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Storia Moderna - Dalla scoperta dell'America a Napoleone, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto tratto da vari manuali di Storia Moderna. Utile sia per il Liceo che per l'Università.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 11/10/2019

Artemisia_Gentileschi
Artemisia_Gentileschi 🇮🇹

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Scarica Storia Moderna - Dalla scoperta dell'America a Napoleone e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 1. GLI IDEALI DELL'OCCIDENTE: UMANESIMO E RINASCIMENTO Il periodo compreso fra il secondo decennio del Trecento e la metà del Quattrocento fu caratterizzato, sul piano politico, dall'affermazione in Europa degli Stati nazionali e in Italia di quelli regionali (con la pace di Lodi del 1454), e sul piano economico dalla crisi produttiva e dal calo demografico che toccarono tutto il continenti europeo. A questo quadro socio-politico corrispose un momento di grande fioritura artistica, in cui gli intellettuali cercarono di risalire alle origini della propria civiltà, ricollegandosi idealmente al modello dell'antichità classica: culla di questo movimento culturale, detto Umanesimo, fu l'Italia. Secondo gli umanisti, solo prendendo le distanze dall'epoca barbare, il Medioevo, si poteva realizzare una vera rinascita culturale, il Rinascimento: così la frattura con l'età precedente fu radicale. La nuova corrente di pensiero polemizzò con la concezione medievale del sapere e con la dottrina cristiana, che si era occupata quasi esclusivamente della spiritualità dell'anima disprezzando la volgarità del corpo, considerato la sede degli istinti più bassi dell'uomo. La vera conoscenza doveva soffermarsi solo sull'eterno, mentre le forme naturali erano di pertinenza delle cosiddette Arti meccaniche, cioè anatomia, pittura, scultura, ingegneria e architettura. I nuovi valori umanistici portarono invece ad una nuova attenzione per il corpo umano, sia nelle scienze che nell'arte, come testimonia l'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Come scriveva Leon Battista Alberti, l'uomo era nato “per essere utile all'uomo”, sottolineando in questo modo il rifiuto dell'ascetismo e della vita contemplativa. La riscoperta della centralità dell'uomo favorì l'affermarsi della ragione come strumento d'indagine e di ricerca della propria libertà. L'uomo fu valorizzato in quanto tale e fu considerato un soggetto in grado di costruire il proprio destino: la felicità dell'individuo, seppur esposta agli imprevisti della sorte, dipendeva dalle azioni umane, dalle doti del singolo e dal suo impegno personale. Si affermò una concezione della vita e del mondo al cui centro fu posta la natura, simbolo di ordine, armonia e bellezza. L'impulso che ispirò la ricerca degli artisti fu quello di restituire naturalezza alla rappresentazione, rispettando le diverse proporzioni della visione spaziale. La profondità di uno spazio architettonico o di una scena di un quadro fu resa applicando sistematicamente le leggi ottiche e geometriche. La nuova concezione dello spazio trovò la sua massima espressione in architettura con Filippo Brunelleschi, mentre Donatello e Paolo Uccello applicarono gli stessi principi prospettici rispettivamente alla scultura e alla pittura. Per quanto riguarda la riflessione filosofica, fu lo studio dei testi classici di Platone a segnare l'avvento di nuovi filoni di pensiero che contrastarono la visione del mondo della tradizione Scolastica medievale. Intorno alla metà del XV secolo, Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola giunsero a maturare la concezione secondo cui l'uomo era concepito come un “microcosmo”, un riflesso in piccolo dell'armonia dell'intero mondo naturale, il “macrocosmo”. La figura umana fu posta al centro dell'universo e fu considerata un punto di congiunzione fra le realtà celesti e quelle terrestri e un elemento di equilibrio fra materia e spirito. La natura, da elemento passivo soggetto alle leggi divine, si trasformò in un campo di osservazione collegato all'esistenza umana. Ma non soltanto il mondo fisico, anche la vita sociale e politica furono oggetto di osservazione e studio da parte degli umanisti. Nacque un pensiero cosiddetto “utopistico”, elaborato da filosofi come Tommaso Moro, ideatore di una società ideale fondata sui principi di uguaglianza, e Tommaso Campanella, che tratteggiò il profilo della “città del sole”. Niccolò Macchiavelli rifiutò le utopie cui si era rivolto il pensiero filosofico contemporaneo, e si fece invece promotore di un forte realismo in politica; sottolineò la necessità per chi voleva governare di servirsi di tutti i mezzi a disposizione, anche di quelli più crudeli: il Principe doveva essere “mezzo bestia e mezzo uomo” e la valutazione del suo operato dipendeva esclusivamente dai fini raggiunti. Tutta la riflessione di Macchiavelli nacque dal desiderio di una Italia unita e indipendente, che potesse competere con le grandi monarchie nazionali europee. La diffusione delle nuove idee avvenne anche grazie ai circoli o ai cenacoli in cui studiosi e pensatori si incontravano per discutere. Da questi ritrovi informali sorsero le prime accademie: una delle più importanti fu l'Accademia Platonica, fondata a Firenze nel 1462 per iniziativa di Cosimo de' Medici e animata dal filosofo Marsilio Ficino. Un evento rivoluzionario nel campo della comunicazione del sapere fu l'invenzione della stampa. Questa nuova tecnica di riproduzione dei caratteri grafici fu indotta dalla crescente richiesta di istruzione da parte dei ceti mercantili e artigianali. Un vero e proprio salto di qualità si ebbe solo con l'invenzione della stampa a caratteri mobili realizzata, intorno alla metà del XV secolo, da un artigiano, Johann Gutemberg. Egli pubblicò i primi volumi a stampa con l'impiego di caratteri mobili in legno, una sorta di cubetti che riportavano incise su una delle facce le lettere dell'alfabeto; il procedimento prevedeva che, dopo aver preparato con i cubi il testo da stampare, si imbevesse d'inchiostro una pagina e vi si apponesse sopra un foglio di carta bianca che veniva pressato attraverso un torchio fino a riportarne i segni. La tecnica a stampa consentì la produzione di molte copie in serie e un numero crescente di volumi, chiamati incunaboli, circolò sul mercato. Per molti secoli fu il ritmo della natura a scandire le varie fasi del giorno: l'alba, il mezzogiorno, il tramonto. Per tutto l'Alto Medioevo il tempo dei contadini coincise con quello della Chiesa, scandito dalle ore canoniche, e la vita dei campi era segnata dal suono della campane. Già intorno al XII secolo, con l'affermarsi del mondo urbano di mercanti e artigiani, si hanno i primi cambiamenti: per esempio la nona liturgia, che corrispondeva alle due del pomeriggio, fu anticipata intorno a mezzogiorno per farla coincidere con la pausa fra il lavoro mattutino e quello pomeridiano. A partire dalla prima metà del XIV secolo furono installati i primi orologi pubblici; ma fu la diffusione dell'orologio personale a segnare una rottura molto più radicale: l'orologio personale costituì uno dei sintomi più vistosi di una nuova sensibilità individuale. 2. IL MONDO NUOVO Alla fine del Quattrocento la dimensione del mondo conosciuto agli Europei si ampliò notevolmente grazie alle nuove esplorazioni. Le imprese dei navigatori furono finanziate il larga misura dai sovrani dei regni iberici, come Enrico il Navigatore, re del Portogallo. Infatti, dopo la caduta dell'impero bizantino, Spagna e Portogallo diventarono in breve tempo i nuovi avamposti commerciali dell'Europa, ed è proprio da queste terre che partirono le grandi esplorazioni geografiche: la penisola iberica, da sempre area privilegiata di incontro delle popolazioni locali con Arabi ed Ebrei, trasse da quel fecondo innesto di esperienze e saperi le energie per dare l'impulso alle nuove imprese. Queste esplorazioni rispondevano a una strategia precisa, quella di cercare, oltre i confini del Mediterraneo, nuovi mercati e nuove materie prime; fra queste rivestiva una grande importanza l'oro, che in Europa iniziava a scarseggiare. Il mito dell'oro, ad esempio, aveva accompagnato l'intera avventura di Cristoforo Colombo. Una forte spinta alle esplorazioni di questo periodo derivò dalla necessità di fronteggiare l'avanzata turca. Con la presa di Costantinopoli, infatti, i Turchi avevano bloccato qualunque possibilità di espansione europea verso est, costringendo i vari Stati a spostare i propri interessi verso l'Occidente, cioè verso l'Atlantico. Colombo, per arrivare in Cina e Giappone, pensò di raggiungere l'Oriente circumnavigando la Terra da Occidente, mentre i portoghesi seguendo una rotta a Sud. Ma perché tutti i navigatori cercarono l'Oriente? Ad alimentare questo mito avevano contribuito i costumi e i prodotti di queste terre a poco a poco conosciuti in Occidente; l'oro che gli Spagnoli e i Portoghesi inseguivano era un simbolo di ricchezza, ma anche di lusso, prestigio, potere, affermazione sociale. Inoltre le scoperte geografiche che si susseguirono fra Quattrocento e Cinquecento furono rese possibili dai progressi della navigazione. Già a partire dalla metà del Trecento erano stati inseriti nei circuiti dei naviganti spagnoli e portoghesi gli arcipelaghi delle Canarie e delle Azzorre: queste nuove rotte favorirono la preparazione dei marinai ad affrontare i rischi della navigazione atlantica, maggiormente esposta alla violenza dei venti e delle correnti. Determinante fu l'adozione di un nuovo tipo di vascello, la caravella, più manovrabile e di scafo arrotondato, idoneo a raggiungere alte velocità. Nel corso del Quattrocento i Portoghesi scoprirono in media 400 miglia di coste all'anno lungo il profilo dell'Africa. - La spedizione al Capo Bianco del 1441 riportò in Europa i primi schiavi neri; - nel 1444 fu la volta del Rio de Oro e del Capo Verde sull'estuario del fiume Senegal; - nel 1470 vennero raggiunte sull'Equatore le isole di Sao Tomé e di Fernando Poo; - nel 1487 Bartolomeo Diaz si spinse fino in Congo, doppiando l'estremità meridionale del continente africano: il Capo di Buona Speranza; - una decina di anni dopo Vasco da Gama compì la circumnavigazione dell'Africa puntando verso l'India, e agricoli. Molte delle popolazioni locali furono ridotte alla condizione di servi: uomini e donne, ma anche bambini, furono costretti a lavori massacranti. Molte persone morirono e la situazione si fece così grave che lo stesso re di Spagna promulgò una legge che vietava i lavori più pesanti a donne e bambini. Si calcola che tra il XVI e il XVII secolo circa 70 milioni di Indios persero la vita. Gli abitanti di interi villaggi furono venduti come schiavi; molti fuggirono riparandosi nelle foreste. Numerose coppie scelsero di smettere di procreare e preferirono abortire per sottrarre i loro figli al destino brutale che li aspettava. Infine, le malattie epidermiche, come il vaiolo, portate dagli Spagnoli e sconosciute agli indigeni, decimarono le popolazioni. Il frate francescano spagnolo De Motolinia provò a fare un elenco delle principali “piaghe” che si abbatterono al tempo dello sbarco di Cortés, sulla popolazione degli Indios d'America: - il vaiolo; - il massacro militare delle popolazioni; - la grande carestia; - i maltrattamenti dei sorveglianti; - il gravare delle tasse; - le tremende condizioni di lavoro, specie nelle miniere; - i costi umani per l'edificazione delle nuove città (nel corso di questi lavori molti indigeni furono schiacciati dalle travi, altri caddero dalle impalcature o furono sepolti dagli edifici abbattuti); - le condizioni di vita degli schiavi e dei ribelli gettati nelle miniere; - il servizio dei trasporti in miniera (per il quale gli Indios, sovraccarichi di pesi e denutriti, percorrevano giornalmente fino a 60 miglia); - le lotte interne fra gli Spagnoli che spesso coinvolsero gli stessi Indios. I dieci elementi elencati dal frate riprendono l'immagine biblica delle dieci piaghe d'Egitto mandate da Dio per punire gli uomini, ma costituiscono, insieme, una cronaca realistica delle condizioni di vita degli Indios dopo la conquista spagnola. Nonostante i riferimenti religiosi, è evidente che la responsabilità delle piaghe non è da attribuirsi a Dio ma agli uomini. 