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Storia moderna generale - Appunti - Storia moderna , Appunti di Storia Moderna

Appunti di Storia Moderna generale

Tipologia: Appunti

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danielaschepis
danielaschepis 🇮🇹

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Scarica Storia moderna generale - Appunti - Storia moderna e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! ETA’ MODERNA L’età moderna si colloca tra gli inizi del XVI secolo e la fine del XVIII. Il punto di partenza per l’avvento di questa nuova epoca è l’uscita dal Medioevo, la nascita della civiltà del Rinascimento, e in seguito, la formazione degli Stati Moderni. Inoltre questi tre secoli sono caratterizzati dal trionfo delle borghesie europee. Dunque la modernità in Europa si è realizzata grazie all’uscita della sua società dalla vecchia dimensione agraria e preindustriale, dalle strutture cetuali, corporative e comunitarie. Sono stati gli strumenti forniti da questa modernità, sul piano della cultura, della tecnica, dell’organizzazione economica a rendere possibile quello che si è definito il “Miracolo Europeo”; consentendo all’Europa un ruolo egemone non solo nel campo dell’esercizio materiale ma anche nel campo culturale. Fu tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento che gli uomini percepirono in Europa l’emergere trionfante di questa modernità, la quale si caratterizza attraverso l’emergere di 5 realtà: • La democrazia sul piano politico • L’industria sul piano economico e sociale • La secolarizzazione sul piano religioso • La razionalizzazione sul piano scientifico • La promozione dell’individuo (individualismo) sul piano dei modelli sociali. Cinque realtà che segnano lo sviluppo di una dimensione laica, razionale, scientifica ed egualitaria della società. Il maggiore mutamento, in epoca moderna, ebbe luogo dunque nell’intelletto di ogni uomo, ma esso fu strettamente legato al costante aumento della popolazione, che, con l’incrementare il commercio e il sistema bancario, fu la causa indiretta di una maggiore prosperità per l’Europa. Questa nuova prosperità diede all’uomo una grande fiducia nella sua capacità di plasmare il mondo, un urgente bisogno di esplorarlo, sentimenti questi che presero il posto dell’antica credenza che il mondo fosse immutabile e che non potesse essere mutato. Un avvenimento alquanto significativo fu rappresentato dagli effetti delle scoperte geografiche, che ampliarono materialmente e intellettualmente l’orizzonte europeo (es. la scoperta spagnola dei metalli preziosi americani, che coprì e compensò per secoli il costante passivo commerciale e la scoperta di Colombo per la possibilità di assoggettare nuovi territori, alimentando, con le risorse che da lì provenivano, le relazioni economiche internazionali). Stato L’ascesa dello Stato fu in gran parte il risultato della crisi sociale dei detentori medievali del potere, dovuta dall’indebolimento della nobiltà colpite economicamente dagli effetti della depressione agraria e politicamente impotente di fronte alle continue lotte di rivolta per il potere e il dominio, per le immunità, i diritti e privilegi, per cui non fu in grado in molti casi di sostenere l’autonomia signorile feudale come principio di organizzazione politica. Ma, alla crisi dei vecchi poteri signorili si aggiunse la crisi della vecchia Chiesa, infatti, l’unica onnipotente Chiesa Cattolica venne sfidata da nuove Chiese Protestanti. Città È stata proprio la città con le nuove forme di produzione della ricchezza, con la sua originale cultura, a sconvolgere il modello di società di ordini che l’Europa ereditava dal Medioevo. È dalla cultura “mercantile” della città che è venuta fuori la contestazione di un sistema di valori che dimenticava l’idea di una differenza e di una gerarchia tra “professioni sociali” (nobiltà e clero) da una parte, e “professioni private” dall’altro. [passaggio da una res publica cristiana ad una res publica egualitaria (comuni) garantita dal vincolo religioso]. La rivoluzione luterana e la riforma protestante Le speranze in una riforma profonda della Chiesa diffusasi a partire dall’XI secolo, erano sempre andate deluse. Tra i molti mali dell’organismo ecclesiastico particolarmente scottante era quello dell’acquisto dell’indulgenza, pratica che dal principio del Cinquecento era molto diffusa. Lutero condannò questo principio dell’indulgenza attraverso 95 tesi (1517). Le critiche mosse al papato da Lutero si fondavano sulla teoria della Giustificazione per fede. L’uomo, creatura indegna e intrisa di peccato, non si salva con le proprie opere (penitenza, elemosina, carità verso il prossimo), ma solo per l’intervento di Dio, che lo rigenera con un atto di libera volontà completamente gratuito. Per questo sono inutili gli sforzi umani per guadagnarsi la benevolenza divina ed è scandaloso che la Chiesa venda le indulgenze. Dio parla solo con la Bibbia senza nessuna mediazione, e così la gerarchia ecclesiastica diventa d’impaccio nel rapporto tra l’uomo e Dio. Questa valorizzazione assoluta del dialogo diretto tra l’uomo e Dio, svalutava il ruolo dei sacerdoti in quanto intermediari necessari tra Dio e i fedeli; secondo Lutero esisteva infatti un sacerdozio universale secondo cui tutti i credenti erano sacerdoti perché tutti avevano ricevuto il battesimo. Critica dei sacramenti: i sette sacramenti cattolici furono ridotti da Lutero a due, cioè battesimo ed eucarestia, che a suo avviso erano fondati sulle Sacre Scritture; gli altri erano il frutto delle distorsioni introdotte dall’autorità ecclesiastica. La reazione del Papa Leone X non tardò a farsi sentire con la Bolla Exsurge Domine. Il pontefice condannò le idee di Lutero e ordinò che i suoi scritti fossero gettati al rogo ma Lutero rifiutò appellandosi all’imperatore Carlo V; nella Dieta di Worms gli fu chiesta una ritrattazione, che egli rifiuta , provocando la condanna dell’Imperatore. Mentre, rifugiatosi nel castello dell’elettore di Sassonia, suo Sul piano della dottrina il Concilio operò una netta chiusura nei confronti del protestantesimo: la Chiesa si propose come unica interprete delle Sacre Scritture, fu affermato il principio della salvezza per mezzo non solo della fede ma anche delle opere, etc. Sul piano della disciplina furono presi provvedimenti atti a risolvere problemi da tempo denunciati: fu ribadito l’obbligo del celibato ecclesiastico, i sacerdoti furono vincolati a risiedere nella circoscrizione loro affidata, venne creato una rete di seminari, etc. Venne definitivamente sancita la separazione tra la Chiesa protestante e quella Cattolica. Alla sua chiusura nel 1563, il Concilio emanò una serie di decreti: vennero riformati il complesso dei doveri ecclesiastici e venne riaffermata la dottrina cattolica.[nel complesso la Chiesa Cattolica uscì rafforzata dal Concilio] Protestantesimo e capitalismo Secondo Weber il protestantesimo, e in particolar modo il calvinismo, conteneva in sé l’impulso a produrre un enorme cambiamento nella società, “una trasformazione sistematica e razionale della vita etica e collettiva”. Ciò avveniva in ragione di un atteggiamento mentale assolutamente nuovo: “Il valutare l’adempimento del proprio dovere, come il più alto contenuto che potesse assumete l’attività etica”. I calvinisti, nel conferire un significato profondamente religioso al lavoro quotidiano, creavano così i presupposti di quell’ascesi laica che secondo Weber dette un forte impulso all’espansione del capitalismo moderno. Tocqueville Tocqueville aveva individuato la differenza fondamentale tra la democrazia americana e quella europea nel diverso modo in cui la libertà e l’uguaglianza si erano sviluppate all’interno dei rispettivi Paesi. Gli emigrati che si stabilirono in America all’inizio del XVII secolo liberarono il principio democratico da tutto ciò che nella vecchia Europa lo soffocava e lo trapiantarono nel Nuovo Mondo, dove è cresciuto liberamente e progredendo coi costumi, si è sviluppato nelle leggi. L’assenza di conflitti paragonabili a quelli che il Vecchio Continente ereditava dal feudalesimo, aveva consentito in America lo sviluppo di un modello puritano di definizione della libertà. La sovranità popolare, la repubblica, la separazione fra Stato e Chiesa avevano designato il nuovo sistema politico – costituzionale, la quale però, proprio per le sue particolari caratteristiche non era esportabile in Europa. Stato moderno e Chiesa La Riforma svolse un ruolo importante nello sviluppo dello stato moderno anche in quei paesi in cui non riuscì a diffondersi, appunto perché questi ultimi cercarono di rafforzare le loro strutture politiche proprio per ostacolare la diffusione della Riforma. Il protestantesimo non si diffuse in quei paesi, dove il rapporto tra governati e governatori era molto forte (es. Spagna e Francia). Lo Stato dei Lumi nell’Europa orientale e meridionale dopo la Rivoluzione Inglese Secondo i filosofi illuministi il dispotismo illuminato è per i sovrani un modo di esercitare il potere non più arbitrario ma legale e giustificato sul piano etico perché finalizzato alla pubblica felicità. Ma in realtà si tratta di una copertura ideologica, sotto la quale restano le precedenti abitudini politiche. Il dispotismo illuminato della seconda metà del XVIII secolo, è lo stato del recupero, una forma di stato adatta a strutture economiche e sociali arcaiche. Esso è opera di elite di cultura che si sforzano di colmare un ritardo più o meno grave. Questa forma di stato s’impianta meglio negli spazi vuoti dell’Est che nei centri di popolamento dell’Europa centrale e mediterranea, nei paesi non cattolici che nei paesi cattolici. Questo regime domina le regioni dell’Europa nelle quali il ritardo economico e sociale si era a lungo opposto alla modernizzazione del governo e dell’amministrazione (non può essere confuso con il trionfo dei Lumi). Lo stato prussiano non è una creazione dei Lumi. Lo stato prussiano si caratterizza per due motivi che facilitano i collegamenti con l’Est: la condizione dei contadini e il ruolo della nobiltà. Infatti qui l’emancipazione dei contadini non era ancora avvenuta, inoltre dominava l’antico servaggio. La nobiltà dell’Est è una nobiltà attiva, legata alla terra, abituata a servire. Dunque Federico II si adattò bene a questa situazione. La tradizione prussiana fonda l’autorità del principe e la sovranità dello Stato sul diritto divino e sulle leggi naturali, legalità di una natura voluta da Dio. Per Federico II, il popolo ha consentito che tutti i poteri siano affidati al monarca. Un consenso teorico e tacito, che non ha bisogno di essere espresso da istituzioni, parole o atti. Questo tacito contratto crea legami indissolubili tra il governo e la nazione (“il principe sta alla società che governa come la testa sta al corpo”). Durante il lungo regno di Maria Teresa (1740 – 80) furono realizzate le principali riforme dell’Impero Asburgico. L’imperatrice prese una serie di provvedimenti atti a separare competenze ancora confuse, come la divisione dei poteri finanziari, amministrativi e giudiziari. Ma con Giuseppe II le cose cambiarono. Infatti egli intende superare l’area delle riforme delimitata dai ministri di sua madre. Per desiderio di uniformità dà inizio ad un processo di germanizzazione dell’Europa danubiana. La politica di Giuseppe II viene definita giuseppinismo, tramite la quale egli: • Assoggetta la Chiesa allo Stato e cerca di istituire una Chiesa nazionale austriaca dipendente dal papato solo per questioni spirituali • Sopprime gli ordini religiosi ascetico – contemplativi e lascia in vita solo quelli che svolgono una funzione socialmente utile • Abolisce la tortura e la pena di morte e la servitù della gleba nonostante l’opposizione della nobiltà. I limiti del riformismo Francia: paradossalmente la patria dell’Illuminismo non conosce il dispotismo illuminato e continua la tradizione assolutistica (ancien regime) anche sotto Luigi XVI. Non c’è uniformità giuridica e istituzionale nel regno e le dogane interne ostacolano il commercio. Perdurano i privilegi fiscali di clero e nobiltà e la Corte ingoia immense risorse. Al malcontento del miserabile basso clero si unisce la protesta del Terzo Stato sulle spalle dei quali ricadono gli sprechi della monarchia e dell’aristocrazia. Luigi XVI non ebbe il coraggio di cambiare la situazione ponendo così le premesse per la rivoluzione francese anche perché un ulteriore sviluppo dell’assolutismo avrebbe messo in gioco i difficili equilibri della società per ceti. Inghilterra: il dispotismo illuminato non si afferma neanche in Inghilterra, dove del resto la monarchia parlamentare ha già riassorbito nel gioco istituzionale le spinte del Terzo Stato e dell’aristocrazia imprenditoriale, favorendo in ogni modo il commercio e l’industria. Spagna: già re di Napoli Carlo III di Borbone divenuto re di Spagna, attua una politica riformatrice con indirizzi giurisdizionalisti. Italia: a paralizzare l’Italia è l’habitat rurale eccessivamente concentrato, la vecchia rotazione biennale sfuggita al cambiamento tecnico dei secoli XII e XIII, l’incapacità di finanziare l’inserimento delle classi popolari nella civiltà scritta. È proprio qui la chiave per comprendere il relativo avanzamento della Toscana, del Piemonte e della Lombardia, dove l’uomo ha un valore e fa qualcosa per lui. E per quanto riguarda la Toscana c’è da aggiungere l’identità tra lingua parlata e scritta. Il relativo insuccesso del dispotismo illuminato nel Mezzogiorno mediterraneo è dovuto alla popolazione numerosa. Una popolazione densa, orgogliosa e attaccata al passato e un’elite che si è sottratta all’esperienza dell’evoluzione scientifica. Russia: restava la Russia, il grande miraggio dei Lumi. In Russia coesistevano due mondi che s’ignorano a vicenda: uno, una massa contadina che è ancora vittima di un duro servaggio e l’altro un’elite che gravita su Pietroburgo. Su una società arcaica orientale, alla fine del XVIII inizia uno sforzo per edificare uno Stato all’occidentale. All’antica “Duma dei Boiardi”, anarchica e feudale, è succeduto un nuovo ordine di governo, il Senato. Su una struttura sociale contadina è venuta a sovrapporsi un’economia di scambio. Caterina II liberalizza il commercio e rinnova l’apparato dello Stato. Le guerre di religione La lotta di parole e d’idee tra Cattolici e Protestanti portò nella seconda metà del XVI secolo a una guerra aperta. La Francia, nei Paesi Bassi, e più tardi in conflitto si sviluppò la corrente intellettuale dei politiques, favorevoli alla pacificazione religiosa e alla restaurazione dell’autorità regia]. Il Rinascimento Rinascimento è il nome che fu dato al movimento che ebbe inizio nelle classi colte dell’Italia settentrionale nel XIV secolo, e che qui si sviluppò nel XV secolo per diffondersi poi durante il XVI, nel resto d’Europa. Come