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Storia Moderna La riforma e la controriforma, Dispense di Storia Moderna

Tesina sulla riforma luterana e la controriforma.

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 22/02/2022

DOMENICO_1981
DOMENICO_1981 🇮🇹

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Scarica Storia Moderna La riforma e la controriforma e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Storia Moderna L'insegnamento di Storia moderna (LM14) 12 CFU è così articolato: - Lezioni 1-17: storia moderna dal 1453 al 1769 - Lezioni 18-44: la Riforma luterana - Lezioni 45-48: le confessioni religiose ispirate dalla Riforma luterana - Lezioni 49-85: storia moderna dal 1775 al 1852 - Lezioni 86-93: lo Stato di antico regime - Lezioni 94-96: elementi di storia militare napoleonica Lezione 2 – La caduta dell’Impero bizantino (I). La caduta dell’Impero bizantino è convenzionalmente identificata dagli storici come uno dei momenti iniziali della prima età moderna. Agli inizi del XV secolo, Costantinopoli – capitale dell’Impero bizantino – era una città isolata, unico centro dell’Impero ancora vivo dal punto di vista culturale, politico e commerciale. L’intraprendenza dei mercanti genovesi e veneziani aveva sottratto alla città, e a tutto l’Impero, gran parte delle sue fonti di ricchezza, generando le condizioni idonee per la caduta. Fin dai primi anni del XV secolo sull’Impero bizantino si era abbattuta l’orda dei Turchi ottomani (il cui nome derivava dal condottiero Osman o Otman, che aveva unificato le loro tribù), i quali avevano preso in Asia minore il posto dei Turchi selgiuchidi, sconfitti dai Mongoli nel XIII secolo. Già alla metà del XIV secolo, i Turchi ottomani avevano iniziato la conquista dei territori periferici dell’Impero bizantino. Nel 1354 superarono i Dardanelli e invasero i Balcani, nel 1361 conquistarono l’importante città di Adrianopoli, nel 1389 – con la battaglia di Cossovo – assoggettarono il Regno di Serbia (Stato cliente dell’Impero bizantino) e nel 1393 conquistarono la Bulgaria, arrivando a minacciare l’Ungheria. Il re d’Ungheria (Sigismondo di Lussemburgo, poi divenuto imperatore del Sacro Romano Impero) cercò di frenare l’avanzata ottomana, ma fu sconfitto a Nicopoli nel 1396. La penetrazione ottomana nei Balcani e nei territori dell’Asia minore si arrestò solo agli inizi del XV secolo. Lezione 2 – La caduta dell’Impero bizantino (II). Nel 1402 i Turchi ottomani vennero arrestati nella battaglia di Ankara da Tamerlano (1336- 1405), sovrano di una tribù asiatica che aveva costituito un esteso dominio con capitale Samarcanda. Ad Ankara, Tamerlano fece prigioniero il sultano ottomano Bayazid I e i Turchi ottomani abbandonarono la conquista dell’Asia minore. Nel 1405, alla morte di Tamerlano, i Turchi ottomani ripresero tuttavia l’iniziativa sotto la guida di Murad II (1403-1451). Considerata la minaccia ottomana, l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo (1390-1448) si rivolse all’Occidente e si recò in Italia per barattare l’aiuto militare con la sottomissione della Chiesa di Costantinopoli – autocefala dal 1054, anno del cosiddetto “Scisma d’Oriente” – alla Chiesa di Roma. Con il Concilio di Firenze (1439) la riunione fra le Chiese venne proclamata, ma la maggior parte delle potenze europee non andò oltre un appoggio formale ai bizantini. Nel 1444 i Turchi ottomani sconfissero a Varna un esercito composto da serbi, ungheresi e polacchi. Agli inizi del 1453 il nuovo sultano ottomano Maometto II iniziò l’assedio di Costantinopoli che cadde il 29 maggio, dopo che l’imperatore bizantino Costantino XI Paleologo (1404-1453) morì combattendo. I Turchi ottomani resero la città la capitale del loro Impero e la battezzarono Istambul (ovvero, semplicemente, “la città”). La Repubblica di Venezia iniziò immediatamente trattative diplomatiche e commerciali con la nuova potenza. Lezione 2 – La caduta dell’Impero bizantino (III). La presa di Costantinopoli segnò la caduta dell’Impero bizantino e quindi la fine dell’esperienza imperiale di carattere universale derivata dalla romanità. L’unico Impero che poteva ancora rivendicare una pretesa universale era il Sacro Romano Impero, che tuttavia non aveva un legame genetico diretto con la romanità come l’Impero bizantino. Dopo aver preso possesso di tutti i territori bizantini, i Turchi ottomani dilagarono nel Mediterraneo. Nel 1480 sbarcarono in Puglia e occuparono Otranto, massacrandone la popolazione. Maometto II morì nel 1481 e alla sua morte si aprì un’aspra lotta di successione. Impegnato nelle proprie controversie interne, l’Impero Ottomano cessò momentaneamente di espandersi, per riprendere nel corso del XVI secolo. Sessione di studio 1 – Le grandi scoperte geografiche (I). L’età medievale non era stata caratterizzata da importanti flussi commerciali marittimi: la navigazione tendeva ad essere di piccolo cabotaggio, prevalentemente costiera, e interessava bacini dalla conformazione chiusa come il Mar Mediterraneo o il Mar Baltico. Solo nella seconda metà del XV secolo maturò un interesse per le rotte atlantiche, collegato alla volontà di scoprire una via rapida per raggiungere l’India o il Catai, zone ricche di spezie, sete e altre merci preziose di cui il mercato occidentale era avido. Si aprirono così nuove possibilità per avventurieri e navigatori. Tra di essi può essere annoverato anche Cristoforo Colombo (1451- 1506) che nel 1479 si stabilì in Portogallo e cominciò a riflettere sulla possibilità di raggiungere l’Oriente attraversando l’Oceano Atlantico. Il progetto di Colombo fu respinto dal re di Portogallo Giovanni II che lo ritenne non sufficientemente fondato, Colombo si trasferì allora in Spagna dove riuscì ad entrare in contatto con la regina Isabella di Castiglia. Nel 1476 la regina aveva sposato il re Ferdinando d’Aragona e con la loro unione aveva avuto inizio l’unificazione territoriale della Spagna sotto un’unica corona. I cinque Stati che componevano la Spagna erano tuttavia esausti per le continue guerre fra loro e per la lotta contro gli Emirati arabi ancora presenti sul territorio iberico, la cosiddetta Reconquista. Era impellente trovare nuove risorse economiche, anche oltremare, e in questo clima maturò l’appoggio della corte spagnola ai progetti di Colombo. Sessione di studio 1 – Le grandi scoperte geografiche (II). Colombo ottenne la protezione della regina Isabella di Castiglia e con la Convenzione di Santa Fé ottenne i titoli di ammiraglio, vicerè e governatore delle terre eventualmente scoperte. La regina affidò a Colombo una flotta di tre caravelle con le quali sbarcò nell’isola di Watling, nelle Bahamas, il 12 ottobre 1492. Colombo ritornò in Spagna nel marzo 1493 e pochi mesi dopo partì al comando di una nuova spedizione con la quale esplorò le Antille, senza tuttavia trovare le grandi ricchezze desiderate dai sovrani spagnoli. Tornato in Spagna per giustificarsi, nel giugno 1495 ottenne il comando di una nuova spedizione che partì nel maggio del 1498 e approdò nel delta dell’Orinoco, trovando oro e perle in quantità. L’amministrazione di Colombo si rivelò disastrosa e un inviato della corte lo depose dal suo titolo di viceré e lo rispedì in Spagna nel 1500. Con una nuova spedizione, Colombo scoprì l’Honduras, ma perse tutte le sue navi e tornò in Spagna nel 1504. Essendo morta la regina Isabella, la corona spagnola non finanziò altre spedizioni del navigatore. Al ritorno di Colombo dal primo viaggio, la corona spagnola ricevette dal papa Alessandro VI (1431- 1503) il riconoscimento dei propri diritti sulle terre scoperte. Con le bolle Inter caetera del 1493 il papa affidò alla corona spagnola il compito di evangelizzare i nuovi territori e per questo motivo i sovrani iberici ricevettero il titolo di “re cattolici”. Data la possibile concorrenza di altre nazioni nell’esplorazione di nuovi territori oltre Atlantico, si imponevano tuttavia anche accordi diplomatici. L’ammiraglio chiamò i due capitani e gli altri che erano saltati a terra, e Rodrigo d’Escobedo, notaio di tutta l’Armada, e Rodrigo Sánchez di Segovia, e disse loro che gli facessero fede e testimonianza come egli in presenza di tutti prendeva possesso, come infatti prese, della detta isola per il Re e per la Regina suoi Signori […]. Subito si radunò in quel punto molta gente dell’isola. Queste che seguono sono parole testuali dell’ammiraglio da lui scritte nel libro della sua prima navigazione e scoperta di queste Indie. “Io – egli dice – conosciuto che ebbi che era gente la quale meglio si sarebbe salvata e convertita alla nostra santa Religione con l’amore che con la forza, allo scopo di farceli amici regalai ad alcuni di loro alcuni berretti rossi e coroncine di vetro che si mettevano al collo e altre cosette diverse di poco valore, di che ebbero molto piacere; e tanto divennero nostri amici che era una meraviglia. Essi, poi, venivano nuotando alle barche dei navigli, dove noi stavamo, e ci portavano pappagalli, filo di cotone in gomitoli, zagaglie e tante altre cose, le quali scambiavano con altre che noi davamo loro come perline di vetro e sonagli. Insomma, tutto prendevano e davano di buona volontà; ma mi parve che fosse gente molto sprovvista di ogni cosa. Vanno tutti nudi come la madre li partorì, comprese le donne […]. E tutti quelli che io vidi eran giovanissimi, ché non ne scorsi alcuno che fosse di età superiore ai 30 anni, e son tutti assai ben fatti, bellissimi di corpo e di graziosa fisionomia. [segue Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (IV). Hanno i capelli grossi, quasi come i crini delle coda dei cavalli, corti e cadenti sulle ciglia, salvo qualche ciuffo che gettano indietro e conservano lunghi senza mai accorciarli. Taluni si dipingono di grigio […], altri di bianco, o di rosso o d’altro colore; taluni si dipingono la faccia, altri tutto il corpo, o solo gli occhi, o solo il naso. Non portano armi, e nemmeno le conoscono: mostrai loro le spade ed essi prendendole per la parte del taglio, per ignoranza si tagliavano. Non alcuna specie di ferro. Le loro zagaglie sono certe verghe senza ferro, alcune delle quali recano all’estremità un dente di pesce e altre un corpo duro di qualsiasi specie. Generalmente sono di bella statura, di graziosi movimenti e ben fatti. Alcuni ne vidi che recavano tracce di ferite sul corpo, e chiesi loro a forza di gesti che cosa significassero quei segni; ed essi mi fecero capire come in quella terra venissero genti da altre isole vicine con l’intenzione di catturarli, e come si difendessero. E io credetti e credo che giungano qui dalla Terraferma per prenderli e ridurli in schiavitù. Debbono essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono presto tutto quello che io dico loro, e ritengo anche che possano diventare agevolmente cristiani, poiché mi pare che non appartengano a nessuna setta. Piacendo a Nostro Signore, quando partirò di qui prenderò con me sei di questi uomini per condurli alle Altezze Vostre, affinché imparino a parlare [il castigliano] […]. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 2. La caduta dell’Impero bizantino – che si verificò nel 1453, quando i Turchi ottomani portarono a compimento l’assedio di Costantinopoli – fu l'atto finale di un processo di progressiva erosione dei territori imperiali attuato prima dagli Arabi e poi dai Turchi ottomani, un processo che ebbe il proprio momento di apice tra il XIV e il XVI secolo. La conquista di Costantinopoli e la caduta dell'Impero bizantino fecero tramontare l'ideale politico e morale della monarchia universalistica di stampo imperiale, che era stato di Roma antica e che ritornò sulla scena solo con la figura di Carlo V. La fine dell'Impero bizantino produsse uno shock nell'Europa del tardo Medioevo perché ormai nel panorama politico non restava più alcuna realtà politica che si ricollegasse alla romanità e ciò apparve come un segno di passaggio tra l'età medievale e un'età nuova, quella moderna. Un altro punto di svolta tra l’età medievale e quella moderna è identificato dagli storici nella stagione delle grandi scoperte geografiche tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. I viaggi di Colombo (dal 1492 al 1504) e di altri navigatori italiani, spagnoli, portoghesi e inglesi portarono infatti alla scoperta di nuovi territori oltre Atlantico e nell’Oceano Pacifico, abitati da popolazioni civili la cui presenza mise in crisi la visione medievale del mondo fondata sugli insegnamenti delle Sacre Scritture, obbligando gli uomini del Medioevo ad ampliare repentinamente la loro visione dell'umanità e del creato. Lezione 3 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (I). Agli inizi del XV secolo, la situazione politica italiana era dominata da cinque potenze principali (il Ducato di Milano, la Signoria fiorentina, la Repubblica di Venezia, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli), più alcune altre potenze minori, e rimaneva caratterizzata da una grande instabilità. Dal 1412 sul Ducato di Milano regnava Filippo Maria Visconti, il cui obiettivo politico era ricostruire il grande dominio visconteo sul Nord Italia che aveva caratterizzato il ducato del padre Gian Galeazzo (1347-1402). Il progetto urtava gli interessi di altri Stati italiani, segnatamente la Repubblica di Venezia e la Signoria fiorentina, che gli mossero guerra. Dopo aver prevalso sui fiorentini, Filippo Maria Visconti venne sconfitto dai veneziani nella battaglia di Maclodio (1427) e dovette ridimensionare le proprie mire. Alla sua morte, nel 1447, alcune famiglie aristocratiche milanesi cercarono di istituire un governo oligarchico di stampo veneziano e proclamarono la Repubblica ambrosiana. Il progetto si rivelò presto utopistico e, di fronte alla minaccia degli eserciti veneziani, la classe dirigente della Repubblica chiese aiuto al condottiero toscano Francesco Sforza (1401- 1466), che aveva sposato Bianca Maria Visconti, una figlia del duca Filippo Maria. Sconfitta la minaccia veneziana, Francesco Sforza si auto-proclamò signore di Milano nel 1450. Il grande dinamismo manifestato dalla Repubblica di Venezia aveva nel frattempo allarmato la Signoria fiorentina, che capovolse la propria politica diplomatica e si alleò con il Ducato di Milano. Lezione 3 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (II). Di fronte alla minaccia rappresentata dal blocco costituito dal Ducato di Milano e dalla Signoria fiorentina, la Repubblica di Venezia si impegnò a fondo nella guerra che tuttavia, considerato il bilanciamento delle forze tra i protagonisti in campo, giunse presto a una fase di stallo che condusse alla stipula della Pace di Lodi (1454). Alla pace seguì la costituzione