3. LA FORMAZIONE DELL'EUROPA MODERNA (1494 – 1559) Ala fine del Quattrocento alcuni paesi (Francia, Inghilterra, Spagna) si erano costituiti in monarchie nazionali, dotandosi di una burocrazia (le leggi), di un esercito permanente (il lione), di un ben organizzato corpo diplomatico (la golpe): in considerazione di questi sviluppi, è invalso l'uso di considerare questi decenni come il periodo di avvio dell'età moderna, un'epoca che convenzionalmente si fa terminare con il 1815, data del crollo del sistema napoleonico. La modernità del primo Cinquecento consiste essenzialmente nel prender forma di uno stabile sistema di relazioni internazionali tra Stati, e nella capacità di valorizzare la maggiore coesione interna del proprio territorio per assoggettarne altri. Per far questo, i principali regnanti dell'epoca, fecero leva da un lato sulla forza di eserciti permanenti stabilmente stipendiati dal sovrano, dall'altro sui buoni uffici dei consoli e degli ambasciatori incaricati di condurre all'estero la “guerra senza armi”, l'arte della diplomazia: il lione e la golpe, le due figure metaforicamente messe in scena nel Principe di Machiavelli. Fino al tardo Quattrocento l'Europa era ancora in gran parte uno spazio privo di grandi unità politico-territoriali compatte: il quadro mutò alla fine del secolo, quando si cominciò a parlare di Corona di Francia o di Corona d'Inghilterra, e anche la Spagna era avviata in quella direzione, anche se il processo non era ancora del tutto compiuto, in quanto Castiglia e Aragona conservavano ancora ognuno la propria corona, le proprie leggi e le proprie consuetudine. La nuova situazione, per altro, riguardava solo una parte d'Europa; altrove l'antico mosaico di formazione medievale restava ancora intatto. L'intera area distesa tra il Reno e la Polonia risultava far parte del Sacro Romano Impero, che inglobava anche parte dell'Italia settentrionale. Ma l'imperatore non esercitava un potere diretto su quei territori: i “sette grandi elettori”, cui spettava di nominare il nuovo imperatore ogni volta che quello in carica moriva, vedevano in lui una sorta di arbitro chiamato a comporre i conflitti tra le quasi mille diverse unità territoriali che componevano l'Impero, ma non il titolare di un dominio paragonabile a quello esercitato dai sovrani delle monarchie nazionali. A oriente del Sacro Romano Impero si estendevano i regni di Polonia e di Ungheria, e ancora più a Oriente il dominio degli zar di Russia. Spostandosi a Sud-Ovest, verso l'area balcanica, si entrava invece nell'Impero ottomano, i cui governanti erano di fede musulmana. Infine, nel cuore del Mediterraneo, la penisola italiana, suddivisa in un gran numero di Stati e signorie, alcuni legati al Sacro Romano Impero, altri estranei ad esso (la Repubblica di Venezia, lo Stato della Chiesa, il regno di Napoli), ma tutti muniti di scarsa forza militare. Così, un terra in cui nessuno era riuscito a far valere le virtù dell'uomo, ovvero (nel linguaggio di Machiavelli) il rispetto e il radicamento delle leggi, divenne una delle poste più ambite nel gioco della volpe e del leone, messo in pratica dai sovrani delle monarchie nazionali, e subì ripetute invasioni. Nel 1494 il re di Francia, Carlo VIII, varcò le Alpi con 30.000 uomini ben armati, deciso a conquistare il regno di Napoli, patrimonio della Corona spagnola d'Aragona. La discesa di Carlo fu travolgente e lungo il cammino si assistette allo scatenarsi di una serie di conflitti che misero a nudo la precarietà dei poteri costituiti in molti degli Stati italiani: - a Milano, un dissidio interno alla dinastia ducale degli Sforza, culminò nell'ascesa al potere di Ludovico il Moro, che colse l'occasione rappresentata dall'arrivo dei Francesi per eliminare il nipote, il quale gli contendeva lo scettro; - a Firenze venne cacciata la dinastia signorile dei Medici e proclamata la Repubblica; - a Napoli, conquistata dalle truppe francesi nel 1495, i baroni del regno si schierarono a favore del nuovo venuto e non esitarono a tradire la corona d'Aragona. Ma poco dopo essersi impadronito di Napoli, temendo di rimanere imbottigliato al fondo della penisola da una lega che pareva si stesse formando contro di lui, Carlo VIII si affrettò a ripercorrere a ritroso il tragitto e tornò in Francia, dove morì nel 1498. Già l'anno dopo, il suo successore Luigi XII organizzò una nuova spedizione al di là delle Alpi. Conquistata Milano, cercò poi di trovare un accordo con i regnanti di Spagna per spartirsi il Mezzogiorno; ma il patto firmato con Ferdinando d'Aragona non venne da quest'ultimo rispettato. Sconfitti dagli Spagnoli nel 1503 presso il fiume Garigliano, i Francesi dovettero accontentarsi dell'acquisizione del Milanese. Attaccata in un primo momento da Massimiliano I d'Asburgo, la Repubblica di Venezia seppe difendersi e uscì addirittura vittoriosa da un conflitto che le consegnò provvisoriamente Trieste e Fiume. Ma già nel 1508, contro la Repubblica marciana, chiamata così dal momento che il suo santo protettore era San Marco, si formò una lega composta, oltre che dall'imperatore, anche dalla Francia, dalla Spagna e dal papa. Dopo la sconfitta di Agnadello nel 1509, Venezia parve sul punto di cadere, invece sopravvisse, sia grazie ad un'accorta politica diplomatica, sia in virtù di una resistenza che la gente seppe opporre agli invasori. Tuttavia, da quell'anno, la Repubblica non fu più quella di prima: per restare a galla fu costretta a ridimensionarsi, cercando la sopravvivenza nell'appoggio ora dell'uno ora dell'altro alleato. Appena dopo la conclusione del conflitto della lega contro Venezia, si riaprì la questione di Milano: questa a volta a restare isolata fu la Francia, che si trovò coalizzate contro la Spagna, il papa, la repubblica elvetica e in seguito anche l'Inghilterra. Al governo di Milano tornò così uno Sforza, Massimiliano, figlio di Ludovico il Moro. Ma già nel 1515, con il nuovo sovrano Francesco I, i francesi ripresero Milano. Sembrava trovarsi finalmente di fronte alla stabilizzazione dell'equilibrio tra Corona di Spagna e Corona di Francia: ma tra il 1516 e il 1519 sopraggiunse un fatto nuovo che sconvolse ogni precedente equilibrio. Alla morte di Ferdinando d'Aragona, la Corona di Spagna passò a suo nipote Carlo d'Asburgo che, tre anni dopo, nel 1519, ereditò anche i titoli di un altro dei suoi nonni, Massimiliano d'Asburgo, incamerandone sia i possedimenti in Austria sia la posizione di arbitro del Sacro Romano Impero; il giovane venne così eletto sacro romano imperatore, assumendo il nome di Carlo V. Corona imperiale, Corona d'Austria e Corona di Spagna si trovarono così concentrate nelle mani di un solo uomo. A contenere l'ulteriore espansione del suo dominio restava solo il regno di Francia, anche se il conflitto con la Francia non fu l'unico dei problemi che Carlo si trovò a fronteggiare. Uno di questi era il conflitto in Italia. Nel 1525 conquista Milano dopo aver sconfitto i Francesi a Pavia; con questa acquisizione Carlo ottenne il risultato di creare un vasto corridoio di collegamento tra la parte austriaca e quella spagnola del suo dominio. Intimoriti dal prender forma di un potere minaccioso, Venezia e il papa strinsero un'alleanza con la Francia. Nel 1527 le truppe imperiali scesero fino a Roma e misero a ferro e fuoco la città, mentre a Firenze una nuova sollevazione spodestava ancora una volta la dinastia dei Medici. L'anno seguente i Francesi invasero di nuovo la penisola e giunsero fino alle porte di Napoli. Tuttavia l'equilibrio in Italia risultava definitivamente sbilanciato a favore di Carlo V. Il re di Francia ne prese atto e colse l'occasione per barattare la propria ritirata dalla penisola con lo scioglimento a proprio vantaggio dell'altro conflitto che in quegli anni lo vedeva contrapposto a Carlo V: quello relativo alla Borgogna. Nel 1529 la pace di Cambrai stabilì la rinuncia della Francia alla Lombardia e quella di Carlo V alle sue pretese sulla Borgogna, che da quel momento in poi divenne parte integrante dei territori della monarchia francese. Infine, con la stipulazione nel 1544 del trattato di Crepy, la situazione nella penisola italiana poté dirsi sostanzialmente fissata: - la Spagna si vedeva riconosciuto il possesso del Mezzogiorno e quello del ducato di Milano; - Venezia restava indipendente; - lo Stato Pontificio conservava anch'esso la propria sovranità; - nel cuore della pianura Padana prendeva forma il ducato di Parma e Piacenza; - sul versante nord-occidentale venne acquistando importanza un insieme di territori: i possedimenti dei duchi di Savoia. L'Italia era stata dunque, per interi decenni, teatro del gioco condotto dalle principali monarchie. Nel gioco della volpe e del leone, di cui Machiavelli aveva descritto le regole, nessun principe italiano aveva in quei decenni dimostrato di sapere veramente farsi valere. Eppure Firenze, Milano, Roma, Venezia rappresentavano ancora i centri europei più importanti della cultura rinascimentale. Figure come quelle di Niccolò Machiavelli o Ludovico Ariosto si erano proposte al vertice dell'Europa del tempo. Nel campo delle arti figurative l'Italia aveva offerto uomini del calibro di Leonardo Da Vinci, Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio. Mentre gli eserciti devastavano l'Italia, vedevano la luce opere come la Gioconda o la Cappella Sistina. Ma allo splendore rinascimentale corrispondeva l'estrema debolezza politica: non si era costituito nella penisola alcun potere sovrano autoctono, paragonabile a quelli sorti allora in altre parti d'Europa. In ciascuno degli Stati di cui si componeva la penisola, erano signori feudali o la nobiltà cittadina a dettare le regole e far valere i propri privilegi. L'immenso dominio di Carlo V (Austria, Paesi Basi, Spagna) stava subendo colpi da più direzioni. Enrico II re di Francia non esitò, pur essendo cattolico, a cercare l'alleanza con le due forze che in quel momento maggiormente preoccupavano Carlo V: i principi tedeschi che avevano aderito alla fede protestante e i Turchi Ottomani, che minacciavano l'Impero dal versante sud-orientale. I Turchi invasero l'Ungheria e, con un esercito guidato dal sultano Solimano I, misero Vienna sotto assedio; ma non riuscirono ad entrare in città, né in un caso né nell'altro. Inoltre i Turchi non cessarono di tormentare le coste iberiche e quelle dell'Italia Meridionale con scorribande e imprese piratesche. Si rivelò troppo arduo per lui tenere testa a tanti differenziati focolai di tensione: era troppo per un solo uomo. Così, tra il 1555 e il 1556 Carlo V prese la decisione di ritirarsi. Al figlio Filippo II assegnò la Corona di Spagna e i possedimenti ad essa connessi; al fratello Ferdinando I consegnò invece la Corona austriaca e la responsabilità dell'Impero. Da quel momento in poi, gli Asburgo sarebbero rimasti divisi in due rami distinti: uno spagnolo, insediato a Madrid, l'altro austriaco, localizzato a Vienna. Una volta effettuata la divisione, abbandonò gli ambienti di corte e si ritirò in un convento, dove morì due anni dopo, nel 1558. L'anno seguente, nel 1559, la pace siglata a Cateau-Cambrésis sancì la sospensione del conflitto che per mezzo secolo aveva opposto Asburgo e Valois. Il regno di Spagna e quello di Francia uscirono da quella pace confermati come i protagonisti di uno scenario nuovo, contraddistinto dall'indebolimento e in qualche caso dalla scomparsa degli Stati minori (ducati, contee, signorie, città- stato). Sul piano politico dunque l'Europa usciva semplificata; tutt'altro si presentava lo scenario religioso. 4. LA DIVISIONE RELIGIOSA DELL'EUROPA (1521 – 1555) All'inizio del Cinquecento, nella Chiesa d'Occidente, i papi, vescovi di Roma e patriarchi d'Occidente, provengono tutti da importanti famiglie nobiliari o principesche, per lo più italiane. Lo stesso accade per cardinali e vescovi, i i primi titolari delle varie parrocchie, i secondi a capo della comunità locale di credenti, con la differenza che essi sono originari dei paesi nei quali esercitano la loro funzione, ricavandone ricchi benefici e rendite. dell'Impero a una sola fede, come presupposto per affermare su di esso una sola autorità: la sua. Ma l'imperatore fu costretto, nel corso degli anni, prima a tollerare e poi ad accettare ufficialmente la coesistenza di fedi diverse da quella cattolica. Nel 1531 i principi protestanti formarono la lega di Smalcalda, alla quale però si contrappose quella dei principi cattolici, guidata dal re di Baviera: le due leghe si scontrarono a più riprese, provocando migliaia di morti. Tale scontro si concluse nel 1555 con la pace di Augusta, con la quale si giunse ad una soluzione di compromesso: mentre nelle città imperiali veniva consentita la coesistenza tra fedi diverse, nei principati territoriali i sudditi venivano obbligati ad aderire alla fede professata dai rispettivi sovrani. Per chi sentiva come propria una fede diversa, l'alternativa era quella di andarsene altrove, a patto di disporre delle libertà di movimento, cosa tutt'altro che ovvia in una società nella quale i vincoli personali di natura feudale erano ancora pesanti e opprimenti. Il principio dell'obbedienza religiosa diventava così presupposto per quello dell'obbedienza politica. Se ciò ebbe da un lato l'effetto di rafforzare la coesione interna di ciascuno degli Stati che costituivano l'Impero, dall'altro contribuì al perdurare del suo carattere policentrico e frastagliato. Il sogno dell'imperatore risultava ormai del tutto impraticabile, e perfino i principi rimasti cattolici vedevano ora di buon occhio l'esito politico sancito dalla pace di Augusta, ovvero l'indebolimento imperiale. Una volta messo in discussione il principio dell'obbedienza alla dottrina cattolica, e sottolineato il valore della sola Sacra Scrittura come fonte di orientamento per i cristiani, si apriva per ognuno l'opportunità di interpretare liberamente la parola di Dio contenuta in quei testi. Nel 1523, a Zurigo, Ulrich Zwingli elaborò una propria versione della Riforma, più radicale di quella proposta da Lutero, che prevedeva una lettura del Vangelo in chiave fortemente comunitaria e rigorista. L'anno seguente, centinaia di migliaia di contadini di vaste aree della Germania, guidati dal predicatore Thomas Müntzer, proposero una loro personale interpretazione della parola di Dio basandosi sull'apprezzamento di Müntzer dei passi dei testi sacri in cui si parlava dell'eguaglianza e della fratellanza tra gli esseri umani, tutti allo stesso modo figli di Dio. Oltre al clero, i contadini guidati da Müntzer, volevano eliminare anche i signori; e infatti, oltre ai conventi, nel corso della loro rivolta dettero alle fiamme anche i castelli nobiliari. Per sconfiggere la loro ribellione, che minacciava di tramutarsi in rivolta sociale, i principi cattolici e quelli protestanti formarono un esercito comune, massacrando 100.000 uomini. Catturato nel 1525, il predicatore venne torturato e poi decapitato, con l'approvazione di Lutero, che non aveva alcun interesse ad uno slittamento della Riforma dal piano religioso a quello politico- sociale. Altrettanto drammatico fu nel 1535 il massacro della comunità radicale degli anabattisti che si era formata nella città di Münster: venne assediata, espugnata e rasa al suolo ad opera di un esercito allestito dai principi cattolici e da quelli protestanti. Molte altre furono le correnti che si svilupparono all'interno della Riforma; ma una di esse, in particolare, conobbe grande fortuna: il calvinismo. Nel 1534 Giovanni Calvino, influenzato dalle idee di Lutero, aveva abbandonato la cattolica Francia rifugiandosi nella città di Ginevra. Qui nel 1541 era riuscito a dare vita ad un modello di Chiesa che, pur accogliendo alcune delle tesi principali esposte da Lutero, come l'individuazione della Sacra Scrittura come fonte esclusiva per la fede e il ridimensionamento del ruolo del clero, se ne differenziava in alcuni punti. La Chiesa calvinista chiedeva ai credenti una disciplina individuale ancora più rigorosa e intransigente: ne derivava il forte impegno del cristiano tanto nella vita di fede quanto in quella mondana. Il lavoro veniva considerato come una vocazione che ciascuno era tenuto a onorare con il massimo impegno, concependo la propria attività professionale come una quotidiana glorificazione a Dio. Il successo professionale dei singoli era dunque da valutare come un segno della benevolenza