spieghiamo l’entusiasmo che alimentò il risveglio classico? E perché esso comparve in quel particolare momento della storia europea? La risposta è strettamente connessa alla natura della società del rinascimento. • Essa era una società cittadina: città – stato dominavano l’Italia settentrionale e ovunque in Europa le città – stato crescevano in importanza. • La società rinascimentale, così come quella greca e romana, era laica. Gli uomini avevano perso il rispetto per la Chiesa a causa della fiacca linea di condotta dei pontefici, mentre la nuova ricchezza e le nuove esplorazioni dell’universo cominciavano a dare loro la fiducia nelle proprie capacità di risolvere i problemi del mondo. Ne conseguì che essi sentivano meno bisogno del sostegno morale della religione, così che la Chiesa, che era stata onnipotente nel Medioevo, perse lentamente la sua influenza sull’intelletto dell’uomo. Mutamenti questi che spiegano il nuovo credo nel ruolo dell’uomo come centro dell’universo, e che si espressero anche attraverso il nuovo cinismo politico. Il Principe di Machiavelli afferma: “Un principe che vuol mantenere la sua posizione deve saper agire male quando è necessario”. Il Rinascimento non deve quindi essere associato solo al risveglio dell’interesse verso la cultura del passato, ma anche allo sviluppo della ricchezza e del potere, alle nuove conquiste in campo artistico e, soprattutto, a un nuovo spirito critico di ricerca. L’epoca delle scoperte Il Rinascimento fu anche una grande epoca di scoperte geografiche: uomini d’azione, sostenuti da governanti ansiosi di accrescere le loro ricchezze e i loro territori, partirono alla scoperta e alla conquista di nuove terre e di nuove commerciali, soprattutto marittime, giacché il commercio lungo le tradizionali vie terrestri, con l’Oriente asiatico, già limitato dalla potenza mamelucca in Egitto, subì dopo il 1450 la minaccia di un blocco totale in seguito all’espansione ottomana. Ciò portò a un risveglio delle scienze nautiche e cartografiche giacché fino ad allora non erano esistiti metodi precisi per potersi orientare in alto mare, anche se ai tempi di Colombo erano ormai entrati nell’uso comune preziosi, strumenti quali l’astrolabio e il quadrante, con i quali, misurando l’altezza del Sole e delle stelle rispetto all’orizzonte, si veniva a conoscere la latitudine (non esistevano invece ancora per misurare la longitudine), la bussola e le carte geografiche disegnate da persone competenti. Verso il 1560 Gerardo Mercatore inventò un sistema di proiezione che permetteva di seguire con facilità la rotta segnata dalla bussola (navigazione lossodromica) e anche le navi si erano perfezionate; infatti le galee a remi del Mediterraneo erano inadatte per lunghi viaggi e i vascelli dalle vele quadrate potevano navigare bene solo con vento favorevole. I portoghesi tuttavia, avendo imparato dagli arabi che le navi con vele triangolari mobili (vele latine) navigano anche col vento in prua, costruirono navi con vele quadrate e in più una vela triangolare sistemata a poppa. Sebbene i portoghesi siano stati i veri pionieri dell’epoca delle scoperte, il loro primo successo fu soprattutto il commercio di oro e di schiavi con la vicina Africa occidentale. Già nel 1418, il principe Enrico il Navigatore inviò uomini alla ricerca di una rotta navale verso quei territori donde prima arrivavano le carovane di cammelli dei musulmani attraverso il Sahara. Il successo di questa impresa fece sì che gli esploratori portoghesi si spingessero più a Sud: nel 1488 Bartolomeu Dias doppiò il capo di Buona Speranza e dieci anni più tardi Vasco de Gama raggiunse l’India. Il Portogallo incominciò subito ad arricchirsi con le sete, le spezie e le altre merci asiatiche che provenivano dai centri commerciali situati lungo le coste indiane. Mentre i portoghesi si dirigevano ad Oriente, la Spagna mandava uomini di mare a Occidente, alla ricerca di vie commerciali transatlantiche verso la Cina e le Indie. Nel 1492 Colombo credette che le Bahama fossero le isole al largo della costa asiatica, ma più tardi altre esploratori, tra cui Amerigo Vespucci (1497) e Ferdinando Magellano (1519), provarono che oltre le Bahama e le cosiddette “Indie Occidentali” esisteva un altro continente sconosciuto che sbarrava la via verso l’Asia. Fu subito evidente che gran parte di questo enorme continente era favolosamente ricca e gli spagnoli inviarono in patria dal Messico e dal Perù enormi quantità di oro e argento, dando in questo modo alla Spagna una potenza e un prestigio nuovi. Le scoperte che avevano arricchito la Spagna e il Portogallo avevano d’altra parte messo in crisi il commercio italiano, in quanto l’antico e vantaggioso monopolio veneziano del commercio delle spezie era crollato a causa del commercio del rivale Portogallo. Per l’Europa comunque le grandi scoperte significavano maggiori prosperità, giacché nuovi prodotti come cacao, tabacco, tacchini, granoturco e patate, venivano dall’America in grande abbondanza mentre il crescente uso dei metalli preziosi affrettava un cambiamento economico fondamentale, ossia lo sviluppo del capitalismo basato su potenti case bancarie. Nonostante i loro sforzi, il Portogallo e la Spagna, non riuscirono, infatti, a mantenere la loro supremazia sulle altre città commerciali dell’Europa e Lisbona e Cadice perdettero gradatamente di importanza a mano a mano che andavano sviluppandosi e fiorendo Amsterdam, Anversa, Bristol e Londra. Olanda e Inghilterra divennero potenti grazie al grande sviluppo del commercio e della marina e alla loro posizione geografica alle porte dell’oceano Atlantico, mentre la Spagna, attraverso guerre rovinose e ristagni politici ed economici si avviava verso il declino e, per le stesse ragioni, anche la forza del Portogallo s’indeboliva. Le scoperte geografiche e l’economia europea Le scoperte geografiche hanno sin dall’inizio favorito l’Europa. L’oceano si rivelò meno pericoloso di quanto si era temuto, e le risorse si rivelarono molto ricche. Sebbene le coste africane fossero rischiose per le navi di quel tempo, dopo che Colombo ebbe fatto il primo coraggioso salto nel buio, l’Atlantico apparve più agevole da attraversare. Le risorse extra europee erano ampie e a buon mercato. La maggior parte del commercio continuò a svolgersi tra i popoli europei, ma i traffici extra continentali crebbero vertiginosamente. Non considerando i metalli preziosi, emersero quattro settori economici principali: • La pesca oceanica e la caccia alle balene e alle foche • Foreste boreali. Nel XVI secolo le merci esportate in Europa occidentale, comprendevano pellicce, sale, cere, miele, pelli di animali. Le coste meridionali del Baltico fornivano grano all’Europa occidentale. • Le terre tropicali e sud tropicali consentivano di coltivare zucchero, tabacco, cotone, riso. • Il grano poteva essere coltivato nelle zone temperato del Nord America. Non tutti i paesi europei trassero benefici immediati da questa ricchezza. Il Portogallo, la Spagna, l’Olanda, l’Inghilterra assunsero a turno il dominio dei mari. Vi erano motivi di curiosità, spirito di crociata, desiderio di trovare l’oro, ma l’interesse vero stava nella ricerca di nuove risorse. In generale il commercio e la parole, si trattava di una vendita di titoli da parte dello Stato che in sostanza era uno strumento utilizzato dai sovrani: • Per accrescere le proprie entrate • Consolidare il consenso all’interno dell’aristocrazia. Il processo di rifeudalizzazione andrà visto, dunque, come l’affermazione del predominio della nobiltà. Infatti nel corso del Seicento si andranno riducendo le possibilità di ascesa sociale che avevano caratterizzato i secoli precedenti. La crisi delle manifatture e dei commerci fu in parte causata dalla crisi agricola. Del resto, dato il ruolo centrale dell’agricoltura nell’età preindustriale, era ovvio che il ciclo di stagnazione delle campagne incidesse sul sistema degli scambi. Il calo dei redditi e la conseguente riduzione del tenore di vita di gran parte della popolazione rurale produssero: • Una caduta della domanda di manufatti. Questo fenomeno a sua volta spinse alla riduzione degli investimenti nelle manifatture e nei commerci. • Per fronteggiare la caduta della domanda di manufatti era necessario ridurre i costi di produzione, in modo da sfornare merci in grado di reggere la concorrenza sui mercati. Ma un ostacolo fu rappresentato dalle corporazioni che sin dal Medioevo organizzavano con i loro statuti il sistema produttivo e il mondo del lavoro nelle città. Dunque le corporazioni svolsero un ruolo frenante impedendo la libera concorrenza dei prezzi e non permettendo l’adattamento delle manifatture cittadine alle esigenze del mercato. Molte attività produttive si trasferirono nelle campagne dove non era in vigore i regolamenti corporativi. Inghilterra e Olanda avevano assunto il primo controllo delle rotte e degli scambi commerciali tra l’Europa settentrionale e l’area mediterranea. Il Seicento fu il secolo della loro definitiva ascesa e penetrazione nei circuiti commerciali del Mediterraneo. La presenza delle navi olandesi, inglesi e francesi con il sostegno anche militare dei rispettivi governi, finì per imporsi nel Mediterraneo, togliendo a mercati e navighi italiani il primato nei traffici e nei servizi commerciali. [Rifeudalizzazione = rinforzo della pressione dei signori sulle classi subalterne] Lo stato assoluto in Francia (il consolidamento della monarchia) La Francia di Luigi IV (1562 – 1598) La fine delle guerre di religione e l’ascesa di Enrico IV di Borbone non avevano posto fine alle tensioni interne della Francia. Da un lato la nobiltà restava ostile di fronte ai tentativi di accentramento del potere; dall’altra gli ugonotti, mantenevano una struttura di tipo politico – militare che costituiva una continua minaccia per la Corona. Nonostante questi ostacoli, Enrico IV seppe comunque rafforzare la propria autorità, attraverso una politica, al tempo stesso, rispettosa dei privilegi della grande nobiltà e inflessibile di fronte ad ogni tentativo di ribellione. I primi anni del Seicento videro così un rafforzamento del potere regio. L’economia francese beneficiò del ritorno della pace e della cauta politica estera di Enrico IV, che tenne la Francia fuori da guerre e conflitti. I decenni a cavallo tra Cinquecento e Seicento furono caratterizzato dall’attenta politica economica del primo ministro di Enrico il duca Sully. Egli: • Favorì l’agricoltura • Tutelò il commercio del grano • Alleviò i carichi fiscali e le imposte ai contadini • Avviò la bonifica di vaste aree e la costruzione di infrastrutture (ponti, strade, canali). Grazie a misure protezionistiche e agli investimenti dello Stato nel settore, le manifatture in generale e di beni di lusso conobbero un notevole sviluppo. Nell’opera di governo il sovrano era affiancato dal Consiglio del Re, al quale erano ammesse solo persone di stretta fiducia. All’interno del Consiglio si venne poi delineando una suddivisione di competenze. Fu questo il caso in Francia di Sully, Richelieu, e Mazzarino. Decisivo nel rafforzamento delle strutture di governo fu soprattutto l’istituzione degli intendenti di giustizia polizia e finanza, commissari straordinari, cui spettava il compito di rappresentare il Re nelle province del regno. Nominati dal sovrano, gli intendenti avevano competenze in campo giuridico di ordine pubblico, e nell’amministrazione finanziaria, e come tali svolsero un ruolo fondamentale nel ridurre le sacche di autonomia esistente nel paese. A contrastare tale processo di accentramento del potere rimanevano i parlamenti (tribunali di appello), ai quali spettava il compito di registrare gli editti regi. I parlamenti avevano la facoltà di bloccare la registrazione di un editto, nel caso che questo fosse risultato in contrasto con le leggi fondamentali del Regno. Nel corso del secolo i parlamenti utilizzarono sempre più questa facoltà per bloccare le leggi lesive dei loro privilegi. Mentre i consiglieri regi e gli intendenti erano nominati dal Re e da questo potevano essere rimossi, l’incarico di parlamentare e quelli di molti ufficiali minori poteva essere acquistato. Da tempo in Francia era invalsa questa pratica della venalità delle cariche: gli uffici pubblici potevano essere venduti al migliore offerente, in modo da migliorare le casse regie. A fianco della nobiltà di spada, la nobiltà tradizionale che si voleva discendesse dalla cavalleria medioevale, si era formata la nobiltà di toga, così chiamata dalla veste indossata dai magistrati dei parlamenti francesi. L’acquisto delle cariche venne reso ancor più conveniente dalla possibilità di designare il proprio successore, in cambio del pagamento di un’imposta annuale paulette, introdotta nel 1604, affermò di fatto il principio dell’ereditarietà delle cariche venali e contribuì alla definizione della nobiltà di toga come un ceto bene identificato. Si era trovato, così, un efficace mezzo per aumentare le entrate dello Stato e creare un corpo di funzionari fedeli alla Corona. Nel 1610 Enrico IV fu assassinato da un fanatico religioso. Il figlio ed erede Luigi XIII aveva solo 9 anni quando salì al trono e immediatamente i nobili della Corte iniziarono a tessere intrighi per accaparrarsi vantaggi. Ma dal momento che il re era ancora bambino la reggenza fu assunta dalla regina, la madre Maria de’ Medici. Nello stesso tempo i protestanti francesi (ugonotti) stavano chiedendo una maggiore libertà politica, e il paese avrebbe potuto essere ridotto all’anarchia se non fosse comparse un grande uomo di stato politico: il cardinale Richelieu. Egli diresse personalmente un vittorioso assedio condotto nel 1628 contro La Rochelle, roccaforte dei ribelli ugonotti. A Corte, invece, sconfisse con l’astuzia la grande nobiltà che lo ostacolava, rafforzando a spese di questa la potenza e il prestigio della monarchia. L’amministrazione degli affari interni della Francia fu affidata a degli intendenti i quali governavano in nome del Re. Per quanto riguarda gli affari esteri, egli estese l’influenza del suo paese alleando la Francia con nazioni come la Svezia e la Repubblica olandese. L’unico problema che Richelieu non riuscì a risolvere fu quello delle agitazioni popolari che esplosero nella fase della partecipazione della Francia alla Guerra dei Trent’anni, soprattutto a causa dell’eccessivo fiscalismo regio, un segno evidente che l’equilibrio faticosamente costruito da Richelieu era fragile, perché fondato più sulla forza del governo centrale, che su un’armonica compensazione delle esigenze espresse dai diversi ceti. Alla morte di Luigi XIII il trono passò a un altro re in età giovane, Luigi XIV (Re Sole 1643 – 1715), e un altro cardinale, Mazzarino, che Richelieu aveva educato perché divenisse il suo successore, prese le redini del governo quando nel 1642 morì Richelieu. Mazzarino