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Storia moderna, Capra. Dalla scoperta dell'America a Napoleone Bonaparte, Sintesi del corso di Storia

Riassunto del manuale di storia moderna, del Capra. Dal 1492.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 28/01/2018

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marcella_salicone 🇮🇹

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Scarica Storia moderna, Capra. Dalla scoperta dell'America a Napoleone Bonaparte e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! PARTE PRIMA: LA LUNGA DURATA La popolazione e le strutture familiari Fonti e metodi Gli studi sulla popolazione hanno conosciuto nell’ultimo mezzo secolo uno straordinario sviluppo, legato in parte all’interesse per la storia della società e della famiglia e all’esigenza di integrare le fonti descrittive con una documentazione di tipo quantitativo e seriale. Thomas Robert Malthus nel “Saggio sul principio di popolazione” discute dello squilibrio tra popolazione e risorse alimentari: La popolazione se non controllata cresce in progressione geometrica (1,2,4,8..),mentre le risorse necessarie alla sopravvivenza crescono solo in progressione aritmetica (1,2,3,4..). A frenare l’aumento incontrollato della popolazione intervengono, ciò che Malthus chiama “i freni repressivi”: carestie, epidemie, guerre.. che temporaneamente ristabiliscono l’equilibrio alterato, in attesa di un nuovo ciclo di incremento demografico. Secondo Malthus è importante l’adozione di “freni preventivi”, cioè la limitazione cosciente di matrimoni e fecondità, soprattutto da parte dei più poveri. Un contributo significativo del progresso degli studi demografici vanne dai cosiddetti “aritmetici politici” inglesi del Seicento (William Petty e Gregory King) e poi dagli scrittori settecenteschi francesi e tedeschi tra cui citiamo Johann Peter Sussmilch, che fu l’inventore del termine “Statisk”. Al XVIII secolo risalgono i primi censimenti, modernamente impostati. Prima si avevano numerazioni di nuclei familiari compiute a scopi fiscali (libro del giudizio universale), conteggi degli abitanti di citttà o distretti per la distribuzione dei viveri o per il censimento degli uomini atti alle armi. (catasto fiorentino 60.000 famiglie). Altra importantissima miniera di dati è rappresentata dalle fonti ecclesiastiche, distinguibili a loro volta in fonti relative allo stato e relative al movimento della popolazione. Le prime consistono principalmente negli “stati delle anime”; gli elenchi degli abitanti di una parrocchia. Per il movimento della popolazione la documentazione di base è costituita dai libri in cui erano registrati gli eventi fondamentali, dal punto di vista religioso della vita dei parrocchiani (battesimo, matrimonio, sepoltura). Il movimento della popolazione in congiunzione con gli stati delle anime consentono di determinare natalità, mortalità, nuzialità. Per ogni mille abitanti. Attraverso medie pluriennali. Successivamente, da demografi francesi venne elaborato un metodo di spoglio noto come “ricostruzione nominativa delle famiglie”: 1. Formazione di una “scheda di famiglia” per ogni matrimonio 2. Trascrizione, su queste schede, di tutti gli eventi demografici desunti dai libri dei battesimi e delle sepolture I risultati di queste ricerche non riguardano solo la demografia in senso stretto: rilevanti per la storia sociale e per quella delle mentalità, sono per esempio, le notizie che si possono ricavare sulle nascite illegittime, sui concepimenti prenuziali, sull’alfabetizzazione, data l’usanza di far firmare agli sposi l’atto di matrimonio. Ma il metodo nominativo sembra fallire se pensiamo a un matrimonio celebrato in un’altra parrocchia e che sfugge alla rilevazione così come sfuggono coppie che emigrano altrove ecce cc. Ecco perché i demografi hanno poi elaborato tecniche diverse, basate su grandi aggregati: ricordiamo la costruzione di piramidi delle età: ottenute disponendo parallelamente all’ascissa gli istogrammi relativi al numero degli individui, a sinistra i maschi e a destra le femmine, divisi per scaglioni di età; Altro procedimento è la costruzione di tavole di mortalità: si applicano a schiere di nati in uno stesso anno. Eliminando i morti al termine di ogni anno si consente tra l’altro di calcolare la speranza di vita a qualsiasi età. (è possibile anche il calcolo dell’età media al matrimonio). La popolazione europea Tra il Quattrocento e l’Ottocento molto più della popolazione mondiale viveva nel continente asiatico. Le cifre della tabella (pagina 7) evidenziano la vera e propria catastrofe demografica che colpì l’America con l’avvio della colonizzazione europea (Russia compresa). [L’arresto dello sviluppo dell’Africa era in larga misura collegato allo stesso evento]. Si delineano per quanto riguarda il nostro continente tre grandi fasi: 1. Una crescita demografica generale e continua 2. Un forte rallentamento nel XVII secolo 3. Una rinnovata tendenza espansiva nel Settecento che si prolunga e anzi si rafforza nel XIX secolo. Una certezza è che in assenza di flussi migratori di consistenti dimensioni, la lentezza della crescita della popolazione è dovuta all’alta mortalità, i cui indici medi sono pericolosamente vicini a quelli della natalità, assai elevata. Ma anche questo esiguo margine poteva essere annullato dalle crisi demografiche. Un’epidemia, un cattivo raccolto… moltiplicavano i decessi annui. Poi, passata la pestilenza tutti gli indici si invertivano la mortalità scendeva al di sotto dei suoi livelli normali, aumentavano gli indici di nuzialità e natalità, si celebravano matrimoni rinviati… Nell’età moderna erano sconosciute (salvo da gruppi ristretti) le pratiche contraccettive, ma nonostante ciò non avveniva, come si pensava, che le coppie mettessero al mondo un gran numero di figli. In gran parte dell’Europa le donne si sposavano piuttosto tardi e quindi gran parte della loro vita feconda rimaneva inutilizzata. Gli intervalli tra i parti, dopo il primo, tendevano ad allungarsi a causa soprattutto dell’allattamento prolungato che induce solitamente a sterilità nella donna. La storia della famiglia Molta fortuna ha avuto lo studio della popolazione del Gruppo di Cambridge, diretto da Peter Laslett, che ha distinto cinque tipi di aggregati: 1. La famiglia detta “nucleare” composta esclusivamente da i due coniugi e dai loro eventuali figli 2. La famiglia “estesa” in cui si aggiunge almeno un altro convivente (fratello, genitore di uno dei due coniugi 3. La famiglia “multipla” caratterizzata dalla compresenza di almeno due nuclei (coppia di anziani che abitano con il figlio e la sua sposa) 4. La famiglia “senza struttura” alla cui base non vi è un rapporto matrimoniale 5. I “solitari”. Secondo Laslett la famiglia nucleare è predominante, giudizio dato alla fine degli anni Sessanta. Ma via via che si accumulavano i risultati delle ricerche compite in altri Paesi il quadro diventò molto più complesso: Laslett e John Hojnal, distinsero due modelli matrimoniali e familiari: 1. Si basava su tre regole e si riferiva all’Europa nord-occidentale. Innanzitutto sia gli uomini che le donne si sposavano abbastanza tardi (i primi dopo i 26 anni, le seconde dopo i 23) ed una quota abbastanza alta (15%) non si sposava affatto. In secondo luogo, gli sposi seguivano la regola di residenza neolocale dopo le nozze (mettevano su casa per proprio conto; famiglia nucleare). In terzo luogo, prima delle nozze un’alta quota di giovani passava alcuni anni fuori casa, presso un’altra famiglia. 2. Prevedeva il matrimonio precoce e la residenza patrilocale (sposi convivono con i genitori del marito) ed escludeva il servizio prenuziale presso altre famiglie. Si riferisce all’Europa orientale e meridionale. Questi schemi sono stati incapaci di spiegare la varietà delle situazioni reali. Solo un attento studio dei condizionamenti economici da un lato, delle norme giuridiche e delle pratiche sociali dall’altro, è in grando di rendere conto di queste varianti la famiglia non rappresentava solo, dal punto di vista economico, La servitù della gleba, chiamata talvolta “secondo servaggio”, venne dunque rafforzata a partire dal XV secolo e introdotta anche in quelle aree di Europa orientale dove prima era sconosciuta. (In Russia permane fino al 1915). Il territorio agricolo di un villaggio prussiano o polacco, o russo, era diviso tra una o due grandi tenute signorili e un certo numero di piccoli poderi. Le famiglie insediate in questi ultimi traevano dai propri campi il necessario per vivere, ma dovevano dedicare una parte preponderante del loro tempo a lavorare gratuitamente le terre del signore. Anche il servizio domestico nella casa del nobile era assicurato dai figli e dalle figlie dei contadini, e nei mesi invernali la forza di lavoro poteva essere sfruttata per attività industriali (distillazione della birra, della vodka, l’estrazione mineraria). I prodotti accedenti il fabbisogno della casa padronale erano commercializzati all’estero, e il ricavo serviva per l’acquisto di prodotti dell’occidente. Non sempre le masse rurali accettavano il loro destino di meseria e oppressione. Davano vita a manifestazioni di protesta che potevano tradursi in suppliche rivolte alle supreme autorità, ma anche in sommosso e rivolte estese talvolta a intere regioni. Ricordiamo la ribellione dei comunerosi in Castiglia (1520-1521). L’economia urbana Identificare le campagne con l’attività agricola e le città con i settori secondario e terziario dell’economia sarebbe sbagliato. Molte città, d’altra parte, ospitavano un numero rilevante di agricoltori e orticoltori che lavoravano le terre dei dintorni o anche gli spazi liberi all’interno delle mura. Tutti quei manufatti che richiedevano una superiore capacità artigianale provenivano in massima parte dalle botteghe cittadine o da organizzazioni che avevano nella città il loro centro motore. Comunque, gran parte degli oggetti di uso quotidiano continuava, come nel Medioevo, ad essere prodotta da artigiani che lavoravano soli o con pochi collaboratori, in casa o in laboratori/botteghe. I settori predominanti erano la lavorazione del legno, dei metalli, del cuoio e dei pellami, i diversi rami del tessile, la confezione di indumenti, l’alimentazione e l’edilizia. Ognuno di questi settori si divideva in diverse specializzazioni. Per quanto riguarda l’organizzazione produttiva, la maggiore novità dei secoli XV-XVIII sta nella grande diffusione del sistema noto come industria a domicilio, protoindustria. Nell’industria a domicilio, la figura centrale era il mercante imprenditore che acquistava la materia prima e la affidava a operai che lavoravano nella propria abitazione. Il settore tessile rimane a lungo quello dominante nell’industria europea. Rispetto ai tessuti italiani, comunque buoni, quelli fiamminghi erano fatti di lana meno fine e non cardata: riuscivano dunque più leggeri ed economici. Quando l’industria fiamminga entrò in crisi (anche per effetto della rivolta contro la Spagna), olandesi e inglesi furono pronti a prenderne il posto. Con gli inglesi abbiamo l’affermazione delle new draperies, panni leggeri e tinti a colori vivaci; segnò un grande rilancio delle esportazioni. Accanto alla lana, importanza aveva il lino (prodotto in grande quantità nella Francia settentrionale), lino misto a cotone e seta (Firenze, Milano, Granada… oltre a Lione) Nel campo della meccanica si ebbero una serie di perfezionamenti che interessarono soprattutto l’orologeria (bilanciere, pendolo), la costruzione di strumenti nautici e di armi da fuoco… grazie all’introduzione di pompe idrauliche per il drenaggio delle gallerie e dei possi permise di sfruttare giacimenti posti anche a grande profondità. Altrettanto notevoli i progressi compiuti dalla siderurgia, grazie alla diffusione degli altiforni costruzioni in muratura dove l’alta temperatura necessaria alla funzione del minerale ferroso era raggiunta mediante un fuoco di legna attizzato da una corrente d’aria (Svezia, uno dei maggiori paesi produttori del ferro). Moneta, prezzi, mercato Per quanto sussistettero forme di autoconsumo tra il XVI e il XVIII secolo, l’economia monetaria era ormai universalmente diffusa. A partire dal XIII secolo vigeva ovunque un regime di bimetallismo, nel senso che erano l’oro e l’argento a determinare i valori di scambio anche per le monete divisionali fabbricate in rame. Il quadro era complicato dall’esistenza di monete di conto (sterlina, la lira) che non erano effettivamente coniate ma che servivano da misuratori delle monete che non erano effettivamente in circolazione, e dal frequente ricorso dei governi europei alla pratica dello svilimento delle monete da essi battute (riduzione del loro tenore di fino… il peso del metallo prezioso in esse contenuto). La svalutazione delle monete divisionali, che erano concepite come frazioni delle monete di conto, trascinava con sé la svalutazione di queste ultime, in cui erano espressi di norma i pagamenti. Poiché per esempio, la lira imperiale (Germani) era divisa in 20 soldi e 240 denari (12 per ogni soldo), lo svilimento del quattrino (moneta milanese pari a quattro denari, cioè a 1/6 di lira) portava come conseguenza l’aumento dei prezzi espressi in lire e la rivalutazione, sempre in termini di lire, delle monete d’oro e d’argento che mantenevano stabile il loro peso. Tabella pagina 25 illustra la perdita di valore espressa in grammi d’argento, delle principali monete di conto europee tra il 1450 e il 1750. Veniva espressa in grammi d’argento per eliminare gli effetti delle manipolazioni monetarie (no + prezzi nominali); ma anche così depurate, le serie dei prezzi mostrano una spiccata tendenza all’aumento tra la fine del XV e XVII secolo. Perché? Lo si comprende con la formula di Fisher: MV = PQ Massa monetaria in circolazione X Velocità di circolazione = Livello dei prezzi X Quantità di beni acquistabili. P= MV/Q Se quest’ultima aumenta (la Q) in misura minore di M o di V o di tutte e due insieme, è chiaro che i prezzi saliranno. La produzione di argento delle miniere europee probabilmente raddoppiò tra la metà del Quattrocento e il 1530 circa. In seguito, la disponibilità d’oro e d’argento fu sensibilmente accresciuta dalle importazioni di questi metalli dal Nuovo Mondo. Tabella pagina 26 illustra l’andamento degli arrivi d’oro e d’argento a Siviglia tra il 1530 e il 1660. Ceti e gruppi sociali Ordini, ceti, classi. La stratificazione sociale nell’Europa d’antico regime Fino alla diffusione delle idee illuministiche, la visione della società dominante in Europa era una visione corporativa e gerarchica l’individuo non contava per sé, almeno che non fosse un re o un papa, ma contava in quanto membro di una famiglia, di un corpo, di una comunità. Gli storici odierni tendono a sottolineare la lunga durata di pratiche sociali e schemi mentali risalenti al Medioevo o alla prima età moderna. Uno dei più antichi e radicati era quello che concepiva la società come divisa in tre grandi ordini: 1. Gli oratores, coloro che pregavano, cioè il clero; 2. I bellatores, coloro che combattevano, cioè la nobiltà; 3. I lavoratores, coloro che lavoravano per tutti. Naturalmente la stratificazione sociale era ben più complessa, e soprattutto all’interno del Terzo stato vi erano molteplici divisioni (Il parlamento di Parigi riproponeva nei termini dei tre ordini, i tre stati della nazione). Più che il concetto moderno di classe, che si applica a quanti esercitano la stessa funzione economica, è più idoneo il termine di ceto, a distinguere questi gruppi. a determinare il rango sociale di un individuo concorrevano infatti la nascita, il ruolo ricoperto nella vita pubblica e il prestigio e i privilegi con questo connessi. I diversi ceti dovevano disporsi in una scala gerarchica ben ordinata, dalla base al vertice della società. [Charles Loyseau, giurista francese, giustificava queste diseguaglianze con l’idea di una gerarchia naturale tra tutte le creature, voluta dalla provvidenza divina. (Pico della Mirandola, l’uomo nel mezzo, come camaleonte)] Questa visione era talmente radicata nell’Inghilterra del Cinque-Seicento che anche un capo rivoluzionario come Oliver Cromwell identificava “l’interesse della nazione” con la distinzione tra un “lord, un gentiluomo e un coltivatore”. A questa visione si oppone la civiltà comunale del Due-Trecento, di cui si era fatto portavoce Dante Alighieri nel Convivio (discendenza comune di Adamo nega l’esistenza di un’aristocrazia del sangue. Se Adamo fu nobile, tutti siamo nobili, se fu vile, tutti siamo vili). Nobili e civili Nobiltà e clero erano i due ceti meglio riconoscibili e più chiaramente definiti dal punto di vista giuridico. Tuttavia, ciascuno dei due, comprendeva al suo interno una vasta gamma di sottogruppi. Qui ci occuperemo di parlare dei ceti nobiliari. L’origine e la configurazione delle élites nobiliari europee presentano molte specificità locali, ma ovunque, nobiltà significa in primo luogo ricchezza, o almeno agiatezza. Una ricchezza basata fondamentalmente sulla proprietà della terra. Lo stereotipo del nobile ozioso e spendaccione corrisponde solo in parte alle realtà dell’antico regime europeo. E proprio per tutelare i patrimoni dall’eventualità di un erede scialacquatore si diffondono nell’età moderna meccanismi giuridici come il fedecommesso e la primogenitura. La figura del nobile povero è più frequente là dove la nobiltà è più numerosa. In Polonia, per esempio, dove essa toccava il 7-8% della popolazione, era normale che i nobili poveri andassero a servizio nelle case dei magnati. In Inghilterra, la nobiltà titolata, contava ancora nel XVIII secolo appena 200 persone, mentre 25-30.000 erano gli appartenenti alla gentry, una sorta di piccola nobiltà rurale. Altrove, alcuni privilegi di carattere onorifico o utile, erano comuni a tutti coloro che erano riconosciuti nobili, e proprio questo elemento acuiva il desiderio in chi ammassava molto denaro di entrare a far parte dell’élite sociale. Pur se teoricamente una, la nobiltà comprendeva diversi livelli di ricchezza e prestigio. In Castiglia si contano 7 categorie gerarchicamente ordinate… dai grandi di Spagna (un titolo istituito da Carlo V) ai semplici hidalgos e ai caballeros villanos (letteralmente nobili contadini). In Francia era enorme la distanza fra la grande nobiltà di corte o anche tra la nobiltà di toga (consiglieri) e i cosiddetti hoberaux (nobili di campagna possessori di un castelluccio o in rovina e di pochi ettari di terra). Ugualmente vario era il rapporto tra ceti nobiliari e potere politico carattere eccezionale aveva nell’Europa moderna la gestione diretta del potere da parte delle oligarchie aristocratiche, in quanto l’Europa era sostanzialmente dominata da monarchie. Sui problemi dell’organizzazione degli stati ci soffermeremo nel prossimo capitolo, qui merita ricordare che il rafforzamento degli apparati statali tra la fine del XV e gli inizi del XVII secolo, sommandosi alle ripercussioni sociali della crescita economica e della “rivoluzione dei prezzi”, fu in parecchi casi all’origine di una sorta di crisi d’identità dei ceti nobiliari, alle prese…da un lato con la concorrenza sempre più agguerrita di nuovi gruppi di origine mercantile e “borghese” e dall’altro con controlli e limitazioni sempre più severe delle loro abitudini di violenza e anarchia feudale è proprio ciò che porta a quell’ossessiva ricerca di legittimazione del primato nobiliare e quello slittamento dalla virtù e dal valore militare, come motivi fondanti della nobiltà, al sangue e alla stirpe. Ma come si diventa nobili? I patriziati dell’Italia centro-settentrionale avevano elaborato un sistema di cooptazione basato sull’antica residenza in città, sulla ricchezza… altrove si affermò il principio che era nobile solo chi era riconosciuto per tale dal monarca. I nuovi nobili erano naturalmente guardati con disprezzo e sarcasmo dai rappresentanti contrattuale deve avere la delega dei poteri a un monarca. era così possibile sia giustificare l’autorità assoluta del monarca, sia postulare l’esistenza di limiti alla sua volontà. La voce più influente fu quella di Thomas Hobbes (Leviatano). Lo stato di natura si configura per lui come una guerra incessante di tutti contro tutti: l’uomo di Hobbes è infatti essenzialmente amorale, dominato dalla ricerca del proprio piacere e tornaconto. Una simile e totale soggezione degli individui alla volontà del monarca, era inconcepibile per il filosofo olandese Baruch Spinoza interpretava la concessione del monopolio della forza al monarca come una garanzia per il godimento della tranquillità e della libertà di coscienza. Ma chi impresse alla teoria del contratto una decisiva svolta in senso liberale fu l’inglese John Locke Nei “Due trattati sul governo” egli argomentò che i diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà privata sono anteriori al costruirsi della società. La loro tutela quindi, deve essere l’obiettivo principale del contratto che i sudditi stipulano con il sovrano. Nel XVIII secolo, la più originale reinterpretazione del contratto sociale fu data da Jean-Jacques Rousseau. Ma di più larga influenza ebbero: la monarchia temperata di modello inglese in primo luogo ad opera di Montesquieu, e l’esaltazione del dispotismo illuminato da parte di Voltaire. Si sosteneva che solo chi sta al di sopra di tutti può avere una chiara visione degli interessi generali e agire efficacemente per il pubblico. Funzioni e articolazioni del potere statale Ma quali erano i poteri dello Stato? Ai governi, fossero essi di natura monarchica o aristocratica, erano riconosciuti il diritto-dovere della difesa del territorio e quello del mantenimento dell’ordine e della pace al suo interno: il primo coincideva con gli strumenti della diplomazia e della guerra, il secondo era concepito soprattutto come amministrazione della giustizia. Il luogo dove la potenza del re si rende più manifesta è la corte. Una delle funzioni principali di questo apparato era raccogliere intorno al re la nobiltà più ricca e prestigiosa. Ma la corte è anche il centro di elaborazione di una raffinata cultura artistica e letteraria e delle norme che regolano i rapporti sociali. Fin da allora però la conduzione degli affari politici, pur facendo capo alla stessa persona del monarca, assume caratteri e percorsi chiaramente distinti dalla vita di corte vera e propria. Dovunque il re è coadiuvato da un consiglio (consiglieri, segretari del principe. Nell’età moderna il diritto del principe impone la propria supremazia su ogni altro ordinamento, la cui validità viene ammessa solo sulla base della sua approvazione espressa o tacita. Solo l’illuminato giuridico maturo indicò come esigenza primaria la codificazione, cioè la redazione di un corpo di leggi (civili e penali), organico e autonomo. (Fine del XVIII) La situazione di partenza vede una molteplicità di giurisdizioni, solo in parte riconducibile allo stato: giustizia ecclesiastica, giustizia signorile, magistrature cittadine, mercantili, corporative, universitarie… I grandi tribunali non solo controllano l’applicazione della legge, ma contribuiscono a crearla o interpretarla con le loro sentenze, e si arrogano anche una funzione come guardiani della “costituzione”. Solo in Francia si generalizza la pratica della vendita delle cariche giudiziarie che alimenta il formarsi della nobiltà di toga. Un caso speciale è quello dell’Inghilterra, dove la giustizia è amministrata al livello superiore da giudici regi itineranti, localmente da giudici di pace che prestano servizio volontario, e dove lo stesso diritto è il prodotto della giurisprudenza delle corti accumulatasi nei secoli. Tra gli affari di governo un’importanza dominante rivestono la politica estera e la guerra. Gli apparati militari contribuiscono al rafforzamento dello stato in due modi: Da un lato, come strumenti di espansionismo all’esterno e di repressione e intimidazione all’interno; dall’altro come volano di un prelievo tributario che fa affluire nelle casse regie una quota crescente del reddito nazionale. Religione, mentalità, cultura Religione e magia Se vi è un elemento comune tra le popolazioni europee alla fine dell’età preindustriale, questo è la centralità del sacro. La parrocchia costituiva, l’unità di base della vita associata in tutta l’Europa cristiana. Il curato costituiva nella maggior parte dei casi il più importante tramite col mondo esterno. Sia il tempo, sia lo spazio erano profondamente impregnati di valori cristiani: il calendario annuale era dominato dalle grandi solennità religiose, i tempi della giornata erano scanditi dalla campana della chiesa e le ore della notte si cominciavano a contare dall’Ave Maria della sera. Città e campagne erano caratterizzate dalla presenza di edifici religiosi e immagini sacre. Il territorio agricolo del villaggio era riconsacrato ogni anno dalla processione primaverile che