divina. Ma accanto a questo messaggio fortemente individualista, il calvinismo ne irradiò anche uno parallelo, di impronta profondamente comunitaria. La Chiesa calvinista si configurò infatti come un'istituzione governata dal basso, attraverso un organo denominato Concistoro, eletto dai fedeli. Luteranesimo e calvinismo si espansero e si radicarono anche al di fuori delle aree in cui le due confessioni avevano preso forma. Il luteranesimo divenne religione di Stato, oltre che in diversi principati tedeschi, anche in Svezia, Danimarca, Norvegia e Islanda. Il calvinismo ebbe successo in Francia, dove gli aderenti a questa confessione presero il nome di ugonotti, Paesi Bassi, Scozia, Polonia, Boemia, Ungheria, Inghilterra. Ma quasi ovunque si caratterizzò come una fede di opposizione: tra le idee elaborate da Calvino c'era infatti quella secondo cui il buon cristiano doveva obbedienza alle autorità secolari solo a patto che queste ultime emanassero norme conformi alla Sacra Scrittura; in caso contrario le si poteva dichiarare illegittime e abbatterle. In virtù di questa sua carica antiautoritaria, il credo calvinista avrebbe costituito uno degli elementi determinanti nel processo di liberalizzazione politica dell'Europa alla fine del Cinquecento. Anche l'Inghilterra ebbe la sua riforma religiosa: a promuovere il distacco, in primo luogo politico, dalla Chiesa di Roma fu Enrico VIII Tudor che, tra il 1532 e il 1535, ordinò prima il trasferimento dei poteri del papa sul clero inglese all'arcivescovo di Canterbury, poi si proclamò capo supremo della Chiesa d'Inghilterra; in seguito incamerò i beni del clero disponendo la chiusura dei conventi. Solo durante il regno del suo successore Edoardo VI si giunse ad una modifica della liturgia, formalizzata nel Book of Common Prayer del 1549, che segnava il passaggio di fatto della Chiesa d'Inghilterra tra quelle riformate. Quando nel 1553 salì al trono Maria Tudor, sorellastra di Edoardo e profondamente cattolica, la riforma in atto venne bloccata e la regina riaffermò la propria fedeltà a Roma. Durante il successivo regno di Elisabetta I si assistette però ad una ripresa del processo che Maria aveva interrotto. Nel 1562, con l'emanazione dei cosiddetti “39 articoli di fede”, prendeva ufficialmente forma l'anglicanesimo, una confessione nella quale si mescolavano componenti luterane e calviniste a elementi cattolici. I fedeli erano tenuti all'obbedienza al sovrano e non al papa. In Italia luteranesimo e calvinismo sostanzialmente non si radicarono; al contrario, la penisola divenne la base strategica per un rilancio della Chiesa cattolica che si rinnovò al fine di contrastare l'avanzata delle rivali. Papa Paolo III convocò nel 1545 un Concilio allo scopo di esaminare le questioni dottrinarie; esso iniziò i suoi lavori a Trento, città di confine tra il mondo tedesco e l'Italia, ma venne ripetutamente interrotto a causa delle vicende belliche e per qualche anno la sua sede venne spostata a Bologna. I suoi lavori si conclusero nel 1563 e ciò che ne scaturì fu una riproposizione ufficiale dei cardini della dottrina della Chiesa di Roma. Alla riforma proposta da Lutero e Calvino, che rivendicavano il diritto di libera interpretazione delle Sacre Scritture, la Chiesa romana contrappose il valore della tradizione, il peso e l'autorità di secoli di interpretazioni consolidate e condivise da tutta la comunità. Venne ribadita l'importanza delle “buone opere” e mentre in tutte le Chiese riformate le funzioni venivano svolte nella lingua locale, in quella cattolica si insistette per la loro effettuazione in latino, lingua ormai conosciuta solo dal clero. Anche questo fu un modo per riaffermare il carattere sacrale e separato del clero rispetto al laicato. Ma in realtà anche i vertici della gerarchia cattolica sapevano bene che molte delle critiche sollevate da Lutero, quali corruzione e mondanizzazione, colpivano nel segno. Se il clero doveva continuare ad essere un ceto eletto, mantenuto dai fedeli e munito di diritti speciali, allora era necessario che esso venisse formato in modo da assolvere degnamente questa funzione. Di qui l'emanazione di una serie di norme: - il rafforzamento delle prerogative disciplinari dei vescovi, cui venne imposto l'obbligo di eseguire ogni due anni una visita alla propria diocesi e di punire eventuali abusi del clero che vi operava; - l'istituzione di seminari diocesani per la formazione dei sacerdoti; - la spinta ad un intenso apostolato sociale, nei Paesi cattolici, e missionario, nei Paesi che non erano più o che non lo erano mai stati. Si assistette di fatto a una fioritura di ordini religiosi di vita attiva, dediti alla carità, all'evangelizzazione e all'educazione. Il più importante fu quello dei gesuiti, fondato dallo spagnolo Ignazio di Loyola, sia in Europa, dove si specializzarono nella formazione educativa dei giovani dei ceti dirigenti, sia in Asia e America, dove la Chiesa di Roma sperava di acquisire nuovi adepti. Ma l'aspetto forse più importante della cosiddetta Controriforma consistette nell'allestimento di strumenti per il controllo dei laici, oltre che dei chierici. I parroci esercitarono una vigilanza capillare sulla vita quotidiana dei fedeli: erano incaricati della tenuta dei registri di battesimo, di matrimonio, di sepoltura ed erano tenuti a far sì che i precetti religiosi (comunione e confessione) venissero regolarmente assolti dalla popolazione. Forse solo a partire da quest'epoca la popolazione rurale cominciò a divenire davvero intimamente partecipe della propria appartenenza alla Chiesa, dopo che per secoli la superficiale adesione al cristianesimo aveva coesistito con il perdurare di culti e credenze di origine pagana. Allo stesso modo svolsero una funzione di controllo alcune istituzioni centrali della Curia romana: - la Congregazione dell'Inquisizione, che operava attraverso un giudice straordinario, l'inquisitor, di solito un ecclesiastico in stretto rapporto con il vescovo locale, che si affiancava ai giudici laici per ricercare e accertare la presenza di eretici, di cristiani aderenti a dottrine eversive rispetto all'ortodossia cattolica. Essa colpì soprattutto Albigesi, Catari, Valdesi, Lollardi, Ussiti. Nel 1483 fu istituita l'Inquisizione spagnola, che avrebbe dovuto estirpare l'Islam e l'ebraismo dai territori della Corona di Spagna; nel 1542 fu istituita l'Inquisizione romana con lo scopo di combattere la riforma. - La Congregazione dell'Indice, che aveva il compito di analizzare le opere a stampa e di decretarne la congruenza o meno con i principi della dottrina cattolica. Una prima edizione dell'Indice dei libri proibiti venne pubblicata nel 1559, dove figurava l'intera opera di Erasmo da Rotterdam. Le due Congregazioni si specializzarono in condanne al rogo: la prima di esseri umani, la seconda di libri. Nell'Europa cattolica, infatti, il controllo della Chiesa sulla cultura e sulla riflessione intellettuale e scientifica si accentuò fortemente; ma anche le Chiese riformate svilupparono tendenze fortemente repressive e intolleranti. 5. ECONOMIA, GUERRA E SOCIETÀ (1560-1648) Il secolo che si colloca tra le metà del Cinquecento e la metà del Seicento appare ricco di tensioni: i della notte di San Bartolomeo in cui morirono circa tremila ugonotti accorsi a Parigi per il matrimonio. A questo punto insorsero le province del sud-est della Francia, dove maggiormente il calvinismo si era radicato, e si proclamarono repubblica indipendente. In nome della religione la Francia era dunque spaccata in due. La conciliazione si ebbe nel 1593: il trono di Francia andò a Enrico di Borbone, che assunse il nome di Enrico IV, ma questi, all'atto di salirvi, abiurò la propria fede, convertendosi al cattolicesimo. Pur abbandonando la fede calvinista, Enrico IV riuscì comunque ad offrire protezione ai riformati: con l'editto di Nantes del 1598 agli ugonotti venne accordata una serie di diritte e garanzie che resero di fatto possibile e rispettata una pratica di fede diversa da quella cattolica sul suolo francese. Anche gli Asburgo d'Austria avevano assunto un atteggiamento tollerante nei confronti delle fedi riformate. Rodolfo II, in particolare, nel 1609 aveva riconosciuto ufficialmente la libertà di culto per i nobili e per i cittadini della Boemia, di cui buona parte era passata al calvinismo. Tuttavia il conflitto religioso si fece avvertire di nuovo cupo e minaccioso. Nelle città dell'Impero la coesistenza tra le fedi da tempo non era più pacifica. I protestanti esercitavano nuove pressioni per far chiudere conventi e luoghi di culto cattolici; i cattolici, dal canto loro, cercavano di organizzare una controffensiva, affidandosi all'opera dei gesuiti. La Germania, le province soggette al diretto dominio degli Asburgo d'Austria, la Polonia, si trovavano di fronte all'alternativa: protestantesimo o ricattolicizzazione? Nel 1608 era stata fondata l'Unione evangelica, guidata dai principi riformati e appoggiata dalla Francia e dalla nobiltà austriaca e boema; l'anno dopo era stata istituita la Lega cattolica, diretta dal re di Baviera e sostenuta dalla Spagna. Dieci anni più tardi divampò un conflitto, la cosiddetta Guerra dei Trent'anni, che, sulla base di motivazioni religiose e politiche, coinvolse quasi tutte le potenze europee e che devastò la Germania. Mattia d'Asburgo, erede di Rodolfo, si era rifiutato di praticare la politica di tolleranza religiosa praticata dal suo predecessore e aveva inviato in Boemia due rappresentati incaricati di ricondurre le popolazioni di quel paese all'obbedienza. La risposta dei Boemi fu quella di gettare da una delle finestre del palazzo imperiale di Praga gli inviati di Mattia, i quali peraltro si salvarono. L'anno seguente, a Mattia successe Ferdinando II, deciso a seguirne l'esempio e a cercare di ricattolicizzare il Paese. Ma l'assemblea dei ceti di Boemia si rifiutò di riconoscerlo come re e investì della corona del regno Federico V del Palatinato, di fede calvinista. La Lega cattolica si schierò accanto a Ferdinando e contro Federico, il quale a sua volta ottenne il sostegno dell'Unione evangelica. Nel 1620 i cattolici inflissero una rovinosa sconfitta ai protestanti presso una località denominata la Montagna Bianca: ne conseguì la ricattolicizzazione forzata della Boemia. Sollecitata dalla Francia, entra in gioco anche un'altra potenza protestante: la Svezia del luterano Gustavo II Adolfo Vasa. Nel 1630 gli Svedesi invasero la costa orientale tedesca e di lì discesero in Germania fino a Monaco di Baviera, devastando ciò che trovarono lungo il loro cammino. Ma nel 1634 gli Svedesi furono sconfitti dai cattolici a Nordlingen e l'anno seguente, con la pace di Praga, si giunse ad una provvisoria composizione del conflitto. Mentre i principi protestanti giurarono nuovamente sottomissione all'imperatore, quest'ultimo dal canto suo, si impegnò a rinunciare, almeno per il momento, a imporre loro la restituzione dei beni della Chiesa. Ma il conflitto era solo apparentemente concluso. A questo punto, fu la Francia di Luigi XIII e del suo ministro, il cardinale Richelieu, a prendere l'iniziativa e a dichiarare guerra agli Asburgo, stipulando contemporaneamente un'alleanza militare con la Svezia. Così, tra gli anni Trenta e i Quaranta la Germania conobbe nuovi orrori: mentre gli Svedesi vincevano nella Germania settentrionale, i Francesi dilagarono nella Germania meridionale. Qualche anno più tardi, la pace di Vestfalia, una serie di accordi tra le varie potenze siglati tra il 1645 e il 1648, fissò un nuovo quadro politico-territoriale: - uscivano sconfitti gli Asburgo di Madrid, costretti a riconoscere ufficialmente l'indipendenza delle Province Unite, e gli Asburgo di Vienna, ridimensionati dalla resistenza dei principi protestanti e costretti ad accettare la presenza la presenza della Chiesa calvinista all'interno dell'impero; - la palma della vittoria spettava alla Francia, che si assicurò significative acquisizioni territoriali oltre il Reno; alla Svezia, che si garantì una porzione cospicua della costa nord- orientale tedesca e rafforzò il proprio dominio sul Baltico; infine all'Olanda. Nel cuore dell'Europa, cattolicesimo e protestantesimo conservarono così ciascuno il proprio ruolo, coesistendo nei secoli seguenti secondo le regole fissate dalla pace di augusta, disattese a più riprese e infine riconfermate dai patti di Vestfalia. La popolazione della Germania si era ridotta di quasi un terzo; e in seguito al calo demografico si era assistito ad un arretramento delle terre coltivate. Ma la crisi demografica non aveva colpito solo la Germania; fame e pestilenze avevano colpito anche altrove, per esempio nell'intera Europa mediterranea. Altri fattori contribuirono a proiettare sul Seicento l'ombra cupa della crisi e del regresso: la cosiddetta “piccola glaciazione”, che comportò l'abbassamento di un grado della temperatura media dell'Europa, causando ritardi nei raccolti e cali nelle rese, con il conseguente peggioramento delle prestazioni della produzione agricola. Eppure è difficile parlare del Seicento come di un secolo contraddistinto dalla crisi. Mentre infatti aree come la Germania e il Mediterraneo conobbero un regresso, paesi come l'Inghilterra, l'Olanda, la Svezia furono protagonisti di uno slancio. Era evidente che il baricentro della civiltà europea si era spostato dal Mediterraneo verso le coste nord-occidentali. Il Seicento europeo fu insomma un secolo di luci e ombre. 