seguì la linea politica tracciata dal suo predecessore, continuando il processo di consolidamento dell’autorità regia e proseguendo la guerra contro la Spagna. Durante i primi anni del suo regno le importanti vittorie militari conseguite dalla Francia, conferirono grande prestigio al cardinale. Ma, ben presto, la politica centralizzatrice, l’aumento della pressione fiscale, e il dissesto finanziario dello stato, aggravato dalle spese militari, destarono nei confronti di Mazzarino il malcontento di vasti settori del paese. La nobiltà di spada si sentiva sempre più esclusa dalla guida del regno a favore della nobiltà togata, dalla quale Mazzarino traeva consiglieri e intendenti. Al loro volta i ceti togati erano scontenti perché, per colmare le perdite di cassa, Mazzarino aveva aumentato il numero di cariche venali, portando a un loro deprezzamento. La guida dell’opposizione fu assunta dai parlamenti. Nel 1648 il tentativo di Mazzarino di far approvare un pacchetto di provvedimenti fiscali, tra i quali una trattenuta sui salari dei finanziari pubblici, provocò la reazione dei parlamenti. Attorno ad essi si coalizzò un forte 1618 la Spagna entrò nella Guerra dei Trent’anni e nel 1621 Olivares decise di riprendere anche le operazioni militari contro le Province Unite. Inizialmente la Spagna sembrò favorita nel conflitto ma ben presto apparve chiaro che il contemporaneo coinvolgimento su più fronti fosse al di là delle sue forze. Per sopperire alle difficoltà finanziarie e per trovare nuovi fondi, Olivares varò un progetto di riordino fiscale e militare detto Unione delle Armi (1640 Catalogna e Portogallo si proclamavano indipendenti) che rendeva partecipe dei costi del mantenimento di un cospicuo esercito, tutte le province dei domini spagnoli. Il provvedimento destò ovunque il malcontento che fu all’origine delle rivolte che segnarono il definitivo declino della monarchia spagnola. Nel 1643 con la Catalogna occupata dai francesi e la perdita delle colonie portoghesi, finiva l’era di Olivares. Di fronte alle sconfitte militari e alle rivolte interne, a Filippo IV non restò che licenziare il conte duca. La guerra di successione spagnola (1700 – 1714 estinzione della casa di Asburgo in Spagna) I sovrani europei mirano al trono di Spagna Carlo II (figlio di Filippo IV d’Asburgo) malato e privo di eredi maschi, aveva posto da tempo il problema della sua successione. Molto sovrani europei si erano legati a lui grazie ad un’accorta politica matrimoniale; tra questi si distinguevano Luigi IV e l’imperatore Leopoldo (l’imperatore austriaco d’Asburgo), entrambi figli e mariti di principesse spagnole, decisi a impossessarsi dei domini europei della dinastia iberica. Luigi XIV intendeva evitare uno smembramento del grande impero coloniale spagnolo a vantaggio dell’Inghilterra e dell’Olanda, sue grandi rivali sul piano commerciale. Nel 1698 e nel 1700 si giunse ad accordi per una soluzione diplomatica del contrasto; questi furono però disattesi per la morte di Giuseppe Ferdinando, figlio dell’elettore di Baviera a cui erano state assegnate la Spagna, i Paesi Bassi e le colonie americane, e per il testamento di Carlo II, che designava erede universale il duca D’Angiò e Filippo di Borbone nipote di Luigi XIV. Tutte le corti europee e in particolare quella austriaca, si opposero al mantenimento dell’unione dei domini spagnoli sotto un sovrano strettamente imparentato col Re Sole, ma non riuscirono ad impedire che, alla morte di Carlo II, il Borbone salisse al trono di Spagna col nome di Filippo V, senza rinunciare neppure ai diritti di successione al trono francese. Inghilterra, Olanda e Austria contro la Francia Inghilterra, Olanda e Austria promossero dunque la cosiddetta Grande Alleanza, a cui aderirono anche Danimarca, Prussia, Palatinato e Hannover, più tardi, il Duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, e il Portogallo, inizialmente schierati con la Francia. Ebbe così inizio la guerra di successione spagnola (1702 – 1714). Il grande esercito di Luigi XIV ottenne importanti successi nella prima fase del conflitto (1702 – 1704), ma la defezione dei suoi alleati e la designazione alla testa delle truppe austriache e inglesi di due grandi generali, Eugenio di Savoia e il duca di Marlborough, resero incerte le sorti della guerra. Il conflitto si allargò ben presto all’America settentrionale, ai Caraibi e al Mediterraneo dove fu evidente la superiorità navale inglese e olandese. L’esercito di Luigi XIV venne battuto in Baviera e scacciato dall’Italia (Torino 1706); gli Austriaci occuparono per qualche tempo Madrid e si istallarono a Napoli nel 1707. E, a fianco degli Inglesi, sconfissero ripetutamente i francesi nei Paesi Bassi (1708 – 1709). Insieme ai rovesci militari, la Francia subì una grave crisi finanziaria, provocata dal grave debito pubblico e dall’insostenibile imposizione fiscale per sovvenzionare la guerra: a ciò si aggiunse il peso della coscrizione e le carestie che devastarono il paese tra il 1709 e il 1710. Luigi XIV si risollevò però in modo insperato. Nel 1711, dopo la morte prematura dell’imperatore Giuseppe I, saliva al trono suo fratello, l’arciduca Carlo (Carlo VI). Già candidato della Grande alleanza alla corona di Spagna; la minaccia di una riaffermazione del predominio asburgico sull’Europa tramite l’unione delle due corone preoccupava indistintamente tutti i contendenti. Si riaprivano le trattative di pace, fallite nel 1709, per le gravose condizioni imposte alla Francia. L’Europa dopo le paci di Utrecht e di Rastadt Inghilterra e Olanda si accordarono per prime con Luigi XIV, con il trattato di Utrecht del 1713; nel 1714, Carlo VI dovette accettare la pace sancita a Rastadt. L’Europa mutò volto dopo la guerra di successione spagnola, Filippo V, riconosciuto re di Spagna, dovette rinunciare a ogni diritto sulla corona francese. I suoi domini risultarono ridimensionati rispetto alla situazione precedente al conflitto: conservava le colonie americane, perdeva però i Paesi Bassi e tutti i possedimenti italiani, che passavano a Carlo VI, a eccezione della Sicilia, assegnata al duca di Savoia. Affermando la propria supremazia sulla penisola italiana, fu proprio l’imperatore a ricavare i maggiori vantaggi territoriali in Europa. L’Olanda, invece, si garantì una serie di piazzeforti al confine con la Francia. La più avvantaggiata dai trattati di pace fu però l’Inghilterra: la Spagna le cedette Minorca, Gibilterra, la fortezza che controllava l’accesso al Mediterraneo, e le riconobbe una serie di privilegi commerciali, come l’asiento, il monopolio della tratta degli schiavi africani con le colonie spagnole, e il vascello di permissione, che consentiva ogni anni di inviare nelle colonie spagnole d’America una grande nave (500 t) carica di merci. Ottenne poi Terranova e la Nuova Scozia dalla Francia. Il 1° settembre 1715 moriva Luigi XIV. Al termine del suo lunghissimo regno, la Francia aveva esteso le proprie frontiere orientali, ma aveva anche impegnato tutte le proprie risorse per conseguire obiettivi limitati, se confrontati con le ambizioni del suo re, che non aveva potuto impedire l’affermarsi dell’egemonia asburgica in Italia e nell’Europa centrale. Inoltre l’Inghilterra aveva stabilito su tutti i mari una supremazia che nel cinquantennio successivo la Francia avrebbe tentato invano di contrastare. L’equilibrio delineatosi dopo i trattati di Utrecht e Rastadt si sarebbe La Francia della seconda metà del Settecento era tra i paesi più ricchi e sviluppati di Europa, la produzione agricola era cresciuta sospinta da una buona congiuntura dinastica e dall’aumento dei prezzi delle derrate alimentari. Ma, la situazione economica, sociale e politica francese presentava anche molte ombre. Infatti nelle campagne francesi permaneva una solita struttura feudale, che in Inghilterra era invece da tempo scomparsa. La nobiltà e il clero continuavano a godere di diritti signorili nei confronti dei contadini, le famiglie contadine erano infatti obbligate a fornire gratuitamente prestazioni d’opera per lavorare le terre del signore, mentre non potevano cacciare, pescare e tagliare legna liberamente nei boschi. Tutto ciò aggravava la condizione degli agricoltori che non potevano beneficiare dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, cioè di chi non possedeva terra o ne aveva troppo poca per mantenere la famiglia e doveva quindi lavorare i campi degli altri. I contadini più poveri divennero dunque sempre più poveri, anche perché all’aumento dei prezzi e dei diritti signorili si aggiungeva pur sempre il peso della decima ecclesiastica e delle imposte statali. Negli anni 70 le difficoltà della monarchia francese si accentuarono. Appena salito al trono il giovane Luigi XVI rimise subito in funzione i parlamenti che ripresero a esercitare il loro controllo su ogni iniziativa di riforma. Il problema più serio da affrontare era quello del debito pubblico, aumentato durante la guerra dei 7 anni. Il primo dei ministri di Luigi XVI, Turgot, cercò di risolvere la grave crisi finanziaria aumentando le entrate dello stato attraverso: • carichi fiscali • L’incremento dei commerci • L’incremento della produzione manifatturiera • Tentò di liberalizzare il commercio dei grani • Tentò di introdurre un’imposta fondiaria che colpisse anche i beni del clero e della nobiltà L’azione del Turgot si sviluppò però in una fase recessiva, caratterizzata da una serie di cattivi raccolti che colpirono le popolazioni delle campagne e delle città; dalla crisi dei commerci internazionali e dall’andamento altalenante dei prezzi. L’opposizione del clero e della nobiltà ai provvedimenti di Turgot, ottenne anche il consenso degli strati inferiori della popolazione, le cui condizioni di vita erano peggiorate a causa della crisi economica. Conseguenza di quest’andata di malcontento fu l’allontanamento di Turgot, costretto da Luigi XVI a dimettersi. Dopo di lui altri ministri, tra cui Brienne, tentarono di risanare il debito pubblico, ma questi tentativi si scontravano sempre con l’opposizione dei ceti privilegiati e dei parlamenti,che in cambio dell’approvazione di qualsiasi provvedimento pretendevano un drastico ridimensionamento dei poteri del sovrano e dei suoi ministri. (Cahiers de doleances, “quaderni delle lamentele). L’unica soluzione alla crisi politica appariva agli occhi di tutti la convocazione degli Stati Generali ovvero l’assemblea dei rappresentanti dei tre stati del regno, cioè il clero, la nobiltà e il cosiddetto Terzo Stato. Il 5 maggio 1789, re Luigi XVI inaugurò la prima seduta del parlamento francese (gli Stati Generali). Altri sovrani non videro di buon occhio che il più potente re d’Europa richiedesse l’appoggio del popolo. Nel convocare gli Stati Generali, Luigi non credeva di dar vita alla rivoluzione. Le spese per una corte fastosa e per le lunghe guerre l’avevano lasciato disperatamente a corto di denaro; la nobiltà privilegiata, sua consigliera, lo aveva convinto che in caso di riunione degli Stati Generali, il primo e il secondo Stato avrebbero costretto la borghesia ad accettare nuove tasse. Ma avevano dimenticato le idee illuministiche che si erano diffuse fra la gente. I membri del Terzo Stato, riunitisi, si dichiararono i soli rappresentanti della nazione. Alla fine di giugno il re finì per accettare le loro pretese. L’assemblea impiegò due anni a preparare una costituzione, e nel frattempo la precaria situazione nelle campagne esplose in una rivolta antifeudale, così l’assemblea decise l’abolizione del regime feudale, e per la prima volta i contadini poterono possedere terre senza dover rendere servizi gratuiti al proprio signore; e i nobili persero molti altri privilegi. Contemporaneamente fu promulgata una Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, il documento più celebre della rivoluzione, destinato a divenire un punto di riferimento per tutti i regimi liberali e democratici della società contemporanea. La Dichiarazione rivendicava i principi fondamentali della libertà e dell’uguaglianza, e poneva come obiettivo di ogni associazione politica la conservazione dei diritti naturali dell’uomo, quali la libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all’oppressione. Per i principi dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e del libero dispiegarsi delle capacità senza nessuna distinzione di ceto o privilegio, la Dichiarazione costituì l’atto di morte dell’ancien regime. L’assemblea non aveva alcuna intenzione di fare della Francia una repubblica, ma il popolo era di parere diverso; le dure condizioni di vita nella campagna costringevano i contadini affamati a cercare lavoro a Parigi, ove però il cibo era scarso e costoso, e alla fine il popolo si rivoltò. Il 14 luglio 1789 la folla prese d’assalto la Bastiglia, la prigione reale di Parigi, considerata simbolo dell’oppressione e dell’ingiustizia. L’ultima spallata alla struttura dell’ancien regime fu, la requisizione dei beni ecclesiastici. In seguito furono aboliti gli ordini religiosi, salvo quelli dediti all’insegnamento e all’assistenza ospedaliera. Proprietà terriere ed edifici urbani e rurali divennero beni nazionali, la vendita all’asta dei beni nazionali avrebbe sanato il deficit pubblico. Dopo la requisizione dei beni della chiesa apparve inevitabile che spettasse allo stato il mantenimento degli ecclesiastici, equiparati ai funzionari pubblici dalla Costituzione Civile del Clero del 1790. La costituzione civile attribuiva la nomina dei vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali, e come tutti gli altri funzionari, anche gli ecclesiastici furono obbligati a giurare fedeltà alla nazione, al re, e alla Costituzione. Nello stesso arco di tempo, fra il ’90 e il ’91, l’assemblea costituente proseguì l’opera di edificazione delle strutture amministrative. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti; fu attuato un decentramento che rovesciava il sistema accentrato voluto dalla monarchia assoluta. L’assemblea, ispirata da principi liberati e anticorporativi, non solo soppresse tutte le corporazioni di mestiere, ma vietò anche con la Legge Chapelier le condizioni operarie egli scioperi, ostacolò così le forme di organizzazione e di resistenza dei lavoratori e favorì il libero mercato della manodopera. La costituzione del ‘91 Il regime politico che si veniva definendo con le norme elettorali era: • Era soprattutto un regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri • I giudici divennero elettivi • Fu previsto un Parlamento composto da una sola camera (l’assemblea legislativa) della durata di 4 anni • I ministri di nomina regia erano responsabili solo di fronte al sovrano e non potevano essere membri dell’assemblea • Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate dall’assemblea: solo dopo la conferma in due assemblee successive, tali leggi sarebbero diventate esecutive. Il sistema previsto dalla Costituzione del ’91 era elaborato, in modo da richiedere uno stabile accordo tra il potere esecutivo e quello legislativo, fra sovrano e l’assemblea. Ma la realizzazione di una monarchia costituzionale, fu spezzata via della fuga del re da Parigi (giugno 1791), il gesto del re mostrava la sua chiara adesione al programma della controrivoluzione. Il disegno era di guidare dall’estero una restaurazione armata della vecchia Francia. Ma riconosciuto e fermato il re fu ricondotto a Parigi con la famiglia. struttura di comunicazione (stampa, ecc.) che aveva dato luogo alla circolazione delle idee illuministe, agì anche per i principi rivoluzionari. L’influenza della rivoluzione fu particolarmente forte nei paesi limitrofi, dove poté agire elemento di squilibrio, dei rapporti interni, sommandosi a esigenze autonomistiche o a conflitti già in corso, tali furono i casi del Belgio e dell’Olanda: il Belgio, fu ammesso alla Francia e l’Olanda si trasformò in Repubblica Batava. In Italia si formarono vari club giacobini duramente represse dai governi. Il Direttorio continuò nella politica di espansione in Europa, che univa il progetto di liberazione dei popoli ad obiettivi di sfruttamento economico. Nel 1796 Bonaparte ottenne il comando dell’armata d’Italia. I suoi straordinari e rapidi successi costrinsero l’Austria alla pace, con il Trattato di Campoformio (1797), gli Austriaci venivano compensati delle loro perdite con il Veneto, l’Istria e la Dalmazia (la Repubblica cessò di esistere). Mentre i Francesi da quel momento avevano in Italia il controllo diretto di Lombardia, Emilia, annessione del Belgio, la riva sinistra del Reno. Lo sfruttamento dei territori italiani si legava al progetto della creazione di una serie di repubbliche “giacobine”: nel 1796 – 1797 la repubblica cispadana (Emilia Romagna) che si fuse poco dopo con la cisalpina (Lombardia, Bergamo e Brescia) e la repubblica Ligure; nel 1798 la Repubblica Romana (Lazio, Umbria e Marche) e nel 1799 la Repubblica Partenopea. Queste repubbliche ebbero costituzioni moderate e i loro organi legislativi e di governo furono soggetti al controllo francese. L’estraneità dei ceti popolari al dominio francese determinò frequenti episodi di rivolta. Mentre l’instabilità politica caratterizzava la situazione interna francese, Bonaparte organizzò una spedizione in Egitto 1798 per colpire da lì l’interesse commerciali inglesi. Ma i successi militari francesi furono annullati dalla distruzione della flotta francese ad opera dell’ammiraglio inglese Nelson. Le sconfitte militari provocarono una ripresa dell’attività giacobina in opposizione al Direttorio. La situazione si risolse attraverso il Colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) [Napoleone impose con le armi una riforma costituzionale che rafforzasse l’esecutivo. Venne istituita una commissione esecutiva con pieni poteri composta da tre consoli della Repubblica Francese: Sieys, Napoleone e Ducos] che, ideato dal console Sieys, poté realizzarsi solo grazie all’intervento militare di Bonaparte. Il colpo di Stato pose fine alla dinamica politica rivoluzionaria. Con la Rivoluzione Francese cambiarono modi e contenuti della politica: in questo senso dà inizio alla storia contemporanea divenendo il punto di riferimento obbligato di tutte le tendenze politiche dell’Ottocento. La Rivoluzione Francese: un’organizzazione del potere, la monarchia assoluta e le basi giuridiche della società per ceti. Ai privilegi sostituì l’eguaglianza dei diritti, mise in atto una serie di rapporti fra società civile e stato, fondati su un enorme estensione della base politica e della partecipazione. L’allargamento della partecipazione, il trasferimento della sovranità al popolo, mutarono radicalmente i modi e i contenuti della politica. Rivoluzione Inglese 1455 – 1485 Dopo anni di lotta tra le case regnanti rivali, Enrico VII (1485 – 1509) riuscì ad insediare sul trono d’Inghilterra la sua famiglia, i Tudor. Molti nobili erano stati uccisi in guerra (terre e beni incamerati nel dominio regio) e la Camera dei Comuni, attraverso la quale si faceva sentire la voce dei nobili fondiari e dei mercanti, era orami la sola che potesse controllare la monarchia, giacché per tradizione aveva il compito d’assegnare i tributi al Re per l’amministrazione dello Stato. Ci fu una certa tensione tra il re e il popolo quando Enrico VIII (1509 – 47) impose per la prima volta al paese il Protestantesimo e quando sua figlia, la regina Maria (Tudor la Sanguinaria 1553 – 58) cercò al contrario di far rivivere il cattolicesimo. Tuttavia infine il moderato protestantesimo sostenuto dalla regina Elisabetta I (1558 – 1603) incontrò il favore di quasi tutta la nazione. Durante il suo regno il paese prosperò: vi fu un rinnovarsi e fiorire della cultura, del sapere e dell’arte, mentre avventurosi capitani conquistavano nuove terre e nuova gloria (la nascita delle Compagnie commerciali favorì la ripresa delle esplorazioni). Elisabetta era stata capace di imporsi ai ceti che erano alla base sociale del suo regno, grazie soprattutto alle sua personale abilità politica. In realtà la monarchia inglese, dal punto di vista istituzionale, era debole. Il processo di accentramento dei poteri era a uno stadio più arretrato rispetto al resto dell’Europa occidentale: non esisteva per esempio un esercito permanente posto direttamente sotto l’autorità del sovrano, ogni prelievo fiscale doveva essere di volta in volta approvato dal Parlamento, e le entrate tradizionali della corte, erano ormai insufficienti a sostenere la “macchina statale”. L’autorità del sovrano e la sua possibilità di comando dipendevano, quindi, da un tacito accordo con le varie componenti della società. Queste ultime, che avevano il loro luogo di rappresentanza nel Parlamento, appoggiavano scelte del sovrano in cambio di un’ampia libertà nel governo delle città delle campagne del regno. In particolare la forza della Corona derivava dalla sua alleanza con la Gentry, la piccola nobiltà di campagna che durante i regni di Enrico VIII e Elisabetta si era arricchita grazie all’acquisto delle proprietà ecclesiastiche secolarizzate. Re e Parlamento in Inghilterra Giacomo I, un sovrano impopolare Alla morte di Elisabetta il trono inglese passò al re di Scozia Giacomo I Stuart (1603 – 25; figlio di Maria Stuarda regina di Scozia, cugina di Elisabetta I. Elisabetta non si era sposata, tempo prima Filippo II di Spagna le aveva chiesto la mano ma lei rifiutò. Maria Stuart cerca di prendere il potere inglese, Elisabetta I la fa decapitare. Ferdinando vede questo un fattore religioso perché Maria Stuart era cattolica, la Spagna era cattolica e quindi attacca guerra a Elisabetta e vince. Quando Filippo muore non aveva eredi, così sale al trono il nipote Giacomo I) Inghilterra e Scozia si ritrovarono così unite all’interno dello stesso dominio, pur mantenendo strutture amministrative e istituzionali separate. Il nuovo sovrano cercò di ampliare le prerogative della monarchia ma, così facendo, finì per rompere il delicato equilibrio esistente nel paese ed entrare in contrasto col parlamento. La debolezza della corona era dovuta soprattutto alla sempre più precaria situazione finanziaria. La mancanza di un’imposta diretta stabile privava il sovrano delle risorse necessarie a mantenere un esercito stanziale e un corpo di ufficiali sufficientemente ampio. Giacomo I cercò più di una volta di risolvere questi problemi, soprattutto chiedendo al parlamento di approvare un’imposta fondiaria che avrebbe potuto assicurare alla corona un’entrata sicura. Poiché ciò avrebbe significato sostanzialmente una forma di esazione stabile sui patrimoni sottratta al controllo parlamentare, il parlamento si rifiutò ripetutamente di concedere al re questo provvedimento. Per rimpinguare le casse statali Giacomo dovette allora ripiegare sullo sfruttamento intensivo delle fonti d’entrata tradizionali, come i dazi sulle importazioni e le esportazioni e ricorrere, inoltre, a prestiti forzosi e alla concessione di pagamento di monopoli commerciali. Queste erano tute misure mal viste dalla popolazione, che destarono un vasto malcontento nei suoi confronti. L’impopolarità del sovrano venne poi accresciuta dallo sfarzo e dalla corruzione imperanti presso la sua corte e dall’adozione in politica estera di una linea filo – spagnola che tornava a danno dei mercanti impegnati nel contrabbando con le colonie americane. Il dissenso religioso e politico dei puritani Il diffuso malcontento s’innestò sui contrasti di natura religiosa. Già durante il periodo elisabettiano la Chiesa anglicana era stata oggetto di numerose critiche da parte dei gruppi calvinisti intransigenti, i cosiddetti puritani che deploravano il suo progressivo allontanarsi dall’originale spirito calvinista. Della Chiesa anglicana i puritani contestavano soprattutto lo stretto collegamento con l’autorità regia, la struttura fortemente gerarchizzata e gli ampi poteri riservati ai vescovi, che lasciavano scarse autonomie alle comunità di fedeli. Al contrario, essi propugnavano la creazione di una Chiesa presbiteriana (termine derivato dalla posizione centrale in essa occupata dagli anziani) di rigorosa ispirazione calvinista, svincolata dall’autorità politica, priva della struttura gerarchica vescovile e incentrata invece sulle singole comunità di credenti radunate attorno a pastori ed anziani scelti dagli stessi fedeli. Nel primo Seicento il puritanesimo si diffuse in larghi strati della popolazione inglese, e in particolare tra la gentry e i ceti mercantili, proprio grazie alla critica alle gerarchie precostituite e all’accento posto sul ruolo del singolo individuo all’interno della comunità. È facile capire come queste idee fossero destinate a trovare larga applicazione anche sul piano politico. tra gli anni venti e gli anni trenta, quando il contrasto con la Chiesa anglicana, che godeva del pieno sostegno della corona sembrò volgere definitivamente a sfavore di puritani, numerose comunità di dissidenti lasciarono l’Inghilterra alla volta dell’America nella speranza di poter creare nel nuovo continente una nuova società politica e religiosa. La più famosa di Negli ultimi giorni del 1641 il popolo londinese aveva preso decisamente l’iniziativa impedendo con la forza i vescovi di entrare nella Camera dei Lords. I membri più radicali del parlamento avevano cercato e organizzato fin dall’inizio la partecipazione della massa; le decisioni più importanti, come l’esecuzione di Strafford e l’esclusione dei vescovi dagli uffici civili, erano state prese sotto la spinta della piazza. Migliaia di uomini firmavano petizioni a favore del Parlamento e per l’abolizione dell’episcopato; dai pulpiti i predicatori puritani tuonavano contro la corruzione della Chiesa e della Corte; cresceva il numero delle sette religiose eterodosse, che rimettevano in discussioni dogmi,sacramenti e gerarchie sociali. In realtà la maggioranza dei parlamentari non aveva mai inteso modificare lo stato o la società: la parola innovazione aveva per loro un significato negativo. Essi si erano mossi per salvaguardare i privilegi che erano stati riconosciuti loro durante il periodo dei Tudor. Ma la logica della contrapposizione, l’iniziativa di piazza, l’influenza della questione religiosa resero più radicale il conflitto e rafforzarono le correnti parlamentari più innovative. Nel paese di formarono due opposti schieramenti: • da una parte la City, la città di Londra e la gentry dell’Inghilterra occidentale stavano con il Parlamento • Dall’altra l’aristocrazia e le gerarchie anglicane al fianco di Carlo I, che si presentava come il campione della tradizione contro la sovversione. Col re si schierò anche parte della gentry, preoccupata per le rivendicazioni delle frange estremiste. Il re sconfitto da un esercito nazionale Già nel 1644 le teste rotonde (i soldati del Parlamento, così chiamati dalla loro pettinatura), sconfiggevano le truppe del re a Marston Moor: il successo dei ribelli era in gran parte da ascrivere ad Oliver Cromwell, esponente della gentry calvinista dotato di grandi capacità militari. Incaricato di riorganizzare le truppe parlamentari, nel 1645 costituì la New Model Army (l’esercito di nuovo modello), i cui soldati volontari erano reclutati tra i membri delle sette religiose e dei ceti produttivi, i più convinti sostenitori della causa parlamentare. Caratterizzato da una disciplina fuori dal comune e dalla forte motivazione ideologica delle truppe, la cui organizzazione s’ispirava a principi di uguaglianza e democrazia, questo esercito conseguì la decisiva vittoria di Naseby. Carlo I si arrese agli scozzesi che lo consegnarono alle truppe di Cromwell. Quando si trattò di decidere l’assetto dello Stato e della Chiesa da proporre al re sconfitto, la questione religiosa si rivelò di nuovo causa di divisioni, aprendo una spaccatura fra Parlamento ed esercito. Infatti i presbiteriani che avevano la maggioranza del Parlamento, volevano imporre una chiesa calvinista di stato, invece gli indipendenti che contavano nelle loro file molti ufficiali della NMA e lo stesso Cromwell, propugnavano la completa libertà di ogni culto protestante, escludendo dalla tolleranza religiosa i soli cattolici. Il fallimento dell’ipotesi democratica Gli indipendenti trovarono l’appoggio dell’ala più radicale dell’esercito, nella quale era assai diffuso il movimento dei livellatori repubblicani, fautori del suffragio universale. Dietro pressione di questi ultimi, il Consiglio Generale dell’esercito si riunì a Putney (1647) per discutere, insieme ai rappresentanti della truppa, l’approvazione del Patto del Popolo, una sorta di carta costituzionale che prevedeva fra l’altro la soppressione della monarchia e il suffragio universale maschile. Gli indipendenti però si attestavano supposizioni più moderate e sostenevano il suffragio limitato su base censitaria alle classi abbienti. Prima di giungere a decidere in merito, il re si accordò con gli scozzesi e riuscì a fuggire. Si riapriva la guerra civile. Cromwell agì con prontezza e determinazione: sconfitti gli scozzesi e occupata Londra, nel dicembre del 1648 epurò dal Parlamento (detto per ciò Parlamento Ridotto) i presbiteriani e i moderati, che cercavano ancora un accordo col re. Il 30 gennaio del 1649 Carlo I venne giustiziato, primo sovrano europeo ad essere giustiziato dai suoi sudditi. Cromwell fece piazza pulita anche dei democratici radicali: i capi livellatori furono subito imprigionati e le agitazioni dei reggimenti che li sostenevano furono represse nel sangue. Allo stesso modo fu messo a tacere un gruppo estremista che si era formato proprio in quei mesi; quello degli zappatori, che chiedevano esplicitamente la completa abolizione della proprietà privata. Nel maggio del 1649 l’Inghilterra veniva dichiarata un Commonwealth, nome ambiguo