ne percorreva i confini. La preoccupazione per il destino ultraterreno è attestata dalla diffusione della credenza nel Purgatorio e dall’enorme fortuna della indulgenze bandite dalla chiesa: si trattava della remissione parziale o totale delle pene del Purgatorio che il fedele avrebbe dovuto scontare. La Madonna, oggetto di una venerazione superiore perfino a quella tributata al Cristo, e i santi erano visti come potenti intercessori, in grado di ottenere ai loro fedeli grazie straordinarie e anche di operare guarigioni e altri interventi miracolosi. Il confine tra religione e magia era assai labile per le masse di credenti. Poteri magici erano spesso attribuiti al prete o al frate come partecipe della sfera del sacro, alle reliquie e agli oggetti utilizzati per il culto, alle formule impiegate nella messa o per gli esorcismi. Era diffusissima la credenza che anche altri individui detenessero facoltà soprannaturali Fin dal basso Medioevo le attività di questi individui erano state messe in rapporto con la presenza del maligno nel mondo. Si credeva che streghe e stregoni dovessero i loro poteri a un patto stipulato col diavolo. (Sabba: convegni notturni). Questa contiguità tra religione e magia divenne uno dei motivi centrali della polemica protestante contro la chiesa di Roma. Tra i bersagli delle autorità protestanti e cattoliche rientrarono le festività profane, il carnevale, le danze… la caccia alle streghe raggiunse il parossismo tra il 1580-1660; sospetto e intolleranza che si espresse anche nella persecuzione degli ebrei e nell’ossessione degli untori (individui accusati di spargere la peste con unguenti malefici). Processi che si concludevano spesso con condanne al rogo. Cultura orale e cultura scritta L’opera di “disciplinamento sociale” affidata sia alle Chiese riformate sia alla Chiesa cattolica post- tridentina, proseguì nel XVII e XVIII secolo. Ne risultò non solo una più completa cristianizzazione delle masse popolari, ma anche una rarefazione dei comportamenti violenti e amorali e perfino una crescita dell’alfabetizzazione. Molto meno diffusa in Italia che nel resto dell’Europa, dove all’atto di unificazione (1861) almeno il 70% delle persone non sapeva né leggere né scrivere. La cultura rimane per tutto l’antico regime prevalentemente orale. Difficile anche lo studio di questa cultura in quanto gli analfabeti non lasciavano fonti. Molto possono dirci sul modo di vita delle classi popolari manufatti risalenti a epoche remote (utensili, mobili, arredi domestici…) oggi conservati in musei specializzati. L’approccio folcroristico tende inevitabilmente a privilegiare le manifestazioni collettive, come le feste, le danze, usanze matrimoniali e funerarie. Per quanto riguarda la cultura scritta, la novità di gran lunga più importante agli inizi dell’età moderna fu l’invenzione della stampa, considerata da Francesco Bacone, insieme alla bussola e alla polvere da sparo, tra quelle che più avevano “cambiato l’aspetto e la condizione del mondo intero” Johann Gutenberg, che verso la metà del XV secolo ebbe l’idea di utilizzare per la stampa lettere e caratteri singoli, ottenuti mediante il versamento di piombo fuso in matrici metalliche. Ma una delle prime e più famose opere fu la Bibbia detta delle 42 linee, composta in 4 anni di lavoro dopo il 1450. Molto importante era il torchio: un telaio di legno munito di un carrello scorrevole su cui veniva posata la forma riempita di caratteri: questa forma veniva inchiostrata con rulli o tamponi e sospinta sotto la platina, un piano sovrastante su cui era fissato un foglio di carta bianca. La stampa fu un potente strumento di diffusione degli scritti di Lutero e degli altri riformatori. La potenzialità della stampa fu intuita per tempo dalla Chiesa che introdusse fin dagli inizi del 500 le prime forme di censura preventiva e a partire dal 1559 pubblicò periodicamente indici di opere proibite. Accanto alla censura ecclesiastica venne organizzata dappertutto anche una censura statale. La seconda metà del Seicento e il Settecento, videro anche uno straordinario sviluppo della stampa periodica, nella forma delle gazzette e dei giornali letterari… Produzione e trasmissione del sapere L’università continuò ad espandersi nella prima età moderna. Era strettamente controllata dal potere politico e religioso; cessarono inoltre di essere centri di elaborazione di una cultura d’avanguardia e si ridussero per lo più alla funzione di cittadelle di un sapere tradizionale, finalizzato alla formazione professionale di teologi, uomini di legge e medici. Nei Paesi cattolici le famiglie aristocratiche e benestanti preferivano affidare la formazione dei loro figli a collegi gestiti dagli ordini religiosi dove la loro condotta era più sorvegliata e dove accanto a un’istruzione imperniata sullo studio del latino essi potevano apprendere le lingue straniere e le così dette scienze cavalleresche. L’insegnamento elementare, ai rampolli delle famiglie facoltose, nell’ambito delle mura domestiche da precettori. Efficace fu anche l’azione dei vescovi postridentini, come dimostra la propagazione delle scuole di dottrina cristiana a Milano per l’impulso di San Carlo Borromeo. Fattore decisivo era l’esistenza di una domanda d’istruzione, cioè la convinzione delle famiglie che un’istruzione elementare fosse utile per il futuro della prole. PARTE SECONDA: AVVENIMENTI E PROBLEMI Monarchie e imperi tra XV e XVI secolo I Regni di Francia, Spagna, Inghilterra e l’Impero germanico Sotto Carlo VIII e i suoi successori Luigi XII e Francesco I (Francia), continuò nella monarchia francese la tendenza all’accentramento del potere nelle mani del re e dei collaboratori da lui scelti. Si rafforzò l’amministrazione finanziaria, imperniata sull’esazione della taglia (imposta sui redditi da cui erano esenti nobiltà e clero) e sulla suddivisione del paese in circoscrizioni fiscali delle généralitatés; si affermarono in ambito giudiziario l’azione del Gran Consiglio (emanazione del Consiglio del re) e quella dei Parlamenti. Nel 1516 Francesco I stipulò con papa Leone X un concordato a Bologna: veniva lasciata cadere l’affermazione della superiorità del concilio sul pontefice, ma in cambio il re di Francia si vedeva riconoscere il diritto di nomina a tutti i vescovati e gli arcivescovati, alle abbazie e ai priorati nel proprio territorio. Non dobbiamo pensare tuttavia, che la monarchia francese esercitasse già intorno al 1500 un’autorità assoluta e uniforme su tutto il territorio nazionale. I grandi feudatari mantenevano un considerevole potere locale; le province di recente annessione (Linguadoca, Provenza, Borgogna, Bretagna) dette Pays d’états, avevano le loro assemblee di “stati” che contrattavano direttamente con la corona l’ammontare delle imposte e ne curavano la ripartizione e anche le città conservavano in gran parte le proprie forme di autogoverno. In Spagna il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (1469) preparò il regno congiunto dei due sovrani, che ebbe inizio dopo un periodo di difficoltà e di guerre civili, nel 1479 L’anarchia feudale e il banditismo vennero repressi con la riorganizzazione della “Santa Fratellanza”, una confederazione di città che svolgeva compiti di polizia. L’amministrazione delle città venne posta sotto tutela con la nomina di Salito al trono appena ventenne nel gennaio 1515, il nuovo re di Francia Francesco I, si pose subito a preparare una nuova spedizione in Italia. 13-14 settembre, davanti a Melegnano, si svolse lo scontro decisivo con i fanti svizzeri che occupavano Milano Vittoria di Francesco I. La pace di Noyon (1516) tra Francia e Spagna consolidava per il momento l’equilibrio raggiunto nella penisola italiana: agli spagnoli rimaneva il Regno di Napoli, a Francesco il Ducato di Milano. L’accordo tra le due maggiori potenze europee, come vedremo, non sarà di lunga durata. Carlo V: il sogno di una monarchia universale Alla morte di Ferdinando il Cattolico (1516), il nipote Carlo d’Asburgo, nato a Gand nel 1500 dalla figlia di Ferdinando (Giovanna la pazza) e da Filippo d’Asburgo (figlio di Massimiliano I), ereditò la corona di Spagna, giacchè la madre non era in condizioni di regnare. Nel 1519 scompariva anche l’imperatore Massimiliano. Alla candidatura di Carlo per la dignità imperiale si contrappose quella del re di Francia Francesco I (appoggiata anche dal pontefice Leone X). Alla fine Carlo fu eletto all’unanimità dalla Dieta riunita a Francoforte, il 27 giugno 1519. Carlo, cresciuto a Bruxelles alla corte della zia, la reggente Margherita, aveva assorbito da quest’ultima l’orgoglioso senso dinastico. Dal suo precettore, l’arcivescovo Utrecht Adrian, aveva preso poi una religiosità sincera e profonda e non priva di influssi erasmiani: per lui il grande umanista scrisse nel 1519 l’Institutio principis christiani. Sebbene Carlo fu il più prestigioso monarca dell’età moderna il suo cammino si presentò fin da subito pieno di ostacoli: nel suo triennale soggiorno in Spagna, Carlo aveva scontentato la nobiltà locale distribuendo molte cariche ecclesiastiche e laiche ai gentiluomini fiamminghi e borgognoni e aveva irritato le città della Castiglia con la richiesta di nuove tasse per pagare le spese dell’incoronazione imperiale. Poco dopo la sua partenza per la Germania nel 1520, scoppiò una rivolta nata come una coalizione di città che rivendicavano le proprie autonomie. (Rivolta dei “comuneros”, cittadini) Il generale spagnolo Consalvo de Còrdoba, detto il Gran Capitano, negli scontri con i francesi per il dominio sul Regno di Napoli mise a punto uno schieramento più flessibile: i fanti spagnoli erano raggruppati in unità di 3000 uomini, dette tercios, composte in parte da archibugieri e in parte da picchieri. Quest’evoluzione dell’arte militare si può considerare insieme causa ed effetto di più profondi mutamenti nella società e nello stato. Il guerriero medievale coperto di ferro, montato su un cavallo di razza e servito da palafrenieri e scudieri, era espressione di un ordine sociale che riservava la professione della guerra a una classe di milites in grado di trarre dai propri possedimenti feudali le risorse e gli uomini necessari; ed era legato a un ethos aristocratico e cavalleresco che fece a lungo apparire come riprovevole e vile colpire da lontano un nemico. L’ascesa della fanteria e dell’artiglieria ad armi manifestava invece la nuova potenza finanziaria e accentrata dello stato rinascimentale e relegava a un ruolo accessorio l’apporto della nobiltà. Così come per la cavalleria medievale, per le fanterie dell’età moderna, l’aspetto tecnico non può essere disgiunto dai modi del reclutamento e dagli atteggiamenti mentali Nei tercios spagnoli erano poi assai numerosi gli hidalgos, nobili poveri che si arruolavano non solo per denaro, ma perché quella delle armi era ritenuta l’unica professione onorevole. La nascita dell’idea di Europa Europa non solo come complesso spaziale e geografico, ma anche storico e culturale, è un prodotto caratteristico dell’età moderna. In origine il concetto Europa si forma per contrapposizione all’Asia. Tale polarità è un prodotto del pensiero greco tra le guerre persiane e l’età di Alessandro Magno per questi pensatori, sul piano politico e culturale, l’Europa tende a coincidere con la Grecia. Il criterio di valutazione è quello della libertà politica greca contrapposta alla tirannide asiatica. Fino a tutto il 900 all’idea di Europa verrà associata quella di libertà, all’Asia quella di servitù. Le discontinuità ovviamente non mancano. Nel Medioevo il termine “Europa” è, salvo eccezioni, un’espressione geografica. Tutto il pensiero politico medievale si basa sull’idea di Christianitas: è da questa idea che deriva le sue aspirazioni all’unità di tutto il genere umano sotto la guida spirituale del pontefice e la guida temporale dell’imperatore. Tra il XI e il XIII secolo, la Christianitas è in Europa, e l’Europa è cristiana, e le crociate contribuiscono a rafforzare questo nesso. La prima formulazione del concetto di Europa, come comunità dotata di caratteri politici specifici si deve a Niccolò Machiavelli in lui il senso della diffidenza tra i continenti è nettissimo, e la diversità tra vita e politica europea ed extraeuropea dà luogo a due forme di governo monarchico: i principati sono governati “O per un principe e tutti gli altri servi.. o per un principe e per baroni… gli esempi di queste due diversità di governi, sono, ai nostri giorni il Turco e il re di Francia”. La diversa costituzione fra Europa e Asia dà luogo a due tipi diversi di organizzazione politica: in Europa repubblica o monarchia non assoluta, in Asia monarchia assoluta dispotica. I nuovi orizzonti geografici Le conoscenze geografiche alla fine del Medioevo: l’Africa Nera I viaggi verso l’oriente, che erano stati frequenti all’epoca di Marco Polo, tra il XIII e il XIV secolo, si erano fatti molto più difficili dopo l’avvento della dinastia Ming in Cina (1368) e con l’espansione della potenza ottomana nel Mediterraneo orientale e nei Balcani. Le nozioni geografiche del primo Rinascimento, per quanto riguardava gli altri continenti, erano assai vaghe e imprecise, risalenti in molti casi all’antichità classica ancor più che ai resoconti dei viaggiatori e degli scrittori cristiani o arabi del Medioevo Si era ormai imposta, con Tolomeo, la concezione sferica della Terra, ma il continente africano era creduto molto più corto di quanto non sia in realtà e la sua costa occidentale era raffigurata come una linea obliqua tendente verso sud-est. Il blocco formato dai tre continenti noti (Europa, Asia e Africa) era collocato tutto nell’emisfero settentrionale e dell’esistenza delle Americhe e dell’Oceania non si aveva nessuna idea. Paradossalmente, come si vedrà, furono proprio questi errori a incoraggiare i viaggi di esplorazione dei portoghesi e di Colombo. E un effetto analogo ebbero le idee fantasiose ed esagerate su le ricchezze delle Indie e l’esistenza in un luogo imprecisato dell’Africa o dell’Asia di un regno cristiano. Ma qual era la realtà di questi mondi? Per quanto riguarda l’Africa Nera, gli studi recenti hanno smentito la visione tradizionale di un continente senza storia la popolazione alla fine del XV secolo poteva aggirarsi intorno ai 40-50 milioni; assai vario era lo sviluppo dell’economia. Le civiltà precolombiane in America Nel continente americano era praticata un’agricoltura sedentaria, basata sul mais, sui tuberi e su altre piante nutritive fra cui pomodori, fagioli, peperoni… Minore importanza aveva l’allevamento, limitato al lama peruviano, all’alpaca e il tacchino… Quando gli spagnoli giunsero in America, era ormai da tempo in declino la civiltà dei maya, ma la sua eredità spirituale era stata raccolta da nuove popolazioni guerriere: prima i toltechi, poi gli aztechi. Questi ultimi agli inizi del XVI secolo con spedizioni militari estesero il proprio potere da un oceano all’altro. Al tempo dell’invasione spagnola, l’Impero azteco contava forse 25milioni di abitanti, ed era ancora in espansione. La guerra era necessaria non solo per accrescere i tributi ma anche per catturare prigionieri, sacrificati agli dèi. La religione degli aztechi era infatti basata sull’idea della precarietà dell’ordine cosmico, continuamente minacciato da catastrofi naturali e dalla collera delle divintà. Anche l’Impero inca si era costituito nel secolo precedente l’invasione spagnola. Come la società azteca anche quella inca era stratificata: al suo vertice l’Inca, il sovrano, venerato come semidio, alla base invece vi era l’Ayllu, la comunità contadina che si incaricava di amministrare la giustizia al proprio interno e di distribuire le terre. I viaggi di esplorazione e di scoperta Il primo paese a intraprendere nel XV secolo l’esplorazione dei nuovi mondi fu il Portogallo, grazie alla favorevole posizione geografica, all’alleanza stabilita dalla dinastia di Aviz con il ceto mercantile e marinaresco e infine all’interesse per l’esplorazione delle coste occidentali dell’Africa da parte di Enrico detto il Navigatore. Grazie ad Enrico vi furono numerosi perfezionamenti alla caravella di origine portoghese (viaggi di Colombo e di Vasco da Gama), era un veliero di piccole dimensioni con uno scafo arrotondato, poppa quadra e timone posteriore, un ponte con castello a prua e un cassero a poppa, tre alberi attrezzati con vele sia triangolari che quadre… Cominciarono ad usare la bussola ad ago magnetico e altri strumenti per misurare la latitudine in base alla posizione degli astri. L’espansione marittima portoghese ebbe inizio con la presa di Ceuta, a sud dello stretto di Gibilterra, nel 1415, e proseguì nel XV secolo con l’occupazione dell’isola Modera e delle Azzorre, la scoperta delle isole di Capo Verde e del golfo di Guinea. Non era solo la curiosità scientifica a spingere gli esploratori sempre più a sud: fin dagli anni 40 le loro caravelle cominciarono a tornare in patria cariche di schiavi neri. Il re del Portogallo, Giovanni II, si pose il duplice obiettivo di circumnavigare l’Africa in direzione dell’oriente e ottenere informazioni circa i porti e la navigazione nell’oceano indiano. Il primo traguardo fu raggiunto dalla spedizione di Bartolomeo Dìaz che alla fine del 1487 doppiò l’estremità meridionale del continente nero, da lui battezzata Capo di Buona Speranza. A Giovanni II, nel frattempo, si era rivolto un navigatore genovese, Cristoforo Colombo, desideroso di circumnavigare la Terra verso occidente. Poiché la corte portoghese si era mostrata scettica, Colombo finì col concentrare le proprie speranze nella monarchia spagnola, che proprio in quegli anni si accingeva a concludere la Reconquista con la presa di Granada. In questo clima vennero firmate dai “re cattolici” le capitolazioni di Sant Fè (17 aprile 1492): la regina Isabella concedeva a Colombo il tutolo di “ammiraglio” del mare oceano”. Il 3 agosto 1492 tre velieri (due caravelle e una nave più grande, la Santa Maria) con 120 uomini a bordo, presero il largo dal piccolo porto atlantico di Palos. Era la mattina del 12 ottobre quando all’orizzonte si delineò una terra; era l’attuale isola di Walting nelle Bahamas, battezzata da Colombo San Salvador. Ma l’ammiraglio era convinto di essere giunto nelle propaggini dell’Asia e di avere così dimostrato la validità della sua teoria. Il 14 marzo 1493 l’ammiraglio fece un trionfale ritorno a Palos portando alcuni “Indiani”; alcuni pappagalli e un po’ d’oro ottenuto dagli indigeni: abbastanza per convincere la regina Isabella del valore della scoperta e per indurla a finanziare una seconda e molto più consistente spedizione, forte di 17 navi e circa 1500 uomini. Questa seconda spedizione produsse solo un carico di schiavi e accuse di malgoverno contro l’ammiraglio. Comunque, la scoperta di Colombo aveva dimostrato nuove iniziative, tra cui la ricognizione di quasi tutta la costa atlantica dell’America meridionale compita dal fiorentino Amerigo Vespucci. Egli fu tra i primi a comprendere che non si trattava dell’Asia ma di un nuovo continente che in suo onore sarà chiamato America. Un’importante conseguenza della scoperta di Colombo fu la disputa insorta tra Spagna e Portogallo circa l’appartenenza dei territori nuovamente scoperti. Fallito il tentativo di mediazione di papa Alessandro VI , Giovanni II stipulò con la corte spagnola il trattato di Tordesillas (7 giugno 1494). La rivolta affrettò i preparativi portoghesi per la decisiva spedizione alle Indie orientali, il cui comando atteggiamento verso la natura e verso l’uomo, posto al centro dell’universo. (da Francesco Petrarca a Erasmo da Rotterdam) Il Rinascimento italiano si può considerare inclusivo di quello di Umanesimo, che si applica in prevalenza all’ambito filosofico e letterario. Umanisti, coloro che si dedicavano alla riscoperta e allo studio dei classici; insegnavano a esprimersi con un latino colto ed elegante, modellato sullo stile ciceroniano e si sforzavano di ristabilire la giusta lezione dei testi mediante l’esercizio del metodo filologico. Fu con l’uso della critica testuale che nel 1440 Lorenzo Valla riuscì a dimostrare la falsità di un celebre documento medievale, la donazione fatta da Costantino a papa Silvestro. Tra il XV e il XVI secolo, letterati e poeti ripresero a servirsi sempre più del volgare (Poliziano, Machiavelli, Guicciardini). Benchè anche nelle arti figurative fossero ricercati e imitati i modelli antichi, la rarità di questi ultimi favorì una maggiore originalità nella riproduzione degli oggetti, del paesaggio e della figura umana (Michelangelo, Bramante, Raffaello Sanzio) La brutale rottura dell’equilibrio tra gli Stati rinascimentali italiani ad opera delle potenze straniere (capitolo 6) doveva segnare a lungo termine la crisi anche di questo momento magico della vita culturale. Ma in un primo tempo quelle vicende diplomatiche e militari agirono di stimolo alla riflessione politica e storiografica. Col Principe e col Discorsi, Machiavelli fondò in pratica la nuova scienza della politica, e Guicciardini diede con la Storia d’Italia e i Ricordi un grande affresco in cui campeggiano i ritratti psicologici dei protagonisti Aspettative e tensioni religiose alla fine del Medioevo: Erasmo da Rotterdam L’attesa di una riforma della Chiesa, che la riportasse alla purezza e alla povertà delle origini, da tempo presente alla coscienza dei fedeli, si era acuita davanti al grande scisma d’Occidente (1378-1415); ma alle origini del movimento che verrà detto “protestante” stava anche la volontà “umanistica” si ristabilire l’autenticità del messaggio cristiano attraverso lo studio diretto dei testi sacri, senza tener conto delle elucubrazioni dei teologi e c’era il bisogno di una religiosità più intensa. Ricordiamo Thomas More con Utopia, descrizione di una società immaginaria basata sull’amore fra gli uomini e sulla comunione dei beni. Ma il rappresentante più autorevole dell’umanesimo cristiano è Erasmo da Rotterdam educato agli ideali di vita religiosa della Devotio moderna, entrò, come farà poi Lutero, in un convento agostiniano, ma dopo sei anni si diede alla vita di studio. Tra le sue opere più celebri: l’Encomium moriae e i Colloqui. Nel Manuale del soldato cristiano e nell’Educazione del principe cristiano, Erasmo delineò il quadro di una morale che conciliava le influenze del mondo classico con l’insegnamento di Cristo. Ma forse il contributo maggiore di Erasmo fu la sua edizione critica del testo greco e latino del Nuovo Testamento, che servirà a Lutero per la sua traduzione della Bibbia in tedesco. La Riforma Luterana (giustificazione per fede) Per Lutero la natura umana è intrinsecamente malvagia, corrotta dal peccato originale, e nulla può fare da sé. il giusto farà naturalmente il bene, per amore di Dio e del prossimo, ma ciò sarà una semplice conseguenza e non causa del suo stato di grazia. Ribadirà questo pessimismo in De servo arbitrio, in polemica con Erasmo che scrisse De libero arbitrio. Alla luce di ciò, tutta la Sacra Scrittura acquistava un nuovo significato; doveva essere letta e spiegata senza tenere alcun conto delle interpretazioni ufficiali l’autorità esclusiva attribuita alla Rivelazione contenuta nei testi sacri, cancellava di colpo il magistero della Chiesa in maniera teologica, così come la dottrina della giustificazione per fede ne annullava la funzione di intermediaria fra l’uomo e Dio. Dei sette sacramenti tradizionalmente ammessi dalla Chiesa, solo due si salvavano dalla rilettura luterana dei testi sacri: il battesimo e l’eucarestia. La rottura con Roma e le ripercussioni in Germania La vicenda che indusse Lutero a venire per la prima volta allo scoperto è assai indicativa del tipo di preoccupazioni che all’inizio del 500 dominavano le istituzioni ecclesiastiche la teoria delle indulgenze era basata sul presupposto dell’esistenza di un tesoro di meriti accumulati dalla Vergine e dai santi, al quale la Chiesa poteva attingere per rimettere le pene ai peccatori pentiti e anche secondo alcuni, per abbreviare le pene del Purgatorio. Ma i predicatori ingaggiati da Alberto non andavano tanto per il sottile e giungevano a promettere il Paradiso a chiunque si fosse mostrato prodigo del proprio denaro. Il 31 ottobre 1517 Lutero inviò ad Alberto di Hohenzollern, 95 tesi, che secondo la tradizione affisse anche alla porta della chiesa del castello di Wittenberg. Nel giugno 1520 fu emanata da Leone X la bolla Exurge Domine, che lasciava a Lutero 60 giorni per ritrattare prima che contro di lui fosse scagliata la scomunica. Per tutta risposta, alla fine dell’anno, Lutero bruciò pubblicamente la bolla. La scomunica giunse nei primi giorni del 1521, ma il nuovo imperatore Carlo V, eletto nel 1519, aveva promesso a Federico il saggio, elettore di Sassonia e protettore di Lutero, che avrebbe consentito a quest’ultimo di giustificarsi alla sua presenza. L’incontro avvenne alla Dieta imperiale di Worms (17-18 aprile 1521). L’editto di Worms dichiarava Lutero al bando dall’Impero. Non tutti erano in grado di apprezzare le sottigliezze teologiche di Lutero, ma il suo messaggio toccava una corda profonda, faceva appello a un anticlericalismo diffuso in tutti i ceti e a un nascente nazionalismo germanico. Molti principi territoriali colsero l’occasione per mettere le mani sugli estesi beni della Chiesa. I cosiddetti “cavalieri” vedevano invece nella Riforma luterana la leva per una generale rivolta contro Roma. Le correnti radicali della Riforma Fin dal 1520 alcuni seguaci di Lutero cominciarono ad aizzare le folle non solo contro il clero e le istituzioni romane, ma anche contro tutte le ingiustizie e tutte le forme di oppressione: riforma religiosa e riforma sociale erano strettamente congiunte per questi predicatori che si proponevano di instaurare sulla terra il regno di Dio. Già da parecchi mesi ormai, in varie regioni della Germania emergeva la guerra dei contadini. Gli insorti non erano spinti tanto dalla miseria, quanto dalla volontà di stabilire gli “antichi diritti” contro le recenti usurpazioni dei signori. Le violenze e i saccheggi perpetrati dai rivoltosi e il pericolo di un sovvertimento delle gerarchie sociali, indussero principi, prelati, nobiltà…a serrare le file e ad armarsi per stroncare il movimento. La repressione fu durissima. La conclusione dei conflitti in Germania Erano ripresi frattanto gli sforzi di Carlo V per risolvere la questione luterana. Egli intimò ai protestanti di sottomettersi; per tutta risposta essi stipularono un’alleanza difensiva, la Lega di Smalcalda; ma neppure la vittoria di Carlo V su questa Lega nel ’47 riuscì a porre termine al conflitto, tanto più che il nuovo re di Francia Enrico II, allacciò subito contatti con i protestanti tedeschi e con il sultano turco per suscitare difficoltà all’Asburgo. Nell’autunno del 1551 fu stipulato un accordo segreto in base al quale Enrico II avrebbe garantito il suo appoggio diplomatico e militare ai principi protestanti in cambio dell’acquisto dei vescovi di Metz, Toul, Verdun. Carlo V fu colto alla sprovvista dalla ripresa delle ostilità tanto da esser costretto a un umiliante fuga da Innsbruck nell’aprile del 1552, di fronte all’avanzata dell’esercito protestante. Le trattative furono condotte da Ferdinando, fratello di Carlo V, e sfociarono nella pace di Augusta (25 settembre 1555) venne riconosciuta l’esistenza in Germania di due diversi fedi religiose, quella cattolica e quella luterana: mentre nella città imperiali era ammessa la loro convivenza. Questa pace sanciva al tempo stesso la scissione religiosa della Germania e un grave indebolimento dell’autorità imperiale. I veri vincitori della lotta erano i principi, non solo luterani ma anche cattolici. Il consolidamento delle strutture istituzionali interessò anche gli stati ereditari asburgici, che sotto Ferdinando acquisirono una prima forma di unità politica con la creazione di organi comuni a vari regni e ducati: il Consiglio segreto, la Cancelleria aulica, il Consiglio aulico di guerra. La decisione di Carlo V di spartire il suo immenso impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II divenne effettiva tra il 1555 e il 1556 con la sua abdicazione a tutti i titoli. Da Zwingli a Calvino L’esperienza di Ulrich Zwingli fu parallela a quella di Lutero, ma ebbe caratteri in parte diversi legati alla sua formazione umanistica e al vivace clima politico-intellettuale dei liberi cantoni della Svizzera-tedesca. Chiamato nel 1518 a ricoprire l’ufficio di cappellano presso la cattedrale di Zurigo, Zwingli si staccò progressivamente dalla fede tradizionale e tra il 1523 e il 1525 riuscì a convincere il consiglio cittadino ad abolire la messa, a riformare la liturgia e a imporre la Bibbia come unica fonte di autorità in campo religioso. Anche le immagini sacre vennero distrutte come veicoli di idolatria. In vista dello scontro che si delineava, gli zwingliniani cercarono l’appoggio dei luterani tedeschi, ma nell’incontro di Marburgo fu impossibile raggiungere un accordo sul problema teologico dell’eucarestia: Zwingli la interpretava come una semplice cerimonia commemorativa dell’Ultima Cena, mentre Lutero credeva nella presenza reale di Cristo nel pane e nel vino offerti ai fedeli. Nel 1531 un esercito cattolico mosse contro Zurigo: Zwingli morì in battaglia. La sua eredità fu raccolta dal calvinismo. Molti punti essenziali della dottrina luterana sono condivisi da Calvino, a cominciare dall’autorità esclusiva della Sacra Scrittura e della giustificazione per fede. Il Dio di Calvino, tuttavia, è più il Dio del Vecchio testamento più che del Nuovo: un Dio maestoso, inaccessibile, tremendo che fin da principio ha predestinato ogni singolo uomo alla salvezza o alla dannazione eterna, secondo criteri di giustizia per noi incomprensibili. A differenza del suo predecessore, Calvino non crede all’imminente fine del mondo e attribuisce quindi molta importanza alla graduale attuazione dei disegni della Provvidenza. (Su queste basi, lo storico e sociologo Max Weber ha formulato ai primi del 900 la sua tesi circa il rapporto tra etica protestante (calvinista) e spirito del capitalismo) Un’altra importante differenza tra luteranesimo e calvinismo sta nella concezione del rapporto fra la Chiesa e lo Stato Rispetto alla “Chiesa invisibile” composta dall’insieme degli eletti a tutta l’umanità, nel pensiero di Calvino assume importanza la “Chiesa visibile”, la congregazione dei fedeli legati dalla comune pratica del culto e dalla comune appartenenza a uno Stato o città. Secondo Calvino l’autorità civile non deve limitarsi a mantenere l’ordine in un mondo sottoposto al peccato, ma promuovere il bene spirituale dei sudditi in accordo con la Chiesa visibile. La diffusione europea del protestantesimo: La Riforma in Inghilterra Nel 1528 il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor, alleato della Francia nella Lega di Cognac contro l’imperatore, chiese al pontefice l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, zia di Carlo V, che non gli aveva dato il sospirato erede maschio. Clemente VII non si sentì di accogliere la domanda e allora Enrico, pungolato anche dall’infatuazione per una donna di corte, Anna Bolena, decise di fare da sé! Nel 1529 convocò un Parlamento da cui ottenne non solo l’annullamento del matrimonio, ma anche la rottura di tutti i vincoli di dipendenza da Roma e l’approvazione nel 1534 dell’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo” della Chiesa d’Inghilterra dottrina e struttura gerarchica per il momento non furono toccate, ma gli ordini regolari furono sciolti a partire dal 1536 e i loro beni fondiari incamerati dalla corona, che li mise in vendita favorendo la formazione di una nuova classe di medi e grandi proprietari terrieri (gentry) (Thomas Cromwell, artefice principale dello scisma anglicano) Negli ultimi anni del suo regno Enrico VII tornò a sperperare enormi somme nelle costose e inutili avventure militari sul continente europeo, compromettendo così quello sforzo di costruzione di un assolutismo Tudor di cui lo scisma anglicano era stato la manifestazione più importante. Dal punto di vista religioso, la vera riforma ebbe luogo durante il breve regno di Edoardo VI, nato dalla terza moglie di Enrico VII, Jane Saymour. Invano Maria Tudor, che succedette a Edoardo e sposò il re di Spagna Filippo II, si sforzò di riportare Gli effetti di questo spirito militante furono subito evidenti nel pontificato di Pio V Ghislieri, che era stato l’ispiratore dello spietato massacro di circa 2.000 valdesi in Calabria. Pio V non esitò a repubblicare nel 1568 la medievale bolla “In Coena Domini”, affermazione della supremazia del papa sui sovrani temporali. Questi indirizzi continuarono con Gregorio XIII, ma il papato della Controriforma raggiunse il suo apogeo con Sisto V […] . L’egemonia spagnola in Italia La pace di Cateau-Cambrèsis, stipulata tra Francia e Spagna nel 1559, sancì una egemonia spagnola destinata a durare fino agli inizi del XVIII secolo. La Spagna controllava direttamente quasi metà del territorio italiano. È troppo semplicistico, tuttavia, ridurre la storia italiana del pieno e tardo 500 all’egemonia culturale della Chiesa e all’egemonia politica della Spagna. Va ricordato che alle difficoltà e alle crisi dei primi decenni del secolo seguì un periodo abbastanza lungo di ripresa demografica ed economica. In secondo luogo, proprio la stabilizzazione dell’assetto politico-territoriale conseguente alla vittoria della Spagna sulla Francia favorì all’interno dei singoli Stati, o almeno in alcuni di essi, un’opera di rafforzamento e ammodernamento delle strutture istituzionali e di ricomposizione delle classi dirigenti. Con questa pace di Cateau-Cambrèsis, lo stato sabaudo, occupato da francesi e spagnoli durante le guerre d’Italia, venne ricostruito sotto il duca Emanuele Filiberto […] L’Inquisizione in Italia La Congregazione del Sant’Uffizio o Inquisizione romana, fu istituita il 21 luglio del 1542 da papa Paolo III con la bolla Licet ab initio. La sua fondazione, volta a centralizzare i tribunali ecclesiastici impegnati nella repressione anticlericale, rifletteva la crescente preoccupazione per il diffondersi in Italia di idee eterodosse e protestanti Con il provvedimento del 1542, Paolo III istituì una commissione di sei cardinali, nominati inquisitori generali e incaricati di vigilare a difesa dell’ortodossia con poteri giudiziari estesissimi. Accanto al tribunale dell’Inquisizione l’altro principale strumento creato al fine di combattere il dissenso teologico e culturale, fu la Congregazione dell’Indice, istituita da Pio V. Liquidato già negli anni Sessanta del Cinquecento il dissenso teologico e dottrinale, l’attenzione del Sant’Uffizio si appuntò sugli esponenti del pensiero deviazionista nei confronti della traduzione scolastica e aristotelica: per citare alcuni esempi più clamorosi, Giordano Bruno fu arso sul rogo a Roma nel 1600, Tommaso Campanella morì esule a Parigi nel 1639 dopo aver trascorso 30 anni in carcere, Galileo Galilei fu processato e costretto all’abiura nel 1633 per aver messo in discussione le posizioni tolemaiche e geocentriche sostenute dalla Chiesa. Ai dissidenti italiani non restò che l’alternativa fra l’esilio volontario e la pratica del “nicodeismo”. A partire dal pontificato di Giulio III, con il doppio editto di grazia emanato nel 1550, cominciò a delinearsi l’impiego della confessione sacramentale come strumento d’indagine . si incoraggiavano le autodenunce (per esempio di chi possedeva libri proibiti) e soprattutto le delazione, creando un clima di paura e sospetto che favorì l’attività repressiva. Opera di disciplinamento sociale e moralizzazione a ciò si affiancò un’opera di controllo della cultura e della stampa (Indice dei libri proibiti). L’Europa nell’età di Filippo II Filippo II e i regni iberici Tra il 1555 e il 1556, Carlo V abdicò a tutti i suoi titoli e rese effettiva la divisione dei suoi immensi domini che aveva da tempo deciso. Mentre il fratello Ferdinando diveniva imperatore col titolo di Ferdinando I ed ereditava con gli stati ereditari asburgici le due corone di Boemia e Ungheria, al figlio Filippo II toccava la corona di Spagna con i suoi immensi possedimenti nel Nuovo Mondo e in Europa. Il nuovo re di Francia Enrico II, succeduto a Francesco I nel 1547, volle tentare una volta ancora la sorte delle armi: sconfitto a San Quintino dovette rassegnarsi a firmare la pace di Cateau-Cambrèsis. Se il disegno di condurre l’Inghilterra all’obbedienza cattolica e di farne una componente del sistema asburgico venne frustato dalla prematura scomparsa di Maria Tudor, la seconda moglie di Filippo, in compenso la monarchia francese, la maggior rivale, venne durevolmente indebolita dalle divisioni religiose interne e da una successione di re minori o incapaci dopo la morte accidentale di Enrico II. Filippo II, a differenza del padre, si sentiva ed era intimamente spagnolo, anzi, castigliano. Tra il 1558 e il 1560 fu rafforzata in Spagna l’Inquisizione… furono proibiti i viaggi all’estero degli studenti e l’introduzione dei libri stranieri. Vennero colpite da condanne a morte alcune comunità protestanti di Valladolid e Siviglia. Dieci anni dopo sui moriscos dell’Andalusia, che nonostante la conversione ufficiale al cattolicesimo avevano mantenuto le loro usanze e tradizioni. Sarebbe tuttavia errato vedere in Filippo II nient’altro che un fanatico e cieco strumento della controriforma cattolica Era infatti convinzione corrente a quell’epoca che l’unità religiosa fosse presupposto dell’unità politica. Geloso com’era della propria autorità, Filippo II si mostrò in più occasioni tutt’altro che docile nei confronti della Santa Sede. Inoltre, l’intransigenza in materia religiosa non faceva che rispondere a un’aspirazione profonda del popolo castigliano, eredità della reconquista: una tendenza non priva di risvolti razzisti, dato che la purezza della fede si faceva coincidere con la impieza del sangre, con una discendenza non contaminata da sangue moro o ebraico. Tornato nei Paesi Bassi nel 1559, Filippo II, non si mosse quasi più dalla Castiglia. Da Valladolid, la sede della corte e del governo fu trasferita a Madrid. Filippo II rimase sempre fedele alla concezione imperiale di Carlo V, secondo cui ogni singolo Paese doveva mantenere la propria individualità e i propri ordinamenti ed essere unito agli altri solo nella persona del sovrano. Durante il suo regno, venne esteso e perfezionato il sistema dei Consigli, composti in prevalenza da giuristi ed ecclesiastici spesso di famiglia modesta. Nel 1580 il Portogallo con i suoi vasti possedimenti coloniali, fu annesso alla corona Spagnola, anch’esso mantenne inalterate la sua forma di governo e le sue leggi e venne sottoposto a un nuovo Consiglio formato interamente da portoghesi. Così pure, rimase del tutto separata l’amministrazione dell’Aragona, dove nel 1591 Filippo II fu costretto a intervenire militarmente per sedare una rivolta fomentata dai signori feudali. La battaglia di Lepanto e i conflitti nel Mediterraneo L’ormai indiscussa egemonia spagnola in Italia, e il possesso diretto del Regno di Napoli, della Sicilia e della Sardegna, garantivano a Filippo II una posizione dominante nel Mediterraneo, ma lo rendevano comunque più esposto agli attacchi dei corsari barbareschi e della potenza ottomana Nel 1570 quest’ultima sferrò un attacco contro l’isola di Cipro, avamposto orientale di Venezia e della cristianità. Per iniziativa di papa Pio V, si costituì allora una “Santa Lega” in cui entrarono, oltre a Venezia e alla Spagna, la Repubblica di Genova, il duca di Savoia e l’ordine di Malta. La flotta cristiana al comando di Don Giovanni d’Austria (un figlio naturale di Carlo V) e quella ottomana si affrontarono nei pressi di Lepanto. Fu l’ultima grande battaglia della storia che vide protagoniste le navi a remi e che fu combattuta con la tecnica dell’abbordaggio. Spaventosa fu la carneficina da una parte e dall’altra, ma alla fine della giornata si delineò la schiacciante vittoria delle forze cristiane. Apparve come una sanzione divina degli ideali della controriforma. La perdurante prosperità in questi anni, rendeva più aggressiva e intensa l’attività piratesca; secondo lo storico Alberto Tenenti, il periodo successivo a Lepanto è “quello in cui l’insicurezza della navigazione raggiunge la fase più acuta”. La guerra di corsa (distinta dalla semplice pirateria in quanto rivolta contro un Paese nemico e autorizzata dal proprio governo) era esercitata non solo dagli Stati barboreschi, ma anche da navigli maltesi, genovesi, toscani… nell’ultimo ventennio del XVI secolo si registra la penetrazione in forze nel Mediterraneo degli olandesi e degli inglesi: al tradizionale scontro fra cristiani e ottomani si sovrapponeva la rivalità tra protestanti e cattolici. La rivolta dei Paesi Bassi Alle origini dell’insurrezione olandese contro la Spagna, definita la prima rivoluzione borghese dell’età moderna, vi furono essenzialmente tre fattori: 1. Politico: il monarca aveva affidato il governo dei Paesi Bassi alla sorellastra Margherita, ma al suo fianco aveva posto il cardinale di Granvelle, che diresse la lotta contro l’eresia rafforzando l’Inquisizione e mostrando scarso rispetto per le tradizionali autonomie cittadine e per le prerogative degli stati provinciali. Il governo degli Asburgo veniva ora avvertito come straniero e oppressivo. Malgrado l’allontanamento del Granvelle, i nobili fiamminghi il 5 Aprile 1566 invasero in armi il palazzo della governatrice e pretesero l’abolizione dell’Inquisizione e la mitigazione delle leggi contro i protestanti. 2. Religioso: Paesi Bassi, fin da principio terreno fertile per la diffusione delle dottrine riformate (calvinismo in particolare). naturalmente non poteva mancare la risposta repressiva di Filippo II, difensore dell’ortodossia religiosa. 3. Crisi economica: verso la metà degli anni Sessanta colpì i centri urbani e soprattutto Anversa, dove, insieme ad altre città, folle di calvinisti si diedero a devastare le chiese e a distruggere le immagini sacre. Di fronte alla ribellione aperta, Filippo II inviò un forte esercito al comando del terribile duca d’Alba giunto a Bruxelles il 22 agosto 1567, fece arrestare i capi dell’opposizione e istituì un tribunale straordinario, il Consiglio dei Torbidi, che in pochi mesi pronunciò oltre un migliaio di condanne a morte. I metodi spietati del “duca di ferro” parvero in un primo tempo avere successo, ma una nuova ondata di malcontento fu suscitata nel 1569 dall’imposizione di tasse per mantenere l’esercito spagnolo. Approfittando della situazione di fermento, il principe Guglielmo di Orange-Nassa, riuscì ad allestire una flotta e a invadere le province settentrionali del mare, facendosi proclamare nel 1572 statolder, ovvero, governatore militare delle province di Olanda e Zelanda e convertendosi l’anno seguente al calvinismo. In quelle zone i rivoltosi (“I pezzenti” li chiamavano gli spagnoli) riuscirono a resistere all’esercito del duca di Alba, e grazie anche all’aiuto degli ugonotti francesi e dei protestanti inglesi e tedeschi, resero ben presto le coste della Manica impraticabili per le navi nemiche. Ma nel 1575, dopo aver speso oltre 10milioni di ducati nella guerra, Filippo II fece bancarotta. Nei primi mesi del 1579 si giunse alla definitiva scissione del Paese. L’Inghilterra elisabettiana Elisabetta, nata nel 1533 dalla seconda moglie di Enrico VIII, Anna Bolena, salì al trono dopo la morte di Maria Tudor alla fine del 1558. Il suo governo si caratterizzò per un notevole equilibrio tra l’esigenza di tenere buoni rapporti con il Parlamento e la tendenza a concentrare i poteri decisionali nel Consiglio privato della corona. Il problema più urgente che stava di fronte a Elisabetta era quello religioso!! Riaffermò la supremazia del sovrano in materia religiosa ma mantenne l’episcopato e con l’Atto di uniformità del 1559 impose il Libro delle preghiere comuni. Invece, i Trentanove articoli di fede, formulati nel 1559 e promulgati nel ’71, accolsero i motivi fondamentali della teologia calvinista. Il compromesso elisabettiano lasciava insoddisfatti i calvinisti più intransigenti, detti puritani, che reclamavano l’abolizione dei vescovi e l’eliminazione dal culto di ogni residuo di “papismo”. Dal punto di vista delle tecniche agricole non si registrano nel XVII secolo grandi novità. Alla rendita feudale e al prelievo signorile ed ecclesiastico si aggiungeva il crescente peso delle imposte statali. Sotto il profilo culturale, mentre in Spagna tramontava il siglo de oro, la Francia entrava nel proprio grand sìecle e si verificava una rivoluzione scientifica e filosofica. Può sembrare paradossale che una simile svolta coincidesse con quella fase di intolleranza e oscurantismo che ispirò l’Inquisizione e la caccia alle streghe. In primo luogo a questo clima si sottrassero l’Inghilterra e l’Olanda. In secondo luogo, la storia intellettuale ha vita propria. La prosperità dell’Olanda Il suo ruolo nella rivoluzione scientifica e filosofica è un riflesso del carattere avanzato dell’economia e della società delle Province Unite nel XVII secolo. L’Olanda non fece altro che ereditare i vantaggi di cui già avevano goduto nei secoli precedenti le Fiandre e il Brabante. Molto interessante fu lo sviluppo della pesca delle aringhe in alto mare. Gli olandesi divennero i “carrettieri del mare”, i padroni dei trasporti per via d’acqua. Una delle rotte più frequenti era quella del Baltico, ma già a fine 500 li troviamo anche nel Mediterraneo e nei porti del Levante. Più spettacolare fu la penetrazione degli olandesi nei continenti extraeuropei protagoniste di questa espansione coloniale furono due compagnie privilegiate, la Compagnia delle Indie orientali e la Compagnia delle Indie occidentali. Un ruolo molto importante come fattore della prosperità olandese ebbero, accanto al commercio e all’agricoltura, anche le manifatture. Senza rivali in Europa erano le istituzioni finanziarie di Amsterdam: la banca, creata nel 1606. Non ultima causa di questi eccezionali success fu il regime di relativa libertà religiosa e civile di cui si godeva nelle Province Unite. La monarchia francese da Enrico IV a Richelieu Dopo il travagliato periodo delle guerre di religione, la Francia sotto la guida di Enrico IV di Borbone riguadagnò rapidamente quella posizione dominante sulla scena europea. Al rifiorire delle attività economiche, prima fra tutte l’agricoltura, contribuirono gli sgravi fiscali, la soppressione di molti dazi e il programma di costruzioni stradali avviato dal primo ministro di Enrico IV, l’ugonotto Maximillien de Béthune. Col trattato di Lione (1601) Enrico IV ottenne la Bresse e il Bugay in cambio della cessione del Marchesato di Saluzzo. Negli anni successivi evitò ogni intervento militare diretto, ma non rinunciò a esercitare la propria influenza in Germania e in Italia. Si accingeva a muovere guerra agli Asburgo d’Austria e di Spagna quando cadde vittima di un frate fanatico, Francois Ravillac, che lo assassinò mentre transitava in carrozza per le vie di Parigi (14 maggio 1610). L’erede al trono, Luigi XIII, era allora un bambino di nove anni. La reggenza fu assunta in suo nome dalla vedova di Enrico IV, Maria de’ Medici che inaugurò una politica filospagnola. La sudditanza alla Spagna e la presenza di questi stranieri che spadroneggiavano a corte, suscitarono il risentimento dei principi di sangue reale e delle grandi casate aristocratiche. Punto centrale delle loro rivendicazioni fu la richiesta di una convocazione degli Stati Generali del regno (ultimi stati generali nella storia della Francia prima del 1789). Nell’autunno del 1616 Maria de’ Medici potè così affidare le redini del governo al Concini, che l’anno seguente fu però assassinato per ordine del giovane re, stanco di regnare sotto tutela. Nel successivo confuso periodo si impose, come mediatore dei contrasti tra Luigi XIII e la madre, un giovane vescovo: Armand-Jean du Plessis, duca di Richelieu. 