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Storia moderna (1492-1848) di C. Capra, Sintesi del corso di Storia Moderna

Mancano: i “BOX” alla fine di ogni capitolo; paragrafi intitolati “Le conoscenze geografiche alla fine del Medioevo: l’Africa nera” e “Le civiltà precolombiane in America”, che fanno parte del capitolo intitolato “I nuovi orizzonti geografici”; paragrafi intitolati “La Cina sotto le dinastie Ming e Manciù”, “Il Giappone nell’«era Tokugawa»”, “L’impero moghul in India”, “La Persia e l’Impero ottomano”, che fanno parte del capitolo intitolato “Imperi e civiltà nell’Asia tra XVI e XVIII secolo”

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 07/04/2019

FrancescaFabee
FrancescaFabee 🇮🇹

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Scarica Storia moderna (1492-1848) di C. Capra e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Capitolo 1 La popolazione e le strutture familiari Fonti e metodi Caratteristiche degli Studi sulla popolazione: natalità, mortalità, nuzialità, fecondità, flussi migratori. Cellula elementare di tali studi è la famiglia. Malthus nel Saggio sul principio di popolazione (1798) espone una diffusa preoccupazione per lo squilibrio tra popolazione e risorse alimentari. La popolazione, se non controllata, cresce in progressione geometrica (1,2,4,8), le risorse necessarie alla sopravvivenza crescono solo in progressione aritmetica (1,2,3,4). Freni “repressivi” della crescita demografica sono: carestie, epidemie e guerre. Freni “preventivi” (secondo Malthus): limitazione cosciente dei matrimoni e quindi della fecondità, che deve riguardare la parte più povera della società. (Il saggio di Malthus riflette le caratteristiche dell’Inghilterra della sua epoca che, dopo la rivoluzione agricola e quella industriale, stava radicalmente modificando il quadro della produzione). La statistica muove i suoi primi passi nell’epoca moderna. Aritmetici politici importanti del Seicento sono: Petty, King e Sussmilch. I primi censimenti modernamente impostati risalgono al 18° secolo o agli inizi del 19°. In precedenza si hanno numerazioni di nuclei familiari compiute a scopi fiscali (uno dei più celebri è il Domesday Book), conteggi degli abitanti di città o di distretti, finalizzati all’approvvigionamento e alla distribuzione di viveri, oppure al censimento di uomini atti alle armi. (rilevazione eccezionale è quella del catasto fiorentino del 1427). Altra importantissima miniera di dati è rappresentata per l’Europa preindustriale dalle fonti ecclesiastiche, distinguibili in:  Fonti relative allo stato : “stati delle anime” (status animarum) elenchi di abitanti di una parrocchia redatti casa per casa dal rettore della stessa al fine di controllare l’adempimento al precetto pasquale (norme precise furono dettate dalla Santa Sede nel 1614) (preziosi per conoscere sesso, età, forme di convivenza, strutture familiari)  Fonti relative al movimento della popolazione : documentazione di base costituita dai libri in cui erano registrati gli eventi fondamentali, dal punto di vista religioso, della vita dei parrocchiani: battesimo, matrimonio, sepoltura. (registri parrocchiali divenuti una fonte privilegiata per lo studio della popolazione a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, quando dai demografi francesi venne elaborato un metodo noto come “ricostruzione nominativa delle famiglie” che consiste nell’intestazione di una scheda ad una coppia che ha contratto matrimonio nella parrocchia presa in esame e nella trascrizione di tutti gli eventi demografici riguardanti la coppia) (permettono di studiare l’andamento di certi eventi, come la natalità, nel corso degli anni, sia di studiarne la stagionalità) Questi documenti ci consentono di determinare gli indici di natalità, mortalità e nuzialità per ogni mille abitanti. Grazie a questi modelli (come quello della ricostruzione nominativa delle famiglie) ha preso forma un vero e proprio modello demografico d’Antico Regime. Gli inconvenienti di questo metodo sono: il lungo lavoro richiesto e il basso numero di schede di famiglia interamente complete. I demografi, dopo un primo periodo di entusiasmo per questo metodo, hanno elaborato tecniche diverse, basate sui grandi aggregati, tra cui le piramidi dell’età, le tavole di mortalità e la speranza di vita alla nascita. La popolazione europea nell’età moderna Tra il tardo Quattrocento e l’inizio dell’Ottocento, molto più della metà della popolazione mondiale viveva nel continente asiatico (nella fascia centro – meridionale). Essa si triplica tra il 1400 e il 1800. Per quanto riguarda il nostro continente si delineano tre fasi: 1. Crescita demografica generale e continua tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Seicento 2. Forte rallentamento nel 17° secolo 3. Rinnovata tendenza espansiva nel Settecento, che si prolunga e rafforza nel 19° secolo. (importanza dei fattori naturali, come il clima, le eruzioni vulcaniche e altre calamità, nel condizionare l’andamento della crescita demografica) I tassi d’incremento annuo sono però bassi (raramente toccano lo 0.5% fino alla seconda metà del Settecento). La lentezza della crescita della popolazione è dovuta all’alta mortalità e alle ricorrenti crisi demografiche (peste, fame, guerra moltiplicavano improvvisamente il numero dei decessi annui, portando al drammatico aumento della mortalità, a cui faceva riscontro la diminuzione della nuzialità e della natalità. Passata la carestia tutti gli indici si invertivano). Nell’età moderna erano pressoché sconosciute le pratiche contraccettive, che cominciarono a diffondersi solo nel tardo Settecento a partire dalla Francia. In questa condizione di fecondità naturale ci si aspetterebbe un tasso alto di natalità/figli per coppia, e invece non è così. Cause del basso numero di figli sono:  Donne si sposavano tardi (24/26 anni)  Lunghi intervalli tra i parti a causa dell’allattamento prolungato  Molto frequente la rottura dell’unione coniugale prima che fosse giunto a termine il ciclo fecondo (spesso a causa della morte di uno dei due della coppia) A tutto questo si aggiungeva la mortalità infantile e giovanile. La sopravvivenza in media di 2,5-3 figli per coppia fertile bastava appena a garantire la riproduzione del potenziale umano ed una lieve eccedenza, se le condizioni economico-sociali erano favorevoli. La storia della famiglia I documenti come gli stati delle anime e i registri parrocchiali, ci danno informazioni sui nuclei familiari, sulla loro dimensione e sulla composizione degli aggregati domestici (insieme di coloro che vivono sotto lo stesso tetto e mangiano alla stessa tavola). Classificazione elaborata dal gruppo di Cambridge (Peter Laslett), cinque tipi di aggregati: 1. Famiglia nucleare: coniugi più eventuali figli 2. Famiglia estesa: ai coniugi e ai figli si aggiunge un altro convivente (un fratello o un genitore) 3. Famiglia multipla: compresenza di due nuclei 4. Famiglia senza struttura: non vi è rapporto matrimoniale (vedova che vive con la figlia nubile) 5. Solitari Due diversi modelli matrimoniali e familiari (Laslett e Hajnal):  Tipico dei paesi dell’Europa nord occidentale (Paesi scandinavi, Paesi Bassi, Francia settentrionale) si basa su tre regole: o Sia gli uomini che le donne si sposano tardi, ed una quota abbastanza alta non si sposava affatto o Gli sposi seguivano la regola di residenza neolocale dopo le nozze, mettevano su casa per conto proprio e formavano una famiglia nucleare o Prima delle nozze un’altra quota di giovani passava alcuni anni fuori casa a servizio di un’altra famiglia  Tipico dell’Europa orientale e meridionale prevedeva il matrimonio precoce e la residenza con i genitori del marito. Escludeva il servizio prenuziale presso altre famiglie. (questi schemi non spiegano però tutta la varietà delle situazioni reali) Solo un attento studio dei condizionamenti economici, delle norme giuridiche e delle pratiche sociali è in grado di rendere conto di tutte queste varianti. È da tenere presente che la famiglia non è solo una unità di consumo ma anche una unità di produzione (aziende contadine, lavorazioni artigianali o proto industriali). Le dimensioni dell’aggregato domestico erano anche in funzione delle dimensioni del fondo coltivato e della quantità di forza lavoro da esso richiesta. Spesso le famiglie avevano strutture diverse a seconda dei meccanismi ereditari. I condizionamento di tipo economico e giuridico riguardavano anche le élites. La conservazione della ricchezza, incentrata per lo più sulla proprietà fondiari, è una preoccupazione dominante nelle famiglie aristocratiche europee che tra il 16° e il 18° secolo adottano strumenti giuridici come: o Il fedecommesso: disposizione di ultima volontà mediante la quale chi fa testamento vincola l’erede o gli eredi a trasmettere una serie di beni sottoposti a vincolo agli ulteriori chiamati, di solito per via di discendenza maschile. o La primogenitura: concentrare nel primogenito il grosso dell’eredità (cercando di tutelarsi contro il rischio di una dispersione del patrimonio a causa di una prole troppo numerosa o ad opera di un erede scialacquatore). imprenditore, che acquistava la materia prima e la affidava ad operai che la lavoravano nella loro abitazione ed erano retribuiti a cottimo. Il settore tessile rimase a lungo quello dominante nell’industria europea (pannilana, lino, seta). (proprio la filatura serica conobbe una precoce meccanizzazione grazie ai mulini detti “alla bolognese”, mossi dalla forza idraulica e capaci di eseguire meccanicamente la torcitura e l’avvolgimento del filato) Nel campo della meccanica si ebbero una serie di perfezionamenti che interessarono l’orologeria, la costruzione di strumenti nautici e di armi da fuoco. Nell’estrazione mineraria, l’introduzione di pompe idrauliche e di altre tecniche per il drenaggio delle gallerie permise di sfruttare giacimenti posti anche a grande profondità. Notevoli furono anche i progressi della siderurgia grazie alla diffusione degli altiforni. Moneta, prezzi, mercato L’economia monetaria era ormai universalmente diffusa. A partire dal 13° secolo vigeva un regime di bimetallismo (erano l’oro e l’argento i valori di scambio). Il quadro era complicato dall’esistenza, nei vari Paesi, di monete di conto, che non erano effettivamente coniate. I prezzi mostrano una spiccata tendenza all’aumento tra la fine del 15° secolo e i primi decenni o la metà del 17° secolo. Perché? Ricordiamo che il prezzo è un rapporto tra il prodotto della massa e della velocità di circolazione della moneta e la quantità di beni disponibili. Se quest’ultima aumenta in misura minore della massa monetaria in circolazione o della velocità di circolazione, o di entrambe, i prezzi saliranno. Alla pressione esercitata sui prezzi dallo squilibrio tra popolazione e merci disponibili si aggiunse, nel Cinquecento, il rapido aumento della massa dei mezzi di pagamento e della loro velocità di circolazione (la produzione di argento raddoppio tra la metà del Quattrocento e il 1530 circa). La disponibilità di argento e oro fu sensibilmente accresciuta dalle importazioni di questi metalli dal Nuovo Mondo. Tutto ciò portò ad una tendenza inflazionistica. L’aumento della produzione industriale e la crescente richiesta di generi di prima necessità (grano, legno, sale) portarono ad una grande espansione dei traffici (tardo 400 inizio 600). La navigazione continuava ad essere il mezzo preferito, tant’è che è proprio in questo periodo che compie un rapido progresso (es: fluyt olandese un veliero messo a punto alla fine del 16° secolo che univa velocità e manovrabilità ad una grande capacità di carico e ad una ridotta necessita di equipaggio. Fu uno degli strumenti della supremazia navale mantenuta dagli olandesi per circa un secolo). Il Mediterraneo fu il crocevia principale degli scambi tra Occidente e Oriente. Importanza crescente (tra il 16° e il 17° secolo) assunsero gli stretti che mettevano in comunicazione il mare del Nord con il mar Baltico (si importavano cereali, legname, pellicce, anche ferro svedese; si esportavano vino, pannilana e altri prodotti voluttuari). Tra gli articoli acquistati dagli occidentali nel Baltico avevano inizialmente molta importanza le aringhe salate. Verso la metà del 500 gli Olandesi misero a punto una nave chiamata buizen, in cui era possibile salare e mettere nel barile il pesce appena pescato. Gli olandesi si assicurarono così il monopolio della produzione e della distribuzione in tutta Europa del pesce salato. Il commercio con il Baltico e la pesca delle aringhe furono i due fattori fondamentali della prosperità dell’Olanda nel 17° secolo, quando Amsterdam divenne il pernio degli scambi tra le diverse aree d’Europa e la capitale della finanza e del credito. Maggiore importanza acquistarono anche i rapporti commerciali con il Nuovo Mondo. I coloni avevano bisogno di tutto, dai generi alimentari al vestiario, agli oggetti di uso quotidiano. (prima gli spagnoli detenevano il monopolio di questo commercio poi intervennero sempre più mercanti di varia provenienza) Interscambio tra Europa e Asia: dominato nel 16° secolo dai portoghesi, scopritori della rotta marittima che circumnavigava l’Africa. L’impero portoghese si basava sul possesso di scali e feitorias (a metà tra empori commerciali e fortezze militari), e su accordi con i potenti locali (snodo fondamentale per i commerci era il porto di Lisbona). Nel 17° secolo ai portoghesi subentrarono gli olandesi che si impadronirono delle isole di Sonda e delle Molucche (introdussero metodi schiavistici per la produzione di spezie). Protagoniste dei traffici con l’Oceano Indiano furono le compagnie privilegiate costituite a partire dal tardo 500 in Inghilterra, nelle Province Unite e in Francia. Esse comprendono due diversi tipi di organizzazione commerciale:  Corporazione di mercanti, che godono collettivamente del monopolio di un certo genere di traffico, ma operano individualmente o associati in piccole imprese (come i “mercanti avventurieri” inglesi.  Compagnie delle Indie Orientali costituite a Londra nel 1600 e ad Amsterdam nel 1602, erano società per azioni, il cui capitale era diviso in quote possedute da mercanti e finanzieri i quali percepivano ogni anno dei dividendi. Tratti distintivi dell’età moderna furono:  Nascita di una economia mondiale  Spostamento dell’asse dei traffici (dal Mediterraneo all’Atlantico ai mari settentrionali)  Mercantilismo (Smith): la ricchezza è per sua natura una quantità statica, e che per averne di più è necessario sottrarne agli altri competitori. Identificazione della ricchezza stessa con i metalli preziosi. Gli stati che non ne possiedono devono fare il possibile per procurarsene attraverso il commercio con l’estero, favorendo le esportazioni, migliorando le comunicazioni e i trasporti, riservandosi i traffici con le colonie, ecc. Capitolo 3 Ceti e gruppi sociali Ordini, ceti, classi. La stratificazione sociale nell’Europa d’Antico Regime La visione della società dominante in Europa era corporativa e gerarchica. L’individuo contava in quanto membro di una famiglia, di una comunità, di un “corpo”. La società si componeva di societates, collegi professionali, confraternite, vicinie, corpi militari, ordini ecclesiastici. A questi si riferivano le “libertà” (franchigie, immunità, privilegi). La società era divisa in tre grandi ordini: gli oratores (chi prega) cioè il clero, i bellatores (chi combatte) cioè la nobiltà; e i laboratores (chi lavora) cioè tutti gli altri. La persistenza di questo modello è testimoniata sino alla vigilia della Rivoluzione Francese. (la stratificazione sociale era ovviamente ben più complessa di questo semplice schema). Il termine ceto è il più idoneo per distinguere questi gruppi; a determinare il rango sociale concorrevano:  La nascita  Ruolo ricoperto nella vita pubblica  Prestigio e privilegi (che derivano dal ruolo ricoperto) I ceti erano disposti in una scala gerarchica ben ordinata. Loyseau (giurista francese) giustificava queste disuguaglianze con l’idea di una gerarchia naturale tra tutte le creature, una gerarchia voluta dalla Provvidenza divina. Il motivo egualitario affiorò spesso nelle rivolte popolari del basso Medioevo e della prima età moderna. La società dell’Europa preindustriale era tutt’altro che statica, e la sua stratificazione sociale era la risultante dell’interazione di fattori diversi, tra i quali: la nascita più o meno altolocata, la funzione ricoperta e il denaro. Nobili e “civili” Clero e nobiltà (primo e secondo stato) comprendevano al loro interno una vasta gamma di sottogruppi differenziati per ricchezza, prestigio e potere. Fattori all’origine delle élites nobiliari europee:  Tradizione classica: distinzione tra schiavi e liberi, plebei e patrizi.  Tracce lasciate dai legami feudali vassallatici  Etica cavalleresca e importanza della professione delle armi  Sviluppo della civiltà comunale  Confronto-scontro con i nascenti apparati statali Dovunque nobiltà significava ricchezza o agiatezza basata prevalentemente sulla proprietà della terra. Nell’Europa centro – occidentale il grande proprietario terriero vive di rendita, pagata dai coltivatori delle sue terre in denaro o in natura. In Europa Orientale sfrutta il lavoro gratuito dei contadini per produrre derrate che poi vende sul mercato nazionale e internazionale. Le entrate della nobiltà non sono solo provenienti dalla terra, ma anche dall’estrazione di minerali, vetrerie, trasformazione dei prodotti dell’agricoltura o dell’allevamento (produzione di vino, olio; filatura di lana, lino, seta), stipendi derivati da impieghi al servizio del Principe o della Chiesa, interessi attivi su capitali. Strumenti per la tutela del patrimonio: fedecommesso e primogenitura (v. cap. 1) La figura del nobile povero è più frequente la dove la nobiltà è più numerosa: la Polonia o la Spagna (era normale che un nobile povero andasse a servizio nelle case dei magnati; un povero hidalgo è il protagonista del Don Chisciotte di Cervantes). Nel resto dell’Europa la nobiltà restava al di sotto o poco al di sopra dell’1% della popolazione. La nobiltà comprendeva diversi livelli di ricchezza e prestigio: in Spagna sette categorie, dai semplici hidalgos ai caballeros villanos; in Francia vi era la nobiltà di corte, la nobiltà di toga e gli hoberaux, nobili di campagna. Alla collocazione rurale dei ceti nobiliari delle aree dove era più forte l’impronta feudale, si contrapponeva la fisionomia cittadina dei patriziati propri dell’Italia centro – settentrionale, dei Paesi Bassi, delle aree più urbanizzate della Svizzera o della Germania occidentale, che traevano il grosso delle loro rendite dalla terra, ma vivevano dentro le mura cittadine (per la maggior parte dell’anno). Vario era il rapporto tra i ceti nobiliari e il potere politico in una Europa dominata dalle monarchie. Tra queste bisogna distinguere quelle in cui la sovranità era assoluta (come la Francia di Richelieu), e i regimi in cui l’esercizio della sovranità dipendeva dal consenso della nobiltà (come in Polonia), o quelli in cui era necessario un accordo tra re e classe dirigente (come in Inghilterra dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688-1689). Il rafforzamento degli apparati statali tra la fine del 15° secolo e gli inizi del 17° secolo fu all’origine della crisi d’identità dei ceti nobiliari , alle prese con la concorrenza di nuovi gruppi di origine mercantile “borghese” e con controlli e limitazioni sempre più severi. È proprio per questo che motivi fondanti della nobiltà come la virtù e il valore militare, il sangue e la stirpe, subiscano un declino (tra il 1560 e il 1720 la nobiltà “finì per convincersi di costituire un gruppo a parte, storicamente privilegiato e biologicamente superiore” Devyver. Erano convinti di possedere un primato nobiliare). Come si diventava nobili? I patriziati dell’Italia centro-settentrionale avevano un sistema basato sull’antica residenza in città, sulla ricchezza e sull’astensione per più generazioni dal lavoro manuale e dai ricavi economici provenienti da attività mercantili. Altrove si affermò il principio che era nobile solo chi era riconosciuto tale dal monarca. Questo poteva avvenire dopo l’acquisto di feudi, per un matrimonio nobile, per l’assunzione di un tenore di vita adeguato o come un titolo conferito per benemerenze di carattere militare o civile. Questi nuovi nobili erano guardati con disprezzo dai rappresentanti della più antica aristocrazia. Tra Sei e Settecento le aristocrazie europee vivono una loro età dell’oro: ringiovanite dopo l’assorbimento di elementi borghesi, con massicci trasferimenti di beni e di titoli, qualificate culturalmente da studi compiuti nelle universi protestanti, nelle public school o nei collegi gesuiti, dirozzate dai viaggi d’istruzione all’estero (gran tour) e dall’adozione della lingua, delle mode e delle usanze francesi. Solo la diffusione degli ideali razionalistici e ugualitari dell’Illuminismo comincerà a scuoterne il predominio. Il termine “borghesia” non è il più idoneo per designare i ceti intermedi tra nobiltà e plebe nell’Europa preindustriale, perché sembra uniformare condizioni economiche e sociali. Weber e Sombart hanno voluto invece caratterizzare lo spirito borghese e capitalistico sul piano degli atteggiamenti mentali (sete di guadagno, disponibilità al rischio, autodisciplina, ecc.). queste qualità erano però tipiche di alcuni operatori economici, perché anche i più ricchi miravano a vivere di rendita e non più dal profitto, ad acquistare cariche, feudi e titoli che potessero aprire la strada verso la nobilitazione. Un denominatore comune di queste categorie sociali è la dominante connotazione urbana (spesso vengono infatti definiti da termini come “ceto civile” o “cittadinesco”). Questo ceto sociale resta comunque ben distinto dagli strati inferiori della popolazione per due tratti fondamentali: il rifiuto del lavoro e il possesso di risorse che lo garantivano dalla caduta nell’indigenza. Poveri e marginali Distinzione nell’analisi degli strati inferiori della società (J.P. Gutton):  Povertà “strutturale”: poveri dipendenti del tutto da forme di elemosina per la loro sopravvivenza  Povertà “congiunturale”: poveri soggetti a cadere nell’indigenza qualora fossero colpiti da un’infermità, dalla disoccupazione, dalla vecchiaia o da catastrofi naturali come una carestia. Trasformazione dell’immagine del povero tra il Medioevo e l’Età Moderna: prima circondato da un’aura sacrale, come immagine di Cristo e testimone della condizione precaria dell’uomo, poi diventa una minaccia all’ordine costituito e Locke argomentò che i diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà privata sono anteriori al costruirsi della società; la loro tutela deve essere quindi l’obiettivo principale del contratto che i sudditi stipulano con il sovrano. Nel 18° secolo la più originale reinterpretazione del contratto sociale, in senso democratico, fu dovuta a Rousseau per cui la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di un monarca saggio e illuminato si giustificava con l’esigenza di combattere i particolarismi e i privilegi dei territori e dei ceti (solo chi sta sopra di tutti può avere una chiara visione degli interessi generali e agire per il pubblico bene). Il sovrano è il primo servitore dello Stato. Il crollo delle istituzioni d’Antico Regime in Francia fu seguito da una serie di esperimenti politici che si rifacevano ai principi della sovranità popolare e della distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario. È su queste basi che poggeranno nel 19° secolo i fondamenti del moderno Stato di diritto. Funzioni e articolazioni del potere statale Nella società di Antico Regime ai governi erano riconosciuti il diritto – dovere della difesa del territorio e quello del mantenimento dell’ordine e della pace al suo interno. Il luogo dove la potenza del re si rende più manifesta è la corte. Una delle funzioni principali di questo apparato era raccogliere intorno alla persona del re la nobiltà più ricca e prestigiosa, garantendone la fedeltà attraverso una distribuzione di favori accuratamente graduata. La corte è anche il centro di elaborazione di una raffinata cultura artistica e letteraria e delle norme che regolano i rapporti sociali, destinate a diffondersi per un meccanismo di imitazione in tutta la società. (Es.: la fortuna del Cortegiano di Baldassarre Castiglione). Dovunque il re è coadiuvato da un consiglio che può assumere varie forme e denominazioni a seconda degli scopi cui deve corrispondere, oppure può frazionarsi in un molteplicità di consigli a specializzazione sia funzionale, sia territoriale (come nel caso della monarchia spagnola). Grande importanza hanno i segretari del principe, figure dalle quali tra Cinque e Settecento hanno avuto origine i moderni ministri. Uno dei maggiori problemi era il controllo del territorio o dei territori soggetti, la cui aggregazione risaliva spesso a dedizioni e capitolazioni che prevedevano esplicitamente la conservazione di autonomie e privilegi risalenti a un lontano passato e venivano riconfermati ad ogni successione. Di questi privilegi facevano parte le forme di autogoverno regionali o cittadine che costituivano un forte ostacolo alle esigenze di accentramento e di livellamento presenti in quasi tutti gli Stati europei (es.: corti castigliane, corti catalane). La persistenza di queste istituzioni non impediva però la nomina di commissari regi che vigilavano sul pagamento e la trasmissione dei tributi e sul funzionamento della giustizia. La giustizia era uno degli attributi centrali della sovranità che produceva diritto, attraverso la legislazione, e applicava il diritto alla giurisdizione, cioè alla risoluzione delle vertenze civili e alla punizione dei delitti. La legislazione regia lascia scoperte ampie aree dei rapporti giuridici, in particolare in campo familiare e in quello che oggi chiamiamo diritto privato. In questi settori suppliscono le consuetudini e gli statuti locali. Sullo sfondo conservano tutto il loro prestigio il diritto romano e quello canonico che forniscono anche la ratio iuris, la chiave per l’0interpretazione delle norme vigenti, dando ampio spazio alla discrezionalità del giudice nell’applicare la legge. Non mancarono nel 17° e 18° secolo i tentativi di consolidamento, cioè di raccolta sistematica delle leggi per argomento. Ma solo l’Illuminismo giuridico maturo indicò come esigenza primaria la codificazione, cioè la redazione di un corpo di leggi (civili e penali) organico e del tutto autonomo. Solo alla fine del 18° secolo comparvero i primi codici (Austria e Prussia) così concepiti, in attesa della codificazione napoleonica che costituirà il modello per tutta l’Europa continentale nell’Ottocento. La situazione di partenza vede una molteplicità di giurisdizioni: ecclesiastica, signorile, magistrature cittadine, mercantili, corporative, universitarie, ecc. il primato della giustizia sovrana si afferma sia con l’istituzione e il rafforzamento di forme di controllo su queste diverse istanze, sia con il ricorso all’appello o all’avocazione delle cause e con l’estensione e la specializzazione della rete dei giudici regi. I grandi tribunali controllano l’applicazione della legge, contribuiscono a crearla o interpretarla con le loro sentenze, ed esercitano anche una funzione politica come guardiani della “costituzione”. Il ceto dei giuristi si impone come strumento essenziale e interlocutore privilegiato del potere sovrano. La semplificazione della selva di giurisdizioni particolari e la definizione di un modello di funzionamento della giustizia a tre istanze (prima istanza, appello, revisione in caso di sentenze difformi o di errori procedurali) sarà frutto delle riforme illuminate e poi dell’età rivoluzionaria e napoleonica. Tra gli affari di governo molto imporranti sono la politica estera e la guerra. L’avvento degli eserciti permanenti (gli eserciti tendono sempre di più alla professionalizzazione) e l’aumento esponenziale degli effettivi determina nella prima età moderna un volume di spese fuori di ogni proporzione e quindi origine di una fiscalità permanente. La crescita dell’apparato fiscale – militare comportò a sua volta il reclutamento di una burocrazia regia ben distinta dal personale di corte. Parallela alla rete degli uffici giudiziari si estende quella degli uffici amministrativi e finanziari. Figura emblematica è il commissario, un funzionario nominato dal re e non legato da un rapporto patrimoniale con la carica che ricopre. Cosa distingue lo stato liberale dell’Ottocento da quello dell’Antico Regime? Lo Stato liberale ottocentesco si distingue per la garanzia delle libertà individuali e per la possibilità di partecipazione dei cittadini alla determinazione degli indirizzi di governo. Capitolo 5 Religione, mentalità, cultura Religione e magia Nell’Europa preindustriale grande importanza aveva il sacro: la parrocchia era l’unità di base della vita associata in tutta l’Europa Cristiana. È all’interno di questa che si celebrano tutti i riti di passaggio che scandivano la vita degli individui come battesimi, matrimoni e funerali. Sia il tempo (calendario dominato dalle festività religiose) che lo spazio (chiese, conventi, cappelle, oratori) erano impregnati di valori cristiani. Tutta l’Europa era costellata di santuari (Santiago de Compostela, Loreto), erano mete di pellegrinaggi, così come lo era Roma. Il fondamento della fede era incentrato sulla sofferenza terrena sopportata da Cristo per la redenzione degli uomini e dalla preoccupazione per il destino ultraterreno, da questo la rapida diffusione della credenza del purgatorio e la fortuna delle indulgenze bandite dalla Chiesa. L’ossessione della morte era acuita dall’impotenza dell’uomo di fronte alle malattie, alle carestie, alla capacità di far fronte alla maggioranza degli eventi. La Madonna e i Santi erano potenti intercessori in grado di far ottenere miracoli e guarigioni. Cosi il confine tra religione e magia era assai labile. Poteri magici erano spesso attribuiti al prete o al frate come partecipe della sfera del sacro. Era diffusissima la credenza che anche altri individui (soprattutto donne) detenessero facoltà soprannaturali come quella di poter predire il futuro. Le attività di questi individui sono state messe in correlazione con il Maligno: si credeva che streghe e stregoni dovessero i loro poteri ad un patto stipulato con il diavolo. Grande diffusione ebbe per tutto il 500 un trattato di stregoneria Malleus Maleficarum. La caccia alle streghe raggiunse il suo picco tra il 1560 e il 1660. Imperversò specialmente in quelle zone in cui erano più intensi i contrasti religiosi (Francia, Svizzera, Germania, Polonia, Scozia). I processi si concludevano spesso con condanne al rogo. Sottoposti a giudizio tra i 100.00 e i 200.000 individui di cui 75-80% erano donne. L’associazione tra stregoneria e donne deriva dal generale pregiudizio a suo sfavore ma anche con il fatto che a livello popolare erano le donne a curare i malati con pozioni e altri rimedi, ad assistere le partorienti e ad occuparsi della cucina. Vennero istituiti i tribunali dell’Inquisizione (Italia e Spagna). A partire dalla seconda metà del 17° secolo, i ceti colti di tutta Europa smisero di credere alla stregoneria e alla magia, rimase però più a lungo radicata nell’universo mentale degli strati popolari di grande parte dell’Europa. La contiguità tra religione e magia divenne, nel 16°secolo, uno dei motivi centrali della polemica protestante contro la Chiesa di Roma. Cultura orale e cultura scritta Effetti dell’opera di disciplinamento sociale svolta dalla Chiesa riformata e dalla Chiesa cattolica (del dopo Concilio di Trento):  Cristianizzazione delle masse popolari  Rarefazione dei comportamenti