6. LA CULTURA EUROPEA AL BIVIO Nell'anno 1600 era stato arso in una piazza di Roma Giordano Bruno, colpevole di rifiutarsi di recedere dalle proprie opinioni filosofiche e teologiche, che i tribunali ecclesiastici avevano ritenuto eretiche. Il 22 Giugno del 1633 il grande scienziato Galileo Galilei viene condannato, giudicato sospetto d'eresia per aver esposto la “falsa opinione” che era il Sole, e non la Terra, a costituire il centro immobile di un sistema al cui interno il nostro pianeta non era che uno dei tanti corpi in rotazione attorno alla sfera solare. Già ammonito dalle autorità ecclesiastiche nel 1616 ad astenersi dal difendere quella “falsa opinione”, formulata per la prima volta nel 1543 da Copernico. Nel 1623 era infatti salito al soglio pontificio, con il nome di Urbano VIII, il cardinal Barberini, suo estimatore; da lui lo scienziato si aspettava un atteggiamento di tolleranza verso le sue ricerche, anche nel caso che esse paressero contraddire la dottrina della Chiesa. Ma quello che Urbano VIII si era potuto permettere da cardinale, non poté consentirselo da papa. Così, dopo le ammonizioni, giunsero il processo, la condanna e l'abiura. La convinzione che la Terra fosse immobile e che costituisse il centro dell'universo aveva radici millenarie che risalivano ad Aristotele e poi a Tolomeo. I padri della Chiesa l'avevano ripresa e fatta propria. Da un lato, infatti, essa pareva trovare conferma nelle Sacre Scritture, dall'altro si integrava perfettamente con l'impostazione morale e gerarchica che stava a fondamento della dottrina ecclesiastica. Aristotele e Tolomeo avevano ritenuto che l'universo fosse formato da due diverse componenti: - un mondo celeste, il mondo della perfezione, fatto di etere e costituito dalle stelle, dal Sole e dai pianeti; - il mondo terrestre, immobile centro del sistema, composto di aria, acqua, terra e fuoco, scenario di rappresentazione dell'imperfezione umana. Con le sue osservazioni al cannocchiale, Galilei era giunto alla conclusione che il Sole, i pianeti e le stelle erano fatti non di etere ma della stessa materia della Terra; il che equivale a negare qualsiasi distinzione qualitativa tra mondo celeste e mondo terrestre. Il clima culturale e gli orizzonti mentali entro i quali gli Europei si trovarono immersi dall'epoca della Riforma in poi, furono in generale profondamente cupi e oppressivi. L'epoca dei conflitti religiosi riportò in primo piano i temi della subordinazione dell'uomo a Dio e del drammatico tormento dell'esistenza umana: un sentimento che in pittura è ben espresso da Caravaggio e in letteratura da Tasso. Tra gli strati più umili della popolazione, l'oscurantismo, cioè l'opposizione alla diffusione delle nuove conoscenze e ai valori del progresso, alimentato dalla nuova centralità della dimensione religiosa, si impose come orientamento prevalente. Tra il 1580 e il 1640 toccò il suo apice in tutta Europa un altro fenomeno, quello della caccia alle streghe, e le Chiese non esitarono ad incoraggiarla. Posti sotto il segno dell'ossessione e della superstizione, quelli tra il Cinquecento e il Seicento furono dunque decenni di paura. 7. RIVOLUZIONI E RIVOLTE NELL'EUROPA DEL SEICENTO Nel cuore del Seicento, in molti paesi europei, il potere dei re viene messo apertamente in discussione da movimenti di protesta. Aumentare la pressione fiscale, imporre il conformismo religioso erano le aspirazioni dei sovrani del Seicento, che suscitarono quasi ovunque la protesta della popolazione: nobili, borghesi, contadini, popolani; lo fecero per motivazioni religiose, politiche, sociali, economiche. Ne scaturirono risultati molto diversi: la sconfitta definitiva dell'autoritarismo regio e la consegna alla cittadinanza del potere legislativo in Inghilterra; il consolidamento della sovranità monarchica in Francia; l'indebolimento del potere dei re in Spagna. In Inghilterra, in particolare, il conflitto durò per quasi tutto il secolo. Fino al 1603 Inghilterra, che comprendeva anche l'Irlanda, e Scozia costituivano due regni distinti: la corona inglese era appannaggio della dinastia dei Tudor e quella scozzese della dinastia degli Stuart. Quando, nel 1603, Giacomo I Stuart successe a Elisabetta Tudor, morta senza eredi, le due corono si trovarono unificate nella stessa persona, che divenne così sovrano sia dell'Inghilterra che della Scozia. I tre paesi si distinguevano profondamente sia sul piano delle leggi che su quello religioso: erano tre Stati diversi sotto una stessa corona. Alla Chiesa anglicana d'Inghilterra si contrapponeva la Chiesa presbiteriana in Scozia e quella cattolica in Irlanda. I contrasti erano inoltre aggravati dalla presenza, nella stessa Inghilterra, di correnti di opposizione all'anglicanesimo: da un lato quella dei puritani, che simpatizzavano per la Chiesa presbiteriana, dall'altro quella di una minoranza cattolica. qualcosa di diverso dal Parlamento inglese; in Francia, infatti, ce n'era uno per ogni provincia, e i suoi membri erano gli officiers. esponenti della nobiltà di toga. Gli officiers delle varie provincie, irritati in seguito all'introduzione di un'imposta straordinaria ai loro danni, incaricarono il Parlamento di Parigi di stilare un piano di rivendicazioni. Nel piano veniva dichiarata illegittima qualsiasi tassa che non avesse ricevuto preventivamente il benestare dei Parlamenti e si contestava il diritto del re a procedere ad arresti effettuati secondo le consuetudini giudiziarie. Gli officiers convenuti a Parigi intendevano insomma limitare il potere della monarchia. Essi furono di costringere il re, il piccolo Luigi XIV, e la sua corte alla fuga dalla capitale; ma già nel 1649, di fronte al timore di una eccessiva radicalizzazione sociale della protesta, i ribelli preferirono venire a patti e siglarono una pace, in base alla quale alla corte venne garantito il rientro a Parigi, in cambio di alcune delle richieste formulate dagli insorti. Appena un anno dopo fu invece l'aristocrazia feudale, che pure s'era schierata fin'ora a fianco del monarca, a sfidare il potere del re, scatenando la cosiddetta Fronda dei Principi. Anche in questo caso a suscitare la rivolta fu soprattutto l'insofferenza nei confronti del fiscalismo e dell'autoritarismo dell'amministrazione statale. L'alta aristocrazia, nonostante esente dalle tasse, pativa infatti tanto per la crescita dell'influenza degli intendenti, che le sottraevano competenza e ne oscuravano il prestigio, quanto per l'ascesa della nobiltà di toga. Per questo i nobili di spada si misero alla testa della protesta. Essa perse però ben presto il controllo della situazione e per quasi tre anni la Francia fu tormentata da una serie di rivolte locali; ne derivò una situazione di caos generalizzato: il Paese venne messo a ferro e fuoco dalle scorribande di eserciti locali e venne infiacchito dalle carestie. Nel 1653 il giovane Luigi XIV fu comunque in grado di rientrare nella capitale. Negli anni Quaranta la situazione si ripeté in Spagna, dove il ministro Olivares aveva delineato fin dagli anni Venti una riforma accentratrice che prevedeva l'imposizione delle stesse leggi e degli stessi ordinamenti vigenti in Castiglia anche in tutti gli altri Paesi sotto il dominio spagnolo. A respingere per prime il progetto di Olivares furono la Catalogna e il Portogallo. A Barcellona, capitale della Catalogna, la protesta venne guidata dalle Cortes, una assemblea rappresentativa, che nel 1640 costrinsero il viceré inviato da Madrid a fuggire dalla città e l'anno seguente proclamarono l'annessione della Catalogna alla Spagna. Nello stesso anno anche l'aristocrazia portoghese si ribellò all'accentramento madrileno e insediò sul trono il duca di Braganza, che divenne re col nome di Giovanni IV. Mentre la Catalogna venne ripresa dagli eserciti castigliani nel 1652, il Portogallo conservò l'indipendenza che gli venne ufficialmente riconosciuta dalla Spagna nel 1668. Anche nel Mezzogiorno spagnolo della penisola italiana gli anni Quaranta furono contraddistinti da violente ribellioni; ma qui i protagonisti furono soprattutto popolani. A Palermo, nel 1647, il viceré venne costretto prima a sospendere l'esazione delle imposte, poi a cedere il governo della città alle maestranze, ovvero alle organizzazioni degli artigiani. Anche a Napoli, nello stesso anno, la popolazione scese in piazza in una sollevazione guidata inizialmente dal pescivendolo Tommaso Aniello, detto Masaniello, che fece dare alle fiamme i palazzi degli esattori delle imposte e dei baroni. Masaniello venne però ucciso dopo dieci giorni dai suoi stessi compagni. A prendere in mano le redini della rivolta furono allora gli esponenti della borghesia commerciale e professionale. A Napoli venne proclamata la repubblica; ma intanto nelle campagne dilagava la protesta sociale delle popolazioni contadine, che assaltavano le tenute dei baroni. Dalla protesta contro le tasse e contro l'accentramento si passava così a quella contro gli strati sociali privilegiati. La lotta contro lo Stato e la sua crescente invadenza, tendeva a divenire la lotta per un diverso assetto della società, per un maggior equilibrio nella distribuzione delle risorse e del potere. Tanto a Palermo quanto a Napoli le rivolte del 1647 vennero soffocate: a Palermo in modo graduale, con la revoca, nei decenni, delle concessioni strappate dagli insorti; a Napoli in forza sia dell'arrivo della flotta spagnola, che nel 1648 obbligò la repubblica a capitolare, sia della riscossa degli eserciti baronali nelle campagne. Le rivolte seicentesche nei domini spagnoli sortirono comunque, nel loro insieme, l'esito di indebolire notevolmente il governo di Madrid. 8. LO STATO ASSOLUTO TRA SEICENTO E SETTECENTO La Francia costituì il modello per tutti gli assolutismi europei. La governò, dal 1661 al 1715, Luigi XIV di Borbone. Al momento dell'ascesa al trono trovò davanti a sé un Paese dilaniato da anni di sommosse e guerra civile ed economicamente prostrato; le casse dello stato erano vuote e la finanza pubblica era gravata dai debiti. Lo Stato, così come lo intendiamo noi oggi, era presente solo in modo discontinuo e incoerente: all'interno del territorio esistevano infatti decine di consuetudini legali diverse; le città, protette dalle loro mura, costituivano vere e proprie isole, ognuna governata in base ad uno statuto, che ne tutelava l'indipendenza. Le leggi emanate dal re valevano solo da riferimento generale: venivano applicate con procedure diverse da luogo a luogo, talvolta modificate o ignorate. Alcune aree, i cosiddetti Pays d'État, erano di fatto governate dagli Stati Provinciali, assemblee rappresentative composte prevalentemente da aristocratici ed ecclesiastici, che avevano la facoltà di contrattare col re modalità e importo dell'esborso fiscale e provvedevano poi a ripartirlo tra gli abitanti del territorio, esentandone i ceti privilegiati. Il re era dunque costretto a prendere accordi separati con ciascun corpo della società. L'assolutismo di Luigi XIV, cui dette forma affermando “lo Stato sono io”, consistette nell'aspirazione a porre limiti a questa varietà e ad elevare il potere dello Stato al di sopra di quello delle numerose autorità locali. Cercò pertanto di ideare e imporre nuove norme, creando un nuovo ordine. Fino all'avvio del suo regno, i Parlamenti godevano della facoltà di impedire o ritardare l'entrata in vigore di nuove leggi; il nuovo sovrano obbligò invece i Parlamenti a registrare comunque gli editti, consentendo loro eventualmente solo in un secondo momento di avanzare rimostranze, che per altro respinse. Per ottenere poi l'effettiva applicazione delle leggi, provvide ad allestire un apparato di funzionari, i quali potevano venire liberamente nominati e, se necessario, revocati dal re. Luigi XIV riorganizzò il governo, assumendone direttamente la direzione e ripartendone le funzioni tra ministri muniti di competenze specialistiche, tutti di estrazione borghese. Istituì un collegamento tra il governo centrale e il territorio, mediante le figure degli intendenti, funzionari preposti alle géneralités, le 30 circoscrizioni amministrative in cui suddivise il territorio francese. Gli intendenti vennero muniti di ampi poteri in materia fiscale, giudiziaria e militare. Gradatamente la popolazione si abituò a riconoscere in loro gli interpreti di una volontà e di una legge, quella del re. Ma la politica di Luigi XIV era tesa anche e soprattutto a rendere la Francia più ricca e più potente. Fu soprattutto il ministro Jean Baptiste Colbert ad elaborare un progetto per la guida dell'economia del Paese: il piano prevedeva sia il pareggio dei conti pubblici, sia il potenziamento della manifattura e dell'industria francese. L'insieme delle iniziative che intraprese viene definito mercantilismo, atto a proteggere l'industria del Paese attraverso il rincaro artificiale del costo della produzione estera, ottenuto per mezzo di dazi doganali; lo scopo di questa manovra è quello di far entrare nel Paese, attraverso le esportazioni, più denaro di quanto non ne esca, attraverso le importazioni, e quindi fare in modo che la Francia producesse da sé tutti i manufatti. Essenzialmente si tratta di nazionalismo economico. Fece allestire fabbriche di Stato e si sforzò di avvicinare l'una all'altra le varie aree economiche della Francia: a tal fine introdusse il servizio pubblico di posta e organizzò la costruzione di nuove infrastrutture: strade, ponti, canali navigabili. A prescindere dai risultati ottenuti, della politica mercantilistica va sottolineata soprattutto la novità: era la prima volta, nella storia europea, che il pubblico potere prendeva iniziative così sistematiche sul piano economico. Per ridurre il pluralismo e la varietà del territorio francese era necessario anche piegare le resistenze e le dissidenze. Importante sembrava soprattutto sollecitare l'attitudine all'obbedienza sul terreno religioso, quello in cui più intensamente trovava espressione la libertà di coscienza dei singoli. A tale scopo Luigi XIV fece il possibile per incrementare l'autonomia della Chiesa cattolica di Francia, detta gallicana, rispetto a quella di Roma e nel 1682 ne appoggiò un aperto scontro con il papa. Successivamente chiese ed ottenne la condanna del giansenismo dal pontefice. Ma la dissidenza religiosa che il sovrano temeva di più era quella calvinista, in ragione della grande importanza che quel culto aveva per i singoli individui: i calvinisti rappresentavano agli occhi del sovrano una minaccia all'uniformità della fede e alla possibilità di manipolare attraverso questa le coscienze. Nel 1685 il sovrano ordinò la revoca dell'editto di Nantes, che aveva consentito per quasi un secolo l'esercizio del culto calvinista all'interno della Francia: in pochi mesi 200.000 ugonotti abbandonarono il Paese, e con loro se ne andava il meglio della borghesia mercantile e finanziaria della Francia. Così questo passo si tradusse in una perdita economica per lo Stato. Più ancora che la burocrazia, fu in realtà l'esercito lo strumento che consentì al re di Francia di far avvertire in modo efficace la propria pressione sul Paese. Il numero degli arruolati crebbe smisuratamente: tra questi, oltre a volontari e a vagabondi, erano presenti anche militi estratti a sorte in