo per indicare la sua conversione alla vita evangelica e, soprattutto, si comportava in maniera anomala sia per il ceto di provenienza sia per le forme religiose allora in voga. Nel Testamento (scritto nel 1226, alla fine della sua vita), Francesco pose come inizio della sua conversione l’incontro con i lebbrosi, voluto da Dio come prova per misurare la sua fede: infatti, il lebbroso era il grado ultimo dell’umanità, l’altro assoluto evitato da tutti che Francesco imparò ad amare. Bisognava iniziare dagli ultimi e scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo: fu un’intuizione fecondissima, che animò la scelta di povertà assoluta e di rinuncia a tutti i segni di potere. Tra il 1207 e il 1208, Francesco iniziò la predicazione itinerante con i primi fratelli, portando il suo messaggio e il suo esempio nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale. Poco si sa di questo periodo; ma maggiori indicazioni fornisce la regola “non bollata” del 1221 dove si presentano alcuni puti fissi dell’ordine minoritico: i fratelli dovevano rinunciare a tutti i beni e donarli ai poveri; vestire 82 Nel 1254, si assistette alla piena istituzionalizzazione dell’Inquisizione, che divenne un’istituzione stabile della Chiesa romana, con il concorso degli interi ordini francescano e domenicano (a cui Innocenzo IV assegnò le due province in cui aveva diviso l’Italia), che, a differenza di quanto si possa pensare, accettarono la partecipazione all’ufficio con normale spirito di servizio, anche davanti all’inasprimento della procedura disposto dalla Chiesa romana. La procedura adottata dagli inquisitori era chiamata inquisitio ex officio, ma era molto diversa da quella che, in origine, era stata ideata dai pontefici per punire gli ecclesiastici immeritevoli: in particolare, contro gli eretici – indicati come tali o reo confessi – le garanzie processuali erano molto più basse e, soprattutto, non era ben chiaro il capo di imputazione, dal momento che, nella gran parte dei casi, non era tanto la fede in un determinato credo religioso a esser punita, quanto la frequentazione del gruppo sospetto, l’adesione alla setta, l’aiuto indiretto o la semplice conoscenza. In sostanza, dell’eresia importava in primo luogo la rete sociale che la sosteneva, non la dottrina. Questa impostazione prettamente poliziesca fu confermata dalla normativa anti-ereticale stabilita nei concili provinciali e dai manuali per gli inquisitori, in seguito alla quale la classificazione degli eretici si ampliò, distinguendo: i ribelli, che rifiutavano di convertirsi; i relapsi, che tornavano al loro credo dopo essersi pentiti; i fautori, che intralciavano l’Inquisizione; i sospetti, che rifiutavano di giurare fedeltà alla Chiesa. L’azione sul campo degli inquisitori cercava di colpire la rete di solidarietà e di protezione della setta eretica, attraverso la confessione degli adepti più deboli. Così, si strutturò una procedura standard: quando gli inquisitori arrivavano in un paese o in un villaggio, dichiaravano un “periodo di grazia”, durante il quale venivano ascoltati tutti quelli che avevano qualcosa da dire, anche se peccatori o fautori di una setta eretica; dopo la fine di questo periodo, l’inquisitore iniziava il processo contro i sospetti, le persone infamate, quelle indicate come vicine agli eretici. È, però, evidente che non tutte le persone accusate erano eretiche o simpatizzanti di teorie eretiche. In effetti, l’accusa di eresia fu usata anche come strumento di vendetta per i conflitti di fazione interni alle comunità: sia nelle campagne sia nelle città, vennero designati come eretici soprattutto i nuovi arrivati, le persone che conducevano un’attività artigianale o di piccolo commercio, spesso in conflitto con la parte dei residenti maggiormente radicata. In ogni caso, le persone indicate come eretiche venivano prelevate e interrogate singolarmente: si trattava di una procedura semplificata, caratterizzata da una limitata capacità di difesa dei sospetti e dalla possibilità per l’inquisitore di usare un ampio ventaglio di minacce fisiche e anche di ricorrere alla tortura in caso di presunzioni “violente”. Una volta che aveva capitolato, l’imputato poteva scegliere: pentirsi o mantenere ferma la propria fede. Contrariamente a quanto hanno pensato molti storici, il fine principale dell’Inquisizione anti-ereticale non era quello di sterminare gli eretici, ma di spingere al pentimento e all’abiura: sul piano propagandistico, l’eretico che ammetteva la sconfitta era sicuramente più utile dell’eretico giustiziato. Tuttavia, le pene per gli irriducibili erano severe: nella bolla Ad extirpanda (1252), Innocenzo IV aveva inserito nella legislazione ecclesiastica un esplicito assenso alla pena di morte da infliggere agli eretici impenitenti, che dovevano essere consegnati al braccio secolare e bruciati. Inoltre, Innocenzo IV sosteneva che era lecito anche il ricorso alla tortura, il sequestro dei beni e la distruzione delle case e insisteva sull’aiuto che tutte le autorità laiche dovevano prestare agli inquisitori, dei quali andavano eseguiti gli ordini. In tal modo, l’Inquisizione dimostrava tutta la potenza di uno strumento eccezionale dotato di mezzi eccezionali per scoprire e abbattere i nemici della Chiesa e della fede, m a anche i nemici della società, i settari che minacciavano dall’interno l’unità di ogni comunità organizzata. La lotta all’eresia aveva creato un nuovo ambito di potere: la difesa dell’ordine sociale come ordine istituito da Dio. 4. L’USO POLITICO DELL’ERESIA: RE E PONTEFICI ALLA RICERCA DEL CARISMA Nel corso del Duecento, la lotta all’eresia divenne un’arma politica di prim’ordine, molto ricercata anche dai poteri laici, che ne abusarono quanto – e forse più – della Chiesa stessa: la “difesa della fede” contribuì enormemente alla costruzione del potere sovrano nell’Occidente medievale. E ciò è dimostrato dal conflitto tra Federico II e il papato anche nel campo della lotta all’eresia. Fin dal 1220, Federico II aveva accettato di combattere l’eresia di fianco alla Chiesa (in particolare, contro i “patarini”), ma, soprattutto, egli aveva introdotto lo strumento dell’eresia nella sfera politica: contro i ribelli del regno e nei comuni italiani, non aveva esitato infatti a usare l’accusa di eresia, equiparandola al reato di lesa maestà. I comuni erano eretici in quanto ribelli, sovvertitori di una monarchia