violenti e amorali  Crescita dell’alfabetizzazione Solo a partire dall’età dei Lumi, con le prime istruzioni elementari, lo Stato subentrò alla Chiesa, come principale fattore di alfabetizzazione. Era molto diffusa la capacità di leggere, molto meno la capacità di scrivere, per questo è difficile misurare i tassi di alfabetizzazione, che era patrimonio di una minoranza delle popolazioni europee, con divari tra città e campagna, maschi e femmine. In Italia l’alfabetizzazione all’atto dell’unificazione (1861) era molto bassa: almeno il 70% delle persone non sapeva né leggere né scrivere. La cultura popolare rimase, per tutto l’Antico Regime, una cultura prevalentemente orale. È stato particolarmente difficile studiare questa età perché gli analfabeti non lasciano testimonianze scritte (Levi Strauss: “ popoli senza storia”), tutto ciò che sappiamo proviene da osservatori appartenenti a strati sociali elevati. È però possibile sentire le voci dei poveri attraverso i verbali dei processi. Molto possono dirci sul modo di vivere delle classi popolari i manufatti risalenti ad epoche remote (utensili, mobili, arredi, ecc.). Altro materiale da prendere in esame è tutto ciò che ha a che fare con i riti folcloristici e le tradizioni (raccolte di proverbi, fiabe, ballate, ecc.) approccio che tende inevitabilmente a privilegiare le manifestazioni collettive. Per quanto riguarda la cultura scritta, la novità più importante dell’età moderna fu l’invenzione della stampa. Gutenberg verso la metà del 15° secolo ebbe l’idea di utilizzare per la stampa lettere a caratteri singoli. Primo libro stampato fu la Bibbia. Nel 1500 erano già stati messi in circolazione tra i dieci e i venti milioni di esemplari di libri a stampa. I primi volumi, chiamati incunaboli, si modellavano sui manoscritti, ma ben presto comparvero le classiche caratteristiche tipiche del libro. I caratteri usati furono: gotico, romano e corsivo. La stampa fu ben presto sfruttata dalle autorità civili e religiose per diffondere leggi, proclami, informazioni di vario genere, e fu posta al servizio dell’insegnamento medio e universitario. La divulgazione di idee eversive portò alla censura: la Chiesa introdusse la censura preventiva, a partire dal 1559 pubblicò periodicamente indici di opere proibite. Accanto a questa vi era la censura statale. La crescita quantitativa dell’arte tipografica corrispose alla diversificazione del prodotto, nacquero nuovi generi letterari, primo fra tutti il romanzo. Tra la seconda metà del Seicento e il Settecento eccezionale sviluppo ebbe la stampa periodica: gazzette, giornali letterari, riviste con periodicità mensile o trimestrali, saggi, memorie, componimenti letterari. Produzione e trasmissione del sapere Le università continuarono ad espandersi nella prima età moderna. La crescita degli studenti si arresta dopo i primi decenni del 17° secolo, in coincidenza con la crisi economica e demografica che colpì grande parte dell’Europa. Le università, controllate dal potere politico e religioso, si ridussero a delle cittadelle con funzione di sapere tradizionale, finalizzato alla formazione di teologi, uomini di legge e medici. Nei paesi cattolici, le famiglie aristocratiche e benestanti preferivano affidare la formazione dei figli a collegi di ordini religiosi (gesuiti, barnabiti, ecc.). E’ proprio dalla pedagogia dei gesuiti che venne preso a modello la Ratio studiorum elaborata alla fine del Cinquecento. Essa prevedeva: un quadriennio in grammatica inferiore e superiore, umanità, retorica dedicato all’apprendimento del latino e un successivo triennio “filosofico” comprendente corsi di logica, fisica e metafisica. L’insegnamento elementare era impartito ai giovani delle famiglie facoltose nell’ambito domestico, da precettori. La scolarizzazione delle classi inferiori dovette attendere le prime iniziative dei despoti illuminati della seconda metà del Settecento. La domanda di istruzione era decisamente più sviluppata nelle città e molto più sentita per i maschi che per le femmine. L’alta cultura e la ricerca scientifica avevano le loro roccaforti nelle accademie. Terra di elezione delle accademie era l’Italia, dove fra il 16° e il 18° secolo vi erano circa 2.000 istituzioni del genere. Nella monarchia austriaca e in Italia si diffusero le accademie agrarie, in Spagna le “Società degli amici del paese”. Una importante funzione fu assolta dalle grandi istituzioni fondate o protette dalle monarchie: dalla Royal Society (Londra 1660) alle accademie istituite da Richelieu e Luigi XIV. Questi corpi contribuirono a rafforzare una repubblica europea delle lettere e a far circolare idee ed esperienze attraverso la stampa periodica, i gabinetti di lettura e i carteggi tra dotti e scienziati. Capitolo 6 La fine dell’Antico Regime La rivoluzione culturale: Illuminismo, Romanticismo, idealismo 1850 vide anche l’espansione a livello mondiale della forma dello stato – nazione di matrice occidentale: fu una vera e propria globalizzazione del nazionalismo. Capitolo 7 Monarchie e imperi tra XV e XVI secolo I regni di Francia, Spagna, Inghilterra e l’Impero germanico Le maggiori potenze all’inizio dell’età moderna erano:  Francia: sotto Carlo VIII (1483 – 1498), Luigi XII (1498 – 1515) e Francesco I (1515 – 1547) continuò nella monarchia francese la tendenza all’accentramento del potere nelle mani del re. Si rafforzò l’amministrazione finanziaria (con il paese suddiviso in circoscrizioni finanziarie dette generalites); crebbe l’autorità del Consiglio del Re; si affermarono in ambito giudiziario l’azione del Gran Consiglio e dei Parlamenti, tribunali d’appello formati da giuristi di origine borghese. Funzionari e magistrati regi vennero reclutati tramite il meccanismo della vendita delle cariche pubbliche (1522. Da un lato lo Stato acquisiva introiti supplementari, dall’altro si costituiva un ceto di officiers numeroso e potente). Le cariche più elevate conferivano la nobiltà ai loro titolari, per questo i vertici di questo ceto formarono una nobiltà detta “di toga”, rivale della più antica nobiltà “di spada”. Nei confronti del Papato furono fatti valere i privilegi della Chiesa gallicana già sanciti dalla Prammatica sanzione del 1438 (ordinanza regia francese promulgata da Carlo VII, d’intesa con il clero, nella quale il Re di Francia si dichiarava guardiano dei diritti della Chiesa di Francia). Nel 1516 Francesco I stipulò con Papa Leone X un concordato a Bologna: veniva lasciata cadere l’affermazione della superiorità del Conciclio sul Pontefice, in cambio il Re di Francia si vedeva riconoscere il diritto di nomina di tutti i vescovati e gli arcivescovati, alle abbazie e ai priorati nel proprio territorio. Persistevano però i poteri locali: i grandi feudatari mantenevano un considerevole potere. Le province di recente annessione (Linguadoca, Provenza, Borgogna e Bretagna. I Pays d’etats) avevano le loro assemblee di “Stati” (clero, nobiltà, Terzo stato) che contrattavano con la corona l’ammontare delle imposte e ne curavano la ripartizione; anche le città conservavano le proprie forme di autogoverno. La legislazione regia valeva solo per alcune materie, per il resto vigeva un diritto consuetudinario diverso da luogo a luogo o ci si appellava al diritto romano.  Spagna: il matrimonio di Isabella di Castiglia con Ferdinando d’Aragona (1469) preparò il regno congiunto dei due sovrani che ebbe inizio nel 1479 dopo un periodo di difficoltà e di guerre civili. L’anarchia feudale e il banditismo vennero efficacemente repressi con la riorganizzazione della Santa Hermandad (“Santa Frantellanza”), una confederazione di città che svolgeva compiti di polizia. L’amministrazione delle città era tutelata da funzionari regi detti corregidores. Le Cortes (forme di autogoverno regionale) furono convocate di rado. La sottomissione della nobiltà fu agevolata dalla politica di concessioni e di favori fatta da Ferdinando. Sul piano economico la corporazione degli allevatori di pecore (la Mesta), controllata dalla grande aristocrazia, godette della protezione regia. Le tre province componenti il Regno d’Aragona (Aragona, Catalogna e Valenza) mantennero inalterati i propri privilegi e le proprie autonomie (custodite da Cortes molto più efficienti di quelle castigliane). Siccome Ferdinando risiedeva in Castiglia, in Aragona venne nominato un viceré e nel 1494 venne istituito anche un Consiglio d’Aragona. I principali elementi in comune tra i due regni erano: la tradizione della Reconquista, la guerra contro i mori, l’intransigente difesa dell’ortodossia religiosa. L’Inquisizione spagnola (creata nel 1478 e sottoposta all’autorità regia) era l’unico organo la cui giurisdizione si estendesse uniformemente dalla Castiglia all’Aragona. La conquista del Regno di Granada (ultimo avanzo del dominio musulmano) e l’espulsione degli ebrei furono la conferma della tradizione spagnola di militante sostegno alla fede cattolica. La morte di Isabella (1504) aprì in Castiglia una crisi dinastica: il trono sarebbe dovuto andare alla figlia dei “re cattolici”, Giovanna, che aveva sposato Filippo d’Asburgo. Ma la precoce scomparsa di quest’ultimo (1506) e la conseguente pazzia di Giovanna permisero a Ferdinando di riprendere in mano le redini del potere, che tenne fino alla sua morte (1516). Tra i successi di questo principe anche l’annessione della Navarra.  Inghilterra: Enrico VII Tudor, uscito vincitore dalla guerra delle due Rose tra le case di Lancaster e di York (1455 – 1485), consolidò il proprio potere e rafforzò gli organi centrali del governo regio: il Consiglio della corona, i Consigli del Nord e del Galles, il Tribunale della Camera stellata. In sede locale furono rafforzate le funzioni amministrative e giudiziarie dei giudici di pace. Questo indirizzo assolutistico venne proseguito dal figlio Enrico VIII (1509 – 1547). Pose in primo piano la politica estera, lasciando l’amministrazione interna nelle mani del suo cancelliere Thomas Wolsey. Il distacco da Roma della Chiesa d’Inghilterra e l’Atto di supremazia del 1534 coincideranno con un rafforzamento ulteriore delle strutture di governo e con una riaffermazione del ruolo del Parlamento quale interprete della volontà del Regno.  Germania: alla morte di Federico III d’Asburgo (1493), l’Impero Germanico era un coacervo ingovernabile di stati territoriali, principati ecclesiastici, libere città, feudi e di popoli e lingue diverse. Molto forti erano i contrasti tra le aree più urbanizzate e più sviluppate economicamente e culturalmente e le zone interne, massicciamente rurali e legate ad un modo di vita ancora medievale. A questo si aggiungeva la duplice qualità del sovrano che reggeva a titolo ereditario gli Stati della casa d’Asburgo, mentre doveva la dignità imperiale alla Dieta ristretta, composta dai sette grandi elettori. Il regno di Massimiliano I (1493 – 1519), che aveva sposato Maria di Borgogna, si aprì con un successo diplomatico: la pace di Senlis con la Francia (1493) riconosceva agli Asburgo il possesso dei Paesi Bassi, dell’Artois e della Francia Contea. Il tentativo compiuto dalla Dieta di Worms (1495) di dare maggiore compattezza all’impero germanico, si rivelò infruttuoso. Un discreto accentramento del potere fu conseguito solo negli Stati ereditari asburgici. La volontà di Massimiliano di opporsi alle mire italiane dei re di Francia fallì, e il suo tentativo di ridurre all’obbedienza i cantoni svizzeri naufragò nel 1499 con la disfatta di Dornach (vicino Basilea), che segnò l’inizio della definitiva indipendenza della Svizzera dall’Impero germanico. Guerre ed eserciti tra Medioevo ed età moderna: una rivoluzione militare A cavallo tra Quattrocento e Cinquecento assistiamo a grandi mutamenti nel campo dell’arte della guerra e della tecnologia militare europea, tanto che alcuni storici hanno coniato l’espressione “rivoluzione militare” (Geoffrey Parker). Il miglioramento delle tecniche militari e un generale aumento degli effettivi degli eserciti avrebbe provocato un circolo vizioso capace di favorire una rivoluzione finanziaria e l’affermazione delle grandi monarchie europee, le sole in grado di sostenere i costi di guerre prolungate e di eserciti permanenti. Protagoniste dei campo di battaglia europei saranno le fanterie. Il declino della cavalleria pesante era già iniziato durante la guerra dei Cent’anni (1337 – 1453) con le vittorie degli svizzeri. Questi ultimi (fanti) costituivano una parte rilevante dell’esercito di Carlo VIII e furono in grado nel 1512 di conquistare da soli il Ducato di Milano: la loro reputazione era di invincibilità. Il segreto della forza di questi combattenti stava nel tipo di formazione: un quadrato di 6.000 uomini, protetto sul fronte e ai fianchi da quattro file di soldati armati di picche lunghe impugnate orizzontalmente sopra la testa. Contro questa specie di istrice d’acciaio erano inefficaci le cariche della cavalleria. Le falangi svizzere erano tuttavia inservibili per l’attacco alle nuove fortezze costruite secondo la trace italienne ed erano vulnerabili al fuoco dei cannoni e degli archibugi. Il generale spagnolo Gonzalo Fernandez de Cordoba, detto il Gran Capitano, mise a punto uno schieramento più flessibile: i fanti spagnoli erano raggruppati in unità di 3.000 uomini, dette tercios, composte in parte di picchieri, in parte di archibugieri, il cui fuoco nutrito preparava l’attacco all’arma bianca. La cavalleria conservò la sua importanza come arma ausiliaria. Questa evoluzione dell’arte militare è causa ed effetto dei più profondi mutamenti nella società e nello Stato. Il guerriero medievale era espressione di un ordine sociale che riservava la professione della guerra ad una classe di milites in grado di trarre dai propri possedimenti feudali le risorse e gli uomini necessari, era inoltre legato ad un ethos aristocratico e cavalleresco. Il successo della fanteria e dell’artiglieria manifestava la nuova potenza finanziaria e accentrata dello Stato rinascimentale e relegava ad un ruolo accessorio l’apporto della nobiltà. Nelle truppe mercenarie albergavano lo spirito di corpo e l’orgoglio professionale che erano componenti imprescindibili del loro valore. Nei tercios spagnoli erano assai numerosi gli hidalgos, nobili poveri che si arruolavano perché quella delle armi era ritenuta l’unica professione onorevole oltre che per un senso di fedeltà alla monarchia e all’ortodossia religiosa in essa incarnata. Anche i soldati di estrazione sociale popolare tendevano a far propri questi sentimenti. In tale disposizione d’animo va cercata la chiave di una supremazia militare dimostrata per oltre un secolo sui campi d’Europa. La prima fase delle guerre d’Italia (1494 – 1516) L’equilibrio sancito dalla pace di Lodi (1454) durò fino all’ultimo decennio del secolo. Nel 1492 scomparvero Papa Innocenzo VIII e Lorenzo de’ Medici (l’ago della bilancia dell’equilibrio italiano). La stabilità della penisola era inoltre minacciata dalle mire espansionistiche della Repubblica di Venezia e dalle ambizioni del signore di Milano Ludovico Sforza (detto il Moro). L’errore fu quello di aver sottovalutato le nuove dimensioni politico – militari delle monarchie di Francia e Spagna. Il Re di Francia Carlo VIII intendeva fa valere sul Regno di Napoli i diritti che gli derivavano dalla discendenza angioina. Nell’agosto del 1494 Carlo passò le Alpi. Nel febbraio 1495 Carlo entrò a Napoli (accolto come liberatore dai nobili). Solo allora gli Stati italiani si resero conto del comune pericolo: a fine marzo venne stipulata una Lega in funzione antifrancese (comprendeva Repubblica di Venezia, Milano, Firenze, lo Stato pontificio, la Spagna e l’Impero germanico). Nel maggio del 1495 Carlo VIII prese la via del ritorno; l’esercito della Lega cercò invano di chiudergli il passo (Fornovo – passo della Cisa). Ferdinando II d’Aragona (1495 – 1496) riusciva a recuperare il Regno con l’appoggio degli spagnoli e dei veneziani. L’impresa di Carlo VIII si concludeva quindi con un nulla di fatto. I contraccolpi di questa impresa si sentirono soprattutto in Toscana dove Piero de’ Medici (successo di Lorenzo il Magnifico) era stato cacciato dai fiorentini sdegnati per la sua condiscendenza alle richieste di Carlo VIII. Pisa si rifiutò di tornare sotto il dominio fiorentino da cui si difenderà fino al 1509. A Firenze Girolamo Savonarola, frate domenicano, si scagliava contro la corruzione della Chiesa e invocava una riforma costituzionale e morale. Nel 1497 venne scomunicato, processato e giustiziato. Venezia, che si voleva espandere nella penisola italiana, concluse con Luigi XII re di Francia (appena succeduto a Carlo VIII) un trattato di alleanza che le garantiva Cremona e la Ghiara d’Adda in cambio del suo appoggio alla conquista francese del Ducato di Milano. La spedizione fu allestita nel 1499 e si concluse rapidamente con l’occupazione di Milano. Ludovico il Moro fu portato prigioniero in Francia. Un altro conflitto segnò il Regno di Napoli che nel 1503 vide la Spagna rimanere unica padrona del Mezzogiorno d’Italia (già era a capo di Sicilia e Sardegna). Negli stessi anni Cesare Borgia (il Valentino), figlio naturale del pontefice Alessandro VI, giunse a ritagliarsi un dominio personale nella Romagna e nelle Marche. La morte di Alessandro VI fece però abortire l’impresa (1503). Il nuovo papa Giulio II (1503 – 1512) era animato dal proposito di restaurare il dominio temporale della Chiesa. Intimò a Venezia di ritirarsi da Rimini e Faenza dove si era insediata alla caduta di Cesare Borgia. Al rifiuto della Serenissima il pontefice si fece promotore di un’alleanza anti veneziana detta Lega di Cambrai (fine 1508). Il 14 maggio 1509 l’esercito veneziano fu duramente sconfitto da quello francese ad Agnadello, presso Crema. Le città di Terraferma veneta (le cui aristocrazie erano piene di risentimento nei confronti del patriziato veneto) aprirono le porte agli imperiali che calavano dalle Alpi. Ben presto sorse il disaccordo con gli altri alleati. Il papa si ritirò dalla Lega e ne promosse una detta Lega Santa, contro la Francia, di cui temeva la strapotenza, riuscendo ad attrarre in essa la Spagna, l’Inghilterra e gli Svizzeri (1511). Tra le conseguenze di questo rovesciamento di alleanze furono, nel 1512, il ritorno a Firenze dei Medici (aiutati dagli spagnoli) e l’occupazione dello Stato di Milano da parte delle truppe svizzere. La Francia si riappacificò con Venezia che promise il proprio aiuto contro gli svizzeri. L’altro fattore a favore di Venezia fu il sostegno dei popolani e dei contadini veneti esasperati dai soprusi degli invasori. La Repubblica di San Marco era riuscita a conservare l’essenziale dei suoi domini in terraferma, ma la sconfitta di Agnadello segnò una svolta nella sua politica italiana che sarà rivolta a conservare l’esistente. Nel 1515 il nuovo re di Francia, Francesco I, si pose a preparare una spedizione in Italia. Nell’agosto 1515 passò le Alpi e a Melegnano si scontrò con i fanti svizzeri. La vittoria di Francesco I gli permise di entrare a Milano. La pace di Noyon (1516) tra Francia e Spagna consolidava l’equilibrio raggiunto nella penisola italiana: agli spagnoli rimaneva il Regno di Napoli, a Francesco il Ducato di Milano. Carlo V: il sogno di una monarchia universale Alla morte di Ferdinando il cattolico (1516), il nipote Carlo d’Asburgo (figlio di Giovanna la Pazza e Filippo d’Asburgo) ereditò la corona di Spagna (la madre non era in grado di regnare). Fu eletto all’unanimità dalla Dieta riunita a Francoforte, il 27 giugno 1519. Era cresciuto a Bruxelles alla corte della zia, la reggente Margherita, aveva grande senso dinastico e cultura aristocratica e cavalleresca. Dal suo precettore, l’arcivescovo di Utrecht, aveva preso una religiosità sincera e profonda. A tutto questo si aggiungeva l’idea imperiale: il dovere di guidare la cristianità, di mantenerla unita nella giustizia e nella fede. Questo cammino si presentò però sin dall’inizio ricco di ostacoli. Durante il suo soggiorno triennale in Spagna (1517 – 1520), Carlo aveva scontentato la nobiltà locale distribuendo molte cariche ecclesiastiche e laiche ai gentiluomini fiamminghi e borgognoni del suo seguito e aveva irritato le città della Castiglia con la richiesta di nuove tasse per pagare le spese dell’incoronazione imperiale. Quando partì per la Germania, nell’estate del 1520, scoppiò la rivolta dei L’espansione marittima portoghese iniziò con la presa di Ceuta (sud dello stretto di Gibilterra), nel 1415, e proseguì nel 15° secolo con l’occupazione dell’isola di Madera e delle Azzorre (1420 – 1430), la scoperta delle isole di Capo Verde (1456) e del Golfo di Guinea (1472). Fin dagli anni Quaranta le caravelle cominciarono a tornare indietro cariche di schiavi neri e di oro. Il re del Portogallo Giovanni II (1481 – 1495) pose come obiettivo quello di circumnavigare l’Africa in direzione dell’oriente e di ottenere informazioni più precise circa i porti e la navigazione nell’Oceano Indiano. Il primo traguardo fu raggiunto da Bartolomeo Diaz, che alla fine del 1487 doppiò l’estremità meridionale dell’Africa (Capo di Buona Speranza). Cristoforo Colombo (1451 – 1506) si era rivolto a Giovanni II per il suo progetto di raggiungere l’Oriente circumnavigando la Terra verso occidente. Ma la corte portoghese si dimostrò scettica. Colombo si rivolse allora alla monarchia spagnola (che in quegli anni si accingeva a concludere la Reconquista). Il 3 agosto del 1492 tre velieri presero il largo dal piccolo porto atlantico di Palos. Il 12 ottobre Colombo avvistava l’attuale isola di Watling (nelle Bahamas) ribattezzata San Salvador. L’ammiraglio era però convinto di essere giunto nelle propaggini dell’Asia: Haiti e Cuba furono scambiate per il Giappone. Il 14 marzo del 1493 Colombo ritornò a Palos portando alcuni “indiani”, pappagalli e un po’ di oro. Questo fu abbastanza per convincere la regina Isabella del valore della scoperta e indurla a finanziare una seconda e molto più consistente spedizione. Il secondo viaggio portò però solo un carico di schiavi e accuse di malgoverno. Le due successive spedizioni (1498 – 1500 e 1502-1504) portarono alla scoperta delle foci dell’Orinoco e alla perlustrazione delle coste dell’America centrale. Nuove iniziative erano state stimolate dai successi di Colombo: Giovanni Caboto a Terranova (1497) per conto della corona inglese; Amerigo Vespucci ricognizione di quasi tutta la costa atlantica dell’America meridionale al servizio prima della Spagna (1499) e poi del Portogallo (1501). Importante conseguenza del primo viaggio di Colombo fu la disputa, tra Spagna e Portogallo, circa l’appartenenza dei territori scoperti. Giovanni II stipulò con la corte spagnola il trattato di Tordesillas (1494): la linea divisoria dell’area portoghese e quella spagnola era fissata a 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde. Il portogallo con Vasco da Gama (1497) compie una spedizione nelle Indie orientali. Solo due navi fecero ritorno (1499) cariche di spezie e pietre preziose. Una nuova e più agguerrita flotta venne allestita e affidata a Cabral, che prese possesso del Brasile in nome del Re del Portogallo (1500). Nei primi anni del nuovo secolo l’obiettivo perseguito dai navigatori fu quello di trovare un passaggio che permettesse di andare oltre l’America e di trovare finalmente la rotta marittima per l’Asia. Il primo fu lo spagnolo Nunez de Balboa che attraversò nel 1513 l’istmo di Darien (oggi Panama). Ben più ardua fu l’impresa di Magellano, portoghese al servizio del Re di Spagna, che partito da Siviglia con cinque navi nel 1519, trovò in fondo alla Patagonia, nel 1520, lo stretto destinato a prendere il suo nome. Magellano affrontò la traversata del Pacifico e sbarcò nelle Filippine, prendendone possesso. Morto Magellano in uno scontro con gli indigeni, il comando viene preso da Elcano che circumnaviga l’Africa nel 1522. Si ampliavano così in misura incalcolabile le conoscenze geografiche (traendone i maggiori vantaggi possibili, soprattutto sul piano economico). Spezie e cannoni: l’impero marittimo dei portoghesi Tutti gli sforzi del Portogallo furono concentrati nello sfruttamento a fini commerciali della via marittima verso le Indie orientali. La carreira da India, tragitto di andata e ritorno dall’Oceano Indiano, richiedeva circa un anno e mezzo di tempo, assunse una cadenza annuale. In Africa Orientale e nell’Asia meridionale fu replicato il modello sperimentato nel golfo di Guinea: la costruzione di fortezze e di feitorias (empori commerciali) in luoghi strategici, accordi con sovrani locali per la fornitura di spezie o altri prodotti a condizioni di monopolio o di favore, la lotta contro i concorrenti. Il tentativo di bloccare l’espansione portoghese fu compiuto dal sovrano mamelucco dell’Egitto, che però venne stroncato con la grande vittoria della flotta portoghese a Diu nel 1509. Nei decenni successivi, ai territori controllati dal Portogallo attraverso i propri vicerè si aggiunsero le nuove conquiste nell’isola di Ceylon e nelle Molucche; la Cina concesse l’apertura di un emporio a Macao. Anche il Giappone fu regolarmente visitato. (si importavano principalmente spezie) Il commercio era strettamente controllato dalla corona attraverso la Casa da India di Lisbona, che prelevava il 30% delle importazioni, un’altra parte dei guadagni finiva ai finanziatori delle spedizioni (italiani, tedeschi, fiamminghi). I portoghesi non riuscirono mai a impadronirsi di Aden e chiudere il Mar Rosso. Grazie alla conquista ottomana della Siria e dell’Egitto (1516 – 1517), le spezie e gli altri prodotti orientali ricominciarono ad affluire nel Mediterraneo e si arrivò alla spartizione del mercato europeo tra Venezia e i portoghesi. Le imprese dei conquistadores spagnoli Nel 1517 ebbe inizio l’esplorazione della terraferma. Protagonisti ne furono i conquistadores, soldati spagnoli ispirati dalla lettura dei romanzi cavallereschi miravano all’oro e alla gloria. Nel 1519 Cortés partì dall’isola di Cuba e dalle coste messicane dello Yucatan procedette verso il centro dell’ Impero azteco, giunto alla capitale fu ben accolto dal sovrano Montezuma II. Cortés lo fece prigioniero e lo obbligò a pagare un enorme riscatto. Poco dopo gli spagnoli furono costretti a ritirarsi a seguito di una rivolta. Cortés ritornò nella capitale azteca nel 1521, la occupò e la distrusse. Sulle rovine venne eretta una uova città sul modello spagnolo, l’attuale Città del Messico. Nel 1522 Cortés veniva nominato governatore e capitano supremo della Nuova Spagna. Francisco Pizarro e Diego Almagro nel 1531 mossero verso sud da Panama, attratti dalla notizia dell’esistenza di un regno di favolosa ricchezza: il Perù. L’incontro tra l’esercito inca guidato da Atahualpa e il piccolo corpo di spedizione spagnolo avvenne nel 1532 a Cajamarca dove gli spagnoli ebbero la meglio e la capitale Cuzco fu sottoposta ad un terribile saccheggio. L’impero inca era finito e nasceva al suo posto il vicereame spagnolo del Perù (1544), la cui capitale fu Lima. Fattori che spiegano la caduta di questi grandi imperi (azteco e inca) di fronte all’attacco di un pugno di uomini:  Terrore che incutevano le armi da fuoco, le cavalcature degli spagnoli e la loro furia omicida  Contrasti etnici e dinastici che indebolivano i due imperi  gli aiuti recati ai loro aggressori da popolazioni indie insofferenti del giogo  Sensazione di essere stati abbandonati dagli dei  Spietato sfruttamento a cui gli indios furono sottoposti  Malattie prima sconosciute (vaiolo, morbillo, tifo, ecc.) diffuse dai nuovi arrivati  Degradazione dell’ambiente per la mancata manutenzione delle opere irrigatorie e della preferenza data dagli spagnoli all’allevamento rispetto all’agricoltura. La colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo Nel corso del Cinquecento la colonizzazione spagnola si estese sia verso nord (California e Florida), sia nel continente sudamericano. L’immigrazione dall’Europa si aggirava intorno alle 220.000 persone nei primi tre quarti del 16° secolo, in grande maggioranza maschi, a cui vanno aggiunti circa 30.000 schiavi africani. Grande sviluppo ebbe sin dall’inizio il fenomeno del meticciato (nati da accoppiamenti tra bianchi e donne indie; mulatti, nati da incrocio tra bianchi e neri; zambos nati dall’unione di neri e indiani). Tra gli strumenti della colonizzazione, grande importanza ebbero la fonazione di città e l’encomienda (commenda). La giurisdizione cittadina si estendeva al territorio circostante che era spesso ripartito in proprietà ai cittadini. L’encomienda consisteva nell’assegnazione ad un conquistador di una circoscrizione territoriale al cui interno avevano il diritto di esigere determinati tributi a proteggere questi loro vassalli e a convertirli alla fede cristiana. L’encomienda divenne lo strumento per lo sfruttamento del lavoro indigeno. Sotto il profilo amministrativo i due vicereami (Nuova Spagna e Perù) erano divisi in province, mentre le circoscrizioni giudiziarie erano chiamate audiencias. Vicerè, funzionari, giudici, vescovi e prelati, tra il 1511 e il 1564, venivano nominati dal Re su proposta del Consiglio delle Indie. La Corona di Spagna riuscì a svolgere azione di controllo della società coloniale e di moderazione dei soprusi che la caratterizzavano. Contribuì anche l’azione degli ordini regolari (francescani, domenicani e in seguito anche gesuiti) che si preoccuparono dell’evangelizzazione degli indios, di combattere e denunciare le forme peggiori di maltrattamento e sfruttamento. Aspetti economici della colonizzazione:  Nelle isole caraibiche: dopo la fase della ricerca dell’oro (picco 1511 – 1515), si iniziò la coltivazione della canna da zucchero.  