ciascuna parrocchia e da questa mantenuti. Ci si trovava davanti alle prime prove di un sistema che un secolo più tardi si sarebbe consolidato nella forma del servizio militare obbligatorio. E l'esercito francese era di fatto lo strumento più efficace per il controllo dell'ordine pubblico e per la repressione delle rivolte, anche con massacri e devastazioni. L'assolutismo impose alla Francia anche un aumento del carico fiscale. Burocrazia, esercito e tasse sono tre elementi, del resto, strettamente correlati, dal momento che, per dilatarsi, i primi due avevano bisogno dei proventi forniti dal fisco. Fu così che l'esercito arrivò ad assorbire fino a due terzi della spesa pubblica. I ministri finanziari ricorsero ad espedienti tradizionali, come la vendita di cariche pubbliche o l'introduzione di nuove tasse. Due di queste soprattutto vanno ricordate; la capitazione, introdotta nel 1695 che consiste in un'imposta riscossa su ciascuna testa, intendendo in genere ogni maschio adulto, e il suo ammontare era uguale per tutti e dunque colpiva in misura maggiore i poveri; il decimo, introdotta nel 1710 che consiste in un'imposta proporzionale (10%) al reddito di ciascun individuo. In teoria queste imposte avrebbero dovuto colpire tutti, tranne gli ecclesiastici, senza distinzioni di ceto; di fatto i nobili furono in grado di difendere i loro privilegi, continuando a pagare pochissimo o addirittura ad esimersi dal farlo. Non c'è da stupirsi, quindi, se la morte di Luigi XIV avvenuta nel 1715 venne salutata da grandi manifestazioni di felicità. Eppure all'estero lo Stato assoluto francese aveva suscitato grande ammirazione; ai sovrani degli altri Paesi le legislazione unitaria era parsa come un obiettivo da perseguire per garantire il Sono guerre lunghe, ma non intense; si basano su snervanti assedi, condotti allo scopo di costringere l'avversario alla resa per fame o per mancanza di rifornimenti, non a quello di annientarlo. Le si combatte solo per alcuni mesi l'anno, quando le condizioni climatiche sono meno disagevoli. Sono inoltre guerre che non prevedono un coinvolgimento attivo delle popolazioni, né un largo ricorso ad esse come forza da schierare in campo, o come possibile obiettivo di distruzione. L'ideale di Federico II il Grande, re di Prussia, era che i suoi sudditi neppure si accorgano che il loro re sta conducendo una guerra. Scopo di ogni sovrano era infatti quello di ingrandire i propri possedimenti territoriali, conservando al tempo stesso intatta la popolazione, necessaria per lavorare la terra e per ricavare prelievi fiscali. La guerra era per le popolazioni dell'epoca un fatto quasi quotidiano; nell'esistenza di ciascun individuo la guerra si presenta, pertanto, come la regola e non come una condizione eccezionale. I civili si accorgono appena di quello che sta accadendo e per lo più proseguono la loro vita normale. La grande novità che caratterizza il secolo delle guerre è la formazione di eserciti statali professionali e permanenti; novità strettamente legata al fenomeno dell'assolutismo. Quello di soldato diventa un mestiere stabile. Tali eserciti sono formati essenzialmente da volontari che vengono arruolati da ufficiali-reclutatori e che ricevono un compenso al momento del loro ingresso nei reggimenti e poi uno stipendio regolare per tutto il tempo del loro servizio. Anche le cariche da ufficiale, che in precedenza erano spesso venali, si potevano cioè ereditare, acquistare o vendere, diventano in gran parte cariche professionali, attribuite dallo Stato e per ottenerle è necessario frequentare istituti statali di formazione. Gli ufficiali sono soprattutto nobili; mentre molti soldati sono stranieri, altri nazionali, in parte prigionieri di guerra, in parte uomini originari di territori che normalmente non ingaggiano guerre, per esempio la Svizzera, e che sono invece specializzati proprio nella fornitura di soldati professionali agli altri Paesi. Sono in genere mendicanti o vagabondi arruolati a forza, e non di rado criminali ai quali la vita delle armi viene proposta come alternativa alla prigione, o debitori tirati fuori dalla galera a condizione di arruolarsi; infine disoccupati forzati ad intraprendere quest'avventura. Molti venivano indotti ad arruolarsi con minacce e tranelli; mettere insieme un esercito non era una facile impresa, non solo per la scarsa propensione della popolazione, ma anche perché mantenere un corpo stabile di armi costava molto. Per questo i sovrani di quest'epoca furono costretti ad aumentare in modo considerevole la pressione fiscale. Per formare armate così numerose però i volontari non bastavano più: fu allora che, poco prima della metà del Settecento, venne introdotto quasi ovunque un sistema di coscrizione, ovvero di servizio militare obbligatorio temporaneo (in genero un paio d'anni) e non retribuito. In linea di principio avrebbero dovuto arruolarsi tutti i sudditi maschi in buona salute e in età adatta alle armi (dai 16 ai 40); ma le categorie esenti erano numerose: nobili ed ecclesiastici, uomini sposati, avvocati, notai, funzionari pubblici, maestri artigiani. Tuttavia l'introduzione della coscrizione incontrò resistenze e proteste fortissime in molti Paesi; indusse la popolazione ad aguzzare l'ingegno: ad esempio, in Francia, una volta entrata in vigore la regola che prevedeva l'esenzione per gli ammogliati, gli uomini cominciarono a sposarsi presto. Oltre che sulla carta geografica, il secolo delle guerre lasciò una traccia profonda anche nella coscienza dei sudditi: dal mondo delle caserme l'abitudine al controllo e alla disciplina si irradiò in tutta la società. Le guerre furono meno devastanti che in passato, ma i sudditi divennero ancora più sudditi. 10. L'ILLUMINISMO Nel corso del Settecento, in tutta Europa, vennero istituite per iniziativa privata associazioni laiche che avevano lo scopo di favorire la libera socializzazione e proponevano di incoraggiare la diffusione della cultura e della scienza. Per farne parte era necessario pagare una quota annuale; sommando le quote di decine o centinaia di soci, un'associazione era in grado di costituire una biblioteca aggiornata. Era un luogo ideale per incontrarsi, per informarsi, per discutere e per mescolarsi liberamente. La società, all'inizio del Settecento, si presentava in ogni Paese rigidamente divisa in corpi separati, che avevano difficoltà a comunicare l'uno con l'altro. Gli aristocratici si riunivano nelle corti o nei salotti; i mercanti e gli artigiani stavano rinchiusi nelle loro corporazioni; i colti all'interno dei loro collegi professionali. Grazie alla fondazione delle istituzioni di socializzazione, come i gabinetti di lettura, per la prima volta quei mondi separati ebbero la possibilità di incontrarsi. Quei luoghi costituirono isole di uguaglianza e di libertà: repubbliche in miniatura, dove ciascuno godeva degli stessi diritti, anche se a farne parte furono comunque soltanto persone sufficientemente ricche per pagare la quota di iscrizione e, al tempo stesso, in possesso dei requisiti di cultura essenziali (la capacità di leggere e scrivere in primo luogo). Gli appartenenti alle libere associazioni mostrarono interesse soprattutto per la scienza e per i suoi progressi: ma tra le acquisizioni scientifiche e i dogmi della religione esistevano, da tempo, conflitti profondi. Infatti, ogni volta che gli studiosi della natura si mettevano al lavoro, i risultati delle loro ricerche finivano quasi sempre per smentire le conoscenze tramandate dalla tradizione e ritenute dogma della religione. Gli scienziati attribuirono grande rilievo alla libera sperimentazione, ovvero all'idea che il mondo fosse ancora tutto da conoscere e che la critica alla tradizione fosse indispensabile per accedere alla verità. Pertanto dli uomini di scienza riuscirono a lavorare in condizioni favorevole quasi solo nei Paesi nei quali il conformismo imposto dalle Chiese era meno oppressivo, ovvero Inghilterra e Olanda. Nel giro di qualche decennio vennero poste le basi teoriche del moderno metodo scientifico. Particolarmente importante fu l'influenza esercitata dalle opere dell'inglese Francis Bacon, il quale aveva attribuito grande importanza alla pratica, sostenendo che la natura andava accuratamente osservata servendosi degli strumenti di precisione, e i suoi fenomeni pazientemente classificati. Solo a quel punto era possibile formulare delle ipotesi. Finanziati e raccolti in Accademie, gli studiosi della natura diedero vita ad una vera e propria comunità scientifica. I risultati della loro attività erano di indubbia utilità, ma rimanevano isolati dal resto della società e non potevano influenzarla; almeno fino al Settecento, quando gli scienziati cominciarono a disporre di un pubblico di seguaci, disposti ad apprendere le nuove teorie e a sperimentarle: la vocazione sperimentale cominciò così a divenire un'attitudine mentale più largamente diffusa. Alla base della ragione c'è l'esperienza sensibile, sostenevano gli illuministi. Dunque, senza l'esercizio dell'osservatore sperimentale non si poteva avere alcuna cognizione reale delle cose. I sensi venivano a contatto essenzialmente con la materia, perciò lo studio della materia rappresentava il principale campo di applicazione della scienza. Mentre alcuni illuministi accettavano comunque l'idea dell'esistenza dell'anima, altri ritenevano invece che tutto ciò che esiste non è altro che materia: erano gli esponenti del materialismo, che tra le varie correnti dell'Illuminismo fu quella più radicalmente antitetica alle dottrine religiose. Gli illuministi rifiutavano i dogmi e professavano una religione individuale e personale, liberamente praticabile attingendo alla propria interiorità: essi chiamavano deismo questa religiosità. Ci si trovava così difronte alle prime manifestazioni moderne di agnosticismo o di ateismo, sentimenti che gran parte dei contemporanei giudicava distruttivi dell'ordine sociale, percependoli come un rifiuto radicale dell'autorità, non solo di quella religiosa ma anche di quelle secolari. L'opera più rappresentativa del pensiero illuminista è l'Encyclopédie, pubblicata tra il 1751 e il 1772 da Diderot e D'Alembert; essenzialmente è un dizionario delle scienze e delle arti. In quest'opera si manifestano forti dubbi sull'ispirazione divina della “verità” biblica, che è smentita ad ogni passo dalle scoperte scientifiche; vi si trovano l'elogio della tolleranza e la rivendicazione della libertà di pensiero e di espressione. Infine, in qualche passo, vi sono pensieri che sfidano la censura degli Stati assoluti, e che si spingono fino a sostenere che il potere di chi governa è legittimo solo se deriva dal consenso di chi è governato. Nella loro visione del potere gli illuministi non erano del tutto concordi. Alcuni, come Voltaire, erano convinti che “l'illuminazione”del mondo poteva venire perseguita efficacemente solo dall'alto, grazie ad una collaborazione tra i sovrani e gli uomini di cultura tesa a liberare le coscienze dall'oppressione dei dogmi religiosi. Altri, come Montesquieu, guardavano con simpatia soprattutto al modello politico inglese, costruito sull'idea di un equilibrio tra il potere del monarca e quello dei ceti più elevati della società, rappresentati nel Parlamento. Altri ancore, come Rousseau, pensavano ad un abbattimento dei privilegi sociali e ad una dipendenza dell'uomo alla legge, liberamente concordata e uguale per tutti. Quindi, partendo da premesse filosofiche simili, si poteva giungere a conclusioni politiche anche molto diverse. Accanto ai periodici e alle pubblicazioni, uno dei veicoli della diffusione della mentalità fu la massoneria, un'associazione segreta di ispirazione laica, razionalistica e anticlericale. Essa propugnava ideali di filantropia universale e ne fecero parte quasi tutti gli esponenti dell'élite intellettuale settecentesca. La massoneria venne fondata in Inghilterra nel 1720, ma si diffuse rapidamente anche negli altri Paesi; vi si aderiva in segreto, entrando a far parte di logge. Ciò che si proponeva era una riflessione laica sulla felicità, sul mondo fisico e sulla vita, che era antitetica a quella sul dolore, sull'anima e sulla morte caratteristica del pensiero religioso. Rivendicarono con orgoglio la forza, piuttosto che la fragilità e la debolezza dell'individuo. Rispondendo alla domanda: “Che cos'è l'Illuminismo?”, Immanuel Kant scrisse verso la fine del Settecento che esso è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso; minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. In realtà l'Illuminismo era stato un fenomeno elitario: l'Encyclopédie non aveva venduto più di 30.000 copie e inoltre le donne non erano considerate degne di far parte del mondo della ragione, della lettura, della discussione e della sperimentazione. Giuseppe II era stato per esempio in grado di emanare nel 1781 una Patente di tolleranza, che accordava piena libertà di culto anche ai protestanti e ai seguaci della Chiesa ortodossa e che annullava gran parte delle discriminazione inflitte agli Ebrei. Lo spirito della Patente risentiva naturalmente della nuova mentalità illuminista, che della tolleranza aveva fatto uno dei propri punti principali. Nel 1787 il sovrano fece inoltre entrare in vigore un nuovo codice penale, che proibiva l'uso della tortura nelle procedure giudiziarie e sanciva ufficialmente il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge, abolendo i privilegi e le immunità in materia di cui godeva aristocrazia e clero. Infine nel 1774 venne introdotto l'obbligo dell'istruzione elementare per tutti i sudditi e lo Stato istituì un sistema scolastico pubblico, attingendo alle rendite di cui prima disponeva il clero. La reazione a queste iniziative non tardò tuttavia a farsi sentire: tra il 1787 e il 1789 una serie di sollevazioni guidate dalla nobiltà delle varie province impose l'arresto delle riforme. I Paesi Bassi dichiararono la propria indipendenza e l'Ungheria fu sul punto di fare altrettanto. Leopoldo II, successore di Giuseppe II, che alla propria morte nel 1790 lasciò un regno in rivolta, non esitò a revocare gran parte delle misure antinobiliari e antiecclesiastiche; i catasti in molte province non entrarono in vigore. Ma non furono solo gli appartenenti ai vecchi corpi privilegiati a manifestare la loro insoddisfazione nei confronti del cosiddetto “assolutismo illuminato”. I contadini, per esempio, certamente avevano tratto sollievo dalle riforme di Giuseppe, ma ora avvertivano di più il peso dello Stato, che pareva quasi altrettanto esigente dei signori; e, d'altro canto, avendo ottenuto dei miglioramenti, ora ne desideravano altri, perché la loro esistenza restava comunque molto dura. E dell'istruzione elementare la povera gente per il momento era poco in grado di apprezzare i benefici. Anche in alcuni altri Paesi europei, come la Prussia, la Russia e la Svezia, nella seconda metà del Settecento si assistette ad una politica di assolutismo illuminato. Federico II di Prussia e Caterina II di Russia furono entrambi ammiratori e protettori degli illuminati francesi, che invitarono presso le proprie corti; rafforzarono gli apparati burocratici, promossero l'istruzione elementare ed elaborarono leggi ispirate a criteri umanitari. Anche Caterina intese colpire duramente la Chiesa, ma né lei né Federico cercarono di attaccare i privilegi dell'aristocrazia con la stessa determinazione che aveva mostrato Giuseppe II. Tra il 1773 e il 1775 si era trovata a fronteggiare una sollevazione popolare guidata da un contadino di nome Pugačëv; gli insorti si erano ribellati in parte a causa del loro attaccamento alla religione, che vedevano minacciata dalle iniziative della sovrana. Sotto questo punto di vista, dunque, battevano contro le riforme e per la difesa della tradizione. I rivoltosi, prima si essere affrontati e sconfitti dall'esercito della sovrana, avevano seminato il terrore tra i signori, massacrandoli a centinaia: ciò che volevano in realtà era liberarsi dalla condizione di sudditanza nella quale vivevano, e che l'assolutismo non fu in grado di eliminare. L'assolutismo dei sovrani settecenteschi restava ancorato ad un progetto di riforme, tese a riordinare e a togliere i difetti, ma non a sovvertire le fondamenta dell'ordine sociale. 