della Lega italica (1455), a cui aderirono tutte le grandi potenze italiane e molti degli Stati minori. L’obiettivo dichiarato della lega era mantenere l’equilibrio esistente in Italia all’atto della stipula della Pace di Lodi, se necessario combattendo anche eventuali invasori stranieri. In questo modo era teorizzata per la prima volta – almeno in ambito italiano – la politica dell’equilibrio, che sembrava destinata a durare, dal momento che la monarchia francese (principale minaccia esterna nei confronti delle potenze italiane), essendo uscita indebolita dalla Guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra (1337-1453) non era interessata a espandersi al di là delle Alpi. Per quanto mirabile, la costruzione politica della Lega italica nasceva debole perché viziata dalle numerose rivalità che ancora opponevano le potenze italiane che, tra l’altro, pur avendo rinunciato alla guerra come strumento di politica internazionale, continuavano ad essere internamente instabili a causa di continue congiure e lotte di potere. Lezione 3 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (III). Questa situazione era dovuta al fatto che la dialettica politica all’interno dei vari Stati italiani languiva, essendo schiacciata da un controllo esercitato dal vertice di potere che ovunque assumeva la forma di un’autocrazia, e quindi tendeva ad assumere la forma della congiura. A dispetto delle apparenze, quindi, sia all’interno degli Stati italiani, sia tra le potenze, la diffidenza rimaneva la regola. Un caso emblematico di questo stato di cose può essere identificato nella situazione della Signoria fiorentina negli ultimi decenni del XV secolo. Signore di Firenze era – a partire dal 1469 – Lorenzo il Magnifico (1449-1492), della dinastia de’ Medici, che governava la Signoria in modo autocratico pur mantenendo inalterati i meccanismi repubblicani ereditati dalla stagione comunale attraversata da Firenze nel XIII e XIV secolo. Nel 1478 la famiglia dei Pazzi (banchieri rivali dei de’ Medici e appoggiati dal papa Sisto IV, che voleva estendere il potere pontificio sulla Signoria fiorentina) organizzò un attentato che si svolse nella chiesa di S. Maria del Fiore e di cui fu vittima Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo. I Pazzi speravano di sobillare il popolo fiorentino contro i de’ Medici, ma il popolo rimase apatico e la repressione della dinastia medicea fu immediata. La mano papale dietro la congiura era evidente (infatti tra i congiurati spiccava anche l’arcivescovo di Pisa) e la Signoria fiorentina – ottenuto l’appoggio della Repubblica di Venezia e del Ducato di Milano – dichiarò guerra al pontefice, alleato con il Regno di Napoli e la Repubblica di Siena. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (IV). Lorenzo il Magnifico convinse il re di Napoli Ferdinando d’Aragona (detto Ferrante) che l’alleanza con un papa ambizioso come Sisto IV sarebbe stata pericolosa per il suo regno; Napoli abbandonò allora la coalizione raccolta dal pontefice e si alleò con la Signoria fiorentina, obbligando Sisto IV a concludere la pace, stipulata nel 1480. La nuova situazione di equilibrio fu però di breve durante, dal momento che la Repubblica di Venezia scatenò la Guerra di Ferrara (1482-84, detta anche Guerra del sale) per impadronirsi del Ducato ferrarese, divenuto feudo papale. Sisto IV, che cercava un’occasione per riprendere la guerra contro la Signoria fiorentina, cedette il Ducato ferrarese a Venezia, ma a questa manovra si oppose una lega composta dalla Signoria fiorentina, dal Ducato di Milano, dal Ducato di Mantova e da Bologna. Ne derivò un nuovo periodo di ostilità, che si concluse con la Pace di Bagnolo (1484) con cui il Ducato ferrarese rimaneva indipendente, pur cedendo a Venezia alcuni territori sul corso del fiume Po. Neppure in questo caso l’equilibrio italiano poteva dirsi definitivamente stabilito, dal momento che nel 1485 scoppiò nel Regno di Napoli la cosiddetta Rivolta dei baroni, che coinvolse buona parte dell’aristocrazia napoletana ed ebbe ripercussioni su tutta l’Italia meridionale. In Abruzzo, gli aristocratici insorti ricevettero l’appoggio di un esercito inviato dal nuovo pontefice Innocenzo VIII, ma ciò provocò la reazione della Signoria fiorentina. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (V). L’intervento fiorentino nella Rivolta dei baroni comportò il richiamo delle truppe pontificie e, senza il loro appoggio, il re di Napoli poté facilmente domare i moti di ribellione. Anche il Nord Italia viveva una situazione di profonda instabilità politica, dal momento che nel 1476 una congiura nobiliare aveva portato all’uccisione del duca Galeazzo Maria Sforza (che aveva ereditato il Ducato da Francesco nel 1466), a cui era stato fatto succedere il figlio Gian Galeazzo II, anche se il potere era concretamente esercitato da suo zio Ludovico Maria, detto il Moro. Ludovico il Moro teneva il nipote, incapace e di cagionevole salute, lontano dagli affari di governo, ma Gian Galeazzo II aveva sposato una nipote del re di Napoli, che protesto per la condizione in cui era tenuto il giovane duca, accampando anche diritti sullo Stato milanese. Per contrastare le aspirazioni aragonesi, Ludovico il Moro chiamò in aiuto il re di Francia Carlo VIII (sul trono dal 1483 al 1498), invitandolo a rivendicare un suo lontano diritto ereditario sulla corona napoletana; un diritto riconducibile alla nonna paterna, appartenente alla dinastia angioina, che aveva regnato su Napoli fino agli anni Venti del XV secolo. Carlo VIII venne chiamato anche da alcuni dei baroni che si erano ribellati nel 1485 e iniziò la discesa in Italia nel settembre 1494, inaugurando la stagione delle cosiddette “Guerre d’Italia” che si conclusero solo nel 1559. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 1 (VI). Con la sua discesa in Italia, Carlo VIII continuava la politica spregiudicata che aveva caratterizzato fin dall’inizio il suo regno. Una volta salito al trono, infatti, il re aveva approfittato della morte del Sacro Romano Impero, la Spagna dei re cattolici e alcuni Stati italiani minori formarono così una Lega. Considerato lo spiegamento di forze avversarie, Carlo VIII decise di ritornare in Francia, ma per farlo avrebbe dovuto risalire tutta la penisola. La Lega intercettò l’esercito di Carlo VIII a Fornovo (luglio 1495), ma non riuscì a fermarne la marcia verso la Francia. Il ritorno di Carlo VIII in patria apriva un altro periodo di instabilità. Sul trono napoletano ritornò Ferdinando II, mentre la Repubblica di Venezia si impadronì di tutti i principali porti della Puglia. La situazione rimaneva instabile anche nella nuova Repubblica fiorentina, dove il potere era esercitato dalla fazione guidata dal frate domenicano Gerolamo Savonarola (1452-1498). Dopo la caduta dei de’ Medici, Savonarola aveva fondato un movimento popolare che, ispirandosi a un forte rigorismo, sosteneva l’austerità e si dichiarava contrario a ogni ingerenza straniera negli affari fiorentini, soprattutto da parte papale. Lezione 4 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 2 (III). La predicazione di Savonarola si scagliava soprattutto contro il pontefice Alessandro VI, accusato di immoralità, ed evidenziava la necessità di costituire a Firenze una Repubblica animata dai principi del cristianesimo. La visione di Savonarola non riuscì a fare presa sul popolo fiorentino e tanto meno sull’aristocrazia (i cosiddetti “arrabbiati”), che si coalizzarono con i sostenitori dei de’ Medici e chiesero al papa di prendere provvedimenti contro Savonarola. Nel 1498 Savonarola fu condannato come eretico e bruciato sul rogo. Come evidenziavano anche le vicende della Repubblica fiorentina, la situazione italiana continuava a restare pericolosamente instabile e la spedizione di Carlo VIII aveva dimostrato quanto fosse facile per una potenza straniera approfittare di tale debolezza. Il successore di Carlo VIII, Luigi XII (1498-1514), decise di riprendere la conquista dell’Italia e, essendo imparentato con la dinastia dei Visconti, decise di rivendicare i propri diritti sul Ducato di Milano. Allo scopo organizzò anche una rete di alleanze, promettendo dei territori lombardi alla Repubblica di Venezia e ai Signori grigioni (che governavano la Svizzera meridionale) e la Romagna a Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio del papa Alessandro VI. Iniziò poi la sua discesa in Italia e nel 1500 sconfisse Ludovico il Moro, deportandolo in Francia dove morì nel 1518. Si apriva in questo modo una nuova stagione delle Guerre d’Italia. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 2 (IV). Oltre a rivendicare i propri diritti sul Ducato di Milano, Luigi XII intendeva conquistare anche il Regno di Napoli e allo scopo si alleò con il re di Spagna Ferdinando d’Aragona attraverso il Trattato di Granada (1500), che preveda la spartizione del Regno tra la Francia e la Spagna. Venuto a conoscenza del trattato, il re di Napoli Federico III preferì rinunciare a ogni resistenza e abdicò in favore di Luigi XII, ottenendo in cambio il Ducato dell’Angiò, che il re Carlo VIII aveva annesso ai territori della corono francese. La mossa del re di Napoli e il nuovo quadro geo-politico che si andava delineando portarono alla crisi dell’alleanza franco-spagnola e all’aprirsi delle ostilità tra la Francia e la Spagna che si conclusero con la vittoria di quest’ultima. Con l’Armistizio di Lione (1504) si decise che la Spagna avrebbe assunto il controllo del Regno di Napoli, mentre la Francia del Ducato di Milano. Nello stesso torno di tempo si ebbe anche la morte di papa Alessandro VI (1503), che portò alla fine dello Stato che il figlio Cesare aveva costituito con i territori papali della Romagna e delle Marche, dato che il nuovo pontefice Giulio II (sul soglio dal 1503 al 1513) era nettamente ostile alla famiglia dei Borgia, da cui Alessandro VI proveniva. Per alcuni anni Cesare Borgia detto il Valentino era sembrato il personaggio emergente della politica italiana, al punto da essere assunto da Niccolò Machiavelli quale modello del sovrano ideale ne Il principe (1513). Alla morte del padre, tuttavia, si rifugiò in Spagna dove morì poco dopo. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 2 (V). Approfittando della caduta di Cesare Borgia, la Repubblica di Venezia occupò la Romagna, sperando in questo modo di rafforzare i propri territori sul corso del Po. Per frenare le tendenze espansionistiche veneziane il papa Giulio II promosse la costituzione della Lega anti-veneziana di Cambrai (1508), comprendente lo Stato della Chiesa, il Sacro Romano Impero, la Francia e la Spagna. Attaccata da forze preponderanti, Venezia venne sconfitta nella battaglia di Agnadello (1509), uno degli scontri più sanguinosi delle Guerre d’Italia. Le forze della Lega avrebbero potuto assediare il territorio veneto e di fronte a questa prospettiva la diplomazia della Repubblica si mise al lavoro per intavolare trattative di pace. Venezia perse gran parte della Romagna e tutti i suoi porti pugliesi, ma aveva evitato l’invasione. Dopo la vittoria, papa Giulio II mise in crisi la Lega che aveva promosso, uscendo dall’alleanza spaventato dalla prospettiva che un eccessivo indebolimento della Repubblica di Venezia avrebbe potuto aprire la strada a nuove invasioni straniere dell’Italia. Luigi XII di Francia reagì alla mossa del papa cercando di convocare un concilio che deponesse il pontefice, ma senza esito. Si giunse alla formazione di una Lega santa anti-francese, composta dallo Stato della Chiesa, dalla Repubblica di Venezia, dalla Spagna, dall’Inghilterra e dai Signori grigioni. La Francia vinse la battaglia di Ravenna (1512), ma non riuscì a conservare i propri territori nell’Italia settentrionale. Sessione di studio 1 – La situazione italiana tra il XV e il XVI secolo 2 (VI). Approfittando della situazione di caos, i Signori grigioni invasero la Lombardia, scacciarono i Francesi e consegnarono il Ducato di Milano a Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. La Spagna, invece, invase l’Italia centrale e abbatté la Repubblica fiorentina (alleata della Francia) ripristinando la Signoria medicea. Nuove trasformazioni politiche si preannunciavano tuttavia all’orizzonte perché alla morte di Luigi XII salì al trono il giovane figlio Francesco I (1515-47), che decise immediatamente di riconquistare la Lombardia con l’aiuto della Repubblica di Venezia. Nella battaglia di Marignano (1515) i francesi e i veneti sconfissero le forze dei Signori grigioni e li espulsero dall’alta Italia, relegandoli nel Canton Ticino. La Lombardia tornava dunque sotto la corono francese e ciò avrebbe potuto essere causa di nuove ostilità, la morte del papa Giulio II e l’elezione di Leone X (figlio di Lorenzo il Magnifico) favorì tuttavia la distensione, dal momento che il pontefice promosse un accordo tra le potenze che si contendevano l’Italia. Si giunse così alla Pace di Noyon (1516) che confermò il Regno di Napoli alla Spagna e il Ducato di Milano alla Francia. L’assunzione del titolo imperiale da parte di Carlo V (1519) e le successive controversie con Francesco I erano tuttavia destinate a mettere nuovamente a rischio il fragile equilibrio italiano. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Man mano che passarono gli anni e l’Italia cadde sotto il dominio straniero, la battaglia di Fornovo assunse un significato maggiore rispetto alla realtà. Verso il 1550, Paolo Giovio [ecclesiastico e storico] commentava nei suoi scritti che fu a Fornovo che “L’Italia perse le sue rinomate tradizioni militari. Le Nazioni straniere, che qualche tempo prima ci vedevano con timore, iniziarono da quel momento a trattarci con vergognosa sufficienza, e sono da attribuire ai risultati deplorevoli di questa battaglia sfortunata le pene che da allora stiamo subendo, insieme all’odierna condizione di schiavitù dell’Italia”. Ma questo successe dopo. Il 12 luglio [la battaglia si svolse il 6 luglio 1495], Gonzaga [Francesco II Gonzaga, duca di Mantova e condottiero di ventura, capo delle forze della Lega anti-francese impegnate a Fornovo] disse a un altro scrittore che “Con questo fatto d’arme non solo riscattammo l’onore d’Italia, ma anche la libertà di tutti”. […] Anche i francesi erano convinti di aver vinto la battaglia di Fornovo, per essere riusciti ad uscire relativamente illesi dallo scontro contro un esercito numericamente superiore. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Si irritarono notevolmente di fronte al dipinto di Mantegna [la Madonna della Vittoria, fatta realizzare nel 1496 come ex voto da Francesco II Gonzaga e collocata nella Chiesa della Vittoria a Mantova, fatta costruire dal condottiero di ventura per celebrare la giornata di Fornovo] e, nel 1797, una successiva invasione francese lo portò a Parigi con la scusa che essi erano i veri vincitori di Fornovo. E’ ancora visibile presso il Museo del Louvre. Anche se non era chiaro se l’esercito della Lega avesse vinto a Fornovo, o se almeno avesse spinto i francesi a ritirarsi, il Senato veneziano fu abbastanza soddisfatto da offrire a Francesco Gonzaga una somma complessiva di 10.000 ducati, oltre a 1.000 per la sua consorte [Isabella d’Este, figlia del duca di Ferrara] e altri 10.000 a titolo di compenso per i caduti della sua compagnia. […] Coloro che si erano distinti ed erano sopravvissuti furono ugualmente ricompensati. […] La Francia non ebbe nessun vantaggio dall’invasione di re Carlo, anzi, perse molto credito nelle sue relazioni con la vicina Spagna e l’Impero tedesco e anche con l’Inghilterra. I fatti del 1494-95 avevano, comunque, messo in evidenza la fragilità di un’Italia frammentata e si preparavano ben altre invasioni più efficaci. […] La “mancanza di crudeltà” da parte italiana, rispetto a quella dimostrata dai loro nemici, fu ugualmente vista come una debolezza e ci si sarebbe sforzati molto per introdurre un certo grado di ferocia “barbara” presso gli eserciti italiani. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). Il fatto che questi sforzi non furono coronati da successo la dice lunga sul temperamento italiano. Le Guerre d’Italia che iniziarono a seguito dell’invasione del 1494-95 non furono più le “belle guerre” delle decadi precedenti, ma delle lotte per la sopravvivenza dove l’obiettivo militare sembrò essere la vittoria rapida e a ogni costo. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 4. La discesa di Carlo VIII in Italia, con l’obiettivo di rivendicare la corona del Regno di Napoli, indusse gli Stati italiani – unitamente ad altre grandi potenze europee – a formare una Lega che intercettò l’esercito francese a Fornovo (1495), senza tuttavia riuscire a fermarne la marcia di ritorno in patria. Nello stesso periodo, a Firenze, la Signoria dei de’ Medici venne abbattuta e il potere venne assunto dal domenicano Gerolamo Savonarola, poi deposto e condannato come eretico nel 1498. Sulla scorta dell’esperienza di Carlo VIII, anche il re di Francia Luigi XII discese in Italia e ottenne sostanziali successi annettendo il Ducato di Milano alla monarchia francese. Da ciò scaturirono la formazione della Lega anti-veneziana di Cambrai (1508) e la battaglia di Agnadello (1509). In seguito la lotta degli Stati italiani – con l’aiuto della Spagna – contro la Francia continuò con la formazione della Lega santa e si concluse nel 1516 con Pace di Noyon. La Francia conservava il possesso del Ducato di Milano, mentre la Spagna si impadroniva della corona napoletana. Questo assetto politico era tuttavia destinato ad essere messo in crisi dalla nuova stagione delle Guerre d’Italia apertasi con l’assunzione della dignità imperiale da parte di Carlo V. Lezione 5 – Società ed economia in Italia e in Europa tra il XV e il XVI secolo (I). Come già visto nel caso della Spagna dei re cattolici e della Francia di Carlo VIII, il passaggio tra XV e XVI secolo può essere identificato come un importante momento di trasformazione istituzionale per molti Stati europei. E’ in questo periodo, infatti, che le principali monarchie europee conclusero il proprio processo di rafforzamento, impostarono un’amministrazione statale organizzata e – in sostanza – guidarono i loro Stati nell’assunzione di una fisionomia moderna. Tali trasformazioni di carattere istituzionale rappresentano un ulteriore elemento che contribuisce a Sessione di studio 1 – Società ed economia in Italia e in Europa tra il XV e il XVI secolo (VII). Il XVI secolo vide anche l’introduzione dell’industria, principalmente tessile e favorita dall’allevamento in tutta Europa del baco da seta. L’industria tessile si articolava in due rami distinti: da un lato le prime installazioni industriali (filande), dall’altro il lavoro a domicilio (affidato ai contadini durante il periodo di riposo invernale). Il sistema di lavoro a domicilio, particolarmente rilevante nell’Italia settentrionale e nelle Fiandre, è spesso ritenuto dalla storia economica come una forma di proto-industria o di “industria diffusa”, oltre che di primitiva imprenditoria, in quanto gestito da mercanti-imprenditori. La crisi economica arricchì anche alcuni ceti nuovi come quello dei banchieri: grandi famiglie come i Welser e i Fugger, prevalentemente tedesche e svizzere, che in alcuni casi arrivarono a prestare denaro anche alle corone europee. Gli Stati cercarono di migliorare il loro controllo sui commerci, soprattutto quelli esteri, e agli inizi del XVI secolo risalgono infatti la fondazione di enti quali la Casa de la contratacion di Siviglia (creata nel 1503 per esercitare il monopolio commerciale degli scambi con le Americhe e per fungere da tribunale commerciale) o la Casa de India, la Casa de Guinea o la Casa da mina portoghesi. Si sviluppò anche la finanza, con l’istituzione delle prime borse per la contrattazione commerciale a livelli internazionali. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). La Controriforma e la rivoluzione dei prezzi (1559-1610), Garzanti, 1968. Sappiamo che nel decennio 1590-1600 [l’afflusso dei metalli preziosi americani] segnò le punte più alte, con un valore di oltre 3.000.000.000 di Maravedis in metalli sbarcati annualmente: somma enorme, cui pure andrebbero aggiunti i carichi che si persero lungo la rotta, le prede di guerra, i colpi riusciti della pirateria e del contrabbando. Siano attesi sui moli di Siviglia e poi ritirati dagli ufficiali regi, oppure dai funzionari delle grandi compagnie private, quei metalli americani hanno il destino comune di non sostare a lungo nei forzieri, ma di venire assorbiti rapidamente dal circuito mercantile europeo nel quale, senza molte discriminazioni d’origine o di nazionalità, operano solidali fra loro e a un tempo rivali, i banchieri, gli armatori, gli appaltatori di rendite o di forniture militari, e poli la variegata schiera di speculatori e intermediari di ogni sorta che una situazione di quel genere doveva mettere in moto. I canali distributivi della ricchezza si gonfiano di denaro, come in primavera i torrenti alpini allo sciogliersi delle nevi, e l’economia europea, rinsanguata dall’America, scorda la scarsezza cronica dei mezzi di pagamento che l’aveva tanto angustiata nel Medioevo. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Ai problemi della penuria subentrano quelli dell’abbondanza, e nuovi dogmi vanno introdotti per aggiornare la teoria del fiorire e decadere della ricchezza dei popoli. Già prima del 1519, l’anno in cui la folla plaude in Siviglia allo sbarco del primo carico di argento americano, i prezzi delle merci mostravano in Europa un’irrefrenabile spinta all’aumento: da quel momento il fenomeno si manifesta in termini ancora più netti. Le lamentele contro il carovita si moltiplicano ovunque, ma le voci sono anche discordi, poiché la crescita dei prezzi non pare obbedisca a una norma razionale, e certamente è assai diversa da prodotto a prodotto, da luogo a luogo e da momento a momento. Al disappunto dei contemporanei che si vedevano sfuggire di mano le grosse monete d’argento tanto agognate e che non riuscivano a destreggiarsi in calcoli troppo precisi, ha risposto assai più tardi l’impegno degli storici dell’economia che nella vicenda dei prezzi hanno scoperto uno dei campi più rispondenti alle loro sottili metodologie. Di quel convulso fenomeno che furono le innumerevoli oscillazioni dei valori espressi in denaro, gli statistici si sono sforzati di cogliere la tendenza di fondo, ritrovandosi abbastanza concordi nell’affermare che nel corso del Cinquecento la moneta corrente perse da tre quarti a quattro quinti dell’iniziale potere d’acquisto. […] [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). L’onda dei prezzi salì più alta nei Paesi in cui il denaro affluiva più facilmente e si smorzò nelle contrade poste al margine delle strade maestre percorse dalle carovane regie, dagli eserciti e dal grande commercio, e in generale i beni di consumo quotidiano, a cominciare dagli alimenti che esaurivano il bilancio di tanta povera gente, crebbero con maggiore sollecitudine di quelli a lento ricambio. Molti fattori possono venire additati che influirono in un senso o nell’altro sulla diversa dinamica dei prezzi […]. Ciascuna ipotesi deve racchiudere una parte di vero e indica una pista buona, ma è bene deporre la pretesa di spiegare ogni cosa o, peggio, di ridurre tutto a precise misurazioni, e conviene lasciare all’irrazionale, a ciò che poté essere frutto del caso o di suggestioni personali o collettive, la parte non piccola che gli compete. […] Ma i singoli problemi si correlano l’un l’altro, in un sistema di relazioni complesse che pare guidato dalla svalutazione della moneta, parametro di comune riferimento e giudizio di ognuna di quelle particolari oscillazioni. […] Lezione 6 – L’Impero di Carlo V (I). Nel 1516 Carlo d’Asburgo divenne re di Spagna, ma poteva vantare diritti dinastici anche sulla dignità imperiale, in quanto nato dal matrimonio tra Giovanna di Castiglia detta la Pazza (figlia dei re cattolici) e Filippo il Bello (figlio dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo). L’eventualità che Carlo unificasse le corone spagnola e imperiale era temuta da tutti i principali Stati europei perché avrebbe portato alla formazione di un blocco continentale che avrebbe potuto facilmente dominare l’Europa. Questa prospettiva era particolarmente temuta dalla Francia, il cui giovane re Francesco I nutriva delle mire sulla dignità imperiale, supportato in questo senso dal pontefice Leone X. Il complesso di territori su cui Carlo si sarebbe trovato a governare, nell’eventualità della sua elezione a imperatore, avrebbe compreso il Regno di Spagna (più i territori annessi di Napoli, Sicilia e Sardegna), l’Arciducato d’Austria (più il Regno di Boemia, i vari Stati tedeschi vassalli dell’Impero e i territori delle Fiandre e dei Paesi Bassi) e tutte le colonie spagnole nel Nuovo mondo. L’assunzione della dignità imperiale da parte di Carlo non era però automatica, dal momento che essa non si trasmetteva per via ereditaria, ma veniva attribuita per mezzo di un’elezione svolta da sette grandi principi dell’Impero. I cosiddetti “principi elettori” erano quattro governanti laici (il re di Boemia, il duca di Sassonia, il conte palatino del Reno e il marchese del Brandeburgo-Prussia) e tre alti ecclesiastici (i vescovi-principi di Magonza, Colonia e Treviri). Lezione 6 – L’Impero di Carlo V (II). Agli occhi dei principi elettori i due candidati alla dignità imperiale – Carlo d’Asburgo e Francesco I – si equivalevano: mentre il primo poteva vantare un collegamento dinastico con il precedente imperatore (essendone il nipote), il secondo godeva dell’appoggio papale (cosa non da poco, visto che – considerato il ruolo di difensore della cristianità attribuito al sovrano del Sacro Romano Impero – il candidato scelto dai principi elettori doveva ricevere il placet del pontefice e veniva da lui incoronato). Per risolvere la situazione di incertezza i principi elettori decisero di mettere letteralmente in vendita i loro voti. Grazie all’appoggio dei banchieri tedeschi Welser e Fugger, Carlo d’Asburgo riuscì ad acquistare il voto della maggior parte dei principi, per la somma esorbitante di 1.000.000 di Fiorini. In questo poté assumere la dignità imperiale, con il nome di Carlo V, conservando però la corona spagnola con il nome di Carlo I. La tanto temuta unificazione delle corone spagnola e imperiale si era dunque verificata e la posizione dei due principali territori di Carlo V era tale da indurre la Francia a sentirsi circondata. Proprio la divisione territoriale dell’Impero di Carlo V impose la conquista di un territorio “di collegamento” tra la Germania e la Spagna, un territorio che non poteva che essere costituto dall’alta Italia. Considerate le tradizionali mire della Francia sulla medesima zona, la tensione tra l’Impero e la monarchia francese non poteva che sfociare in una ripresa delle Guerre d’Italia. Lezione 6 – L’Impero di Carlo V (III). Con l’assunzione della corona spagnola e della dignità imperiale da parte di Carlo d’Asburgo riprese vigore l’idea di una monarchia universale che facesse rivivere l’ideale imperiale romano. La forte connotazione provvidenziale attribuita da Carlo V al suo Governo si rivelava poi in consonanza con lo spirito originario del Sacro Romano Impero e si inseriva nella tradizione consolidata secondo cui gli imperatori non erano solo i leader di un’estesa compagine politica, ma anche figure destinate alla difesa della fede cristiana. Se si considera che l’Impero di Carlo V coincise con gli anni focali della Riforma luterana e con l’avvio della Controriforma si può comprendere la volontà di Carlo V di essere la guida della cristianità rinnovata e purgata dalle proprie scorie. L’ideale imperiale di Carlo V era sostenuto pienamente anche dal suo consigliere e Gran Cancelliere, il cardinale Mercurino Arborio di Gattinara (1465-1530), ed esaltato da numerosi intellettuali dell’epoca (tra cui Ludovico Ariosto, che ne L’Orlando furioso accolse l’interpretazione di Carlo V come erede degli imperatori romani). Il generale favore con cui venne accolto l’ideale imperiale di Carlo V si può spiegare con la diffusa esigenza di ordine e sicurezza; non bisogna dimenticare, tuttavia, che nei fatti Carlo V si trovò a governare su di un impianto politico anacronistico, formato da realtà statali diverse e divise, che riconoscevano quale unico vincolo la figura dell’imperatore. Sessione di studio 1 – L’Impero di Carlo V (IV). Come già detto, l’unione – nella persona di Carlo V – della corona spagnola e della dignità imperiale metteva a rischio tutto l’equilibrio europeo, soprattutto perché la Francia di Francesco I si sentiva accerchiata da territori ostili. Questo motivo, unitamente alla volontà di vendicare lo smacco subito al momento dell’elezione imperiale e di riaffermare il controllo francese sul Ducato di Milano indusse Francesco I ad iniziare le ostilità contro l’Impero. Carlo V non poteva rinunciare ad impossessarsi del Ducato di Milano, il cui controllo gli avrebbe consentito di instaurare un collegamento tra la Spagna e l’ambito tedesco. All’inizio delle ostilità una serie di insuccessi francesi culminò nella disfatta di Pavia (1525), battaglia nella quale lo stesso re Francesco I cadde prigioniero delle forze imperiali. Carlo V prese il controllo del Ducato di Milano e vi istallò come sovrano fantoccio un discendente della dinastia sforzesca, Francesco II Sforza. La sconfitta di Pavia ebbe un’importanza notevole dal punto di vista della storia militare perché la cavalleria pesante francese (di ispirazione medievale) si infranse contro la disciplinata fanteria imperiale, in gran parte mercenaria, armata con picche e archibugi. La sconfitta fu pregna di conseguenze anche sotto il profilo politico: deportato in Spagna, Francesco I fu costretto a firmare il Trattato di Madrid (1526) con cui, in cambio della libertà, si impegnò a concedere a Carlo V il Ducato di Milano e la Borgogna, già integrata da Carlo VIII tra i possedimenti francesi. Sessione di studio 1 – L’Impero di Carlo V (V). Tornato in patria, Francesco I dichiarò che il Trattato di Madrid gli era stato estorto con la forza e non lo rispettò, conservando il controllo sulla Borgogna. Carlo V dichiarò fellone Francesco I e lo sfidò simbolicamente a duello, mentre il re di Francia riunì nella Lega di Cognac tutte le potenze soggetto a frequenti invasioni straniere. Si può tuttavia rilevare, in Italia, la nascita di una sorta di coscienza nazionale, stimolata dal senso di comunanza garantito dalla lingua volgare (il volgare illustre toscano diffuso grazie alle opere dei grandi letterati del XIV secolo) e dallo sviluppo di un senso di superiorità culturale nei confronti di altri popoli e Stati. Anche dal punto di vista economico l’Italia restava un contesto vitale, grazie alla diffusione dell’allevamento del baco da seta e all’esportazione di tessuti di lusso. Il passaggio tra il Quattrocento e il Cinquecento fu caratterizzato anche, a livello europeo, da un aumento della popolazione che – unitamente all’arrivo dei metalli preziosi dal Nuovo mondo – causò un aumento dei prezzi e una generale crisi economica. Per fare fronte ad essa si svilupparono nuove tecniche agricole (ad esempio la concimazione) e si migliorarono quelle già esistenti (ad esempio la rotazione). Sempre tra XV e XVI secolo, infine, si assistette anche all’avvento della proto-industria (con il lavoro a domicilio) e della finanza in senso moderno. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 6. L’avvento al potere di Carlo d’Asburgo come re di Spagna (1516) e imperatore del Sacro Romano Impero (1519) riportò in primo piano l’ideale imperiale universalistico di matrice romana. Carlo V d’Asburgo/Carlo I di Spagna si interpretò come il sovrano sotto la cui guida la cristianità avrebbe dovuto rinnovarsi e combattere tanto contro l’insidioso pericolo della Riforma luterana, quanto contro l’espansionismo dei Turchi ottomani nel Mar Mediterraneo. La necessità di connettere le due metà dell’Impero attraverso la conquista del Ducato di Milano spinse Carlo V alla guerra contro la Francia di Francesco I e da ciò scaturì una nuova stagione delle Guerre d’Italia che si trascinò, con ampie interruzioni, fino al 1559 (Pace di Cateau-Cambresis). Nel 1556 Carlo V abdicò lasciando la corona imperiale e i possedimenti ereditari degli Asburgo al fratello Ferdinando I, mentre il Regno di Spagna, le sue colonie e i Vice-reami ad esso connessi vennero affidati al figlio Filippo II. Lezione 7 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (I). A causa delle problematiche interne legate alla Riforma luterana e alla ribellione di alcuni principi tedeschi e delle questioni internazionali connesse alle continue guerre con la Francia per il possesso del Ducato di Milano, l’Impero di Carlo V presentava molti elementi intrinseci di debolezza. Di tale situazione approfittarono i Turchi ottomani che, nel passaggio tra Quattrocento e Cinquecento, avevano momentaneamente arrestato la loro espansione nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. La ripresa dell’espansione ottomana deve essere collocata in realtà nel quadro di un rinnovato dinamismo cinquecentesco delle principali potenze musulmane: l’Impero dei Savafidi (Persia), l’Impero Moghul (India) e appunto l’Impero Ottomano. I rapporti tra le tre potenze musulmane non erano sempre eccellenti, l’arresto dell’espansione ottomana tra Quattrocento e Cinquecento, ad esempio, può essere ricondotto anche agli scontri tra i Savafidi e i Turchi ottomani per questioni confessionali. I primi erano sciiti (ovvero sostenitori della corrente islamica facente capo ad un cugino di Maometto, Alì), mentre i secondi erano sunniti (cioè praticavano l’Islam conformemente alla tradizione maomettana) e si percepivano come guardiani dell’ortodossia islamica, anche perché il sultano ottomano possedeva il titolo di “califfo” (ovvero successore del Profeta), figurando in pratica come la più importante autorità religiosa musulmana. Lezione 7 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (II). Dopo aver abbattuto l’Impero bizantino e aver effettuato diverse scorrerie nel Mediterraneo, alla fine del Quattrocento i Turchi ottomani erano stati costretti ad arrestarsi di fronte al sorgere della potenza savafide. All’inizio del Cinquecento ripresero la loro espansione e sotto la guida del sultano Selim I si concentrarono sul Medio Oriente, conquistando l’Egitto, la Siria e la penisola araba. Sotto la guida del successore di Selim I, Solimano I il Magnifico (1520-1566), si dedicarono invece all’espansione nei Balcani: nel 1521 raggiunsero Belgrado e nel 1526 sconfissero Luigi II Jagellone (re di Boemia e d’Ungheria) nella battaglia di Mohacs, poi risalirono il corso del Danubio e nel 1529 posero d’assedio Vienna. Per quanto pericolosa, l’avanzata ottomana era da considerare unicamente come una puntata offensiva che non poteva dare luogo ad un’occupazione stabile del territorio imperiale. Boemia ed Ungheria vennero infatti inglobate all’intero del Sacro Romano Impero. All’Impero Ottomano e all’Impero Savafide si aggiungeva anche un’altra minaccia musulmana, ovvero la pirateria algerina e tunisina, detta “barbaresca”. Guidati da Khair-ad-Din (detto “Barbarossa”), i pirati barbareschi razziavano le coste italiane e spagnole, mettendo a rischio l’assetto commerciale di tutto il Mediterraneo. Carlo V decise di liberare il Mediterraneo dalla minaccia musulmana e si impegnò nella lotta contro i pirati con un autentico spirito di crociata. Lezione 7 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (III). Nel 1535 la flotta spagnola (o, più correttamente, imperiale) conquistò il caposaldo barbaresco di Tunisi, ma la possibilità di giungere a una sconfitta totale dei pirati si allontanò con la battaglia navale di Prevesa (1538), durante la quale i pirati sconfissero una flotta radunata dal Sacro Romano Impero, dallo Stato della Chiesa e dalla Repubblica di Venezia. Nel frattempo l’atteggiamento generale degli europei nei confronti dell’Islam cominciò a mutare. Nel quadro delle controversie tra il Sacro Romano Impero e la Francia, Francesco I strinse un accordo con Solimano il Magnifico per danneggiare i traffici mercantili spagnoli nel Mediterraneo, mentre lo shah savafide di Persia cercò di stipulare un’alleanza con Carlo V. Si trattava di consultazioni politiche inaudite, che sottolineavano come l’Islam non fosse più considerato come un male da debellare a ogni costo – secondo lo spirito medievale delle Crociate – ma piuttosto come un mondo diverso da quello cristiano, con il quale era possibile stringere delle alleanze per il conseguimento di obiettivi politici. Allo stesso tempo, il mutamento dell’atteggiamento europeo nei confronti dell’Islam evidenziava come il concetto della Respubblica christiana, in base al quale il concetto di Europa e quello di cristianità si sovrapponevano, fosse ormai tramontato. Sessione di studio 1 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (IV). La guerra tra l’Impero Ottomano e il Sacro Romano Impero per la prevalenza sul Mediterraneo continuò anche nella seconda metà del Cinquecento. Nel 1560 i Turchi sconfissero la flotta spagnola al largo del Marocco, vicino alla città di Ceuta, mentre nel 1565 assediarono Malta per vari mesi. L’isola resistette e l’avanzata musulmana nel Mediterraneo subì un momentaneo arresto. Le incursioni dei pirati barbareschi invece non si fermarono e si trasformarono in scorrerie ben organizzate condotte da flotte di grandi dimensioni. I pirati barbareschi operavano lungo le rotte commerciali più importanti e, come già detto, avevano come capisaldi città costiere quali Tunisi e Algeri. Queste città fungevano da fortezze e da centri per lo smistamento dei beni saccheggiati e ospitavano cantieri navali che assicuravano la riparazione dei vascelli pirati. Alcuni dei capisaldi pirateschi erano nati praticamente dal nulla, come Algeri, fondata da Barbarossa. I pirati rappresentavano senz’altro un pericolo insidioso per la navigazione nel Mediterraneo, ma la loro forza non si poteva certo comparare a quella di una Potenza europea. La loro organizzazione, inoltre, era rudimentale e basata sul carisma di alcuni capi che potevano anche non essere islamici. Oltre a Barbarossa, tra i capi della pirateria barbaresca si ricordano infatti Eudji-Alì (nome arabizzato del pescatore calabrese Uccialli, signore di Algeri dal 1560) e l’olandese Simon Simonsen (detto “il Dansa” perché era stato ballerino di danza classica, signore di Algeri dal 1587). Sessione di studio 1 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (V). Il Mediterraneo non era infestato solo dalla pirateria musulmana, dal momento che esisteva anche una pirateria cristiana, praticata in forma istituzionale e abituale da città quali Pisa, Napoli, Palermo, Fiume e Livorno, nonché dalla stessa Malta. Come per i pirati barbareschi, le prede dei pirati cristiani erano costituite dai convogli carichi di sete e di cereali che attraversavano il Mediterraneo. Nella seconda metà del Cinquecento iniziò a svilupparsi anche una forma particolare di pirateria, la cosiddetta “corsa”, uno strumento utilizzato dalle varie potenze europee per danneggiare l’economia degli avversari. Secondo la strategia della “guerra di corsa”, un Governo europeo rilasciava una cosiddetta “lettera di corsa” a un capitano mercantile, a un pirata o a un personaggio abbiente, consentendogli di attaccare il traffico mercantile nemico, trattenendo per sé una parte del bottino. La corsa era una forma di “guerra continua” tra le potenze europee, come la pirateria barbaresca era una forma ininterrotta di ostilità tra la cristianità e il mondo musulmano. Nella pratica la distinzione tra la pirateria e la corsa era labile, come del resto la distinzione tra il commercio marittimo regolare e quello alimentato dai pirati tramite il contrabbando, che spesso dava vita a un circuito commerciale parallelo a quello gestito dagli Stati. Sessione di studio 1 – L’Impero Ottomano nel XVI secolo (VI). Negli anni Settanta del Cinquecento l’espansione ottomana ebbe un nuovo impulso. Nel 1570, infatti, il sultano Selim II (successore di Solimano il Magnifico) conquistò l’isola di Cipro, dominio veneziano, che occupava una posizione strategica nel Mar Egeo. Il papa Pio V colse l’occasione per promuovere la costituzione di una Lega santa che comprese lo Stato della Chiesa, la Spagna e la Repubblica di Venezia. Nonostante fosse stata invitata, la “cattolicissima” Francia non si unì all’alleanza. Il 7 ottobre 1571 le forze navali della Lega, guidate da Giovanni d’Austria (fratello di Filippo II di Spagna), sconfissero la flotta turca dell’ammiraglio Uruk Alì nella battaglia navale di Lepanto, fermando nuovamente la penetrazione ottomana nel Mediterraneo. L’Impero Ottomano si riprese presto dalla sconfitta e stipulò una pace separata con la Repubblica di Venezia. In seguito allo stabilimento di un temporaneo dominio cristiano sul Mediterraneo, anche la pirateria musulmana andò in crisi, lasciando il campo libero alla bande piratesche provenienti dalle città italiane. La vittoria di Lepanto scatenò una nuova ondata dello spirito di crociata, soprattutto in Spagna, dove si acuì la persecuzione contro i moriscos (i discendenti dei musulmani che si erano convertiti al cristianesimo durante la Reconquista), artigiani e contadini, da sempre trattai con diffidenza e accusati di praticare segretamente i loro culti. Nel 1609, con un provvedimento radicale, i moriscos vennero definitivamente espulsi dalla Spagna, con grave danno dell’economia nazionale. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). [Lettera ai famigliari di un uomo siciliano fatto schiavo dai pirati barbareschi.] Carissima matri saluti. La presenti si fa per donarvi aviso come io sto molto male di persona, di roba, di dinari, abandunato di tutti, di matri, di patri, di fratri che non tengo et sugno suno et nato di lapetra chi non spera nixuno si curso altro chi di lui eterno Dio pertanto io non spero con l’aiuto chi di Dio non essiri abandunato di lagratria sua, como io sugno abandunato di tutti vui altri non altro non per quisto vi prego che non vogliati mancari di chercari per via di lemosina con alcuni personi di pieta e di misericirdia volirimi aiutari a levari di quisto inferno ch’io esendo in loco di libertà non manchirò di esseri a vui bono figlio et scavo [cioè schiavo] in perpetua et a tutti li amichi chi mi aiutarano et io sarò bono di sodisfari a tutti quelli chi mi aiutarano a levari de quisto inferno altro non schrivo escetto ch’io resto multo meravigliato di li fatti vostri non avendo altro primo e poi figlo chi ama […]. [segue Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). mercenari spagnoli saccheggiarono Anversa per protestare contro il mancato pagamento del soldo. L’indignazione spinse le province settentrionali e quelle meridionali ad allearsi con l’Unione di Gand (1576). Il nuovo governatore spagnolo, Alessandro Farnese, riuscì ad ottenere di nuovo il controllo di una parte dei territori meridionali con successi militari e attuando una politica di rispetto delle autonomie locali. Nonostante il parziale successo spagnolo, la rivolta dei Paesi Bassi aveva sostanzialmente portato alla nascita di una nuova Nazione europea. Sessione di studio 1 – La Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di Elisabetta I (V). La politica condotta da Alessandro Farnese nei Paesi Bassi portò alla rottura dell’Unione di Gand. Le Province del Nord, infatti, non vollero riconoscere la libertà di culto ai territori cattolici del Sud, i quali nel 1579 si staccarono formando un nuovo organismo, l’Unione di Arras. Le Province del Nord formarono invece l’Unione di Utrecht, da cui poi nacque la Repubblica delle sette Province unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia, Groninga, Gheldria e Overijssel), ormai indipendenti dalla Spagna. La guerra tra la Repubblica e la Spagna continuò per un