Nel continente americano: accanto al mais si incominciò a coltivare il frumento e attecchirono anche l’olivo e la vite (in Perù). Esportazione della cocciniglia. Si moltiplicarono le greggi di pecore e le mandrie di buoi e di cavalli, dando origine ad una locale industria laniera e alla costituzione di grandi ranchos, tenute dedite all’allevamento. Messico: scoperte (1546) miniere d’argento di Zacatecas. Le ricchezze minerarie cambiarono faccia all’economia dei due vicereami. La produzione di argento conobbe un rapidissimo incremento. La manodopera per l’estrazione del minerale e lo scavo delle gallerie e dei pozzi fu fornita dagli indios in molti casi sottoposti al lavoro forzato col ricorso all’antica istituzione della mita (forma di contributo al governo inca. Era un a forma di corvée, lavoro gratuito). Attorno ai giacimenti sorsero grandi agglomerati la cui domanda di alimentari e di altri generi fu importante stimolo per l’economia agricola e manifatturiera delle colonie: nel 1570 Potosì (montagna d’argento) contava 120.000 abitanti. Le ripercussioni in Europa L’afflusso di metalli preziosi fu la causa fondamentale della “rivoluzione dei prezzi”. (tendenza inflazionistica che portò nel corso del 16° secolo ad una moltiplicazione per tre o per quattro dei prezzi dei cereali e di altre derrate). Oggi si ritiene che il fattore determinate sia stato invece l’incremento demografico. Si osserva inoltre che buona parte di questi metalli preziosi furono utilizzati per pagare l’importazione di spezie e altre merci dall’Oriente, arricchendo quindi soprattutto i Paesi asiatici. Ad essere influenzate furono anche le abitudini alimentari: pensiamo all’importanza del mais (a partire dal 17° secolo), la patata e il pomodoro (a partire dal 18°), alla diffusione dello zucchero, al caffè, il te, il tabacco e il cacao. Fu grande l’ampliamento delle conoscenze geografiche e scientifiche: dimostrazione definitiva della sfericità della Terra. Inoltre il confronto con civiltà diverse e con i popoli primitivi contribuì alla definizione di una identità europea. Si assiste al tramonto del mito degli antichi che segna il trapasso dal Rinascimento alla Controriforma e l’avvio alla nascita del moderno concetto di progresso. Si accendono le discussioni sulla natura dei selvaggi e furono poste le premesse per la nascita di concezioni e di miti che rivestiranno un’importanza centrale nell’evoluzione della cultura europea, e per il superamento di quella visione razzista ed etnocentrica che era così radicata nel vecchio continente. Capitolo 9 I nuovi orizzonti spirituali: Rinascimento e Riforma La civiltà del Rinascimento italiano La cronologia del Rinascimento italiano va da Francesco Petrarca (1304 – 1374) a Erasmo da Rotterdam (1469 – 1536). Il termine Rinascimento (rinascita), fu coniato verso la metà del XIX secolo da due grandi storici (Michelet e Burckhardt), per significare il ritorno ai valori e ai modelli dell’età classica nella filosofia, nella politica, nella letteratura e nell’arte, in polemica con le credenze e gli atteggiamenti dei secoli di mezzo, e al tempo stesso l’adozione di un nuovo e più positivo atteggiamento verso la natura e verso l’uomo, posto al centro dell’universo. Il concetto di Rinascimento può considerarsi inclusivo di quello di Umanesimo. Gli umanisti, cultori delle humanae litterae, erano coloro che si dedicavano alla riscoperta e allo studio delle opere dell’antichità, insegnavano ad esprimersi in un latino colto ed elegante e si sforzavano di ristabilire la giusta lezione dei testi mediante l’esercizio del metodo filologico. Tra il 15° e il 16° secolo, letterati e poeti ripresero a servirsi sempre più spesso del volgare arricchito però di latinismi e di voci dotte (Angelo Poliziano, Stanze per la giostra). Nelle arti figurative: l’osservazione della natura si basò sempre più spesso su una analisi attenta della realtà, che trova una elaborazione esemplare nella tecnica della prospettiva messa a punto da Piero della Francesca, Brunelleschi, ecc. (uomini che sottintendono la sintesi di conoscenze umanistiche, artistiche e tecnico – scientifiche). Al culmine di questo sviluppo troviamo Leonardo da Vinci (1452 – 1519). Al passaggio tra Quattro e Cinquecento si sviluppa una larga partecipazione di altri centri (non più solo Firenze) all’elaborazione della nuova cultura e del nuovo gusto. Questi sviluppi sono legati al ruolo sempre più importante giocato dalle corti principesche. La corte papale esercita sugli ingegni un’attrazione irresistibile: Bramante e Michelangelo Buonarroti (costruzione della basilica di San Pietro), affreschi eseguiti da Michelangelo nella Cappella Sistina, decorazione delle stanze vaticane di Raffaello Sanzio. di unità politica con la creazione di organi comuni ai vari regni e ducati: il Consiglio segreto, la Cancelleria aulica e il Consiglio aulico di guerra. La decisione di Carlo V di spartire il suo immenso impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II divenne effettiva nel 1555-1556 con la sua abdicazione. Da Zwingli a Calvino: “il governo dei santi” L’esperienza di Zwingli fu parallela a quella di Lutero. Venne chiamato nel 1518 presso la Cattedrale di Zurigo, da cui si staccò progressivamente (dalla fede tradizionale) e tra il 1523 e il 1525 riuscì a convincere il Consiglio cittadino ad abolire la messa, a riformare la liturgia e ad imporre la Bibbia come unica fonte di autorità in campo religioso. Z. esigeva la cessazione del servizio militare mercenario, che era una delle principali risorse economiche di per quelle popolazioni. I seguaci di Z. cercarono l’appoggio dei luterani tedeschi, ma nell’incontro di Marburgo (1529) fu impossibile raggiungere un accordo sul problema teologico dell’eucarestia. Nel 1531 un esercito cattolico mosse contro Zurigo: i protestanti ebbero la peggio, lo stesso Z. morì in battaglia. L’eredità di Z. fu raccolta dal calvinismo. Giovanni Calvino (1509 – 1564) compì studi umanistici e giuridici. La sua conversione è anteriore al 1534. Pubblica nel 1536 Istituzione della religione cristiana che guida alla comprensione della Bibbia. Punti in comune con Lutero: autorità esclusiva della Sacra Scrittura e la giustificazione per fede. La dottrina della predestinazione, il dovere primario del cristiano che rimane la glorificazione di Dio, il concetto di “vocazione” applicato a qualunque professione e mestiere. Calvino non crede nell’imminente fine del mondo. Il calvinismo ha una forte impronta attivistica, che è accresciuta dall’insondabilità della mente divina e dal bisogno psicologico del fedele di uscire dall’angoscioso dubbio circa il destino ultraterreno. Su queste basi Max Weber ha formulato ai primi del Novecento la sua celebre tesi circa il rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo. La dottrina calvinista è il terreno di cultura ideale per la formazione di una mentalità imprenditoriale e di una tendenza all’accumulazione e al reinvestimento propria del capitalismo moderno. Il calvinismo penetrò in aree caratterizzate nel 17° e 18° secolo da un precoce e inteso sviluppo economico. Importante differenza tra luteranesimo e calvinismo sta nella concezione del rapporto tra la Chiesa e lo Stato. Nel pensiero di Calvino ha grande importanza la “Chiesa visibile”, la congregazione dei fedeli legati dalla comune pratica del culto. Secondo Calvino, l’autorità civile deve promuovere il bene spirituale dei sudditi in accordo con la Chiesa visibile. Calvino ritiene legittima la resistenza contro un sovrano malvagio, purché essa sia guidata dai magistrati e non assuma un carattere anarchico. La Chiesa ginevrina venne riorganizzata (1541) con una suddivisione dei compiti tra i pastori, addetti all’esercizio del culto e alla predicazione della parola di Dio; i dottori, incaricati dell’insegnamento; i diaconi, per l’assistenza ai poveri e agli infermi; gli anziani o presbiteri, che dovevano vigilare sulla disciplina e i costumi. L’organo supremo della Chiesa era il Concistoro (anziani + pastori). Nella città così riformata venne introdotta una disciplina ferrea, che prevedeva pene severe per ogni infrazione alla dottrina e alla morale. Venne incoraggiata l’immigrazione di profughi per motivi religiosi dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna. La diffusione europea del protestantesimo. La Riforma in Inghilterra, in Scozia e nei Paesi scandinavi Ginevra fu il centro di irradiazione del protestantesimo (sede di un’Accademia per la formazione dei pastori). Le principali aree europee di diffusione del calvinismo furono la Francia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e l’Europa Orientale. Sia in Inghilterra sia nel Paesi scandinavi i mutamenti in campo religioso sono legati al processo di costruzione di un’unità nazionale e di un forte potere monarchico. Nel 1528 il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor (1509 – 1547), alleato della Francia, chiese al pontefice l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, che non gli aveva dato l’erede maschio. Clemente VII non accolse la domanda. Nel 1529 convocò un Parlamento da cui ottenne l’annullamento del matrimonio e la rottura di tutti i vincoli di dipendenza da Roma e l’approvazione nel 1534 dell’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo” della Chiesa d’Inghilterra. Gli ordini regolari furono sciolti a partire dal 1536 e i loro ingenti beni fondiari incamerati dalla corona. Artefice principale dello “scisma anglicano” fu Thomas Cromwell. La vera riforma ebbe luogo con Edoardo VI (1547 – 1553) la dottrina calvinista si diffuse largamente in Inghilterra. Gli succedette Maria Tudor , che si sforzò di riportare l’Inghilterra ad essere cattolica con numerose condanne a morte inflitte ai protestanti che le costarono il soprannome di Maria la sanguinaria. Dopo la sua morte assumerà una forma definitiva la Chiesa anglicana, separata da Roma e soggetta all’autorità del sovrano. Anche nel regno di Scozia, alla fine degli anni cinquanta, il calvinismo divenne la religione dominante. La chiesa presbiteriana scozzese si caratterizzerà per una struttura assembleare a più livelli e per l’assenza di un clero organizzato gerarchicamente. Nei Paesi scandinavi fu il luteranesimo a diventare religione di Stato, grazie agli intensi contatti culturali e commerciali con il mondo tedesco. Nel 1544 la Svezia divenne ufficialmente un paese luterano e contemporaneamente la corona venne dichiarata ereditaria. Tali deliberazioni si applicarono anche alla Finlandia. In Danimarca il luteranesimo venne proclamato religione unica di Sato (1536). La Riforma fu introdotta anche in Norvegia e in Islanda, suddite della corona danese. Capitolo 10 La Controriforma e l’Italia del pieno e tardo Cinquecento “Controriforma” o “Riforma cattolica”? Con il termine “Controriforma” si designa un complesso insieme di movimenti, istituzioni e iniziative messe in atto tra il Cinquecento e il Seicento nella Chiesa cattolica romana, sia in risposta al dilagare della Riforma Protestante, sia come conseguenza delle esigenze di riforma interna e rinnovamento religioso. Jedin (gesuita austriaco 1946) propone di distinguere tra la “Riforma cattolica” intesa come l’esame di coscienza della Chiesa cattolica alla luce dell’ideale di vita cattolico, mediante il rinnovamento interno, e “Controriforma” come affermazione di sé compiuta dalla Chiesa in lotta contro il protestantesimo. Entrambe i concetti designano comunque dei movimenti connessi tra loro che, soltanto se collegati, sono idonei a descrivere questa face cruciale della storia religiosa europea. John O’Malley (storico e gesuita statunitense 2000) ha proposto di eliminare questi due termini per parlare invece di un più asettico “cattolicesimo moderno”. Quello che è certo è che sia la Riforma protestante sia la Controriforma si verificarono in un periodo in cui, in tutta Europa, i fedeli avvertirono un’acuta necessità di rinnovamento religioso. Speranze e propositi di rinnovamento religioso nell’Italia del Cinquecento Le istanze di rinnovamento religioso diffuse in Europa, furono avvertite anche in Italia, dove le idee e le opere di Erasmo da Rotterdam circolarono ampiamente e furono spesso lette come un’alternativa globale al complesso di dogmi, di istituzioni e di riti in cui si identificava la religione tradizionale. Accanto a questo agirono una serie di altri stimoli: l’ondata di profezie e di attese apocalittiche, le sofferenze e le rovine portate dalle guerre d’Italia, l’anticlericalismo, e l’influenza degli esponenti delle correnti riformatrici (Contarini, Giberti, Valdés, Pole). Questi uomini avevano in comune l’atteggiamento critico nei confronti delle preoccupazioni mondane della Chiesa, la svalutazione delle pratiche esteriori di devozione, l’accento posto sulle massime evangeliche, sulla fede e sull’amore per Dio e per il prossimo. Le speranze di un’iniziativa dall’alto per la riforma della Chiesa si riaccesero con l’avvento al pontificato di Paolo III Farnese (1534 – 1549). Egli manifestò l’intenzione di convocare al più presto un nuovo Concilio ecumenico e costituì nel 1536 una commissione con il compito di studiare e proporre rimedi ai mali della Chiesa. Ne uscì il Consilium de emendanda Ecclesia (“Progetto per la riforma della Chiesa” 1537), che rimase però ineseguito. Anche il Concilio (convocato per la prima volta a Mantova nel 1537) potrà riunirsi effettivamente solo alla fine del 1545. I nuovi ordini religiosi: i gesuiti Questo clima di fervore e rinnovamento di espresse nella creazione di nuovi ordini regolari o nella riforma dei vecchi. A questo si ricollega la nascita intorno al 1528 dell’ordine dei cappuccini (ramo della grande famiglia francescana): all’ideale della povertà assoluta univano quello dell’assistenza spirituale e materiale alla gente umile. La scelta della vita attiva caratterizzava anche altre congregazioni (sorte nella prima metà del Cinquecento) formate per lo più da chierici “regolari”, cioè da preti che decidevano di vivere secondo una regola. Questi erano ad esempio i teatini, i barnabiti, i somaschi, che tra i loro obiettivi principali avevano la formazione del clero, l’evangelizzazione delle plebi, l’assistenza ai malati e agli orfani e l’insegnamento. Al movimento non rimasero estranee le donne, alle quali si rivolse Angela Merici, fondatrice nel 1535 della congregazione delle orsoline. L’ordine che più di ogni altro era destinato ad incarnare lo spirito della Controriforma fu la Compagnia di Gesù. Il suo fondatore, Ignazio di Loyola (1491 – 1556, esponente degli hidalgos, caratterizzati dalla vocazione delle armi e dallo spirito di crociata) nel 1534 pronunciò i voti di povertà e castità e si impegnò a consacrare la propria vita alla liberazione della Terra Santa e al servizio della Chiesa e al suo Pontefice. Dal 1535 Ignazio e i suoi compagni soggiornarono in Italia: a Roma nel 1540 la costituzione della Compagnia di Gesù venne solennemente approvata da Papa Paolo III. Fin dall’inizio i gesuiti si caratterizzarono come una milizia scelta al servizio del papa e della Controriforma. Ai tre voti tradizionali di povertà, castità e obbedienza, ne aggiungevano un quarto di fedeltà assoluta alle direttive del pontefice. Cinquant’anni dopo la morte di Ignazio i gesuiti disponevano di oltre 500 case e collegi sparsi in tutta Europa: le case professe, dove vivevano i gesuiti, non potevano possedere beni, i collegi invece si configuravano come istituzioni fondate e dotate da benefattori, erano dedicati alla formazione del clero e dei giovani di nascita aristocratica o alto borghese. La formazione delle classi dirigenti divenne una specialità della Compagnia, che elaborò una propria efficace pedagogia, codificata nella Ratio Studiorum e imperniata sull’insegnamento del latino e dei classici, sull’emulazione tra gli studenti congiunta alla severa disciplina dei comportamenti. Grande fu anche il contributo dei gesuiti all’attività missionaria che costituì uno degli aspetti più significativi della Controriforma. In Asia fu memorabile l’impegno di Francesco Saverio che percorse l’India e l’Indonesia predicando il Vangelo. Fu lui, nel 1549, ad introdurre in Giappone il cattolicesimo. In Cina Matteo Ricci diffuse il cristianesimo tra il 1583 e il 1610. Il Concilio di Trento Una serie di avvenimenti significativi aveva portato la Chiesa di Roma ad un atteggiamento più duro e intransigente nella lotta contro l’”eresia”: nel 1542 venne creata a Roma la Congregazione del Sant’uffizio o dell’Inquisizione. L’unica alternativa a chi non si conformava al culto ufficiale pur professando nel proprio intimo una fede diversa (nicodemismo) era l’esilio volontario (molti gli eretici italiani che espatriano in Inghilterra o verso l’Europa Orientale). Il Concilio ecumenico venne indotto nel 1542 a Trento (città sede di un principato vescovile e soggetta all’Impero). A causa delle ostilità tra Carlo V e il re di Francia, il Concilio poté riunirsi effettivamente solo il 13 dicembre 1545. Trasferito nel 1547 a Bologna, a causa del timore della peste, e riconvocato a Trento per la primavera del 1551, il Concilio fu nuovamente interrotto nel 1552 a causa della ripresa delle ostilità tra l’Impero e la Francia. (lavori sospesi per circa 10 anni)Da sempre ostile al concilio Paolo IV estese i poteri dell’Inquisizione, sottopose a processo alcuni dei maggiori esponenti del partito riformatore e promulgò nel 1559 il primo Indice dei Libri Proibiti, in cui venne inserita l’intera opera di Erasmo. Toccò di nuovo a Papa Pio IV (1559 – 1565) l’incarico di rilanciare il Concilio e di condurlo a termine. Ebbe la priorità la definizione dei punti dogmatici più controversi: effetti del peccato originale (cancellato dal battesimo) e il principio della giustificazione per sola fede, che venne condannato come eretico. Fu così che si andò formando la rottura definitiva tra la Chiesa Cattolica e le confessioni protestanti. Dal Concilio tridentino usciva riaffermato e rafforzato il carattere monarchico della Chiesa Cattolica. Altre decisioni che riguardarono il Concilio furono: riaffermazione del valore delle opere ai fini della salvezza, la collocazione della tradizione della Chiesa accanto alla Sacra Scrittura come fonte della verità; la natura dei sacramenti, con particolare rilievo all’eucarestia e all’ordine (che conferisce al sacerdote un’aureola sacrale sollevandolo sopra i fedeli); ribadite l’esistenza del Purgatorio e la validità delle indulgenze nonché del culto prestato ai santi e alla Vergine. Per quanto riguarda la formazione e i doveri del clero: istituzione dei seminari, divieto del cumulo di benefici, nella propria diocesi, di visitarla tutta ogni due anni e di farne periodiche relazioni alla curia di Roma, le norma impartite ai parroci per il decoro del culto, l’insegnamento religioso ai fedeli e la scrupolosa tenuta dei registri di battesimi, matrimoni e sepolture, l’imposizione del celibato ecclesiastico e dell’abito sacerdotale. La Chiesa e lo Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento Il Concilio di Trento segna la ripresa in grande stile della Chiesa cattolica, la lotta contro il protestantesimo, l’affermazione di una volontà di dominio non solo spirituale ma anche nella sfera politica e sociale. Azienda (ovvero di finanze), vi erano Consigli preposti ai diversi complessi territoriali (di Castiglia, d’Aragona, delle Indie, delle Fiandre, d’Italia) in cui sedevano rappresentati dei Paesi interessati. Nei vari territori, all’autorità dei rappresentati diretti del sovrano, viceré o governatori, si contrapponeva quella delle magistrature locali, che godevano di una larga autonomia. In seguito all’estinzione della dinastia regnante del Portogallo (morte di Sebastiano I d’Aviz nel 1578), Filippo II riuscì ad essere riconosciuto come erede della corona (1580) (era fratello della madre di Sebastiano, aveva anche sposato una principessa portoghese). Il Portogallo entrò a far parte dei regni controllati dalla corte di Madrid, mantenendo tuttavia inalterate la sua forma di governo e le sue leggi. Così pure rimase del tutto separata l’amministrazione dell’Aragona (Il separatismo aragonese e soprattutto catalano rimarrà sempre una spina nel fianco della potenza spagnola). La popolarità di Filippo II venne messa a dura prova dai sacrifici sempre più gravosi richiesti al Paese in termini di uomini e di denaro. Le entrate della monarchia:  Quota dei metalli preziosi americani spettante alla corona non superò mai il 20 – 25% delle sue entrate complessive  Imposte dirette (da cui era esente la nobiltà)  Imposte indirette (che colpivano soprattutto i generi di prima necessità)  Contributi del clero  Prestiti a breve o lunga scadenza cui la monarchia era continuamente costretta a ricorrere Il sistema tributario era congegnato in modo da penalizzare i ceti produttivi da privilegiare le rendite parassitarie. Inoltre i denari così prelevati venivano spesi negli impegni militari della monarchia (si importavano manufatti e derrate agricole dall’estero). È quindi già di questa epoca la decadenza di alcune attività industriali prima fiorenti in Castiglia, come le sete andaluse e i pannilana di Segovia e di Burgos. La stessa agricoltura doveva cedere enormi spazi all’allevamento transumante delle pecore, di cui beneficiavano poche grandi famiglie riunite nella Corporazione della Mesta. A partire dal 1570 la Spagna divenne un Paese importatore di cereali, l’ultimo decennio del Cinquecento fu segnato da carestie e pestilenze che avviarono il declino della popolazione e dell’economia iberica per circa un secolo. La battaglia di Lepanto e i conflitti nel Mediterraneo L’indiscussa egemonia spagnola in Italia garantiva a Filippo II una posizione dominante nel Mediterraneo occidentale, rendendolo al tempo stesso più esposto agli attacchi dei corsari barbareschi e della potenza ottomana. Quest’ultima, al comando di Selim II, sferrò nel 1570 un improvviso attacco contro l’isola di Cipro, mentre cadeva anche Tunisi. Per iniziativa di Papa Pio V (1566 – 1572) si costituì la “Lega Santa” in cui entrarono, oltre a Venezia e alla Spagna, la Repubblica di Genova, il duca di Savoia e l’ordine di Malta. Nel 1571 la flotta cristiana al comando di don Giovanni d’Austria e quella ottomana si affrontarono nei pressi di Lepanto, all’imboccatura del Golfo di Corinto. Questa fu l’ultima grande battaglia della storia che vide protagoniste le navi a remi e che fu combattuta con la tecnica dell’abbordaggio. Schiacciante fu la vittoria delle forze cristiane. Modesti furono però i risultati sul piano politico e militare. Venezia firmò una pace separata rinunciando a Cipro e tornando alla sua tradizione politica di buon vicinato con Istanbul. (tregua stipulata nel 1578). Il mediterraneo rimase per tutti il Cinquecento un crocevia di scambi e traffici. Proprio per questo molto più intensa era l’attività piratesca. Negli ultimi venti anni del 1500 si registra la penetrazione in forze nel Mediterraneo degli Olandesi e soprattutto degli Inglesi: si assicurarono una larga fetta dei profitti del commercio mediterraneo, riuscendo a violare anche le acque del mar adriatico tradizionalmente considerato dalla Serenissima come il “Golfo di Venezia”. La rivolta dei Paesi Bassi L’impegno più grande del Regno di Filippo II fu quello profuso per sedare la rivolta nei Paesi Bassi che è nota come la Guerra degli Ottant’anni. Alle origini dell’insurrezione vi sono tre fattori: 1. Fattore religioso: i Paesi Bassi erano stati fin dal principio un terreno fertile per la diffusione delle dottrine riformate (calvinismo), a cui Filippo II risponde con la repressione. 2. Fattore politico: il governo dei Paesi Bassi era stato affidato alla sorellastra Margherita. Al suo fianco aveva posto il cardinale di Granvelle, che diresse la lotta contro l’eresia rafforzando l’Inquisizione e mostrando scarso rispetto per le tradizionali autonomie cittadine. 3. Fattore economico: la crisi che colpì i centri urbani e soprattutto Anversa, a causa del trasferimento ad Amburgo del fondaco inglese (luogo di raccolta dei panni semilavorati da tingere e da finire) e della temporanea chiusura del Baltico legata ad una guerra in corso tra Svezia e Danimarca. Di fronte alla ribellione aperta, Filippo II decise di ricorrere alla forza e inviò nelle Fiandre un forte esercito al comando del terribile duca d’Alba. I metodi spietati del duca portarono ad una nuova ondata di malcontento nel 1569 acuita dall’imposizione di tasse per mantenere l’esercito spagnolo. Approfittando del malcontento, Guglielmo d’Orange – Nassau riuscì ad allestire una flotta e ad invadere le province settentrionali dal mare, facendosi proclamare nel 1572 statolder delle province di Olanda e di Zelanda. I “pezzenti”, cioè i rivoltosi, resero ben presto le coste della Manica impraticabili per le navi nemiche. Nel 1575, Filippo II fece bancarotta. Nei primi mesi del 1579 si giunse alla definitiva scissione del Paese. Le sette province settentrionali (di cui l’Olanda) continuarono la lotta. Neppure l’assassinio di Guglielmo d’Orange nel 1584, modificò la situazione che evolveva ormai verso la piena indipendenza dell’Olanda e delle altre province dei Paesi Bassi settentrionali (le dieci province meridionali rimasero obbedienti a Filippo II). L’Inghilterra nell’età elisabettiana Nata nel 1533 (figlia di Enrico VIII e Anna Bolena) Elisabetta salì al trono dopo la morte di Maria Tudor, alla fine del 1558. Il suo governo si caratterizzò per l’equilibrio tra l’esigenza di tenere buoni i rapporti con il Parlamento e la tendenza a concentrare i poteri decisionali nel Consiglio privato della corona. Il problema più urgente era quello religioso. La Regina adottò una soluzione di compromesso che diede i tratti della Chiesa Anglicana: riaffermò la supremazia del sovrano in materia religiosa, mantenne l’episcopato e con l’Atto di uniformità del 1559 impose il Libro delle preghiere comuni; sul piano dottrinale i Trentanove articoli di fede accolsero i motivi fondamentali della teologia calvinista. Il compromesso elisabettiano lasciava insoddisfatti i calvinisti più intransigenti, i puritani, che reclamavano l’abolizione dei vescovi e l’eliminazione dal culto di ogni residuo di “papismo”. Solo nel XVII secolo il puritanesimo si trasformerà in una forza di opposizione alla monarchia. Al problema religioso era legato il problema della successione. Il rifiuto di Elisabetta di concedere la sua mano faceva temere una ripresa delle discordie civili dopo la sua scomparsa. A tramare contro di lei c’era la regina di Scozia, Maria Stuart, di fede cattolica, che vantava una discendenza legittima da Enrico VII Tudor. Dichiarata decaduta nel 1568, Maria riparò in Inghilterra dove non cessò di intrigare. Nel 1587 Elisabetta si decise a firmarne la condanna a morte, gesto che portò all’immediata apertura delle ostilità da parte della Spagna. In campo finanziario, il regno elisabettiano ebbe il merito di stabilizzare la moneta (1563) e moderare i tributi. Al raddoppio della popolazione si accompagnarono una forte mobilità sociale e il rafforzamento dei ceti intermedi: i medi e grandi proprietari terrieri che formavano la gentry (nobiltà rurale), i gruppi mercantili, gli uomini di legge. La nobiltà titolata perse invece molto del suo potere politico ed economico. I nuovi proprietari fondiari, accorpavano spesso gli appezzamenti sparsi in aziende compatte, recintavano le loro terre, accrescevano la produzione e la destinavano a mercati distanti anziché al consumo locale. Dove c’erano le recinzioni, i contadini non riuscivano più a sopravvivere e dovevano cercare lavoro altrove o darsi al vagabondaggio e alla mendicità. Per controllare questi fenomeni furono promulgate le prime leggi sui poveri. Un’integrazione al lavoro agricolo era offerta dalla diffusione nelle campagne della filatura e della tessitura della lana (copriva i tre quarti delle esportazioni inglesi a fine cinquecento). Notevoli progressi fecero anche l’estrazione del carbone, impiegato per il riscaldamento domestico, la siderurgia e la distillazione della birra. L’età elisabettiana segna l’inizio di una nuova era nel commercio e nella navigazione: Compagnia di Moscovia, Compagnia del Levante, Compagnia delle Indie Orientali (1600) erano vere e proprie società per azioni che ottenevano dalla corona il “privilegio” esclusivo di commerciare con una certa area del globo, in cambio di prestiti e compartecipazioni di utili. Numerosi erano anche i mercanti che agivano a titolo individuale, spesso si dedicavano al contrabbando con le colonie spagnole ed esercitavano la pirateria. Alcuni di questi uomini fecero grandi imprese come la seconda circumnavigazione del globo (1577 – 1580) di cui fu protagonista Francis Drake, che saccheggiò le coste occidentali dell’America del Sud. I rapporti con la Spagna giunsero al punto di rottura quando Elisabetta, nel 1585, decise di appoggiare in modo aperto la rivolta dei Paesi Bassi e quando avvenne l’esecuzione di Maria Stuart. Nel luglio del 1588, l’ invincible armada di Filippo II fu scompaginata dalla flotta da guerra di Elisabetta e da una moltitudine di legni mercantili e corsari inglesi e olandesi. La guerra con la Spagna si trascinò fino al 1604. Un’ondata di esaltazione e di orgoglio patriottico percorse l’Inghilterra. Fu questa una componente di quella fioritura intellettuale e artistica che fa dell’età elisabettiana un periodo di ineguagliato splendore nella storia della civiltà inglese (Shakespeare, Francesco Bacone). Le guerre di religione in Francia Anche in Francia troviamo in primo piano tra le cause dei conflitti interni il fattore religioso, intrecciato a moventi di ordine politico – sociale e aggravato dai problemi dinastici tipici dei periodi di reggenza. In seguito alla morte di Enrico II e del suo primo genito Francesco II, toccò alla vedova di Enrico II, Caterina de’ Medici la reggenza. Nel frattempo il calvinismo faceva proseliti (detti in Francia ugonotti), rappresentando la metà circa dei nobili. Alla testa delle fazioni nobiliari in lotta troviamo tre grandi casate: i Guisa, i Borbone e i Montmorency – Chatillon. Per reagire alla strapotenza dei Guisa, Caterina de’ Medici fu indotta a fare concessioni agli ugonotti con l’editto di San Germano (1562). Ma i partecipanti ad una riunione protestante furono massacrati dai seguaci del duca di Guisa. Fu questo l’inizio della prima fase di guerre civili, conclusa nel 1570 dalla seconda pace di San Germano, che ribadiva e allargava le precedenti concessioni agli ugonotti. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto del 1572 (la notte di San Bartolomeo), più di duemila ugonotti furono trucidati nelle loro case. Molti calvinisti fuggirono all’estero, ma la salda organizzazione protestante prese a funzionare come una confederazione di Stati indipendenti. Ritrovò un capo prestigioso: Enrico di Borbone. All’organizzazione protestante si oppose la Lega santa, capeggiata dai Guisa e sostenuta dalla nobiltà cattolica e dalla città di Parigi. Il precario equilibrio tra i due schieramenti si ruppe quando con la morte del Duca d’Angiò (ultimo figlio di Enrico II), divenne erede presuntivo al trono di Enrico di Borbone. Ha inizio così una nuova fase del conflitto detta “guerra dei tre Enrichi”: il re Enrico III (figlio di Caterina de’ Medici), Enrico di Borbone e il giovane duca Enrico di Guisa, capo della Lega cattolica. Nel corso del 1587 – 1588 la Lega sostituì di fatto la propria autorità a quella del monarca, che nel dicembre del 1588, rifugiatosi a Blois, attirò con un tranello il duca di Guisa e il cardinale di Lorena e li fece assassinare. Non gli restava che l’alleanza col Borbone, insieme al quale strinse d’assedio Parigi nel 1589; ma un mese dopo lo stesso Enrico III cadeva. Prima di morire fece in tempo a designare il suo successore: Enrico di Borbone che divenne così Enrico IV. Il nuovo sovrano aveva tutte le qualità che si richiedevano per ridare smalto e prestigio alla figura del monarca. Naturalmente non venne riconosciuto dai leghisti, che gli contrapposero la candidatura di una figlia di Filippo II di Spagna, Isabella. Truppe spagnole penetrarono in Francia dai Paesi Bassi e dai Pirenei per imporla sul trono. Proprio questo fatto permise ad Enrico IV di trasformare la guerra in lotta contro lo straniero e contro i suoi alleati interni. Con la pubblica conversione di Enrico IV (1593), con il suo ingresso trionfale a Parigi (1594) e con l’assoluzione pronunciata da Papa Clemente VIII, le sorti del conflitto erano ormai segnate. Il vecchio Filippo II riconobbe la propria sconfitta firmando il 2 marzo 1598 la pace di Vervins. Poco più di un mese dopo, l’editto di Nantes, sanciva la pace religiosa mantenendo al cattolicesimo il carattere di religione di Stato ma riconoscendo agli ugonotti il diritto di praticare il loro culto e la facoltà di presidiare militarmente un centinaio di piazzeforti a garanzia della libertà religiosa. L’Europa orientale: Polonia e Russia L’immenso territorio europeo tra il Baltico e il Mar Nero era quasi tutto diviso, nella seconda metà del Cinquecento, tra due sole formazioni statali: il Regno polacco – lituano e la Russia moscovita. Oltre che un crogiolo di popoli, la Polonia era un crogiolo di fedi religiose (cattolica, greco – ortodossa, luteranesimo, calvinismo, conventicole anabattiste e antitrinitarie, ebrei). Il principio della libertà religiosa venne ribadito ancora nel 1573, facendo della Polonia una sorta di oasi in un’Europa dominata dall’intolleranza. Questa complessità etnica e religiosa rendeva difficile l’affermazione in Polonia di una forte autorità statale. Un ostacolo ancora maggiore era costituito dalla presenza di una nobiltà eccezionalmente numerosa e fieramente attaccata ai propri privilegi e tradizioni militari. Questo ceto fu protagonista della fioritura intellettuale e artistica dell’età rinascimentale e del forte aumento della produzione cerealicola. Tali progressi furono pagati da un lato con un asservimento durissimo dei contadini, costretti gabella”. Enrico IV allora estende a tutto il Paese dei “commissari” ( intendenti di giustizia, polizia e finanza) principali inviati della volontà sovrana nelle province del Paese. Richelieu intervenne anche in campo culturale (fondazione nel 1635 dell’Accademia di Francia) e commerciale (istituzione di compagnie privilegiate, costruzioni navali, penetrazione coloniale francese in Africa, nelle Antille e nel Canada. La Spagna da Filippo III al duca di Olivares Con Filippo III (1598 – 1621) si inaugura in Spagna l’era dei favoriti, a cui sovrani incapaci di governare delegano tutti i poteri di decisione e di comando. Il favorito di Filippo III fu il duca di Lerma che pose fine alle guerre in corso, stipulando la pace con l’Inghilterra (1604) e la tregua dei dodici anni con le Province Unite (1609). Nel 1609 decise di espellere dalla penisola iberica i moriscos che in alcune regioni (Valencia) costituivano una indispensabile manodopera specializzata per l’agricoltura e per l’industria. Furono quasi 300.000 i moriscos che lasciarono la Spagna aggravando così il declino demografico ed economico. Con l’avvento del nuovo sovrano Filippo IV (1621 – 1665) si affermò l’onnipotenza del conte di Olivares che appoggiò militarmente la controffensiva degli Asburgo di Vienna contro gli insorti Boemi, fu deciso a Madrid di non rinnovare la tregua dei dodici anni con le Province Unite. Nel 1626 Olivares presentò al re il progetto noto come Union de las armas (Unione delle armi) che assegnava a ciascuna provincia un contingente di soldati da reclutare ed equipaggiare a proprie spese. Nel 1628 si assiste al tracollo delle finanze spagnole (per l’apertura di una nuova guerra in Italia e per la cattura di una flotta che trasportava argento americano), mentre l’Union de las armas incontrava una crescente opposizione. (avvio del declino della monarchia spagnola) L’impero germanico e l’ascesa della Svezia Larghissima diffusione del luteranesimo e del calvinismo: verso il 1580 la grande maggioranza della nobiltà e dei domini asburgici aveva abbandonato la Chiesa Cattolica. Rodolfo II (1576 – 1612) pose la sua residenza a Praga dove diede presto segni di squilibrio mentale. Nel 1609 fu costretto a firmare la Lettera di maestà che concedeva piena libertà religiosa ai nobili del Regno di Boemia. Nel 1611 Rodolfo venne deposto e la corona di Boemia venne presa dal fratello Mattia. Nel frattempo si erano però acuiti i contrasti tra cattolici e protestanti: nel 1608 i principi luterani e calvinisti, preoccupati dei progressi della Controriforma, conclusero un’alleanza difensiva (Unione Evangelica), a cui si contrappose, l’anno seguente una Lega Cattolica. La situazione si faceva sempre più tesa. 1592 Sigismondo Vasa, re di Polonia nel 1587, ereditò la corona di Svezia. Lo zio, Carlo Vasa, al termine di una guerra civile nel 1604 assunse la corona col nome di Carlo IX. Il nuovo sovrano manifestò mire espansionistiche che aprirono la via alle imprese del figlio Gustavo Adolfo (1611 – 1632) che in soli venti anni riuscirà ad imporre la supremazia svedese su tutto il Baltico. Quali furono le cause di questa ascesa?  