1622, Luigi XIII ottenne per lui la nomina a cardinale e due anni dopo lo inserì nel Consiglio della Corona. La linea scelta e perseguita dal giovane vescovo fu questa: una contrapposizione al disegno egemonico degli Asburgo e subordinava a questo obiettivo ogni esigenza di politica interna. Il ritorno della Francia a una politica estera aggressiva presupponeva tutto il rafforzamento dell’autorità monarchica all’interno del paese. Ai protestanti venne concessa una “pace di grazia” che manteneva la libertà di culto nei limiti sanciti dell’editto di Nantes, ma toglieva di mezzo le garanzie politiche e militari. La campagna contro gli ugonotti e il progressivo coinvolgimento della Francia nei teatri di guerra tedesco e italiano ebbero come conseguenza un rapido aumento della pressione fiscale e in particolare della taglia, che gravava quasi esclusivamente sulle campagne rivolte popolari, del 1625. La Spagna di Filippo III al duca di Olivares Con lui si inaugura in Spagna l’era dei privados o validos, cioè dei favoriti onnipotenti a cui sovrani incapaci di governare delegano tutti i poteri di decisione e comando. Il favorito di Filippo era Francesco Gòmez de Sandoval, duca di Lerma. Egli pose fine alle guerre in corso stipulando la pace con l’Inghilterra (1604) e la tregua di dodici anni con le Province Unite (1609). Nello stesso anno prese la grave decisione di espellere dalla penisola iberica i moriscos (sudditi di origine araba convertiti al cristianesimo che costituivano un’indispensabile manodopera) Con l’avvento di un nuovo sovrano, Filippo IV (1621-65), si affermò l’onnipotenza di Gaspar de Guzmàn, conte di Olivares e poi duca di San Lucar (ecco perché spesso designato col titolo “conte-duca”). Oltre ad appoggiare militarmente la controffensiva degli Asburgo di Vienna contro gli insorti boemi, fu deciso a Madrid di non rinnovare la tregua di 12 anni con le province Unite. Nel 1626 presentò al re un progetto noto come “Union de los armos” (Unione delle armi), che assegnava a ciascuna provincia un contingente di soldati da reclutare ed equipaggiare a proprie spese. Ma nel 1628 l’apertura di un nuovo fronte in Italia e la cattura da parte degli olandesi della flotta che trasportava l’argento americano diedero il tracollo alle finanze spagnole mentre l’Unione delle armi incontrava una crescente opposizione. L’impero germanico e l’ascesa della Svezia Alla morte di Ferdinando I (1564), la dignità imperiale era andata al figlio Massimiliano II, cui succedette Rodolfo II. Quest’ultimo dovette far fronte a una larghissima diffusione del luteranesimo e del calvinismo. verso il 1580 ormai la grande maggioranza della nobiltà nei domini asburgici aveva abbandonato la Chiesa cattolica. (in opposizione all’assolutismo monarchico) Rodolfo II pose la sua resistenza a Praga, dove si circondò di artisti e scienziati. Con gli anni cominciò a manifestare segni di squilibrio mentale. Nel 1609 i nobili del Regno di Boemia lo costrinsero a firmare una lettera di maestà, che concedeva loro piena libertà religiosa. Nel 1611 Rodolfo venne deposto e la corona di Boemia venne cinta dal fratello Mattia che l’anno successivo fu anche detto imperatore. La debolezza della suprema autorità politica aveva acuito in tutta la Germania contrasti tra cattolici e protestanti (luteranismo e calvinismo)… questi ultimi, preoccupati dai progressi della controriforma, nel 1608 conclusero un’alleanza difensiva (L’Unione evangelica)… a questa si contrappose l’anno seguente una Lega cattolica. Tra i Paesi affacciati sul Mar Baltico, nessuno alla fine del Cinquecento poteva competere per estensione e popolazione con la Polonia-Lituania. Aggregazione di territori ancora più vasta si delineò quando Sigismondo Vasa (re di Polonia dal 1587) ereditò anche la corona di Svezia. Ma lo zio di Sigismondo, Carlo, si pose alla testa di un forte movimento di opposizione aristocratica, facendo leva sui timori di una restaurazione cattolica e al termine di una guerra civile fece deporre il rivale dalla Dieta svedese; nel 1604 egli assunse anche formalmente la corona con il nome di Carlo IX. Il nuovo sovrano manifestò subito mire espansionistiche Polonia, Danimarca di Cristiano IV. Per quanto sfortunati questi conflitti aprirono la via alle imprese del figlio e successore Gustavo Adolfo che in soli venti anni riuscirà a imporre la supremazia svedese su tutto il Baltico. Gustavo Adolfo, riorganizzò l’amministrazione interna, creò una flotta da guerra e potenziò l’esercito introducendo un sistema di coscrizione obbligatoria. Le sue prime prove militari ebbero come teatro la Russia. Le prime fasi della guerra dei Trent’anni (1618-1629) A Mattia, vecchio e privo di eredi, era candidato a succedere il nipote Ferdinando, duca di Stiria, educato dai gesuiti e intransigente campione della Controriforma nel 1617 ottenne la designazione a re di Boemia e di Ungheria dalle rispettive Diete. Ma le misure subito prese a favore del cattolicesimo dai reggenti che rappresentavano il potere imperiale a Praga indignarono i ceti boemi, che si autoconvocarono nuovamente nella primavera del 1618. Il 23 maggio una folla di delegati invase il palazzo reale e gettò dalla finestra due tra i più odiati reggenti e il loro segretario. Nel frattempo, (marzo 1619), l’imperatore Mattia era morto e la Dieta imperiale riunita a Francoforte il 28 agosto, elesse imperatore Ferdinando (II). Due giorni prima i ceti boemi dopo aver dichiarato deposto Ferdinando, avevano offerto la corna all’elettore del Palatinato, il calvinista Federico V, con la speranza di favorire la costituzione intorno a Federico. Ciò spinse l’imperatore a chiedere l’aiuto della Spagna e della Lega cattolica tedesca. Così nella primavera-estate del 1620 gli eserciti bavarese e imperiale sottomisero l’Alta e la Bassa Austria e penetrarono in Boemia Alla vittoria degli imperiali seguì una dura repressione: in Austria e in Boemia i pastori luterani e calvinisti furono espulsi, i capi della ribellione giustiziati e la nobiltà protestante venne posta di fronte l’alternativa di convertirsi o emigrare. • Ricattolicizzazione forzata. 1621, Si riaprono le ostilità fra la Spagna e le Province Unite Con l’intervento armato del re di Danimarca, Cristiano IV, e lo spostamento nel 1624-25 della Francia che aveva fino allora mantenuto una neutralità benevola verso gli Asburgo. Entrambe le iniziative parvero destinate all’insuccesso Una spedizione inviata da Luigi XIII e Richelieu in Valtellina, i cui passi erano stati occupati dagli spagnoli, dovette presto essere ritirata a causa dei problemi interni della Francia. Cristiano IV attraversò il fiume Elba nei primi mesi del 1625 ma si trovò di fronte a un grande esercito imperiale guidato dal nobile Albrecht von Wallenstein. Cristiano dovette chiedere la pace dopo varie invasioni da parte di Albrecht. Cristiano riotteneva i territori perduti, ma doveva impegnarsi a non intervenire più negli affari dell’Impero. Due mesi prima, il 28 marzo 1629, era stato pubblicato l’Editto di restituzione con il quale l’imperatore Ferdinando II ordinava restituzione di tutti i beni ecclesiastici secolarizzati doopo il 1552. La causa cattolica sembrava ormai avviata a una completa vittoria sia in Germani che nei Paesi Bassi. Ma le potenze protestanti e la Francia di Richelieu non potevano assistere indifferenti al trionfo degli Asburgo. Dalla guerra di Mantova alla pace di Vestfalia Tra il 1628-30 centro della politica europea si spostò dalla Germania all’Italia settentrionale. Alla fine del 1627 era morto senza lasciare eredi diretti il duca di Mantova, Vincenzo II Gonzaga. Successore designato era il francese Carlo, duca di Nevers. Ma gli Asburgo rivendicarono la dipendenza dell’Impero dal Ducato di Mantova. Nel 1629-30 un esercito imperiale scendeva le Alpi e si impadroniva di esso. I problemi interni di Richelieu e di Olivares e la gravissima epidemia di peste scoppiata nell’Italia settentrionale indussero i contendenti a trattative di pace che portarono all’accordo di Cherasco (1631): Nonostante ciò, nella Camera dei Comuni erano in netta maggioranza gli avversari della politica assolutistica del sovrano che cercarono di intimidire la Camera dei Lord e procedettero a smantellarne tutti i capisaldi: Strafford e Laud vennero accusati di tradimento e imprigionati; furono soppressi i tribunali sottoposti all’influenza diretta del monarca; dichiarate illegali e abolite la Ship money e le ultime imposte introdotte; i vescovi vennero estromessi dalla Camera dei Lord; il re venne privato del diritto di sciogliere il Parlamento senza il consenso di quest’ultimo. I predicatori puritani cercarono di impedire una riconciliazione con la monarchia, cui i Lord e una parte dei Comuni sarebbero stati inclini. Lo Stuart allora ritenne giunto il momento di reagire. Si presentò in Parlamento con un drappello di armati per arrestare i capi dell’opposizione; ma il colpo andò a vuoto perché questi ultimi, avvertiti in tempo, si erano messi in salvo. Il Parlamento allora si trasferì nella City, mentre il re lasciò la capitale deciso ormai a risolvere con la forza la partita, e chiamò a raccolta i sudditi a lui fedeli. La guerra civile. Cromwell e la vittoria del Parlamento La guerra civile vera e propria ebbe inizio nell’estate del 1642, e sembrò in un primo tempo a favore del re che poteva contare su una valorosa cavallerie. Ma il protrarsi delle ostilità furono poi a favore del Parlamento che poteva contare sul sostegno finanziario della City e sulla maggiore capacità contributiva delle contee sud-orientali, e sull’alleanza con gli scozzesi (1643) Primo importante successo ci fu il 2 luglio 1644 a Marston Moor, grazie al valore dei reparti di cavalleria guidati da Oliver Cromwell, che l’anno dopo costituì “l’esercito di nuovo modello” caratterizzato da una disciplina ferrea. Vista inutile ogni ulteriore resistenza Carlo I preferì arrendersi agli scozzesi che lo consegnarono al Parlamento di Londra; ma non smise per questo di intrattenere accordi con il Parlamento stesso, con gli scozzesi e con i generali dell’esercito. Secondo questi infatti era favorevole un contatto con il re sconfitto che salvaguardasse le conquiste della rivoluzione. Sul nuovo assetto politico e soprattutto religioso da dare al Paese non vi era però unanimità di vedute: Nel Parlamento era predominante la corrente presbiteriana che voleva riorganizzare la Chiesa d’Inghilterra secondo un’impostazione calvinista, alla quale si contrapponevano gli indipendenti che erano sostenitori di una larga tolleranza delle opinioni religiose. Il clima ostile tra corona e Parlamento aveva favorito la proliferazione di sette e conventicole religiose, che parevano mettere in pericolo i fondamenti dell’ordine sociale oltre che i dogmi del cristianesimo. I legami tra queste tendenze religiose e il radicalismo politico si espresse nel movimento dei livellatori, che erano quanti erano accusati di voler cancellare le distinzioni sociali e livellare le fortune. In realtà non andavano contro la proprietà privata…e pur non essendo contrari alla monarchia rivendicavano la sovranità popolare; chiedevano la soppressione di tutti i privilegi, una semplificazione delle leggi, istruzione per tutti, allargamento del diritto di voto… Dopo la vittoria sul re, la propaganda dei livellatori fece molti proseliti nell esercito di nuovo modello soprattutto quando l’intenzione del Parlamento di scioglierlo si fece chiara. I vari reparti nominarono allora degli “agitatori” incaricati di trattare con i capi per giungere a una piattaforma comune dell’esercito; nel giugno successivo questo occupò Londra e si impadronì della persona del re. Il re riuscì a fuggire e decise di riaccendere la guerra civile. Ma Cromwell e gli altri capi militari decisero di farla finita e con l’istituzione di un’Alta Commissione di giustizia processarono il re. Carlo I venne condannato a morte e giustiziato il 30 gennaio 1649. Il decennio repubblicano: Cromwell al potere Il primogenito di Carlo I, non aveva tardato ad ottenere il titolo regio di Carlo II ed era stato riconosciuto sia dagli scozzesi sia dagli irlandesi. Per scongiurare la minaccia di un’invasione realista e per sottomettere quei due territori c’era bisogno di una forza armata compatta. Cromwell guidò personalmente la campagna contro gli irlandesi. Fu una specie di genocidio. Ugualmente rapida fu la vittoriosa campagna di Cromwell in Scozia. Per la prima volta si apriva così la via per una unificazione politica. E nel frattempo la nuova potenza militare inglese si dirigeva verso nuove direzioni. Nel settembre 1651 venne promulgato l’Atto di navigazione, che riservava alla madrepatria il commercio con le colonie nordamericane e ammetteva nei porti inglesi solo navi britanniche o dei Paesi da cui provenivano le merci. era un colpo diretto contro gli olandesi che esercitavano su larga scala il commercio d’intermediazione; e infatti scoppiò subito la prima delle tre guerre navali anglo-olandesi, che finiranno per sancire la superiorità marittima britannica. Alcuni anni dopo l’Inghilterra di Cromwell entrò in guerra con la Spagna; le strappò l’isola di Giamaica. Inoltre aveva stipulato trattati commerciali con il Portogallo e i Paesi Baltici. Meno soddisfacenti furono i risultati nella politica interna. Nel 1653 venne sciolto quanto restava del Lungo Parlamento e al suo posto venne insediata un’assemblea di 144 membri (Parlamento Barebone) ma durò solo cinque mesi per contrasti interni. Alla fine dello stesso anno, Oliver Cromwell venne proclamato Protettore del Commonwealth di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Alla morte di Cromwell gli successe il figlio Richard che si dimostrò incapace e abdicò. L’unica soluzione possibile apparve il richiamo di Carlo II Stuart che con la dichiarazione di Breda (1660) si impegnò a governare con il Parlamento, a concedere larga amnistia e libertà religiosa. La Francia a metà Seicento: il governo di Mazzarino e la Fronda Alla morte di Luigi XIII, la reggenza in nome del piccolo successore Luigi XIV venne assunta dalla vedova del defunto monarca, Anna d’Austria. Fin dai primi giorni questa affidò la direzione degli affari al cardinale Giulio Mazzarino. Egli si mantenne fedele agli indirizzi politici di Richelieu, pur sostituendo alla durezza di questi la diplomazia e l’arte del compromesso, ereditandone così l’impopolarità. I nobili volevano impadronirsi del potere politico (Gli officiers e i rentiers). La situazione divenne esplosiva nel 1648 quando il Parlamento di Parigi prese la testa del movimento di opposizione e concertò un comune programma di riforme. Si trattava in particolare della soppressione degli intendenti, della diminuzione delle imposte, dell’invalidità di ogni tassa che non avesse ottenuto l’assenso dei Parlamenti… un programma che se attuato avrebbe bloccato il cammino verso l’assolutismo della monarchia francese. La regina e Mazzarino reagirono arrestando uno dei più popolari esponenti della magistratura parigina, Pierre Broussel, ma la piazza insorse..e la corte fu costretta a lasciare la capitale e a piegarsi alle richieste del Parlamento. La pace fu firmata a Saint-Germain il 1 Aprile 1649 e chiudeva la Fronda detta “parlamentare”, per il luogo di primo piano che in essa aveva giocato il Parlamento di Parigi. Il fallimento della Fronda aveva dimostrato ai francesi che l’autorità monarchica era l’unica forza in grado di scongiurare l’anarchia e di tenere a freno la prepotenza dei Grandi. Le rivolte nella penisola iberica (Catalogna e Portogallo) Non meno del Portogallo, la Catalogna si considerava una nazione distinta dalla Castiglia. Quando nei primi mesi del 1640 il conte-duca di Olivares volle approfittare della presenza in loco di un esercito castigliano per convocare le Cortes e imporre i mutamenti che gli stavano a cuore, la Catalogna insorse e chiese l’appoggio della Francia. Nel gennaio 1641 venne proclamata la sua unione alla monarchia dei Borbone, pur col mantenimento delle sue istituzioni e leggi. Nel frattempo anche il Portogallo volle rendersi indipendente e lo fece con un insurrezione del dicembre 1640, ponendo sul trono il duca Giovanni di Braganza con il nome di Giovanni IV. La monarchia spagnola non era quasi più in grado di reagire, e Filippo IV fu costretto a licenziare l’Olivares. La riconquista della Catalogna fu possibile per il mutamento della situazione internazionale (pace di Vestfalia e disordini della Fronda in Francia) ma soprattutto per i timori dell’aristocrazia catalana di fronte al radicalizzarsi della lotta sociale, poiché quella che era cominciata come una rivolta separatista si era trasformata in una guerra di poveri contro ricchi. Il Portogallo invece, grande indipendenza. La Castiglia viveva una profonda decadenza; la Catalogna invece nella seconda metà del Seicento mostra chiari segni di ripresa. L’Italia del Seicento La popolazione e le attività economiche La prosperità di molte città dell’Italia settentrionale si era basata nei secoli precedenti sulla produzione di articoli di lusso, soprattutto tessuti, e sulla loro esportazione verso mercati lontani in Europa e nel Levante. Furono soprattutto queste attività ad essere duramente colpite dalla crisi del Seicento. Il declino fu particolarmente grave nel settore laniero, a Firenze, Venezia, Milano e Cremona, per esempio. Più contrastata era la situazione dell’industria serica… se a Venezia, Milano e Genova la produzione calò drasticamente, ciò non successe per esempio a Firenze. Altri elementi invece potrebbero dare l’impressione di un crollo totale delle economie urbane: tra questi il mantenimento di un alto livello artigianale nella fabbricazione di alcuni articoli di lusso, come le carrozze a Milano, i vetri a Murano… Quali le cause di questo mutamento? Le manifatture di Venezia, Milano, Firenze, Genova furono vittime innanzitutto della concorrenza dei produttori dell’Europa nord-occidentale. In queste aree era avvenuta la conversone verso prodotti meno costosi ma più richiesti, le attività era molte nelle campagne. Le manifatture italiane invece persistettero a produrre con metodi antiquati articoli eccellenti ma ormai fuori moda; e le città furono a lungo forti da ostacolare il trasferimento della lavorazione nelle campagne. Non si può poi prescindere dagli effetti devastanti della guerra dei Trent’anni nell’Italia settentrionale e in Germani e dalle gravissime pestilenze nel 1630-31. I vuoti aperti dalla peste, tuttavia, furono colmati abbastanza rapidamente. Significativo è che a questa ripresa contribuissero le campagne in misura superiore alle città, tranne per poche eccezioni. Nel complesso, l’agricoltura resse molto meglio dell’industria e del commercio alle avversità, nonostante la frequenza delle carestie legate a condizioni climatiche. La diminuita richiesta di grani, conseguenza del calo demografico, favorì la diffusione della vite, del riso, del gelso. La proliferazione dei gelsi era legata all’allevamento del baco da seta trattura (dipanamento della seta dal bozzolo eseguito in bacinella d acqua calda) e la torcitura del filo per renderlo uniforme e resistente. Ma anche la filatura e la tessitura del lino, della canapa, della lana e del cotone; la fabbricazione di chiodi e attrezzi di ferro. A questi sviluppi rimase largamente estraneo il Mezzogiorno. La vita sociale e la cultura Con l’involuzione economica si approfondì il distacco tra detentori di ricchezza fondiaria e le classi subalterne dedite al lavoro manuale che assicurava solidità e prestigio. Anche in precedenza avveniva che i capitali accumulati con l’industria e il commercio fossero investiti nell’acquisto di beni terrieri che assicuravano solidità e prestigio… ma il fatto nuovo tra Cinque e Seicento è che alle famiglie che abbandonano il profitto per la rendita, sempre più stentano a sostituirsene altre desiderose di prendere il loro posto. nel Mediterraneo orientale che fu combattuta la guerra di Candia (Creta) contro l’Impero ottomano (l’isola dovette essere evacuata). Di breve durata sarà anche la conquista del Peloponneso dopo un conflitto dei Veneziani contro i Turchi. Lo Stato pontificio. Anche qui si va esaurendo la precedente spinta a un maggiore accentramento e più saldo controllo delle province. All’annessione di Ferrara seguì quella del Ducato di Urbino. Ma il versante adriatico dello Stato rimase separato. Mentre nell’Appennino dominava come il Toscana il sistema mezzadrile , nella maggior parte del Lazio si estendevano enormi latifondi coltivati in maniera irregolare da braccianti discesi dalle montagne. Con ciò faceva contrasto lo splendore architettonico e artistico della capitale. Per far fronte alle spese richieste dai grandi lavori pubblici e da una corte sfarzosa, la Camera apostolica ricorreva ai proventi delle imposte, alla raccolta di capitali mediante la vendita dei “luoghi fi monte”. Nella seconda metà del Seicento il prestigio papale cominciò a declinare. Imperi e civiltà dell’Asia tra XVI e XVIII secolo La Cina sotto le dinastie Ming e Manciù Il continente asiatico si può definire immenso. Avevano lì preso vita grandi e millenarie civiltà. La più antica e la più prestigiosa era quella del “Celeste Impero” cinese. La popolazione cinese tra il 1400 e il 1600 si era raddoppiata. Aumento reso possibile grazie alla coltura del riso, al notevole sviluppo della coltivazione del tè, del cotone. La centralità dell’agricoltura non impedì l’accumulo di sofisticate conoscenze tecniche e artigianali: la bussola, la carta, la stampa, la polvere da sparo. Molto alti i livelli raggiunti nella fusione del ferro, nella manifattura di porcellane e nella tessitura serica. Anche il commercio conobbe un grande sviluppo , non solo all’interno del paese ma anche in direzione del Giappone, dell’Indonesia e dell’India. Le condizioni di pace e stabilità furono assicurate dalla dinastia Ming che trasferì la capitale da Nanchino a Pechino. Il potere era tutto nelle mani dell’imperatore, il “Figlio del Cielo”, e la dottrina di Confucio esaltava sopra ogni altra le virtù dell’obbedienza e della sottomissione gerarchica. In pratica, l’esecuzione degli ordini imperiali nelle 15 province in cui era divisa la Cina era affidata a una classe di letterati-burocratici che si reclutava per concorso. Enormi ricchezze erano accumulate dagli eunuchi di corte che esercitavano influsso crescente sulla conduzione degli affari e presero a funzionare come una sorta di polizia segreta. Il crescente prelievo fiscale e l’incremento demografico portarono a un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini aggravate dalle carestie. In questa situazione di anarchia approfittarono i manciù per invadere la Cina e occupare Pechino… ma il loro numero era troppo scarso per mantenere a lungo una distinzione etnica e si dimostrò impossibile fare a meno dei servizi della burocrazia cinese. Il Giappone nell’”era Tokugawa” Lo Stato giapponese si era costituito nel VII secolo sul modello cinese. La frammentazione del potere e lo stabilirsi di rapporti di vassallaggio determinaronouna situazione molto simile a quella dell’Europa feudale. A partire dalla fine del XII secolo accanto all’imperatore troviamo la figura del “generalissimo” (shogun), esponente di una delle maggiori caste feudali, che deteneva il potere effettivo. Ciò portò a violente guerre intestine finchè nel 1603 il titolo di “generalissimo” fu assunto da Tokugawa Ieyasu che lo trasmise ai suoi discendenti fino al 1867. L’era Tokugawa, fu caratterizzata dalla persistenza delle strutture feudali e da un forte accentramento statale. La famiglia Tokugawa controllava direttamente circa un terzo del Paese, il restante era suddiviso fra oltre 250 daimyo, che all’interno dei rispettivi territori esercitavano un’autorità pressocchè assoluta. I daimyo erano però fedeli ai generalissimi, fedeltà garantita dall’obbligo di dover lasciare alcuni loro familiari in qualità di ostaggi. Ulteriore carattere di quest’era fu la chiusura delle frontiere, ma l’isolamento che venne a crearsi non impedì all’economia giapponese di continuare a svilupparsi, dato che il mercato interno era molto vasto. Ci fu una grande crescita della borghesia e la diffusione di attività manifatturiere. Parallelamente si accentuava nei villaggi il divario tra i coltivatori facoltosi e le masse di contadini poveri… andavano quindi maturando le condizioni per il passaggio al sistema di produzione capitalistico. L’Impero moghul in India Il subcontinente indiano fu da sempre un crogiolo di razze, lingue e religioni diverse. L’islamismo portava con sé il vantaggio di rifiutare la divisione della società in caste, ma a questo si aggiunse il movimento sikh, assertore di un rigido monoteismo animato da un proselitismo militante, e la comparsa del cristianesimo. Al pluralismo religioso faceva riscontro la frammentazione politica… ma il precario equilibrio delle varie forze politiche fu improvvisamente rotto dall’irruzione di un capo militare afghano, Babur, discendente di Tamerlano, che gettò le fondamenta dell’Impero moghul, destinato a durare fino al XVIII secolo. Il suo maggiore artefice fu però Akbar il Grande che da un lato sottomise tutta l’India centro-settentrionale, dall’altro riuscì a dare a questo immenso territorio un inquadramento statale saldo. Notevole fu lo sviluppo manifatturiero, stimolato dallo sforzo della classe dirigente che conquistarono i mercati occidentali. Insieme con gli scambi crebbe una classe media di mercanti, usurai, armatori di navi che alcuni studiosi hanno paragonato alla nascente borghesia europea. L’apogeo dell’Impero moghul coincise con il lungo regno di Aurangzeb, che unificò sotto il proprio scettro quasi tutto il subcontinente indiano. Ma con la morte di quest’ultimo l’impero cominciò a sfasciarsi. Intanto era iniziata la penetrazione francese e inglese, destinata a segnare profondamente la storia dell’India. La Persia e l’Impero ottomano A dividere la Persia dall’Impero ottomano era la contrapposizione religiosa tra islamismo sciita e sunnita. Lo scià Abbas il Grande ottenne importanti successi militari contro i turchi e diede impulso all’economia persiana con l’incoraggiamento di esportazioni di sete e tappeti pregiati. La dinastia safawide (Persiana) però nel 1722 venne rovesciata ad opera di un invasore afghano (Nadir Shah) e ne seguì un periodo di lotte intestine. Proprio la preoccupazione per il fronte orientale indusse l’Impero ottomano a chiudere senza alcun vantaggio la guerra ingaggiata contro gli Asburgo in Ungheria nel 1593. La fine dell’espansione territoriale determinò gravi conseguenze in una formazione politica basata sulla “guerra santa” e sulla conquista. Anche le concessioni territoriali cessarono di