che significava sia Repubblica che semplicemente Stato, espressione dell’incertezza delle classi dirigenti inglesi che avevano fatto una rivoluzione senza mai realmente volerla fino in fondo. Cromwell intanto si affrettava a sconfiggere gli ultimi sostenitori del re di Scozia e in Irlanda e si preparava ad istaurare in Inghilterra la sua dittatura militare. Conseguenze destinate a diffondersi in tutta Europa e a diventare fondamenti degli Stati Moderni: • Inalienabilità dei diritti di proprietà • Inalienabilità dei diritti di libertà personale • Principio del governo delle leggi contro l’arbitrarietà del re • Partecipazione politica dei cittadini Le teorie mercantilistiche Peso politico di una teoria economica La supremazia inglese sui mari fu ottenuta anche grazie a misure protezionistiche che, ai danni soprattutto dell’Olanda, tesero ad istaurare il monopolio dei mercati inglesi nel commercio con le colonie. A più riprese, a tale scopo, il governo inglese emanò decreti (gli atti di navigazione) con le quali s’imponeva che le merci dirette in Inghilterra fossero trasportate esclusivamente da navi ed equipaggi inglesi. Simili provvedimenti non potevano che condurre alla guerra con l’Olanda, come effettivamente avvenne nella seconda metà del Seicento; essi appaiono emblematici di un modo di condurre la politica economica nazionale (caratteristico di diversi stati europei nel corso del Seicento e nella prima metà del Settecento) che si basava sulle teorie mercantilistiche e che non mancò, in più occasioni, di dare origine a rivalità internazionali e a conflitti armati. Oro e argento l’unica vera ricchezza Le teorie mercantilistiche, cosiddette perché individuavano nel commercio la principale fonte di ricchezza dei popoli, poggiavano su due presupposti: • La prosperità di uno Stato non dipendeva dalla sua capacità produttiva ma dalla quantità di metalli preziosi che circolava al suo interno: il suo benessere era pertanto considerato come direttamente proporzionale alla massa di oro e di argento che possedeva • L’idea della ricchezza esistente al mondo (ossia la massa di metalli preziosi) fosse tendenzialmente stabile. Poiché, eccetto la Spagna, praticamente nessuno degli Stati europei possedeva cospicue miniere di metalli preziosi, l’unico mezzo per aumentare i rispettivi stock d’oro e d’argento era rappresentato dalla sottrazione di ricchezze ad altri Paesi mediante il commercio: se uno Stato vendeva agli altri più merci di quante ne acquistasse, portava in attivo la propria bilancia commerciale e acquistava metalli preziosi. Le politiche economiche mercantilistiche si concentrarono così e soprattutto sui commerci, sui movimenti di denaro e sulla manifattura e prestarono scarsa attenzione sulla produzione di beni. In particolare il settore agricolo, che impiegava la stragrande maggioranza della popolazione attiva, ricevette poche attenzioni. Inoltre, le stesse cure prestate alle manifatture nascevano più dalla volontà di fornire ai mercanti prodotti lavorati da vendere sulle piazze commerciali estere che non dalla consapevolezza che l’industria di trasformazione potesse essere in grado di produrre nuova ricchezza creando lavoro e benessere. L’importanza di una bilancia commerciale in attivo Per avere una bilancia commerciale in attivo, era necessario ridurre le importazioni e aumentare le esportazioni venne così intrapresa una rigida politica protezionistica, ossia furono accresciute le tariffe doganali in modo da scoraggiare le esportazioni di merci grezze (che dovevano invece essere lavorate all’interno dello stato) e l’importazione di manufatti prodotte in altri paesi. Per favorire i propri mercati ed escludere l’intermediazione degli stranieri, furono create delle compagnie commerciali, controllate dalle autorità, oppure, come in Inghilterra, da capitali privati, alle quali era affidato il monopolio dei traffici con le Indie orientali e le Americhe. L’offensiva contro il potere ecclesiastico Un elemento accomunò le diverse strategie di azione dei sovrani europei e le avvicinò alle suggestioni provenienti dagli intellettuali; la polemica anticuriale, ossia la rivendicazione della piena sovranità del monarca nei confronti della potenza temporale e spirituale del papa e delle gerarchie della Chiesa cattolica. In questa battaglia i principi trovarono alleati sia tra i difensori della tradizione regalistica, sia tra chi si opponeva al dogmatismo della Chiesa della Controriforma, in particolare illuministi (anche cattolici) e giansenisti. Quest’ampio ed eterogeneo schieramento ingaggiò una durissima battaglia contro la Chiesa e i suoi privilegi che condusse, un po’ ovunque a massicce campagne di confisca delle proprietà ecclesiastiche, alla soppressione di conventi e monasteri, all’affermazione del potere dello stato nella collazione dei benefici, all’abbattimento dei privilegi fiscali e di foro di cui godevano i membri del clero. L’offensiva si concentrò sulla Compagnia di Gesù assurta a simbolo negativo della Chiesa della Controriforma. I confessori dei principi, gli educatori dei rampolli delle classi dirigenti, gli esecutori fedeli del volere del papa, ma anche i missionari nell’America latina e in Asia, vennero travolti da un attacco generalizzato da parte dei parlamenti francesi e dei sovrani iberici: nel 1759 furono cacciati dal Portogallo, nel 1764 dalla Francia, nel 1767 dalla Spagna, finché la pressione dei vari sovrani non ottenne, nel 1773 lo scioglimento della Compagnia da parte del papa. È indispensabile segnalare infine che né l’Inghilterra, né la Francia, culle del movimento illuminista, furono coinvolte nella grande vicenda delle riforme. L’una si era già avviata, con la ‘gloriosa rivoluzione’ del 1688, anche dal punto di vista politico e sociale, verso un processo di rinnovamento all’interno di un sistema politico fortemente conservatore l’altra, non potendo realizzare un efficace programma di riforme, era destinata ad attendere la rivoluzione dell’89 per vederne l’avvio. La Prussia di Federico II Un sovrano colto e amico dei philophes Federico II (1740 – 1787) rappresenta forse il più importante esempio di despota illuminato. Educato dal padre Federico Guglielmo I a una rigida disciplina militare sorretta da forti ideali calvinisti, e li manifestò un eccezionale interesse nei confronti della cultura illuminista. Oltre a cimentarsi egli stesso in opere letterarie e composizioni musicali, fu amico dei philosophes e, in particolare, di Voltaire che soggiornò più volte a Berlino, attirato dalla personalità del sovrano, dalla sua corte e dall’alto profilo della locale Accademia delle scienze di cui facevano parte anche molti enciclopedisti francesi. L’ampliamento territoriale attraverso le conquiste militari Federico II salì al trono nel 1740. Forte di un esercito di 80 mila soldati, base della potenza prussiana, quello stesso anno il sovrano aprì le ostilità con l’impero, approfittando della situazione critica in cui si era venuta a trovare la monarchia asburgica alla morte di Carlo VI. Privo di eredi maschi, l’imperatore aveva designato a succedergli la figlia Maria Teresa (1740 – 1780), i cui diritti alla successione vennero subito messi in dubbio dagli elettori di Baviera e Sassonia che avevano sposato due sorelle di Carlo VI, appoggiati dalla Francia e dalla Spagna. Il re di Prussia riuscì a impossessarsi della Slesia, regione ricca di minerali e di attività manifatturiere. La guerra di successione si protrasse fino al 1748 giacché, dopo i primi rovesci, l’intervento del re di Sardegna e dell’Inghilterra al fianco degli Asburgo ristabilì l’equilibrio. Con la pace di Aquisgrana, Maria Teresa cedette Parma e Piacenza ai Borbone e la Slesia a Federico II, ma ottenne la piena legittimazione a occupare il trono del padre. L’impulso all’ampliamento territoriale della Prussia si fece sempre più forte nei decenni successivi e culminò con la guerra dei Sette anni. Pur combattuta principalmente da Francia e Inghilterra nei loro domini extra – europei, essa vide gli eserciti inglese e prussiano uniti contro le preponderanti forze della coalizione composta da Austria, Francia e Russia e poi anche da Polonia e Svezia. Dopo aver subìto durissimi nella prima parte della guerra, Federico II riuscì a mettere mirabilmente a frutto le proprie grandi capacità militari assieme alla solidissima organizzazione dello stato prussiano, recuperando il terreno perduto e riuscendo infine con la pace di Hubertsburg 1763, a consolidare il controllo sulla Slesia a dispetto della dura opposizione asburgica. Negli ultimi decenni del suo regno, Federico II riuscì ad allargare ulteriormente i propri possedimenti: l’annessione della Prussia occidentale con Danzica, ottenuta nel 1772 a spese della Polonia gli consentì di unire le due parti più importanti del regno che, alla sua morte, raggiunse i 6 milioni di abitanti contro i 2 milioni e 300 mila di quarant’anni prima, collocandosi a pieno titolo tra le principali potenze europee. La politica di riforme istituzionali amministrative e la tolleranza religiosa Una simile politica di intervento militare, che oltre a portare al continuo ampliamento dell’esercito ebbe anche dure conseguenze sulla popolazione (la stessa Berlino fu occupata due volte dal nemico durante la guerra dei Sete anni), non sarebbe stata attuabile se, contemporaneamente, non si fosse provveduto a un’opera di razionalizzazione delle strutture amministrative dello stato e a un deciso intervento in sostegno dello sviluppo economico. In questo campo, più che ispirarsi ai principi dei philophes, Federico II si dimostrò animato da un saggio pragmatismo ben conscio delle difficoltà che si sarebbero incontrate per modificare i rapporti tra contadini e Junkers, il ceto di proprietari terrieri sul cui consenso si reggeva la monarchia prussiana, egli preferì adottare provvedimenti che favorissero lo sviluppo nei settori manifatturiero, minerario e metallurgico. Fondamentale fu anche l’incoraggiamento offerto alla colonizzazione dei nuovi territori slavi del regno: ben 300 mila cattolici, protestanti ed ebrei si trasferirono a Est. L’adozione da parte di Federico II di una politica di tolleranza religiosa, ispirata forse dall’adesione del sovrano e della sua corte ai principi di fratellanza universale propugnati dalla massoneria, era del tutto eccezionale nell’Europa dell’epoca. Il dispotismo illuminato federiciano di distinse anche per l’estensione della libertà di stampa, dell’insegnamento elementare, reso obbligatorio, e per la riforma del sistema giudiziario. L’abolizione della tortura e la limitazione dell’uso alla pena di morte vennero affiancate dalla stesura di un Codice Civile (promulgato nel 1794) nel quale erano presenti elementi assai moderni e garantisti. L’azione di potenziamento delle strutture statali di Federico il Grande venne perseguita soprattutto attraverso il costante miglioramento del livello di preparazione del personale amministrativo, al quale venne richiesto, al momento dell’assunzione, un titolo regolare di studio e il superamento di un esame di ammissione. La burocrazia prussiana divenne così un modello per le nascenti amministrazioni di tutti gli stati europei. L’Austria di Maria Teresa L’Impero di Carlo VI: un colosso dai piedi di argilla La monarchia europea che spinse più a fondo il processo riformatore nel corso del Settecento fu senza dubbio quella austriaca. La crisi militare e politica che si era manifestata durante le guerre di successione polacca e austriaca aveva mostrato molto chiaramente che l’Impero Asburgico era in realtà un colosso dai piedi di argilla. Carlo VI si era adoperato, lo si è visto, per dare una struttura unitaria al governo degli estesi ed eterogenei domini di Austria e Boemia, Ungheria, Paesi Bassi ex spagnoli e territori italiani. Ma perfino nei domini ereditari asburgici era stato impossibile giungere a una sia pur vaga omogeneità istituzionale: quella asburgica era un ‘unione monarchica di stati per ceti’ (O. Brunner), ciascuno dei quali godeva dei propri privilegi difesi dalla Dieta. Quest’ultima era dominata dalla nobiltà che controllava anche strutture centrali di governo come il Consiglio Aulico di Guerra, la Camera Aulica e la Cancelleria Imperiale. In una tale situazione era impossibile per il sovrano ricavare dai suoi domini entrate fiscali adeguate a tenere un dispositivo militare efficiente: così, tra la fine degli anni ’30 e ’40, l’Impero perse il regno di Napoli (e alcune province del milanese) e la ricca Slesia. La forza delle cose imponeva dunque soluzioni radicali, e Maria Teresa (1740-80) fu pronta ad adottarle. Il rinnovamento dello stato asburgico Maria Teresa non fu una sovrana illuminata come Federico II o Caterina di Russia. La sua educazione si era sviluppata lungo binari assai più tradizionali, tanto che la figlia di Carlo VI fu la più legata all’ortodossia cattolica, anche nei suoi aspetti più retrivi e bigotti, che alle correnti di pensiero più in voga nell’Europa del tempo, per le quali nutriva, anzi, una radicale differenza. Ciononostante, Maria Teresa, agendo come una madre premurosa nei confronti dei suoi sudditi, portò a termine un’opera di profondo rinnovamento, circondandosi di consiglieri di grande livello, come i consiglieri Friedric Willhelm von Haugwitz e, dal 1753, Wenzel Anton von Kaunitz- Rittemberg. Il marito Francesco Stefano di Lorena Granduca di Toscana e imperatore del Sacro Romano Impero la sollevò dalla cura dei territori imperiali 1745 fino alla morte, avvenuta nel 1765. Le riforme militari e istituzionali procedettero di pari passo. Esse diedero vita a uno stato marcatamente accentrato dal punto di vista politico e amministrativo, con dicasteri le cui competenze non erano più differenziate per territorio: nel 1749 vennero abolite le cancellerie austriaca e boema e venne creato sull’esempio prussiano, il directorium in publicis et cameralibus, cui vennero affidati compiti amministrativi e finanziari; anche la giustizia divenne di competenza di un ministero specifico. Il rafforzamento dell’esercito alla base della riforma fiscale Allo stesso tempo, ispirandosi al modello prussiano, l’esercito austriaco venne riformato e portato a elevati livelli di efficienza Haugwitz riteneva che l’Austria avesse bisogno, per la sicurezza dei suoi confini, di un esercito permanente; il suo mantenimento comportava costi elevatissimi, per sostenere i quali, era necessario procedere a un complessivo riordinamento del sistema fiscale e finanziario. I ceti dei vari lander (territori), cioè le rappresentanze del clero e dell’alta e piccola nobiltà, delle città, che si esprimevano nelle riunioni della Dieta, dovettero accettare la regola secondo cui l’importo delle contribuzioni proposte dal sovrano non doveva più essere deciso ogni anno bensì per un intero decennio. Per di più furono i governatorati, organi regi suddivisi