voluta da Dio, scismatici ispirati dal demonio. Tuttavia, quando Federico II ruppe violentemente con il papato e venne scomunicato dal papa durante il concilio di Lione (1245), si trovò improvvisamente additato come eretico e massimo nemico della Chiesa. Ma la lotta del papato contro l’imperatore si trasformò in una crociata per la difesa della fede, che proseguì anche contro i suoi eredi (Manfredi e Corradino) e contro i suoi seguaci, come il capo ghibellino Ezzelino da Romano, il quale aveva instaurato un dominio tirannico di estrema violenza tra Padova, Treviso e Verona, fatto che fornì alla Chiesa romana un modello di “tiranno eretico” destinato a lunga fortuna: non soltanto il Tiranno era violento, nemico della Chiesa e protettore degli eretici, ma era un vero agente del demonio, una sua personificazione terrena incaricata di sterminare il genere umano. La sua pratica di uccidere i nemici e di far evirare i loro figli tendeva a impedire la moltiplicazione degli uomini, 85 contravvenendo all’imperativo divino di propagare la vita sulla terra: in questo senso, la crociata convocata contro di lui e guidata dal legato pontificio era indirizzata a liberare la Chiesa dai suoi persecutori e difendere i più deboli. Propaganda, chiaramente. Eppure, grazie agli sforzi compiuti dalla cultura ecclesiastica, l’eresia era ormai diventata un reato politico: infatti, i comportamenti dei fedeli venivano esaminati sul piano dell’ortodossia religiosa e la fedeltà politica doveva andare di pari passo con la fedeltà ai dogmi. Dunque, essendo chiamato in causa il potere politico in generale, era chiaro che il papa non poteva esser l’unico a usare l’armamentario ideologico religioso costruito intorno all’eresia: infatti, sulla scorta del diritto romano, Federico II aveva dimostrato che l’eresia colpiva l’impero e l’ordine civile. E, pertanto, contro l’eresia potevano e dovevano intervenire i re cristiani dell’Europa medievale. Due episodi, entrambi legati alla figura del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314), devono essere ricordati come emblematici di questa nuova via di affermazione del potere regio:  il conflitto con Bonifacio VIII  il conflitto con Bonifacio VIII verteva su due elementi fondamentali della politica pontifica: la difesa dell’immunità della Chiesa dal fisco e dalla giustizia dei re. Per due volte, invece, Filippo IV aveva forzato la mano: la prima, imponendo una tassa al clero francese in occasione della guerra; la seconda, mettendo sotto processo un vescovo, in teoria esente dai tribunali laici. In entrambi i casi, la reazione di Bonifacio VIII fu violentissima: il papa minacciò il re di scomunica, lo richiamò all’ordine e, in una bolla (la Unam Sanctam), riaffermò il potere assoluto del papa su tutti i prìncipi laici; anzi, su tutti i laici, che si riconoscono in un corpo solo e in una testa sola: quella del vicario di Cristo. Di conseguenza, la Chiesa, in quanto guida unica, aveva il potere su entrambe le spade, anche quella secolare, che doveva essere usata “a profitto della Chiesa e su ordine del sacerdote e nei limiti che egli prescrive”. Naturale, quindi, nell’ottica di Bonifacio VIII, la subordinazione del potere temporale a quello spirituale. Invece, Filippo IV usò lo scontro per affermare una reale indipendenza del re di Francia da poteri superiori. Di più: accusando Bonifacio di essere un pontefice eletto illegalmente (in quanto sospettato di aver costretto il precedente papa, Celestino V, a dimettersi), si ergeva a vero protettore della Chiesa contro gli abusi di un papa indegno. Aiutato da un agguerrito gruppo di giuristi, Filippo IV inviò in Italia il suo cancelliere Guglielmo di Nogaret, che fece prigioniero Bonifacio ad Anagni, costringendolo a non pubblicare la bolla di scomunica contro il re. Dopo un mese, Bonifacio morì (giugno 1303) e si aprì una delle più importanti crisi del pontificato medievale. Il processo a Bonifacio venne aperto una prima volta nel 1303 e ripreso successivamente nel 1308 e nel 1311: due lunghe serie di accuse imputavano al papa defunto ogni sorta di nefandezze di natura sessuale, un contatto quotidiano con i demoni, una blasfemia ripetuta e idee apertamente eretiche; insomma, un papa eretico, minaccia per la Chiesa e per la cristianità. Le pressioni del re per una condanna furono fortissime, anche se la curia, pur accettando il processo per eresia, rimaneva prudente;  il processo contro i templari  tuttavia, il processo a Bonifacio VIII si intrecciava con un’altra causa celebre intentata dal re di Francia, questa volta contro i templari (ed entrambi i processi condotti dal re andavano a detrimento della curia pontificia “esiliata” ad Avignone dal 1309). Le insofferenze del re verso i templari francesi erano cresciute nei primi anni del Trecento, in seguito alle sue ardite sperimentazioni monetarie: Filippo aveva bisogno di denaro, ma i templari, che custodivano il tesoro regio, gli negarono dei prestiti ingenti. Non si sa se fu questo rifiuto o l’idea di impossessarsi degli enormi possessi dell’ordine a spingere il re (e i suoi giuristi) a preparare un’offensiva giudiziaria senza precedenti contro un ordine religioso. Come che stiano le cose, con un ordine impartito in tutto il regno, Filippo fece arrestare i generali dell’ordine e tutti i templari del regno; i capi d’imputazione erano numerosi e, ancora una volta, giravano intorno al nesso tra eresia, culto demoniaco e condotte sessuali illecite (tutti reati che, secondo le accuse dei giudici regi, erano previsti dal rituale di entrata nell’ordine). Davanti a ciò, il re doveva agire perché investito da Dio della funzione di protettore della fede: i templari eretici attentavano all’ordine del mondo; e quest’ordine doveva essere difeso dal re, davanti a un papa “dormiente” che non reagiva (ecco forse la più chiara formulazione della presa in carico da parte di un’autorità laica del compito di difendere la fede). In pochi anni, il reato di stregoneria, di patti segreti con il demonio, uniti a comportamenti sessualmente illeciti come la sodomia, divenne un modulo di accusa molto usato nei casi di opposizione politica e di lesa maestà: così, l’autorità politica si presentava come la protettrice dell’ordine del mondo voluto da Dio; e, per un certo tempo, per questa via, il re e papa avignonese Giovanni XXII procedettero in parallelo. In particolare, i processi lanciati