La Svezia possedeva estesi giacimenti di ferro e rame: alimentavano il flusso di esportazioni e fornivano materia prima per una produzione di armamenti in rapido sviluppo  Nelle campagne esisteva una massa preponderante di piccoli proprietari liberi: questo ceto costituiva un vivaio di ottimi soldati  L’aristocrazia stabilì con la monarchia un efficace rapporto di collaborazione Gustavo Adolfo riorganizzò l’amministrazione interna, creò una flotta da guerra e potenziò l’esercito introducendo un sistema di coscrizione obbligatoria. Innovò la tecnica militare: schieramento in linee lunghe e poco profonde con fuoco di fucileria. Il primo campo di combattimento fu con la Russia: con la pace di Stolbova nel 1617 la Svezia si vide riconosciuto il possesso dell’Ingria e della Carelia orientale, che le assicuravano il completo dominio sul golfo di Finlandia. Nel 1621 Gustavo Adolfo, si impadronì anche del porto di Riga. Le prime fasi della guerra dei Trent’anni (1618 – 1629) Sul trono imperiale tedesco a Mattia (1612 – 1619) era candidato a succedere il nipote Ferdinando, educato dai gesuiti e intransigente campione della Controriforma cattolica. Nel 1617 ottenne la designazione a re di Boemia e di Ungheria. Le misure subito prese a favore del cattolicesimo dai reggenti che rappresentavano il potere imperiale a Praga indignarono i ceti boemi che videro messa in discussione la loro autonomia. Una folla di delegati della Dieta Boema invase il palazzo reale e gettò dalla finestra due reggenti e il loro segretario (Defenestrazione di Praga). Fu poi formato un governo provvisorio. Il comportamento della Dieta boema fu imitato da quelle delle altre province del regno e anche dai ceti dell’Alta e della Bassa Austria. La stessa Vienna nel 1619 si trovò assediata. Ferdinando fu eletto imperatore nel 1619 (Ferdinando II fino al 1637). Due giorni prima della sua incoronazione i boemi avevano offerto la corona a Federico V, con la speranza di favorire un ampio fronte protestante. Ciò spinse l’imperatore a chiedere aiuto alla Spagna e alla Lega cattolica tedesca. Nel 1620 le forze dei ribelli boemi furono sbaragliate nella battaglia della Montagna Bianca. Alla vittoria degli imperiali seguì una dura repressione dei protestanti e una ricattolicizzazione forzata. 1624 – 25: spostamento della Francia su posizioni di sostegno alla causa protestante e intervento armato del re di Danimarca Cristiano IV. Quest’ultimo attraversò il fiume Elba nei primi mesi del 1625 ma si trovò di fronte un grande esercito imperiale. Dovette chiedere la pace, firmata nel 1629 a Lubecca. Il re di Danimarca riotteneva i territori perduti ma doveva impegnarsi a non intervenire più negli affari dell’Impero. (Editto di restituzione: restituzione di tutti i beni ecclesiastici secolarizzati dopo il 1552) Dalla guerra di Mantova alla pace di Vestfalia Tra il 1628 e il 1630 il centro nevralgico della politica europea si spostò in Italia settentrionale. Alla fine del 1627 era morto senza lasciare eredi il duca di Mantova Vincenzo II Gonzaga. Il successore designato era il francese Carlo duca di Nevers. Ma gli Asburgo rivendicarono la dipendenza dall’Impero del Ducato di Mantova e del Marchesato del Monferrato. Nel 1629 – 1630 un esercito imperiale scendeva le Alpi e si impadroniva di Mantova, mentre la fortezza di Casale Monferrato resistette all’assedio delle forze spagnole. I problemi interni di Richelieu e di Olivares e la gravissima epidemia di peste scoppiata in Italia settentrionale indussero i contendenti a trattative di pace che portarono all’ accordo di Cherasco (1631): Mantova e il Monferrato restavano al Gonzaga – Nevers che si riconosceva suddito dell’Impero e la Francia manteneva il possesso di Pinerolo. Nel 1631 entrò in guerra il re di Svezia Gustavo Adolfo: intendeva non solo difendere la causa protestante, ma affermare l’egemonia svedese sul Baltico. Nella primavera del 1632 invase la Baviera. Per scacciare gli svedesi l’imperatore confidava nell’aiuto di un esercito inviato dalla Spagna (ciò che effettivamente accadde a Nordlingen nel 1634). Ci si apprestava a firmare una pace quando intervenne la Francia di Richelieu il cui scopo era quello di impedire il consolidamento della potenza imperiale in Germania. La flotta spagnola venne distrutta dagli olandesi nel canale della Manica con la battaglia delle Dune (1639). L’esercito francese ottenne una grande vittoria su quello spagnolo nella battaglia di Rocroi (1643). I negoziati di pace sfociarono nel 1648 in una serie di trattati collettivamente noti come pace di Vestfalia:  riconoscimento spagnolo dell’indipendenza delle Province Unite  Francia otteneva il possesso dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, di gran parte dell’Alsazia e di altre piazzeforti sul Reno e in Piemonte  La Svezia rimaneva padrona della Pomerania occidentale e della provincia di Haland La situazione religiosa dell’Impero fu modificata: venne ammesso il calvinismo e fu spostato al 1624 l’anno per la secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Dal punto di vista politico i principi ottenevano il diritto di stringere alleanze e fare guerre per proprio conto purché non dirette contro l’imperatore. Restava accesa la guerra tra Francia e Spagna, conclusa solo nel 1659 dalla Pace dei Pirenei e restavano le conseguenze economiche e sociali del conflitto. La Germania perse in trent’anni il 20 – 30% della popolazione. Le devastazioni si estesero anche alla Boemia, alla Danimarca, alla Borgogna, all’Italia nord – occidentale. Capitolo 13 Rivoluzioni e rivolte L’Inghilterra sotto la dinastia Stuart Giacomo I Stuart (1603 – 1625) era già re di Scozia quando succedette sul trono inglese alla regina Elisabetta. Il nuovo sovrano era impopolare presso gli inglesi: origine straniera, inclinazioni omosessuali, favoritismi verso personaggi avidi e inetti Fin dai primi anni si ripresentarono due questioni che avevano già reso difficili i rapporti tra corona e Parlamento:  la questione religiosa: La legislazione contro i cattolici venne inasprita dopo la scoperta di una congiura che mirava a far saltare il primo parlamento convocato da Giacomo (Congiura delle polveri nel 1605). La nuova dinastia cercava un’alleanza matrimoniale con le grandi corone cattoliche: nel 1625 il futuro Carlo I sposò Enrichetta Maria di Borbone (sorella di Luigi XIII). Nel corso dei primi decenni del XVII secolo il puritanesimo (come sistema teologico) si diffuse sempre più largamente tra la gentry e tra i ceti mercantili e artigiani della città alimentando un crescente senso di estraneità e di ostilità nei confronti di una corte sfarzosa e corrotta. Gli insoddisfatti emigrarono nell’America settentrionale: tra questi i padri pellegrini che nel 1620 fondarono la colonia del Massachusetts.  la questione finanziaria: Al centro della difficile situazione finanziaria vi era l’insufficienza delle entrate a fronte di spese in continuo aumento, anche per effetto della tendenza al rialzo dei prezzi (le massicce vendite di terre della corona, effettuate sotto la dinastia Tudor, avevano di molto assottigliato gli introiti di origine demaniale). Ogni forma di imposta fondiaria trovava un ostacolo insuperabile nel Parlamento. A questi problemi si aggiunsero, a partire dal secondo decennio del secolo, le ripercussioni di una congiuntura economica negativa: la popolazione inglese continuò ad aumentare, ma non fu più accompagnato da un parallelo sviluppo delle attività produttive, e fu anche vessata dagli effetti di cattive annate agricole. Il problema finanziario diventava così un problema politico: mancanza degli strumenti necessari per imporre ai sudditi un aumento della pressione fiscale, impossibilità di munirsi di tali strumenti a causa della mancanza di denaro. Si fece quindi ricorso ad espedienti straordinari: prestiti forzosi, concessione di privilegi economici, multe per la mancata osservanza di vecchie leggi, vendite di uffici e di titoli nobiliari (nel 1611 venne creato il titolo di baronetto, apposta per essere venduto). Il regno di Carlo I e lo scontro tra corona e Parlamento A Giacomo I succedette il figlio Carlo I (1625 – 1649). Nel tentativo di guadagnare il consenso dei puritani, dichiarò guerra alla Spagna e organizzò una spedizione navale per soccorrere gli ugonotti di La Rochelle, assediati dalle truppe del re di Francia. il fallimento di queste operazioni militari convinse i più che di questo re e del suo favorito (duca di Buckingham) non c’era da fidarsi. Il Parlamento convocato nel 1628 condizionò ogni votazione di ulteriori sussidi all’accettazione da parte del re di un documento denominato Petizione di diritto (dichiarava illegali alcune tassi e alcune leggi). Carlo I sciolse definitivamente il Parlamento nel 1629. Fino al 1640 Carlo I governò senza Parlamento, appoggiandosi al Consiglio privato della corona e all’azione dei tribunali regi. Durante il governo di Carlo I non mancarono utili riforme che eliminarono le inefficienze e gli sprechi. Grazie a queste misure e alla pace conclusa con la Francia e con la Spagna, le spese poterono finalmente essere contenute. Parallelamente si lavorava alla riorganizzazione della Chiesa d’Inghilterra secondo linee gerarchiche e autoritarie. Il sospetto era che si volesse preparare un ritorno al cattolicesimo, visto l’ascendente che aveva su Carlo I la moglie Enrichetta, fervente cattolica. Ciò rafforzava l’opposizione dei puritani. Alla fine del 1630 poteva sembrare che anche l’Inghilterra si avviasse verso un regime di tipo assolutistico, ma si opponeva a questo la fragilità dell’apparato militare, burocratico e finanziario su cui la monarchia poteva contare. Non esisteva un esercito permanente, la burocrazia stipendiata dalla corona non superava il migliaio di individui, l’ostilità dei sudditi era evidente nel rifiuto di pagare le imposte ritenute illegali in assenza dell’approvazione parlamentare. Il tentativo di imporre il modello anglicano alla Chiesa presbiteriana di Scozia suscitò nel 1638 una rivolta. Carlo I si decise a convocare un nuovo Parlamento (detto “Breve Parlamento” perché fu sciolto dopo poche settimane, 1640) per ottenere i mezzi necessari a condurre una guerra contro gli scozzesi. L’esercito raffazzonato non riuscì ad averla vinta sugli scozzesi e Carlo I fu costretto a convocare nuovamente il Parlamento. Il “Lungo Parlamento” rimase in carica fino al 1653: nella Camera dei Comuni erano in netta maggioranza gli avversari della politica assolutistica del sovrano che procedettero a smantellare tutti i capisaldi del potere regio: soppressi i tribunali sottoposti all’influenza diretta del monarca, venne decretata l’inamovibilità dei giudici, furono dichiarate illegali e abolite la ship money e altre imposte, i vescovi vennero estromessi dalla Camera dei Lord e il re venne privato del diritto di sciogliere il Parlamento senza il consenso di quest’ultimo. Alla fine del 1641 lo scoppio di un’insurrezione cattolica in Irlanda si pose il delicato problema di chi dovesse condurre la repressione. il re tentò di arrestare gli oppositori (al Parlamento) grazie ad un drappello di uomini armati, ma il La riconquista della Catalogna fu possibile per il mutamento della situazione internazionale e per i timori dell’aristocrazia catalana di fronte al radicalizzarsi della lotta sociale. Un esercito monarchico poté così entrare a Barcellona nel 1652. Del tutto vani furono invece gli sforzi di Madrid per ricondurre all’obbedienza il Portogallo, la cui indipendenza verrà formalmente riconosciuta nel 1668. Capitolo 14 L’Italia del Seicento La popolazione e le attività economiche La penisola fu investita da tendenze involutive durante il 17° secolo. La prosperità di molte città dell’Italia centro – settentrionale si era basata sulla produzione di articoli di lusso, soprattutto tessuti, e sulla loro esportazione verso mercati lontani in Europa e nel Levante. Furono soprattutto queste attività ad essere duramente colpite dalla crisi del Seicento. Il declino fu particolarmente grave nel settore laniero (a Milano delle 70 fabbriche di pannilana attive verso il 1600 ne erano rimaste 15 nel 1640 e 5 nel 1680). Più contrastata era la situazione dell’industria serica (a Venezia, Milano e Genova la produzione cala drasticamente, a Firenze rimase stabile e crebbe verso la fine del secolo). Elementi che potrebbero attenuare l’impressione di un crollo totale delle economie urbane sono: il mantenimento di un alto livello artigianale nella fabbricazione di alcuni articoli di lusso (carrozze a Milano o i vetri a Murano). Fortissima contrazione complessiva delle lavorazioni industriali rivolte all’esportazione e con essa la perdita delle attività commerciali, assicurative e bancarie legate al movimento delle merci. Rispetto al Cinquecento l’economia italiana aveva, verso la fine del 1600, nel suo complesso recuperato le perdite dei decenni centrali (del ‘600), quello che era irrimediabilmente cambiato era il suo livello rispetto alle altre aree europee. Quali furono le cause di questo mutamento? 1. La concorrenza dei produttori dell’Europa nord – occidentale: le manifatture (di Venezia, Milano, Firenze e Genova) furono vittime della vittoriosa concorrenza dei produttori dell’Europa nord – occidentale, aree in cui era avvenuta già da tempo la conversione verso prodotti meno costosi e più richiesti dal mercato internazionale, come le new draperies inglesi, e le attività lavorative si erano decentrate nelle campagne (non c’erano i vincoli delle corporazioni e la manodopera costava meno) 2. Crisi di competitività dei produttori italiani: gli imprenditori italiani dovevano far fronte a costi del lavoro alti ma erano anche resistenti al mutamento tecnologico e all’innovazione qualitativa. 3. Il ruolo delle tasse: esigenze fiscali dei governi 4. Effetti della guerra dei Trent’anni e delle pestilenze: effetti devastanti della guerra dei Trent’anni nell’Italia settentrionale e in Germania e gravissime pestilenze nel 1630 – 1631 (Italia settentrionale e Toscana) e nel 1656 – 1657 (Mezzogiorno, Genova e Lazio) I vuoti aperti dalla peste furono colmati rapidamente: a fine Seicento la popolazione italiana era tornata sui livelli del 1600. A questa ripresa contribuirono le campagne in misura nettamente superiore alle città. L’agricoltura resse quindi molto meglio dell’industria e del commercio alle avversità. La diminuita richiesta di grani (conseguenza del calo demografico) favorì la diffusione di colture come la vite, il riso e il gelso. Dal Veneto cominciò a propagarsi il mais. La proliferazione dei gelsi era legata all’allevamento del baco da seta, il settore più dinamico in questo periodo dell’economia italiana. La gelsibachicoltura stimolò a sua volta le prime fasi della lavorazione della preziosa materia prima: la trattura (cioè il dipanamento della seta dal bozzolo, in bacinelle di acqua calda) e la torcitura del filo. La seta grezza e la seta filata divennero rapidamente la principale voce di esportazione degli Stati del nord d’Italia. Nelle campagne fiorivano anche la filatura e la tessitura del lino e della canapa, la produzione di tessuti di lana o di cotone ordinari e destinati ad un mercato regionale (per esempio nel Bergamasco, a Gallarate e Busto Arsizio), la fabbricazione di chiodi e attrezzi di ferro fecero notevoli progressi. A questi sviluppi rimase largamente estraneo il Mezzogiorno che, oltre al fiscalismo spagnolo dovette sopportare l’accresciuta pressione baronale. La vita sociale e la cultura La crisi economica approfondì il distacco tra i detentori della ricchezza fondiaria (nobiltà e clero) e le classi subalterne dedite al lavoro manuale nei campi o nelle botteghe artigianali. I capitali accumulati con l’industria e il commercio venivano investiti nell’acquisto di beni terrieri, i quali assicuravano solidità e prestigio. La preferenza per gli investimenti fondiari o di tipo usuraio rispondeva ad una logica economica in un’epoca caratterizzata da una forte ascesa dei prezzi agricoli e da crescenti difficoltà per i settori mercantili e manifatturieri. Rifletteva una mentalità aristocratica (in costante lotta per la “distinzione sociale”) che considerava disonoranti non solo il lavoro (arti meccaniche) ma tutte le attività intese al guadagno. Tratti distintivi dell’aristocrazia erano: culto del casato e della stirpe, la pratica dei duelli, la diffusione del fedecommesso e della primogenitura come strumenti di trasmissione dell’eredità. La stessa concezione gerarchica e conservatrice era inculcata dai rappresentanti della Chiesa. Il Pontefice esercitava anche fuori dei suoi confini poteri che nelle altre nazioni cattoliche erano delegati ai monarchi. Le organizzazioni ecclesiastiche detenevano una parte importante della ricchezza fondiaria, e i beni immobili in loro possesso erano inalienabili senza un’esplicita autorizzazione pontificia (per questo si parlava di manomorta). Preti, frati e monache erano sudditi del papa e per loro era rivendicata l’esenzione dalle imposte (immunità reale) e la dipendenza dai tribunali ecclesiastici e non da quelli civili (immunità personale). Anche i luoghi adibiti al culto godevano di una sorta di extraterritorialità, per cui i malfattori che vi si rifugiavano non potevano esservi arrestati senza il consenso dell’autorità ecclesiastica (diritto d’asilo). Anche nei confronti del laicato la Chiesa aveva un ruolo di primo piano in settori come la tenuta dei registri anagrafici, il controllo della moralità, l’istruzione, l’assistenza. L’autorità ed il prestigio di cui godeva il clero era il frutto di un’adesione massiccia degli italiani di ogni categoria sociale all’ortodossia cattolica e al magistero religioso e morale della Chiesa. Le uniche minoranze religiose che riuscirono a sopravvivere in Italia furono le comunità valdesi e gli ebrei (dovunque rinchiusi nei ghetti e sottoposti a discriminazioni). Tra le masse popolari si erano diffuse con grande successo le forme di devozione e di associazione diffuse dopo il Concilio di Trento (recitazione del rosario, processioni, pellegrinaggi, ecc.). le classi dirigenti vedevano nella Chiesa un garante dell’ordine sociale ma anche un conveniente sbocco per i cadetti e per le figlie non destinate al matrimonio. Alla marginalizzazione economica e politica e alla vigilanza stretta della Chiesa su ogni manifestazione del pensiero e dell’arte è legato l’impoverimento culturale che si osserva in questo periodo. Per non subire la sorte di Giordano Bruno o Galilei, la maggior parte degli intellettuali piegò la testa e si conformò ai dettami dell’autorità ecclesiastica. Le università conobbero una profonda decadenza. Le numerosissime accademie erano per lo più palestre di vacue esercitazioni poetiche e di sterile erudizione; non mancarono però le eccezioni come l’Accademia dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, degli Investiganti a Napoli. Filosofia e letteratura non registrano particolari migliorie. Contrariamente a queste ultime invece le scienze fisico – matematiche e naturali annoverano grandi pensatori: Cavalieri (calcolo infinitesimale), Torricelli (barometro). Il pensiero politico – sociale registra contributi notevoli. Nelle arti figurative e nell’architettura l’Italia mantenne a lungo il primato raggiunto in età rinascimentale: Caravaggio, Carracci, Salvator Rosa, Bernini e Borromini. Lo stesso si può dire della musica: è a Monteverdi che si deve l’invenzione di un nuovo genere, il melodramma. I domini spagnoli: Milano, Napoli e le isole A partire dal 1620 l’impegno della Spagna nella Guerra dei Trent’anni portò ad un forte aggravamento della pressione tributaria. Le classi dominati (patriziato a Milano, il baronaggio e il ceto togato nel Regno di Napoli) ne approfittarono per riaffermare il proprio controllo sulle istituzioni locali. Tra il 1628 e il 1658 lo Stato di Milano fu più volte trasformato in campo di battaglia dalle soldatesche. La sua importanza strategica, come nodo centrale nella “via spagnola”, indusse la corte di Madrid a trattare questi suoi sudditi con un certo riguardo. Ingenti somme furono fatte affluire dalla Spagna e dal Mezzogiorno per il mantenimento delle truppe. Questo contribuisce a spiegare la notevole ripresa demografica ed economica del Paese dopo la stipulazione della pace dei Pirenei tra Spagna e Francia (1659); e rende ragione anche della mancanza di rivolte e sommosse. Le conseguenze della crisi economica e politica che colpì la monarchia spagnola furono assai più gravi nel Mezzogiorno e nelle isole. Al di fuori di Napoli tutto il Regno era un unico gigantesco contado della capitale. L’indebolimento dell’autorità centrale doveva portare, e di fatto portò, a un’estensione a macchia d’olio del potere feudale. I feudatari, detti “baroni”, ottennero un ampliamento delle loro attribuzioni di giustizia e polizia, non solo l’infeudazione di comunità che erano sempre state demaniali, ma anche una sostanziale impunità per le estorsioni e le prepotenze commesse a danno dei vassalli. Il banditismo si trasformò in una forma di terrore baronale. Nella capitale risiedevano il viceré (rappresentante dell’autorità sovrana), il Consiglio collaterale e le numerose magistrature giudiziarie e finanziarie. A Napoli l’egemonia della nobiltà era contrastata dalla presenza di un forte “ceto civile”, composto da laureati in giurisprudenza di origine borghese che miravano ad elevarsi socialmente e a diventare la nuova classe dirigente. Anche nel Regno di Sicilia la popolazione crebbe notevolmente. Palermo era il naturale centro di raccolta della nobiltà feudale, che aveva tratto notevoli benefici dall’esportazione dei cereali. Messina doveva la sua prosperità allo sviluppo dei traffici e a una fiorente industria serica. L’interlocutore principale dell’autorità sovrana era in Sicilia il Parlamento composto dai tre bracci: feudale, ecclesiastico e demaniale. Anche qui si assistette ad un rafforzamento del baronaggio a spese delle masse contadine, sottoposte a sfruttamento, e degli strati artigiani, vittime degli inasprimenti fiscali e della crisi economica. La Sardegna, più povera e meno popolata, era caratterizzata dalla prevalenza della pastorizia sull’agricoltura. Il governo spagnolo istituì nel 1564 un nuovo tribunale supremo (la Regia udienza) e concedendo a Cagliari e a Sassari, l’apertura di studi universitari agli inizi del Seicento. Nei decenni centrali del secolo il prelievo fiscale, le carestie e le pestilenze cancellarono i timidi progressi e determinarono l’inizio di una fase di stagnazione secolare. Le rivolte nell’Italia meridionale e insulare Una grave carestia e il malcontento creato dal fiscalismo spagnolo furono all’origine del fermento popolare a Palermo: 1647 saccheggi e incendi di case. Più profonda e prolungata fu la crisi del dominio spagnolo nel Mezzogiorno continentale. A Napoli la causa immediata della rivolta (luglio 1647) fu una nuova gabella che colpiva la vendita della frutta. La direzione del movimento fu assunta da Masaniello. Estesi moti scoppiavano anche nelle province contro i baroni e gli sgherri. Ad ottobre gli insorti napoletani proclamarono la repubblica e invocarono la protezione del re di Francia. L’appoggio dei francesi fu tiepido e la Repubblica Napoletana capitolò ai primi di aprile del 1648. Il fallimento della rivolta antispagnola a Napoli determinò un aggravamento della crisi economica e sociale e chiuse per sempre la prospettiva della formazione di un fronte antifeudale comprendente i ceti medi e popolari urbani e le masse rurali. I viceré spagnoli che si succedettero nella seconda metà del Seicento condussero un’azione di contenimento della prepotenza baronale, di repressione del banditismo e di promozione del ceto civile e ministeriale. Anche in Sardegna lo scontro tra nobiltà isolana e potere vice regio culminò nell’omicidio del viceré marchese di Camarassa (1668). Un ultimo tentativo rivoluzionario ebbe luogo a Messina: dopo una prima sommossa popolare contro il carovita (1672) si arrivò nel 1674 alla formazione di un fronte sociale ostile al dominio spagnolo e favorevole all’instaurazione di una repubblica indipendente. Gli insorti messinesi chiesero soccorso a Luigi XIV (in guerra contro la spagna) che inviò una squadra navale. Il resto dell’ isola rimase però fedele alla sovranità spagnola e alla conclusione della pace (1678) la guarnigione francese evacuò la Sicilia, lasciando Messina alla dura repressione. I principati indigeni: Ducato di Savoia e Granducato di Toscana Il regno di Carlo Emanuele I (1580 – 1630) del Ducato Sabaudo fu contraddistinto da iniziative espansionistiche che contribuirono al rafforzamento interno dello Stato e alla costruzione di un apparato militare e fiscale tale da permettere al Piemonte di giocare una parte consistente sulla scena internazionale tra Sei e Settecento. Col trattato di Lione del 1601 cedette al re di Francia la Bresse, il Bugey e altri territori transalpini e ottenne il Marchesato di Saluzzo confermando la tendenza al progressivo radicamento in Italia del Ducato sabaudo. Negli anni successivi rivolse le sue ambizioni in direzione orientale, il Monferrato (soggetto ai Gonzaga di Mantova) e verso i territori compresi nel Ducato di Milano. Priva di risultati fu la prima guerra del Monferrato (1614 – 1615), la seconda guerra (1628 – 1630) vide i piemontesi alleati con gli spagnoli contro i francesi. Il trattato di Cherasco L’esempio della giustizia è il più adatto a mostrare i limiti dell’assolutismo francese: la legislazione regia, che in linea di principio valeva per tutti, lasciava scoperte molto aree, specialmente del diritto privato e familiare. Analogamente, in campo amministrativo e fiscale, gli Stati provinciali ( Pays d’etats) conservavano importanti poteri, come la possibilità di contrattare con la corona l’ammontare delle imposte da pagare e di provvedere poi alla ripartizione e alla riscossione mediante propri organi. La corte e il Paese A partire dai primi anni Ottanta, la corte si trasferì a Versailles. Nel palazzo e negli edifici annessi giunsero ad essere ospitate quasi diecimila persone. Una rigida etichetta regolava la vita di corte. Le qualità proprie di questo vivere cortigiano si ritrovano nella grande letteratura del periodo: dal teatro di Moliere alle Massime di La Rochefoucauld. La letteratura, l’arte e la vita musicale trovarono per un certo periodo il loro centro ispiratore nella corte. Versailles era una prigione dorata perché riduceva l’indipendenza e le possibilità di azione politica della nobiltà francese. Durante il regno di Luigi XIV non si avranno più episodi di anarchia nobiliare. Fuori dalla corte il Paese contava 20 milioni di francesi. Oltre l’80% della popolazione viveva sulla terra e della terra. Le tecniche agricole non avevano subito avanzamenti tecnologici. Investimenti di capitale, consistenti scorte animali e tecniche agricole più avanzate erano presenti nelle aree contigue ai Paesi Bassi e nelle rare aziende di grandi dimensioni delle zone intorno a Parigi. La scarsa produttività dell’agricoltura era legata alla struttura della proprietà, alle forme di conduzione prevalenti (mezzadria, piccolo affitto) e all’entità del prelievo che gravava sui coltivatori del suolo. Vi era una diffusa proprietà contadina (pari alla metà della superficie coltivata). Il “contadino tipo” per campare tutto l’anno con la propria famiglia aveva bisogno di prendere altra terra in affitto o a mezzadria, di lavorare a giornata, di integrare il lavoro agricolo con un lavoro a domicilio per l’industria, per lo più di filatura o tessitura. Il frutto complessivo di tali attività (a parte il prelievo del padrone del fondo) era soggetto ad una serie di prelievi che ne sottraevano una quota variabile tra il 20 e il 60%. Il feudatario del luogo esigeva un censo annuo su tutte le terre sotto la sua giurisdizione e localmente anche una quota parte del raccolto, prestazioni di lavoro gratuite, tasse di successione, percentuali sulla compravendita dei poderi; esercitava il monopolio delle principali attività di trasformazione dei prodotti del suolo (forno, mulino, frantoio) e deteneva diritti esclusivi di caccia e di pesca. A questi si aggiungevano le decime riscosse dal clero e il prelievo statale sotto forma di imposte dirette o indirette. Non stupisce quindi che la grande maggioranza degli abitanti delle campagne vivesse ai limiti della sussistenza. La direzione dell’economia Colbert si propose due obiettivi: rimediare al grave dissesto dei conti pubblici e rilanciare l’economia francese. Il primo obiettivo fu perseguito mediante la Camera di giustizia straordinaria per indagare sugli illeciti arricchimenti che erano stati messo in piedi sfruttando i lunghi anni di guerre che avevano caratterizzato i decenni centrali del XVII secolo. A forza di multe e confische fu possibile rastrellare varie decine di milioni di lire e diminuire quindi il debito pubblico. Ciò permise di ridurre di circa un terzo il peso della taglia e di raggiungere un sostanziale pareggio fra entrate e uscite nel decennio 1662 – 1671. Nel programma di Colbert all’agricoltura era assegnato il compito subalterno di produrre viveri a basso costo: per questo non si hanno provvedimenti particolari a favore delle campagne. Lo sforzo principale era concentrato sulle manifatture che lavoravano per l’esportazione e sul commercio con l’estero (per accrescere la massa di denaro circolante all’interno del Paese). Per raggiungere questi obiettivi Colbert pose in atto una complessa strategia: 1. Controllo sulla qualità dei prodotti: mediante l’introduzione di minuziosi regolamenti, ispezioni, marchi di fabbrica, ecc. 2. Controllo della manodopera attraverso l’imposizione di una rigorosa disciplina e la reclusione coatta dei mendicanti nelle casi di lavoro 3. Concessione di sovvenzioni e privilegi agli imprenditori disposi a introdurre nuovi rami d’industria; creazione di imprese con capitale pubblico (manifatture regie) 4. Protezionismo doganale 5. Costituzione di compagnie privilegiate per il commercio con le varie aree del globo (come le due Compagnie delle Indie 1664) 6. Sviluppo della marina mercantile e da guerra; potenziamento delle infrastrutture atte ad agevolare la circolazione degli uomini e delle merci Molte delle iniziative di Colbert frutteranno a distanza di tempo, nel favorevole clima politico ed economico del regno di Luigi XV. La direzione delle coscienze Il regno di Luigi XIV è caratterizzato dallo sforzo di dettare regole valide per tutti, di imporre l’ordine e l’uniformità, nei comportamenti, nei gusti e nelle idee. A questa tendenza non si sottraeva la vita religiosa. In questo settore Luigi XIV affrontò tre problemi: 1. Diffusione della corrente giansenista: i giansenisti ponevano l’accento sull’interiorità della fede e svalutavano l’apparato delle devozioni esteriori. Seguivano sant’Agostino e sostenevano l’importanza fondamentale della grazia. Roccaforte del movimento era il monastero di Port – Royal. Qui si erano ritirati a vivere e a meditare alcuni prelati e intellettuali di grande prestigio (Pascal). La condanna definitiva da parte della Santa Sede fu pronunciata solo nel 1711. Il giansenismo si era però largamente diffuso trasformandosi in un movimento di opposizione al centralismo papale e di rivendicazione dell’autonomia e della dignità dell’ufficio di vescovi e parroci, diventando una fonte di preoccupazione per lo stesso potere monarchico. 