in distretti provinciali, a stabilire i criteri di ripartizione ed esazione delle imposte. La nobiltà fu costretta a rinunciare all’esenzione e a versare, per la prima volta, sia pure con aliquote ridotte un’imposta diretta, quella sulla proprietà fondiaria, i cui criteri vennero resi assai precisi ed efficaci con l’istituzione dei catasti. Nel giro di una decina d’anni, quindi il gettito dell’imposte dirette aumentò del 60% dimostrando così l’incisività dei provvedimenti presi. Il processo di riforma ebbe un ulteriore salto qualitativo in coincidenza con la Guerra dei Sette anni durante la quale le necessità finanziarie diedero ancora una volta un forte impulso all’innovazione. Fu su iniziativa di Kaunitz che l’amministrazione centrale fu divisa in 6 dipartimenti e venne creato il Consiglio di Stato (Ministero della Difesa -1760), un organismo di coordinamento fra tutti i dicasteri, che divenne il primo strumento del cancelliere per dirigere tutti i settori dell’amministrazione centrale. Si pensò anche di far fronte al pesante deficit di bilancio incorporando le terre della Chiesa, contro le immunità della quale si andava da tempo appuntando un vivace dibattito culturale e politico, che vedeva schierati fianco a fianco i riformatori politici e i riformatori religiosi. Influenzati dal giansenismo e dal cattolicesimo riformato di Ludovico Antonio Muratori, questi ultimi trovavano sempre più tra gli uomini di governo interlocutori avvertiti e pronti ad approfittare della favorevole situazione per estendere le prerogative dello stato nei confronti della chiesa. Il Giuseppinismo Giuseppe II contro i privilegi del clero Nel 1765, alla morte di Francesco Stefano, marito di Maria Teresa, saliva al trono imperiale Giuseppe II (1765 – 1790) che affiancò la madre anche nel governo dei domini ereditari, con l’aiuto di Kaunitz la spinta riformatrice toccò allora nei domini asburgici, il suo apice. La prima cura di Giuseppe II fu quella di imporre un regime di rigorosa economia nella gestione del denaro pubblico; furono ridotte in primo luogo le spese per il mantenimento della corte, che dovette conformarsi al sobrio stile di vita del nuovo imperatore. Giuseppe II si dedicò quindi al tentativo di rafforzare il potere statale soprattutto contro i vincoli imposti dalla chiesa all’autorità pubblica. Privo delle remore della madre, Giuseppe II fu audace e intransigente nell’azione contro i privilegi del clero. Il suo programma, presentato nella istruzione alla giunta economale (1768), comprendeva la sottrazione alla chiesa dei poteri di censura, che vennero assegnati alla Deputazione agli Studi, la riduzione del diritto di asilo, del numero dei piccoli conventi e delle proprietà della chiesa. Fu in particolare dopo la morte di Maria Teresa che il progetto si fece più incisivo: nel dell’assemblea degli stati di quella provincia, esponente della ricca borghesia di Amsterdam. La vita politica di quegli anni fu così dominata dal partito repubblicano, e in particolare, da Jan de Witt, gran Pensionario dal 1651 al 72, cui spettò il compito di consolidare il predominio commerciale e di difenderlo dagli attacchi inglesi e francesi. Alla metà del Seicento, l’Olanda godeva in Europa di un indiscusso predominio economico, fondato sulla supremazia della propria flotta commerciale e sul ruolo centrale di Amsterdam nella finanza internazionale. Le due grandi Compagnie Delle Indie detenevano il monopolio dei commerci delle spezie asiatiche, dei metalli preziosi, del legname e del cotone americano. Amsterdam inoltre, era il centro finanziario più importante del tempo; lì era possibile chiedere denaro a prestito per le iniziative più audaci e reinvestire i propri capitali. Al commercio internazionale e alle attività finanziarie si univa poi lo sviluppo dell’agricoltura dovuta alle opere di ingegneria idraulica e di bonifica e alla sperimentazione di nuove tecniche di coltivazione. Il rigoglio dell’economia si rifletteva su tutti gli aspetti della vita: anche in ambito culturale l’Olanda toccò l’apice nella seconda metà del Seicento, quando filosofi come Spinoza e artisti come Rembrandt e Vermeer svolgevano in quella nazione la propria attività. La tolleranza religiosa e politica tipica dell’Olanda fece sì che molti perseguitati per motivi di opinione vi si rifugiassero da tutta Europa, arricchendo di nuovi stimoli la cultura di quella ‘terra della tolleranza’. La concorrenza dell’Inghilterra e lo scontro militare Fin dalla metà del Seicento, però, si faceva sentire la concorrenza dell’Inghilterra, che Oliver Cromwell, chiusa l’esperienza rivoluzionaria guidava decisamente verso una politica di sviluppo economico e di espansione sui mari ai danni delle Province Unite. Un secolo dopo l’Inghilterra avrebbe soppiantato definitivamente l’Olanda nel ruolo di potenza economica di primo piano e, per i successivi 150 anni, avrebbe goduto di un’egemonia mondiale nell’agricoltura, nella manifattura e nel commercio, validamente contrastata dalla Francia. Nel 1651, Cromwell emanò l’atto di navigazione, che riservava alle navi inglesi il commercio con le colonie dell’America Settentrionale e proibiva l’accesso ai porti britannici alle navi straniere che non provenissero dai paesi produttori dei beni commerciati. Così facendo, poneva le basi per l’egemonia marittima inglese, a danno del principio della libertà di commercio. Nonostante l’atteggiamento conciliante di de Witt verso le pretese inglesi, il conflitto commerciale si trasformò in scontro militare. Le tre guerre anglo – olandesi, del 1652 – 54, 1665 – 67 e 1672 – 74, si conclusero con la vittoria dell’Inghilterra, che conquistò anche la base americana di nuova Amsterdam, presto ribattezzata New York. Luigi XIV contribuisce al declino olandese Sulle sorti dei conflitti pesarono le divisioni politiche dell’Olanda e la minaccia espansionistica di Luigi XIV. Nel 1672 al momento dello scoppio del terzo conflitto anglo – olandese, l’Olanda fronteggiava gli eserciti di Luigi XIV, che erano penetrati nelle Province Unite, costringendo gli stati generali olandesi ad aprire le dighe per arrestare l’invasione. Mentre la flotta inglese impegnava quella olandese, la folla inferocita uccise de Witt, responsabile ai suoi occhi di una condotta militare indecisa; giunse così al potere il partito orangista guidato da Guglielmo III, partigiano della guerra ad oltranza. Quando nel 1674, ebbe termine la guerra con l’Inghilterra, di fronte alla politica aggressiva di Luigi XIV, ci fu un ribaltamento delle alleanze: l’Inghilterra divenne alleata dell’Olanda. Il matrimonio di Guglielmo III con Maria Stuart rafforzò questo legame: le due nazioni un tempo rivali divennero le promotrici del fronte anti – francese che si opponeva alle mire di Luigi XIV. Nella seconda metà del Seicento la fioritura delle compagnie commerciali inglesi e la politica economica francese di Colbert misero in crescente difficoltà gli armatori olandesi, incapaci di arginare la concorrenza. Nel XVIII secolo la principale attività economica dell’Olanda divenne quella finanziaria favorita dall’afflusso dei capitali dal settore commerciale e manifatturiero, che permisero ad Amsterdam di rimanere fino al XX secolo la capitale internazionale della finanza. Settecento conflitto Francia, Inghilterra, Guerra dei 7 anni e guerra di successione spagnola Agli inizi del Settecento l’espansionismo commerciale e territoriale francese era destinato a scontrarsi con l’Inghilterra non solo in America, ma anche nell’Atlantico e in India. L’ipotesi che l’esaurirsi della discendenza diretta degli Asburgo in Spagna portasse al trono un re di origine francese e che la Francia di Luigi XIV si impadronisse dell’immenso impero spagnolo, minacciando gli interessi inglesi, aveva già definito i contorni del conflitto. Infatti, in Spagna Carlo II, malato e privo di eredi maschi designava al trono come suo erede il duca d’Angiò Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV. Tutte le corti europee e in particolare quella austriaca si opposero per paura che la Francia si impossessasse dell’intero territorio. Ma ciò non impediva Filippo V di salire al trono di Spagna. Si formò così la cosiddetta Grande Alleanza, composta da Inghilterra, Olanda, Austria e Prussia contro Francia e Spagna, ma fu subito evidente la superiorità navale inglese e olandese. La Francia subì una grave crisi finanziaria provocata dai costi della guerra e con la Pace di Utrecht e Rastadt Filippo V fu riconosciuto re di Spagna ma dovette rinunciare a ogni diritto sulla corona francese; i suoi domini risultarono ridimensionati, conservava le colonie americane ma perse i Paesi Bassi e i possedimenti italiani. L’olanda si garantì una serie di piazzeforti al confine con la Francia. L’Inghilterra ottenne dalla Spagna Minorca e Gibilterra, le piazzeforti che controllavano l’accesso al Mediterraneo. Con i successi sui francesi nella guerra dei Sette anni (1756 – 63) l’Inghilterra consolidò la propria egemonia e con il Trattato di Parigi (1763) l’Inghilterra otteneva il controllo di tutto il Canada, i domini francesi in America erano ridotti alle sole Antille. Inoltre l’Inghilterra otteneva dalla Spagna la Florida e da Cuba l’Avana. La guerra dei Sette anni vede la Prussia di Federico II contro l’Austria. Nel corso della seconda metà del Settecento, le tredici colonie inglesi del Nord America conobbero una pronunciata crescita economica e demografica, grazie soprattutto all’afflusso di emigrati che ormai giungevano nel nuovo continenti non più solo dall’Inghilterra ma anche da altri paesi europei. L’immigrazione aveva prodotto una società plurietnica con differenti vocazioni economiche e produttive. I coloni inglesi costituivano la maggioranza della popolazione solo nelle colonie settentrionali del New England (Connecticut, New Hampshire, Rhode Island, Massachusetts): qui dominava un’economia agraria contrassegnata dalla diffusione della media e della piccola proprietà e da una produzione industriale caratterizzata dall’espansione dei settori della pesca e della cantieristica navale. Alla vigilia della rivoluzione le colonie del nord contavano circa 500 mila abitanti. Le quattro colonie del centro – New Jersey, New York, Delaware e Pennsylvania – avevano circa 400 mila abitanti ed erano caratterizzate dalla presenza della cerealicoltura e dalla produzione di legname destinato all’esportazione. Dei 750 mila abitanti delle colonie meridionali – Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud, Georgia – ben 300 mila erano schiavi. Tale disponibilità di manodopera aveva reso possibile impiantare sugli immensi latifondi di queste colonie la coltivazione del cotone, del tabacco e del riso. Nel corso del Settecento alle trasformazioni sociali e istituzionali si accompagnò un notevole sviluppo economico. Questa crescita venne ostacolata dalla politica economica britannica che tendeva a favorire il monopolio produttivo e commerciale delle industrie della madrepatria e pertanto osteggiava la nascita delle colonie di nuove attività produttive. Si forma un’elite di tendenze aristocratiche Da un punto di vista politico le prime colonie si erano di fatto conquistate una larga autonomia dal governo britannico. Anche se a partire dalla fine del XVII secolo l’Inghilterra intensificò il proprio controllo sulle colonie, queste continuarono a godere di un’ampia autonomia: solo il 5% delle leggi approvate dalle assemblee coloniali furono respinte dalla Gran Bretagna. Ogni colonia era amministrata da un governatore di nomina regia. Costui solitamente proveniva dall’Inghilterra e quindi spesso non conosceva bene la realtà sociale ed economica delle colonie. I governatori erano affiancati da un consiglio e da un’assemblea elettiva. Oltre ad avere una funzione consultiva, il consiglio fungeva da suprema corte di giustizia e alta assemblea legislativa, era cioè dotato di proporre le leggi. I consiglieri, in genere 12, erano nominati direttamente dal governatore tra gli uomini più influenti del luogo e generalmente restavano in carica per tutta la vita. Si formò così un’elite, un nucleo di famiglie che intrattenendo rapporti privilegiati coi governatori riuscirono a tramandarsi di padre in figlio i seggi del consiglio. Le assemblee elettive esercitano il potere legislativo Ben diversa era la situazione delle assemblee elettive cui spettava l’esercizio del potere legislativo. Sebbene la loro autorità fosse limitata, il governatore aveva infatti il diritto di porre il veto alle loro decisioni, e il diritto di eleggere i loro membri fosse circoscritti ai soli possidenti terrieri, queste assemblee erano tuttavia assai più rappresentative e democratiche di quelle allora esistenti nell’Europa continentale, e questo non solo perché venivano convocate con frequenza maggiore; nelle colonie americane i possidenti terrieri erano relativamente numerosi sicché, sebbene le norme elettorali variassero da una colonia all’altra, il numero di coloro che avevano diritto al voto, era comunque alto. L’inizio della rivoluzione Limitazione delle libertà e nuove tasse La classe che si era formata nelle 13 colonie della costa atlantica, sebbene costituita dai grandi proprietari terrieri, era capace di farsi portavoce degli interessi di più larghi strati della composita società americana. Nel corso del 700 questa classe politica divenne sempre più insofferente al dominio inglese, soprattutto a causa delle limitazioni che esso poneva allo sviluppo economico delle colonie. A partire dal 1770 l’intransigenza dell’Inghilterra nei confronti delle colonie assunse caratteri tali da far temere sbocchi rivoluzionari alla forte tensione che si era creata nei decenni precedenti tra queste ultime e la madrepatria. L’atteggiamento del governo britannico era particolarmente rigido in materia fiscale: al guerra dei Sette anni causata anche dall’espansione dei coloni nordamericani verso occidente, aveva comportato spese enormi per gli inglesi, che decisero di presentarne il conto agli americani: • Vennero aumentati i diritti di dogana su gran parte dei prodotti importati dai coloni (1764) • Si impose un diritto di bollo sulle carte legali e sui giornali (1769) • Furono prodotti nuovi dazi sul commercio dei generi di consumo tra i quali quello sul tè (1777) che fu una delle cause scatenanti della rivoluzione Nessuna tassa senza rappresentanza La classe media nordamericana, danneggiata nelle attività finanziarie e commerciali su cui aveva fondato le sue fortune, cominciò a nutrire propositi di insubordinazione nei confronti della madrepatria. Nel 1764 a Boston e in altre località del Massachusetts e della Virginia si tennero delle assemblee nel corso delle quali fu posto con chiarezza il nesso tra produzione di ricchezza, tassazione e partecipazione politica: le assemblee affermarono che le leggi che imponevano nuove tasse alle colonie non potevano essere