trentennio sotto la guida di Maurizio d’Orange, figlio di Guglielmo, fino ad una tregua (1609) della durata di dodici anni. Ogni Provincia era amministrata da un’assemblea elettiva (lo Stato provinciale) e aveva a capo un governatore civile e uno militare (pensionario e stadhouder), la Repubblica era governata dagli Stati generali con a capo un gran pensionario e uno stadhouder generale. Mentre imperversava l’ultima fase della rivolta dei Paesi Bassi, la Spagna era impegnata anche nella zona iberica. Nel 1578 il re portoghese Sebastiano di Braganza aveva attaccato il sultanato musulmano del Marocco, ma era stato sconfitto e ucciso nella battaglia di Alcazarquivir. Il candidato più accreditato alla sua successione era suo Filippo II, sostenuto dal clero e dalla nobiltà. Una fazione nobiliare favorevole alla nomina di un re locale e sostenuta da Inghilterra, Francia e Province unite venne repressa dalle truppe spagnole guidate dal duca d’Alba e Filippo II salì al trono di Portogallo nel 1580. Sessione di studio 1 – La Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di Elisabetta I (VI). Accanto alla Spagna, un altro contesto politico europeo ricco di trasformazioni era l’Inghilterra. Nel 1553, dopo il breve regno di Edoardo VI (figlio di Enrico VIII), era salita al trono la sorellastra del re, Maria Tudor (detta la Cattolica), figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona. Carlo V aveva inserito l’Inghilterra nel novero dei suoi alleati combinando il matrimonio tra Maria Tudor e il figlio Filippo II, una mossa che apriva la prospettiva di un’alleanza in grado di dominare sia l’ambito continentale, sia quello marittimo per via della crescente forza della flotta inglese, fortemente voluta da Enrico VIII. Tale prospettiva preoccupava la Francia e per questo motivo il re Enrico II fece sposare il figlio Francesco alla regina di Scozia Maria Stuart, cugina di Maria Tudor. La regina d’Inghilterra procedette alla restaurazione del cattolicesimo e morì senza lasciare eredi nel 1558. Secondo le leggi della successione dinastica, il Regno venne affidato a Elisabetta, sorellastra di Maria Tudor in quanto figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena. Nonostante il fatto che la successione fosse irregolare – dal momento che Elisabetta era figlia di un sovrano scomunicato – Filippo II non la contestò perché l’annullamento dell’investitura avrebbe portato la corona d’Inghilterra a Maria Stuart, il cui marito – essendo l’erede al trono di Francia – avrebbe potuto regnare sulla Francia, la Scozia e l’Inghilterra. Sessione di studio 1 – La Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di Elisabetta I (VII). Gli inizi del Regno di Elisabetta I furono molto difficoltosi. Sapendo di non poter avere figli, la regina non si sposò per non dover dividere il Regno alla sua morte, cercò di evitare il riaccendersi dei contrasti religiosi e orientò il Paese verso l’anglicanesimo. Con la Legge di supremazia ristabilì l’autorità della corona sul clero, tanto anglicano, quanto cattolico; con la Legge di uniformità riconfermò il Book of Common Prayer, voluto da Edoardo VI, come il messale anglicano ufficiale e ostacolò in tutti i modi le frange più radicali delle confessioni religiose minoritarie presenti in Inghilterra (ad esempio i calvinisti, detti “puritani”). Il principale problema politico di Elisabetta era rappresentato dalla cugina Maria Stuart che, dopo la morte del marito Francesco II nel 1560, assunse direttamente la corona di Scozia, allacciando pericolosi rapporti con Filippo II di Spagna e col papa. Travolta da alcune cospirazioni interne alla corte scozzese, nel 1567 Maria Stuart abdicò in favore del figlio Giacomo e riparò in Inghilterra dove Elisabetta la imprigionò. Proseguendo la sua politica di rafforzamento nazionale, Elisabetta incrementò la flotta britannica, sostenne apertamente la guerra di corsa contro la Spagna, accolse protestanti in fuga da tutta Europa e iniziò la colonizzazione della costa atlantica americana ignorando il Trattato di Tordesillas. In seguito allacciò rapporti commerciali con la Russia e iniziò la penetrazione britannica in India attraverso la costituzione della Compagnie delle Indie Orientali (1600). Sessione di studio 1 – La Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di Elisabetta I (VIII). Maria Stuart, rifugiatasi in Inghilterra, era divenuta il centro di alcune cospirazioni cattoliche per portarla al trono al posto di Elisabetta I. La Santa Sede incentivò tali cospirazioni e stimolò una rivolta della cattolica Irlanda, repressa con difficoltà tra il 1579 e il 1581. Il popolo inglese e ampi settori della corte chiedevano la condanna a morte di Maria Stuart e la scoperta di un’ennesima cospirazione portò alla sua esecuzione nel 1587. Il mondo cattolico insorse, capeggiato dalla Spagna, e la guerra divenne inevitabile. Filippo II organizzò un attacco navale all’Inghilterra con una flotta di 130 navi (l’Invincibile Armada) e un grande contingente terrestre al comando di Alessandro Farnese che avrebbe dovuto sbarcare in Inghilterra non appena la flotta avrebbe preso il controllo delle coste. La flotta inglese, inferiore di numero, sconfisse quella spagnola in alcuni scontri presso Plymouth e Wight (1588). La flotta spagnola, sorpresa dalle cattive condizioni meteorologiche, eseguì il periplo della Gran Bretagna e dell’Irlanda e, priva della possibilità di ripararsi sulle coste olandesi (dove operavano i ribelli), si trascinò in patria. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Sebbene l’esiguità degli stipendi [percepiti dai funzionari della monarchia spagnola] fosse il risultato inevitabile delle strettezze in cui versavano le finanze della corona, bisogna dire che furono anche frutto di una politica deliberata. Era convinzione comune, infatti, che un funzionario con stipendio esiguo avrebbe lavorato con maggiore applicazione nella speranza di ricevere, per la sua dedizione al lavoro, ricompense o, come si diceva, mercedes. Tale teoria era ingegnosa, ma i suoi effetti pratici furono disastrosi. Infatti, stretto tra le esigenze di una dispendiosa vita sociale e l’impossibilità di farvi fronte con il suo solo stipendio, il funzionario si vedeva costretto a ricorrere a metodi irregolari per aumentare le proprie entrate e di tali metodi il sistema amministrativo spagnolo ne consentiva parecchi. Le occasioni per praticare la corruzione che si presentavano ai membri dei consigli la dicono lunga non solo sulla natura del sistema amministrativo spagnolo, ma anche sulla società che stava dietro a quel sistema; una società che assomigliava a quella di altri Paesi europei coevi in misura maggiore di quanto si sia spesso pensato. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Avendo una struttura a piramide con il vertice costituito dal sovrano, la società spagnola guardava naturalmente al re come fonte prima di favore e tale favore doveva poi discendere per tutti i ranghi sociali con la consueta pratica del clientelismo. Tuttavia un re che aveva tanti sudditi in tanti territori diversi non era in grado di conferire il proprio favore con conoscenza personale dei favoriti nella misura in cui ciò era possibile in una società di limitate proporzioni come quella dell’Inghilterra elisabettiana. Proprio per questo i consigli assumevano la funzione, di importanza veramente straordinaria, di fare le veci del sovrano. Innumerevoli petizioni venivano rivolte al re da tutti coloro che, per dirlo con la terminologia allora in uso, protestavano di avergli reso certi servizi (servicios) per i quali chiedevano, appunto, le ricompense o mercedes dovute. Questa concezione di servizi e ricompense – sopravvivenza di un’età in cui erano invalsi tra re e sudditi rapporti personali più stretti – non poté fare a meno di tradursi in forma istituzionalizzata nelle mutate condizioni del Cinquecento. Il che avvenne incanalando le petizioni attraverso i consigli, che dovevano vagliarle e trasmetterle con le proprie raccomandazioni al sovrano. Poiché il re agiva di solito così come gli consigliavano di fare i suoi consigli, ecco che i consiglieri acquistarono poteri clientelari enormi e di tali poteri cercarono di avvalersi al massimo. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). Quanti facevano istanza per avere mercedes (e si poteva trattare di un incarico lucroso o onorifico o di una nobilitazione) dovevano prendere certe ovvie precauzioni per assicurarsi che la loro petizione fosse subito esaminata (e, se possibile, esaminata con favore). I consiglieri sotto-pagati non erano certo nelle condizioni di resistere alle eventuali pro-offerte dei postulanti. Forse questa è la migliore illustrazione del tipo di problema che scaturiva dal fatto che un sistema burocratico di tipo moderno era innestato in una società che aveva ancora, sostanzialmente, una mentalità medievale. Infatti, le occasioni di praticare la corruzione erano tanto numerose proprio perché i consigli avevano ereditato il manto della regalità medievale con i connessi obblighi di distribuire favori e di amministrare la cosa pubblica e la giustizia. Di per sé la corruzione, quindi, non rappresentò che un altro lato del problema immenso cui si trovò di fronte la Spagna nel Cinquecento: il problema della costruzione di un sistema burocratico moderno su basi economiche e sociali che si rivelavano sempre più inette a reggerlo. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 8. Filippo II regnò sulla Spagna dal 1556 al 1598, promuovendo una politica interna basata sulla razionalizzazione della pubblica amministrazione (attraverso l’istituzione di Consigli che coadiuvavano il sovrano nella gestione dell’Impero spagnolo), una politica estera basata sulla forza e una politica religiosa basata sulla difesa a oltranza dell’ortodossia cattolica. Nonostante la sua volontà di grandezza, il suo regno fu caratterizzato anche da una forte crisi economica, dovuta all’arrivo dei metalli preziosi americani in Europa e alla debolezza del sistema produttivo spagnolo, che lo obbligò in più occasioni a dichiarare bancarotta. A partire dal 1566 la repressione della rivolta dei Paesi Bassi (a maggioranza calvinista) richiese un ulteriore dispendio di risorse e non riuscì ad impedire la creazione di una nuova Nazione, la Repubblica delle Provincie unite. Al contrario della Spagna, in lento declino, l’Inghilterra di Elisabetta I Tudor (1558-1603) si connotava come un Paese impegnato in un processo di rafforzamento interno e di espansione commerciale. Adottato l’anglicanesimo quale religione di Stato, eliminato il pericolo rappresentato dalle congiure ordite da Maria Stuart (1587) e respinto l’attacco dell’Invincibile Armada spagnola (1588), l’Inghilterra si avviava a divenire una Nazione protagonista delle vicende politiche europee del Seicento. Lezione 9 – Le guerre di religione nella Francia del XVI secolo (I). Uno dei contesti in cui gli scontri confessionali conseguenti alla Riforma luterana ebbero maggiori conseguenze fu la Francia, che alla metà del XVI secolo attraversò un delicato momento politico. Nel 1559, il re Enrico II partecipò ad un torneo per festeggiare la Pace di Cateau-Cambresis – che chiuse definitivamente le Guerre d’Italia che avevano contrapposto il Sacro Romano Impero di Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Oggi più che fare contrapposizioni forzate tra Riforma e Controriforma, cioè tra una Riforma protestante moderna, progressista, evangelica, antiassolutista, antifeudale, favorevole allo sviluppo della borghesia e all’affrancamento delle coscienze, e una Controriforma che sarebbe l’esatta opposizione speculare di tutto questo, si è d’accordo, soprattutto per il periodo del dopo Trento, nel sottolineare le affinità. [...] Dopo Trento la situazione ormai appare bloccata. I diversi fronti non si spostano, salvo che nel cuore dell’Impero per la Guerra dei Trent’anni. Ogni chiesa tende a consolidare le proprie conquiste. Ma cessa la “Riforma”. Più che a riformare si tende a uniformare. E’ il tempo dell’ “assolutismo confessionale”, in cui cattolici, luterani e calvinisti si sono impegnati nello sforzo più grande mai tentato di giungere all’unanimismo religioso, per cui è legittimo parlare di punti di incontro, di affinità, di reale concorrenzialità. Per poterlo conseguire le Chiese hanno puntato su un processo di “confessionalizzazione” che ha comportato: [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). L’imposizione di un certo numero di verità di fede vincolanti, chiare, discriminanti, senza possibilità di incertezza o di interpretazioni personali; Il rafforzamento del potere magistrale; Il disciplinamento dell’uomo inserito in una trama di norme vincolanti, istituzionalizzate e in un ritualismo molto accurato; - Un attento controllo dei comportamenti dei singoli (se l’Inquisizione è cattolica, lo spirito inquisitorio è comune) attraverso organismi a vari livelli utilizzando molto l’arma della paura, delle sanzioni eterne; L’eliminazione delle minoranze concorrenti (in Francia in forza dell’Editto di Nantes questo non è stato possibile fino alla sua revoca, nel 1685) anche attraverso l’accentuazione degli elementi di differenziazione; Un uso dei più efficaci mezzi di propaganda e di educazione, soprattutto dei quadri e delle élites (università, accademie, seminari); L’integrazione delle chiese all’interno dell’organismo statale, favorendone l’assolutismo, l’accentramento, l’unificazione, ottenendone in cambio di appoggio e influenza. Di qui il formarsi di un tessuto a trama molto fitta, in cui si è cercato di avviluppare la società, l’uomo, la vita, l’arte persino il paesaggio. LEZIONE 10 La Guerra dei Trent’anni Lezione 10 – La Guerra dei Trent’anni (I). La Guerra dei Trent’anni ebbe origine dalla confusa situazione politica che si era generata all’interno del Sacro Romano Impero con la Pace di Augusta del 1555. La pace aveva segnato il momento conclusivo delle rivolte dei principi tedeschi contro l’imperatore Carlo V ma, di fronte ad una sostanziale riunificazione politica dell’Impero aveva sancito una divisione religiosa di fatto fra territori cattolici e territori riformati. Nel passaggio tra XVI e XVII secolo, in conformità del principio Cuius regio, eius religio (secondo cui la popolazione di un territorio imperiale avrebbe dovuto adottare la religione scelta come ufficiale dal principe detentore del potere), i principi tedeschi esercitavano appieno la loro potestà sulle materie religiose, esasperando in questo modo la situazione religiosa all’interno dell’Impero. Gli imperatori Ferdinando I e Massimiliano II si astennero dal promuovere una politica interna mirante alla cattolicizzazione