2. Contrasti con Roma: dovuti alla régale (diritto regio, sancito dal concordato di Bologna del 1516, di percepire le rendite dei seggi vescovili vacanti e di conferire i benefici ecclesiastici da essi dipendenti fino alla presa di possesso del successore). Nel 1673, Luigi XIV estese questo diritto a tutte le diocesi di nuovo acquisto, suscitando la dura reazione della Santa Sede. I contrasti si conclusero con il riconoscimento della régale. 3. Questione ugonotta: i calvinisti erano circa un milione. Nel 1685 venne emanato l’editto di Fontainebleau (che annullava l’editto di Nantes) e faceva obbligo a tutti i francesi di riconoscere e praticare il culto cattolico. Oltre duecentomila ugonotti scelsero la via dell’esilio (artigiani, mercanti, professionisti che andarono ad arricchire paesi come l’Olanda, l’Inghilterra e la Prussia) La gloria militare: le guerre di Luigi XIV Luigi XIV aveva in mente un disegno egemonico che aveva i suoi principali strumenti nella diplomazia e nella guerra. Massicce furono le spese militari. L’esercito fu riorganizzato (da 65.000 uomini nel 1667 a 400.000 nel 1705). Nel 1668 fu introdotta la coscrizione obbligatoria: la “milizia” con compiti di difesa locale (sorteggio tra i celibi di ogni parrocchia). Grande sviluppo ebbero i corpi dell’artiglieria e del genio; le piazzeforti vennero fortificate dall’architetto militare de Vauban. Le linee direttrici della politica di espansione militare di Luigi XIV furono concentrate contro le Fiandre e l’Olanda, e in direzione della Germania e dell’Italia del Nord. La prima guerra fu quella di Devoluzione contro la Spagna: per rivendicare parte dell’eredità spagnola della moglie Maria Teresa, figlia del defunto re di Spagna Filippo IV. Pace di Aquisgrana (1668) riconosciuti al redi Francia i vantaggi territoriali acquisiti nelle Fiandre. Nel 1672 la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra alle Province Unite. Gli olandesi opposero la decisione di aprire le dighe che riparavano dalle acque le province di Utrecht e della Gheldria, trasformando così l’Olanda in un’isola difficilmente accessibile. Luigi XIV firma la pace di Nimega (1678): la Spagna gli cederà la Franca Contea e dei lembi delle Fiandre. Il Re Sole riprese la sua politica di espansione in direzione dell’Impero occupando Strasburgo e Casale Monferrato. Nel 1683 – 1684 riaprì inoltre le ostilità contro la Spagna: Genova (alleata degli spagnoli) fu sottoposta ad un pesante bombardamento dal mare. Fu inevitabile il ricostituirsi di una coalizione europea. 1686: stipulata ad Augusta la Lega difensiva tra Spagna, Impero, Svezia e Olanda. Erano così poste le premesse per il riaccendersi di un conflitto continentale. Il fattore scatenante fu l’invasione militare del Palatinato ordinata da Luigi XIV nel 1688. Nel 1689 alla Lega aderì anche l’Inghilterra e il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, desideroso di sottrarsi alla tutela francese. Nel 1696 Luigi XIV stipulò una pace separata col duca di Savoia, cui cedette la fortezza di Pinerolo. La pace generale firmata nel 1697 ristabilì la situazione precedente al conflitto e annullò in parte le annessioni francesi. Il tramonto del Re Sole Il peso della guerra divenne per i sudditi sempre più intollerabile. Si istituirono nuove imposte: nel 1695 la capitazione (imposta sull’individuo), nel 1710 il decimo, prelievo in percentuale su qualsiasi tipo di reddito. Al malessere generale fa riscontro l’incupirsi della vita di corte a Versailles. L’opposizione sorda contro l’assolutismo di Luigi XIV si manifestava in vari modi: sommosse popolari, contestazione degli operatori economici, rivendicazioni di maggiori poteri da parte di esponenti dell’alta aristocrazia, ecc. Anche nella filosofia, nella vita religiosa, nella letteratura e nell’arte si affermavano nuovi indirizzi che ponevano in discussione i principi sostenuti e imposti dalla corte. Gli ultimi anni di Luigi XIV furono segnati anche da lutti familiari. Il 1° settembre 1715 a Parigi si accesero fuochi di gioia alla notizia della morte del vecchio despota. Capitolo 17 I nuovi equilibri europei tra Sei e Settecento La gloriosa rivoluzione e l’ascesa della potenza inglese La monarchia Stuart era stata restaurata nel 1660: Carlo II Stuart (1660 – 1685) godette di una certa libertà di manovra grazie all’incremento naturale delle entrate ordinarie (per aumento dello sviluppo dei traffici e dei consumi) e per effetto del trattato stipulato nel 1670 a Dover con il re di Francia che si impegnava a versagli un consistente sussidio annuo (in cambio dell’aiuto contro l’Olanda). Le evidenti inclinazioni filocattoliche del monarca suscitarono sospetti e ostilità di un’opinione pubblica sensibile al pericolo del papismo (Carlo non aveva eredi e il fratello, Giacomo, era un fervente cattolico). Nel 1673 il Parlamento votò un Test Act che subordinava l’assunzione di cariche civili o militari ad una professione di fede anglicana. Di fronte a questi problemi si disposero due schieramenti politici:  I tories, in gran parte rappresentanti degli interessi agrari della gentry, erano fautori della monarchia di diritto divino, del legittimismo dinastico, della Chiesa anglicana;  I whigs, che si identificheranno sempre con gli interessi dei ceti commerciali e urbani, sostenitori del Parlamento e di un vasto fronte protestante comprendente le sette dissenzienti della Chiesa d’Inghilterra. Dopo il 1680 la politica regia (sotto Giacomo) si sviluppò in senso assolutistico. Giacomo II (1685 – 1688) si adoperò subito per il rafforzamento dell’esercito. Le disposizioni del Test Act vennero annullate nel 1687 da una Dichiarazione di indulgenza. Nel 1688 nacque a Giacomo un figlio maschio dando corpo a preoccupazioni per un radicamento di una dinastia cattolica. I maggiori esponenti whig e tory si accordarono per rivolgere un appello a Guglielmo III d’Olanda che aveva spostato una figlia di Giacomo II, Maria Stuart. Guglielmo intervenne facendo scappare il re in Francia. Un “ Parlamento di convenzione” convocato da Guglielmo dichiarò il trono vacante e offerse la corona congiuntamente a Guglielmo e a Maria, che si impegnarono ad osservare una Dichiarazione dei diritti (1689). A questa Dichiarazione fece seguito un Atto di tolleranza che abrogò le pene commesse negli anni Sessanta per dissenso religioso. Nel 1694 seguirà il Triennial Act imponeva l’elezione di un Parlamento almeno ogni tre anni, l’abolizione della censura sulla stampa e l’Act of Settlement del 1701 che fissava l’ordine di successione al trono in modo da escluderne i cattolici. La Gloriosa Rivoluzione del 1688 – 1689 fu una svolta che sbarrò per sempre la strada dell’assolutismo e aprì la via verso la monarchia costituzionale e, successivamente, ad un governo di tipo parlamentare. Conseguentemente a questa svolta Locke pubblicò nel 1690 i Due trattati sul governo , in cui si schierava contro la monarchia assoluta e a favore della teoria del contratto sociale. L’Inghilterra fece ingresso nella coalizione europea e nel 1689 aprì le ostilità contro la Francia (le ostilità durarono fino al 1713). L’espansione delle spese militari contribuì a determinare una serie di importanti novità in campo fiscale e amministrativo. Queste però non furono sufficienti e si verificò una forte crescita del debito pubblico, per la cui gestione venne fondata nel 1694 la Banca d’Inghilterra, abilitata a emettere buoni che circolarono ben presto come carta moneta. L’onere delle imposte gravava sui proprietari terrieri, questo spiega l’ostilità della gentry di campagna, schierata su posizioni tory, contro la politica estera aggressiva voluta dai whigs, sui quali la monarchia si appoggiò costantemente a partire dal 1690 fino al 1710. Questo conflitto di interessi assunse il carattere di una contrapposizione tra “ il partito del Paese” e il “partito della corte”. Gli sforzi di Pietro furono diretti al potenziamento dell’esercito e della marina: a tale scopo venne esteso a tutta la popolazione l’obbligo del servizio militare. La necessità di armare ed equipaggiare queste moltitudini di soldati e marinai fu la principale molla dell’impulso dato alla siderurgia e alla metallurgia, alle manifatture tessili e alle costruzioni navali. L’economia russa rimaneva però fondamentalmente agricola e caratterizzata dall’autoconsumo. Il grosso dei nuovi introiti per finanziare l’apparato militare venne da un aggravamento dell’onere sui contadini. Le maggiori innovazioni furono introdotte negli organi di governo: la Duma fu sostituita da un Consiglio nominato dallo zar che nel 1711 prese il nome di Senato. Per la direzione degli affari ecclesiastici venne creato un collegio denominato Santo Sinodo (Pietro intendeva spezzare l’opposizione del clero alla sua politica di modernizzazione e occidentalizzazione della Russia). L’amministrazione locale fu riordinata mediante la divisione del territorio in governatorati. Per i quadri dell’amministrazione civile così come dell’esercito si fece ricorso alla nobiltà inquadrata nella Tabella dei ranghi (il raggiungimento dell’ottavo livello conferiva automaticamente la nobiltà ereditaria). Caratteristica della nobiltà rimase la mancanza di un’organizzazione corporativa, di privilegi e “libertà”. Infine Pietro I promosse l’istruzione e l’attività editoriale (Accademia delle Scienze di Pietroburgo). La nascita dello Stato prussiano Il Brandeburgo era costituito da territori discontinui ed eterogenei, ciascuno dei quali aveva i propri “ceti” che votavano le imposte e provvedevano all’amministrazione del territorio. Federico Guglielmo di Hohenzollern ottenne dai nobili che dominavano nella Dieta di Brandeburgo i mezzi per la costituzione di un piccolo esercito permanente. Nel 1660 egli acquisì con la pace di Oliva la piena sovranità sulla Prussia. I grandi proprietari fondiari, detti Junker, esercitavano un dominio pressoché assoluto sui contadini, che lavoravano gratuitamente le loro terre. Gli Junker ottennero di essere impiegati al servizio del re, soprattutto come ufficiali dell’esercito. Le premesse per l’ascesa della potenza prussiana furono poste da Federico Guglielmo I (1713 – 1740) detto il “re sergente” per la sua passione per le cose militari. Egli:  ridusse al minimo le spese per la corte e dedicò le sue migliori cure alla formazione di un forte esercito; introdusse la coscrizione obbligatoria.  I mezzi finanziari per il mantenimento dell’esercito furono forniti dal demanio regio (terre di proprietà dello Stato furono date in affitto).  Fu riorganizzata la percezione delle due imposte principali, la contribuzione (tassa fondiaria che gravava essenzialmente sui contadini, e l’accisa, tassa sui consumi della popolazione urbana.  Al vertice dell’edificio amministrativo venne istituito nel 1723 un Direttorio generale della guerra, delle finanze e del demanio.  La burocrazia era reclutata tra la borghesia colta ed era sottoposta alla volontà del sovrano.  Promozione delle manifatture e degli scambi  Ripopolamento e colonizzazione della Prussia orientale (colpita da una grave epidemia di peste nel 1709). Capitolo 18 Una nuova epoca di espansione L’aumento della popolazione europea Il ristagno della popolazione ebbe termine tra la fine del 1600 e il 1740. Dal 1650 tutto il vecchio continente è investito da un moto espansivo. L’espansione settecentesca ha carattere irreversibile: non sarà quindi seguita da una fase di arresto, ma da un’ulteriore accelerazione dello sviluppo. L’aumento della popolazione fu del 63,5% (115 milioni nel 1700, 140 nel 1750, 188 nel 1800). Tra le spiegazioni globali del fenomeno: l’influsso positivo di un miglioramento generale del clima; il calo della mortalità attribuito ad una migliore alimentazione; condizioni igienico – sanitarie meno disastrose; minore incidenza di peste, fame e guerra. Tra le cause della scomparsa della peste: progressiva immunizzazione degli organismi, crescente efficacia dei cordoni sanitari predisposti dai governi, rarefazione del ratto nero. (rimanevano però altre malattie a carattere epidemico (difterite, vaiolo, ecc.). L’aspettativa di vita media in Europa attorno al 1700 era di circa trent’anni. La diminuita gravità delle carestie può essere spiegata dalla maggiore rapidità dei trasporti e con l’accresciuta efficacia degli interventi governativi nelle aree colpite. (Es. dell’Irlanda: il ritmo di crescita demografica è spiegato con al diffusione della patata) Le guerre combattute dopo il 1720 fecero meno danni e meno vittime. Aumento della natalità come causa concomitante dell’incremento demografico: calo dell’età al matrimonio della donna, diminuzione percentuale del celibato, diffusione del lavoro salariato. L’evoluzione dell’agricoltura La diffusione di mais e grano saraceno nell’alimentazione delle classi popolari consentì in molti casi un balzo in avanti della popolazione. (l’aumento della produzione agricola fu ottenuto con l’estensione della superficie coltivata e l’intensificazione del lavoro contadino). I rendimenti rimasero per lo più modesti. Il concime animale era scarso, erano largamente predominanti la rotazione triennale e il sistema dei campi aperti. Nel Settecento si allargarono le aree in cui si praticava un’agricoltura più intensiva e produttiva: in Italia si verifica l’espansione (verso il Veneto e il Piemonte) delle tecniche in uso nella bassa pianura lombarda (fitta rete di acque permette la coltivazione del riso e delle piante foraggere che consentono l’alimentazione di un grande numero di vacche da latte, da cui la produzione di prodotti lattiero – caseari). Questo tipo di gestione presupponeva la costituzione di aziende compatte di ragguardevoli dimensioni, la presenza di una rete commerciale e di sbocchi per la produzione di cereali, fieno, latticini e formaggi. Tutti requisiti che mancavano in gran parte dell’Italia e dell’Europa, il che spiega la lentezza dei processi di modernizzazione. In Inghilterra il fenomeno delle “recinzioni” conobbe un momento di maggiore intensità tra il 1750 e il 1815. Questo processo si era verificato solo dopo un processo di trasformazione che aveva avuto il suo culmine nella redistribuzione e nell’accorpamento delle terre, portando quindi ad una complessa ricomposizione fondiaria (che prevedeva l’accordo di tutti i proprietari del villaggio). Venne quindi introdotta (nel 1700) una procedura per cui: i maggiori proprietari di una comunità presentavano una domanda al Parlamento, che emetteva uno speciale “decreto di recinzione” e nominava un perito agrimensore per effettuare la redistribuzione delle terre. I piccoli proprietari erano spesso indotti a vendere e a trovare lavoro come fittavoli o salariati nelle grandi aziende. I benefici delle recinzioni furono raccolti soprattutto dai grandi proprietari (aumento dei canini d’affitto). Progressi in agricoltura: “ciclo del Norfolk” (un anno a frumento, uno a rape, uno a orzo e uno a trifoglio), impianto di marcite. Progressi nell’allevamento: tecniche di incrocio tra le razze animali, selezione delle sementi, perfezionamento degli attrezzi agricoli. Gli incrementi di produttività consentirono di mantenere una proporzione crescente di non addetti all’agricoltura. Prezzi e salari, moneta, trasporti L’interesse per l’agricoltura si spiega con la tendenza all’ascesa dei prezzi e quindi con l’aumento dei profitti e dei redditi legati alla commercializzazione delle derrate e al possesso della terra. I salari rimasero nettamente indietro (rispetto ai prezzi). All’origine del rialzo dei prezzi agricoli vi è l’aumento della domanda legato all’incremento demografico. Ad accentuare il fenomeno contribuì un grande processo di inurbamento e la crescita esponenziale delle principali città europee (facendo così salire le spese di trasporto). L’incremento della popolazione diede avvio, in molte aree, ad un processo di impoverimento e di proletarizzazione di vasti strati sociali (Malthus non aveva tutti i torti quando nel 1798 si allarmò per una crescita demografica che sembrava destinata a sopravanzare le risorse disponibili). Un altro fattore di inflazione fu rappresentato dall’aumento della massa di metalli preziosi in circolazione. La massa dei mezzi di pagamento fu accresciuta dal ricorso alle cambiali e, in Inghilterra, alle banconote. La diffusione dell’economia monetaria e la maggiore disponibilità di capitali per i più diversi impieghi sono attestate dalla discesa dei saggi di interesse che dall’Olanda si estese all’Inghilterra, alla Francia e ad altri paesi europei abbassando il costo del denaro. A ciò contribuì anche la stabilizzazione della moneta. Un altro fattore che portò alla rapida e intensa circolazione del denaro, delle merci e degli uomini fu il miglioramento dei trasporti. Gli spostamenti e le comunicazioni divennero molto più rapidi anche grazie all’istituzione di regolari servizi di posta. Il boom del commercio e lo sviluppo dell’America Latina Il 1700 fu un’età aurea per il commercio internazionale. Il contributo maggiore allo sviluppo dei traffici venne dall’Oceano Indiano e dall’Atlantico, grazie all’espansione del commercio inglese e francese con le colonie. L’aumento della popolazione del Nuovo Mondo fu dovuto sia all’immigrazione di europei e alla tratta dei neri africani, sia ad un tasso di riproduzione particolarmente elevato. Lungo le coste sudamericane del Pacifico prevaleva la coltivazione dei cereali, della vite e degli alberi da frutta; il Messico conobbe la fioritura dell’industria tessile e della lavorazione delle pelli. La concentrazione della proprietà terriera in poche mani, favorì la formazione di enormi latifondi dove si praticavano un’agricoltura estensiva e un allevamento brado. La manodopera era costituita dagli indios sopravvissuti e dai meticci, non più schiavi, ma vincolati ai datori di lavoro da contratti iniqui e dall’indebitamento (lo stesso modello fu seguito nelle pampas argentine). La presenza portoghese in Brasile portò allo sviluppo della produzione dello zucchero. A sud i coloni organizzavano spedizioni verso l’interno per catturare indios da vendere come schiavi: fu proprio durante una di queste spedizioni che, nel 1693, furono scoperte grandi quantità d’oro, e più tardi di diamanti, nella regione di Minas Gerais. Alla fine del Settecento anche il ciclo dell’oro era in via d’esaurimento. La coltivazione della canna da zucchero trovò terreno anche nelle Grandi Antille e nelle Piccole Antille (furono soprattutto inglesi e francesi a svilupparne la produzione facendola diventare una monocoltura). I caratteri originali della Rivoluzione industriale “Rivoluzione industriale” designa un complesso di trasformazioni nel modo di produrre i manufatti, in cui sono compresi la diffusione su larga scala di macchine azionate da energia inanimata, la conseguente concentrazione del lavoro nelle fabbriche, il rapido e vistoso aumento della produttività, un corrispondente allargamento del mercato di vendita, e i mutamenti nei consumi, negli stili di vita, nei rapporti e nelle strutture sociali. La fase del decollo vero e proprio della Rivoluzione Industriale è da collocarsi in Gran Bretagna tra il 1780 e il 1830. I progressi dell’agricoltura furono nei secoli XVII e XVIII il motore dello sviluppo complessivo: dalla terra provenivano quasi tutte le materie prime utilizzate dalle manifatture e data l’importanza cruciale dell’energia animale per i trasporti e per molte attività industriali). Ruolo fondamentale all’avvio della Rivoluzione Industriale ebbe il carbone fossile: rappresentava una riserva di energia potenziale alla quale si poteva attingere in una scala di gran lunga superiore a quella di qualunque flusso di energia di origine organica. L’essenza della Rivoluzione Industriale sta proprio nella transizione da un’economia organica avanzata ad un’economia a base minerale. Una tappa cruciale fu la trasformazione dell’energia termica in energia meccanica ottenuta con la macchina a vapore. La stessa agricoltura sarà rivoluzionata da questo processo (introduzione delle macchine, dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi). Gli incrementi di produttività ottenuti furono tali da consentire (nell’Ottocento inoltrato) un aumento demografico autosostenuto e un progressivo miglioramento dei salari e del tenore di vita. Limiti: la manifattura era poco adatta alla produzione di massa (se le vendite aumentavano il mercante – imprenditore doveva estendere l’area della lavorazione a domicilio senza però poi riuscire ad esercitare un adeguato controllo sulla qualità né tutelarsi contro i furti e le sottrazioni); era molto difficile accelerare i ritmi produttivi. Per compiere il salto verso il nuovo sistema di produzione occorrevano altri requisiti (che si trovavano solo in Inghilterra): domanda in continua espansione; accesso ad un mercato molto vasto; capacità tecnica e inventiva per risparmiare lavoro; disponibilità di capitali; fiducia nella stabilità del quadro politico e legislativo. Dall’età del cotone all’età del ferro Nei primi decenni del Settecento la manifattura più importante in Inghilterra rimaneva quella della lana. Solo a partire dal 1780 si ebbe un vero decollo della produzione inglese di cotonate, e solo dopo il 1810 la loro esportazione superò in valore quella dei tessuti di lana. Ragioni del boom dell’industria cotoniera:  Voltaire: si accostò alla corrente dell’assolutismo o dispotismo “illuminato” per cui solo chi è al di sopra di tutti può avere una chiara visione degli interessi generali e agire senza essere condizionato da egoismi e da ostacoli di varia natura  Rousseau: esponente dell’orientamento democratico. Nel suo Discorso sull’origine dell’ineguaglianza (1755) il passaggio dell’uomo dallo “stato di natura” allo “stato sociale” aveva dato inizio ad un processo di degenerazione morale i cui sintomi erano le enormi disuguaglianze sociali, il lusso sfacciato dei ricchi, la corruzione imperante e la stessa raffinatezza delle arti e delle tecniche. Per uscire da questa situazione l’unica via era una rifondazione della società, attraverso la cessione totale di tuti i propri diritti, da parte di ciascun membro del corpo sociale, alla comunità. La volontà generale non limita la libertà dell’individuo ma la potenzia. La sovranità, che risiede nel popolo, è per sua natura inalienabile e indivisibile. Al fondo di questa visione vi è l’idea della necessaria coincidenza tra il bene comune e l’interesse individuale. Nel Contratto sociale (1762) mostra come attraverso l’educazione è possibile forgiare l’uomo nuovo. Vivere secondo natura. Correnti europee dell’Illuminismo Nelle isole britanniche alcuni dei contributi più significativi e originali provennero dalla Scozia: Hutcheosn, Hume, Robertson e Smith. La fioritura della narrativa, espressione della nuova socialità, fu opera di scrittori inglesi come Defoe e Richardson. Nei paesi di lingua tedesca rimase viva per tutto il Settecento la corrente del giusnaturalismo che sosteneva l’esistenza di un diritto naturale anteriore al costituirsi delle singole formazioni politiche e comune a tutti gli uomini. L’incontro tra il filosofo Herder e Goethe nel 1770, fu uno degli eventi da cui scaturì il movimento letterario detto Strum und Drang (“tempesta e assalto”), in cui si mescolarono motivi illuministici e tratti preromantici. Nella figura di Goethe e nella costruzione filosofica di Kant si compendia il grande contributo della cultura tedesca alla transizione tra la stagione dei Lumi e l’età del Romanticismo e dell’idealismo. Gli illuministi italiani si occuparono delle riforme da operare nei vari settori per ridurre i privilegi e i poteri della Chiesa, promuovere il progresso agricolo ed economico, razionalizzare e rendere più equo il prelievo fiscale, ammodernare il diritto e l’amministrazione della giustizia. Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria denunciava le assurdità e l’inumanità delle procedure giudiziarie in uso. Dovunque al linguaggio dei doveri tese ad affiancarsi e a sostituirsi il linguaggio dei diritti, presto rilanciato dall’insurrezione delle tredici colonie nord – americane e dalla Rivoluzione francese: diritti di libertà e di sicurezza della persone e dei beni che sono il patrimonio innato di ogni uomo. Una nuova scienza: l’economia Fino alla metà del Settecento le idee economiche si possono ridurre al mercantilismo: si pensava che spettasse ai governi operare per lo sviluppo della popolazione e dell’economia nazionale, al fine di trarne le risorse necessarie ad una politica di potenza. Nella seconda metà del secolo prese forma (in Francia e Inghilterra) una nuova concezione della vita economica come un sistema di rapporti tra gli uomini e le classi sociali regolato da “leggi naturali” che i governi non possono impunemente violare. Tali idee furono affermate in Francia dalla scuola fisiocratica (“regno della natura”). Presupposti della dottrina fisiocratica: 1. Convinzione che solo l’agricoltura sia produttrice di una nuova ricchezza, mentre le manifattura e il commercio si limitano a trasformare quella esistente. La massima produttività dell’agricoltura è condizionata dalla formazione di aziende compatte e di grandi dimensioni. 