emanate senza il consenso dei rappresentanti del popolo. Questo concetto trovò espressione nella formula ‘nessuna tassa senza rappresentanza’, ossia nell’idea che l’introduzione di nuovi carichi fiscali potesse essere autorizzata solamente dalle istituzioni rappresentative della popolazione delle colonie. L’opposizione alla politica fiscale britannica non si limitò a un’affermazione di principio, ma si tradusse in un boicottaggio economico che suscitò la preoccupazione dei commercianti e del governo inglese. La società coloniale in agitazione Secondo una parte dei coloni nordamericani, rimanevano ancora dei margini di trattativa per risolvere i contrasti con la corona all’interno di una cornice costituzionale, ma gruppi più radicali premevano perché si imboccasse la via verso l’indipendenza e l’autodeterminazione. Il politico bostoniano Samuel Adams propose la formazione di ‘comitati di corrispondenza intercoloniali’. Si trattava di comitati che riunivano i rappresentanti di diverse colonie, le quali dimostravano in tal modo la loro tendenza a unificare la propria protesta nei confronti della madrepatria dandosi una struttura organizzativa comune. Collegandosi ad altre associazioni popolari, i comitati di corrispondenza intercoloniali diedero vita ai primi nuclei rivoluzionari tra i quali ricordiamo i cosiddetti figli della Libertà, che avranno un peso decisivo nei successivi avvenimenti. Lo scrittore e inventore Benjamin Franklin ebbe un ruolo fondamentale nella formazione di un’ideologia repubblicana e nella definizione dello spirito della nuova nazione, prima come pubblicista ed editore a Filadelfia, quindi come rappresentante delle colonie presso il parlamento inglese. La polemica sull’illegittimità dell’imposizione fiscale si trasformò in una più generale richiesta di ridefinizione degli assetti politici. Il governo inglese intuì la pericolosità delle tensioni che agitavano la società coloniale, e decise di abolire tutte le forme di tassazione diretta e indiretta imposte a partire dal 1770 con l’eccezione del dazio sul tè. E proprio la decisione del potere centrale di attribuire alla Compagnia delle Indie il monopolio del tè, escludendo i mercanti americani dal suo commercio, offrì ai coloni l’occasione per scatenare la rivolta: il 16 dicembre 1773 a Boston alcuni indipendentisti travestiti da indiani gettarono a mare il carico di tre navi mercantili inglesi: il governo britannico rispose bloccando il porto e sostituendo completamente gli eletti dell’assemblea del Massachusetts con commissari di nomina regia. Nel 1774 il parlamento inglese votò il cosiddetto Quebec Act, con cui si concesse ai cattolici piena libertà religiosa e completa autonomia istituzionale: tale provvedimento fu deprecato dagli abitanti della Nuova Inghilterra, in massima parte puritani. Il loro risentimento aumentò quando essi si videro precludere l’espansione verso i territori a nord del fiume Ohio, assegnati dagli inglesi al Canada. La guerra e il riconoscimento dell’indipendenza cosiddetti federalisti tra i quali emergevano le personalità di Washington, Alexander Hamilton e James Madison. Si trattava di un gruppo composito, ispirato in genere da posizioni cautamente riformiste e che rappresentava gli interessi dei ceti più abbienti. La Convenzione di Filadelfia I gruppi radicali, che all’interno dei singoli stati erano per lo più riusciti a ottenere il controllo delle assemblee rappresentative, si riconoscevano invece nelle posizioni dei repubblicani, i quali tendevano ad attribuire pieni poteri alle singole realtà statali riducendo quasi a un simulacro il ruolo del governo centrale. Le forti tensioni tra i due opposti schieramenti e l’ancora irrisolta questione della rappresentanza, cioè di chi dovesse eleggere i rappresentanti del popolo e su chi avesse diritto a essere nominato alle assemblee, provocarono una serie di agitazioni, la più nota delle quali u una rivolta scoppiata nel Massachusetts e capeggiata da Daniel Shays, un veterano della guerra d’indipendenza. Sommandosi alla congiuntura economica negativa causata dai danni della guerra, la difficile situazione politica diede maggior vigore al partito federalista e spinse il Congresso a convocare una Convenzione incaricata di stilare una nuova carta costituzionale federale. La Convenzione riunita a Filadelfia sotto la presidenza di Washington nel maggio del 1787 è stata interpretata in diversi modi dalla storiografia: • Come una sorta di atto d’imperio conservatore, teso a tutelare i ceti eminenti dal pericolo rappresentato dai gruppi radicali • al contrario, come la definitiva affermazione dei principi democratici della rivoluzione • Interpretarla come una riuscita mediazione delle diverse tendenze emerse nel fronte insurrezionale, tesa al superamento degli estremismi e al consolidamento dell’indipendenza appena raggiunta. La Costituzione del 1787 I 55 delegati eletti dalle assemblee dei singoli stati elaborarono una Costituzione la cui ratifica, delegata a ogni stato secondo il sistema elettorale lì vigente, incontrò non poche resistenze in molti stati; la Carolina del Nord si espresse addirittura contro. Gli stati rinunciarono a una parte dei loro poteri sovrani a vantaggio del potere federale mantenendo però proprie costituzione e ampie autonomie amministrative e legislative. Al governo federale veniva riconosciuta la facoltà di porre tasse, battere moneta, decidere la linea della politica estera, costituire un esercito. Nella Costituzione degli Stati Uniti si avverte l’influsso del pensiero politico illuminista, in particolare di quello di Montesquieu, il teorico della divisione dei poteri; tuttavia essa non fu solo frutto di influenze provenienti dall’Europa: la Costituzione del 1787 si pone invece al termine di un percorso costituzionale autonomo, intrapreso dalle diverse colonie che fin dalla loro fondazione elaborarono norme scritte per regolare i rapporti di potere e la vita in comune in una terra nuova e lontana dalla madrepatria. Soltanto intendendola come il risultato di un’esperienza storica collettiva, e non come l’applicazione di principi teorici nati in Europa, si comprende come la Costituzione degli Stati Uniti sia risultata così rispondente alle esigenze della società americana da reggere fino a oggi alla prova del tempo. La Costituzione del 1787, tuttora in vigore con l’aggiunta di alcuni emendamenti, attribuisce il potere legislativo al Congresso, costituita da una Camera bassa (Camera dei rappresentanti) e da una Camera alta (Senato). Entrambe sono elette a suffragio popolare diretto, ma mentre ogni stato dell’Unione invia al Senato due senatori, alla Camera bassa il numero dei rappresentanti di uno stato è proporzionale alla sua popolazione. Il potere esecutivo affidato al presidente dell’Unione, eletto anch’egli dal popolo e che resta in carica per quattro anni: a lui spetta la nomina dei ministri e dei membri della Corte suprema, l’organo di controllo del potere giudiziario. Il presidente ha inoltre il diritto di veto sulle leggi proposte dal Congresso. George Washington, eletto il 4 marzo 1789, fu il primo presidente degli Stati Uniti. Il Congresso di Vienna Impossibile tornare al passato Età della Restaurazione è il nome con cui si è soliti indicare il periodo compreso tra il termine della vicenda napoleonica e le rivoluzioni che tra il 1830 e il 1831 interessarono diversi paesi europei. L’inizio di questo periodo è rappresentato dai due trattati di Parigi (30 maggio 1814 e 20 novembre1815) e dal congresso tenutosi a Vienna tra il novembre 1814 e il giugno 1815 durante il quale le monarchie che avevano sconfitto sul campo le armate francesi disegnarono la nuova carta geopolitica dell’Europa. Ciò che si intese allora ‘restaurate’ era il vecchio ordine politico dell’Europa, prima dello sconvolgimento a esso apportato dalla rivoluzione francese e dalle conquiste di Napoleone. La nuova sistemazione dinastica e territoriale fu accompagnata da un ampio dibattito sul senso preciso che si doveva attribuire alla restaurazione dell’ordine. Decisamente sconfitte furono le correnti politiche e le porzioni dell’opinione pubblica maggiormente oltranziste che vagheggiavano un ritorno del continente alle antiche strutture istituzionali, fondate sul predominio della nobiltà, e che miravano a un azzeramento dei processi di modernizzazione che l’imperatore francese aveva avviato in diversi campi dell’amministrazione, della politica e dell’economia. I nuovi diritti sanciti dai codici, la posizione di prestigio acquisita dal ceto borghese e imprenditoriale, il risveglio dell’idea di nazionalità, l’idea di costituzione e la prospettiva di una diversa partecipazione dei cittadini alla vita politica non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Non sarebbe, insomma, stata in alcun modo praticabile una restaurazione totale, un puro e semplice ritorno al passato in tutti gli ambiti della politica. Così le diplomazie riunitesi a Vienna ridefinirono e fissarono ciò che era possibile ridefinire e fissare per mezzo di accordi diplomatici: l’assetto territoriale e i rapporti internazionali. Per il resto, l’Europa della Restaurazione si incamminava lungo un difficile percorso, sospeso tra il ripristino del prestigio delle antiche dinastie e del moderatismo politico e l’accoglimento di alcuni risultati della storia europea degli ultimi vent’anni. I principi di legittimità e di equilibrio A Vienna si raccolsero i rappresentanti di tutte le nazioni europee, ma i protagonisti del congresso furono i delegati delle quattro grandi potenze vittoriose su Napoleone: lo zar di Russia Alessandro I, il cancelliere dell’impero austriaco Klemens Wenzel Lothar principe di Matternich, il ministro degli esteri inglese Robert Stewart Castlereagh e il ministro degli esteri di Prussia Karl August principe di Hardenberg. Emblematica risulta infine la presenza del rappresentante della restaurata dinastia regale dei Borbone di Francia, Charles Maurice de Talleyrand, che aveva fatto parte dell’Assemblea costituente e aveva ricoperto importanti incarichi di governo durante il periodo consolare e imperiale prima di tornare a servire i Borbone. Alla sua abilità era delegato il compito di scongiurare la possibilità che i vincitori di Napoleone riservassero alla Francia delle condizioni umilianti. In particolare, era intenzione di Talleyrand evitare alla Francia delle amputazioni territoriali. Per questo motivo Talleyrand propugnò il cosiddetto principio della legittimità sostenendo l’idea che la conquista non creava di per sé diritti e che pertanto nessuna potenza poteva disporre dei territori degli altri stati senza una formale rinuncia del legittimo titolare. Talleyrand cercava in questo modo di far indossare alla Francia le vesti di difensore dei paesi minori, sempre minacciati dagli appetiti delle grandi potenze e al tempo stesso di rassicurare le diplomazie europee sulla solidità della monarchia francese. Tale principio ebbe l’effetto retroattivo di riportare sui rispettivi troni tutti i sovrani che erano stati spodestati da Napoleone. Al principio di legittimità Matternich e Castlereagh ne affiancarono però un altro, che finì col predominare: il principio dell’equilibrio in base al quale, nel ridisegnare i confini dei vari stati, si doveva impedire che uno di essi acquistasse una posizione egemonica rispetto agli altri. Agli intendimenti di Talleyrand si contrapponevano però in primo luogo le aspirazioni delle monarchie vincitrici che per aver sconfitto Napoleone si attendevano in premio degli ingrandimenti territoriali, e in secondo luogo la necessità di creare una sorta di catena protettiva posta attorno alla Francia allo scopo di contenerne in futuro eventuali mire espansionistiche. Per far ciò, il principio di legittimità non poteva essere interamente rispettato. Dal congresso finì apprezzava l’ingresso nel patto dei paesi Bassi, suoi vecchi rivali sul mare. Più concreti furono i contenuti della Quadruplice Alleanza stipulata il 20 novembre 1815 su iniziativa del Castlereagh tra Inghilterra, Austria, Prussia e Russia, che si impegnavano a intervenire militarmente nel caso in cui eventuali agitazioni interne di uno stato avessero fatto temere l’insorgenza di nuovi fenomeni rivoluzionari. Il sistema politico nato a Vienna è stato definito da alcuni storici sistema di Matternich. In tal modo si intende sottolineare come Matternich nella sua lunga carriera di statista non abbia solo determinato la politica estera asburgica, ma abbia anche contribuito da protagonista a dar forma all’assetto dell’intera Europa fino allo scoppio dei moti rivoluzionari del 1830 – 31. In effetti, prima di allora, l’equilibrio voluto da Matternich, l’ordine da lui propugnato sotto il governo di istituzioni monarchiche, si mantenne relativamente stabile e, all’interno di esso, l’Austria continuò a godere di un’indiscutibile supremazia politica. Rivoluzione industriale: le origini del concetto Nel XVIII secolo si ebbe una notevole crescita della popolazione,l’aumento della produzione agricola, la diffusione di nuove tecniche di coltivazione della terra, un grande slancio del commercio internazionale e il perfezionamento degli strumenti creditizi e finanziari. Il processo di cambiamento dell’economia e della società si intensificò nella seconda metà del Settecento, soprattutto in Inghilterra, dando origine al fenomeno che viene comunemente definito ‘rivoluzione industriale’. Furono Friedrich Engel e John Stuart Mill, verso il 1850, ad usare per primi questo concetto per indicare il rapido mutamento economico e sociale avvenuto negli ottanta anni precedenti: Karl Marx lo riprese per dare un nome al processo di transizione dalla società feudale al capitalismo moderno. Erano tramontate, secondo Marx, le istituzioni tipiche delle società tradizionali, caratterizzate da forme feudali di possesso della terra, dal potere delle corporazioni e dal predominio del mercante – imprenditore e della manifattura artigiana indipendente. Al loro posto era invece emerso un diverso sistema sociale basato essenzialmente sul denaro, sulla diffusione del sistema di fabbrica e della divisione del lavoro, sull’emancipazione dei lavorati da forme personali di dipendenza e sulla loro trasformazione in salariati. In altre parole, il lavoro era diventato una merce, acquistata e venduta sul mercato aprì della terra e di ogni altro fattore di produzione. In Marx e nella tradizione marxista, dunque, il concetto di rivoluzione industriale non indicava semplicemente delle innovazioni tecnologiche e una crescita economica sostenuta, ma una trasformazione più profonda dei rapporti tra le due classi sociali fondamentali: i capitalisti, nelle cui mani si concentra la proprietà dei mezzi di produzione, ossia terra e macchine, e i lavoratori, che ne vengono esclusi. La tesi gradualista: la rivoluzione industriale non esiste Questa