da Giovanni XXII tra il 1315 e 1320 erano i segni evidenti di un papato sotto attacco: confinato ad Avignone da un decennio, il papato doveva governare la cristianità da una città piccola, lontana dall’Italia e sotto l’influenza diretta – se non proprio il controllo – del re di Francia. Eppure, il lungo settantennio avignonese rappresentò per la Chiesa un momento di forte sviluppo delle pratiche amministrative di gestione dei beni e degli affari: a differenza di quanto spesso si è detto, in sostanza, sul piano istituzionale, il periodo avignonese non rappresentò affatto il declino della Chiesa in “cattività”. Ma, sul piano politico, le cose erano cambiate: la costruzione 86 di una maestà regia si era impossessata di strumenti e idee della Chiesa, la contrapposizione diretta fra le due spade (spirituale e temporale) aveva mostrato quanto più resistente fosse ormai quella secolare e, soprattutto, con quale forza il re di Francia avesse rivendicato per sé la difesa della fede e dell’ordine naturale come un mandato di Dio. Il ritorno del papato a Roma nel 1378 non riuscì a pacificare la Chiesa. L’elezione del papa italiano Urbano VI fu contestata dai cardinali francesi, i quali, a loro volta, elessero Roberto di Ginevra sotto il nome di Clemente VII, insediato ad Avignone: la divisione in due dell’Europa religiosa fu un fatto importante perché mise in luce la debolezza storica del papato nel rappresentare l’unità religiosa dei regni europei. Così, davanti a questi limiti evidenti, la stessa istituzione pontificia fu messa in discussione: in effetti, si sviluppò un vasto movimento riformatore che vedeva la Chiesa come un organo tendenzialmente collettivo, plurale, fondato sulla collegialità del concilio; una visione organica della Chiesa che affidava il potere sovrano su di essa all’assemblea dei vescovi riuniti in concilio. Tanto che, nel concilio di Basilea, si elaborò una teoria ultra-democratica che identificò il concilio stesso, come assemblea dei vescovi, con la Chiesa. Questa radicalità della corrente conciliarista portò all’abbandono del partito riformatore da parte di poteri laici che prima lo avevano sostenuto: così, il movimento si affievolì e, in conclusione, del suo programma rimase solo il diritto di deporre un papa eretico. Alla fine, papa Martino V, tornato a Roma, riuscì a imporre la conferma della supremazia papale. L’esperienza conciliarista aveva provato a proporre una diversa idea di Chiesa, non basata sull’autorità, ma sulla carità, la fratellanza e la condivisione delle decisioni. Tuttavia, la proposta si dimostrò debole sia rispetto al papato (arroccato sul primato del pontefice) sia verso le chiese locali. CAPITOLO II: LA COSTRUZIONE DELLO SPAZIO POLITICO DEI REGNI EUROPEI Nel corso del XIV secolo, le società europee furono inquadrate in strutture regie più ampie e più definite. Tra Ottocento e Novecento, gli storici francesi hanno insistito sul processo di centralizzazione delle corti regie come motore dello sviluppo dello Stato, che avrebbe compresso irrimediabilmente le autonomie locali e i poteri feudali concorrenti: le monarchie si affermarono contro le altre forze sociali. Tuttavia, nuove ricerche hanno messo in luce la vitalità del particolarismo delle signorie locali, che sfruttavano i vantaggi dell’inserimento nella corte centrale del re, senza rinunciare alle prerogative sui propri territori; la lunga durata dei legami feudali che condizionarono ancora, per buona parte del Trecento, i rapporti fra i re e i grandi del regno; la capacità di resistenza delle comunità locali e delle città davanti alle esose richieste finanziarie dei re; e, in generale, l’esistenza di solidarietà regionali che identificavano nel “paese” un luogo di appartenenza più vicino e più rilevante rispetto al regno. 1. LA DIFFICILE COSTRUZIONE DI UNO SPAZIO POLITICO DEI REGNI DI FRANCIA E INGHILTERRA Se un dato comune emerge da queste sequenze di eventi, è la diffusa tensione contro la forma monarchica, attaccata su tutti fronti: sui criteri di successione, sui poteri da esercitare sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai, come nel XV secolo, l’esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita secondo le necessità del momento. E, tuttavia, da queste tensioni fortissime emerge un dato di fondo: l’estrema flessibilità della forma monarchica, la sua capacità di assorbire le pressioni più violente senza spezzarsi del tutto. È importante sottolineare come le monarchie sopravvissero a dispetto dei re e si reinventarono anche grazie alla loro debolezza, alla possibilità di rimodellare veloce i sistemi di governo in caso di necessità. La Francia basso-medievale partiva avvantaggiata nella costruzione di un regno “nazionale”, in quanto poteva giovarsi dell’eredità di almeno due grandi sovrani che avevano segnato la storia francese nella seconda metà del Duecento:  Luigi IX che governò a lungo, dal 1226 al 1270, rimanendo nella memoria collettiva come il modello di buon re: infatti, sotto Luigi IX era cresciuta ancor di più la sfera delle competenze riservate al re, a cominciare dall’attività legislativa e, ben presto, la giustizia divenne sempre di più un attributo sovrano: il re si poneva al di sopra del suo apparato amministrativo, come protettore dei sudditi ingiustamente vessati;  Filippo IV il Bello , in carica fra il 1285 e il 1315: sotto Filippo IV, le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi; la giustizia rimase strettamente nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della Chiesa. Filippo IV rimase famoso per lo scontro con Bonifacio VIII e il processo ai templari iniziato nel 1307: due episodi importanti proprio per la rilevanza politica assunta dall’affermazione di un potere sovrano superiore come difensore della fede e dell’ordine naturale del mondo. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore, Luigi X. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli; fu un episodio importante, in quanto le carte di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa proprio le funzioni pubbliche basilari della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. La tenuta del regno era a rischio, con conseguenze gravi per la sua stessa esistenza, come si vide bene qualche decennio più tardi, quando iniziò una lunga guerra con gli inglesi. Con l’esaurirsi della dinastia capetingia (1328) e il passaggio del regno alla linea dei Valois, si riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i 87 questa funzione di difensori dei confini della “cristianità” tali regni costruirono una parte importante della loro identità politica. Tutti e tre i paesi avevano istituzioni rappresentative assai forti, consistenti in una Dieta o in Stati generali, espressioni di territori politicamente semi-indipendenti, sottoposti a una nobiltà fortissima, numericamente estesa e intenzionata a difendere l’idea di un regno policentrico. Si trattava di una nobiltà di fatto bipartita in due livelli:  un livello alto – anzi altissimo – di grandi magnati (Ungheria), cavalieri (in Boemia), latifondisti, arbitri indiscussi della vita politica del paese;  un livello inferiore formato dalla piccola e media nobiltà, anch’essa assai estesa come in Polonia (erano nobili tutti i liberi, cioè i non-servi), legata da espliciti interessi clientelari alla nobiltà maggiore. Al sovrano veniva riconosciuto solo un formale coordinamento della politica sovralocale, che non si traduceva certo nell’adesione a uno Stato centralizzato. In Boemia, in seguito alla predicazione di Jan Hus (un sacerdote riformatore che predicava il ritorno alla vita evangelica, la libertà di predicazione e la comunione sotto le due specie del pane e del vino), il regno fu di fatto diviso in due: la Dieta e la città di Praga si schierarono in difesa della riforma hussita, mentre la Moravia, sotto Sigismondo, vi si oppose. Vi furono diciassette anni di guerra civile senza re, con la Dieta a capo della parte ribelle; e, solo nel 1436, dopo che Sigismondo di Boemia riconobbe la Chiesa hussita, si riformò l’unità del paese. Lo Stato ottomano fu il risultato di un’abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi realizzata dall’élite delle tribù turcomanne installate in tutta la penisola. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l’inizio di un processo di unificazione politica e religiosa di tutta la regione, con gradi diversi di dominazione e assimilazione religiosa e culturale: molto alta nella penisola anatolica e nelle regioni orientali (colonizzate in massa da tribù turcomanne), meno forte in quelle occidentali, dove le popolazioni locali pure sottomesse non furono completamente assorbite. La dominazione ottomana rappresentò per secoli un “nemico” e una minaccia che alimentava le ideologie religiose dei regni dell’est e dell’impero (il baluardo cristiano contro l’Islam) e, con minor successo, una serie di sfortunate “crociate” contro i Turchi. L’impero ottomano era uno Stato solidissimo sotto il potere assoluto del sultano, in grado di resister tranquillamente ai colpi di re europei poco saldi e di un’aristocrazia regionale in cerca di autonomia. 3. IL CASO ITALIANO: GLI STATI REGIONALI DAL XIV ALLA FINE DEL XV SECOLO Nei primi anni del Trecento, le regioni italiane furono soggette a un doppio processo di ricomposizione e di divisione: da un lato, vi fu la riunificazione di molteplici realtà cittadine e comunali in alcuni “Stati territoriali” maggiori; dall’altro lato, questa pluralità di dominazioni regionali non aveva alcun coordinamento centrale superiore, visto che né l’imperatore né tantomeno il papa riuscirono mai a presentarsi come poteri unificanti. In questo quadro di frammentazione relativa, possiamo distinguere tre aree politico-territoriali principali:  i grandi Stati regionali principeschi: - il ducato di Savoia, tra il Piemonte e la Savoia; - lo Stato dei Visconti, tra Lombardia, Piemonte ed Emilia; - lo Stato estense, comprendente parti di Emilia e di Romagna con capitale Ferrara; - lo Stato della Chiesa, dai confini ancora incerti tra Lazio, Marche, Umbria e Romagna;  le formazioni regionali ancora sotto regimi repubblicani: - la repubblica di Venezia con la Terraferma (Veneto e Friuli); - la repubblica di Firenze, estesa su quasi tutta la Toscana dopo la conquista di Pisa nel 1406; - la repubblica di Genova.  le regioni meridionali inserite nei regni: - la Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi; - il regno di Napoli sotto gli Angioini fino al 1442 e poi unito alla corona di Aragona. Rimanevano poi numerosi piccoli Stati incentrati su singole città o su contee rurali indipendenti e collegate agli Stati maggiori: si trattava di piccoli stati tendenzialmente autonomi che univano più dominazioni cittadine in una compagine nuova. Il salto riguardò dunque la trasformazione del dominio di una città in una costellazione pluricittadina. Questi dominati ebbero peraltro un’origine molto variegata, differente da una città all’altra e segnata da una sperimentalissima capacità di riadattare istituti comunali alla nuova realtà di poteri personali o familiari. La prima generazione di “signorie” cittadine era di fatto costituita da dominazioni personali, ancora bisognose di legittimazioni dal basso: la forza consisteva nell’aperta deformazione del quadro istituzionale comune; la debolezza stava invece nella necessità di ricorrere comunque a forme di legittimazione esterne al proprio potere. 90 Neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV secolo – quella dei Visconti a Milano – riuscì a sfuggire all’obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo. L’esperienza viscontea, insieme a quella estense, rappresenta un momento centrale del riassetto politico dell’Italia signorile. I Visconti si presentavano programmaticamente come i restauratori dell’ordine, i salvatori della città dilaniata dalle lotte civili. I signori non erano “piccoli re”: le loro pretese erano poco fondate, i loro atti di potere spesso fuori dai sistemi riconosciuti di derivazione del potere. I signori si appropriarono anche di alcuni attributi della sovranità, come la qualifica di “legge animata in terra” riservata agli imperatori: era eccessivo, ma l’esagerazione dimostra quanto deboli fossero in realtà le basi di legittimazione del dominato visconteo e quanto il signore avesse bisogno di sostegni legali. Ma la maggior parte delle dedizioni di città al signore, votate dalle assemblee di cittadini, era condizionata dalla presenza di armati del signore che non lasciavano molta scelta ai presenti: per questo, la maggioranza dei signori rimanevano comunque tiranni. Sul piano politico, la costruzione dello Stato regionale procedette per gradi, in maniera discontinua, con accelerazioni e brusche frenate. Un tratto comune a tutte le dominazioni territoriali va