dei territori ormai riformati, intuendo la criticità della situazione imperiale, mentre alcuni principi cattolici (come il duca di Baviera) scatenarono guerre contro i principati luterani che confinavano con i loro territori. Le diatribe religiose si inserivano in un contesto di forte crisi economica ed impedivano una risposta efficiente alla cattiva situazione economica, anche perché riguardavano territori fondamentali per l’Impero dal punto di vista economico, come la Boemia e l’Ungheria. Lezione 10 – La Guerra dei Trent’anni (II). La Boemia era uno dei territori più importanti dell’Impero, ma sotto il profilo religioso la sua religione ufficiale non era il cattolicesimo, bensì l’hussitismo (un’eresia cattolica sviluppatasi tra XIV e XV secolo sotto la guida dell’intellettuale Jan Huss, condannato come eretico e bruciato sul rogo al Concilio di Costanza nel 1414). L’Ungheria rappresentava invece il più importante territorio imperiale nell’Europa dell’Est ed era in parte occupata dai Turchi ottomani. L’Ungheria era in massima parte cattolica, ma in essa avevano attecchito anche il luteranesimo e il calvinismo. Nel 1576 salì al trono imperiale Rodolfo II, che manifestò l’intenzione di risolvere la situazione confessionale dell’Impero attraverso l’adozione di una politica di compromesso. Nel 1606 i calvinisti ungheresi ottennero la libertà di culto e tale apertura fu interpretata come l’occasione per ottenere nuove concessioni, se necessario anche ricorrendo alla forza. Il conte del Palatinato, luterano, promosse a questo scopo la costituzione dell’Unione evangelica che riuniva molti principi riformati e che ottenne il sostegno della Francia. Il duca di Baviera, in risposta, nel 1609 formò la Lega cattolica che ricevette il sostegno spagnolo. L’imperatore Rodolfo II, per evitare l’inizio di una guerra intestina e comprendendo la necessità di chiarire la situazione religiosa all’interno dell’Impero, concesse la libertà di culto ai boemi con la Lettera di maestà. Lezione 10 – La Guerra dei Trent’anni (III). Anche se la prospettiva di una crisi sembrava evitata, la situazione politico-religiosa all’interno dell’Impero peggiorò con l’inizio del regno dell’imperatore Mattia (1612-1618), successore di Rodolfo II. Mattia concesse le corone di Boemia e Ungheria a suo cugino Ferdinando di Stiria che abolì la Lettera di maestà boema e promosse la restaurazione del cattolicesimo. Alla morte di Mattia, Ferdinando divenne imperatore con il nome di Ferdinando II. La sua azione sul piano religioso generò un forte malcontento in Boemia: nel 1618 la folla invase il palazzo reale di Praga e defenestrò due rappresentanti imperiali. La nobiltà boema in seguito dichiarò Ferdinando II decaduto dal trono e proclamò re il conte del Palatinato, Federico V. Il nuovo re ottenne l’appoggio dell’Inghilterra, della Danimarca, delle Province unite e della Repubblica di Venezia, mentre contro di lui si schierò la Lega cattolica del duca di Baviera alleata della Spagna. La Francia si mantenne per il momento neutrale. Si apriva un conflitto di portata europea la cui posta in gioco era il predominio cattolico o riformato nell’Impero. In nome della solidarietà confessionale, l’imperatore Ferdinando II venne soccorso da un esercito spagnolo che, unitamente a truppe bavaresi e fiamminghe, nel 1620 sconfisse i rivoltosi boemi nella battaglia della Montagna bianca. Il conte palatino Federico V si diede alla fuga e venne bandito dall’Impero. Sessione di studio 1 – La Guerra dei Trent’anni (IV). Ferdinando II attuò in Boemia una politica di decisa ri-cattolicizzazione che incluse anche la condanna a morte dei nobili implicati nella rivolta e la confisca dei loro beni. Le proprietà terriere confiscate vennero assegnate ai più alti ufficiali dell’esercito imperiale, che istaurarono un regime feudale del tutto estraneo alla tradizione boema e dal quale derivarono molte sollevazioni popolari. Le truppe spagnole che avevano aiutato Ferdinando II e che occupavano la Boemia sobillarono i cattolici boemi al massacro dei protestanti (il cosiddetto “Sacro macello” del 1620). La Spagna non intendeva solo prestare aiuto all’Impero, ma anche conquistare nuovi territori con il pretesto della lotta al luteranesimo. In quest’ottica, la Spagna occupò la Valtellina, dominio dei Signori grigioni (luterani) e si preparò a non rinnovare la tregua negoziata nel 1609 con le Province unite, in modo da riprendere il conflitto. Quando la Spagna occupò la Valtellina, la Francia, la Savoia e la Repubblica di Venezia intervennero e si sviluppò così una guerra che si concluse nel 1626 con il Trattato di Monzon, che sancì il possesso spagnolo della Valtellina. La politica molto dinamica e aggressiva sia del Sacro Romano Impero, sia della Spagna, preoccupò anche la Danimarca, che avrebbe potuto essere inglobata nell’Impero. Il sovrano Cristiano IV intervenne in Boemia nel 1625 – finanziato da Inghilterra, Francia e Province unite – ma venne sconfitto dall’esercito della Lega cattolica e dall’esercito imperiale guidato dal condottiero Albrecht von Wallenstein. Sessione di studio 1 – La Guerra dei Trent’anni (V). Sconfitto dall’esercito della Lega cattolica e dall’esercito imperiale, Cristiano IV di Danimarca firmò la Pace di Lubecca, impegnandosi a tenere la Danimarca fuori dalle vicende tedesche. La sua sconfitta e lo stabilizzarsi delle conquiste spagnole in alta Italia segnarono la conclusione di una prima fase della Guerra dei Trent’anni, una fase che aveva visto trionfare Ferdinando II la cui vittoria, tuttavia sancì le premesse per la ripresa delle ostilità. Nel 1629, infatti, l’imperatore emanò l’Editto di restituzione con cui ordinava ai nobili di tutti i territori imperiali riformati di restituire alla Chiesa cattolica i beni confiscati dopo l’anno 1552. Questo provvedimento scontentò anche i principi cattolici (che talvolta avevano approfittato della confusione generata dalla Riforma per impossessarsi dei beni ecclesiastici), preoccupati ancora di più dalla manifesta volontà di Ferdinando II di rendere ereditaria per gli Asburgo la corona imperiale. Ferdinando II, in effetti, era insofferente nei confronti del meccanismo elettivo che governava l’attribuzione della dignità imperiale e aveva già tentato di manometterlo nel 1623, quando assegnò il titolo di principe elettore al duca di Baviera, sottraendolo al conte palatino divenuto ribelle. Tale atto contraddiceva la Bolla d’oro del 1356, che stabiliva il sistema elettivo, e rafforzò nei principi l’idea che l’imperatore volesse istituire un sistema assolutistico appoggiandosi all’agguerrito esercito guidato da von Wallenstein, che voleva divenire un principe dell’Impero. Sessione di studio 1 – La Guerra dei Trent’anni (VI). L’esercito di von Wallenstein, numeroso e ben organizzato, rappresentava anche un potente strumento di politica internazionale. La prospettiva che Ferdinando II volesse espandere l’Impero nel Nord Europa, sottraendo il controllo dei ricchi traffici commerciali del Baltico alle potenze nordiche, preoccupò il re svedese Gustavo Adolfo che nel 1631 firmò con la Francia il Trattato di Barwald, con il quale la Francia si impegnava a finanziare una sua campagna militare lampo contro l’Impero. La Francia poteva assumere un ruolo di antagonista nei confronti dell’Impero anche perché lavorava segretamente con la sua diplomazia per ottenere il distacco dall’Impero – o almeno la neutralità – di alcuni territori. Con il Trattato di Barwald la Francia ottenne la promessa di neutralità da parte del duca di Sassonia e del marchese del Brandeburgo-Prussia, entrambi luterani. L’entrata nella Guerra dei Trent’anni della Svezia rappresentò una sgradevole sorpresa per l’Impero. Gustavo Adolfo sconfisse l’esercito della Lega cattolica nella battaglia di Breitenfeld (1631), poi penetrò nel territorio imperiale fino a raggiungere l’Alsazia e la Baviera. L’esercito svedese divenne il flagello d’Europa, ma le scarse risorse umane della Svezia le impedivano la conduzione di una campagna su vasta scala e le continue battaglie decimarono velocemente un esercito professionale, ma tutto sommato di piccole dimensioni. (1555) e dall’altro lato all’azione di ri-cattolicizzazione promossa da alcuni imperatori in territori quali la Boemia e l’Ungheria. La guerra, che acquisì ben presto un respiro europeo, può essere divisa in tre fasi. La prima fase incluse gli avvenimenti compresi tra il 1618-20 (defenestrazione di Praga e battaglia della Montagna bianca) e il 1625 (Pace di Lubecca) e si connotò come una fase di ostilità interna all’Impero. La seconda fase, invece, incluse gli avvenimenti compresi tra il 1629 (emanazione dell’Editto di restituzione) e il 1635 (Pace di Praga) e vide l’entrata in guerra di Nazioni solitamente estranee alla grande politica europea, come la Danimarca e la Svezia. La terza fase, infine, incluse gli avvenimenti compresi tra il 1634 (entrata in guerra della Francia) e il 1648 (Pace di Westfalia), rese evidente la decadenza spagnola e fece emergere la Francia quale nuova potenza continentale europea. Al di là dei poco significativi mutamenti territoriali da essa introdotti, la Pace di Westfalia riconfermò la divisione confessionale del Sacro Romano Impero e quindi inflisse un colpo mortale alla solidità della compagine imperiale. Lezione 11 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (I). La regina Elisabetta I Tudor (1558-1603) aveva deciso di non sposarsi per non mettere in crisi alla sua morte l’unitarietà del Regno e non aveva avuto eredi, di conseguenza nel 1603 si aprì un problema dinastico che venne risolto affidando la corona inglese a Giacomo Stuart. Egli era imparentato con la regina (essendo figlio di Maria Stuart, cugina di Elisabetta I) e aveva ereditato dalla madre la corona di Scozia, quindi alla sua salita al trono inglese come Giacomo I (1603-25) procedette all’unione di fatto tra l’Inghilterra e la Scozia, unendo nella sua persona le due corone. Giacomo I desiderava attuare una politica basata sull’accentramento del potere nelle mani del sovrano, sull’esautorazione del Parlamento e sul predominio confessionale della Chiesa anglicana all’interno del Regno. La visione religiosa di Giacomo I indispettì sia i cattolici inglesi (che avevano sperato di trovare in lui un sovrano sensibile alle loro esigenze), sia i puritani (soggetti a persecuzioni) e da ciò derivò uno stato di tensione che sfociò nella cosiddetta “congiura delle polveri” del 1605, in occasione della quale un gruppo di nobili cattolici si organizzò per far esplodere la sede del Parlamento inglese mentre il sovrano era in visita. La congiura fallì, ma mise in luce il generale malcontento nei confronti della politica di Giacomo I, che entrò anche più volte in contrasto con il Parlamento, di cui intendeva diminuire le competenze. Lezione 11 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (II). Alla morte di Giacomo I gli successe Carlo I (1625-49) che volle continuare la politica del suo predecessore accentuando ancora di più il malcontento della nobiltà e del Parlamento. Carlo I manifestò addirittura l’intenzione di governare senza l’ausilio del Parlamento, decisione che rompeva la tradizione della diarchia sovrano-Parlamento inaugurata nel XIII secolo con la Magna charta (1215). Il progetto di Carlo I era accentrare il potere legislativo ed esecutivo nelle proprie mani, convocando il Parlamento solo quando fosse strettamente indispensabile, ad esempio per l’approvazione di nuove tasse. Il sovrano sciolse il Parlamento nel 1625 e nel 1626, poi nel 1629 lo ri-convocò per fargli approvare il finanziamento di una progettata spedizione di aiuto agli ugonotti francesi in rivolta. Il Parlamento si espresse nei confronti del sovrano con una Petition of rights che condannava l’introduzione di nuove tasse e il nuovo regime politico. Di fronte alla dichiarazione, Carlo I sciolse nuovamente il Parlamento e rafforzò ulteriormente il suo controllo sulla società e la politica britannica istituendo due tribunali specifici: la Camera stellata (per i reati politici) e la Corte di alta commissione (per la dissidenza religiosa). Nonostante l’opposizione parlamentare, Carlo I decise inoltre di estendere a tutte le città del Regno la Ship money, ovvero il tributo versato dai centri portuali per il mantenimento della flotta, e impose una aumento dei dazi doganali. Lezione 11 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (III). Sotto il profilo della politica religiosa, il rafforzamento della Chiesa anglicana all’interno del Regno perseguito da Carlo I incontrò il favore delle alte gerarchie ecclesiastiche. L’arcivescovo di Canterbury, William Laud, si pronunciò contro i puritani (calvinisti radicali inglesi) e incoraggiò il sovrano alla loro aperta persecuzione. Nel 1639 l’arcivescovo si ingerì nelle questioni della Chiesa presbiteriana scozzese (una branca del calvinismo radicatasi in Scozia fin dal 1560); il clero e la nobiltà locali reagirono unendosi nel Covenant, un patto di alleanza per la difesa della libertà politica e religiosa scozzese, e si ribellarono contro il sovrano. La ribellione divenne presto una lotta armata e l’esercito scozzese occupò alcune città nel Nord dell’Inghilterra. Nel 1640 Carlo I convocò il Parlamento perché approvasse nuove tasse con le quali finanziare una spedizione militare in Scozia: l’assemblea solidarizzò con i ribelli e impose a Carlo I di limitare i suoi campi d’azione in quanto sovrano. Il re sciolse il Parlamento e lo riconvocò nello stesso anno per un breve periodo (da qui la definizione Short Parliament), lo sciolse di nuovo e in seguito lo riconvocò fino al 1653 (cosiddetto Long Parliament). Il Parlamento dimostrò di non voler collaborare con il sovrano e richiese la condanna a morte di molti suoi collaboratori. Stretto dalle necessità imposte dalla rivolta scozzese, Carlo I cedette e il Parlamento abolì i tribunali speciali, abrogò molte tasse e sospese la persecuzione religiosa. Lezione 11 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (IV). In un clima politico già instabile, alla rivolta scozzese si aggiunse nel 1641 una rivolta irlandese che ebbe degli strascichi anche in Inghilterra, dove si verificarono attentati cattolici a personalità e luoghi anglicani. Carlo I venne accusato dal Parlamento di aver fomentato la rivolta per destabilizzare l’assemblea. Il Parlamento proclamò allora la “Grande rimostranza” ed annunciò che il reclutamento delle forze armate spettava solo all’assemblea, impedendo a Carlo I di agire in modo autocratico contro i ribelli scozzesi e irlandesi. Il re tentò il colpo di Stato occupando militarmente il Parlamento (1642), ma i capi parlamentari riuscirono