2. Il surplus derivato in queste condizioni dall’attività agricola, costituisce la rendita fondiaria che i fittavoli devono ai proprietari del suolo a titolo di compenso delle anticipazioni fondiarie Su queste premesse si basa il Tableau économique, lo schema elaborato nel 1756 da Quesnay di circolazione delle ricchezze tra le tre classi economiche: la classe proletaria, la classe produttiva e la classe sterile (artigiani e commercianti). Conseguenze della teoria fisiocratica sulla politica economica dei governi: non dovevano danneggiare l’attività agricola con tasse e balzelli mal consegnati (l’unica imposta legittima è quella che preleva direttamente dai proprietari una parte del prodotto netto, il surplus); dovevano lasciare completamente libero il commercio delle derrate, solo il libero gioco del mercato consente ai prodotti agricoli di raggiungere il loro “giusto prezzo” (cioè un prezzo remunerativo per gli agricoltori). La tendenza liberista propria dei fisiocratici fu rielaborata da Adam Smith nella sua grande opera Indagine sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776): il più importante fattore di progresso economico è la divisione del lavoro. In comune con i fisiocratici Smith ha la fede nell’esistenza di un ordine naturale benefico per cui è necessario che i governi lascino agire liberamente i meccanismi della domanda e dell’offerta di beni e servizi, e non intralcino il mercato con dazi, vincoli o privilegi. Il grande successo di Smith è in rapporto con la sua rispondenza ai caratteri della nascente società industriale e con la giustificazione scientifica che forniva alla ricerca del profitto. La circolazione delle idee Due fenomeni tipici dell’età dei Lumi furono la circolazione delle idee e delle conoscenze in strati sociali molto più ampi e la formazione di un’opinione pubblica (esprime il consenso delle persone colte e illuminate e si forma attraverso la lettura di libri e giornali, la conversazione, gli scambi epistolari, le manifestazioni di socialità). Le istituzioni scolastiche rimasero dominate dalla tradizione per cui nelle università, si mantenne la vecchia tripartizione nelle facoltà di Teologia, Giurisprudenza e Medicina. L’alfabetizzazione fece notevoli progressi nel 18° secolo. Grande fortuna ebbero le opere di divulgazione come Enciclopedia (Diderot e d’Alembert) con impronta prevalentemente tecnico - scientifica. Un posto di rilievo nell’editoria settecentesca spetta alla stampa periodica: si moltiplicano i giornali letterari e la stampa d’opinione: tra i più famosi “The spectator”, “La frusta letteraria”, e il milanese “Il Caffè” dei fratelli Verri e di Beccaria. L’espressione più caratteristica della civiltà dei Lumi sono i nuovi centri di aggregazione sociale: i salotti; le accademie; le logge massoniche. La prima vera associazione massonica fu la Grande Loggia di Londra, fondata nel 1717 da due pastori protestanti: il nome (free masonry, “libera muratoria”) e i simboli (compasso, squadra, martello, ecc.) si richiamavano alla tradizione delle corporazioni medievali e in particolare a quella dei muratori, così come l’obbligo del segreto e la distinzione fra i tre gradi di apprendista, compagno e maestro. L’Illuminismo non fu quindi una cultura borghese ma in essa si mescolavano nobili, borghesi ed ecclesiastici accomunati dalle stesse letture e dagli stessi gusti. Si mira ad una costituzione di una nuova élite sociale, un’aristocrazia del denaro e dei Lumi, in cui possono confluire la parte più ricca e più colta della nobiltà e gli strati superiori del ceto medio. Capitolo 20 Francia e Inghilterra nel Settecento: un duello secolare La Francia dalla Reggenza al ministero Fleury Il conflitto tra monarchia britannica e francese è plurisecolare (1689 – 1815): lotta per la supremazia in campo marittimo e coloniale e la contrapposizione tra i due diversi modelli di governo e di distribuzione del potere. La strategia inglese fu quella di cercare alleati sul continente per tenere impegnata militarmente la Francia e allo stesso tempo di rafforzare e ampliare il proprio dominio dei mari e il proprio impero coloniale. Alla morte di Luigi XIV (1715) Parigi proclamò reggente il duca Filippo d’Orleans. Ma anche grande aristocrazia puntava ad avere un ruolo nel governo del Paese. Il periodo della Reggenza fu contrassegnato da una relativa libertà di opinione e di critica (v. Lettere Persiane di Montesquieu del 1721). Il primo problema che Filippo d’Orleans dovette affrontare fu quello finanziario: si affidò a John Law. Alla base del “sistema Law” vi era l’idea che l’aumento della massa dei mezzi di pagamento, ottenuto con l’emissione di carta moneta, avrebbe stimolato la circolazione del denaro e quindi il commercio e l’industria, consentendo alla monarchia di pagare i suoi debiti. Tra il 1716 – 1719 Law creò una banca, che ottenne il diritto esclusivo di emettere banconote, e una compagnia di commercio che assunse nel 1719 la denominazione di Compagnia delle Indie. Sempre in questo anno Law ottenne l’appalto delle imposte indirette e nel 1720 venne nominato controllore generale delle finanze. L’intero sistema poggiava sulla fiducia, e questa venne meno quando ci si accorse che la Compagnia delle Indie non distribuiva gli utili sperati. I possessori delle azioni cominciarono a venderle e Law fu costretto a sospendere i pagamenti. Non gli restò che abbandonare il Paese. Terminata la Reggenza (1723), Filippo d’Orleans assunse la carica di Primo Ministro che mantenne fino alla sua morte improvvisa nel dicembre del 1723, e al suo posto venne il duca di Borbone. Nel 1726 Luigi XV, ormai maggiorenne, accordò la sua fiducia all’anziano precettore Fleury. Il governo di quest’ultimo assicurò alla Francia un lungo periodo di pace. La moneta venne stabilizzata e il percorso di risanamento delle finanze fu completato entro il 1730. L’economia del Paese entrò in una fase di espansione sostenuta da una successione di buoni raccolti e dal boom delle importazioni di zucchero e altri generi coloniali. Durante il governo Fleury (legge contro i giansenisti) si andò delineando però quel contrasto tra corona e Parlamenti che trovò negli affari religiosi un meccanismo di innesco che avrebbe caratterizzato la vita politica del regno dalla metà del secolo in poi. La Gran Bretagna nell’era di Walpole Alla morte della regina Anna (ultima sovrana del casato Stuart) salì sul trono inglese Giorgio I (Hannover) (1714 – 1727) come previsto dall’Atto di successione del 1701. Nel 1707 unione parlamentare e amministrativa tra Scozia e Inghilterra. Giorgio I e suo figlio Giorgio II lasciarono le redini del governo in mano al Parlamento. Su queste basi nacque il governo di gabinetto: prassi che assegnava ad un primo ministro il compito di governare in nome e in luogo del re. Il governo in carica faceva il possibile per influenzare le elezioni dei deputati alla Camera dei comuni; non esitava ad elargire favori e pensioni, e a distribuire posti e prebende necessari a guadagnare l’appoggio dei deputati e dei lord. Si faceva quindi ricorso alla corruzione ma i deputati eletti nelle contee mantennero sempre un atteggiamento di indipendenza nei dibattiti parlamentari; la pubblica amministrazione venne progressivamente depurata dalle influenze politiche e resa relativamente onesta ed efficiente; la presenza di un’opinione pubblica vigile e ben informata costrinse i governo a non perdere di vista i più vasti interessi nazionali. Tra il 1721 e il 1742 il ruolo di primo ministro fu ricoperto da Robert Walpole (1676 – 1745). Si distinse in politica estera per le buone relazioni con la Francia; in politica interna per la riduzione del debito pubblico e per la protezione del commercio e dell’industria. La stabilità politica e sociale (dell’Inghilterra del Settecento) si fondava sull’indiscussa egemonia dei grandi proprietari terrieri che controllavano la politica nazionale attraverso i due rami del Parlamento e la vita locale attraverso l’ufficio dei giudici di pace (a cui prestavano la loro opera gratuitamente). Intorno a questa nobiltà terriera (gentry) ruotavano gli esponenti dei ceti professionali, gli ufficiali dell’esercito e della marina e la parte più benestante del clero anglicano. Nel Settecento la Chiesa d’Inghilterra divenne quasi un’appendice della gentry. Era comunque lecito appartenere ad altre Chiese protestanti e persino le minoranze cattoliche furono tollerate. I mercanti più ricchi, i finanzieri e i banchieri attivi a Londra e nei grandi porti aspiravano a integrarsi nella gentry, attraverso l’acquisto di proprietà fondiarie. Lo sviluppo economico, il ristagno della popolazione e dei prezzi, favorirono un certo miglioramento del tenore di vita delle masse popolari, ma la durezza della loro esistenza e la loro subalternità rispetto alle classi agiate non ne furono alterate. La società britannica fino al tardo Settecento ci appare un miscuglio di libertà e di dipendenza, di mobilità sociale individuale e di solidità delle gerarchie di gruppo, di tradizionalismo e di progresso, di raffinatezza e di brutalità, di prosperità e di miseria. Risaltavano soprattutto gli aspetti positivi: garanzie legali contro gli arresti e i castighi arbitrari; il radicamento delle istituzioni parlamentari; la snellezza e l’efficienza della burocrazia statale; la libertà di esprimere le proprie opinioni e di praticare la propria fede. I conflitti dei decenni centrali del Settecento La guerra di Successione polacca (1733 – 1738) interruppe il lungo periodo di pace di cui aveva goduto la Francia dopo la morte di Luigi XIV. Le cause: alla morte del Re di Polonia Augusto II, l Dieta polacca scelse come suo successore il padre della consorte del Re di Francia Luigi XV (Leszczynski). L’Austria e la Russia reagirono imponendo l’elezione del principe di Sassonia Federico Augusto (che assunse il nome di Augusto III). Il governo francese decise di vendicare l’oltraggio subito, dando vita ad una coalizione antiaustriaca con il re di Sardegna Carlo Emanuele III, cui venne promesso l’intero stato di Milano, e la monarchia spagnola (Carlo Borbone), sempre desiderosa di espandersi in Italia. I risultati finanziari delle riforme furono evidenti: in quindici anni il gettito delle imposte dirette aumentò del 60%. Si era inoltre affermata una nuova concezione unitaria dello Stato. Nella seconda metà del regno teresiano fu fondamentale il perseguimento della “pubblica felicità”. Il più autorevole rappresentante di questa concezione fu il cancelliere Kaunitz – Rittberg, che approfittò dell’emergenza bellica per imporre l’istituzione di un Consiglio di Stato (1760) come suprema istanza di coordinamento tra i vari dicasteri. Nel 1765 alla morte improvvisa di Francesco Stefano, marito di Maria Teresa e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1745 come Francesco I, il figlio primogenito Giuseppe II salì al trono imperiale e fu nominato dalla madre “coreggente” degli Stati ereditari asburgici. Tra il 1780 e il 1790 quando Giuseppe II resse da solo le sorti della monarchia a mutare fu lo stile di governo, più dispotico e intransigente, e il ritmo degli interventi che si fece incalzante. Politica religiosa nota come “giuseppinismo”: nel nuovo orientamento confluivano sia le istanze di riforma interne alla Chiesa cattolica sia la volontà di affermare l’autorità dello Stato sul clero nazionale; quest’ultimo fu chiamato a contribuire ai bisogni dello Stato quanto al progresso morale e civile della società. Nel 1781 Giuseppe II emanò la “patente di tolleranza” che rendeva legittimo il culto per le confessioni protestanti e greco – ortodossa; furono eliminate quasi tutte le discriminazioni di cui soffrivano gli ebrei. Vennero irrigidite le condizioni per pronunciare i voti monastici e circa 700 fra monasteri e conventi furono soppressi; i loro beni (compresi quelli dei gesuiti, il cui ordine venne sciolto nel 1773) vennero incamerati dallo Stato e destinati a finanziare scuole e attività assistenziali. Per ciò che attiene al clero secolare, le cure maggiori vennero dedicate alla sua formazione, secondo l’ideale del “buon parroco”, guida intellettuale e civile della comunità. Nel 1783 vennero istituiti i seminari statali dove i sacerdoti dovevano compiere i loro studi. Anche le pratiche di culto vennero disciplinate seguendo i canoni della “regolata devozione” di Ludovico Muratori: furono diminuite le feste di precetto; proibiti o severamente limitati i pellegrinaggi, le processioni, l’esposizione delle reliquie o di immagini sacre; soppresse le confraternite; bandite le pompe eccessive e le manifestazioni a sfondo superstizioso. I cimiteri furono allontanati dai luoghi abitati e i riri per i battesimi, i funerali, le nozze vennero regolati in modo da evitare ogni spesa superflua. Dell’intensa attività riformatrice svolta in campo civile nella seconda parte del regno di Maria Teresa e nel decennio giuseppino, i provvedimenti più importanti riguardarono l’istruzione, l’economia e la giustizia. È del 1774 la legge che introduceva l’obbligo scolastico e prescriveva l’apertura di una scuola elementare in ogni parrocchia. Anche gli studi superiori furono riordinati. In materia di industria e commerci, la politica asburgica tentò di unificare il mercato interno, sopprimendo i vari dazi e pedaggi; fu intrapresa la via del sostegno alle manifatture nascenti mediante sovvenzioni e agevolazioni; si procedette a smantellare gradualmente le corporazioni di arte e mestieri. Per quanto riguarda l’agricoltura, notevoli furono gli interventi diretti a regolare i rapporti tra i signori feudali e i contadini a loro soggetti. Giuseppe II abolì nel 1781 residui di servitù personale e, tra il 1784 e il 1786, fece redigere un nuovo catasto dei beni fondiari (per favorire una più equa distribuzione delle imposte e la commutazione degli obblighi di lavoro in pagamenti in denaro corvée). Nel 1787 fu promulgato il Codice penale giuseppino che accoglieva i principi della legalità della pena e della parità di tutti i sudditi di fronte alla legge. Molte di queste riforme suscitarono malcontento e resistenze. Si aggiunga a tutto ciò l’enorme costo finanziario e umano della guerra, scatenata da Giuseppe II nel 1787 a fianco della Russia e contro la Turchia. I Paesi Bassi belgi insorsero nel 1787 e nel 1789, cacciando i rappresentati austriaci e proclamando l’indipendenza. A Giuseppe succedette il fratello minore con il nome di Leopoldo II (1790 – 1792) che, data la condizione in cui si trovava, fu costretto a fare concessioni ai ceti privilegiati. Ma morì poco dopo. Con il regno di Francesco II (1792 – 1835) figlio di Leopoldo, si chiuderà per sempre in Austria l’era dell’assolutismo illuminato. Il bilancio di mezzo secolo di attività riformatrice era positivo: le strutture portanti dell’esercito e della burocrazia erano state rinnovate, era stata avviata una tradizione di buona amministrazione e di attenzione per i bisogni delle classi subalterne e reso possibile un considerevole sviluppo della popolazione, delle manifatture e dei traffici. Tale sviluppo interessò prima di tutto l’area di Vienna, divenuta una grande capitale sede di una raffinata civiltà intellettuale, artistica e musicale; ma anche centri periferici come Trieste conobbero una rapida crescita. La Russia di Caterina II Elisabetta (1741 – 1762), figlia di Pietro il Grande, raccolse l’eredità paterna con l’intento di perseguire i medesimi indirizzi di modernizzazione culturale del Paese (1755 fondazione dell’Università di Mosca), rafforzamento militare e di una più incisiva presenza nella politica europea. Il successore Pietro III venne deposto nel 1762 in seguito ad un colpo di stato organizzato dalla giovane moglie Caterina, colta e brillante principessa tedesca che si fece proclamare “autocrate di tutte le Russie”. Il lungo regno di Caterina II (1762 – 1796) costituì una tappa fondamentale per la storia russa. La zarina era amica dei philosophes e fece il possibile per aprire la Russia all’influenza della cultura europea, in particolare francese. Primo punto della politica riformatrice di Caterina fu la Chiesa Ortodossa: nel 1764 venne decretata la confisca di tutte le proprietà ecclesiastiche, le cui rendite servirono in parte a risanare le finanze, dissestate dalle spese belliche, in parte a finanziare gli istituti di istruzione. L’iniziativa più clamorosa fu senz’altro la convocazione (1767) di una commissione legislativa composta da rappresentanti dei nobili, dei cittadini, dei contadini liberi e anche delle nazionalità non russe, con il compito di elaborare un nuovo codice di leggi. L’”Istruzione” era in gran parte ricalcata sulle opere di Montesquieu e Beccaria e indicava come obiettivi della legislazione la “pubblica felicità”, la tolleranza, la libertà, l’umanizzazione delle pene e delle procedure giudiziarie. La commissione venne poi sciolta per lo scoppio della guerra contro l’impero ottomano. Gli inasprimenti fiscali provocati da questa guerra, la penuria di viveri (per cattivo raccolto e pestilenza), acuirono il malcontento nelle campagne. Nel settembre del 1773 Pugacev cominciò a raccogliere seguaci spacciandosi per il redivivo zar Pietro III e denunciando l’oppressione dei nobili. L’insurrezione venne domata nel 1774, Pugacev fu giustiziato l’anno seguente. Il timore dell’anarchia indusse la zarina ad abbandonare qualsiasi velleità di intervento a favore delle masse rurali. Venne comunque realizzata una meritoria riforma delle amministrazioni locali in cui si cercò di introdurre un equilibrio tra funzionari regi e rappresentanti della nobiltà locale. Molto fu fatto anche per l’istruzione pubblica, grazie alla fondazione di istituti superiori e con l’avvio di un programma di insegnamento elementare gratuito. Furono registrati notevoli progressi nei settori delle manifatture, dell’estrazione mineraria e del commercio con l’estero. In politica estera, Caterina II ottenne notevoli successi: nel 1768 iniziò la guerra contro l’Impero ottomano. Il conflitto si concluse con il trattato del 1774 che consentì alla Russia di ottenere condizioni vantaggiose quali l’accesso al mar Nero e il libero passaggio per il canale del Bosforo. Nel frattempo la prima spartizione della Polonia (1772) aveva fruttato l’annessione della Bielorussia; mentre con le successive ripartizioni la Russia acquisì tutta la metà orientale del territorio rimasto alla Polonia. Nel 1783 venne proclamata l’annessione della Crimea. La popolazione soggetta a Caterina era cresciuta in trent’anni da 23 a 37.5 milioni di abitanti. La Russia era diventata così il Paese più popoloso d’Europa. Le spartizioni della Polonia e le riforme in Scandinavia La grande guerra del Nord (1700 – 1721) aveva sconvolto le sorti della Polonia determinando un ulteriore regresso economico e demografico, segnando il rafforzamento delle grandi famiglie magnatizie. Alla morte di Augusto III di Sassonia, re di Polonia (1733 – 1764), la Russia appoggiò inizialmente l’elezione di Stanislao Poniatowski che aderiva al movimento dei Lumi. Egli lanciò un programma di riforme che prevedeva la soppressione del liberum veto (l'opposizione anche di un solo nobile membro del parlamento, paralizzava le decisioni del parlamento stesso) iniziativa che provocò l’intervento armato di Caterina II. Nel 1772 le grandi potenze confinanti con la Polonia si accordarono per smembrarne il territorio a proprio vantaggio (prima spartizione polacca). Poniatowski, seppur indebolito, non abbandonò la sua politica di riforme, che interessarono soprattutto la pubblica istruzione e miravano a stimolare la coscienza nazionale polacca. Nel 1791 il Parlamento approvò una Costituzione che trasformava la monarchia polacca da elettiva in ereditaria e sopprimeva il liberum veto. I soldati di Caterina II invasero nuovamente il paese, provocandone una seconda spartizione (1793), questa volta a vantaggio esclusivo di Russia e Prussia. Ciò che restava della Polonia scomparve con la terza spartizione nel 1795. La brutale cancellazione di un grande Stato dalla carta politica dell’Europa ad opera delle tre monarchie che più si erano richiamate al primato della ragione e della filosofia dei Lumi, è il più chiaro indice dei limiti entri i quali va inquadrata l’esperienza dell’assolutismo illuminato, della contraddizione tra ideali umanitari e una politica estera ispirata a calcoli di pura potenza. La Svezia, nel periodo che seguì la morte senza eredi di Carlo XII, visse la sua “era della libertà” (1720 – 1772). Il principe tedesco a cui venne offerta la successione, Federico I d’Assia – Kassel, dovette impegnarsi a rispettare una Costituzione che attribuiva alla Dieta (composta da quattro ceti dei nobili, del clero, dei borghesi e dei contadini) molti dei poteri in precedenza esercitati dal sovrano e dal suo consiglio. Le guerre intraprese contro la Russia e la Prussia non portarono nessun vantaggio territoriale e non compromisero il notevole progresso economico e civile del Paese, che riguardò anche le masse contadine e alla fine del secolo l’analfabetismo in Svezia si poteva già quasi dire scomparso. Nel 1772 re Gustavo III (1771 – 1792) restaurò l’assolutismo monarchico attraverso un colpo di stato che portò all’abrogazione della Costituzione del 1720. Il suo governo si distinse per una serie di riforme in campo amministrativo e giudiziario (abolizione della tortura e della venalità delle cariche) e per una decisa azione livellatrice, che giunse a privare i nobili di quasi tutti i loro privilegi. In Danimarca l’assolutismo si era affermata come legge fondamentale dello Stato sin dal 1665. A partire dalla metà del Settecento si manifestarono tendenze riformatrici che, trovata piena realizzazione sotto Cristiano VII (1766 – 1808), portarono all’abolizione del servaggio e alla trasformazione dei coloni in liberi proprietari grazie ad un lungimirante programma governativo che rese possibile il riscatto dei poderi da loro coltivati. Ne ricevettero grande impulso sia l’agricoltura sia l’allevamento. La crisi del papato e i regni iberici Anche negli altri paesi cattolici il rafforzamento dei poteri statali e l’attuazione di una politica riformatrice comportavano uno scontro con la Chiesa di Roma e la volontà di affermare l’autorità dello Stato sul clero nazionale (“giurisdizionalismo”). Il cattolicesimo si presentava come una struttura sovranazionale sottoposta all’autorità assoluta del pontefice romano e della sua curia. La giustizia civile trovava un grave limite nell’immunità personale del clero e nel diritto d’asilo. I beni ecclesiastici costituivano spesso dal 10 al 30% del territorio agricolo ed erano in linea di principio esenti dalla tassazione. Questi beni (chiamati manomorta) non potevano essere rivenduti senza uno speciale permesso papale. Il clero regolare divenne quindi il principale bersaglio degli attacchi sempre più volenti degli scrittori illuministi. Anche la Chiesa cattolica fu percorsa da correnti rinnovatrici: attecchirono delle idee che contestavano l’autorità assoluta del pontefice, cioè della curia di Roma e rivendicavano la dignità e l’autonomia dei vescovi e dei parroci. I pontefici Clemente XII e Benedetto XIV parvero disponibili ad un compromesso con le nuove correnti politiche e culturali, all’insegna di un cristianesimo ragionevole. Espressione di questa tendenza conciliativa furono i concordati stipulati dalla Santa Sede con il Regno di Sardegna, di Napoli, con la Spagna, che disciplinavano materie come la tassazione del clero, il conferimento dei benefici ecclesiastici e il diritto d’asilo. A Roma i pontefici permisero la diffusione di correnti giansenistiche e della nuova scienza newtoniana. Con il rigido pontificato di Clemente XIII i rapporti tra Roma e le potenze cattoliche peggiorarono nuovamente. Negli stessi anni si sviluppava la violenta campagna anticattolica e antireligiosa orchestrata da Voltaire e dagli altri philosophes. Si realizzò un importante momento di convergenza tra illuministi, giansenisti e sovrani riformatori: la battaglia contro i gesuiti. Tra il 1759 e il 1768 furono espulsi dal Portogallo, dalla Francia, dalla Spagna, dal Regno di Napoli e dal Ducato di Parma. Fu papa Clemente XIV a decretare lo scioglimento della Compagnia di Gesù (1773). A questo seguirono, in quasi tutti i Paesi cattolici, una serie di altre misure dirette a ridimensionare la potenza economica e le posizioni di privilegio della Chiesa. Nella prima metà del Settecento il Portogallo fu caratterizzato dall’arretratezza dell’economia e dall’immobilismo in campo culturale. La situazione mutò sotto il regno di Giuseppe I, e per opera del marchese di Pombal. Vennero riformati gli studi, rafforzato l’esercito, promosso lo sfruttamento delle colonie, si cercò di dare impulso alle manifatture e al commercio con la creazione di compagnie privilegiate. Si assistette al declino della produzione aurifera del Brasile ma, nonostante ciò, ci fu comunque una ripresa dell’economia portoghese. In Spagna, l’avvento della dinastia dei Borbone con Filippo V aveva segnato una netta svolta in senso assolutistico. Linea di fermezza con la Chiesa: 1743 legge sulla stampa che rivendicava il controllo dello Stato sulla censura; legge sulle manimorte nel 1751. Gli ultimi anni della Reggenza furono funestati, come in tutta Italia, da una grave carestia. Pompeo Neri sostenne che il vero rimedio contro la scarsità di raccolti stava nel favorire la libera circolazione delle derrate, in modo da incentivare la produzione e il commercio dei grani. Questo orientamento liberista si affermò pienamente sotto il governo di Pietro Leopoldo (1765 – 1790). Il nuovo granduca aderì a queste istanze con una legge del 1767 con cui dichiarò libera la compravendita dei cereali all’interno dello Stato e anche l’esportazione. Al medesimo indirizzo liberista vanno ricondotte la soppressione delle corporazioni di arti e mestieri e l’eliminazione di tutte le dogane interne. Altre iniziative di Pietro Leopoldo furono: bonifiche avviate in Valdichiana e nella Maremma senese e la decisione di livellare le terre appartenenti alla corona e alle manimorte, cioè di dividerle in piccoli lotti da assegnare in godimento a coltivatori diretti. Il documento più celebre della tendenza riformatrice leopoldina fu, nel 1786, il Codice Penale che eliminava del tutto la tortura e cancellava, per la prima volta in Europa, la pena di morte. Il progetto di una Carta Costituzionale (per limitare i poteri del sovrano mediante l’istituzione di un’assemblea rappresentativa) venne messo definitivamente da parte nel 1790, quando Pietro Leopoldo lasciò Firenze al fratello Giuseppe II nella direzione della monarchia austriaca e nella dignità imperiale. Per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa i propositi più radicali non poterono essere realizzati. Nel suo complesso la legislazione leopoldina rappresenta uno dei più coerenti e organici programmi di riforma posti in atto nell’Europa settecentesca. La società italiana alla fine del Settecento Solo marginalmente furono toccati dal movimento delle riforme lo Stato Pontificio e le Repubbliche di Venezia, Genova e Lucca. L’immobilismo della vita pubblica non significava però mancanza di stimoli intellettuali: Roma continuava ad accogliere visitatori provenienti da tutta Europa, Venezia fu per tutto il secolo maggiore centro editoriale italiano e sede di una raffinata civiltà letteraria ed artistica (Goldoni e Tiepolo). L’azione riformatrice dei governi e l’ampia diffusione delle nuove correnti di pensiero e dei nuovi modelli di gusto e comportamento, modificarono la cultura e lo stile di vita dei ceti medio – alti della società italiana. Il generale moto di laicizzazione si tradusse in una contrazione numerica del clero e nel diminuito ossequio per l’autorità della Chiesa e per le prescrizioni della morale cattolica. Da qui il grande prestigio per le scienze pure e applicate, e la critica alle credenze magiche e superstiziose. Va di pari passo con questi orientamenti culturali un costume sociale e familiare più libero e sciolto che si esprime nel cicisbeismo (uomini con il compito, pubblico e dichiarato, di vivere a fianco della moglie di un altro). La nobiltà si pone il problema di giustificare i propri privilegi con una vita operosa, al pubblico servizio o negli studi, e si mescola con il “ceto civile”. In netto declino l’uso di destinare al chiostro le figlie nubili e di sacrificare i cadetti al primogenito nella trasmissione dell’eredità. Il ceto medio contribuisce all’affermazione dei nuovi valori dell’operosità, della competenza, del merito individuale, della ricerca della felicità, del benessere individuale. Da questa evoluzione della cultura e del costume rimasero del tutto escluse le masse popolari, urbane e rurali. Analfabete, dominate dall’assillo del pane quotidiano, immerse ancora in un universo magico – religioso. Anche in Italia si registra nel Settecento un cospicuo aumento della popolazione. L’accresciuta domanda di cereali provocò l’espansione delle superfici coltivate, là dove questa era possibile, e l’intensificazione del lavoro contadino nelle aree già densamente popolate. Grande è la diffusione del mais cereale dagli alti rendimenti ma dal potere nutritivo inferiore al frumento e alla segale. Non mancano nell’Italia del Settecento isole di specializzazione e di elevata produttività: come nella Pianura lombarda (colture foraggere, risaie, gelso, lino e canapa). Il quadro generale è contrassegnato dall’arretratezza tecnica e dall’accresciuto sfruttamento del lavoro contadino. Del precario equilibrio tra popolazione e risorse sono testimonianza le gravi carestie. La forte ascesa dei prezzi che si verificò a partire dal 1750 andò a beneficio dei proprietari terrieri. I contadini poveri ne furono colpiti in due modi: i salari restavano fermi, i padroni esigevano una quota maggiore del prodotto commerciabile. A questo si aggiunga l’attacco contro i demani comunali (nel Mezzogiorno) e contro gli usi collettivi tradizionalmente esercitati sulle terre incolte, gli effetti dell’usura e si avrà un quadro completo dei fattori che negli ultimi decenni del Settecento resero ancora più disperate le condizioni di vita delle popolazioni rurali. Capitolo 23 Nascita di una nazione: gli Stati Uniti d’America Gli inizi della colonizzazione inglese e francese nel Nord America Le colonie inglesi del Nord America (nate tra il 17° e il 18° secolo) non rappresentavano una realtà uniforme. Le colonie del Nord (dette “new england”) furono caratterizzate da una iniziale immigrazione di minoranze religiose puritane (celebre il viaggio del 1620 dei padri pellegrini a bordo della Mayflower che fondarono Boston). La loro economia era fortemente legata ai circuiti commerciali atlantici e si basava sulla produzione agricola e su una attività di tipo artigianale, navale e mercantile. È in queste colonie che si assistette alla formazione di élites sociali e politiche. Le colonie centrali (midlle colonies) erano maggiormente urbanizzate e diversificate sotto il profilo linguistico e culturale. Economicamente mostravano un maggior sviluppo delle attività finanziarie e commerciali. Le colonie meridionali rappresentavano una realtà profondamente diversa. Dal punto di vista religioso erano molto più variegate (ospitavano anche cattolici e anglicani), dal punto di vista economico erano votate ad una produzione agricola di tipo latifondistico e basata sull’istituzione della schiavitù. I grandi proprietari terrieri costituivano una sorta di aristocrazia non diversa dalla gentry inglese. L’economia delle colonie meridionali era quella che meglio si intendeva con la madrepatria, alla quale forniva i prodotti della sua agricoltura in cambio di manufatti e generi di lusso. Le colonie del centro e del nord, commerciavano soprattutto con le Indie occidentali (le Antille) esportando grano, legname, carne salata e altri generi e importando zucchero e melassa utilizzata per la fabbricazione del rum. La popolazione complessiva delle tredici colonie si aggirava intorno alle 250.000 persone (inizio del 1700), ma già nel 1775 era arrivata a due milioni e mezzo di abitanti a causa della forte eccedenza delle nascite e per via del costante flusso immigratorio. Irlandesi, olandesi, tedeschi, emigravano per lo più gli artigiani e i contadini poveri attirati dalla speranza di accedere alla proprietà terriera e di trovare migliori condizioni di vita e di lavoro. Gli schiavi neri nel 1775 superavano ormai il mezzo milione ed erano quasi tutti concentrati nelle colonie meridionali. I neri erano importati dai Caraibi o direttamente dall’Africa. Agli inizi del Settecento le colonie avevano istituzioni politico – giudiziarie simili. In quasi tutte vi era un governatore (nominato dal re) che nominava i giudici e aveva diritto di veto sulle decisioni prese dal potere legislativo. Quest’ultimo era esercitato da un’assemblea eletta con suffragio molto largo. Ampie erano le autonomie di cui godevano le città e le comunità di villaggio. Inferiore era invece la popolazione della Nuova Francia (parte dell’odierno Canada). Riconosciuta nel 1663 come “colonia regia”, la Nuova Francia ebbe istituzioni simili a quelle di una provincia francese (un governatore e un intendente). La popolazione viveva di agricoltura, di caccia e pesca e del commercio delle pellicce. Dalla regione dei Grandi Laghi gli esploratori si erano spinti fino alle foci del Mississippi, dove il 1720 venne fondata Nuova Orléans. La presenza francese in questi immensi territori, denominati Louisiana in onore di Luigi XIV era limitata ad una catena di forti posti in posizioni strategiche (tale da bloccare l’ulteriore espansione delle colonie britanniche) I contrasti tra le tredici colonie e la madrepatria Durante la guerra dei Sette anni gli abitanti delle tredici colonie britanniche parteciparono a fianco delle truppe inviate in Europa contro i francesi, i coloni ebbero qui modo di prendere atto della loro forza. La vittoria britannica portò all’eliminazione completa della presenza francese nel Nord America. Motivi di malcontento erano: la pretesa del Parlamento inglese di vietare il commercio diretto tra le colonie e Paesi terzi, di imporre dazi molto elevati sull’importazione di alcuni prodotti, di proibire la produzione e l’esportazione di manufatti che potessero entrare in concorrenza con quelli della Gran Bretagna. Tutto ciò favorì un ampio ricorso al contrabbando e alla corruzione delle autorità portuali. Sotto il profilo politico sentivano come oppressivi i poteri di veto e di intervento esercitati dai governatori e dai loro consigli. L’elemento più importante era il fatto che gli americani acquisirono gradualmente la coscienza di se stessi come popolo distinto per carattere e cultura: la diffusione dell’istruzione (Harvard e Yale), l’effetto di melting pot determinato dall’immigrazione di genti di varia provenienza e cultura, le tendenze al pragmatismo, all’egualitarismo e alla democrazia stimolate dalle nuove condizioni di esistenza, avevano portato ad un allentamento dei vincoli di fedeltà delle colonie alla madrepatria. Il governo britannico pretendeva molto di più dalle colonie: nell’ottobre del 1763 un proclama regio trasformò i vasti territori al di là dei monti Appalachi in una riserva indiana, dove era proibito ai bianchi acquistare terre. Furono emanate norme più stringenti volte a impedire e reprimere il contrabbando; furono introdotti nuovi dazi sullo zucchero, sul caffè, sul vino, sulla carta, sul te; istituita una tassa di bollo su tutti i documenti legali e sui fogli periodici. I coloni reagirono con