identificato proprio nell’acquisizione per “blocchi separati” di città e territori che patteggiarono col signore modi e forme dell’entrata nel dominio. L’ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di ufficiali locali naturalmente richiese una ristrutturazione delle corti centrali: la costruzione di una sorta di burocrazia centrale faceva progressi ovunque, dai grandi Stati ai piccoli principati. La presenza di un personale tecnico di estrazione “borghese” fornì il sostegno a nuove pratiche di governo impostate su criteri statuali, che cercavano di razionalizzare l’amministrazione del principato. La chiave di volta degli Stati signorili o principeschi (Visconti-Sforza, Este, Stato della Chiesa) rimase la capacità del signore di assicurare un rapporto diretto tra il centro, in alcuni casi la corte, e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Il grado di autonomia delle comunità rimase molto elevato quasi ovunque: infatti, il governo centrale si assicurava il controllo sulle decisioni politiche attraverso l’invio o la scelta di magistrati esterni di affiancare ai collegi cittadini o in alcuni casi, ai consigli comunali che erano rimasti in vita e difendevano gelosamente le prerogative del governo urbano. Questo localismo esasperato dimostrava quanto ancora provvisoria e imperfetta fosse la sottomissione del contado attuata in età comunale e quanto radicati ancora fossero i diritti particolari, sia delle comunità sia dei signori: le numerose e sparse signorie locali rivendicarono un’autonomia politica e giurisdizionale piena sui territori di loro pertinenza. Soprattutto i Visconti – ma anche i Savoia, gli Sforza e i pontefici – furono generosi nel riconoscere e inserire nello Stato le signorie locali con una formale investitura feudale che rendeva palese la nuova gerarchia dei poteri pur lasciando intatto il prestigio dei signori. Le infeudazioni attuate dai prìncipi avevano proprio questa duplice funzione: da un lato, riconoscere poteri signorili effettivamente operanti sul territorio, che non erano in grado di contrastare; dall’altro lato, far riconoscere a questi poteri la supremazia politica del signore. Il sistema feudale e il nuovo senso del vassallaggio, inteso come soggezione politica e non come fedeltà militare, riuscirono in qualche misura a stabilizzare le migliaia di signorie locali dei territori regionali. Sembrava un sistema efficiente, in grado di comprendere tutte le realtà dello Stato con le quali impostava relazione diverse; a fare difetto, tuttavia, era proprio lo Stato centrale, il nucleo istituzionale di riferimento che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti: non si trattava solo di una questione di legittimità, ma anche di continuità del potere e di mentalità di governo. Un problema che, in teoria, non doveva toccare le regioni italiane inserite in compagini monarchiche: la Sicilia e il regno di Napoli. Il governo aragonese in Sicilia iniziò una politica di valorizzazione delle realtà locali, baroni e città. I re aragonesi aumentarono il numero di cavalieri, concessero loro un’ampia disponibilità di feudi che potevano esser liberamente venduti e trasmessi in eredità affidarono alle comunità la riscossione delle imposte dirette. Un elemento di debolezza fu la vendita di beni demaniali per aumentare le entrate. Una fase di instabilità dinastica e politica portò a un governo condiviso di quattro vicari che si spartirono l’isola favorì la nascita di centri di potere autonomo che non riconoscevano il re. Una crisi simile fu attraversata dal regno di Napoli sotto la dominazione angioina, quando la successione fu contesa da due rami della prolifica famiglia: il ramo degli Angiò di Provenza e quello degli Angiò-Durazzo, re d’Ungheria. I baroni del regno, già forniti di ampi privilegi dagli Angioini, non solo rafforzarono i loro diritti feudali, ma riuscirono a costruire, in alcuni casi, dei veri Stati regionali semi-indipendenti. Nel 1443, Alfonso d’Aragona, da poco diventato re di Napoli, confermò a molti feudatari l’alta giustizia civile e penale; a questo si aggiunse l’enorme numero di privilegi di esenzione fiscale, giurisdizioni minori, consuetudini concessi alle comunità cittadine e ad altri centri rurali del regno. La riforma del fisco promossa dal re d’Aragona Alfonso il Magnanimo aveva rimesso in funzione la fiscalità diretta, con la redazione di catasti per censire le proprietà dei sudditi e tassarli in proporzione ai beni. Il re aumentò anche le entrate indirette. Anche la formazione di un esercito permanente andava nella direzione di una razionalizzazione delle spese. 91 In definitiva, proprio la compartecipazione all’amministrazione dello Stato, anche se attuata nelle forme “privatistiche” del privilegio, era il punto di forza della monarchia aragonese: sia i baroni sia le élite urbane trovavano nella collaborazione con il regno o nel servizio diretto nei suoi uffici la ragion d’esser del loro potere “locale”. Amministrare la giustizia (per i baroni) e riscuotere le tasse (per le città) erano azioni politiche che riaffermavano la derivazione pubblica dei loro poteri. Anche gli stati repubblicani furono attraversati da lunghe fasi di instabilità dovute alle incertezze dei sistemi istituzionali; ma l’esito fu in parte diverso. A Firenze, una volta assestato il dominio sulle città soggette e i loro territori, l’oligarchia finanziaria che guidava le Arti maggiori iniziò a modificare in profondità l’assetto istituzionale della repubblica. Firenze era rimasta una repubblica, con istituzioni consiliari relativamente aperte e un sistema di ricambio periodico del personale politico. Ma, nel XV secolo, le cose cambiarono: si affermò una nuova cultura politica che privilegiava la stabilità dello “stato” rispetto alla legalità repubblicana. In termini generali, si può dire che l’élite rivendicava l’autonomia della politica dal diritto e fece di tutto per affermare una forma di governo oligarchica. Uno degli strumenti più importanti in questa direzione fu la costruzione graduale delle prestanze, un istituto che stabilizzava il debito pubblico del comune. Il sistema del debito pubblico finanziato dai cittadini era in uso in altri due grandi Stati repubblicani: Genova e Venezia, i centri di uno sviluppo economico eccezionale su scala mediterranea. I sistemi istituzionali riconobbero presto la necessità di stabilizzare il governo con un