essere il corrispettivo del servizio militare a cavallo e andarono per lo più a cortigiani e notabili locali. Negli uffici statali si diffusero la venalità e la corruzione. Perfino l’autorità del sultano fu indebolita da un mutamento nel sistema di successione: non erano più i figli a succedere ma i fratelli in ordine di età. Di fronte allo spettacolo poco edificante della corruzione e degli intrighi di palazzo di ergeva l’autorità morale degli ulema, i giuristi-teologi che amministravano la sacra legge islamica (la shar’ia) Sul piano militare, gli ottomani subirono molte sconfitte a causa della superiorità acquisita dagli occidentali nell’armamento e nella tattica. Asia ed Europa Si può affermare con sicurezza che per tutta l’età moderna l’Asia diede all’Europa molto più di quanto ne ricevette. Vi era un forte divario tra importazioni ed esportazioni. Fu molta l’influenza dell’Oriente sull’Occidente, sia a livello commerciale, sia a livello culturale. Il protagonista principale della penetrazione economica europea fu nel XVI secolo il Portogallo, ma non va dimenticato che l’unica vera colonia europea in Asia fu l’arcipelago delle Filippine. Nel XVII secolo al predominio portoghese in Indonesia subentro quello olandese, e lungo le coste dell’India cominciò a farsi sentire la presenza inglese e francese. Ma per quanto riguarda le grandi civiltà del continente asiatico i missionari e i mercanti europei ne rimasero per lo più ai margini. Mentre le basi e i possedimenti portoghesi e spagnoli erano sotto l’autorità delle rispettive corone, negli altri casi furono invece le Compagnie delle Indie olandese, inglese e francese a ottenere concessioni territoriali dai vari governi asiatici. Diverso fu anche l’atteggiamento religioso: se portoghesi e spagnoli imponevano la loro fede, gli olandesi e inglesi erano più tolleranti. L’attività missionaria si esplicò principalmente attraverso l’opera dei gesuiti in particolare. L’apogeo dell’assolutismo: la Francia di Luigi XIV Luigi XIV: il “mestiere di re” Luigi XIV (figlio di Luigi XIII e di Anna d’Austria) aveva appena cinque anni quando ereditò la corona, e ventitré quando assunse personalmente il potere, alla morte di Mazzarino, nel 1661. Il suo regno durò ben 72 anni e rappresentò l’apogeo dell’assolutismo monarchico, e fu anche il periodo in cui la Francia giunse a esercitare una supremazia sul resto dell’Europa. Inoltre la Francia assunse il ruolo di nazione guida in fatto di cultura, gusto, cucina e moda. Basti pensare alla reggia di Versailles e al primato raggiunto dal francese come lingua comune a tutti i colti europei. L’educazione del Re Sole non era stata molto curata, ma grande efficacia ebbero le lezioni di arte di governo ricevute da Mazzarino. Quando il cardinale morì, il Re Sole manifestò subito la sua volontà di governare da solo. Preferì servirsi di ministri di nascita modesta, che a lui solo dovessero la propria elevazione. La direzione delle finanze, per esempio, fu affidata fin da subito al figlio di un mercante, Jean-Baptiste Colbert. Importante fu il ruolo del Consiglio, o meglio, dei Consigli: il Consiglio superiore comprendeva i ministri della guerra, degli affari esteri, delle finanze; il Consiglio dei dispacci esaminava la corrispondenza ricevuta dalle province, il Consiglio delle parti era competente nelle questioni giuridiche, e il Consiglio delle finanze. Gli intendenti e la loro autorità si estendevano nei più svariati settori; nominati dal re e revocabili a suo piacimento; sono cinghie di trasmissione della volontà regale, portavoce degli interessi locali. Diversi da questi funzionari sono gli officiers, cioè i detentori di uffici venali, ereditati o acquistati per denaro; rientrano in questa categoria i consiglieri, i presidenti dei tribunali… tra le loro attribuzioni rientrava la registrazione degli editti regi. La celebre affermazione di Luigi XIV “lo Stato sono io” non va intesa solo come un’orgogliosa manifestazione di potenza, ma anche come l’involontario riconoscimento di un limite: l’obbedienza, l’uniformità, la pace, la libertà….era affidata non tanto alle istituzioni quanto alla presenza al vertice dello Stato di una personalità forte e capace, e alla mediazione esercitata da notabili appartenenti al clero, alla nobiltà o al ceto degli officiers. L’esempio della giustizia mette in evidenza anche i limiti dell’assolutismo francese. Nelle campagne per esempio non valeva la legislazione regia… lì le norme variavano in larga misura da luogo a luogo. Nelle campagne amministravano i giudici nominati da signori feudali. Analogamente funzionava in campo amministrativo e fiscale. Avevano una loro autonomia. La corte e il Paese Cominciava a mostrarsi una forte opposizione contro l’assolutismo di Luigi XIV in vari modi: nelle sommosse, nella contestazione di una politica che sacrificava l’agricoltura, nella rivendicazione di maggiori poteri da parte dell’aristocrazia… Gli ultimi anni di Luigi XIV furono contristati, oltre che dai rovesci subiti nella guerra di successione spagnola, da lutti familiari. Il primo settembre 1715 moriva il vecchio despota. Il successore, era un bambino, Luigi d’Angiò. I nuovi equilibri europei tra Sei e Settecento La “gloriosa rivoluzione” e l’ascesa della potenza inglese La monarchia Stuart era stata restaurata nel 1660 sulla base di un compromesso con il Parlamento. Carlo II Stuart poté godere di una certa libertà di manovra, da un lato grazie all’incremento naturale delle entrate ordinarie, e dall’altro per effetto del trattato stipulato con il re di Francia nel 1670, che in cambio della promessa dello Stuart di prestargli man forte contro l’Olanda, si impegnava a versargli un sussiduo annuo. Benché questo accordo fosse rimasto segreto, le evidenti inclinazioni filocattoliche del monarca suscitarono ben presto sospetti e ostilità di un’opinione pubblica molto sensibile al pericolo del papismo. Nel 1673 il Parlamento votò un Test Act che subordinava l’assunzione di cariche civili o militari a una professione di fede anglicana. I timori dei protestanti venivano alimentati dal fatto che Carlo II era privo di figli maschi e che l’erede al trono sarebbe stato il fratello, Giacomo, fervente cattolico. Di fronte ai problemi religiosi e dinastici si crearono due schieramenti politici: • I tories; fautori della monarchia di diritto divino, del legittimismo dinastico, della Chiesa anglicana; • I whigs; sostenitori del Parlamento e di un più vasto fronte protestante Dopo il 1680, la politica regia sotto l’influenza di Giacomo si sviluppò in senso chiaramente assolutistico: il Parlamento venne ripetutamente sciolto; salito al trono alla morte del fratello, Giacomo II si adoperò subito per il rafforzamento dell’esercito; le disposizioni del Test Act vennero annullate; nel 1688 nacque a Giacomo un figlio maschio facendo ampliare le preoccupazioni di quanti temevano il radicamento di una dinastia cattolica. In questa situazione i maggiori esponenti dei tories e dei whigs fecero appello a Guglielmo III d’Olanda che aveva sposato una figlia di Giacomo II, Maria Stuart. Gugliemo organizzò una spedizione militare e nel 1688 sbarcò a Torbay. Giacomo II non cercò nemmeno di resistere e fuggì in Francia. Un “Parlamento di convenzione” convocato da Guglielmo dichiarò allora il trono vacante e offerse la corona a Guglielmo e a Maria che si impegnarono a osservare una Dichiarazione dei diritti (vi erano riaffermati l’illegalità di ogni atto non autorizzato dal parlamento, il carattere libero delle elezioni e discussioni parlamentari e l’indipendenza dei giudici). Poi, il Triennal Act, che imponeva l’elezione di un Parlamento almeno ogni tre anni; l’Act of Settlement che fissava l’ordine di successione al trono in modo da escluderne i cattolici. Svolta decisiva nella storia politica dell’Inghilterra: sbarrò per sempre la strada dell’assolutismo e aprì la via verso un governo di tipo parlamentare. Il teorico più conseguente di questa svolta fu John Locke, che pubblicò i “Due trattati sul governo civile” in cui si schierava contro la monarchia assoluta a favore della teoria del contratto sociale; in una direzione opposta a quella di Thomas Hobbes che aveva presupposto una rinuncia dei sudditi a tutti i loro diritti a favore del monarca, mentre Locke giustificava una delega di determinati poteri a quest’ultimo proprio con l’esigenza di una migliore salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. Il mutamento al vertice della monarchia inglese ebbe come conseguenza immediata il suo ingresso nella coalizione europea che nel 1689 aprì le ostilità contro la Francia, fino al 1713. L’espansione senza precedenti delle spese militari contribuì a importanti novità in campo fiscale: “l’accisa”, un’imposta indiretta che venne estesa a nuovi generi di largo consumo, e al suo fianco venne introdotta un’imposta fondiaria proporzionale al reddito presunto. Poiché queste ultime non erano comunque sufficienti si verificò una forte crescita del debito pubblico, per la cui gestione venne fondata la Banca d’Inghilterra, abilitata a emettere buoni che circolarono ben presto come carta moneta. L’espansione della monarchia austriaca Nel corso della guerra dei Trent’anni era stato sconfitto il disegno di restaurazione cattolica e imperiale coltivato dagli Asburgo d’Austria, ma in compenso, la sottomissione dei “ceti” nei ducati austriaci e nel Regno di Boemia, la sostituzione di gran parte della nobiltà, l’opera di ricattolicizzazione… avevano dato ai loro Stati ereditari una compattezza nuova, basata sulla fedeltà dinastica e sul sentimento religioso tipico della Controriforma. Questo senso di unità è percepibile anche nel rafforzamento degli organi centrali di governo e nella costituzione di un forte esercito permanente riorganizzato dal grande stratega italiano Raimondo Montecuccoli, che nel 1664 riportò una grande vittoria su un esercito ottomano. Da questa comunità politico-culturale rimaneva esclusa l’Ungheria, per oltre due terzi soggetta al dominio ottomano o al principe di Transilvania… ma anche la cosiddetta “Ungheria imperiale” suddita degli Asburgo, rivendicava libertà religiosa e jus resistendi, cioè il diritto di sollevarsi contro il proprio sovrano qualora questi avesse violato le leggi fondamentali del paese… e così fu nel 1678 quando l’imperatore Leopoldo I cercò di stroncare l’opposizione della nobiltà al potere monarchico sospendendo le libertà costituzionali e avviando una persecuzione contro i protestanti. I rivoltosi chiesero aiuto all’Impero ottomano che inviò un grande esercito ad assediare la stessa Vienna. La congiunzione della cavalleria polacca con le forze austriache giunse appena in tempo per rendere possibile la fuga delle trippe ottomane. La controffensiva austriaca portò in pochi anni alla riconquista di tutta la pianura ungherese e della Transilvania. Il comando delle armate imperiali fu assunto da Eugenio di Savoia che distrusse a Senta l’ultimo grande esercito ottomano. Nel frattempo i veneziani, entrati in guerra a fianco degli Asburgo, riuscivano a espellere i turchi dai Peloponneso. La pace stipulata a Carlowitz nel 1699 sancì il grave arretramento dell’Impero ottomano che dovette cedere agli Asburgo l’Ungheria e la Transilvania, a Venezia il Peloponneso. L’ascesa della monarchia austriaca fu completata al termine della guerra di successione spagnola La guerra di Successione spagnola e i regni iberici Il primo novembre del 1700, si spegneva senza lasciare eredi l’ultimo Asburgo, Carlo II. Un accordo stipulato il 25 marzo di quell’anno assegnava la corona di Spagna (con Paesi Bassi e colonie americane) a Carlo (secondogenito dell’imperatore Leopoldo I), mentre a Filippo d’Angiò (nipote di Luigi XIV) sarebbero andati i domini italiani. Ma l’idea di una spartizione dell’eredità suscitava ostilità a Madrid e un mese prima di morire Carlo II si lasciò convincere a redigere un testamento che proclamava erede universale il duca d’Angiò, che assunse il titolo di Filippo V re di Spagna, con la condizione di una sua rinuncia ai diritti di successione in Francia. Il comportamento di Luigi XIV fu però tale da far apparire illusoria la separazione tra le due corone di Francia e di Spagna. E allora l’imperatore Leopoldo I insieme a Inghilterra e Olanda stipularono il 7 settembre 1701 una nuova Grande Allanza. La guerra venne formalmente dichiarata il 15 maggio 1702. Alla coalizione antifrancese aderirono la Danimarca e molti principi tedeschi; con Luigi XIV e Filippo V erano in un primo tempo schierati il duca di Savoia Vittorio Amedeo II e il re del Portogallo Pietro II.. ma nell’anno successivo entrambi passarono nel campo avverso. Le cose sembravano volgere al peggio per la Francia. Nel 1713 furono riprese su nuove basi le trattative anglo-olandesi con la Francia che si conclusero con la pace di Utrecht. La monarchia austriaca tenne duro per un altro anno ma fu costretta a firmare la pace a Rastratt. Nel loro insieme i due trattati sancivano un nuovo ordine politico che sarebbe rimasto a lungo alla base dell’equilibrio europeo: Filippo d’Angiò rimaneva a Madrid con il titolo di Filippo V, ma era ribadita l’incompatibilità di questa corona con quella di Francia. A Carlo d’Asburgo, divenuto Carlo VI passavano per la mancata successione i possedimenti spagnoli nei Paesi Bassi e in Italia, ad eccezione delle Sicilia che andava a Vittorio Amedeo II, e riceveva inoltre il Monferrato, Alessandria, Valenza e Lomellina. L’Olanda dovette accontentarsi di una serie di piazzeforti lungo la frontiera fra Paesi Bassi e la Francia. Più sostanziosi i guadagni dell’Inghilterra che si vide riconoscere il possesso di Minorca e di Gibilterra, ottenne poi la Nuova Scozia e una serie di privilegi tra cui asiento (monopolio dell’importazione degli schiavi neri nelle sue colonie) e il “vascello di permissione” cioè il diritto di inviare ogni anno una grossa nave carica di mercanzie del Nuovo Mondo L’ascesa della Russia di Pietro il Grande e il declino della Svezia La Russia di fine Seicento era un immenso territorio esteso dal Dniepr al Pacifico. I Romanov ripresero con Michele la tradizione assolutistica già affermatasi con Ivan IV e portarono a compimento con Alessio una notevole espansione territoriale (Siberia, Smolensk, Ucraina). Gli inasprimenti fiscali provocati dalla guerra e il peggioramento delle condizioni di vita dei contadini determinarono tuttavia un profondo stato di malessere e fermento nella popolazione. Crisi che fu aggravata da una pestilenza, dal grande scisma religioso al quale seguirono innovazioni liturgiche che portarono alla separazione dei “vecchi credenti” dalla Chiesa ufficiale e movimenti insurrezionali. Nel 1689 dopo una lunga crisi dinastica, si impose come unico zar il figlio di secondo letto di Alessio, Pietro, deciso a modernizzare il suo Paese sull’esempio dell’Occidente europeo. Dopo vari viaggi, tornò nel suo e si abbandonò a una repressione di inaudita ferocia: decapitò alcuni dei prigionieri con le proprie mani e obbligò cortigiani a fare la stessa cosa. Da questa barbarica violenza si vede come l’ammirazione di Pietro per l’Occidente europeo fosse limitata agli aspetti tecnico-pratici e ispirata dalla volontà di emularne la potenza militare piuttosto che da una comprensione della nascente civiltà dei Lumi. La campagna di modernizzazione proseguì in ogni modo: abbandonate le tradizionali cerimonie religiose, giovani aristocratici spediti all’esterno, molti tecnici impiegati nelle costruzioni navali. Rafforzamento militare era in cima ai suoi obiettivi, e insieme ad esso la conquista di uno sbocco sul Baltico… ma questa zona era dominata dalla Svezia alla quale erano soggette le regioni delle coste orientali del Baltico, Carelia, Ingria, Estonia, Livonia. La Svezia aveva affermato la sua supremazia su quest’area con le vittoriose campagne militari contro la Polonia e la Danimarca. Pietro Il Grande allora si pose dalla parte di queste ultime contro il nuovo re di Svezia Carlo XII. Impadronitosi di una striscia di territorio alla foce del fiume Neva, all’estremità orientale del Baltico, diede inizio alla costruzione di una nuova capitale che prenderà da lui il nome di Pietroburgo. Poi per fermare l’avanzata di Carlo XII verso Mosca, lo zar ricorse alla tattica della terra bruciata facendo indietreggiare continuamente le proprie truppe e tagliando i rifornimenti al nemico. La “grande guerra del Nord” continuò con alterne vicende, fino alla pace di Nystadt che confermò allo zar il possesso della Livonia, Estonia, Ingria, parte della Carelia; mentre la Prussia e la Danimarca si annetterono il grosso della Pomerania e il ducato di Schleswig-Holstein. Il predominio della svezia nel Baltico era finito e la sconfitta esterna trascinò con sé anche quella dell’assolutismo interno del Paese: dopo la morte in combattimento di Carlo XII ebbe inizio la cosiddetta era della libertà, in Svezia. Basata su un equilibrio costituzionale tra la monarchia, un Parlamento e un Consiglio di Stato. Un altro fattore fu il miglioramento dei trasporti. Il boom del commercio Tutti i fattori fin qui elencati contribuirono a fare del Settecento un’età aurea per il commercio internazionale. Il Mediterraneo conobbe una notevole ripresa dei traffici, ma il contributo maggiore allo sviluppo di questi venne tuttavia dall’oceano Indiano e dall’Atlantico, grazie soprattutto all’espansione del commercio inglese e francese con le colonie. La distribuzione dei profitti del commercio internazionale si può dedurre dal tonnellaggio delle navi dei vari Paesi. L’aumento della popolazione del Nuovo Mondo fu dovuto sia all’immigrazione di europei e di neri africani, ma anche a un tasso di riproduzione elevato. La parte centro-meridionale del continente americano rimase divisa tra due soli padroni, Spagna e Portogallo. Tra Sei e Settecento la colonizzazione spagnola si estese anche al Messico, Texas e California. In questa immensa regione si sviluppò un’economia diversificata a seconda della latitudine e della configurazione geologica. La concentrazione della proprietà terriera in poche mani, favorì la formazione di enormi latifondi dove si praticava un’agricoltura intensiva e un allevamento brado. (manodopera costituita da indios, non più schiavi ma vincolati ai datori di lavoro). Stesso modello in Argentina, nelle pampas. La presenza portoghese in Brasile portò con sé la produzione dello zucchero. Qui venivano catturati indios per venderli come schiavi. Nel corso di queste scorrerie scoprirono grandi quantità d’oro e diamanti, nella regione di Minas Gerais. La coltivazione della canna da zucchero, più che in Brasile, nelle Antille. Ma furono soprattutto i francesi e gli inglesi a sviluppare nel Settecento la produzione dello zucchero in un vero e proprio sistema che richiedeva continue importazioni di schiavi neri. Le origini della Rivoluzione industriale : complesso di trasformazioni nel modo di produrre manufatti. Di tali trasformazioni fanno parte la diffusione di macchine azionate da energia inanimata, la concentrazione del lavoro nelle fabbriche, l’incremento della produttività… Inghilterra di fine Settecento: primo decollo dell’industria moderna. Il resto del continente europeo dovrà attendere il XIX secolo. In generale, nel XVIII secolo il termine “industria” significava semplicemente “operosità”. Per descrivere quei processi produttivi che eccedevano le dimensioni di una modesta bottega artigianale si parlava di “manifattura”: cioè quella che noi chiamiamo “industria a domicilio” o “protoindustria”, cioè la produzione di filati, tessuti o altri oggetti che aveva luogo nelle case dei lavoranti i quali ricevevano la materia prima da mercanti imprenditori e a loro consegnavano il prodotto per un compenso proporzionato alla quantità. Vantaggi: si sfuggiva ai vincoli delle corporazione urbana e si reclutava manodopera a basso costo; Svantaggi: se le vendite aumentavano il mercante imprenditore doveva estendere l’area della lavorazione a domicilio con il risultato di non riuscire più a controllare bene. Ma una domanda maggiore e un aumento delle paghe portava i lavoratori a diminuire le ore di lavoro e aumentare quelle di riposo. di qui, la spiinta all’introduzione delle macchine per accrescere la produttività. Dall’età del cotone all’età del ferro Nei primi decenni del Settecento le manifatture più importanti (in particolare in Inghilterra) rimanevano quelle della lana e della seta. Il cotone all’inizio non veniva proprio prodotto per dar rilievo alle altre due produzioni. Solo dagli anni Ottanta si ebbe un decollo della produzione inglese di cotonate, e superò anche l’esportazione dei tessuti di lana. Quali furono le ragioni di questo successo? Innanzitutto costava pochissimo e poteva essere importata in quantità illimitate grazie al dominio dei mari di cui godeva l’Inghilterra. Ci fu poi l’invenzione della sgranatrice (separava la fibra di cotone dai semi). Il cotone si lavorava meglio della lana a macchina, per la maggiore resistenza alla trazione. Cotone si adattava facilmente a vari climi, rispetto alla lana e alla seta. Le innovazioni che consentirono di accrescere la produttività degli addetti all’industria cotoniera furono per lo più opera di artigiani: introduzione della spoletta volante (John Kay, 1733) accrebbe la produttività dei telai a pedale; per dare lavoro a un tessitore era già prima necessaria l’attività di cinque o sei filatori. Filatoio meccanico, prima azionato da energia idraulica, poi dalla forza vapore. Con questo mezzo un solo operaio poteva produrre tanto filo quanto un tempo ne fornivano 200 filatori. Le esigenze del settore tessile concorsero a determinare i successivi passi avanti anche in altri settori, come per esempio della chimica. Basti pensare al carbon fossile: usato come combustibile non solo per il riscaldamento domestico, ma anche per una serie di attività industriali (distillazione della birra, vetreria). Tuttavia esso non si prestava alla fusione dei minerali di ferro, perché i gas sviluppati durante la combustione mescolati al metallo rendevano la ghisa fragile. L’impiego del coke in luogo del carbone di legna fu sperimentato da Abraham Darby nel 1709 ma stentò a diffondersi per varie cause, tra cui la difficoltà di mantenere negli altiforni di grandi dimensioni le elevate temperature necessarie per una fusione perfetta del minerale ferroso. Problema risolto tra Sette e Ottocento mediante l’immissione di una corrente di aria calda alimentata dalla forza a vapore. Per eliminare le impurità interessante fu l’introduzione di un processo brevettato da Henry Cort che utilizzava un forno a riverbero per l’eliminazione delle scorie e faceva passare il metallo in un laminatorio meccanico. Nel Settecento venne largamente impiegata l’energia idraulica (inconveniente di legare le officine sempre a corsi d’acqua). I primi tentativi furono la costruzione di pompe per drenare l’acqua dalle miniere di carbone, ma il calore si disperdeva. Decisiva fu l’invenzione di James Watt: macchina munita di condensatore del vapore separato dal cilindro che poteva quindi essere mantenuto a una temperatura costante con grande risparmio di energia; poi introdusse il moto a stantuffo in moto rotatorio mediante bielle e manovelle. Le ripercussioni sociali dell’industrializzazione Va tenuta presente la geografia degli insediamenti industriali, in particolare regioni centro-settentrionali e occidentali dell’Inghilterra. Le ragioni di questa localizzazione son diverse: maggior presenza di fiumi; vicinanza di giacimenti di carbone e ferro; collegamenti con porti importanti (Liverpool, Hull e Bristol); minore fertilità delle campagne. aumento demografico forte impulso all’urbanesimo: la maggioranza delle città erano agglomerati informi, in cui intorno alle fabbriche si allineavano le squallide abitazioni delle famiglie operaie. Gli imprenditori non reclutavano solo uomini, ma anche donne e bambini, che accettavano salari più bassi per quanto erano docili. L’adozione infatti delle macchine aveva l’effetto di semplificare e rendere ripetitivi i gesti del lavoratore, quindi non si richiedeva più un alto livello di abilità. (forza del lavoro infantile reclutata da orfanotrofi o poveri) Le ore di lavoro erano 13 o 14 ore al giorno per sei giorni settimanali. No pause, no distrazioni… ritmo di macchina. I regolamenti di fabbrica prevedevano multe e licenziamenti. Molti industriali si adoperavano anche per diffondere l’istruzione religiosa e le scuole domenicali al fine di dirozzare gli operai e promuovere temperanza. Non mancarono però forme di agitazione come lo sciopero. Il boicottaggio, le proteste indirizzate al Parlamento o alle autorità locali. Forma estrema di protesta fu il luddismo (da Ned Ludd). I luddisti, organizzati in bande, distruggevano o mettevano fuori uso le macchine, accusate di produrre disoccupazione e di peggiorare le condizioni dei lavoratori. Colpito da condanne e deportazioni, il movimento si disgregò facendo spazio al cartismo. Le paghe degli operai di fabbrica erano maggiori rispetto a quelle di semplici agricoltori. Il periodo tra 1790-1820 non vide però significativi incrementi salariali a fronte di un costo della vita in rapida crescita per effetto dell’inflazione. Ai problemi della disoccupazione e del pauperismo le autorità centrali e periferiche inglesi fecero fronte sia con misure repressive sia con forme di assistenza (tessuto parrocchiale, apposite tasse imposte ai benestanti) Un discorso a parte meriterebbe il ceto degli imprenditori, uomini spesso di origini modeste, saliti a grande ricchezza grazie al lavoro indefesso, al fiuto per gli affari e a capacità organizzative. La Civiltà dei Lumi Fede e ragione Tra le tante definizioni dell’Illuminismo quella più persuasiva è di Immanuel Kant: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidato da un altro. Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell’Illuminismo” L’accento cade sul rifiuto del principio di autorità, sull’uso sistematico dello spirito critico, spirito del “filosofo”, non in senso moderno ma che indica un indagatore del vero. E l’unica verità è quella che deriva da un’osservazione diretta dei fatti o da testimonianze superiori a ogni dubbio. Di qui, la critica della religione tradizionale, dei miracoli, dei dogmi e dei misteri incomprensibili per la ragione umana. Locke si sforzò di conciliare fede e ragione. Altri si spinsero oltre nel rifiuto di ogni affermazione non spiegabile razionalmente deismo. Più problematico che nei Paesi protestanti si presentava il rapporto tra ragione e fede in ambito cattolico. Qui si cercava un compromesso tra ragione e fede. Primo fra tutti, Voltaire. Sostenne l’esistenza di un Dio architetto dell’universo che si regola secondo leggi non sempre comprensibili o favorevoli agli interessi umani. Distingueva religione naturale e religione positiva. Denis Diderot, partì da posizioni deistiche per approdare a una suggestiva visione della natura come creazione e modificazione continua di organismi e forme di vita, anticipando la teoria evoluzionistica di Jean-Baptiste Kamarck. L’uomo e la natura Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert afferma: “Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo attraverso i sensi: ne consegue che tutte le nostre idee pervengono dalle sensazioni”. Egli si rifaceva alla teoria della conoscenza di Locke, secondo il quale l’intelletto è all’origine un foglio bianco che solo le impressioni sensoriali sono in grado di riempire. Ne deriva il rifiuto di ogni metafisica, di ogni supposizione che va al di là dell’osservazione di fatti. Étienne Bonnot immagina una statua conformata come un uomo e mostra come le sensazioni, operando sui suoi organi, ne possano mettere in movimento la vita psichica. Procedendo per questa via alcuni filosofi si spinsero fino a un materialismo integrale. Julien Offroy scrive “L’uomo macchina”. David Hume, sviluppava l’empirismo di Locke in direzione diversa, arrivando alla negazione del concetto di sostanza e del concetto di legge causale. La fiducia in lui venne meno quando ci si accorse che la Compagnia non distribuiva gli utili sperati. Law fu costretto a sospendere i pagamenti e non gli restò che fuggire all’estero. Alla morte di Filippo d’Orleans, prese per alcuni anni il suo posto il duca di Borbone, ma Luigi XV ormai maggiorenne accordò successivamente la sua fiducia a un ecclesiastico, André Hercule Fleury. Con lui la situazione migliorò decisamente. Sia a livello economico che sociale. La Gran Bretagna nell’età di Walpole Alla morte della regina Anna salì al trono l’elettore di Hannover, Giorgio I, che insieme a suo figlio Giorgio II, di lingua e cultura tedesca, sembravano interessarsi di più alle faccende del loro Paese che non alla politica inglese. Prese così forma il governo di gabinetto: una prassi costituzionale che assegnava a un primo ministro e ai suoi principali collaboratori il compito di governare in nome e in luogo del re. Per assicurarsi una maggioranza in Parlamento il governo in carica faceva il possibile per influenzare le elezioni dei deputati alla Camera dei Comuni. L’estendersi del ricorso alla corruzione fu favorito anche dall’attenuarsi delle differenze ideologiche dei due partiti whig e tory, in lotta per il potere. Non bisogna tuttavia esagerare con questo quadro negativo: tra il 1721 ’42 il ruolo di primo ministro fu ricoperto da Robert Walpole che mantenne buone relazioni con la Francia. La stabilità polita e sociale dell’Inghilterra era imperniata sull’indiscussa egemonia dei grandi proprietari terrieri, famiglie che controllavano anche la politica nazionale attraverso rami del Parlamento e la vita loca attraverso giudici di pace. La ferocia delle leggi penali a difesa delle proprietà, era temperata nella pratica da una buona dose di paternalismo e di abitudine alla deferenza dall’altra. Intorno a questa nobiltà terriera ruotavano gli esponenti dei ceti professionali, ufficiali dell’esercito e la parte più benestante del clero anglicano. La Chiesa d’Inghilterra si può definire quasi un’appendice della gentry. Non vi erano tuttavia ostacoli legati al dissenso religioso, clima tollerante. Il modello politico e costituzionale inglese attirò l’attenzione dei ceti colti europei contrapponendosi ai regimi assolutistici del continente e soprattutto al modello francese. I conflitti dei decenni centrali del Settecento Il lungo periodo di pace dopo la morte di Luigi XIV venne interrotto dalla guerra di Successione polacca. Nel 1733 morì il re di Polonia Augusto II, e la Dieta polacca elesse a suo successore il nobile Stanislao Leszczynski, la cui figlia aveva sposato il re di Franci Luigi XV. Ma l’Austria e la Russia imposero l’elezione del principe di Sassonia Federico Augusto, che come re di Polonia prese il nome di Augusto III. Per vendicare l’oltraggio subito, il governo francese attirò in una coalizione antiaustriaca il re di Sardegna Carlo Emanuele III cui venne promesso l’intero Stato di Milano, e la monarchia spagnola, sempre desiderosa di espandersi in Italia. L’attacco di questa coalizione colse impreparata la monarchia austriaca: Milano fu occupata, i Regni di Napoli e di Sicilia conquistati. Negli anni seguenti, l’Inghilterra esercitò un’opera di mediazione che portò infine alla pace di Vienna: l’Austria recuperava il Milanese, ma doveva cedere alla Savoia due province e a Carlo di Borbone Napoli e la Sicilia. L’estinzione in Toscana della dinastia dei Medici favorì inoltre un altro scambio di teritori: il duca di Lorena Francesco Stefano, marito di Maria Teresa d’Asburgo (figlia di Carlo VI) divenne gran duca di Toscana, e la Lorena fu assegnata a Stanislao col patto che alla sua morte sarebbe stata annessa alla Francia. Forti delle concessioni fatte dalla Spagna, i mercanti inglesi avevano preso a spadroneggiare lungo le coste dell’America Latina. Quando le autorità coloniali intensificarono la vigilanza ispezionando le navi britanniche e sequestrando merce illegale, Walpole fu costretto a muovere guerra alla Spagna!! Le ostilità confluirono nel conflitto più vasto della guerra di Successione austriaca. A scatenarla fu nel dicembre del 1740, l’aggressione lanciata dal nuovo re di Prussia Federico II contro la Slesia, la parte più settentrionale del Regno di Boemia soggetto agli Asburgo. Alla testa della monarchia austriaca si trovava Maria Teresa d’Austria (figlia dell’imperatore Carlo VI). Ma all’eredità asburgica miravano anche gli elettori di Baviera e di Sassonia, mentre i Borbone di Francia e di Spagna non volevano lasciarsi sfuggire l’occasione per infliggere un colpo decisivo alla dinastia tradizionalmente nemica. Contro questa potente coalizione Maria Teresa poté in un primo tempo contare solo sugli aiuti finanziari dell’Inghilterra. In seguito però, il ritiro dalla guerra di Federico II, pago della conquista della Slesia, l’intervento del re di Sardegna a fianco dell’Austria, e un più deciso impegno dell’Inghilterra derivante dalla caduta di Walpole, contribuirono a raddrizzare le sorti del conflitto, che si combattè con alterni successi in Germania, Italia settentrionale e Fiandre. Ma nel marzo del 1744 Luigi XV dichiarò guerra all’Inghilterra; i suoi eserciti travolsero la resistenza inglese nei Paesi Bassi, ma tali successi furono controbilanciati dalla superiorità navale britannica. La pace di Aquisgrana sancì il possesso prussiano della Slesia e la cessione da parte di Maria Teresa dei Ducati di Parma e Piacenza a Filippo di Borbone. La Francia non ebbe alcun vantaggio territoriale. Alla morte di Fleury nel 1743, Luigi XV volle assumere personalmente le redini del governo. Le sue scelte però furono influenzate dalle inclinazioni e dai capricci della sua amante. La rivalità marittima e coloniale con l’Inghilterra si andò sempre più acutizzando. Ma la Francia, invece di concentrarsi su questo si lasciò invischiare nelle questioni dell’Europa centro-orientale. A un trattato d’alleanza stipulato nel gennaio 1756 tra Inghilterra e Prussia, il cancelliere austriaco Kaunitz, deciso a strappare la Slesia a Federico II, riuscì nei mesi successivi a contrapporre uno schieramento composto da Austria, Francia e Russia, cui si unirono in seguito Svezia e Polonia. Fu il cosiddetto “rovesciamento delle alleanze” che pose fine alla tradizionale inimicizia tra le dinastie degli Asburgo e dei Borbone e che segnò l’inizio della guerra dei Sette anni (1756-’63) Le operazioni si svolsero inizialmente in modo favorevole alla coalizione finchè la chiamata a Londra di William Pitt segnò un cambiamento di rotta nella conduzione della guerra da parte inglese. Animato da odio francese, Pitt fece soccombere le guarnigioni francesi; neppure l’entrata in guerra della Spagna al fianco della Francia cambiò le sorti del conflitto. Si arrivò a un trattato di pace, il trattato di Parigi del 1763: la Francia otteneva la restituzione di Martinica e della Guadalupa, ma doveva dare via libera all’espansione britannica in India e si vedeva estromessa dall’America settentrionale: il Canada e la valle dell’Ohio passavano sotto dominio inglese, mentre la Spagna doveva cedere la Florida ricevendo in compenso i territori sulla destra del Mississippi. Dominio di Federico II sulla Slesia, con la pace di Hubertusburg. Il fallimento delle riforme in Francia Le riforme francesi fallirono quasi sempre anche a causa della nobiltà di corte, del clero, dei Parlamenti che difendevano i loro privilegi, e a causa dell’opinione pubblica che metteva in discussione le basi stesse del potere assoluto. L’opposizione al governo da parte dei Parlamenti divenne cronica, polarizzandosi prima intorno alle questioni religiose e fiscali, poi investendo le fondamenta stesse dell’assolutismo monarchico. Il campo religioso presero la testa della campagna contro i gesuiti. Per quanto riguarda le finanze, netta fu l’ostilità a tutti i disegni di riforma elaborati nelle sfere di governo. E deboli e incerti furono i tentativi dei ministri di Luigi XV di applicare le dottrine fisiocratiche liberalizzando il commercio dei grani nel Paese… le agitazioni popolari, in conseguenza del rincaro dei prezzi legati a un cattivo raccolto, indussero il governo a ripristinare in gran parte i vincoli al commercio dei cereali. In questa situazione maturò il “colpo di Stato” del cancelliere René-Nicolas-Charles-Augustin de Maupeou. Il re decise di sopprimere il Parlamento di Parigi e di smembrarne la giurisdizione in sei circoscrizioni giudiziarie affidate a Consigli superiori di nomina regia. A Luigi XV succedette Luigi XVI, il nipote. Egli decise il richiamo dei vecchi Parlamenti. D’altra parte però voleva mostrare la sua propensione al nuovo nominando controllore delle finanze un esponente del movimento illuminista, Anne-Robert-Jacques-Turgot, che ristabilì la libertà del commercio dei grani… ma l’applicazione di ciò coincise con un cattivo raccolto i cui effetti sui prezzi vennero attributi all’iniziativa del governo, e suscitarono sommosse e agitazioni. A questo punto Luigi XVI ritirò il suo appoggio al ministro, che il 10 maggio 1776 rassegnò le dimissioni. L’Inghilterra nell’età di Giorgio III Al contrario della Francia, la Gran Bretagna era uscita molto rafforzata dalla guerra dei Sette anni. Ci fu un grande sviluppo economico, ma questo non impedì l’insorgere di forti tensioni interne legate a tre ragioni: in primo luogo il nuovo re Giorgio III manifestò subito l’intenzione di esercitare un ruolo più attivo nella politica nazionale, suscitando opposizione del Parlamento e della pubblica opinione. Il secondo fattore è la formazione accanto all’opposizione whig di una corrente più radicale che si agitava per una redistribuzione dei seggi parlamentari, per un allargamento del suffragio e per un’estensione delle libertà religiose e civili. Terza causa del malessere politico fu la crisi nordamericana da parte del governo di lord North. L’impopolarità di questo governo e i timori suscitati da disordini scoppiati a Londra, convinsero Giorgio III ad affidare la formazione di un nuovo governo a William Pitt il Giovane con il quale si andò incontro a una notevole attività riformatrice. Assolutismo illuminato e riforme La Prussia di Federico II Il termine “assolutismo illuminato” venne coniato dagli storici tedeschi verso metà Ottocento, ma già prima si parlava di “despoti illuminati” con riferimento a idee e comportamenti di sovrani europei che dichiaravano di volersi servire del potere per il bene dei loro sudditi e che si professavano amici e discepoli dei philosophes. La concentrazione del potere nelle mani del monarca si giustificava come unica arma capace di superare gli ostacoli che si frapponevano alle riforme, di combattere particolarismi e privilegi di territori e ceti. Forse il più famoso fra i despoti illuminati fu il re di Prussia Federico II il Grande. Egli amava rifarsi al “contratto sociale” e dichiarava che il re è solo il primo servitore dello Stato. Proseguì la politica di rafforzamento militare e burocratico, mantenne la servitù della gleba e preferì i nobili per le cariche militari e civili. Il suo genio militare si rivelò durante la guerra di Successione austriaca e durante la guerra dei Sette anni, durante la quale riuscì a difendere il possesso della Slesia. Con egli si riporta un importante ingrandimento territoriale in occasione della prima spartizione della Polonia con l’annessione della Prussia occidentale. Grande incremento demografico, non solo frutto delle annessioni ma anche di una politica di popolamento delle terre orientali dove furono insediati 300.000 coloni tedeschi che ne mutarono anche il carattere etnico che fino a quel momento era stato in prevalenza slavo. L’immigrazione era favorita anche dalla grande tolleranza religiosa. Di grande rilievo le riforme attuate nel settore giudiziario: abolita la tortura, limitata la pena di morte, gettate le basi per il codice civile prussiano promulgato dopo la sua morte. Estensione della libertà di stampa e progressi nell’istruzione elementare. La monarchia austriaca sotto Maria Teresa e Giuseppe II Le guerre di Successione polacca e austriaca avevano segnato una grande crisi per la monarchia degli Asburgo, costretta a rinunciare alla Slesia e a buona parte dei possedimenti italiani. Già negli ultimi anni di guerra i collaboratori che circondavano Maria Teresa (figlia di Carlo VI), avevano avviato una serie di riforme nell’organizzazione dell’esercito. Nel 1748 Maria Teresa costrinse i “ceti” di ciascun territorio a votare le imposte non più ogni anno ma per un intero decennio, lasciando a organi regi di nuova istituzione il compito di effettuare il riparto e l’esazione dei tributi. Anche all’interno della Chiesa e tra le stesse gerarchie ebbero successo correnti come quella giansenistica, e quelle idee che rivendicavano la dignità e l’autonomia dei vescovi e dei parroci e contestavano l’autorità assoluta del pontefice, cioè della curia di Roma. I pontefici Clemente XII e Benedetto XIV parvero infatti disponibili a un compromesso con le nuove correnti politiche e culturali, all’insegna di un cristianesimo ragionevole, purgato dalle superstizioni e sollecito del pubblico bene come quello propagato dalle opere di Muratori. Espressione di questa tendenza furono i concordati stipulati dalla Santa Sede con il Regno di Sardegna, di Napoli e con la Spagna, che disciplinavano materie come la tassazione del clero, il conferimento dei benefici ecclesiastici e il diritto d’asilo. Ma con l rigido pontificato di Clemente XIII i rapporti tra Roma e le potenze cattoliche peggiorarono di nuovo. Negli stessi anni si sviluppò una violenta campagna anticattolica. Importante momento di convergenza fra illuministi, giansenisti e sovrani riformatori fu la battaglia contro i gesuiti… furono espulsi dal Portogallo, dalla Francia, dal Regno di Napoli e dal Ducato di Parma. Si è accennato come il Portogallo e la Spagna, Paesi tradizionalmente legati alla Santa Sede, fossero in prima fila nella campagna antigesuitica. Nella prima metà del XVIII il Portogallo era caratterizzato da arretratezza economica. La situazione mutò tanto sotto il regno di Giuseppe I per opera del marchese di Pombal. Riformò gli studi, rafforzò l’esercito, promosse lo sfruttamento di colonie, diede impulso alle manifatture e al commercio. In Spagna, l’avvento della dinastia dei Borbone con Filippo V aveva già segnato una svolta in senso assolutistico. I tentativi di riforma già avviati da Ferdinando VI si fecero più organici sotto Carlo III. Oltre all’espulsione dei gesuiti sono da ricordare le limitazioni imposte alle immunità ecclesiastiche e all’Inquisizione, la riforma degli studi universitari, la liberalizzazione del commercio e dell’artigianato. Risveglio economico e demografico. Sviluppo anche più rapido conobbero le colonie ispano-americane. L’Italia del Settecento Il quadro politico e intellettuale nella prima metà del secolo. Le riforme in Piemonte Il quadro politico italiano, fu profondamente trasformato dalle guerre di Successione. La guerra di Successione polacca portò alla temporanea occupazione di Milano da parte dei re di Sardegna Carlo Emanuele III. La monarchia austriaca inoltre perse il Regno di Napoli e la Sicilia, conquistati da Carlo di Borbone. In compenso Carlo VI d’Asburgo ottenne Parma e Piacenza, e Francesco Stefano di Lorena, ottenne il Granducato di Toscana. La guerra di Successione austriaca spostò ulteriormente a est il confine tra Stato sabaudo e Lombardia austriaca, da quest’ultima vennero staccate Parma e Piacenza che tornarono a formare ducato indipendente sotto Filippo di Borbone. Insieme al declino della potenza spagnola si registra in Italia del primo Settecento l’indebolimento dell’influenza della Chiesa. Nella controversia tra papato e Impero accesa dall’occupazione austriaca di Comacchio, non pochi furono i letterati della penisola che presero le parti dell’Impero: tra gli altri Ludovico Antonio Muratori, che alternò opere ispirate a una religiosità sincera ma ostile agli eccessi devozionali e agli atteggiamenti intolleranti, e a una sollecitudine costante per il bene della società e in particolare per i poveri e i derelitti. L’anticurialismo divenne il terreno privilegiato di incontro tra la monarchia austriaca e il ceto intellettuale del Mezzogiorno. Il frutto migliore di questa ondata fu la “Istoria civile del Regno di Napoli” di Pietro Giannone. Più in generale, tra Sei e Settecento segnarono una ripresa e un rafforzamento degli scambi culturali tra Italia ed Europa e una presa di coscienza delle nostra arretratezza nei confronti di nazioni come la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda. L’espansione territoriale e il rafforzamento politico e militare del Piemonte sabaudo furono accompagnati da riforme promosse da Vittorio Amedeo II. Ebbero inizio lavori per la redazione di un nuovo catasto o censimento delle proprietà fondiarie migliore distribuzione dell’imposta ma anche sensibile riduzione delle immunità di cui godevano i beni feudali ed ecclesiastici. i privilegi della Chiesa furono ristretti; venne rilanciata l’Università di Torino e per a prima volta venne creato in Italia un sistema statale di scuole secondarie. All’accentramento del potere nelle mani del monarca fecero riscontro il riordinamento degli organi centrali di governo e l’unificazione legislativa attuata con le “Costituzioni” del 1723 e ’29. Provvedimenti di natura mercantilistica. Sotto il successore Carlo Emanuele III ci fu il rafforzamento di tendenze assolutistiche: in Savoia si giunse all’abolizione della feudalità, e in Sardegna di provvedimenti intesi a limitare il potere baronale, a ridurre privilegi della Chiesa e a combattere il brigantaggio. I Regni di Napoli e di Sicilia sotto i Borbone Nel Regno di Napoli Carlo di Borbone favorì una spinta rinnovatrice che portò alla limitazione delle giurisdizioni baronali, alla ripresa della politica giurisdizionalistica, alla riforma degli studi nell’Università di Napoli, all’avvio di una catastazione delle terre e dei beni. Molto vivace la vita intellettuale qui a Napoli. Si registra l’emergere delle scienze naturali, dell’economia, della statistica. Assai maggiore che in passato era l’attenzione della classe intellettuale alla realtà delle province, alle necessità dei ceti produttivi e commercianti, alle condizioni di vita spesso tragiche e primitive delle masse contadine. Quando Carlo di Borbone divenne re si Spagna con il titolo di Carlo III, il toscano Bernardo Tanucci divenne la figura più autorevole del “Consiglio di Reggenza” istituito in considerazione della minore età del successore Ferdinando IV. Intransigente difensore dei diritti dello Stato nei confronti della Chiesa, Tanucci era però alieno di riforme radicali sul piano economico e sociale: la carestia del 1763-’65 venne perciò affrontata con rimedi tradizionali, e nessuna misura incisiva venne adottata nei confronti dei baroni. Il giovane Ferdinando IV sposò Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria: l’ordinamento filoaustriaco impresso al governo della regina, che fece licenziare il Tanucci nel ’76, portò in un primo tempo alla ripresa dell’azione riformatrice: a misure liberalizzatrici in campo commerciale, si accompagnarono la fondazione di manifatture regie e l’erezione di una “Cassa sacra” per la Calabria colpita da terremoto. Anche in Sicilia il periodo di Domenico Caracciolo fu segnato da iniziative come l’abolizione dell’Inquisizione e l’avvio di un catasto. Né in Sicilia, né nel Mezzogiorno continentale le riforme giunsero a mettere in discussione il permanere delle strutture feudali. Illuminismo e riforme nella Lombardia austriaca Dopo la pace di Aquisgrana, la monarchia austriaca rimaneva in possesso dello Stato di Milano e del Ducato di Mantova, formando la Lombardia austriaca. Nell’orbita rientrava però anche il Granducato di Toscana e con un accordo con Francesco III d’este ottennero anche i Ducati di Moderna e Reggio. Una prima ondata di riforme investì lo stato di Milano. Fu riordinata l’amministrazione delle finanze e abolita la vendita delle cariche che ora dovevano essere conferite solo in base a capacità e merito. Ci fu un grande risanamento finanziario. Risultato più importante fu il compimento del nuovo catasto a opera di una “giunta regia” presieduta dal toscano giurista Pompeo Neri. Sotto il profilo tributario ci fu la redistribuzione dell’imposta fondiaria e la riduzione dell’imposta personale. Ma non meno importanti furono i risvolti amministrativi della riforma: al governo delle comunità furono preposti i rappresentanti degli “estimati” (possessori dei fondi) sotto il controllo di funzionari regi detti “cancellieri delegati” o “cancellieri del censo”. Un gruppo di giovani nobili si raccolse intorno a Pietro Verri, nacque in questo modo l’esperienza giornalistica del “Caffè”. È innegabile che l’impulso del cambiamento venne soprattutto da Vienna, da dove venne inviato a Milano come ministro plenipotenziario, il conte trentino Carlo di Firmian. La ristrutturazione delle magistrature avviata nei decenni centrali del secolo culminò nel 1771 con la separazione degli affari giudiziari, riservati al Senato, da quelli amministrativi e finanziari, affidati a un “Magistrato Camerale”. Sotto Giuseppe II si giunse nel 1786 alla soppressione del Senato e all’istituzione di un moderno sistema giudiziario articolato in tre istanze. Negli stessi anni giungeva alle conseguenze estreme anche il controllo dello Stato sulla vita religiosa. Le scuole superiori di Milano e l’Università di Pavia furono dotate di nuove cattedre, biblioteche, strumenti scientifici e laboratori. L’economia della regione trasse vantaggio dal miglioramento delle vie di comunicazione e dall’accesso privilegiato al mercato austriaco. La Toscana della Reggenza a Pietro Leopoldo Il nuovo granduca di