12. L'ITALIA DEL SETTECENTO L'Italia nel Settecento non è uno Stato nazionale ma un insieme di territori ciascuno assoggettato ad un governo diverso; i vari governi sono in genere l'espressione o di una dinastia regnante oppure, nelle repubbliche, di un'aristocrazia locale. All'inizio del Settecento gran parte della penisola era soggetta al dominio degli Asburgo di Madrid, che governavano sul regno di Napoli, sulla Sicilia, sulla Sardegna e sul ducato di Milano; ma in quegli anni gli Asburgo di Madrid si estinguono e la Spagna passa ad un ramo dei Borbone di Francia. Dopo la pace dell'Aja del 1720, che segna la fine della guerra di successione spagnola, il regno di Napoli, la Sicilia e il ducato di Milano risultano dipendenti dagli Asburgo di Vienna, mentre la Sardegna è entrata a far parte del dominio dei Savoia. Con la pace di Aquisgrana del 1748 si chiude invece la guerra di successione austriaca e viene stabilito un nuovo assetto della penisola, destinato a rimanere immutato fino al 1796: - il regno di Napoli, compresa la Sicilia, è in mano ad un ramo dei Borbone, quello che fa capo alla corona di Spagna; - anche nel ducato di Parma e Piacenza governa un Borbone, che appartiene però al ramo che regna in Francia; - gli Asburgo di Vienna conservano la Lombardia e la Toscana; - a nord-ovest si estendono i domini sabaudi: la Savoia, il Piemonte, la Sardegna; - tra di essi si incunea la repubblica di Genova, i cui territori comprendono, fino al 1768, anche la Corsia, ceduta in quell'anno alla Francia; - vi è poi l'antica repubblica di Venezia, i cui confini arrivano a comprendere Brescia, Bergamo e Crema, buona parte dell'odierno Friuli e la lunga fascia costiera corrispondente alle attuali repubbliche della Slovenia e della Croazia; - il ducato di Modena e Reggio, dove regna la dinastia degli Este; - scendendo verso il centro incontriamo la piccola repubblica di Lucca: - lo Stato della Chiesa, retto dal papa, comprende parte dei territori dell'odierna Emilia Romagna, le Marche, l'Umbria e il Lazio e si completa con due piccole enclave incuneate all'interno dei confini del regno di Napoli, Benevento e Pontecorvo (più la città di Avignone di Francia); - infine la piccola repubblica di San Marino, il piccolo Stato dei Presidi e il minuscolo principato di Piombino. Durante il Settecento quasi nessuna delle unità che componevano la penisola restò impermeabile a fenomeni come l'illuminismo e l'assolutismo illuminato. Anche l'Italia ebbe i suoi illuministi, come i milanesi Pietro Verri e Cesare Beccaria, che tra il 1763 e il 1764 pubblicarono il periodico “il Caffè”, o i napoletani Galiani, Genovesi, Galanti, Filangieri, che scrissero soprattutto di argomenti economici. Nei territori soggetti al dominio di dinastie ovunque i governanti cercarono di realizzare catasti, ridurre i privilegi ecclesiastici e nobiliari, agevolare la libertà di commercio, promuovere l'istruzione pubblica e favorire la cultura scientifica. Le repubbliche, che erano dominate da élite aristocratiche, si mostrarono invece molto più caute sotto questo profilo perché era ovviamente impensabile che esse si infliggessero volontariamente un danno; ma anche nelle repubbliche si sentirono gli effetti del giurisdizionalismo che stava alla base del riformismo di Maria Teresa e Giuseppe II. Infatti nella penisola i privilegi della Chiesa erano ancora maggiori che altrove: la popolazione in Italia era quasi esclusivamente cattolica e proprio nel cuore della penisola si trovava Roma, il centro mondiale del cattolicesimo. Negli Stati prossimi a quello pontificio la Chiesa deteneva un patrimonio di beni, di diritti e di poteri estremamente vasto. La Curia di Roma esercitava grande influenza sull'istruzione pubblica, godendo così della possibilità di plasmare le coscienze e le mentalità dei gruppi dirigenti; a influenzare la popolazione più umile provvedevano invece i parroci. Di contro, nella penisola esisteva anche una tradizione culturale anticuriale, elaborata in particolare da alcuni intellettuali napoletani, come Giambattista Vico, Paolo Doria e Pietro Giannone. Vi erano poi i giansenisti, un movimento di fedeli che denunciavano l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, che furono molto attivi durante tutto il secolo; il massimo esponente fu il vescovo di Pistoia Scipione de' Ricci. Accanto a loro operarono anche altre correnti di cattolici illuminati, che condannavano la corruzione della Chiesa, la sua intolleranza, l'eccessiva vocazione temporale della Curia; nei riguardi delle forme superstiziose di culto espresse una ferma condanna Ludovico Antonio Muratori, intellettuale e storico modenese. Tutte figure che si batterono per ricondurre la religiosità a quella purezza e naturalezza che la comunità cattolica aveva perso. La Lombardia fu forse la regione italiana nella quale le riforme furono più incisive. Venne realizzato un catasto teso a promuovere la parificazione dei vari ceti sociali; nei decenni seguenti si venne affermando il controllo dello Stato sulle strutture della Chiesa e l'incameramento di parte dei suoi beni mentre il governo provvide ad attribuire all'amministrazione statale gran parte delle funzioni pubbliche fin lì assolte dai privati o dai corpi sociali. Si posero inoltre le basi per la diffusione a carico statale dell'istruzione elementare, venne favorito il progresso della cultura di orientamento scientifico e razionalistico. In Toscana le riforme furono particolarmente ardite sul terreno economico: il governo adottò le indicazioni liberistiche. Ma la riforma più coraggiosa fu quella del diritto penale; statalizzazione dei tribunali, eliminazione della tortura come strumento di indagine giudiziaria, abolizione della pena di morte e sua sostituzione con il lavoro forzato: furono questi i punti caratterizzanti del codice penale emanato da Pietro Leopoldo nel 1786. Nel regno di Napoli, se l'azione dei ministri riformatori, fu abbastanza efficace sul piano dell'eliminazione di parte dei privilegi ecclesiastici, molto meno incisiva si rivelò per quanto riguarda l'erosione del potere della nobiltà. L'aristocrazia feudale continuava a detenere immense estensioni di territorio, nelle quali i contadini vivevamo miseramente in condizione di soggezione personale. Diversi da Stato a Stato, dunque, e non sempre pienamente coerenti con le intenzioni, furono i risultati delle riforme settecentesche in Italia. In campo culturale la stagione delle riforme lasciò ovunque tracce importanti; e nel conflitto con il mondo tradizionale tutti i governi trovarono un bersaglio condiviso: il potere temporale della Chiesa. Per realizzare le riforme era infatti necessario togliere preventivamente alle alte gerarchie ecclesiastiche i poteri di cui esse disponevano in materia di controllo della produzione culturale e dell'istruzione. In tutta l'Europa cattolica divampò a partire dal 1759 la battaglia contro i gesuiti, che si concluse nel 1773 con lo scioglimento di quell'ordine da parte di papa Clemente XIV. Fondato dopo la Riforma protestante dallo spagnolo Ignazio di Loyola, allo scopo di farne lo strumento di punta della Controriforma, l'ordine dei gesuiti si era enormemente rafforzato e rappresentava il simbolo del monopolio che la Chiesa deteneva nel campo dell'istruzione. Presso i collegi diretti dai gesuiti si formava gran parte della gioventù aristocratica e benestante, in un clima contraddistinto da un'impostazione culturale tradizionalistica e avversa allo spirito razionalistico e scientifico. I gesuiti esercitavano inoltre una grande influenza come consiglieri e confessori di figure eminenti, e anche degli stessi sovrani, ed erano pertanto in grado di orientarne le scelte politiche. Sembrava dunque che dalla cacciata dei gesuiti non avrebbe potuto che schiudersi una nuova lavoratori salariati. L'industria moderna consentì una drastica riduzione dei costi e al tempo stesso di un enorme aumento della produzione: questo scenario costituì allora una peculiarità tutta inglese; gli altri Paesi europei non lo conobbero se non alcune decine di anni più tardi. Possiamo fissare un punto di partenza simbolico alla rivoluzione industriale nell'anno 1769, quando vennero brevettate due macchine destinate a diventare gli emblemi più significativi della prima civiltà industriale: la macchina a vapore di James Watt e il filatoio meccanico di Richard Arkwright. La prima venne adoperata prima nelle miniere, dove rese possibile l'estrazione del carbone-coke, poi nell'industria tessile e in quella metallurgica; la seconda creò quasi dal nulla l'industria del cotone. Un primo mutamento si manifestò sotto il profilo degli spazi destinati alla trasformazione e all'elaborazione delle materie prime, fino a quel momento svolte nelle botteghe artigianali e in piccole officine, dove alcuni lavoratori specializzati provvedevano ciascuno ad una fase della lavorazione. Al posto di questi insediamenti di lavoro, la cui produzione era limitata sotto il profilo quantitativo e non uniforme sotto il profilo qualitativo, sorsero le grandi fabbriche, che si trovavano molto spesso alla periferia di città strategicamente ben situate, perché vicine alle miniere di carbone, come Manchester, Liverpool e Birmingham. Un secondo mutamento riguardò modi e ritmi di produzione, che era affidata ora a macchine automatiche, i cui ingranaggi scandivano a battute velocissime i tempi del lavoro umano. Agli operai non era più richiesta alcuna abilità specifica: ora dovevano starsene 13 o 14 ore al giorno inchiodati alle macchine a eseguire gesti ripetitivi. Visto che l'antica competenza tecnica degli artigiani e dei manifattori in fabbrica non era più necessaria, si ricorse largamente all'utilizzo del lavoro di donne e bambini. Le ripercussione della rivoluzione industriale si fecero avvertire solo a distanza di vari decenni, quando risultò chiaro come l'industrializzazione avesse portato l'Inghilterra a moltiplicare per sette il proprio prodotto nazionale lordo. Tuttavia questo fenomeno non ebbe un'affermazione incontrastata, ma rimase a livello regionale, più che nazionale, e si concentrò nell'area nord-occidentale del Paese, che era quella del resto dotata delle miniere di carbone. A lungo vecchi modi di produzione convissero con quello nuovo. Perché tutto ciò avvenne proprio in Inghilterra? Innanzitutto la Gran Bretagna all'inizio del Settecento era il Paese nel quale più che in qualsiasi altro il vecchio ordine sociale e politico s'era disgregato e dove dunque una radicale innovazione sociale e mentale poteva essere accolta senza incontrare grandi ostacoli. Inoltre il Parlamento, con la sua produzione legislativa tesa a tutelare la proprietà privata e ad incoraggiare le iniziative imprenditoriali, rese più agevole lo sviluppo di quasi tutti i fattori che accompagnarono la rivoluzione industriale. L'Inghilterra era inoltre caratterizzata da un forte pluralismo religioso e vi giocava un ruolo particolarmente significativo la componente puritana, che praticava una religione basata sull'apprezzamento del lavoro, dell'applicazione e della fatica individuali, e che vedeva nella ricerca del profitto coronata da successo un segno della benevolenza di Dio nei confronti del singolo. Per tutte queste ragioni, l'Inghilterra era il Paese meglio disposto a recepire, elaborare e rilanciare quei fattori di crescita e accelerazione. 