capo supremo, eletto a vita, il doge, contornato da una serie di consigli ristretti e larghi che bilanciassero i poteri all’interno dell’aristocrazia urbana. Il modello veneziano raggiunse quasi la perfezione nell’attenzione maniacale agli equilibri di potere tra le diverse componenti dell’élite urbana. I contrappesi e i controlli incrociati permisero a tutta l’aristocrazia di partecipare alla vita politica senza arrivare a minacciare la stabilità dello Stato con guerre civili. Naturalmente si trattava, nel caso veneziano (ma anche in quello ligure), di una “società politica” bloccata. Un’oligarchia chiusa, rinnovata con prudenza, coinvolta direttamente nella politica, solidale negli affari internazionali, e in grado di cointeressare un’ampia fetta della popolazione veneziana nell’espansione commerciale verso il Mediterraneo. Questi governi inter-cittadini, fondati sull’unione personale e sulla dedizione di città a un signore, non portarono una maggiore stabilità degli assetti politici italiani, dal momento che violente competizioni si accesero fra il ducato milanese e gli Stati forti della penisola: con Firenze in primo luogo, che contrastò duramente il tentativo egemonico dei Visconti nell’Italia centrale; con Venezia, ormai potente nella Terraferma e abilissima nel creare alleanze prima a favore e subito dopo contrarie a Milano; con lo Stato della Chiesa, che cominciava ad agire come potenza regionale di interposizione contro ogni progetto egemonico. Lo stato di “quiete” raggiunto con la cosiddetta pace di Lodi (1454) tra Milano e Venezia non riusciva a nascondere un fatto evidente: le “cose d’Italia” erano ormai un problema europeo e solo in un contesto europeo potevano trovare soluzione. Le “invasioni straniere” di fine Quattrocento e l’inglobamento del ducato sforzesco nel regno di Francia e poi in quello di Spagna segnarono una rottura nella tradizione degli Stati principeschi italiani. 4. CONCLUSIONI La configurazione territoriale dei regni fu condizionata pesantemente dall’intreccio fittissimo di reti parentali e di scelte matrimoniali interne alle aristocrazie europee. In ogni caso, tutti i regni dovettero affrontare le resistenze di istituzioni assembleari rappresentative che si ponevano come potere “esterno” alla monarchia, anche se non sempre in conflitto con essa. Alla fine, dopo un periodo di crisi acutissima, intorno alla metà del XV secolo, i regni trovarono una forma istituzionale più stabile, che si poteva certo modificare o “riformare”, come prudentemente si esprimevano i consiglieri del re nel tardo Quattrocento. In definitiva, la monarchia resse all’urto di potenti forze contrarie intenzionate a deformarla non perché fosse per natura la forma di governo migliore, ma perché riuscì a radicarsi come istituzione territoriale, creando una base sociale ampia che aveva interesse a mantenere un livello centrale di coordinamento superiore dei territori regionali. Nessun annullamento dei poteri signorili e locali nello Stato; semmai un coinvolgimento diretto nell’amministrazione dello Stato delle forze politiche potenzialmente dissolutrici. CAPITOLO III: SOCIETÀ POLITICHE DEL BASSO MEDIOEVO. UN PROCESSO DI INTEGRAZIONE CONFLITTUALE La definizione dell’assetto politico dei territori europei si configura come un insieme di processi necessariamente intrecciati: un’integrazione conflittuale fra monarchie, istituzioni territoriali e forze sociali da cui tutti i soggetti uscirono profondamente trasformati. Da un lato, la corte centrale e l’ideologia monarchica si definirono meglio sul piano culturale e amministrativo, elaborando una nuova ideologia regia e sviluppando un costoso apparato burocratico in grado di estendere il controllo pubblico in modo capillare nei territori del regno. Dall’altro lato, anche i “paesi” si organizzarono per proprio conto. Tuttavia, la loro esistenza era strettamente legata a quella del regno: per la distribuzione delle risorse, la contrattazione dei carichi fiscali che comunque venivano loro 92 proporzionale, ossia secondo il livello di ricchezza dei singoli. In molte città italiane e francesi, erano preparati dei catasti, che contenevano l’elenco molto approssimativo dei beni dei cittadini: per questo, fu una pratica molto contestata e aggirata in vari modi. In effetti, alla fine del Medioevo, le classi alte ne erano praticamente esenti e a pagarle rimasero gli abitanti delle campagne. L’imposizione fiscale era soprattutto una questione politica. Due erano i punti rilevanti: in base a quale potere il re poteva imporre una tassa ed esigere dai sudditi il pagamento; e quando era necessario il consenso dei sudditi alle richieste del re. In caso di necessità, il re era legittimato, per la sopravvivenza del regno, a prelevare tasse senza il consenso del popolo: secondo le teorie assolutiste ben radicate nella corte francese, tutto era giustificato se fatto per il “profitto comune del regno”. Nonostante queste affermazioni, le resistenze al potere regio di imporre tasse senza consenso furono sempre numerosissime. Dunque, la “salvezza del regno” dipendeva dal consenso espresso dalle assemblee. 3. ASSEMBLEE E PARLAMENTI: LA SOCIETÀ LOCALE NEI SISTEMI MONARCHICI Già nel corso del Duecento, acquistarono un rilievo nuovo le tradizionali assemblee del regno, formate dai rappresentanti dei diversi corpi del paese:  in Inghilterra, il Parlamento, diviso in una Camera bassa dei comuni e nella Camera alta dei nobili (lords);  in Francia gli Stati generali erano composti dai tre “ordini”: uomini di Chiesa, nobiltà e “borghesi” (esponenti del mondo urbano). Si distinguevano Stati provinciali, che discutevano problemi locali da sottoporre al re o eleggevano i rappresentanti della regione, e Stati generali, convocati dal re per discutere questioni diverse, di natura economica e politica e, naturalmente, per ottenere il consenso alla levata delle tasse;  in Spagna, le Cortes comprendevano, in Castiglia, solo le città ed escludevano i nobili, mentre, in Aragona e nelle città catalane, la formazione di Deputazioni stabili delle Cortes aveva consegnato nelle mani delle assemblee di eletti un vero potere di controllo sull’operato del re. Ad ogni modo, nella maggioranza dei casi, lo stato di guerra richiedeva la concessione da parte dei sudditi di un contributo in denaro sotto forma di imposte dirette o indirette: il sistema guerre-tasse-assemblee divenne così il meccanismo