Toscana Francesco Stefano risiedeva a Vienne e si faceva rappresentare a Firenze da un “Consiglio di reggenza” composto in parte da funzionari lorenesi. Al sovrano stava a cuore soprattutto assicurarsi di un consistente flusso di entrate al proprio dominio, quindi si interessò principalmente del settore finanziario. Una linea di fermezza venne seguita nei rapporti con la Chiesa: l’emanazione nel 1743 di una nuova legge sulla stampa rivendicò allo Stato il controllo sulla censura e una legge sulle manimorte, che subordinava all’autorizzazione del governo l’acquisto di nuove terre da parte degli enti ecclesiastici. Gli ultimi anni della Reggenza lorenese in Toscana furono contristati da una grave carestia. Pompeo Neri sostenne che il vero rimedio stava nel moltiplicare i vincoli e i controlli ma favorire la libera circolazione delle derrate in modo da incenticare a un tempo la produzione e il commercio dei grani. Questa considerazione si affermò pienamente sotto il governo di Pietro Leopoldo, che aderì a tali istanze e con una legge del 1767 dichiarò libera la compravendita dei cereali all’interno dello Stato e anche l’esportazione. Allo stesso indirizzo liberista riconduciamo la soppressione delle corporazioni di arti e mestieri e l’eliminazione di tutte le dogane interne. Altre iniziative di Leopoldo furono le bonifiche avviate in Valdichiara e nella Maremma senese, e la decisione di allivellare le terre appartenenti alla corono e alle manimorte, cioè di dividerle in piccoli lotti da assegnare in godimento a coltivatori diretti, i quali potevano trasmetterle in eredità o venderle in cambio del pagamento di un canone annuo. L’operazione non diede però i risultati sperati perché la maggior parte dei poderi così allivellati finì per essere acquistata da grossi proprietari nobili o borghesi. Il documento più celebre della tendenza riformatrice leopoldina è il codice penale del 1786: oltre a umanizzare e razionalizzare le procedure, eliminava del tutto la tortura e cancellava la pena di morte. Per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa i propositi più radicali non poterono essere realizzati. Pietro Leopoldo fece proprio il programma di riordinamento della Chiesa toscana elaborato dal vescovo giansenista Scipione de’ Ricci, che proclamava la superiorità del concilio sul pontefice, affermava l’indipendenza dai vescovi di Roma, prevedeva la sostituzione della lingua volgare al latino nelle funzioni religiose e la semplificazione del culto. Se attuato questo programma avrebbe portato allo scisma della chiesa toscana dalla chiesa di Roma, ma un’assemblea di vescovi convocata a Firenze si dichiarò contraria alle riforme proposte dal Ricci. La società italiana alla fine del Settecento Roma rimaneva una grande capitale, e sotto il pontificato di Pio VI si affermarono anche qui i nuovi indirizzi di politica economica. Venezia fu per tutto il secolo il maggiore centro editoriale italiano e la sede di una raffinata civiltà letteraria e artistica. L’ampia diffusione di nuove correnti di pensiero e modelli di gusto e comportamento, provenienti in gran parte dalla Francia, modificarono la cultura e lo stile di vita dei ceti medio-alti della società italiana. Svolta importante fu segnata dalla battaglia di Saratoga (1777) dove un contingente inglese si arrese ai reparti americani. Fu proprio questo episodio a convincere il governo francese ad appoggiare gli insorti. Insieme anche alla Spagna. Nell’ottobre 1781 il generale inglese Cornwallis fu costretto a capitolare a Yorktown. La guerra era finita. Con il trattato di Versailler la Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza delle tredici colonie nordamericane e restituiva alla Francia alcuni territori occupati nei Caraibi e nel Senegal, e alla Spagna la Florida e Minorca. Una Costituzione per gli Stati Uniti d’America Gli “Articoli di Confederazione” votati nel 1777 ed entrati in vigore solo nell’81, lasciavano al Congresso di quelli che erano ormai gli Stati Uniti d’America, solo la politica estera e la difesa, mentre tutti gli altri poteri erano prerogativa dei singoli Stati. Si fece quindi l’esigenza di un governo centrale forte capace di arbitrare tra le singole ex colonie, di regolare il commercio e la moneta, di diffondere gli interessi comuni all’esterno. Tale aspirazione trovò due protagonisti dalla Virginia: James Madison e Alexander Hamilton, capifila del partito “federalista”. Da questi partì la richiesta che il Congresso convocasse una “Convenzione” incaricata di rivedere la Costituzione federale. La Convenzione si riunì a Filadelfia nel ’87 e prevalse la proposta di una Costituzione federale interamente nuova. La Costituzione degli Stati Uniti d’America fu approvata il 17 settembre ed entrò in vigore nell’estate del 1788 alla base di questa vi era un difficile equilibrio tra l’esigenza di rafforzare il governo centrale e quella di salvaguardare l’autonomia dei singoli Stati. Il potere legislativo era detenuto da un Congresso composto da un Senato e da una Camera dei rappresentanti. Le due assemblee erano elettive ma diverse erano la durata del mandato e le modalità di elezione: i senatori erano eletti per sei anni ed erano due per ogni stato; i rappresentanti della Camera duravano in carica solo due anni e il loro numero era proporzionale a quello della popolazione dello Stato che li eleggeva. Al vertice del potere esecutiva c’era un presidente eletto dal popolo il cui mandato durava quattro anni ed era rinnovabile. Alla Corte suprema, vertice del potere giudiziario, era attribuito una sorta di controllo di legittimità costituzionale sulla legislazione sia del governo federale, sia dei singoli stati. L’articolo V della Costituzione prevedeva infine la possibilità di introdurre emendamenti: i primi dieci, consistettero in una specie di dichiarazione dei diritti individuali dei cittadini americani. Lo sviluppo degli Stati Uniti d’America Superata la crisi della guerra d’Indipendenza, la nazione americane diede il via allo sviluppo demografico ed economico. Ancor prima della Costituzione del 1787, era stato previsto che i territori dell’ovest colonizzati dai bianchi, sarebbero potuti diventare membri a pieno titolo della confederazione non appena avessero superato un minimo di 60.000 abitanti. Il primo Stato ad aggiungersi ai tredici già esistenti fu il Vermont, poi il Kentucky, il Tennessee, e l’Ohio. Per quanto il governo centrale si sforzasse di regolare l’assegnazione delle terre, non fu possibili evitare il sorgere di tensioni tra gli Stati meridionali le cui piantagioni avevano sempre bisogno di terreni vergini a causa del rapido esaurimento dei suoli sottoposti alla monocoltura del tabacco e del cotone. L’economia degli Stati del sud ricevette un grande impulso dalla espansione della coltura del cotone, stimolata dalla crescente domanda dell’industria britannica. Il primo presidente degli Stati Uniti fu George Washington, che assicurò al governo federale l’autorità di cui aveva bisogno per l’adozione di misure spesso impopolari. Gli ingenti debiti di guerra furono infatti integralmente assunti dal governo federale, il quale per pagare gli interessi agli speculatori e per mantenere un consistente esercito, dovette istituire dazi e imposte gravanti su tutta la popolazione. Questa tendenza all’accentramento dei poteri e alla promozione di interessi industriali e finanziari del nord incontrò in seno al Congresso e nell’opinione pubblica una crescente opposizione che diede vita dal 1791 a un partito repubblicano contrapposto a quello federalista e che ebbe il suo più autorevole rappresentante in Thomas Jefferson. In prima fila tra i suoi sostenitori erano i proprietari terrieri e i piccoli mercanti. Le elezioni presidenziali del 1796 furono vinte ancora da un esponente federalista, John Adams, seguito nuovamente da Jefferson, al quale succedette poi un altro repubblicano, James Madison. La svolta all’avvento di Jefferson: ridusse le spese per la burocrazia, la diplomazia e l’esercito e restituì agli Stati parte dei poteri usurpati dal governo federale. Negli anni Novanta, di fronte al radicalizzarsi della Rivoluzione francese, il governo statunitense si era riaccostato alla Gran Bretagna, con la quale aveva stipulato un trattato di commercio. A partire dal 1800 si istaurò un rapporto preferenziale con la Francia di Napoleone che nel 1803 decise di vendere agli Stati Uniti l’intero territorio della Louisiana. La pretesa del governo britannico, nuovamente in guerra contro la Francia, di impedire il commercio tra gli Stati Uniti e i possedimenti francesi e di ispezionare in alto mare le navi americane determinò tra i due Paesi una tensione crescente che sfociò in una guerra nel 1812 conclusa dopo due anni con niente di fatto. La Rivoluzione francese: dall’antico regime alla monarchia costituzionale Economia e società in Francia al tramonto dell’antico regime L’avvento di Luigi XVI sul trono di Francia (1774) coincise con l’inizio di un periodo di difficoltà e di malessere per l’economia del Paese. L’industria e il commercio francesi fino al 1780 circa conobbero ritmi di sviluppo paragonabili a quelli inglesi e anzi in alcuni settori decisamente superiori. I punti più deboli erano la scarsità della produzione di carbone, il ritardo nella meccanizzazione dell’industria tessile, la mancanza di un’organizzazione creditizia efficiente e moderna, il carattere arretrato dell’agricoltura. Alla vigilia della Rivoluzione francese, la percentuale del suolo posseduta da coltivatori diretti era molto più elevata in Francia che in Inghilterra, ma il suo estremo frazionamento, accresciuto dall’incremento demografico e dalle suddivisioni ereditarie, erano tali che alla fine dell’antico regime solo una piccola minoranza di contadini riusciva a vivere del ricavato dei propri campi. L’aumento dei prezzi andò a danno delle masse lavoratrici. Il livello di vita delle classi popolari, in campagna e anche nelle città era peggiorato già negli ultimi decenni dell’antico regime: deterioramento tanto più sensibile in quanto si faceva contrasto con la prosperità senza precedenti di cui godevano le classi agiate, che minacciavano la classe popolare. Tra le varie minacce vi erano la tendenza di molti signori a ripristinare i diritti feudali, l’aumento delle imposte… testimonianza sono le sommosse suscitate nella regione di Parigi dai provvedimenti liberistici del ministro Turgot. È vero che nella Francia del Settecento non esisteva una netta contrapposizione di classe tra nobiltà e borghesia. Rimaneva viva l’aspirazione del borghese a nobilitarsi. I vertici del “Terzo Stato” si mescolano con la nobiltà più ricca e colta nei salotti letterari, nelle accademie, nelle logge massoniche. Tuttavia lo stesso incremento numerico degli strati definibili come “borghesi”, rende più arduo il passaggio nelle file di una nobiltà che comprende alla vigilia della Rivoluzione già circa 300.000 persone. Più che divisa da una netta contrapposizione di classe, la società francese ci appare attraversata da molteplici linee di tensione che la crisi politica era destinata a fare esplodere. La crisi finanziaria e politica della monarchia Tra il 1754 e il 1789 ben 19 controllori o direttori delle finanze si succedettero. Questa instabilità è un sintomo della gravità di problemi che si possono riassumere nell’insufficienza cronica delle entrate rispetto alle spese pubbliche e nell’impossibilità di accrescere il carico fiscale senza modificarne la distribuzione. Altro grave handicap era l’inefficienza del sistema tributario. Schematicamente furono due le strategie a questi problemi: 1. Spostare il peso maggiore delle imposte sulla proprietà terriera e puntare su un incremento delle entrate che sarebbe stato il naturale effetto dello sviluppo economico. (Già tentata senza successo da Turgot) 2. Mirava a una riduzione delle spese e degli sprechi, e fu la via imboccata da Jacques Necker, banchiere ginevrino che venne posto al timone delle finanze francesi. Necker abolì molti uffici superflui, ridusse le spese della corte, unificò varie casse, per coprire le spese legate all’intervento nella guerra d’indipendenza evitò di inasprire le tasse e ricorsi al credito, caricando così i bilanci futuri di nuovi aggravi per il pagamento degli interessi. Il suo licenziamento fu conseguenza del ministro di rendere pubblico il bilancio della monarchia, che era sempre stato considerato un segreto di Stato: l’attivo di dieci milioni di lire era frutto di artifici contabili; ma ciò che più indignò la corte fu il fatto che nel bilancio erano indicate le pensieri e le grazie concesse dal re. Il nuovo controllore generale, Charles-Alexandre de Calonne, decise di porre il re di fronte alla realtà: il deficit superava ormai i 100 milioni e metà del bilancio era ingoiato dal pagamento di interessi sul debito pubblico. L’unica soluzione secondo il controllore era l’adozione di riforme che prevedevano l’istituzione di una nuova imposta fondiaria, detta “sovvenzione territoriale”, proporzionale alla rendita, pagabile in natura e gravante senza eccezioni su tutti i proprietari; la liberalizzazione del commercio dei cereali; l’eliminazione delle dogane interne. Per aggirare la prevedibile opposizione di ceti privilegiati e Parlamenti, il ministro suggerì al re di convocare un’assemblea dei notabili: 144 notabili convocati a Versailles nel febbraio 1787 manifestarono subito la loro opposizione ai progetti di riforma. Molti di loro non erano contrari all’abolizione dei privilegi fiscali, ma ritenevano che misure di tale portata richiedessero l’approvazione della vera rappresentanza della nazione, gli Stati generali. Il re decise allora la sostituzione del Calonne con uno dei leader dell’assemblea, l’arcivescovo di Tolosa Etienne-Charles Loménie de Brienne. Questi mantenne la proposta di “sovvenzione territoriale”, pur trasformandola in un tributo dall’ammontare annuo prefissato; ciò non bastò a disarmare l’opposizione dell’assemblea che venne sciolta il 25 maggio 1787. L’intransigenza dei notabili trova spiegazione nell’evoluzione della pubblica opinione che andava incontro a una critica del dispotismo monarchico. Per quanto ragionevoli, le riforme proposte da ministri come Calonne e de Brienne suscitavano diffidenza in quanto calavano dall’alto, erano viste come mezzi per rafforzare ulteriormente il potere arbitrario. Sciolta l’assemblea dei notabili fu il Parlamento di Parigi a prendere la guida dell’opposizione, rifiutandosi di registrare le leggi proposte da de Brienne. Ormai nell’opinione pubblica costante era il riferimento agli Stati generali come all’unica istanza in cui la riforma non solo dell’economia, ma di tutta la costituzione dello Stato doveva essere discussa. Gli Stati generali si sarebbero riuniti il 1 maggio dell’anno seguente. Il 25 settembre il Parlamento di Parigi dichiarò che dovevano essere rispettate le modalità del 1614, quando era avvenuta l’ultima convocazione degli Stati generali: i tre ordini avrebbero cioè dovuto sedere e deliberare separatamente, il che avrebbe dato maggior peso alle rivendicazioni dei primi due ordini, clero e nobiltà. Un’efficace campagna di stampa prese a denunciare l’egoismo dei ceti privilegiati e a richiedere con la forza la riunione dei tre ordini in un'unica assemblea dove le votazioni sarebbero avvenute a maggioranza. La Rivoluzione in marcia: il 1789 Molti ormai affermavano che gli Stati generali dovevano dare alla Francia una nuova Costituzione e non limitarsi a porgere al re i voti dei tre ordini. furono gli speculatori che si servivano degli assegnati al valore nominale, per l’acquisto dei beni nazionali messi in vendita dallo Stato. Alle vecchie imposte furono sostituite una contribuzione fondiaria proporzionale al valore delle proprietà, un’imposta sulla ricchezza mobile e una patente per l’esercizio di professioni, arti e mestieri. In campo economico i liberisti si espressero con la soppressione delle corporazioni di mestiere, con la proclamazione della libertà di iniziativa e con la legge del 14 giugno 1791 che proibiva le associazioni operaie. Al problema finanziario era connesso il problema religioso. Vi fu la discussione e l’approvazione di una “costituzione civile del clero” che portava a una radicale riorganizzazione della Chiesa di Francia. Le diocesi episcopali furono ridisegnate in modo da corrispondere agli 83 dipartimenti; i vescovi dovevano essere eletti dai cittadini, mentre i parrochi erano designati dalle assemblee elettorali dei distretti. Gli si concedeva stipendi statali, che ne facevano pubblici funzionari. Nel dicembre del 1790 fu imposto a tutto il clero un giuramento di fedeltà alla Rivoluzione. La caduta della monarchia Da tempo la famiglia reale aveva preso contatti con le corti straniere in vista di un espatrio nella speranza di precipitare il Paese in un marasma che avrebbe giustificato un colpo di forza della monarchia. La notte tra il 20 e il 21 giugno 1791 Luigi XVI si diresse verso la frontiera orientale. Bloccata a Varennes, la comitiva fu obbligata a tornare indietro sotto scorta. La fuga di Varennes introdusse un’ulteriore divisione tra la forze rivoluzionarie. Mentre Robespierre e Marat e altri chiedevano la deposizione del re, la maggioranza dell’Assemblea finse di credere a una versione secondo cui il monarca non era fuggito ma era stato rapito. Una grande manifestazione popolare organizzata dai cordoglieri per chiedere la repubblica fu dispersa dai fucili della Guardia nazionale. Nel frattempo erano giunti a compimento i lavori dell’Assemblea nazionale per la redazione della Costituzione. La carta costituzionale della nuova Francia, preceduta dalla “Dichiarazione dei diritti”, fu votata dopo lunghe discussioni il 4 settembre 1791 Alla base vi era la distinzione tra cittadini attivi (coloro che pagavano un minimo di imposte) e cittadini passivi. Solo i primi avevano il diritto di voto per l’elezione degli amministratori, dei giudici e rappresentanti nazionali. Il carattere censitario della Costituzione si esprimeva nel doppio grado delle elezioni per l’Assemblea legislativa, composta di un’unica camera: le assemblee primarie dei cittadini attivi dovevano designare degli elettori scegliendoli tra coloro che pagavano le imposte. La Costituzione manteneva alla monarchia il potere esecutivo che però consisteva quasi unicamente nella facoltà di nominare ministri, diplomatici e generali; i poteri del re in politica estera erano limitari dall’obbligo di sottoporre i trattati e la dichiarazione di pace o guerra al voto dell’Assemblea. Prima di sciogliersi, l’Assemblea costituente votò una legge in base alla quale i suoi membri non potevano essere eletti a far parte dell’Assemblea legislativa, che si riunì il 1 ottobre 1791 con un totale di 745 deputati. La sinistra riuscì gradualmente a imporre la sua egemonia all’Assemblea essenzialmente per tre ragioni: 1. Era meglio organizzata e disponeva di elementi abili e prestigiosi come Jacques-Pierre Brissot, ed era spalleggiata dal club dei giacobini dove trionfava l’oratoria di Robespierre. 2. Al rincaro dei viveri nel 1791 si accompagnavano le conseguenze della svalutazione degli assegnati e la penuria dei generi coloniali. Col carovita ritornano le sommosse popolari in campagna e nei centri urbani. L’arma vincente sei seguaci di Brissot (i brissottini) si dimostrò l’atteggiamento intransigente che faceva appello all’orgoglio nazionale e alla fierezza rivoluzionaria, da loro adottato nei confronti delle potenze straniere che sembravano minacciare l’intervento negli affari interni della Francia. A metà marzo, Luigi XVI sostituì i ministri foglianti con i brissottini e il 20 aprile 1792 propose all’assemblea di dichiarare guerra al nuovo “re di Boemia e di Ungheria”, all’imperatore Francesco II. Ma il fallimento dell’offensiva non fece che accrescere i contrasti nell’Assemblea e le accuse di tradimento rivolte alla corte e agli aristocratici. La giornata del 10 agosto ebbe come momenti culminanti la creazione di una nuova municipalità (la “Comune insurrezionale”) e l’assalto al palazzo delle Tuileries. L’Assemblea legislativa votò la deposizione del monarca, il riconoscimento della nuova municipalità e la creazione di un Consiglio esecutivo provvisorio in attesa che si eleggesse una nuova assemblea. Per la prima volta, dal 1789, la rappresentanza nazionale si era vista soverchiata da una sollevazione popolare. La caduta della monarchia coincideva con una nuova fase della Rivoluzione. (masse dei sanculotti che esercitano il potere di fatto contro il potere legale). Dalla Repubblica giacobina al Direttorio La lotta politica all’interno della Convenzione La pressione popolare, l’ossessione del complotto aristocratico e il panico suscitato dall’avanzata dell’esercito prussiano nel nord-est della Francia sono all’origine delle misure di rigore adottate dall’Assemblea legislativa e dalla Comune di Parigi nei quaranta giorni successivi al 10 agosto. In questo clima di paura maturò uno dei fatti più raccapriccianti della Rivoluzione: tra il 2 e il 6 settembre 1792 folle di sanculotti invasero le carceri parigine e trucidarono oltre un migliaio di detenuti, sospettati di tramare contro la Rivoluzione. Il 20 settembre l’avanzata prussiana fu fermata a Valmy dall’artiglieria francese. Lo scontro restituì fiducia all’esercito rivoluzionario, che occupò la riva sinistra del Reno, invase il Belgio e si impadronì di Nizza e della Savoia. Si riuniva lo stesso giorno la “Convenzione” che abolì formalmente la monarchia. Anche la nuova assemblea era in maggioranza costituita da uomini di legge, amministratori locali, intellettuali. Dal punto di vista politico la nuova rappresentanza era spostata a sinistra. Era praticamente scomparsi i foglianti sostituiti dai brissottini (schieramento che verrà poi detto girondino per il fatto che dal dipartimento della Gironda provenivano alcuni più brillanti oratori; un centinaio erano gli aderenti alla “Montagna” (chiamata così per la sua collocazione in alto a sinistra sulla gradinata), e il resto faceva parte della “Pianura” (spregiativamente “Palude” in quanto oscillante fra i due partiti contrapposti). La contrapposizione tra girondini e monatagnardi si andò approfondendo a proposito dell’atteggiamento da assumere nei confronti del re. Le carte trovate nel palazzo delle Tuileries dimostravano i suoi intrighi con le potenze straniere. Robespierre e Luis-Antoine de Saint-Just sostenevano che il re andava trattato come un nemico della nazione. Prevalse tuttavia la proposta di processarlo, e all’alba del 21 gennaio la testa di Luigi XVI cadde sotto la lama della ghigliottina (da poco introdotta). Il 1 febbraio 1793 la Convenzione dichiarò guerra all’Inghilterra e all’Olanda, un mese dopo alla Spagna. Ma le forze rivoluzionarie subirono gravi sconfitte. Nel 1793 vi fu la ripresa dell’agitazione per il carovita e per la penuria dei generi coloniali. In marzo esplose una rivolta nel dipartimento della Vandea in occasione delle operazioni di leva; gli insorti erano contadini mossi da un complesso di motivazioni tra le quali la difesa della religione tradizionale, l’odio verso la città e verso i “patrioti”; la presa di Machecoul fu seguita da una vera e propria strage di cittadini. La Convenzione reagì varando varie misure eccezionali: Fu istituito un Tribunale rivoluzionario, promossa la creazione di Comitati di sorveglianza, formato un Comitato di salute pubblica incaricato di vegliare sul Consiglio esecutivo. Lo scontro più aspro riguardò i provvedimenti economici. L’assemblea era nel suo insieme ostile a ogni restrizione della libertà di commercio e di iniziativa, ma i montagnardi a differenza dei girondini, erano disposti a venire incontro alle richieste dei sanculotti per conquistarne l’appoggio. Il 4 maggio fu votato il calmiere (“maximum”) dei grani e della farine: il prezzo massimo sarebbe stato fissato dipartimento per dipartimento dalle amministrazioni locali. I girondini tuttavia non avevano rinunciato alla lotta. In questo clima di tensione i sanculotti di Parigi fecero nuovamente sentire il loro peso; il 2 giugno fecero votare sotto la minaccia delle armi una motivazione che disponeva l’arresto domiciliare di 29 deputati girondini e di due ministri. La Montagna aveva vinto ma a prezzo di una nuova, grandissima mortificazione della sovranità parlamentare e di un’aspra contrapposizione tra capitale e province. Il governo rivoluzionario e il Terrore Nell’estate del 1793 Parigi era sempre più assediata. Il 23 luglio capitola Magonza; il territorio francese è invaso a nord dagli austriaci; a sud dai piemontesi; gli insorti vandeani cingono d’assedio Nantes; il 27 agosto il porto di Tolone si consegna agli inglesi; i sanculotti chiedono misure sempre più spietate contro gli aristocratici. In questo momento critico, la classe politica mostrò sempre la sua tempra superando una dopo l’altra le difficoltà e imponendo