interpretazione della rivoluzione industriale è stata sottoposta nel corso degli ultimi decenni a numerose revisioni critiche. In particolare, una sempre più solida tradizione storiografica ha contestato l’idea, insita nel concetto stesso di rivoluzione, di uno strappo violento e improvviso rispetto al passato. A partire dall’osservazione fatta dallo storico Ashton nel 1948, secondo cui i processi economici sono estranei a cambiamenti subitanei, si è sviluppata una forte tendenza storiografica che sottolinea la continuità e nega l’esistenza di una frattura radicale tra il capitalismo mercantile dei secoli XVI – XVII e il capitalismo industriale dell’epoca successiva. Vista in quest’ottica, la rivoluzione industriale è stata perciò sempre più considerata come un processo di durata plurisecolare nel quale si sono intrecciati simultaneamente gli effetti di lungo periodo della rivoluzione agricola, della rivoluzione commerciale e di quella dei trasporti e l’emergere sin dal XVI secolo di una mentalità scientifica sistematicamente rivolta all’innovazione tecnologica. Se da un certo punto in avanti questo processo conobbe una progressiva accelerazione, favorita soprattutto dalle trasformazioni istituzionali provocate dalla ‘gloriosa rivoluzione’ inglese del 1688, non vi sarebbero stati tuttavia mutamenti qualitativi sostanziali rispetto ai due secoli precedenti. Studi recenti hanno inoltre dimostrata che la crescita economica negli anni della rivoluzione industriale fu molto più lenta di quanto tradizionalmente si pensi, confermando in tal modo la correttezza della concezione gradualista del processo. Perche la rivoluzione industriale è stata rivoluzione? Dunque larga parte della storiografica sostiene, un po’ paradossalmente, che la rivoluzione industriale non sia mai esistita e che il concetto stesso dovrebbe essere abbandonato a favore di una visione ‘continuista’. Questa conclusione, se da un lato ha il grande pregio di sottolineare l’importanza dei fattori intellettuali e culturali nei processi economici e sociali e la lunga durata del processo di accumulazione di conoscenze tecniche, dall’altro suona troppo perentoria e soprattutto non riesce a cogliere a pieno il significato realmente rivoluzionario delle trasformazioni succedutesi a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. È vero infatti che la rivoluzione industriale non fu un fenomeno improvviso ma occupò un periodo molto lungo di tempo, abitualmente compreso tra gli anni 1760 e 1830. È altrettanto vero tuttavia che in quegli anni la crescita della produzione agricola e industriale e del commercio assunse ritmi senza precedenti, così come senza precedenti fu l’intensità del cambiamento tecnologico concentratosi, in quel periodo essenzialmente in Inghilterra. Di conseguenza, la rivoluzione industriale mutò radicalmente no solo il modo in cui si producevano vestiti, attrezzi, macchine e generi alimentari, ma anche le condizioni di lavoro e di vita, la mentalità e la cultura di una parte sempre crescente della popolazione europea. L’industrializzazione divenne il processo fondamentale di trasformazione della società e il capitalismo il nuovo sistema sociale. L’Inghilterra, patria della rivoluzione industriale L’Inghilterra è in una situazione privilegiata Tre furono fondamentali della trasformazione rivoluzionaria di fine Settecento: l’affermarsi di un’economia di mercato, l’emergere della moderna impresa basata sul sistema di fabbrica e la diffusione di una nuova conoscenza tecnologia, riguardante i macchinari, l’organizzazione della produzione e la commercializzazione dei prodotti. Fino al 1830, solo l’Inghilterra, dove presero corpo e si diffusero in tutti i settori le principali innovazioni, ebbe in contemporanea questi requisiti. Gli industriali inglesi poterono così conquistare i mercati mondiali con prodotti economici di buona qualità, che, come nel caso delle macchine a vapore, nessun altro era in grado di produrre su larga scala. In pochi decenni presero su tutti i concorrenti un tale vantaggio che anche i paesi più prosperi come la Francia e la Prussia riuscirono a colmarlo solo molto più tardi e non in tutti i settori. Perché i presupposti della rivoluzione industriale si crearono proprio in Inghilterra? Gli storici hanno avanzato molte spiegazioni: • La vicinanza di ogni località del paese al mare, che facilitava l’afflusso delle materie prime e la distribuzione dei prodotti in tutto il mondo • Il miglioramento dei trasporti via terra grazie a un moderno sistema di gestione e manutenzione delle strade • Lo spettacolare progresso della rete di canali navigabili che crebbe velocemente, permettendo la diminuzione dei costi di trasporto • La disponibilità di materie prime necessarie al decollo industriale, come il carbone fossile e il minerale di ferro • Il ruolo determinante svolto dai progressi dell’agricoltura inglese nel corso del secolo. La rivoluzione agricola consentì infatti alle campagne di provvedere a una popolazione urbanizzata e costantemente in crescita; i proprietari fondiari accumularono anche attraverso l’esportazione dei cereali, notevoli risorse finanziarie che poterono riversarsi negli investimenti per le industrie • Un mercato interno assai fiorente, privo di quelle barriere doganali che in Francia ostacolavano la circolazione delle merci • Il controllo sui mercati di tutti il mondo, ottenuto tramite le guerre vittoriose del XVIII secolo, assicuravano al commercio inglese una domanda potenzialmente inesauribile. Creatività tecnologica, fattori sociali, istituzioni politiche Nuovi combustibili danno impulso alla siderurgia Dopo quello tessile fu il settore siderurgico ad essere investito da grandi cambiamenti. La produzione della ghisa, del ferro e dell’acciaio aveva sempre incontrato difficoltà insormontabili in Inghilterra. Il ferro scavato nelle miniere inglesi era infatti molto impuro e doveva subire un accurato processo di raffinazione ad alte temperature. Era quindi necessario disporre di un buon combustibile, che l’esperienza maturata aveva individuato nel carbone di legna, ricavato cioè dalla cottura del legname. I boschi e le foreste inglesi, già depauperati da uno sfruttamento plurisecolare, erano però protetti da provvedimenti governativi volti anche a conservare preziose riserve per le costruzioni navali. Nella prima metà del Settecento il ferro impiegato in Inghilterra era dunque in gran parte importato dalla Svezia, ricca di un minerale di ottima qualità. Una svolta si verificò quando fu possibile servirsi del carbon fossile molto abbondante in Inghilterra e da sempre utilizzato per il riscaldamento delle case, ma inadatto a lavorazioni sofisticate. Si scoprì infatti che cuocendo il carbone come già si faceva con la legna, si otteneva un combustibile però dal rendimento elevatissimo, il coke che poteva raggiungere le alte temperature richieste dalla siderurgia. La nuova tecnica si diffuse assai lentamente e prese piede solo negli anni ottanta del Settecento quando si affermò anche un nuovo sistema di lavorazione, quello di puddellaggio e laminazione del ferro tramite un nuovo forno a irraggiamento che consentiva di raggiungere temperature sempre più alte, brevettato da Henry Cort nel 1784. Risolti i problemi di consumo del combustibile di qualità del prodotto, la siderurgia inglese fece rapidamente progressi straordinari: tra l’inizio e la fine del Settecento la sua produzione era aumentata di dieci volte, e alla metà del XIX secolo di quasi cento. L’affermazione del sistema di fabbrica L’industria crea grandi concentrazioni di manodopera Uno dei fenomeni focali della rivoluzione industriale fu l’affermazione del sistema di fabbrica, che ebbe come prima conseguenza la concentrazione della produzione e dei lavoratori in impianti di grandi dimensioni, sulla base della elevata meccanizzazione dei processi produttive e della divisione delle mansioni. Fino alla metà del Settecento tutte le fasi della produzione dei manufatti erano effettuate essenzialmente dalle mani dell’uomo, con l’aiuto di macchine utensili relativamente semplici. Alcuni settori, come l’editoria, o la produzione di tessuti, erano più meccanizzati di altri; ma anche in questo caso torchi, filatoi e telai erano azionati dai lavoratori stessi. Le tecnologie non mutavano anche nel caso della lavorazione a domicilio, quel domestic system che riguardava soprattutto la produzione di tessuti, grazie al quale i mercanti – imprenditori avevano portato fuori dalle città e dalle botteghe artigiane il processo produttivo, affidandolo ai contadini retribuiti a cottimo. Allo stesso modo era rarissimi i casi in cui i processi produttivi prevedevano grandi concentrazioni di manodopera: le miniere, i cantieri per la costruzione di edifici religiosi e civili, i grandi cantieri navali. Anche qui però i lavoratori, a volte migliaia, non facevano che applicare su scala più grande le proprie specifiche competenze, lavorando separatamente gli uni dagli altri: il fatto di lavorare tutti insieme non accresceva la produttività del lavoro stesso. La macchina a vapore moltiplica la produttività I due settori trainanti della rivoluzione industriale, siderurgia e cotone, fecero i loro progressi maggiori quando alle nuove tecniche produttive si riuscì ad associare l’uso di una forza motrice nuova, infinitamente più potente di quella umano o animale e più efficace anche di quella idraulica che pure si era diffusa in settori come la tessitura: quella del vapore. Le prime macchine a vapore erano state sperimentate dalla fine del Seicento per azionare le pompe che servivano ad estrarre l’acqua dalle miniere di carbone e di ferro, ma la loro diffusione ad altri settori era frenata dalla fragilità delle macchine dall’alto consumo di combustibile. Nel 1765 James Watt brevettò una macchina a vapore che consumava un quarto del combustibile necessario ai modelli precedenti per effettuare lo stesso lavoro, grazie all’impiego di un condensatore che eliminava i tempi morti nel ciclo di funzionamento. Nei modelli perfezionati in seguito da Watt tramite l’introduzione del ciclo continuo, i tempi e il consumo di energia vennero ulteriormente dimezzati; con l’utilizzo di vapore sotto pressione furono messe le basi della macchina a vapore in uso fino a pochi decenni orsono. La macchina a vapore fu una delle invenzioni più straordinarie mai realizzate, che consentì per la prima volta la conversione di energia in lavoro. Essa divenne efficiente ed economica tanto che la sua utilizzazione si estese con una velocità impressionante a tutti i settori dell’industria in cui si richiedeva il rapido riscaldamento del materiale da lavorare e, più in generale, ovunque fosse necessario mettere in movimento delle macchine per aumentare e migliorare la produzione. Pertanto la macchina a vapore venne adottata non solo nella lavorazione del cotone e de ferro, ma in tutta l’industria tessile, chimica, della distillazione della birra e di raffinazione dello zucchero e, naturalmente, anche nella costruzione delle stesse macchine, sempre più spesso fatte in metallo. Si afferma il principio della divisione del lavoro Diretta conseguenza dell’introduzione nel processo produttivo dei nuovi macchinari fu l’affermazione della grande fabbrica. I forni di puddellaggio e i laminatoi, le macchine a vapore e idrauliche non potevano essere collocati in impianti di dimensioni modeste e fornivano un rendimento adeguato soltanto se utilizzati su larga scala e al massimo delle loro possibilità. I lavoratori vennero allora concentrati nello stesso luogo con funzioni diversificate e disciplinate intorno alla macchina, secondo il principio della divisione del lavoro, ossia la frammentazione dei processi produttivi in singole operazioni semplificate. Produttività ed efficienza ne risultarono enormemente aumentati; i costi vennero diminuiti perché non erano più necessari lavoratori qualificati. La convergenza di progresso tecnologico, sistema di fabbrica e economia di mercato portò ad un rapidissimo sviluppo di tutti i settori dell’industria a scapito delle attività tradizionali come l’agricoltura, la manifattura domestica e i mestieri di tipo artigianale che pur continuarono a giocare un ruolo importante nell’economia inglese. Il sistema dell’industria rurale e della manifattura a domicilio, incentrato sulle unità familiari, era già da tempo integrato nel meccanismo del mercato internazionale, sotto il coordinamento dei mercanti – imprenditori. Tuttavia, il sistema di fabbrica e la divisione del lavoro costituirono una svolta epocale: furono eliminati i problemi connessi al sistema della manifattura domestica, come l’appropriazione da parte dei lavoratori a domicilio delle materie prime, ma fu possibile anche un controllo più minuto del prodotto finito e del lavoro stesso. Le conseguenze sociali della rivoluzione industriale I contadini lasciano le campagne A essere veramente rivoluzionarie furono soprattutto la profondità e la durata delle conseguenze del fenomeno che chiamiamo ‘rivoluzione industriale’. Si trattò di una ‘rivoluzione nell’accesso degli uomini ai mezzi di sostentamento, nel controllo del loro ambiente ecologico, nella loro capacità di sfuggire alla tirannia e all’avarizia della natura, che rese possibile loro raggiungere una padronanza completa del loro ambiente fisico’. Quanto avvenne in Inghilterra negli anni 1760 – 1830 fece dell’economia e della società qualcosa di assolutamente nuovo. Non soltanto la produzione di merci, ma anche la natura del lavoro, la funzione della famiglia, il ruolo di istituzioni secolari come la Chiesa, mutarono profondamente e, soprattutto, mutarono in modo irreversibile. Il fenomeno più vistoso fu indubbiamente il massiccio spostamento della manodopera dal settore agricolo a quello industriale, che determinò un rapido aumento della popolazione urbana. L’intensificarsi delle recinzioni aveva infatti spinto un numero sempre maggiore di contadini a trasferirsi nelle città e nei centri urbani minori dove il sorgere delle fabbriche andava aprendo nuove possibilità di lavorò ciò accadde soprattutto nell’Inghilterra centro- settentrionale ed occidentale, le cui campagne erano poco fertili e molto ricche di carbone ed altre materie prime, ed erano ben servite da porti come Bristol e Liverpool e molto meno nelle regioni meridionale e attorno a Londra. Le industrie accolsero quindi gran parte della manodopera lasciata libera dall’agricoltura, nella quale già all’inizio dell’Ottocento era ormai impiegato appena poco più di un terzo della popolazione attiva. Ciò diede un lavoro e un salario ad un numero crescente di persone, che erano cos’ in grado di mantenersi da sole e spesso di crearsi una famiglia autonoma, emancipandosi dalla tutela della famiglia di origine. La disciplina di fabbrica impone ritmi di lavoro pesantissimi
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