di base della politica regia, ma anche il metro per valutare la tenuta della monarchia, il suo grado di legittimità e la sua capacità di governare ottenendo un certo grado di consenso. L’Inghilterra è il regno che più ha usato il sistema delle assemblee. Il re chiedeva aiuto al Parlamento e l’assemblea lo concedeva, dopo aver deliberato e votato. Da tempo, dare soldi al re era un atto politico: le domande di aiuto dovevano essere commisurate al grado di fedeltà del re ai suoi impegni, alla legittimità della richiesta e alla sua utilità per il regno. Nel corso del Duecento, i parlamentari si riunirono con frequenza crescente; dal 1284, le riunioni divennero regolari e i giuristi si sforzarono di trovare una giustificazione teorica della loro utilità nel principio romanistico che “ciò che riguarda tutti da tutti deve essere approvato”. In sostanza, le assemblee svolgevano di fatto anche un’attività legislativa. In Inghilterra, le decisioni del Parlamento, chiamate “statuti”, non potevano essere modificate dal re, ma solo da un altro statuto. Tuttavia, non bisogna generalizzare né mitizzare queste assemblee come un potere contrapposto al re o come un’alternativa politica proto-democratica alla forma monarchica di governo. Queste assemblee conservavano alcune caratteristiche “strutturali”:  erano ancora “temporanee” e furono convocate con una periodicità variabile da caso a caso;  avevano una rappresentanza sociale “limitata”, cioè non rappresentavano tutti gli ordini nello stesso modo (salvo nel caso castigliano), dal momento che i membri degli ordini maggiori erano convocati individualmente ed erano presenti di persona (ed erano il nucleo sociale che, dalle assemblee rappresentative, traeva i vantaggi più consistenti), mentre le città e le comunità, quando erano chiamate, dovevano inviare dei rappresentanti scelti tra i “migliori e più saggi” del luogo, i quali, però, erano spesso in minoranza e, in più, non erano consultati su tutte le questioni  non erano ideologicamente contro la monarchia: potevano sì attaccare il re, ma, alla fine, furono proprio le assemblee che sostennero l’unità della Corona, almeno nei paesi dove più forte si poneva l’istanza regia (Francia, Inghilterra e Spagna);  fissarono la divisione in ordini, conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico che ne sostenne lungamente la preminenza politica (oltre che sociale). In generale, le assemblee non sembrano essere un blocco monolitico di interessi del paese coalizzati contro il re, ma, diversamente, un insieme sociale ogni volta diverso, in parte manipolato dall’alta aristocrazia (che aveva reti clientelari molto estese nelle regioni dove si concentravano i suoi possessi) e in parte determinato dai rapporti di dipendenza del re con alcune forze locali. E ciò spiega anche il declino delle assemblee alla fine del XV secolo: 95 convocate sempre più raramente, molte di esse non avevano più la capacità di proporre una politica autonoma né di rivendicare un potere di veto sulle decisioni del re. I motivi di questo declino furono diversi, ma tra loro collegati:  i re avevano reintegrato i beni della corona, ridotto il numero delle guerre e, quindi, diminuito le richieste di aiuto ai sudditi;  la tassazione ordinaria era ormai un dato accettato e poco contestato anche dai territori: si poteva discutere sull’importo, ma non sulla sua imposizione;  infine, in quasi tutti i regni, la nobiltà e la medio-alta aristocrazia terriera e urbana erano ormai esenti dalle imposte ordinarie: quindi, se prima dovevano partecipare alle assemblee per difendere i propri interessi, alla fine del XV secolo, questo non era più necessario, dal momento che, ormai, le tasse colpivano solo i contadini e le campagne. In sostanza, la nobiltà non si interessava più delle assemblee. Nella seconda metà del Quattrocento, l’alta aristocrazia cambiò strategia, espandendo la penetrazione nell’amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo, come la diplomazia e l’attività militare; entrò nell’alto funzionariato regio, coprendo cariche di ufficiali maggiori nei territori; contrattò con il re dei privilegi pesanti. In Francia, le guerre continue valorizzarono le capacità di comando militare; in Inghilterra, i giudici di pace, con funzioni giudiziarie e di polizia appartenenti alla media e alta nobiltà erano i custodi della “pace del re” (un sistema economico per assicurare l’ordine pubblico affidandolo al ceto già in possesso della capacità militare in quei luoghi); in Spagna, la nobilità rimase sempre potente da condizionare la vita dei regni, dal momento che i re cercarono di coinvolgere una parte della nobiltà in forme private di co-gestione del potere (infatti, i signori entrati nella “privanza del re” si chiamavano privados e a essi venivano affidate alcune funzioni di governo come especiales servidores). Il servizio regio divenne un fattore di prestigio, di conferma pubblica della propria nobiltà e potenza politica; tuttavia, il ceto che più si contrapponeva al re finiva per far dipendere la sua potenza proprio da legame con il re. Così, l’integrazione della nobiltà in varie forme (istituzionali e personali) rafforzò la monarchia, segnò l’ingresso delle clientele nel sistema di governo dei territori del regno, attraverso la promozione di esponenti a ufficiali o la vendita delle cariche regie a vita. Insomma: più lo Stato riusciva a distribuire quote di potere pubblico in amministrazione alla nobilita territoriale, più le speranze di successo e di durata aumentavano. Il regno divenne il grande contenitore dei gruppi sociali. Le forze sociali e le istituzioni costituivano – metaforicamente e propagandisticamente – un blocco unico, un organismo unitario, un corpo vivente con il re come testa e tutti gli ordini sociali come organi, ognuno con una propria funzione specifica e coordinato con gli altri. Dunque, l’unità e l’armonia di tutte le parti servivano a garantire la sopravvivenza del corpo e, al contempo, richiedevano che tutte le componenti facessero soltanto quello che spettava loro, senza deviare dai propri compiti (pluralità di corpi gerarchicamente ordinati in modo stabile e immutabile). Il corpo divenne uno straordinario strumento di legittimazione della gerarchia e delle differenze sociali, un grande stabilizzatore dell’unità del regno: in tal modo, i piedi che si ribellano, che non seguono il cammino giusto (quello