sdegno a queste imposizioni: dichiararono incostituzionale la tassa di bollo perché votata in un Parlamento in cui le colonie non erano rappresentate. Il governo inglese ritirò la tassa di bollo ma introdusse nuovi dazi sull’importazione del te e altri generi. I coloni presero a boicottare le merci inglesi (episodio del Boston Tea Party: patrioti travestiti da indiani salirono a bordo di una nave della Compagnia delle Indie orientali e gettò in acqua tutto il carico di tè) dando inizio alla fase delle ostilità tra le tredici colonie e la madrepatria. La guerra d’indipendenza La durissima reazione del governo inglese (chiusura del porto di Boston) provocò nelle colonie uno stato generale di insubordinazione. Nel 1774 si riunì a Filadelfia il “primo Congresso continentale”. Il “secondo Congresso continentale” convocato nel 1775, coincise con il verificarsi di sanguinosi scontri tra coloni ed esercito britannico. Il 4 luglio del 1776 venne approvata la Dichiarazione di indipendenza: liberazione dal dominio inglese. Il comando delle forze armate fu affidato a George Washington (1732 – 1799). Svolta importante fu la Battaglia di Saratoga (1777) dove un contingente inglese si arrese ai reparti americani. Fu questo episodio a convincere il governo francese ad appoggiare militarmente gli insorti, grazie anche alla propaganda svola da B. Franklin a Versailles. La guerra era praticamente finita. Con il trattato di Versailles del 1783 la Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza delle tredici colonie nordamericane e restituiva alla Francia alcuni territori occupati nei Caraibi e nel Senegal, e alla Spagna la Florida e Minorca. Una costituzione per gli Stati Uniti d’America Le conseguenze della guerra: distruzioni e danni causati all’agricoltura, deprezzamento della cartamoneta, rivalità tra gli Stati per l’occupazione dei territori occidentali, ecc. rappresentarono per il Congresso continentale problemi di difficile soluzione. Gli “Articoli di Confederazione” votati nel 1777 (entrati in vigore nel 1781) lasciavano al governo degli Stati Uniti d’America solo la politica estera e la difesa, mentre tutti gli altri poteri erano prerogativa dei singoli Stati. Si sentiva quindi l’esigenza di un governo centrale forte. Nel 1786 partì la richiesta che il Congresso convocasse una “Convenzione” incaricata di rivedere la Costituzione. Fu proposta dalla delegazione virginiana una Costituzione federale interamente nuova. La Costituzione degli Stati Uniti d’America fu approvata nel 1787 ed entrò in vigore l’anno successivo. Il potere legislativo era detenuto da un Congresso composto da un Senato e da una Camera dei rappresentanti, poteva legiferare in materia di finanze, commercio, moneta, giustizia. Al vertice del potere esecutivo vi era un Presidente eletto dal popolo a cui spettava un potere di veto sospensivo sulle leggi, la nomina dei ministri, la direzione della politica estera e delle forze armate, la designazione dei giudici della Corte suprema. Al potere giudiziario vi era la Corte suprema a cui era attribuito un controllo di legittimità costituzionale sulla legislazione sia del governo federale, sia dei singoli Stati. L’articolo V della costituzione prevedeva la possibilità di introdurre emendamenti al testo: i primi dieci emendamenti consistettero in una sorta di dichiarazione dei diritti individuali dei cittadini americani. Lo sviluppo degli Stati Uniti tra Sette e Ottocento La giovane nazione americana riprese con rinnovato impeto la via dello sviluppo demografico ed economico. Come diventare membri della confederazione? Bastava superare i 60.000 abitanti. I primi Stati che si aggiunsero furono il Vermont, il Kentucky, il Tennessee e l’Ohio. Non fu possibile evitare massicci fenomeni speculativi né l’insorgere di tensioni tra gli Stati meridionali, le cui piantagioni avevano continuo bisogno di terre vergini. Chi fece le spese di questa inarrestabile espansione furono gli indiani. L’economia degli Stati del sud ricevette un grande impulso dalla espansione della coltura di cotone, stimolata dalla crescente domanda dell’industria britannica e dalla diffusione della macchina sgranatrice. Tra il 1793 e il 187 il tonnellaggio complessivo delle navi americane triplicò e il valore delle esportazioni crebbe di cinque volte. Il primo presidente degli Stati Uniti fu George Washington, eletto nel 1789 e rieletto per un altro quadriennio nel 1793. A questo vennero ad aggiungersi una serie di disordini nelle campagne noto come “Grande Paura”: i contadini finivano per dirigersi contro i castelli, saccheggiare le dispense e le cantine e dare alle fiamme gli archivi in cui erano conservati i documenti comprovanti i diritti del signore. Il significato antifeudale era chiaro. L’Assemblea nazionale si vide così costretta ad affrontare il problema dei diritti signorili: decisero per la distruzione di quanto rimaneva del regime feudale e l’abolizione di ogni privilegio che si opponeva all’eguaglianza dei diritti. L’agitazione antifeudale nelle campagne sarebbe durata fino all’abolizione totale e senza indennizzo dei diritti signorili, decretata nel 1792 – 1793. L’Assemblea nazionale iniziò ad elaborare una “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, che fu approvata il 26 agosto 1789. Tali diritti per il momento erano riservati ai soli cittadini maschi. Per acquistare vigore di legge, i decreti avevano bisogno della sanzione del re, che non era affatto disposto a concederla. L’atteggiamento evasivo di Luigi XVI e l’emigrazione di molti nobili, finirono con il convincere i patrioti che un’altra prova di forza era inevitabile e che era necessario costringere la corte a trasferirsi a Parigi. Una folla composta in prevalenza di donne, si mise in marcia verso Versailles (5 – 6 ottobre), seguita dalla Guardia Nazionale Parigina. Luigi XVI si decise quindi a dare la sua approvazione ai decreti. Gli appartamenti reali furono invasi dai manifestanti: luigi XVI prese la via della capitale. Si stabilì nel palazzo delle Tuileries, dove anche l’Assemblea nazionale si trasferì, prendendo posto nella sala del Maneggio. La ricostruzione dell’unità nazionale Il primo responsabile del fallimento del nuovo ordine monarchico – costituzionale fu il re: Luigi XVI teneva di fronte alle richieste dell’Assemblea un comportamento ambiguo e sempre più confidava nell’intervento armato delle potenze straniere per ristabilire la propria autorità. Di conseguenza era molto scarsa, nell’Assemblea nazionale, l’influenza degli “aristocratici”, sostenitori dell’assolutismo, ed era invece prevalente (per tutto il 1790) l’influenza dei nobili “liberali”, tra cui La Fayette. Alla sinistra di questo schieramento si collocavano alcune elementi più radicali e più sensibili alle rivendicazioni popolari, tra cui Robespierre. Si andò affermando la Società degli amici della Costituzione, creata alla fine del 1789, che dal luogo dove si riuniva, un convento di domenicani (jacobins), prese poi il nome di “club dei giacobini”. Questo club, col tempo, giungerà ad esercitare una sorta di tutela sulla rappresentanza nazionale e un’azione di guida e di raccordo della vita politica in tutta la Francia. Più popolare era il “club dei cordiglieri”, dal soprannome francese all’ordine francescano che ne ospitava le riunioni, costituitosi nell’aprile del 1790. Un grande ruolo nello scontro politico ebbe anche la stampa: “Patriote français”, “L’Ami du peuple”. L’effervescenza della vita pubblica portò ad una rapida politicizzazione delle masse parigine. Figura di spicco era il “sanculotto”: il popolano di Parigi, appartenente al mondo dell’artigianato e del piccolo commercio, ferocemente attaccato all’eguaglianza dei diritti e alla solidarietà dei lavoratori, ostile ai nobili, ai ricchi, agli accaparratori, pronto all’insurrezione e alla violenza rivoluzionaria. Nel 1790 il territorio nazionale fu suddiviso in 83 dipartimenti delle stesse dimensioni. Da questo prese avvio il movimento della “federazione” (una sorta di proclamazione dal basso dell’unità nazionale). Sbocco di questo movimento fu la festa della federazione, il 14 luglio 1790, nel primo anniversario della presa della Bastiglia. Le nuove regole per l’amministrazione della giustizia vennero dettate nel 1790: il popolo doveva eleggere un giudice di pace in ogni cantone, e un tribunale civile e criminale in ogni distretto. Nei processi penali il giudizio di colpevolezza era affidato ad una giuria di cittadini tirati a sorte. Si realizzava la completa separazione del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo e segnava la fine del sistema della venalità delle cariche. Problema finanziario: l’Assemblea nazionale aveva decretato la confisca dei beni della Chiesa e deciso l’emissione di buoni del tesoro fruttiferi utilizzabili per il loro acquisto. I buoni furono stampati in quantità sempre maggiore, deprezzandoli, andando a vantaggio degli speculatori. Alle vecchie imposte furono sostituite una contribuzione fondiaria proporzionale al valore delle proprietà, un’imposta sulla ricchezza mobile e una patente per l’esercizio di professioni, arti e mestieri. In campo economico gli orientamenti liberisti dominanti si espressero con la soppressione delle corporazioni di mestiere, con la proclamazione della libertà d’iniziativa e con la legge che proibiva le associazioni operaie. Problema religioso: radicale riorganizzazione della Chiesa di Francia. le diocesi furono ridisegnate in modo da corrispondere agli 83 dipartimenti; i vescovi dovevano essere eletti dai cittadini, i parroci erano designati dalle assemblee elettorali dei distretti. Ad entrambi venivano assegnati stipendi statali. Fu imposto a tutto il clero un giuramento di fedeltà alla Rivoluzione. Alcuni non prestarono giuramento e vennero sostituiti (“preti refrattari”). La caduta della monarchia Nel 1791 Luigi XVI tenta la fuga, ma viene bloccato. Questo introdusse, nelle forze rivoluzionarie, una nuova divisione: c’era chi chiedeva la deposizione del re e chi finse di credere che il re fosse stato rapito. Una grande manifestazione popolare chiedeva (1791) la Repubblica. La folla fu dispersa al Campo di Marte sotto i fucili della Guardia nazionale. Nel frattempo erano giunti a compimento i lavori per la redazione della Costituzione, che fu votata il 4 settembre del 1791. Alla base vi era la distinzione tra cittadini attivi (chi pagava un minimo di imposte in base all’attività lavorativa) e cittadini passivi. Solo i primi avevano diritto di voto. La Costituzione manteneva alla monarchia il potere esecutivo. L’Assemblea nazionale costituente si sciolse. La nuova rappresentanza nazionale, detta “Assemblea legislativa” conteneva la destra moderata e la sinistra. Quest’ultima riuscì gradualmente ad imporre la sua egemonia per tre ragioni: era meglio organizzata; disponeva di elementi abili e prestigiosi; era spalleggiata all’esterno dal club dei giacobini. Luigi XVI propose all’Assemblea di dichiarare guerra all’imperatore Francesco II: la proposta fu accolta. Il fallimento dell’offensiva non fece che accrescere i contrasti nell’Assemblea. Le Tuileries furono invase da folle di manifestanti che ad agosto assaltò il palazzo. L’Assemblea legislativa (10 agosto 1792) votò la deposizione del monarca, il riconoscimento della Comune insurrezionale e la creazione di un Consiglio esecutivo provvisorio. La caduta della monarchia coincideva con una fase nuova della Rivoluzione, caratterizzata dallo scontro tra il potere legale e il potere di fatto esercitato dalle masse dei sanculotti. Capitolo 25 Dalla Repubblica giacobina al Direttorio La lotta politica all’interno della Convenzione Il 10 agosto del 1792 la monarchia era stata abbattuta, la stessa rappresentanza nazionale era stata esautorata dalla piazza e la Costituzione promulgata appena un anno prima era di fatto abrogata. Misure di rigore adottate dall’Assemblea e dalla Comune di Parigi nei giorni successivi: arresto degli elementi “sospetti”, espulsione dei preti “refrattari”, sequestro dei beni degli emigrati, requisizione dei grani per l’approvvigionamento delle città, leve di soldati a Parigi e nei dipartimenti circostanti. Nel settembre di quell’anno folle di sanculotti invasero le carceri parigine e trucidarono oltre un migliaio di detenuti, sospettati di tramare contro la Rivoluzione. In questi stessi giorni si svolsero le elezioni dei deputati che avrebbero composto la nuova Convenzione nazionale. La partecipazione al voto fu molto limitata (poco più del 10%). Mentre si svolgeva la prima sessione della Convenzione, l’avanzata prussiana fu fermata a Valmy dall’artiglieria francese. Lo scontro restituì fiducia all’esercito francese che invase il Belgio e si impadronì di Nizza e della Savoia. Sotto il profilo dell’estrazione sociale anche la nuova assemblea era in maggioranza costituita da uomini di legge, amministratori locali, intellettuali. Dal punto di vista politico la nuova rappresentanza era nettamente spostata a sinistra. (condanna a morte di Luigi XVI, ghigliottinato il 21 gennaio 1793) a febbraio la convenzione dichiarò guerra all’Inghilterra e all’Olanda, in marzo alla Spagna. Ai rovesci militari si aggiunse la ripresa dell’agitazione per il carovita e per la penuria di generi coloniali. Altro motivo di preoccupazione era la rivolta esplosa nel dipartimento della Vandea: gli insorti erano contadini che si erano mossi in primo luogo per la difesa della religione tradizionale, per l’odio verso la città e verso i patrioti. La Convenzione reagì varando una serie di misure eccezionali: fu istituito un tribunale rivoluzionario per il processo sommario ai sospetti; promossa la creazione di Comitati di Sorveglianza; votata la formazione di un Comitato di salute pubblica. Lo scontro più aspro riguardò i provvedimenti economici. Fu votato il calmiere dei grani e delle farine. Nuova insurrezione federalista contro la pretesa della capitale di dettare gli indirizzi della politica nazionale. Il governo rivoluzionario e il Terrore Estate del 1793: il territorio francese è invaso a nord dagli austriaci, a sud dai piemontesi, l’Armata dei insorti di Vandea cinge Nantes e si diffonde l’”insurrezione federalista” sostenuta da una larga partecipazione popolare. In questo momento critico, la classe politica formatasi dal 1789 mostrò la sua tempra superando una dopo l’altra tutte le difficoltà e imponendo gradualmente la propria guida ad un Paese in piena anarchia. Venne rapidamente elaborata una nuova Costituzione, preceduta da una Dichiarazione dei diritti che alle libertà fondamentali sancite da quella dell’agosto 1789 aggiungeva il diritto alla sussistenza, al lavoro, all’istruzione e all’insurrezione. (questa costituzione non entrerà però mai di fatto in vigore) La Convenzione operò per un rafforzamento del Governo e dei suoi poteri di intervento. Il Comitato di Salute pubblica venne ampliato e rinnovato: quest’organo eserciterà fino al luglio 1794 una sorta di dittatura, sostituendosi ai ministri e dominando la Convenzione. Fu riorganizzato l’esercito, la direzione dell’economia di guerra, la lotta contro i nemici interni ed esterni. Furono approvate: l’abolizione senza indennizzo di tutti i diritti signorili, la vendita dei beni nazionali confiscati agli emigrati, la pena di morte contro gli speculatori. Ma i sanculotti protestavano per il cattivo funzionamento del calmiere. La Convenzione viene di nuovo invasa dai manifestanti: Robespierre e gli altri leader riuscirono a far votare alla convenzione la costituzione di un esercito rivoluzionario per la requisizione dei grani nelle campagne, la legge che consentiva l’arresto dei sospetti e il maximum generale (calmiere) esteso ai prezzi di tutti i generi di prima necessità e ai salari. Il Tribunale rivoluzionario iniziò a lavorare con zelo (177 persone ghigliottinate) dando inizio all’epoca del terrore. Il Comitato di salute pubblica e il Comitato di sicurezza generale diventarono i coordinatori di tutta la politica nazionale. Avviata anche la campagna di scristianizzazione. Anche il calendario venne riformato: suddividendo l’anno in dodici mesi tutti di trenta giorni che traevano i loro nomi dalle manifestazioni della natura. La nuova era si faceva cominciare dalla proclamazione della Repubblica. Carattere meno ideologico ebbe l’introduzione del nuovo sistema metrico decimale, in sostituzione all’antica varietà di pesi e misure. L’autunno del 1793 portò un sensibile miglioramento della situazione militare all’esterno e all’interno del Paese. All’interno del Comitato di salute pubblica cresceva la figura di Robespierre (incorruttibile per la sua dedizione alla causa rivoluzionaria, pratica delle virtù repubblicane), e del suo rivale Danton (venale, amante della vita e dei piaceri, difensore della patria). Nei primi mesi del 1794 Robespierre lanciò un attacco in due direzioni: contro la sinistra e contro gli indulgenti (Danton) > ghigliottinati. Questo rafforzò nell’immediato il Comitato di salute pubblica e il potere di Robespierre, ma portò ad una erosione del consenso tra le masse popolari. La drammatica intensificazione del Terrore, portò all’opposizione alcuni dei membri del Comitato di salute pubblica che si misero a complottare contro Robespierre che fu ghigliottinato a fine luglio. Da termidoro a fruttidoro La caduta di Robespierre fu accolta da molti francesi come una liberazione: nelle strade di Parigi prese a imperversare la “gioventù dorata”. I responsabili del Terrore e i sanculotti divennero a loro volta bersaglio di un odio a lungo represso (ondata di “Terrore bianco” contro i giacobini). Il Tribunale rivoluzionario venne soppresso, i poteri del Comitato di salute pubblica furono ridotti e vennero riammessi nella Convenzione i deputati superstiti. Il club dei giacobini venne chiuso. In campo economico fu definitivamente abolito il maximum. I cattivi raccolti aggravarono la miseria delle masse popolari che esasperate invasero la Convenzione, invocando “pane e la Costituzione del 93”. Ma dovettero ritirarsi senza nulla di ottenuto. Nell’aprile del 1795 venne insediata una commissione incaricata di elaborare una nuova Costituzione, che doveva garantire il predominio delle classi abbienti e impedire un’eccessiva concentrazione dei poteri. Nella Costituzione del 1795, alla Dichiarazione dei diritti era stata aggiunta una Dichiarazione dei doveri, tra i quali la sottomissione alle leggi e il rispetto per le autorità costituite. Il diritto di voto era concesso a tutti i contribuenti. Era presente una sola Assemblea formata da due camere: il Consiglio dei cinquecento (presentava e discuteva le leggi) e il Consiglio degli anziani (approvava o respingeva le leggi). Il potere esecutivo spettava ad un Direttorio. L’evoluzione in senso moderato della pubblica opinione faceva temere ai membri della Convenzione una vittoria elettorale dei monarchici. Fu quindi approvato un decreto in base al quale due terzi dei componenti delle nuove camere dovevano obbligatoriamente essere eletti tra i membri della Convenzione. Le sezioni parigine di orientamento filomonarchico organizzarono una giornata insurrezionale (5 ottobre 1795); la Convenzione reagì affidando la repressione al generale Bonaparte che prese a cannonate gli insorti. Le elezioni delle nuove camere furono largamente favorevoli ai monarchici. Il Direttorio si trovò ad affrontare, senza disporre della necessaria base di consenso, enormi problemi: la crisi finanziaria, la conduzione della guerra, la divisione religiosa del Paese. ambasciatori, dei giudici. Era coadiuvato da altri due consoli e da un Consiglio di Stato, nominato dallo stesso Bonaparte, in cui venivano discusse ed elaborate le leggi. La restaurazione del potere monarchico avveniva nel segno del consolidamento delle conquiste della Rivoluzione sul piano giuridico ed economico: soppressione della feudalità; eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e al fisco; carriere aperte ai talenti; sostituzione della ricchezza alla nascita come requisito della classe dirigente; libertà d’intrapresa; riconoscimento della proprietà terriera costituitasi mediante l’acquisto di beni nazionali. Questi elementi assicurarono al regime un largo consenso. L’opposizione al governo venne osteggiata. Misure adottate negli anni del consolato: al capo dei dipartimenti furono posti prefetti muniti di estesi poteri; venne riordinato il sistema giudiziario; nel marzo del 1804 fu promulgato il Codice Civile che per la prima volta disciplinava in maniera organica tutti i settori del diritto, facendo propri i valori fondamentali espressi dalla Rivoluzione (le stesse caratteristiche si ritroveranno nei successivi Codici napoleonici: codice di commercio 1807, codici di procedura civile e criminale, codice penale 1810); la riscossione dei tributi fu affidata ad agenti dello Stato (l’onere maggiore delle tasse fu trasferito alle imposte indirette, con questi mezzi fu raggiunto il pareggio di bilancio nel 1802); creazione 1800 della Banca di Francia; 1803 creazione della nuova moneta (il franco) destinata a mantenersi stabile fino al 1914. Situazione militare 1800: il progetto di Bonaparte era quello di battere gli austriaci per poi affrontare l’Inghilterra ormai isolata e costringerla alla pace. A maggio valicò il Gran San Bernardo prendendo alle spalle gli austriaci e, dopo aver rioccupato Milano, il 14 giugno Napoleone ottenne a Marengo una decisiva vittoria. La pace con l’Austria fu firmata a Lunéville nel 1801 (annessione dell’Adige alla Repubblica Cisalpina). Dopo lunghe trattative venne stipulata ad Amiens anche la pace con l’Inghilterra. La Francia non aveva più nemici. Nel concordato stipulato con il pontefice Pio VII il cattolicesimo era riconosciuto come religione della grande maggioranza dei francesi, venivano assicurati la libertà di culto e il mantenimento degli ecclesiastici a spese dello Stato; il pontefice si impegnava ad ottenere le dimissioni dei vescovi in carica, a non rivendicare i beni ecclesiastici alienati e a consacrare i prelati nominati da Bonaparte. Dal consolato all’Impero. La terza e quarta coalizione antifrancese Con il plebiscito del 2 agosto 1802 Napoleone fu dichiarato console a vita. Lo sbocco di questa evoluzione fu la nomina a “imperatore dei francesi”, decretata nel 1804. A questo si aggiungevano il carattere ereditario della carica e la creazione di una corte modellata su quella dei Borbone. La corona imperiale fu offerta dal pontefice a Napoleone a Notre Dame il 2 dicembre 1804. Era nato un nuovo dispotismo illuminato. Quando venne proclamato l’impero, già da un anno la Gran Bretagna aveva ripreso le ostilità contro la Francia. nel corso del 1805 prese forma la terza coalizione antifrancese composta da Inghilterra, Austria, Russia, Svezia e Regno di Napoli. A fianco della Francia si schierò la Spagna. Nell’ottobre del 1805 la flotta franco – spagnola venne affrontata e distrutta a Trafalgar da quella britannica al comando di Nelson. Sul fronte terrestre Napoleone riportò una decisiva vittoria sugli eserciti austriaco e russo ad Austerlitz. Vienna dovette chiedere la pace, che fu concessa con il trattato di Presburgo nel 1805: cessione al Regno d’Italia del Veneto, dell’Istria e della Dalmazia, aggregazione del Tirolo alla Baviera, e il pagamento dell’indennità di guerra. Nei primi mesi del 1806 un esercito francese scese nel Regno di Napoli e se ne impadronì, ponendo sul trono Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, mentre i Borbone fuggivano a Palermo protetti dagli inglesi. Luglio 1806 creazione della Confederazione del Reno (associazione di Stati tedeschi alleati della Francia), questo intimorì il re di Prussia Federico Guglielmo III che si fece promotore della quarta coalizione antifrancese (Inghilterra, Prussia e Russia). Ma sul fronte terrestre l’armata napoleonica appariva imbattibile: riuscì a smembrare la Prussia; campagna contro la Russia di Alessandro I risoltasi con l’accordi di Tilsit. La strategia offensiva della Grande Armata era una conquista della Rivoluzione: la leva in massa decretata nel 1793, il rinnovamento dei quadri e l’amalgama dei vecchi con i nuovi reggimenti avevano reso impraticabile lo schieramento in linea, l’entusiasmo rivoluzionario e la mentalità offensiva dei giovani ufficiali e dei soldati aveva riportato in auge la formazione in colonna. Altro elemento di cui tener conto era il grande potenziale demografico della Francia (arruolamento dai 20 ai 25 anni). Accanto ai reggimenti di fanteria e di cavalleria vi erano i corpi d’élite e le armi tecniche. Nel 1805 la Grande Armata era composta da 592.000 uomini, nel 1813 si arrivò a 1.100.000 uomini. Vicine al milione furono nello stesso periodo le perdite dovute alle malattie e alla mancanza assoluta di igiene negli ospedali militari. Il blocco continentale, la guerra di Spagna e la quinta coalizione L’unica potenza ancora in guerra contro l’Impero francese era la Gran Bretagna. Napoleone aveva deciso di piegarne la resistenza con l’arma economica: nel novembre del 1806 aveva dichiarato l’Inghilterra in “stato di blocco”, era quindi proibito ai sudditi dell’Impero ogni commercio con le isole britanniche. Al blocco aderirono successivamente Russia, Prussia, Danimarca e Spagna. (il contrabbando era onnipresente) (lo stesso Napoleone fu costretto a concedere licenze d’importazione per alcuni generi, come il cotone, indispensabile per l’industria francese) L’economia britannica resistette e poté di nuovo respirare quando la Spagna insorse contro la Francia e quando i porti russi si riaprirono alle sue esportazioni. Napoleone riuscì ad impadronirsi della Spagna, spodestando Carlo IV e proclamando re il fratello Giuseppe. Nello stesso periodo il popolo di Madrid si sollevò contro la presenza francese e dalla capitale l’insurrezione dilagò rapidamente in tutto il Paese. La rivoluzione faceva leva sul sentimento nazionalistico degli spagnoli e sul sentimento religioso, soprattutto dopo il trattamento che il Papa aveva ricevuto da Napoleone [Nel gennaio del 1808 le truppe francesi si erano impadronite dello Stato Pontificio mentre Pio VII che aveva scomunicato Napoleone, veniva imprigionato a Savona]. L’Austria creò una quinta coalizione antifrancese con l’Inghilterra e invase la Baviera, alleata della Francia. L’esercito austriaco subì una decisiva sconfitta a Wagram e firmò la pace di Vienna (1809). Il nuovo cancelliere austriaco, Metternich, nel tentativo di ammorbidire il vincitore, gli offrì la mano di una figlia di Francesco I, l’arciduchessa Maria Luigia. Dal matrimonio (18010) nacque l’erede, Napoleone Francesco Carlo Giuseppe, che ebbe il titolo di “re di Roma”. Un po’ dovunque il sentimento nazionale si risvegliava contro la pretesa francese di dominare l’Europa. La società francese all’apogeo dell’impero Con le annessioni del 1809-1810 (Stato Pontificio, Province Illiriche, Olanda, regioni tedesche sul mare del Nord) l’Impero francese raggiunse il suo massimo sviluppo: 44 milioni di abitanti. Al vertice della società era la corte imperiale. All’istituzione della Legion d’onore (1802 per premiare i servizi resi allo stato), fece seguito nel 1808 la creazione di una nobiltà imperiale nella quale entrarono di diritto ministri, senatori, arcivescovi e vescovi. Il conferimento della nobiltà era legato al censo, cioè al possesso di una rendita graduata secondo il titolo. La proprietà fondiaria accanto alla funzione pubblica era il requisito fondamentale per l’appartenenza all’élite sociale. Napoleone continuò ad esercitare personalmente il potere. Scomparve l’opposizione. L’asservimento della stampa si completò nel 1810 con la limitazione dei giornali ad uno solo per dipartimento (quattro a Parigi) e l’istituzione della Direzione di stampa e libreria che aveva il compito sia di impedire la diffusione di notizie sgradite al regime, sia di promuovere una propaganda a suo favore. Istruzione: creati i licei e furono mantenute le scuole private sotto il controllo dello Stato; istituita l’Università imperiale. Alla preparazione dei professori provvedeva la Scuola Normale, riorganizzata nel 1810. L’istruzione tecnica superiore era affidata alla Scuola politecnica e ad altre istituzioni create sotto il Direttorio. La religione era un pilastro del regime. Nel 1806 venne imposto al clero un “catechismo imperiale” che inculcava il dovere della venerazione e della gratitudine nei confronti del sovrano, dell’obbedienza al governo, del servizio militare, del pagamento delle imposte. Questa popolarità venne compromessa dalla grave crisi economica che colpì la Francia tra il 1810 e il 1812. Al malcontento suscitato dal conseguente inasprimento dei dazi e delle imposte di consumo si aggiungeva quello determinato dal continuo reclutamento di militari da gettare nella fornace spagnola e poi nella spedizione di Russia del 1812. La riorganizzazione politico – territoriale della penisola italiana I Paesi Bassi, l’Italia, la Spagna, la Germania e la Polonia entrarono a far parte di un “sistema continentale” che presentava tre situazioni differenti: 1. Territori direttamente annessi all’Impero francese 2. Stati separati dalla Francia, ma sottoposti alla sovranità di Napoleone (Regno d’Italia) 3. Stati vassalli affidati a membri della sua famiglia o a sovrani amici Gli strumenti della conquista furono l’imposizione dei codici e delle strutture amministrative centralizzate francesi, la subordinazione alla politica estera e agli interessi economici della Francia, la coscrizione militare e i contributi finanziari. Al Regno d’Italia nel centro – nord si contrapponeva a sud il Regno di Napoli, tutte le province non facenti parte di queste due formazioni erano state in momenti diversi aggregate all’impero francese. Al di fuori del sistema napoleonico rimasero sempre la Sicilia e la Sardegna. La Repubblica Cisalpina fu trasformata in Repubblica Italiana, con una nuova Costituzione modellata su quella francese del dicembre 1799 che venne promulgata il 26 gennaio 1802 a Lione. La presidenza della Repubblica venne assunta dallo stesso Napoleone. Nella Repubblica Italiana furono introdotti istituti e ordinamenti analoghi a quelli francesi: accentramento amministrativo mediante i prefetti; coscrizione militare; riorganizzazione degli studi superiori; riordinamento delle finanze imperniato sull’imposta fondiaria; concordato (1803) con la Santa Sede che ristabiliva il cattolicesimo come religione di Stato pur mantenendo la libertà dei culti. Nel marzo 1805 la Repubblica Italiana venne trasformata in Regno d’Italia. Vennero creati nuovi organi di governo: un Consiglio di Stato e un Senato. Benne dato impulso all’istruzione elementare, fu ristrutturato il sistema giudiziario e furono adottati il Codice Napoleone e gli altri Codici francesi, vennero portati a compimento o avviati grandi lavori pubblici. Milano venne assumendo il volto di una grande capitale. Nel 1806 il Regno d’Italia venne ingrandito con l’aggregazione di tutto il Veneto, dell’Istria e della Dalmazia. Nel 1808 furono aggiunte le Marche. Nel 1809 entrò il Trentino Alto Adige. L’agricoltura, che rimaneva l’occupazione principale, soffrì in alcune regioni per la tassazione eccessiva e per la perdita degli sbocchi tradizionali, ma fu stimolata dalla richiesta di generi alimentari per l’esercito e di seta greggia per l’industria francese. Grande impulso ebbero anche la produzione laniera e l’estrazione mineraria. Le condizioni di vita delle classi popolari non conobbero significativi mutamenti, mentre i ceti medio – superiori conobbero da un lato l’integrazione con le vecchie famiglie nobili e dall’altro la promozione dei pubblici funzionari, dei professionisti, dei tecnici. Più forte fu l’incidenza della dominazione napoleonica nel Regno di Napoli. Giuseppe Bonaparte conferì dicasteri più importanti a ministri