14. UNA NUOVA NAZIONE Nei primi decenni del Seicento gruppi di Inglesi avevano cominciato ad emigrare nell'America Settentrionale, organizzati in compagnie; avevano così preso forma lungo la costa atlantica o nella sua immediata prossimità 13 colonie, ciascuna cresciuta scacciando verso l'interno gli abitanti originari del Paese, i pellerossa. Nelle colonie centro-settentrionali gli insediamenti erano composti soprattutto da agricoltori proprietari di piccole porzioni di terra, artigiani, mercanti, professionisti, pescatori: un mondo dalla grande semplicità dei costumi, puritano sotto il profilo religioso e altamente alfabetizzato. Negli Stati del Sud lo sfruttamento del suolo si effettuava attraverso il sistema della grande piantagione (di tabacco, riso o cotone) che veniva gestito da un ceto di proprietari medi e grandi, che facevano largamente ricorso al lavoro degli schiavi neri, importati dall'Africa o dai Caraibi: quest'ultimi negli Stati del Sud costituivano circa il 60% della popolazione. Diverse sotto il profilo sociale, le due Americhe inglesi erano rette da istituzioni sostanzialmente simili: la madrepatria esercitava il controllo da lontano, attraverso governatori nominati dalla Corona e affiancati da consiglieri che loro stessi sceglievano tra le persone più influenti di ciascuna colonia. Ma un ruolo molto importante avevano ovunque le assemblee elettive locali, designate da un corpo elettorale che, a seconda dei casi, oscillava tra il 50% e il 70% della popolazione maschile bianca adulta. Il potere era dunque spartito tra organi nominati dall'alto e organi espressivi delle comunità locali. Nel corso del Settecento le colonie americane conobbero un fiorentissimo sviluppo e la popolazione giunse a decuplicarsi. Ma gli abitanti erano combattuti da sentimenti contrastanti: da un lato tendevano ancora ad identificarsi con la madrepatria, dall'altro erano animati da una crescente volontà di autonomia. Ma tale aspirazione si scontrava sempre di più con le norme sancite dalla politica economica britannica, che imponevano alle colonie di intrattenere rapporti di scambio commerciale diretti unicamente con la madrepatria e vietavano di attivare produzioni concorrenti con quelle britanniche. I rapporti tra i coloni americani e l'Inghilterra si fecero sempre più tesi. Lo stanziamento permanente di un esercito di 10.000 uomini in America, l'istituzione di un'imposta di bollo (la Stamp Act del 1765) per consentirne il mantenimento da parte dei coloni, l'introduzione di più severe misure contro il contrabbando e di nuovi dazi: queste furono le iniziative da parte dell'Inghilterra, alle quali i coloni risposero con il sabotaggio, ad esempio, dichiarando illegittima la tassa sui giornali e invitando i coloni a non pagarla. In molte località venne dato l'assalto agli uffici fiscali e un anno più tardi gli Inglesi si videro costretti a revocare il provvedimento. Si cominciò anche a sabotare lo smercio dei prodotti inglesi. Nel 1770 uno scontro di piazza a Boston culminò con l'uccisione di cinque coloni da parte delle truppe inglesi. Per attenuare la tensione, Londra decise di abolire tutti i dazi sulle importazioni delle merci in America, con l'eccezione di quello sul tè, per una questione di principio. Poi nel 1773 si verificò l'episodio che dette il via all'insurrezione generale delle colonie: per salvare dalla bancarotta la Compagnia delle Indie Orientali, il Parlamento di Londra le attribuì il monopolio dell'esportazione del tè oltreoceano, provocando l'ulteriore irritazione degli ambienti mercantili americani. Un gruppo di coloni, in segno di protesta, si travestirono da pellerossa, salirono a sorpresa su una nave inglese ormeggiata nel porto di Boston e ne gettarono a mare il carico di tè. L'episodio passò alla storia con il nome di Boston Tea Party. Gli inglesi risposero alla provocazione adottando nuove misure restrittive e autoritarie nei confronti dei coloni; ma questi replicarono esautorando i funzionari britannici. Nel 1774 venne convocato a Philadelphia il primo Congresso continentale americano, al quale presero parte rappresentanti di tutti gli Stati, e in tale sede ebbero modo di imporsi come leader coloro che erano destinati a diventare i padri fondatori della nuova nazione: Thomas Jefferson, James Wilson e John Adams. Ciò che si voleva a tutti i costi era l'emancipazione degli Stati oltreoceano dal Parlamento inglese e dalle tasse che questo pretendeva di esigere in America. Ma il re Giorgio III e il Parlamento fecero fronte comune e respinsero le richieste del Congresso americano. Nel 1774 alcune colonie vennero ufficialmente dichiarate in stato di ribellione e venne dato il via all'allestimento dell'esercito che avrebbe dovuto assoggettarle militarmente. Anche il Congresso iniziò a mettere insieme un esercito di volontari e ne affidò il comando a George Washington, un ricco proprietario di piantagioni originario della Virginia. Nel 1775 iniziò la guerra vera e propria, che si sarebbe conclusa sette anni più tardi a favore degli insorti. Determinante fu l'intervento a loro sostegno delle due potenze europee che erano state estromesse dall'America del Nord in seguito alla vittoria inglese nella guerra dei Sette anni: la Francia e la Spagna. La pace venne siglata a Versailles, presso Parigi, nel 1783; le clausole prevedevano il riconoscimento da parte inglese non solo dell'indipendenza delle ex-colonie, ma anche del diritto degli americani di espandersi liberamente in futuro negli immensi spazi popolati dai pellerossa. Francia e Spagna in cambio dell'appoggio ripresero parte dei territori che l'Inghilterra aveva sottratto ad esse vent'anni prima. La dichiarazione d'indipendenza era stata già emanata dal Congresso americano nel 1776; negli anni seguenti, mentre la guerra era pienamente in atto, era stato dato l'avvio all'elaborazione di un progetto di costituzione generale, emanata poi nel 1788, mentre intanto ognuno dei 13 Stati si dotava di una propria costituzione locale. Gli Stati Uniti si dettero la forma di una Repubblica federale, cioè composta di Stati ciascuno dei quali manteneva parte della propria autonomia legislativa, pur riconoscendo un potere centrale incaricato di dirigere la politica estera e militare, oltre che sovrintendere all'armonia della federazione, emanando alcune leggi fondamentali destinate ad avere vigore in tutti gli Stati. La nazione americana si caratterizzò fin dall'inizio anche per l'eccezionale ampiezza della partecipazione dei cittadini all'esercizio del potere: gli Stati Uniti d'America furono infatti il primo Paese a costruire una democrazia, richiamandosi ai valori che si trovavano già bene espressi nella dichiarazione d'indipendenza del 1776, dove si può leggere “che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti irrinunciabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. Dunque la cittadinanza viene intesa come corpo di individui dotati di pari diritti. Dopotutto la società americana era radicalmente diversa da quella europea: in Europa la società era organizzata per corpi, ciascuno dei quali godeva di libertà e privilegi particolari; quella americana era invece una società per individui, nella quale non esistevano corpi privilegiati. Quindi affermare che “tutti gli uomini sono stati creati uguali” era più facile nel nuovo continente che non nel vecchio. Il modello democratico americano presentò tuttavia fin dall'inizio alcune gravi contraddizioni: ne erano escluse le donne, i neri, che costituivano circa un sesto della popolazione, e i pellerossa. Il modello politico americano entrò pienamente in vigore nel 1789, con l'elezione di George Washington a presidente degli Stati Uniti. Il Paese prese forma come repubblica federale presidenziale, dotata di un'assemblea elettiva centrale (il Congresso, diviso in una Camera e in un Senato) incaricata di promulgare la legislazione comune Nel 1791 venne promulgata la Costituzione e pochi mesi dopo si tennero le prime elezioni politiche, alle quali, in realtà, furono pochi a partecipare in quanto i legislatori introdussero una distinzione tra cittadini attivi e passivi, questi ultimi comprendenti donne e strati più umili della popolazione. Molti aristocratici abbandonarono la Francia, rifugiandosi nei Paesi dove si continuava a riconoscere alla nobiltà uno status privilegiato. Il clero risultava spaccato al suo interno, e in gran parte ostile al nuovo governo. La Chiesa aveva rappresentato prima del 1789 uno sorta di Stato nello Stato: questa sua condizione di privilegio venne di colpo cancellata, prima attraverso la requisizione dei beni ecclesiastici, la loro statalizzazione, e infine messa in vendita ai privati; poi con la trasformazione dei sacerdoti in funzionari statali, tenuti a prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione e a sciogliersi così da quello di obbedienza al papa. Molti religiosi si rifiutarono di compiere questo passo e scelsero anch'essi la via della fuga all'estero. Una parte della vecchia Francia dei privilegiati si trovava dunque ormai fuori dal Paese. Nel giugno del 1791 anche Luigi XVI, insieme alla consorte Maria Antonietta d'Asburgo, aveva cercato di fuggire all'estero con il proposito di chiedere agli altri sovrani europei di scatenare una guerra contro i rivoluzionari, ma era stato fermato poco prima della frontiera e riportato a Parigi. In una condizione ormai quasi di ostaggio, a settembre diede ufficialmente il proprio benestare all'emanazione della Costituzione, che consegnava all'Assemblea nazionale l'esercizio del potere legislativo. Il destino della monarchia si giocò nei mesi seguenti e risultò strettamente intrecciato all'andamento della guerra che nell'aprile del 1792 l'Assemblea legislativa dichiarò preventivamente all'Austria, il regno che sembrava più di tutti impegnato nella preparazione di un'invasione in Francia. Poco dopo scese in campo, a fianco dell'Austria, il regno di Prussia. Luigi XVI sperava in una sconfitta dell'esercito francese, che avrebbe portato ad un suo reinsediamento con pieni poteri. Nell'agosto del 1792 il popolo della “piazza” invase la residenza del re, sospettato di accordo con il nemico, e costrinse l'Assemblea legislativa a disporne l'arresto e a indire nuove elezioni. La Convenzione nazionale risultò composta essenzialmente da due partiti: quello della Montagna, più radicale, chiamato così perché i suoi esponenti erano collocati in alto a sinistra nella sala che ospitava le riunioni, e quello della Gironda, di tendenza moderata, la cui denominazione deriva dal nome del dipartimento dal quale alcuni dei principali componenti provenivano. Tra di essi si collocava la cosiddetta Palude, o Pianura, coloro che non erano schierati con nessuno dei due partiti citati e che occupavano le posizioni più basse all'interno della sala. La maggioranza dei deputati si pronunciò per la condanna a morte del re: nel gennaio 1793 Luigi XVI venne ghigliottinato. Ci si trovava di fronte alla distruzione dell'istituzione monarchica anche sul piano simbolico. Dopo la caduta della monarchia la Convenzione decretò la modifica del calendario, mutando il nome ai giorni e ai mesi e il numero agli anni. Dal 21 settembre 1792, data di fondazione della repubblica, la storia di Francia ripartiva da zero, dall'anno I della repubblica basata sulla libertà, sull'eguaglianza e sulla fraternità. Oltre che dai sanculotti, militanti rivoluzionari così chiamati perché non portavano i calzoni (culottes) di cui facevano sfoggio i ricchi, la piazza veniva non di rado invasa anche dai sostenitori di un ritorno al passato. I primi erano attivi soprattutto a Parigi ed erano soprattutto artigiani ed operai; i secondi si facevano sentire per lo più in provincia e in campagna. Quando, nel febbraio 1793, il governo decretò la leva generale per difendere la patria in pericolo, i controrivoluzionari insorsero in massa nella regione della Vandea: la repressione di questa rivolta sarebbe costata alla fine quasi 150.000 vittime. Tra il maggio e l'ottobre 1793 la Convenzione stabilì un tetto massimo sia ai salari che al prezzo dei generi di prima necessità e approvò una nuova costituzione che introduceva un diritto elettorale molto più esteso. Ma contemporaneamente, sotto la pressione dello stato d'emergenza, impose anche durissime misure di ordine pubblico, che portarono alla repressione di quelle fondamentali pratiche di democrazia. La costituzione dell'anno I di fatto non entrò mai in vigore e, piuttosto che alla crescita della democrazia, si assistette alla trasformazione del governo in dittatura e all'arresto e all'esecuzione di chi veniva accusato di tramare contro la patria. Il partito della Gironda venne neutralizzato da quello della Montagna, e molti suoi capi vennero condannati alla ghigliottina. Nel frattempo, nell'estate del 1793, divampava soprattutto nel sud della Francia la rivolta detta “federalista”, i cui fautori avevano per obiettivo quello di sottrarre le province alla centralizzazione imposta dal governo. A questo punto la Convenzione ordinò l'arruolamento di tutti i giovani tra i 18 e i 25 anni per formare l'esercito destinato sia a stroncare la dissidenza interna, sia a respingere gli assalti della coalizione europea controrivoluzionaria. La spietata repressione del dissenso interno raggiunse il suo culmine tra l'inverno del 1793 e la primavera del 1794, quando della guida del Comitato di salute pubblica, organismo che aveva i compito di sorvegliare l'attività del Consiglio esecutivo, si impadronì Maximilien Robespierre, un montagnardo particolarmente sensibile al tema dell'eguaglianza sociale. Questi mesi passarono alla storia come il periodo del Terrore, durante il quale il Tribunale speciale rivoluzionario fece eseguire ben 1700 sentenze capitali; ma una delle ultime colpì proprio Robespierre, messo in minoranza e arrestato per ordine della Convenzione il 27 luglio, e giustiziato il giorno seguente. Le misure che Robespierre aveva promosso durante il Terrore per dare coesione sociale alla Patria minacciata, rafforzando l'eguaglianza a scapito della libertà, parevano ormai non più necessarie e per questo non più accettabili: alla fine di giugno infatti l'esercito francese aveva riportato una vittoria decisiva contro la coalizione antirivoluzionaria e le sorti della guerra volgevano al meglio. Dopo la caduta di Robespierre il governo della Francia restò nelle mani di una maggioranza moderata per vari anni, durante i quali il potere venne detenuto da un Direttorio di cinque membri nominato dalla Convenzione: si assistette alla liberalizzazione della vita economica e all'emanazione di una nuova costituzione, detta dell'anno III e promulgata nel 1795, che restrinse drasticamente il diritto elettorale. Non mancarono, tra il 1794 e il 796, nuove agitazione popolari: in particolare nel 1796 un gruppo di giacobini particolarmente radicali guidato da Gracco Babeuf organizza una cospirazione detta “Congiura degli Uguali”, che venne però repressa. La situazione politica interna restava incerta e l'esercizio della sovranità da parte dei cittadini ancora difficile. In seguito al colpo di Stato del 9 novembre del 1799, il Direttorio, incapace di controllare la piazza, cedette le redini del potere ad una triade di consoli: Ducos, Sieyès e Bonaparte. Con l'avvio della stagione consolare, la Rivoluzione Francese, intesa come esperienza collettiva di partecipazione della cittadinanza all'esercizio del potere dal basso, poteva dirsi chiusa. Aveva inizio l'età napoleonica. 