gradualmente la propria guida a un Paese in piena anarchia: elaborò una nuova Costituzione preceduta da una Dichiarazione dei diritti che alle libertà sancita nel ’89 aggiungeva il diritto alla sussistenza, al lavoro, all’istruzione, all’insurrezione; tutti i poteri legislativi erano concentrati in un’unica assemblea, eletta a suffragio universale, ma per l’approvazione delle leggi più importanti era previsto l’istituto del referendum. Dall’altro lato la Convenzione operò per un rafforzamento del governo e dei suoi potere di intervento. Ma l’esigenza dell’accentramento del potere doveva entrare in contraddizione con le rivendicazioni di democrazia diretta dalle masse popolari. Nel corso del giugno e luglio ’93 furono approvate dalla Convenzione l’abolizione di tutti i diritti signorili, la vendita dei beni nazionali confiscati agli emigrati, la pena di morte contro gli speculatori. Ma i sanculottii protestavano per il cattivo funzionamento del calmiere: i coltivatori e i mercanti infatti lasciavano i mercanti sguarniti per vendere i cereali al mercato nero o spedirli dove i prezzi-limite erano più elevati. Nonostante l’arresto del capo degli arrabbiati (un gruppo di cittadini insorti per il carovita già dal ’92) il 4 e 5 settembre la Convenzione venne di nuovo invasa da manifestanti. Questa volta però Robespierre e gli altri motagnardi riuscirono a canalizzare il movimento facendo votare la costituzione di un “esercito rivoluzionario” di sanculotti per la requisizione dei grani nelle campagne, la legge che consentiva l’arresto dei sospetti da parte dei comitati di sorveglianza e il maximum generale, esteso ora ai prezzi di tutti i generi di prima necessità e anche ai salari. Il Tribunale rivoluzionario prese a funzionare a pieno ritmo: furono ghigliottinate 177 persone tra ottobre e dicembre. Il logico corollario del “Terrore” era all’ordine del giorno. Da gruppi herberisti era partita anche la scristianizzazione: si chiudevano le chiese, si incitavano i preti a sposarsi, si organizzavano processioni blasfeme. Anche il calendario venne riformato suddividendo l’anno in dodici mesi tutti di trenta giorni (i cinque giorni residui furono chiamati “sanculottidi”) che traevano i loro nomi dalle manifestazioni della natura ( per esempio, Maggio: Fiorile) e sostituirono alla domenica l “decadì” che doveva essere dedicato alle feste civiche. La nuova era, si faceva cominciare dalla proclamazione della repubblica. Introduzione del sistema metrico decimale in sostituzione dell’antica varietà di pesi e misure. Miglioramento della situazione militare: Marsiglia fu conquistata, Lione cadde dopo ostinata resistenza; Tolone fu ripresa… anche alle frontiere cominciava a dare i suoi frutti la riorganizzazione dell’esercito promossa dal Comitato di salute pubblica e dai rappresentanti in missione con la proclamazione della “leva in massa”: gli austriaci furono respinti lungo il Reno, i piemontesi e gli spagnoli ricacciati al di là delle Alpi e dei Pirenei. Nei primi mesi del 1794 Robespierre si sentì abbastanza forte per lanciare un attacco in due direzioni: contro la sinistra di Hérbert (che faceva pesare sul governo rivoluzionario la minaccia costante dell’intervento popolare) e contro gli “indulgenti”(che vedevano in Danton [suo rivale] il principale punto di riferimento, e che avrebbero potuto porre fine al Terrore e ripristinare le libertà costituzionali). Herbert e Danton con i rispettivi seguaci vennero processati e ghigliottinati. Questo “taglio delle ali” rafforzò nell’immediato il Comitato di salute pubblica e il potere di Robespierre. Proprio in una situazione che sembrava migliorare (grazie anche alla vittoria di Fleurus 26 giugno che aprì la strada all’occupazione del Belgio) si ebbe la drammatica intensificazione del “Terrore”: in un mese e mezzo salirono sul patibolo 1376 uomini e donne, in tutto l’anno si fecero circa 50.000 vittime. Questo commercio di popoli amareggiò coloro che avevano creduto alla volontà dei francesi di liberare l’Italia. Di lì a poco Napoleone abbandonò l’Italia, ma l’espansione dell’influenza francese non ebbe termine: le truppe francesi occuparono lo Stato pontificio, espulsero il papa Pio VI e proclamarono la Repubblica Romana. Allo stesso periodo risale l’invasione militare della Svizzera neutrale e la costituzione di un Repubblica Elvetica sotto il protettorato francese. Nel novembre 1798 il re di Napoli Ferdinando IV e la regina Maria Carolina lanciarono un attacco contro l’esercito francese di stanza nel Lazio, il quale però mise in fuga i borbonici e nel gennaio 1799 entrò a Napoli vincendo l’ostinata resistenza dei “lazzari” (nomignolo che si dava alla plebe napoletana); anche qui venne proclamata la Repubblica Napoletana o Partenopea. Con l’annessione alla Francia del Piemonte, e con l’occupazione militare della Toscana, tutta la penisola si trovò ad essere sotto il controllo diretto o indiretto delle armi francesi. (Ad eccezione del Veneto appartenente all’Austria e del Ducato di Parma e Piacenza lasciato a Ferdinando di Borbone). La Sicilia e la Sardegna erano divenute rifugio la prima dei Borbone di Napoli, e la seconda dei Savoia, sotto la protezione della flotta inglese. A Milano, Genova, Roma, Lucca, Napoli, furono promulgate Costituzioni ricalcate su quella francese del ’95: potere esecutivo era affidato a un organo collegiale simile al Direttorio, il potere legislativo a un’assemblea bicamerale in teoria elettiva ma quasi sempre nominata da autorità francesi… ma tali principi furono spesso contraddetti da un sistematico sfruttamento finanziario, da una serie di interventi autoritari e di colpi di Stato. Mancò una coerente politica volta a migliorare le dure condizioni di vita delle masse popolari, che anzi furono colite da requisizioni e da estorsioni militari. Se a questo si aggiungono la fedeltà agli antichi sovrani ancora radicata in molte ragioni, l’attaccamento alle autonomie locali e soprattutto le offese al sentimento religioso, sarà agevole comprendere come mai le plebi rurali e urbane si sollevassero contro i francesi e i loro alleati, gli odiati “giacobini”. Nella primavera del 1799 in coincidenza con le vittorie militari dell’esercito austro-russo che occupò Milano e Torino, molti legittimisti e “sanfedisti” scoppiarono in Piemonte, nelle Marche, nel Lazio, Umbria e Toscana. Delle varie repubbliche giacobine che caddero tra la primavera e l’estate del 1799 troviamo la Repubblica Napoletana, ed ebbe il destino più tragico. Una “Armata cristiana e reale” comandata dal cardinale Fabrizio Ruffo composta di contadini e briganti mossa dalla Calabria verso Napoli, abbandonata ormai dalle truppe francesi, si lasciò dietro una scia di distruzione e sangue. I patrioti meridionali difesero la repubblica finchè poterono. Il Ruffo entrato a Napoli offrì loro una capitolazione onorevole ma il contrammiraglio inglese Horatio Nelson impedì la loro partenza e li consegnò ai Borbone. Una “Giunta di Stato” nominata da Ferdinando IV pronunciò ben 120 condanne a morte e molte altre alla prigionia o esilio. La seconda coalizione antifrancese e il colpo di Stato di Brumaio La pace di Campoformio lasciava in guerra contro la Francia rivoluzionaria solo l’Inghilterra (con Pitt il Giovane). Essendo difficile sbarcare al di là della Manica, Napoleone propose al Direttorio come diversivo una spedizione in Egitto da dove sarebbe stato possibile minacciare gli interessi britannici in India. Dopo essersi impadronita dell’isola di Malta, la flotta francese si presentò il primo luglio davanti ad Alessandria. I mamelucchi, furono sconfitti nella battaglia delle Piramidi ma i francesi videro distrutta la loro flotta nella rada di Abukir ad opera del contrammiraglio Nelson. Nel frattempo il nuovo zar di Russia Paolo I accoglieva favorevolmente le proposte inglesi di un’alleanza contro la Francia rivoluzionaria. Alla coalizione aderirono successivamente anche l’Austria e la Turchia. L’andamento della guerra fu disastroso per i francesi in Italia, dove nell’autunno 1799 conservavano solo Genova. Un po’ meglio andarono le cose in Svizzera dove gli austro-russi furono sconfitti a Zurigo e sul fronte settentrionale dove il Belgio venne difeso con successo contro gli inglesi. Nel frattempo il regime direttoriale era sempre più screditato. Nel ’98 le nuove elezioni avevano dato un esito favorevole ai “neogiacobini” ma anche questa volta il governo era intervenuto per annullare i risultati. La destra monarchica alzava la testa, il banditismo imperversava nelle campagne, il Direttorio era sempre più osteggiato dai Consigli. In questa situazione giunse improvvisa la notizia che Bonaparte, sfuggendo la vigilanza degli inglesi era sbarcato a Fréjus. Siyès che già da tempo progettava di salvare l’eredità rivoluzionaria mediante un colpo di forza, si accordò rapidamente col generale. I Consigli vennero indotti a trasferirsi a Saint-Cloud sotto scorta militare, mentre tre dei direttori si dimettevano. Bonaparte fu accolto con grida ostili dalle due camere, ma il grosso dei deputati venne disperso dai soldati e i pochi rimasti votarono la consegna dei poteri a tre consoli: Bonaparte, Sieyés e Ducos. La Francia e l’Europa nell’età napoleonica Napoleone primo console. Le basi del regime La Costituzione dell’anno VIII progettata da Sieyès e Bonaparte, entrò in vigore il 25 dicembre 1799. A differenza delle precedenti, essa non conteneva una Dichiarazione dei diritti e menzionava solo in modo vago le libertà fondamentali. Era ristabilito il suffragio universale maschile, ma svuotato di contenuto giacchè gli elettori si limitavano a designare i componenti di “liste di confidenza” sempre più ristrette. All’interno di queste liste era poi il governo a scegliere gli amministratori locali e i membri delle due assemblee legislative, il Tribunato e il Corpo legislativo, che potevano solo discutere e approvare o respingere le leggi proposte dal governo. Oltre a vanificare di fatto la sovranità popolare, la Costituzione limitava fortemente i poteri degli organi legislativi a vantaggio dell’esecutivo. A capo del governo era posto un primo console, da cui dipendeva la nomina dei ministri, ambasciatori, giudici; lo coadiuvavano altri due consoli e un Consiglio di Stato. Avveniva una restaurazione nel segno di un consolidamento delle conquiste fondamentali della Rivoluzione sul piano giuridico ed economico, unendo a questi elementi la gloria militare di cui era aureolato il primo console, vediamo come il regime fu assicurato da un larghissimo consenso. Non solo; l’opposizione al governo non fu più tollerata: stampa sorvegliata, giornali soppressi… A un disegno di accentramento del potere risposero le misure adottate dal consolato: alla testa dei dipartimenti furono posti dei prefetti muniti di estesi poteri, da cui dipendevano i sottoprefetti e i sindaci dei comuni. Venne riordinato il sistema giudiziario: ai giudici di pace e ai tribunali dipartimentali vennero sovrapposte delle corti di appello e una Corte di cassazione. I giudici furono dichiarati inamovibili, ma la loro nomina dipendeva dal governo. Essi vennero scelti sia tra i vecchi servitori della monarchia borbonica, sia nella classe politica formatasi nel corso del decennio 1789-99. Nel marzo 1804 fu promulgato il Codice civile che per la prima volta disciplinava in maniera organica tutti i settori del diritto, facendo propri i valori tradizionali della Rivoluzione. La riscossione dei tributi fu affidata ad agenti dello Stato e non più ad organi elettivi, divenne così più efficiente ed inesorabile. L’onere maggiore venne trasferito dalle imposte dirette a quelle indirette. Con questi mezzi fu raggiunto il pareggio delle entrate e delle spese. Anche il credito venne posto su nuove basi, con il consolidamento del debito pubblico e con la creazione di una Banca di Francia. Nel 1803 venne infine creata la nuova moneta, il franco detto germinale, del peso di 5 grammi d’argento, destinato a mantenersi fino al 1914. Nel 1800 la situazione militare si presentava sotto buoni auspici a causa del ritiro dalla Russia dalla seconda coalizione antifrancese. Il progetto di Bonaparte era battere gli austriaci per poi affrontare l’Inghilterra ormai isolata e costringerla alla pace. Come desiderava, ottenne una grande vittoria e l’Austria fu costretta a chiedere la pace, firmata a Lunéville il 9 febbraio 1801: le sue clausole ristabilivano in Italia la situazione successiva al trattato di Campoformio, portando però all’Adige la frontiera della Repubblica Cisalpina, e riconoscevano alla Francia il possesso di tutta la riva sinistra del Reno. Il 25 marzo 1802, ad Amiens, venne raggiunta anche la pace con l’Inghilterra che sanciva la restituzione alla Francia delle sue colonie, e ai cavalieri di San Giovanni dell’isola di Malta, mentre l’Egitto tornava sotto la sovranità turca. La Francia non aveva più nemici. Dal consolato all’Impero. La terza e la quarta coalizione antifrancese Il 2 agosto 1802 Napoleone fu dichiarato console a vita. Il 4 aprile 1804 Napoleone fu nominato “imperatore dei francesi” dal Senato. La trasformazione degli ordinamenti in senso monarchico era completata dal carattere ereditario della dignità imperiale. Il 2 dicembre 1804 la corona imperiale fu offerta dal pontefice a Napoleone che se ne cinse il capo con le proprie mani. Un nuovo dispotismo illuminato era sorto, erede a un tempo delle tradizioni d’antico regime. Quando venne proclamato l’Impero già da un anno la Gran Bretagna, preoccupata per il rafforzamento dell’influenza francese in Italia, Svizzera e Germania, aveva ripreso le ostilità con la Francia. Prese forma nel 1805 la terza coalizione, composta da Inghilterra, Austria, Russia, Svezia e Regno di Napoli. A fianco della Francia invece si schierò la Spagna. Il 21 ottobre 1805, la flotta franco-spagnola venne affrontata e distrutta a Trafalgar, presso Cadice, da quella britannica al comando di Nelson. Ma sul fronte terrestre, Napoleone riportò una decisiva vittoria sugli eserciti austriaco e russo ad Austerliz, in Moravia. Priva ormai di difese, Vienna dovette chiedere la pace, che le fu concessa a dure condizioni con il trattato di Presburgo: cessione al Regno d’Italia del Veneto, Istria, Dalmazia, aggregazione del Tirolo alla Baviera, pagamento di indennità di guerra. Nei primi mesi del 1806 un esercito francese discese nel Regno di Napoli e se ne impadronì: sul trono napoletano fu posto Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, mentre la corte borbonica si rifugiava a Palermo sotto la protezione della flotta inglese. Molto importanti furono le conseguenze del trionfo napoleonico anche per la Germania nel luglio 1806 venne creata la Confederazione del Reno, un’associazione di Stati tedeschi alleati della Francia. Ciò intimorì il re di Prussia Federico Guglielmo III che si fece promotore della quarta coalizione (Inghilterra, Prussia, Russia). Ma sul fronte terrestre l’armata napoleonica appariva imbattibile. Era ancora la Prussia a farne le spese: i suoi possedimenti nella Germania occidentale andarono a formare insieme a una parte dello Hannover il Regno di Vestfalia, mentre le province polacche furono erette in un Granducato di Varsavia sotto la sovranità del re di Sassonia. Sia la Sassonia, sia la Vestfalia entrarono nella Confederazione del Reno. Lo zar Alessandro I, oltre a cedere alla Francia Cattaro e le isole Ionie, le prometteva il suo appoggio contro l’Inghilterra nel caso che quest’ultima si fosse rifiutata di fare la pace. Si calcola che tra il 1798 e il 1813 nella sola Francia furono chiamati alle armi complessivamente 2.834.000 uomini, una cifra che non tiene conto però dei diffusi fenomeni di renitenza alla leva e di diserzione. Il blocco continentale, la guerra di Spagna e la quinta coalizione Dopo la pace di Tilsit l’unica potenza ancora in guerra con l’Impero francese era la Gran Bretagna. Nell’impossibilità di contrastarne il dominio sui mari Napoleone aveva deciso di piegarne la resistenza con l’arma economica. Nel novembre 1806 aveva infatti dichiarato l’Inghilterra in “stato di blocco” (proibiva ai sudditi dell’Impero ogni commercio con le isole britanniche). Al blocco aderirono successivamente la Russia, la Prussia, la Danimarca e la Spagna. Il contrabbando era di fatto onnipresente e lo stesso Napoleone fu costretto a concedere licenze d’importazione per alcuni generi, come il cotone, indispensabile per l’industria francese. Infine il blocco non poteva essere applicato al Nuovo Mondo e al continente asiatico. Pur essendo colpita da una grave crisi, l’economia britannica resistette e poté di nuovo respirare quando la penisola iberica insorse contro la Francia e quando i porti russi si riaprirono alle sue esportazioni. Nel 1806 era scomparso William Pitt e venne sostituito da Robert Stewart visconte Castelereagh. Fallito tra il novembre 1807 e il 1808 il tentativo di occupare il Portogallo, tradizionale alleato dell’Inghilterra, Napoleone riuscì a impadronirsi nei mesi successivi della Spagna, spodestando Carlo IV e proclamando re il fratello Giuseppe. Ma nello stesso periodo il popolo di Madrid si sollevò contro la presenza francese. Alla rinascita della Prussia diedero un notevole impulso gli intellettuali. La Prussia si accingeva così a respingere l’egemonia francese e a proporsi alla caduta di Napoleone come guida politica e morale della Germania. Più effimera doveva rivelarsi la rinascita della Polonia sotto forma di Granducato di Varsavia, costituito da Napoleone con le terre già polacche inglobate dalla Prussia e dall’Austria in occasione delle spartizioni di fine Settecento. L’abolizione del servaggio rimase in buona parte sulla carta. Potente fu però l’impulso dato al sentimento nazionale polacco. L’enumerazione degli Stati vassalli della Francia deve essere completata con la Confederazione elvetica, il cui stato di semilibertà poté mantenersi per tutta l’età napoleonica. Meno fortunata fu la Repubblica Batava che fu trasformata in Regno d’Olanda, la cui corona fu affidata al fratello di Napoleone, Luigi. Nel 1810 l’Olanda fu annessa all’impero definitivamente. In questo periodo anche la Danimarca e la Svezia gravitavano nell’orbita politica della Francia. Dalla campagna di Russia al crollo del “Grande Impero” Il giovane zar Alessandro I aveva dimostrato nei primi anni di regno tendenze riformatrici, tuttavia i propositi più ambiziosi rimasero inattuati. Dal 1809 si ebbe invece, con la conquista della Finlandia strappata alla Svezia, una ripresa della politica di espansione. L’espansionismo russo, fu all’origine del raffreddamento di Napoleone nei confronti di Alessandro I, che nel marzo 1812 decise di firmare un trattato di alleanza con la Svezia. Di fronte al “tradimento” dello zar, che comprometteva tutta la strategia del “blocco continentale”, l’imperatore francese si rivolse ancora una volta alla guerra. Il 24 giugno 1812 Napoleone varcò il fiume Niemen alla testa delle sue truppe. I generali russi si ritirarono senza dar battaglia, ma distruggendo o portando via i raccolti nelle loro retrovie in modo da privare il nemico dei rifornimenti. Questa tattica sfuggente e l’immensità degli spazi da attraversare misero in crisi la strategia di Napoleone. Solo il 7 settembre, a Borodino, i russi affrontarono la “Grande Armata” nel tentativo di sbarrarle la strada di Mosca. I francesi ebbero la meglio, sia pure a prezzo di gravi perdite, e il 14 settembre si imapdronirono della città. A causa di un incendio il 19 settembre fu dato l’ordine di ritirata. Napoleone voleva piegare verso sud, ma i russi gli chiusero il passo, obbligandolo a ripercorrere il cammino dell’andata in mezzo a una campagna devastata…così che la ritirata si trasformò in un calvario. Napoleone tornato a Parigi, si trovò di fronte un’Europa in subbuglio. Il 28 febbraio 1813 Federico Guglielmo III strinse alleanza con lo zar e proclamò la “guerra di liberazione”, istituendo una “sesta coalizione antifrancese” alla quale partecipò anche Metternich. Nella penisola iberica, nel frattempo, gli inglesi avevano ripreso l’offensiva occupando l’Andalusia, e le Cortes avevano approvato una Costituzione di tipo liberale. Sempre su iniziativa britannica, in Sicilia era stata esautorata la corte borbonica e approvata una carta costituzionale; il Regno veniva inoltre dichiarato “indipendente da quello di Napoli o da qualunque altro regno o provincia”. L’arma ideologica che i francesi avevano impiegato con successo nei confronti delle monarchie dell’antico regime, si ritorcevano ora contro di loro, col favore della propaganda inglese che prometteva ai popoli libertà e indipendenza. Napoleone riuscì nella primavera del 1814 ad avere un milione di uomini in armi; la battaglia decisiva fu detta “la battaglia delle nazioni” che si svolse a Lipsia tra il 16 e il 19 ottobre 1813. Le cose andarono storte, perse alcune parti dell’esercito che lo abbandonarono all’ultimo momento, e Napoleone fu sconfitto; dovette ripiegare sul Reno, mentre tutta la Germania, la Svizzera e l’Olanda si sollevarono contro il suo dominio. L’offensiva del generale inglese duca di Wellington e la guerriglia avevano costretto i francesi a evacuare la Spagna dove nel dicembre Ferdinando VII fu ristabilito sul trono. Perfino il re di Napoli Gioacchino Murat, trattava con l’Austria nella speranza di conservare il suo regno. Il 20 marzo 1814, la stanchezza per le guerre interminabili, il peso delle tasse… tutto favoriva la restaurazione dei Borbone, e Napoleone subì una decisiva sconfitta ad Arcis-sur-Aube e Parigi accolse il 31 marzo gli invasori, al cui seguito… lo zar di Russia, il re di Prussia e l’imperatore d’Austria. Il 3 aprile il Senato proclamò la decadenza dell’imperatore e Napoleone abdicò senza condizioni, ma con l’impegno dei coalizzati a conferirgli la sovranità dell’isola d’Elba insieme a un lauto appannaggio. Lo stesso giorno il Senato invitò Luigi XVIII, fratello minore di Luigi XVI, a occupare il trono sulla base di una nuova Costituzione ispirata al modello inglese e al principio della sovranità popolare. Il re tuttavia contrappose a questo il principio della legittimità monarchica e promulgò il 4 giugno una diversa Costituzione. I confini della Francia erano stati riportati alla situazione del 1789 con l’aggiunta di Avignone e della Savoia. Si erano decise nel frattempo anche le sorti del napoleonico Regno d’Italia. Il 16 aprile, appresa l’abdicazione di Napoleone, il viceré Eugenio firmò con l’Austria un armistizio che lo lasciava padrone della Lombardia e del Veneto fino all’Adige, in attesa che le potenze fissassero il destino del regno. Ma le sue speranze di ereditare la corona italica furono vanificate da un sommossa popolare esplosa contro il suo governo a Milano, dove il ministro delle Finanze Giuseppe Prina venne linciato dalla folla. Eugenio decise allora di abbandonare l’Italia: il 26 aprile il maresciallo Annibale Sommariva prese possesso di Milano in nome dell’imperatore d’Austria. Nel frattempo anche il papa Pio VII, il re di Sardegna Vittorio Emanuele I e il granduca di Toscana Ferdinando III riprendevano possesso dei loro Stati. Incerta rimaneva la sorte del Regno di Napoli, ma sempre più chiara si delineava la volontà delle grandi potenze di procedere anche qui alla restaurazione degli antichi sovrani. L’ultimo atto del dramma si consumò nel 1815 quando già i ministri delle grandi potenze, riuniti a Vienna dal novembre precedente, stavano decidendo i destini dell’Europa. Napoleone decise di tentare di nuovo l’avventura. Abbandonata l’isola d’Elba sbarcò nei pressi di Cannes. La popolazione lo accolse con entusiasmo e un esercito inviato per arrestarlo passò dalla sua parte. Entrato a Parigi il 20 marzo, Napoleone era ben consapevole di dover affrontare le forze unite dell’Europa: alla testa di 125.000 soldati sferrò il suo attacco prima che arrivassero i rinforzi austriaci e russi, ma a Waterloo, il 18 giugno 1815 non riuscì a impedire la congiunzione tra inglesi e prussiani e subì una rovinosa disfatta. Ritornato a Parigi, egli abdicò una seconda volta il 22 giugno. L’8 luglio, Luigi XVIII rientrò definitivamente nella capitale francese. Consegnatosi agli inglesi fu deportato in un’isola sperduta dell’Atlantico, Sant’Elena, dove scriverà le proprie memorie e morità in solitudine nel 1821, 5 maggio. Gioacchino Murat nel timore di essere spodestato dalle grandi potenze dichiarò improvvisamente guerra all’Austria, esortando gli italiani a unirsi sotto le sue bandiere per conquistare l’indipendenza nazionale. L’appello cadde nel vuoto. Pochi giorni dopo i generali dell’esercito napoletano, sconfitto dagli austriaci a Tolentino, firmavano al convenzione di Casa Lanza che sanciva il ritorno sul trono di Ferdinando IV di Borbone. Rifugiatosi in Corsica, Murat tentò uno sbarco in Calabria ma venne immediatamente catturato dai borbonici e fucilato.
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