francesi, fece largo posto ad esponenti della nobiltà napoletana illuminata sia nella compagine di governo, sia nel Consiglio di Stato. Al posto di Giuseppe Bonaparte, chiamato ad essere re di Spagna, fu nominato nel 1808 Giacchino Murat che aveva sposato una sorella dell’imperatore, Carolina Bonaparte. Egli favorì lo sviluppo dei centri provinciali. Anche nel Mezzogiorno furono introdotti gli ordinamenti giudiziari e finanziari francesi, furono messi in vendita i beni nazionali, fu dato avvio ad un nuovo catasto, fu decretata la soppressione della feudalità (2 agosto 1806). A questa seguì la divisione dei demani feudali che purtroppo andò a vantaggio dei benestanti locali. Alle tensioni sociali presenti nel mondo rurale era legato il fenomeno del brigantaggio. Venne costituito un forte esercito nazionale (accanto al contingente francese) che giunse ad avere 60.000 uomini. L’Europa centro – settentrionale Le regioni dell’area tedesca che più profondamente subirono l’influenza francese furono quelle poste sulla riva sinistra del Reno. Tale influenza si andò rapidamente estendendo ai territori della Germania centro – occidentale: radicale riorganizzazione dell’assetto politico – territoriale dell’Impero germanico, varata nel febbraio 1803; i principati ecclesiastici, la maggior parte delle città libere, i piccoli feudi e molti staterelli vennero sottoposti alla sovranità degli Stati territoriali più grandi. Il Sacro Romano Impero venne ufficialmente disciolto nell’agosto 1806. Il mese precedente si era costituita la Confederazione del Reno (associazione di sedici stati sotto la protezione dell’imperatore francese). Dopo il 1807 conservavano propria indipendenza politica solo l’Impero austriaco e la Prussia. In Prussia Federico Guglielmo III dedise la ristrutturazione degli organi di governo centrali e delle amministrazioni locali, la soppressione della servitù della gleba anche nelle proprietà private, la formazione di poderi contadini autosufficienti, l’abbattimento dei vincoli all’iniziativa economica e alla libera compravendita di terre. Alla rinascita della Prussia diedero un forte impulso gli intellettuali: Fichte con i suoi Discorsi alla nazione tedesca (1808). La rinascita della Polonia, sotto forma di Granducato di Varsavia, costituito da Napoleone con le terre polacche inglobate dalla Prussia e dall’Austria, fu più effimera. Potente fu l’impulso dato al sentimento nazionale polacco. Nell’Europa della Restaurazione i Paesi dotati di Carta Costituzionale erano: Inghilterra, Francia, il Regno dei Paesi Bassi, la Svezia e alcuni Stati della Germania meridionale. Sviluppo economico e questione sociale La crescita della popolazione europea riprese a ritmo sostenuto a partire dal 1820 circa. Il significato di questa rivoluzione demografica è dovuto alla divaricazione tra gli indici di natalità (che restavano molto elevati) e quelli di mortalità (cominciavano a scendere grazie ai progressi dell’igiene e un lieve miglioramento del tenore di vita). L’aumento demografico fu accompagnato e sostenuto dall’espansione delle attività produttive: nell’agricoltura i progressi furono più lenti e contrastati. Solo verso la metà del secolo cominciarono a diffondersi i fertilizzanti chimici, le prime macchine agricole e altre tecniche adatte ad incrementare la produttività dei terreni. In Gran Bretagna la Rivoluzione industriale (avviata nella seconda metà del Settecento) entrò in una fase nuova con l’applicazione su larga scala delle nuove tecniche di produzione del ferro, alimentando una ingente esportazione e mettendo a disposizione in abbondanza il materiale per costruire attrezzi agricoli, ponti, rotaie, ecc. La prima metà dell’Ottocento vide la rapida diffusione della macchina a vapore e la sua applicazione ai trasporti. Più rapida fu l’espansione delle ferrovie: nel 1840 la Gran Bretagna possedeva già 2.390 km di rotaie. Alla fine delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna era l’”officina del mondo”, e il suo primato rimase indiscusso fino al 1870 circa. Tra le nazioni europee le prime a mettersi sulla via dell’industrializzazione furono il Belgio, la Germania e la Francia. Fenomeni sociali che si accompagnavano alla crescita industriale: migrazione di masse di lavoratori dalle campagne alle città; formazione di una classe operaia ridotta in condizioni di vita spesso disumane; l’impego massiccio di manodopera femminile e minorile; sorgere di tensioni e conflitti tra imprenditori e lavoratori. Anche nel campo dell’associazionismo operaio la Gran Bretagna fu all’avanguardia: leghe operaie, società di mutuo soccorso e cooperative di produzione e consumo cominciarono a sorgere. L’accresciuto peso del settore industriale si riflette anche sull’evoluzione del pensiero economico, dominato in Inghilterra dalle tendenze liberiste, che ebbero il loro rappresentante in Ricardo, l’inventore della “legge bronzea dei salari”, secondo cui le retribuzioni degli operai tendono inesorabilmente a corrispondere al minimo necessario per la sussistenza. In Francia fiorì il “socialismo utopico”, coniato da Karl Marx. Alcuni come Saint – Simon, invocavano un’associazione tra i governi e le forze produttive che mettesse al margine le classi oziose; altri, come Fourier, idearono delle comunità funzionanti sulla base della divisione dei compiti e della distribuzione egualitaria del prodotto; altri ancora, come Proudhon (Che cosa è la proprietà? 1840), puntavano sulla funzione del credito e sulla libera associazione tra produttori e lavoratori per eliminare le sovrastrutture rappresentate dai governi e incentivare la diffusione della piccola proprietà. La questione nazionale e i primi moti per la libertà e l’indipendenza Anche in aree caratterizzate da un persistente frazionamento politico (Germania e Italia) si può dire che fin dal tardo Medioevo esistesse una nazione culturale, percepita come unitaria dai ceti intellettuali. Perché lo sbocco unitario apparisse a gruppi via via più ampi della popolazione uno scopo per cui valesse la pena lottare, era necessario che agissero in profondità le forze storiche: l’idea della nazione come detentrice esclusiva della sovranità; l’aspirazione ad una libertà garantita dalla partecipazione dei cittadini al potere legislativo; la reazione all’egemonia imposta dalla Grande Nazione e dal regime napoleonico; la valorizzazione delle tradizioni storiche dei vari popoli; la ricerca di un’anima nazionale attraverso lo studio della lingua e dei monumenti letterari che furono tra le tendenze principali del movimento romantico; la rottura dell’isolamento delle piccole comunità locali; la moltiplicazione dei contatti tra gli individui e i gruppi determinate dal processo di modernizzazione economica e amministrativa. Uno dei primi segnali venne dalla Spagna dove il re Ferdinando VII aveva abrogato la Costituzione del 1812, ripristinato l’Inquisizione, il potere dell’ordine dei Gesuiti e gran parte dei privilegi della nobiltà e del clero. Il malcontento si tradusse in ribellione di alcuni reparti militari. Il sovrano fu costretto a ristabilire la Costituzione e a indire le elezioni per l’assemblea delle Cortes. L’esperimento liberale durò poco, perché le forze fedeli all’assolutismo organizzarono una contro rivoluzione, portando il Paese sull’orlo della Guerra Civile. Le potenze della Santa Alleanza autorizzarono un intervento militare, alla cui esecuzione si era candidata la Francia di Luigi XVIII. Nell’aprile del 1823 l’esercito francese varcò i Pirenei e spezzò la resistenza dei liberali spagnoli. La vita politica spagnola capitolò in guerra civile alla morte del re. (simile la sorte del Portogallo) Un’altra area di tensione erano i Balcani, dove la decadenza dell’impero ottomano apriva alle velleità espansionistiche della monarchia austriaca e della Russia. Grande risonanza ebbe anche la lotta per la libertà della Grecia. L’insurrezione contro il dominio turco divampò in tutta la Grecia continentale nel 1821, e nel gennaio del 1822 un’assemblea riunita ad Epidauro proclamò l’indipendenza nazionale. Le forze ottomane intervennero per domare la rivolta, ma gli atti di gratuita ferocia suscitarono una vasta indignazione in Europa, da dove partirono molti volontari per appoggiare la resistenza ellenica. Nel 1827 la Francia e l’Inghilterra si accordarono con la Russia per un intervento armato: ad ottobre le loro forze navali distrussero a Navarino la flotta turco – egiziana e l’anno seguente l’esercito russo penetrò in territorio ottomano, mentre i francesi sbarcavano nel Peloponneso. Nel 1829 la pace di Adrianopoli chiuse le ostilità sancendo l’indipendenza della Grecia. La Repubblica durò poco perché nel 1832 le tre potenze vincitrici imposero l’elezione di un monarca bavarese: Ottone di Wittelsbach. Capitolo 28 I maggiori paesi europei tra 1815 e 1848 Le isole britanniche In Inghilterra furono i problemi del dopoguerra a creare un diffuso malessere accompagnato da gravi tensioni sociali: la disoccupazione (aggravata dalla smobilitazione di 35.000 soldati), gli effetti dei cattivi raccolti agricoli e il permanere degli alti prezzi dei generi alimentari. La protesta dei lavoratori si espresse attraverso la formazione di unioni sindacali, le petizioni al Parlamento e le adunanze di massa. Nell’agosto del 1819 una folla accorse a St. Peter’s Field per ascoltare un comizio e venne dispersa per ordine delle autorità cittadine con una carica di cavalleria (il “massacro di Peterloo”). Questo inasprì ulteriormente il generale malcontento, ma negli anni Venti il potenziale conflitto sociale fu disinnescato dal miglioramento della situazione economica e dalla correzione di rotta intervenuta nella politica del governo tory. Robert Peel, esponente tory pragmatico e progressista, umanizzò il diritto penale, diede vita ad una forza di polizia ed emancipò i cattolici dalle discriminazioni giuridiche che ancora pesavano su di loro. Quest’ultima misura fu la conseguenza inevitabile della fusione parlamentare tra Gran Bretagna e Irlanda decretata nel 1800. Altre due questioni erano diventate fondamentali: la riforma del Parlamento e l’abolizione della schiavitù. Per una redistribuzione dei seggi e per un allargamento del suffragio, premevano larghi settori dell’opinione pubblica. La morte di re Giorgio IV e la successione di Guglielmo IV, più aperto alle opinioni liberali, portarono alla formazione di un governo whig presieduto da lord Grey, il cui cauto progetto di riforma parlamentare fu approvato dai Comuni, ma incontrò l’opposizione della Camera dei Lord. Solo nel giugno 1832 la Camera alta si rassegnò a far passare il provvedimento. La redistribuzione dei seggi attuata con il Reform Act del 1832 fu di notevole portata perché 36 boroughs persero entrambi o almeno uno dei rispettivi deputati a vantaggio dei centri industriali del nord oppure delle contee. A questa riforma fece seguito (1835) una riforma delle amministrazioni municipali rispondente e a criteri analoghi e l’abolizione della schiavitù in tutte le colonie britanniche (1833). La fine del boom economico degli anni Venti determinò una ripresa delle agitazioni sociali, alla quale non pose rimedio la dura legge sulla pubblica assistenza votata nel 1834, che prevedeva la reclusione forzosa dei poveri, separati dalle loro famiglie, in case di lavoro dove le condizioni di vita e l’alimentazione erano deliberatamente tenute al livello più basso, così da poter fungere da deterrente. Nacquero due grandi movimenti a carattere nazionale:  il movimento cartista, a base popolare e operaia, voleva il suffragio universale maschile, l’elezione di Parlamenti annuali, la segretezza del voto, l’uniformità dei distretti elettorali, l’eliminazione dei requisiti di censo per i deputati e l’introduzione di uno stipendio per il loro sostentamento  la Lega contro le leggi sul grano, formato principalmente da salariati e industriali, a cui il governo si arrese progressivamente approvando il provvedimento di abrogazione nel 1846, sancendo una storica sconfitta per gli interessi fondiari che avevano a lungo dominato la società inglese. Per quanto riguarda la politica estera, l’azione di Palmerston assunse caratteri imperialistici e aggressivi, come nell’invasione dell’Afghanistan nel 1838 e nella “guerra dell’oppio” contro la Cina (1839 – 1842), motivata dalla volontà di obbligare l’Impero Cinese ad aprire le sue frontiere ai traffici della Compagnia delle Indie. Questa guerra fruttò alla Gran Bretagna l’affitto perpetuo di Hong Kong. Gli altri capisaldi dell’Impero britannico erano l’Australia e la Nuova Zelanda, la Colonia del Capo, Gibilterra, Malta e le isole Ionie, il territorio degli Stati Uniti e le isole caraibiche. L’avvento sul trono della regina Vittoria (1837 – 1901) inaugurò per la Gran Bretagna un lungo periodo di crescita demografico ed economica, di riforme politiche e sociali, e di indiscussa supremazia mondiale. Nell’aggettivo “vittoriano” si fanno confluire valori come: il senso del dovere, il culto della rispettabilità e del decoro nella vita familiare come nei rapporti sociali, l’etica del lavoro, del risparmio, del “fare da sé”, la convinzione di rappresentare il culmine della civiltà. La Francia da Luigi XVIII alle rivoluzioni La restaurazione della dinastia dei Borbone (con Luigi XVIII), era stata accompagnata da un compromesso con le novità apportate dalla Rivoluzione e dalla dittatura napoleonica. Questo compromesso era stato affidato alla Carta Costituzionale, promulgata dal monarca il 4 giugno 1814. Essa prevedeva un Parlamento composto da una Camera alta o Camera dei pari, di nomina regia, e di una Camera dei Deputati elettiva, ma con suffragio ristretto. Erano riconosciuti dalla Carta alcuni principi fondamentali come: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; la libertà di coscienza e di stampa; la validità delle vendite dei beni nazionali. Venivano mantenuti il sistema amministrativo accentrato e i Codici dell’età napoleonica. Le elezioni che si tennero nell’estate del 1815 diedero la maggioranza ai realisti fanatici, emigrati rientrati in Francia dopo il crollo dell’Impero e assetati di rivincita. Ciò alimentò l’ opposizione liberale che faceva capo a Constant, La Fayette e al duca d’Orleans. L’insuccesso del partito realista alle elezioni del 1827 portò alla nomina di un governo ancora più reazionario presieduto dal principe di Polignac. Di fronte al risultato delle nuove elezioni indette tra giugno e luglio 1830, che diedero una netta maggioranza alle forze d’opposizione, Carlo X (succeduto a Luigi XVIII) tentò il colpo di forza, ma a Parigi sorsero le barricate. Carlo X preferì rifugiarsi in Inghilterra. I leader moderati indussero le due Camere a offrire la corona a Luigi Filippo d’Orleans sulla base di una costituzione monarchica modificata in senso liberale. La rivoluzione del luglio 1830 ispirò moti insurrezionali in vari Paesi europei, tra cui il Belgio che quell’anno proclamò la propria indipendenza dal Regno dei Paesi Bassi e si diede l’anno seguente una Costituzione monarchica di stampo liberale; la corona fu assunta da Leopoldo I di Sassonia – Coburgo. La monarchia Orleanista interpretò gli interessi di un’alta borghesia di banchieri e finanzieri. I moti popolari furono repressi con severità e la politica estera della Francia fu ispirata dall’intesa con l’Inghilterra, dalla contrapposizione ai regimi assoluti dell’Europa centro – orientale e dalla tendenza all’espansione coloniale che si espresse con la conquista dell’Algeria. Accanto ai filo britannici vi erano i bonapartisti, i legittimisti, i repubblicani e i socialisti. L’Europa centrale La Prussia, grazie alle massicce acquisizioni sancite dal congresso di Vienna, aveva una supremazia di fatto sui minori Stati Tedeschi ed era una rivale naturale dell’Impero austriaco per il primato all’interno della Confederazione germanica. Un passo avanti in direzione di una maggiore unità nazionale fu costituito dall’unione doganale che entrò in vigore tra il 1829 e il 1834 e giunse a comprendere la maggior parte degli Stati tedeschi con esclusione delle province austriache. Rimanevano però insoddisfatte le aspirazioni del ceto colto prussiano ad una Costituzione liberale. Le speranze riposte a questo riguardo nel nuovo re Federico Guglielmo IV si dimostrarono illusorie e il fermento della pubblica opinione crebbe negli anni precedenti il 1848. L’impero austriaco conobbe una lunga fase di immobilismo politico, contrassegnata dalla paura della rivoluzione e da un clima repressivo poliziesco. I fattori di coesione di questa monarchia multinazionale furono: l’accentramento burocratico; lo stretto legame della dinastia con la religione cattolica; la fedeltà dell’esercito; un’aristocrazia multinazionale che aveva nella corte il suo naturale punto di riferimento. L’economia non mancò di manifestare segnali di risveglio sia nelle campagne, sia nei distretti industriali, e Vienna non perse il suo ruolo di centro di una raffinata civiltà letteraria e musicale. La minaccia più grave per l’assolutismo asburgico erano le aspirazioni nazionali delle altre etnie. Il movimento più forte e organizzato era quello ungherese, ma croati, serbi, romeni della Transilvania ridotta al collasso e la sua economia fu ampiamento sottoposta alla penetrazione europea (il canale di Suez, costruito nel 1869 da una società francese, fu aperto alla libera navigazione). Lo sviluppo del Paese ebbe pesanti conseguenze anche sulle regioni del Sudan: i mercanti sudanesi poterono penetrare nel mercato egiziano sia mediante il commercio dell’avorio sia fornendo schiavi che avrebbero lavorato nelle piantagioni di cotone egiziane e in tutto il mondo islamico. Nel 1877 le difficoltà finanziarie del governo aprirono ancora una volta la strada alla penetrazione degli europei. Una grande frammentazione caratterizzò la prima metà del XIX secolo anche l’Etiopia che fu dominata da signori della guerra. I tentativi di modernizzazione destabilizzarono anche il Marocco che fu l’unico Paese del Nord Africa ad essere sfuggito nel corso dell’età moderna al dominio ottomano. Nonostante ciò i sovrani marocchini furono spinti ad attuare riforme militari ed economiche. Nel deserto e nella savana dell’Africa occidentale la minaccia europea rimase remota fino alla fine del XIX secolo. La spinta verso il superamento della frammentazione politica ebbe cause del tutto endogene: l’espansione dell’Islam fece da detonatore per la Jihad (guerra santa) che a partire dal 1804 portò alla riunificazione dell’area sotto il Califfato di Sokoto. La grande frammentazione politica fu la nota predominante anche nell’Africa del Sud: periodo di grandi conflitti nella prima metà dell’Ottocento. L’intera regione fu profondamente influenzata dall’occupazione britannica dalla Colonia del Capo. I coloni britannici divennero ben presto una potente lobby che spingeva per un maggior sfruttamento delle terre e della forza lavoro africana. Le proteste umanitarie portarono all’abolizione della schiavitù nel 1838 (ma le condizioni della popolazione nera non migliorarono). L’Asia nella prima metà del XIX secolo: la perdita del primato Il passaggio tra XVIII e XIX secolo segnò la perdita del primato del continente asiatico a favore delle maggiori potenze europee. All’inizio del XIX secolo navi mercantili e da guerra europee e statunitensi fecero il loro ingresso nei mari giapponesi destabilizzando lo shogunato Tokugawa già in crisi per difficoltà economiche e malcontento delle classi contadine e dei samurai. Le prime reali minacce vennero dalla Russia che a partire dal 1780 aveva iniziano ad insidiare il Giappone dalla Siberia. Alle pressioni russe volte ad aprire il mercato giapponese ai commercianti stranieri, si aggiunsero quelle britanniche (1808 – 1818), statunitensi (1837) e olandesi (1844). La politica di isolamento del Giappone, ribadita nel 1825 con l’espulsione di ogni nave straniera, non sarebbe durata a lungo. Nel 1839 con la guerra dell’oppio, la Gran Bretagna aveva imposto con le armi il “libero commercio” alla Cina. Questo rafforzò il sentimento nazionalista (giapponese) e l’urgenza di intensificare gli sforzi per migliorare le difese del Paese. I “trattati ineguali” (Kanagawa e Harris) portarono il Giappone ad una condizione di semi colonialismo. La Cina aveva conosciuto nel Settecento un enorme sviluppo nella produzione agricola e manifatturiera che finì col produrre effetti controproducenti: la crescita economica fu accompagnata da una esplosione demografica che aggravò le condizioni di povertà di gran parte della popolazione, producendo carestie e generale malcontento per le enormi disparità sociali. Grazie a questa situazione le potenze europee imposero una rinnovata pressione sull’impero cinese: gli inglesi svilupparono un commercio triangolare che permise loro di ottenere preziose merci cinesi (tè, seta, porcellane) in cambio del cotone e dell’oppio indiano. I cinesi cercarono di bandire l’importazione e il consumo di oppio ma scatenò la guerra nel 1839 (guerra dell’oppio). Il Trattato di Nanchino (1842) garantì ai britannici l’apertura di vari porti e il controllo di Hong Kong. Il trattato prevedeva inoltre la clausola della “nazione più favorita”: estendeva alla Gran Bretagna ogni privilegio che fosse stato concesso alle altre potenze (anche Stati Uniti e Francia ebbero accesso al mercato cinese). L’India era sotto il controllo della Gran Bretagna, ciò portò profonde trasformazioni sotto il punto di vista economico: sfruttamento di cotone e oppio per il mercato cinese. (l’Oppio forniva circa il 15% delle intere rendite del governo britannico). Al tempo stesso le produzioni tessili inglesi iniziarono a invadere il mercato indiano: ciò finì per causare situazione di depressione economica e di malcontento sociale che sfociarono in aperta ribellione. L’India era ormai entrata nel più classico profilo di sfruttamento economico di tipo coloniale (esportazione di materie prime e importazione di manufatti). Capitolo 30 L’Italia dalla Restaurazione al Risorgimento Il Regno Lombardo – Veneto e il Regno di Sardegna Il principio di legittimità fu solo in parte rispettato dal Congresso di Vienna anche per quanto riguarda la riorganizzazione degli spazi italiani. Non furono ristabilite le due antiche Repubbliche aristocratiche di Venezia e Genova: il territorio della prima fu in parte annesso direttamente agli Stati ereditari asburgici e in parte compreso nel Regno Lombardo – Veneto; la seconda fu aggregata per intero al Piemonte sabaudo. Nel Regno Lombardo – Veneto l’autorità era l’arciduca Ranieri, fratello di Francesco I, che risiedette a Milano dal 1818 al 1848. Per il resto esistevano due governi distinti: uno a Milano e uno a Venezia. A questo accentramento amministrativo facevano da contrappeso le larghe autonomie lasciate ai comuni, e una rete di congregazioni provinciali i cui membri erano nominati dal governo su proposta dei consigli comunali. Largamente autonoma, e soggetta direttamente a Vienna, era l’organizzazione della polizia. L’amministrazione asburgica del Regno Lombardo – Veneto appare una delle più scrupolose e moderne, capace di significativi progressi in campi come l’istruzione, la sanità, le costruzioni stradali. Dopo il 1820 la Lombardia seppe approfittare della favorevole congiuntura internazionale per accrescere la sua produzione di seta filata e di cotonate, e per avviare la creazione di industrie metallurgiche e meccaniche. Era però diffusa la protesta contro un prelievo tributario che andava a beneficio delle casse imperiali, e al malcontento dell’aristocrazia fondiaria per la mancata restituzione dei privilegi, l’adesione del ceto colto e di una frazione della nobiltà alle idee liberali e patriottiche veicolate dalle società segrete. Anche il clero era insoddisfatto a causa della fedeltà del governo austriaco agli indirizzi giuseppini di politica ecclesiastica. A questo l’Austria rispese con la repressione poliziesca. (es. del “Conciliatore” rivista perseguitata dalla censura sin dalla nascita, che solo dopo tredici mesi dovette cessare le pubblicazioni ) Il Regno di Sardegna fu quello che più si avvicinò alla realizzazione del programma di ritorno integrale al passato: aboliti gli ordinamenti napoleonici, furono ristabilite le Costituzioni del 1770, furono ripristinati i privilegi dell’aristocrazia e del clero, furono ben accolti i gesuiti (il cui ordine era stato riconosciuto da Papa Pio VII nel 1814), le cariche pubbliche furono assegnate a nobili di provata fedeltà e l’assolutismo regio venne restaurato in tutto il suo rigore. La crisi del 1821 portò all’abdicazione di Vittorio Emanuele I a favore del fratello Carlo Felice, che continuò gli indirizzi assolutistici e reazionari. La successione di Carlo Alberto fece spazio ad un cauto riformismo che portò all’abolizione dei diritti feudali in Sardegna, alla promulgazione di nuovi e più avanzati Codici, alla liberalizzazione dell’economia. Le solide tradizioni di buona amministrazione sabauda e di protezione dell’economia favorirono anche in Piemonte un notevole sviluppo delle attività agricole e industriali: lavorazione della lana e filatura del cotone. Anche il porto di Genova trasse vantaggio dai provvedimento carloalbertini e a partire dal 1840 registrò un consistente aumento del volume dei traffici. I Ducati padani e l’Italia centrale Il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla beneficiò del mite governo di Maria Luigia d’Asburgo Lorena, che mantenne in vigore la legislazione napoleonica e nel 1820 sostituì al Codice Napoleone un Codice civile ancora più avanzato. Ben diverso carattere ebbe il regno del duca Francesco IV d’Austria – Este a Modena e Reggio: il duca si adoperò per cancellare ogni traccia del passato regime, ripristinando i privilegi della nobiltà e del clero, richiamando i gesuiti, ordinando la reclusione degli ebrei nei ghetti, rimettendo in vigore il Codice estense del 1771, sottoponendo l’università e la vita culturale ad una sorveglianza soffocante. Il granduca di Toscana Ferdinando III d’Asburgo – Lorena si ispirò nel suo governo saggio e moderato al modello del padre Pietro Leopoldo, di cui ristabilì in gran parte la legislazione, anche in campo ecclesiastico, liberalizzò il commercio dei cereali, instaurò un clima di tolleranza nei confronti delle espressioni culturali. Questi indirizzi furono seguiti anche dal figlio Leopoldo II che promosse bonifiche e lavori pubblici; la mezzadria rimase la forma di conduzione dominante nelle campagne, ma si verificò un miglioramento qualitativo della produzione di olio e vino. Un buon andamento ebbe anche la lavorazione della lana e alcune altre manifatture come le cartiere e la produzione dei cappelli di paglia. Nello Stato Pontificio Papa Pio VII coadiuvato dal segretario di Stato Consalvi, che nel 1816 riorganizzò tutta l’amministrazione dello Stato, dividendolo in diciassette province delle quali cinque erano rette da cardinali legati, le altre da ecclesiastici di minore rango. I diritti feudali rimasero aboliti nelle ex legazioni, mentre altrove furono ristabiliti ma entro limiti ristretti. Rimanevano grandi le differenze tra le varie regioni e in particolare tra le province emiliano – romagnole, umbre e marchigiane, dove era diffusa la mezzadria e dove non mancavano attività artigianali e commerciali, e il Lazio, regno del latifondo e della grande aristocrazia fondiaria. A Roma si agitavano folle di mendicanti e vagabondi (assistiti da molte istituzioni assistenziali). Sotto i successori di Pio VII (Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI) ebbe la prevalenza il partito degli “zelanti”, cioè dei cardinali più intransigenti nell’opposizione ad ogni novità. Il Regno delle Due Sicilie Il Regno delle due Sicilie fu senz’altro quello che più mantenne un legame di continuità con le istituzioni napoleoniche (ciò vale solo per il Mezzogiorno continentale, perché la Sicilia non fu mai occupata dagli eserciti francesi e rimase sotto il dominio dei Borbone). Ferdinando I fu interprete della linea di moderazione consigliata da Metternich e dal governo inglese. Il Primo Ministro di fatto fu Luigi de’ Medici, che si adoperò per inserire nella classe di governo parecchi collaboratori di Giuseppe Bonaparte e di Murat; furono conservati le suddivisioni statali e amministrative; furono mantenuti in vigore a Napoli, ed introdotti in Sicilia, i Codici napoleonici; continuò la quotizzazione dei demani feudali. Le finanze furono risanate con tagli alle spese per i lavori pubblici e alla pubblica istruzione. Con la Chiesa il Medici attuò una politica di conciliazione. Questo sforzo di pacificazione fu gravemente compromesso dai moti del 1820 – 21 e dal conseguente irrigidimento della corona in senso assolutistico e autoritario. L’agricoltura registrò qualche progresso, con l’estensione delle colture specializzate e della cerealicoltura; ma ciò avvenne a danno della pastorizia e accelerò il disboscamento, con effetti rovinosi per la stabilità dei suoli. In Sicilia l’abolizione della feudalità, modificò solo in superficie le gerarchie sociali, basate nelle campagne sulla triade composta dai grandi proprietari, dai grandi affittuari intermediari, e dai coloni, nelle città sui ceti professionali e sulle maestranze artigiane. Elementi di novità nell’economia isolana furono l’esportazione di vini pregiati e il forte sviluppo della produzione dello zolfo, scavato nelle miniere. Nei settori industriali si accrebbe la dipendenza dai Paesi più avanzati. Nella prima metà dell’Ottocento si accentuò il divario tra Nord e Sud della penisola: era il preannuncio della “questione meridionale”. Le società segrete e i primi moti per la libertà e l’indipendenza Dal vecchio tronco della massoneria settecentesca, e dai “club” dell’epoca rivoluzionaria si diramarono, nei primi decenni dell’Ottocento, una serie di associazioni che avevano in comune l’obbligo del segreto, circa le loro finalità e circa l’identità degli affiliati, e il ricorso a riti particolari di iniziazione dei nuovi membri. La più nota delle società segrete è la Carboneria, introdotta nel Regno di Napoli dai francesi dopo il 1806, e da lì diffusasi dopo il 1814 nelle altre regioni italiane e anche all’estero. Negli anni della Restaurazione i suoi membri si diedero come obiettivo principale la richiesta di una Costituzione simile a quella spagnola del 1812, più radicale di quella francese del 1814. Altre sette rivoluzionarie erano: gli adelfi e i sublimi maestri perfetti e la Federazione Italiana; di tendenza reazionaria erano invece i calderari e i sanfedisti. Furono i gruppi carbonari presenti nella guarnigione militare di Nola a dare vita al primo moto insurrezionale agli inizi del mese di luglio 1820. Ferdinando I spaventato, si impegnò a concedere la Costituzione. Il Parlamento si trovò davanti il difficile problema del separatismo siciliano: alla rivolta non avevano aderito tutte le città della Sicilia, generando discordie. Il Parlamento di Napoli inviò truppe per ristabilire l’ordine nell’isola. Nel frattempo un congresso delle grandi potenze riunito a Troppau aveva adottato una risoluzione che autorizzava l’intervento armato per contrastare i movimenti rivoluzionari e aveva invitato Ferdinando I a rendere note le sue intenzioni: quest’ultimo dichiarò che la Costituzione gli era stata estorta e chiese apertamente l’intervento della Santa Alleanza. Le forze napoletane non furono in grado di opporre una resistenza efficace e a Napoli fu ristabilito il governo assoluto di Ferdinando I. Più circoscritto fu il moto insurrezionale esploso in Piemonte nel 1821. I giovani aristocratici promotori della rivolta si proponevano di obbligare la monarchia sabauda a concedere la Costituzione e a muovere guerra all’Austria per
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