16. NAPOLEONE, LA FRANCIA, L'EUROPA Napoleone Bonaparte fu imperatore dei francesi dal 1804 al 1814, e fu a capo del più vasto sistema di dominio che l'Europa abbia mai conosciuto. L'impero francese, al momento della sua massima espansione, arrivò a comprendere, oltre alla Francia, anche una parte della penisola italiana (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Lazio), il Belgio, l'Olanda, la Catalogna, alcune aree tedesche e il litorale adriatico orientale. Inoltre, c'erano una serie di Paesi i cui regnanti, dopo averlo combattuto e dopo esserne stati sconfitti, furono costretti a stipulare alleanze con Napoleone: il regno di Danimarca e di Norvegia, quello di Svezia e ciò che restava del regno di Prussia e dell'Impero austriaco. Fuori del sistema napoleonico restavano solo il Portogallo, la Sardegna, la Sicilia, i due imperi orientali russo e ottomano e l'Inghilterra. Quest'ultimo fu il solo Paese presente in tutte le coalizioni che si opposero alla potenza francese; per questo, dal 1807 Napoleone impose al resto d'Europa di interrompere i rapporti commerciali con l'isola, decretando il cosiddetto blocco continentale, ovvero un insieme di norme emanate allo scopo di impedire l'accesso ai porti dell'Impero delle navi provenienti dall'Inghilterra o dalle sue colonie. Il blocco avrebbe dovuto causare la rovina del commercio inglese, ma i suoi effetti non furono quelli auspicati, dal momento che spesso venne aggirato attraverso il contrabbando. Il Consolato accentuò le tendenze autoritarie già presenti dall'epoca del Direttorio ed elaborò una nuova Costituzione, la Costituzione dell'anno VIII, che entrò in vigore alla fine del 1799. Formalmente essa pareva democratica, dal momento che introduceva nuovamente l'istituto del suffragio generale maschile; ma, in ciascuna delle circoscrizioni in cui la Francia era suddivisa, i cittadini designavano una rappresentanza di “grandi elettori”, che a loro volta eleggevano una lista di persone più ristretta, i cui componenti infine selezionavano la cosiddetta “lista nazionale”, dalla quale il governo sceglieva a proprio arbitrio i nominativi di coloro che avrebbero formato il Tribunato e il Corpo legislativo. Il Tribunato aveva la funzione di discutere le leggi presentate dal governo, mentre il Corpo legislativo aveva la facoltà di approvarle o respingere. Vediamo quindi come il tragitto tra le elezioni primarie e la formazione delle due assemblee rappresentative si presentava troppo lungo e indiretto per poterlo considerare davvero democratico; ma soprattutto costante e soffocante pareva l'intervento del governo, il Consolato. Di fatto, del potere legislativo se ne impadronirono i consoli e, tra di loro, specialmente il “primo” console, Napoleone Bonaparte. La sovranità popolare, ovvero la partecipazione attiva dei cittadini al potere, venne di fatto impedita. Questa svolta autoritaria si venne ulteriormente consolidando negli anni successivi, fino a tradursi nella costruzione di un regime dominato da una sola persona, che imbavagliò la stampa, fece largo uso delle forze di polizia, soffocò quel fermento civico degli anni della rivoluzione. Nel 1802 Napoleone indisse un nuovo plebiscito che consacrò la sua trasformazione in console a vita; due anni più tardi si proclamò imperatore e si incoronò nella cattedrale di Notre-Dame, alla presenza del pontefice Pio VII. La Francia cessava così di essere una repubblica e si trasformò in impero. Ma quello cui si stava assistendo non fu un ritorno in piena regola all'antico regime. L'impero napoleonico conservò ad esempio alcune delle norme emanate dai francesi durante la rivoluzione: abolizione del feudalesimo, eliminazione delle esenzioni e dei privilegi nobiliari ed ecclesiastici, eguaglianza dei cittadini di fronte la legge. La Chiesa venne sì riabilitata, come è emblematicamente dimostrato anche dal fatto che la domenica tornò ad essere considerata giorno di riposo e che il calendario repubblicano venne abolito e si tornò a quello gregoriano; ma non per questo la Chiesa tornò a costituire uno Stato nello Stato. La Francia di Napoleone non poteva essere considerata come una riedizione della Francia borbonica di antico regime: quello napoleonico era piuttosto un regime che poteva essere definito democratico sotto il profilo dell'eguaglianza giuridica degli abitanti, ma monarchico per quel che aveva a che fare con i meccanismi di controllo e di esercizio del potere. della Francia, grazie alle nuove vittorie di Napoleone, tra il 1800 e il 1809. Piemonte, Liguria, ex ducato di Parma e Piacenza, Toscana e parte dell'ex Stato Pontificio formarono i dipartimenti italiani dell'Impero e la loro capitale era Parigi; Lombardia, Veneto, Trentino, ex ducato di Modena e Reggio, l'Emilia, la Romagna e le Marche diedero vita al regno d'Italia, che aveva per capitale Milano e sul cui trono sedeva come viceré Eugenio Beauharnais, un congiunto di Napoleone. Sul regno di Napoli infine regnava un ex generale napoleonico, Gioacchino Murat, anch'egli imparentato con Bonaparte. Tre soli Stati dunque, e tutti dotati delle stesse leggi, al punto che è quasi possibile parlare di una sola Italia, per quel che riguarda ordinamenti e sistema politico. Tra l'Italia del 1799 e quella consolidata negli anni successivi al 1800 c'erano molte differenze. L'Italia del 1799 era fatta di repubbliche; quella del 1809 di regni. La prima, malgrado la pesantezza dell'occupazione militare francese, aveva dato spazio alla democrazia favorendo la partecipazione di almeno una porzione della cittadinanza al potere; la seconda rappresentava invece una replica di quel progetto di organizzazione del potere dall'alto, che si tradusse nel soffocamento della democrazia. Tra la prima e la seconda c'era insomma la stessa distanza intercorrente tra il clima politico della Francia della rivoluzione e quello dell'Impero. Come in Francia, così anche in Italia una parte dell'eredità rivoluzionaria venne conservata: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'abolizione del feudalesimo, il ridimensionamento del patrimonio ecclesiastico e l'eliminazione dei privilegi, l'assunzione da parte dello Stato del monopolio del pubblico potere. Soprattutto nelle campagne, l'esperienza della coscrizione obbligatoria continuò a suscitare sentimenti sfavorevoli. I tassi di diserzione furono molto alti, e disertare significava chiamarsi fuori dalla legge, iniziare una vita errabonda ai margini della società, ridursi alla condizione di ribelle o bandito. Ci fu anche chi, per scampare al servizio militare, decise di affrettare il momento del matrimonio, o chi preferì infliggersi volontariamente delle mutilazioni. Grande sconcerto suscitò anche il ridimensionamento delle funzioni prima assolte esclusivamente dall'organizzazione ecclesiastica. Ora, ad esempio, ci si poteva sposare civilmente e il matrimonio non andava considerato più come un vincolo indissolubile dal momento che il nuovo Codice Civile aveva introdotto l'istituto del divorzio. Ma il nuovo sistema egualitario a direzione statale portò indubbiamente anche molte opportunità di emancipazione per gli strati più umili della popolazione. L'introduzione di un sistema scolastico statale mise tutti nella condizione di impadronirsi degli strumenti di base necessari per far emergere il proprio talento individuale; anche se l'istruzione elementare stentò ad attecchire, per il semplice motivo che i contadini, abituati a far ricorso ai figli per avere un aiuto nel lavoro dei campi, si privavano mal volentieri del contributo della loro fatica e tendevano ad evitare di mandarli a scuola. Un altro campo di esperienza nel quale la vita quotidiana degli abitanti mutò radicalmente fu quello della percezione dello spazio, del territorio, dei confini, del movimento. Il Codice del regno non parlava più di sudditi, bensì di cittadini, e ignorava le vecchie denominazioni territoriali: non si faceva menzioni di sabaudi, austro-lombardi, veneti, pontifici, ma solo di Italiani. I cittadini italiani, tutti uguali di fronte alla legge, avevano ora un solo governo e una sola capitale, Milano; usavano tutti lo stesso sistema di pesi e misure; le loro attività economiche non venivano più ostacolate da impedimenti corporativi o dal sistema di dogane e pedaggi. Muniti dei documenti di riconoscimento, le carte di identità, gli Italiani cominciarono a godere di una libertà di movimento prima sconosciuta: poteva spostarsi da un capo all'altro del territorio senza ostacoli, impararono a conoscersi, a intrecciare rapporti a distanza, a scoprire la comune appartenenza ad uno stesso Stato. A mantenersi ostile al nuovo regime fu l'aristocrazia di sangue; il motivo era semplicemente che, in forza della legislazione napoleonica, tutti i loro privilegi cessarono. Per lo più favorevoli al nuovo governo si mostrarono invece gli strati medio-alti del vecchio Terzo Stato, ovvero di quella che sempre più spesso cominciò ad essere chiamata borghesia. Per tutto il corso dell'età moderna il vocabolo “borghese” indicò essenzialmente coloro, tra gli abitanti della città, che fruivano del diritto di cittadinanza, ovvero della prerogativa di rivestire cariche pubbliche cittadine. Accanto a quest'uso se ne venne affiancando un altro: per borghese si cominciò ad intendere chi esercitava attività di tipo produttivo, commerciale o professionale. Al posto della condizione di aristocratico, lo Stato napoleonico aveva posto al vertice della scala gerarchica sociale quella di proprietario, derivante semplicemente dal possesso di beni e ricchezze mobiliari e immobiliari, quindi i borghesi: proprietari di terre e commercianti, professionisti, funzionari pubblici, ufficiali. Il sistema napoleonico nella penisola italiana crollò tra la fine del 1813 e il 1815. Dopo che le truppe austriache avevano occupato il Veneto, nel dicembre dell'anno precedente, nell'aprile 1814 a Milano fu una rivolta popolare a decretare l'abbattimento del governo del regno d'Italia. La rivolta culminò simbolicamente del linciaggio del ministro delle finanze Giuseppe Prina, identificato dalla popolazione come il massimo responsabile di un sistema che negli ultimi mesi imponeva carichi fiscali sempre più onerosi. Nel frattempo il re di Napoli, Gioacchino Murat, aveva cercato di separare le proprie sorti da quelle di Napoleone sperando di mantenere la sovranità. Quando nel 1815 divenne chiaro che le potenze alleate riunite al Congresso di Vienna non avevano alcuna intenzione di mantenere al suo posto Murat, egli cercò di guidare una sollevazione generale della penisola. Proclamò come obiettivi il conseguimento dell'indipendenza italiana sotto il suo scettro e l'emanazione di una costituzione che tornasse ad accordare ai cittadini quelle opportunità di partecipazione al potere che Napoleone aveva soffocato. Ma il tentativo di Murat fallì. Nel 1815 le quattro principali potenze che avevano sconfitto Napoleone (Inghilterra, Austria, Prussia e Russia) riplasmarono il profilo geopolitico del continente. Il loro obiettivo era riportare la Francia ai confini del 1792, costruire un equilibrio capace di evitare un eventuale ritorno dello spirito rivoluzionario e ripristinare il vecchio ordine, l'antico regime. Il piano tracciato al Congresso di Vienna rappresentava un compromesso tra il ritorno all'ordine prerivoluzionario, ovvero una restaurazione, e l'accoglimento di alcuni degli effetti prodotti dall'espansione napoleonica in Europa. Per questo, malgrado gran parte delle dinastie rivoluzionarie venissero nel 1815 poste nuovamente sul trono, in alcuni casi si preferì accettare il disegno di semplificazione territoriale derivato dalla politica di Bonaparte ed evitare di riproporre la grande frammentazione caratteristica dell'antico regime. L'Europa “restaurata” dal Congresso di Vienna era assolutista e dispotica. Il governo di gran parte dei Paesi si basava infatti sul rilancio dell'alleanza autoritaria fra trono e altare: i monarchi di Russia, Austria e Prussia strinsero un patto, la “Santa Alleanza”, che li vincolava reciprocamente ad intervenire militarmente all'interno degli altri Paesi, qualora in qualcuno di essi fossero scoppiate sommosse tese a rovesciare l'ordine restaurato. Tuttavia, accanto a questa Europa reazionaria ve ne era un'altra contraddistinta da ordinamenti variamente liberali, nella quale alcuni ristretti strati della popolazione esercitavano il diritto elettorale. Era questo il caso dell'Inghilterra, ma anche della Francia, della Svezia, dei Paesi Bassi e di alcuni stati tedeschi, dove i sovrani avevano deciso di concedere una carta costituzionale e di attenuare gli ordinamenti autoritari in materia di libertà di stampa, di pensiero e di associazione. Il prototipo per eccellenza di queste costituzioni, dette “legittimiste” perché derivanti da una limitazione del potere assoluto dei sovrani deciso volontariamente da loro stessi, era rappresentato dalla carta emanata nel 1814 da Luigi XVIII di Borbone al momento della sua ascesa al trono di Francia: essa costituiva un passo avanti rispetto al puro assolutismo, ma conteneva comunque norme che consentivano al sovrano di intervenire in modo autoritario sull'attività del Parlamento, che non risultava perciò pienamente titolare del potere legislativo. La battaglia contro il dispotismo, cioè contro la concezione gerarchico-autoritaria del potere, si accese ben presto in tutto il continente: da un lato si assistette al tentativo da parte della cittadinanza di ottenere ex novo una costituzione, dall'altro di estendere a strati sociali più ampi la fruizione dei diritti politici accordati solo ad una ristretta élite di persone. In quest'ultimo caso, la lotta per l'affermazione del liberismo si tradusse in lotta per l'affermazione della democrazia e spesso ebbe per obiettivo la trasformazione della monarchia in repubblica. Sollevazioni contro l'ordine istituito dal Congresso di Vienna si ebbero in Spagna, dove una rivolta portò all'emanazione di una costituzione nel 1820, ma tre anni più tardi intervenne militarmente la Francia; nel Regno delle Due Sicilie e in Piemonte, dove però a ripristinare l'ordine dispotico scesero gli Austriaci; anche in Russia nel 1825 il moto costituzionale detto decabrista venne represso facilmente dallo zar.
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