del re), provocano inevitabilmente la rovina del corpo. Sostanzialmente, la stabilità dell’ordine sociale doveva essere garantita dal rispetto dei ruoli e della gerarchia stabilita dalla natura e approvati dalle istituzioni regie. CAPITOLO IV: GERARCHIE SOCIALI ALLA FINE DEL MEDIOEVO Lo sviluppo delle istituzioni politiche dei regni ha messo in luce un processo di aristocratizzazione della società nel corso del XV secolo. Queste aristocrazie si erano rafforzate ovunque, sia nelle campagne (dove una massa ingente di contadini fu di fatto privata della terra, espulsa dalle campagne o costretta a lavorare come bracciante) sia nelle città (dove i lavoratori delle migliaia di botteghe artigiane sparse nelle città europee furono sottoposti a un processo simile). Il mondo basso-medievale dovette fare i conti con una massa crescente di persone “non proprietarie”, senza terra e senza mezzi di sussistenza: una massa da far lavorare a salario, che aveva solo il lavoro come risorsa economica. Sia la cultura ecclesiastica sia quella laica giustificarono l’esclusione politica dei dipendenti salariati in base a un’antica diffidenza per il lavoro manuale dipendente, una condizione che sminuiva la qualità umana della persona. Tuttavia, si poneva il problema del sostentamento di masse urbane che vivevano in uno stato di incertezza continua: questo spinse le autorità laiche ed ecclesiastiche a costruire strutture permanenti di accoglienza e di aiuto. Una élite mista si incaricava di raccogliere le offerte, organizzare gli aiuti e soprattutto decidere a quali persone e per quali motivi potevano esser concessi. La carità istituzionalizzata serviva anche a ridisegnare gerarchie sociali, a graduare il valore delle persone e delle loro attività, a riaffermare un quadro di valori dominanti che dovevano regolare la vita collettiva delle società. 1. CRISI E RISTRUTTURAZIONE DEI RAPPORTI SOCIALI NELLE CAMPAGNE Una serie di carestie indebolì le popolazioni urbane e rurali fra il 1315 e il 1322; le guerre violentissime e lunghe e soprattutto un aumento costante delle tasse, che in tutti i paesi europee 96 vessarono il mondo rurale in maniera crescente. Un processo che coinvolse signorie laiche ed ecclesiastiche in ugual misura. La peste del 1347 colpì duramente le città e le campagne europee; arrivata attraverso navi provenienti da porti orientali, si diffuse rapidamente in tutta Europa. L’alta mortalità era considerata espressione della collera di Dio, che puniva l’umanità per i suoi peccati. Le fonti demografiche e contabili mostrano ampi vuoti nelle popolazioni urbane, diminuite del 40-50% rispetto ai livelli degli anni precedenti alla peste. Nelle campagne, la situazione era complicata da un perverso meccanismo di impoverimento della popolazione causato dai rigidi dispositivi della fiscalità pubblica, urbana o signorile: infatti, le tasse erano calcolate in base a un numero fisso di abitanti, che non teneva conto delle morti e degli abbandoni. Così, gli abitanti rimasti dovevano pagare le tasse per un numero di persone non più reale, un peso per molti insopportabile, che provocava il definitivo abbandono di numerosi centri rurali. Si trattò di un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro, dei doveri del contadino e delle pretese dei proprietari fondiari animati da una nuova propensione allo sfruttamento economico della terra. Lungo tutti i secoli centrali del Medioevo, i rapporti agrari in Europa furono dominati da poche tipologie contrattuali: in primo luogo, il livello e l’enfiteusi, due forme di affitto a lungo termine dai dieci ai ventinove anni, rinnovabili fino a tre generazioni. In un periodo così lungo, il contadino che usava la terra direttamente acquisiva una certa disponibilità della terra stessa, anche se non ne era il proprietario: poteva decidere le colture, subaffittare la terra che aveva in concessione o anche venderla con il consenso del proprietario. Secondo una nozione del possesso, le cose erano di chi le usava e questo diritto “pesante” legava il contadino alla terra, ma legava anche la terra al contadino: difficile sfrattarlo. Le cose iniziarono a cambiare nel corso del Duecento. Gli imponenti processi di bonifica e di messa colture di nuove terre modificò la struttura della rendita fondiaria: il passaggio dal canone in denaro al canone in natura, vale a dire la consegna al proprietario di una parte dei prodotti. Per diversi motivi: la crescita esponenziale della domanda di beni alimentari nelle città. Alla crescente domanda delle città risposero invece le grandi aziende agrarie che dopo secoli di crisi iniziarono nel tardo secolo XII un processo di riorganizzazione del patrimonio fondiario, indirizzando quote crescenti della produzione verso i mercati urbani. Una buona parte dei capitali era stata investita nelle campagne, consegnando nelle mani cittadine una quota ormai preponderante dei possessi terrieri. Gli appezzamenti più grandi, più redditizi e più curati appartenevano a proprietari cittadini. Differenze sostanziali riguardavano anche i modi di conduzione dei fondi. Nei territori a prevalente dominio cittadino le proprietà erano meno frammentate, richiedevano cure particolari nella gestione dei cicli produttivi e una diversa organizzazione della forza lavoro. Le zone a prevalenza contadina erano invece coltivate direttamente dai conduttori, spesso ancora in affitto enfiteutico (a lungo termine). Il quasi-monopolio dell’affitto a lungo termine di frantumò e iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali, informe ibride con rapporti diversi. La novità più eclatante era la brevità dei termini di concessione. La riduzione dei termini poteva avere ragioni diverse: ridiscutere l’importo dei canoni, riappropriarsi della disponibilità della terra, mettere sotto controllo l’attività del conduttore. In questo modo si liberava il contadino dalla terra ma si provocava anche una maggiore precarietà dei rapporti di lavoro. In Italia le novità più importanti si ebbero nelle zone a forte concentrazione di proprietà contadina. Qui si trovano le prime forme di contratto di mezzadria, un affitto a breve termine con la divisione a metà dei prodotti tra il proprietario e il contadino. Nel corso del Duecento aumentarono gli obblighi per il contadino che doveva compartecipare, insieme al proprietario, alla fornitura delle 97
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