a fuggire da Londra e il popolo diede vita a manifestazioni che obbligarono Carlo I alla fuga nel Nord dell’Inghilterra. Si delineò una situazione di guerra civile dove da un lato erano schierati i Cavalieri (ovvero gli aristocratici e gli alto- borghesi, proprietari terrieri e anglicani) e dall’altro le Teste rotonde (i borghesi e i commercianti sostenitori del Parlamento, puritani e calvinisti) che controllavano tutto il Sud dell’Inghilterra. Tra il 1642 e il 1643 la guerra si trascinò con alterne vicende. Dopo la morte dei leader parlamentari Hampden e Pym, la guida delle Teste rotonde venne assunta da Oliver Cromwell (proprietario terriero puritano, già comandante di un’unità di cavalleria, gli Ironsides) che organizzò l’esercito parlamentare in una nuova forma, il New Model Army, ottenendo le vittorie di Marston Moor (1644) e Naseby (1645). Sessione di studio 1 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (V). Dopo la battaglia di Naseby, Carlo I si arrese ai ribelli scozzesi e venne da loro consegnato alle truppe parlamentari (1647). Ottenuta la vittoria, il Parlamento procedette ad un’epurazione della Chiesa anglicana, ma al suo interno cominciarono ad evidenziarsi delle divisioni su temi politici (tra i Levellers, che volevano la proclamazione della repubblica parlamentare, e i più radicali Diggers, che volevano l’abolizione della proprietà privata) e religiosi (tra coloro che volevano dichiarare il calvinismo religione di Stato e coloro che si pronunciavano a favore della libertà di culto). Non mancavano anche gruppi politico-religiosi dall’impostazione anarchica, come i Quaccheri, contrari ad ogni forma di organizzazione e di autorità religiosa. Carlo I approfittò della situazione di confusione e nel 1647 fuggì in Scozia, riuscendo ad ottenere l’appoggio dei ribelli. Nel 1648 gli scozzesi invasero l’Inghilterra del Nord e focolai realisti si accesero in tutta la Nazione. Cromwell e il New Model Army sconfissero gli scozzesi e le truppe realiste, occuparono Londra ed epurarono il Parlamento dagli elementi favorevoli ai ribelli scozzesi. L’assemblea epurata venne detta Rump Parliament. Nel gennaio 1649 Carlo I venne processato e condannato a morte, il Parlamento venne ulteriormente ridotto eliminando al Camera dei Lord e venne proclamata la Repubblica (il Commonwealth). Nonostante la presenza del Parlamento, Cromwell esercitava di fatto un potere pressoché assoluto. Sessione di studio 1 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (VI). Cromwell mise a tacere le fazioni dei Levellers e dei Diggers, schiacciò la rivolta irlandese e pacificò la Scozia, poi si dedicò alla politica estera e nel 1651 emanò l’Atto di navigazione, secondo cui i collegamenti commerciali con l’Inghilterra erano riservati a navi inglesi e il commercio con le colonie inglesi era monopolio della madrepatria. Non tutte le frange del Parlamento si rivelarono d’accordo sui contenuti dell’Atto e per questo motivo Cromwell epurò ancora l’assemblea, che venne chiamata Barebone Parliament (“Parlamento scheletro”). Dal momento che il Parlamento si rifiutava comunque di supportare Cromwell nella sua politica, l’assemblea venne sciolta del 1653 e Cromwell assunse il titolo di “Lord protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda”, potenziando ulteriormente il suo potere. L’Atto di navigazione era stato pensato da Cromwell per danneggiare le Province unite e infatti generò le condizioni per una breve guerra (1652-54) che si concluse con la vittoria inglese. Per migliorare la posizione commerciale dell’Inghilterra Cromwell stipulò accordi con la Svezia, la Danimarca e il Portogallo e incentivò la guerra di corsa contro i pirati barbareschi, che ancora imperversavano nel Mediterraneo. Dopo il 1654 Cromwell riconvocò il Parlamento indicendo libere elezioni, ma l’assemblea si rifiutò nuovamente di collaborare con lui, dal momento che il suo governo era diventato simile a una dittatura militare basata sulla paura. Sessione di studio 1 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (VII). Percependo l’opposizione parlamentare, Cromwell cercò di trasformare il suo potere in senso dinastico e infatti alla sua morte, nel 1658, il titolo di “Lord protettore” venne assunto dal figlio Richard. Nel 1660 Richard Cromwell riconvocò il Long Parliament, ma dovette presto lasciare il suo potere a causa dei conflitti scoppiati tra i fautori della Repubblica, i realisti e l’esercito. I realisti intravidero la possibilità di restaurare la monarchia e si aprì un’altra stagione di guerra civile; nel maggio 1660 le forze realiste del generale Monk occuparono Londra e – con l’appoggio del Parlamento – dichiararono abbattuta la Repubblica, affidando la corona al figlio di Carlo I, Carlo II Stuart (1660-85). Il nuovo sovrano ripristinò l’anglicanesimo come religione di Stato e riprese la persecuzione dei puritani; il suo avvento al potere non segnò tuttavia un ritorno all’assetto politico sociale dei tempi di Carlo I, dal momento che l’autorità del Parlamento appariva ormai indiscutibile e una monarchia assoluta di modello francese o spagnolo completamente inattuabile. Carlo II iniziò il suo regno con un gesto di riconciliazione (emanò infatti l’Editto di indennità e perdono, con il quale erano cancellati tutti i delitti commessi contro la monarchia nel periodo della Repubblica), ma appariva tentato dalla prospettiva di acquisire un potere assoluto; non stupisce quindi che il suo modello politico fosse rappresentato da Luigi XIV e che durante il suo regno Gran Bretagna e Francia si alleassero contro le Province unite. Sessione di studio 1 – L’Inghilterra da Giacomo I Stuart alla Gloriosa Rivoluzione (VIII). Per quanto la politica interna di Carlo II fosse ben considerata dal Parlamento (nel 1673 emanazione del Test Act che escludeva i non-anglicani dalle cariche pubbliche e nel 1679 riconferma dell’Habeas corpus, ovvero la tutela dagli arresti arbitrari), l’assemblea non vedeva positivamente le tendenze assolutistiche del sovrano ed era preoccupata dalla questione della successione, dal momento che il sovrano non aveva figli e che suo fratello Giacomo era di religione cattolica. Sul complessivamente, vennero definite “fronde”. In realtà nel fenomeno possono essere distinti due diversi momenti: la cosiddetta “fronda parlamentare” (1648-49) e la cosiddetta “fronda dei principi” (1650-53). Il nucleo della fronda parlamentare fu il Parlamento di Parigi, a cui Mazzarino sottopose una proposta per potenziare il gettito fiscale francese affidando l’esazione delle tasse direttamente agli intendenti. Anche se si trattava di una proposta razionale, avrebbe in parte esautorato i Parlamenti – che in ogni “Territorio” o “Paese” della Francia dovevano fungere da supreme corti giudiziarie e da vertici della pubblica amministrazione – e si sarebbe rivelata impopolare. Di fronte alla prospettiva di essere privato del suo potere e alla decisione di Mazzarino di procedere alla vendita di alcuni uffici pubblici per ottenere denaro, il Parlamento di Parigi dichiarò la rivolta. Lezione 12 – La Francia di Luigi XIV (II). Il Parlamento di Parigi impose la soppressione degli intendenti regi e reclamò il diritto di gestire pienamente le finanze francesi. Per domare la sollevazione, Mazzarino ordinò l’arresto dei principali esponenti del Parlamento di Parigi, che indusse il popolo a prendere le armi e ottenne l’occupazione di Parigi. Nel frattempo il programma politico del Parlamento parigino veniva accettato da altre assemblee. Mazzarino dovette accettare le richieste degli insorti e nel 1649 abbandonò Parigi con la corte. Di fronte al suo cedimento, la rivolta parlamentare si disgregò, anche perché il suo programma non riuscì a coinvolgere totalmente il popolo, essendo rivolto alla tutela dei privilegi della nobiltà di toga e dell’alta borghesia. Nel 1650 iniziò la fronda dei principi guidata dal principe di Condé, che si era illustrato durante la Guerra dei Trent’anni e che aveva guidato le truppe regie contro i Parlamenti ribelli. La rivolta dei principi non era basata su un progetto politico preciso, ma solo sulla volontà di esautorare Mazzarino. I Parlamenti si schierarono contro i principi, che tuttavia ottennero successi militari tali da indurre Mazzarino alla fuga dalla Francia. Nel 1652 Condé fu sconfitto presso Parigi dalle truppe regie e il fronte aristocratico si disgregò. La rinnovata calma e la fine della Guerra dei Trent’anni consentirono a Mazzarino di riprendere la sua politica internazionale basata sull’alleanza con la Repubblica inglese contro la Spagna. Lezione 12 – La Francia di Luigi XIV (III). Nel 1658 l’esercito anglo-francese sconfisse quello spagnolo a Dunkerque e nel 1659 venne stipulata la Pace dei Pirenei, con la quale la Francia ottenne alcuni territori al confine con la Spagna e l’Inghilterra la Giamaica, che divenne una sua nuova colonia. La pace venne suggellata dal matrimonio tra Maria Teresa (figlia del re di Spagna Filippo IV ed erede al trono) e Luigi XIV ancora adolescente. La Francia si impegnò a non rivendicare i diritti di Maria Teresa sulla corona spagnola in cambio del pagamento di un importante dote, che tuttavia venne versata solo in parte, consentendo a Luigi XIV di avere un pretesto da cui sviluppare la sua politica estera. Nel 1661 Mazzarino morì e Luigi XIV si auto-dichiarò maggiorenne annunciando che avrebbe governato senza un primo ministro e appoggiandosi sporadicamente a dei consiglieri. Il Regno di Luigi XIV (1661- 1715) non fu né di pace né di benessere, ma fu caratterizzato dall’apice dell’autorità monarchica, al punto che il re di Francia venne unanimemente considerato dagli osservatori politici coevi come il modello del sovrano assoluto. Nella sua gestione del potere, Luigi XIV era coadiuvato da un Consiglio ristretto o supremo formato dai ministri degli esteri e della guerra e dal Controllore generale delle finanze (dal 1665 Jean-Baptiste Colbert, poi anche ministro della Marina). Nell’amministrazione del territorio, Luigi XIV incrementò il potere degli intendenti, mentre limitò quello dei Parlamenti e dei governatori (nobili di spada). Lezione 12 – La Francia di Luigi XIV (IV). La volontà accentratrice del sovrano era evidenziata anche dalla decisione di costruire una nuova residenza reale a Versailles, che avrebbe dovuto rappresentare sia un centro di potere lontano da eventuali sommosse del popolo di Parigi, sia un luogo di raccolta della grande nobiltà, invitata a lasciare i propri territori per trasferirsi a corte e in questo modo privata della possibilità di esercitare un potere diretto sulle proprie terre. Nonostante un’ampia politica di mecenatismo (tra i cui esiti si possono menzionare la creazione dell’Accademia delle scienze e la protezione regia a letterati quali Molière, Racine e Bossuet), la Francia di Luigi XIV rappresentava un contesto piuttosto chiuso, come evidenziato dalle lotte che opposero la corona ai giansenisti. I giansenisti (seguaci del teologo olandese Cornelius Jansen, che sosteneva una lettura radicale delle teorie di Sant’Agostino in merito alla predestinazione alla salvezza e alla grazia divina) avevano una loro roccaforte nell’abbazia di Port Royal e criticavano apertamente l’assolutismo regio e il sostegno dei gesuiti francesi alla politica del sovrano. Sul piano religioso, Luigi XIV intendeva ingerirsi nelle questioni della Chiesa francese. Interpretando in modo estensivo le “libertà gallicane” (la sostanziale autonomia del clero francese dall’autorità papale), nel 1682 il sovrano indusse l’arcivescovo Bossuet – suo principale collaboratore in materia religiosa – a produrre una dichiarazione in cui l’autorità e l’infallibilità papali erano contestate. Sessione di studio 1 – La Francia di Luigi XIV (V). La dichiarazione stesa da Bossuet nel 1682 avrebbe potuto mettere in discussione il carattere “cristianissimo” della Francia e privare Luigi XIV del sostegno papale, per questo motivo il sovrano decise di illustrarsi agli occhi del pontefice riportando il Paese alla fede cattolica. Iniziò dunque un nuovo momento di persecuzione degli ugonotti, che nel 1685 vennero colpiti dall’Editto di Fontainebleau che revocava l’Editto di Nantes del 1598. I pastori protestanti vennero espulsi dalla Francia e i loro fedeli fuggirono nelle Nazioni vicine anche se ostacolate dalle truppe regie. Questa manovra privò la Francia di molte personalità abbienti (imprenditori, grandi commercianti) e di manodopera specializzata, ma scioccò a tal punto la popolazione da non essere seguita da alcuna reazione armata fino al 1702-4, quando si ebbe una rivolta nel Mezzogiorno dovuta tuttavia più a motivi fiscali che non a motivi religiosi. Nel 1709, per completare la propria opera in ambito religioso, Luigi XIV soppresse l’abbazia di Port Royal, decretando la fine del giansenismo francese. I più importanti campi in cui Luigi XIV esercitò la sua autorità furono tuttavia rappresentati dall’ambito economico e da quello militare. Sotto il profilo economico, Colbert impose il controllo regio alle manifatture d’eccellenza e alle grandi compagnie commerciali e impostò una politica economica fondata sulla convinzione che la ricchezza della Nazione derivasse dalla quantità di metallo prezioso presente nel Paese sia a livello di risorse naturali, sia a livello di denaro circolante. Sessione di studio 1 – La Francia di Luigi XIV (VI). Per evitare che i metalli preziosi uscissero dai confini nazionali, Colbert impose una politica protezionistica mirante a favorire le esportazioni e a penalizzare le importazioni (“colbertismo”). La politica di Colbert fu da ultimo fallimentare perché provocò la protesta del ceto mercantile e degli imprenditori, che vedevano pesantemente limitata la loro capacità d’azione. Sotto il profilo militare, il regno di Luigi XIV vide un ampliamento dell’esercito, un miglioramento dell’armamento e dell’addestramento e la comparsa di personalità di rilievo quali i marchesi di Louvois e Vauban. Il rafforzamento dell’esercito era orientato alla ripresa dell’espansione nei confronti della Spagna e del Sacro Romano Impero. Nel 1665 era salito al trono spagnolo Carlo II, figlio di secondo letto di Filippo IV. L’unica sopravvissuta dei figli di primo letto era Maria Teresa, moglie di Luigi XIV, che al momento del matrimonio aveva rinunciato a rivendicare i diritti dinastici della moglie in cambio di una sostanziosa eredità. Dal momento che l’eredità non era stata del tutto versata, Luigi XIV si sentì svincolato dai patti e rivendicò la corona spagnola in base a una norma consuetudinaria ereditaria in vigore nel Brabante secondo cui l’eredità doveva essere devoluta interamente ai figli di primo letto. Con questo pretesto nel 1667 la Francia iniziò la Guerra di devoluzione, il cui obiettivo era occupare i Paesi Bassi spagnoli. La Pace di Aquisgrana (1668) sancì la vittoria francese. Sessione di studio 1 – La Francia di Luigi XIV (VII). Dopo aver ottenuto il controllo dei Paesi Bassi spagnoli, Luigi XIV iniziò una guerra contro la vicina Repubblica delle Province unite che si trascinò dal 1672 al 1678. La Repubblica era appena uscita vittoriosa da una guerra contro l’Inghilterra grazie alle capacità del gran pensionario Johan de Witt, ostile agli Orange; la Francia cercò dunque l’appoggio dell’Inghilterra e ottenne alcuni successi, pur subendo rovesci sul mare. Le vittorie indussero un risveglio patriottico nelle Province unite che sfociò in una rivolta contro de Witt e nella nomina a stadhouder di Guglielmo III d’Orange che seppe costruire un’alleanza anti-francese composta da alcuni Stati tedeschi, dalla Spagna e dall’Inghilterra, che nel frattempo si era svincolata dal legame con la Francia. Nel 1678 si giunse alla Pace di Nimega che lasciava inalterato l’assetto delle Province unite. Nonostante la sconfitta, Luigi XIV proseguì la sua politica aggressiva annettendo alcuni territori di confine quali l’Alsazia e la Lorena, suscitando così una breve riapertura delle ostilità con la Spagna nel 1683. Il carattere aggressivo della politica estera francese preoccupava tuttavia tutte le principali potenze europee e per questo motivo, nel 1686, si costituì la Lega di Augusta, che includeva la Spagna, il Sacro Romano Impero, la Repubblica delle Province unite e la Svezia. Nonostante la minaccia rappresentata dalla Lega, nel 1688 Luigi XIV riprese l’espansione verso l’Olanda e la Germania. Sessione di studio 1 – La Francia di Luigi XIV (VIII). Ne derivò la Guerra della Lega d’Augusta (o della Grande alleanza, dopo che alle potenze della Lega si aggiunse anche l’Inghilterra) che si protrasse fino al 1697, quando la Pace di Rijswijk sancì la restituzione alle legittime potenze proprietarie di molti dei territori occupati dalla Francia. Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo Luigi XIV abbandonò il proposito di espandersi verso l’Olanda e la Germania per concentrarsi sulle problematiche relative alla successione spagnola. Dal momento che il re di Spagna Carlo II non aveva eredi, nel 1698 la Repubblica delle Province unite, l’Inghilterra e la Francia – prevedendone la morte – si accordarono per dividere l’Impero spagnolo tra gli eredi delle due sorrellastre del re: Maria Teresa (che, come già detto, aveva sposato Luigi XIV) e Margherita Teresa (che aveva sposato l’imperatore Leopoldo I). Nel 1700 Carlo II morì dopo aver designato alla sua successione Filippo d’Angiò, figlio del delfino di Francia (quindi nipote di Luigi XIV), a condizione che la corona francese e quella spagnola restassero separate. Filippo d’Angiò si insediò sul trono spagnolo con il nome di Filippo V e Luigi XIV iniziò ad occupare dei territori spagnoli nei Paesi Bassi e in Italia. L’avversario più importante di Luigi XIV era l’imperatore Leopoldo I, che aspirava al trono spagnolo per il figlio cadetto Carlo d’Asburgo. Nel 1701 il Sacro Romano Impero prese l’iniziativa attaccando i possedimenti francesi in Italia, mentre la Baviera si alleò con la Francia e la Spagna, generando le premesse per un conflitto di vaste dimensioni. Sessione di studio 1 – La Francia di Luigi XIV (IX). Nel 1702 si costituì una vasta alleanza anti-francese composta dall’Impero, dalla Repubblica delle Province unite, dall’Inghilterra, dalla Prussia, dal Portogallo, dalla Svezia e dalla Savoia; contro di essa Luigi XIV poteva contare solo sull’appoggio spagnolo e bavarese. La Guerra di successione del Brandeburgo si estendeva il territorio della Prussia, che non era di proprietà del Sacro Romano Impero, ma possesso dell’ordine monastico-cavalleresco dei Cavalieri teutonici. Nel XIII secolo i Cavalieri teutonici avevano bandito vere e proprie crociate per espandere il cattolicesimo romano nella Germania del Nord e nei territori delle attuali Repubbliche baltiche, ma il loro potere si era indebolito a causa delle sconfitte subite contro i popoli slavi guidati dal condottiero Aleksandr Nevskij (1220-63), sovrano del Principato di Moscovia, ovvero la Russia. La battaglia del lago Peipus (1242) segnò il trionfo dei russi e il declino irreversibile dei Cavalieri teutonici i cui possedimenti entrarono lentamente nell’orbita del Sacro Romano Impero. Nel 1525, in piena Riforma, l’ultimo gran maestro dei Cavalieri teutonici (Alberto di Hohenzollern, parente del marchese del Brandeburgo) sciolse l’ordine, si convertì al luteranesimo e trasformò la Prussia in un ducato laico che in seguito fece confluire nel Marchesato del Brandeburgo, il quale da allora assunse la denominazione di Brandeburgo-Prussia. Lezione 13 – Prussia, Russia e Impero Ottomano tra il XVII e il XVIII secolo (III). La figura che più contribuì a rendere il Brandeburgo-Prussia uno Stato moderno fu Federico Guglielmo il Grande elettore (1640-88), durante il cui marchesato il Brandeburgo-Prussia fu coinvolto nella Guerra dei Trent’anni, mantenendo un atteggiamento ambiguo. Con la Pace di Westfalia (1648) il Brandeburgo-Prussia ottenne la Pomerania, una regione a Est della Germania quasi al confine con il Regno di Polonia, il cui possesso apriva grandi prospettive di conquista. Federico Guglielmo si adoperò per rafforzare il Marchesato: istituì un esercito permanente e professionale, organizzò il fisco con criteri moderni e proclamò la libertà di culto, accogliendo molti profughi ugonotti in fuga dalla Francia di Luigi XIV. Nel 1656 il marchese ottenne anche dall’imperatore il titolo di re “in” Prussia: nei suoi domini avrebbe potuto agire con una potestà regale, ma rimaneva sempre un feudatario del Sacro Romano Impero. Per far guadagnare al suo marchesato una visibilità internazionale, Federico Guglielmo inserì il Brandeburgo-Prussia nelle questioni commerciali che opponevano la Svezia, la Danimarca e la Polonia alla metà del XVII secolo. Nel 1654 tra queste Nazioni scoppiò la Prima guerra del Nord, caratterizzata da una serie di successi svedesi che portarono alla Pace di Oliva e Copenaghen (1660). Il Brandeburgo-Prussia appoggiò la Svezia che, alla fine delle ostilità, ottenne il controllo pressoché totale sul Baltico. Sessione di studio 1 – Prussia, Russia e Impero Ottomano tra il XVII e il XVIII secolo (IV). La conclusione vittoriosa della Prima guerra del Nord consentì alla Svezia di acquisire il controllo pressoché totale del Baltico, ricavandone un sostanziale benessere economico che il re Carlo XI – il cui modello politico era Luigi XIV di Francia – destinò al rafforzamento dell’esercito in previsione di riprendere le ostilità contro la Danimarca e la Polonia, oltre che di fronteggiare una nuova minaccia che si delineava all’orizzonte: la Russia. La Russia rappresentava la seconda potenza dell’Europa orientale dopo il Regno di Polonia-Sassonia. Il suo processo di unificazione, come già detto, era cominciato nel XIII secolo, quando i popoli slavi erano stati riuniti sotto un’unica corona dal condottiero Aleksandr Nevskij (1220-63) che aveva istituito il Principato di Moscovia o – più brevemente – la Russia, dal termine slavo Rus’ che significava “dominio”. La Russia si connotava come un grande Stato feudale in cui il potere era amministrato dal principe di Moscovia (che aveva assunto il titolo di zar, termine derivato dallo slavo czar, corruzione del latino caesar, l’appellativo degli imperatori romani e bizantini) che si appoggiava ad una classe di nobili proprietari terrieri (i boiari). Lo zar Ivan il Terribile (1547-84) rafforzò l’autorità del sovrano ed entrò in contrasto con i potenti boiari. Alla sua morte seguì un periodo di anarchia che si concluse solo nel 1613 con la salita al potere di un grande proprietario terriero, Michele Romanov (1613-45). Sessione di studio 1 – Prussia, Russia e Impero Ottomano tra il XVII e il XVIII secolo (V). Alla morte di Michele Romanov salì al trono il figlio Alessio il cui regno fu caratterizzato da pochi avvenimenti di rilievo (emanazione del Codice del 1649 che divideva la società russa in ceti e rivolte dei contadini per migliorare la propria condizione di servi della gleba). Nel 1670 la Russia fu scossa dalla rivolta cosacca guidata da Stenka Razin, che mirava a liberare il suo popolo dal dominio degli zar, domata con fatica nel 1671. Nello stesso periodo si assistette a uno scisma religioso interno alla Chiesa ortodossa russa (sorella della Chiesa ortodossa di Costantinopoli, ma autocefala dal 1583) scatenato da una riforma del culto. La rivolta cosacca e lo scisma, uniti alla debolezza degli zar successori di Michele Romanov misero a rischio la stabilità della Russia. La situazione migliorò solo con la salita al trono di Pietro I il Grande (1682-1725). Egli salì al trono assieme al fratello Ivan e sotto la reggenza della sorella Sofia. Nel 1689 li esautorò entrambi e nel 1697 compì un viaggio di formazione nell’Europa occidentale durante il quale, sotto mentite spoglie, poté imparare nei cantieri navali olandesi le tecniche necessarie per la costruzione dei grandi bastimenti mercantili e militari di cui la Russia abbisognava per affacciarsi sul Baltico e sul Mar Nero. Nel 1698 tornò in patria per sedare una rivolta dell’esercito e inaugurò un governo assoluto su modello francese. Sessione di studio 1 – Prussia, Russia e Impero Ottomano tra il XVII e il XVIII secolo (VI). La conquista dell’egemonia sul Baltico da parte svedese alla fine della Prima guerra del Nord spinse la Danimarca, la Polonia e la Russia a riprendere le ostilità, dando inizio alla Seconda guerra del Nord (1700-21). All’inizio della guerra la Svezia del re Carlo XII invase una parte di territorio russo e sconfisse l’esercito di Pietro il Grande nella battaglia di Narva (1700). Lo zar riorganizzò l’esercito e procedette alla fondazione di una Marina da guerra, oltre alla creazione della città di Pietroburgo (1703), ottimamente situata per contestare alla Svezia il dominio sul Baltico. Nel 1709 Pietro il Grande sconfisse Carlo XII a Poltava, ma il sovrano svedese fuggì attraverso il territorio russo fino a raggiungere i confini con l’Impero Ottomano. Il progetto del re era ottenere l’appoggio ottomano per scacciare la Russia dalla Crimea, ma l’alleanza non si concretizzò. La strategia navale di Pietro il Grande diede i suoi frutti e la flotta svedese venne sconfitta nel 1714, Carlo XII morì nel 1718 e la Svezia negoziò la pace. Con la Pace di Stoccolma (1719-20) e con la Pace di Nystad (1721) la Svezia perse il predominio sul Baltico, che passò nelle mani della Russia, della Danimarca e della Polonia, tra le quali però sorsero presto dei conflitti per il controllo di un’area economicamente ancora molto importante nonostante la diffusione del commercio oceanico. Sessione di studio 1 – Prussia, Russia e Impero Ottomano tra il XVII e il XVIII secolo (VII). Tra il XVII e il XVIII secolo anche l’Impero Ottomano, al pari della Russia, entrò in una fase di profonde trasformazioni. In questo periodo si registrò un indebolimento del potere centrale del sultano, a cui si contrappose una forte vitalità economica, accompagnata anche dalla pirateria. L’Impero Ottomano si trovava a gestire un complesso enorme e diversificato di territori e avvertì dunque la necessità di razionalizzare il suo sistema fiscale, abbandonando gli schemi medievali. L’Impero avvertiva anche la necessità di riprendere la sua espansione nei Balcani e nell’Egeo, per contrastare la dinamicità della Russia, che rischiava di sottrargli il controllo del Mar Nero. Le principali campagne furono condotte contro il Sacro Romano Impero (invasione dell’Ungheria imperiale, assedio di Vienna nel 1683, Pace di Passarowitz nel 1718 e Pace di Belgrado nel 1739) e contro la Repubblica di Venezia (Pace di Carlowitz nel 1699), ma segnarono l’inesorabile crisi militare ottomana. All’inizio del XVIII secolo, durante il sultanato di Ahmed III, si ebbero tentativi di occidentalizzazione politico-militare dell’Impero, ostacolati però dai giannizzeri (i soldati scelti della guardia del sultano) e dagli ulema (teologi e giuristi islamici) che si rivoltarono nel 1730. Il fallimento delle riforme e l’abbandono del processo di occidentalizzazione condannarono l’Impero Ottomano a un lento declino. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Poltava deve essere certamente annoverata tra le più significative battaglie della storia europea. Segnò un punto cruciale nella storia di due Imperi: l’inizio del declino dell’Impero svedese, alla fine della sua storia durata sessanta anni, e l’ascesa della Russia come potenza europea. La Guerra nordica [la Seconda guerra del Nord] si sarebbe trascinata per altri dodici anni ma, dopo il 1709, la Svezia rimase isolata e, strategicamente, sulla difensiva. Entro un anno, sia la Sassonia-Polonia che la Danimarca avrebbero ripreso le armi contro la Svezia, e le conquiste di Vyborg, a Nord di Pietroburgo, e di Riga, a Sud, avrebbero garantito la sicurezza della nuova capitale dello zar Pietro. Dal punto di vista di Pietro, questa era la più importante conseguenza della battaglia di Poltava. Scrivendo della battaglia, aggiunse che “Con l’aiuto di Dio, l’ultima pietra angolare di Pietroburgo è stata posata”. Nei successivi sei anni, l’alleanza contro la Svezia continuò a sottrarre possedimenti al regno di Carlo: prima gli Stati baltici, poi la Finlandia. Percependo la tendenza, la Prussia e l’Hannover si unirono all’alleanza nel 1715, per partecipare alla divisione dei territori svedesi in Germani. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Nonostante i tentativi di Carlo XII di spingere la Turchia alla guerra contro la Russia, il crollo svedese continuò. Quando, finalmente, la Turchia dichiarò la guerra nel 1711, Pietro sfuggì al disastro che si preparava, dopo che il suo esercito era stato circondato, tramite accorti scambi. Carlo stesso rimase virtualmente prigioniero dei turchi fino al 1714, quando riuscì a sfuggire e a raggiungere i suoi, in tempo per testimoniare la resa svedese a Stralsund, l’ultimo caposaldo rimasto al di fuori del territorio nazionale. Rifiutando di sanzionare le trattative di pace, il monarca continuò a combattere, proteggendo la madrepatria, finché fu ucciso durante un assedio nella Norvegia meridionale, nel 1718. La sua Nazione era ormai prosciugata di risorse umane e finanziariamente in crisi, mentre le incursioni navali russe continuavano a minacciare le regioni costiere. Fu in quel periodo che gli alleati della Russia firmarono la pace, avendo ormai ottenuto la loro parte di premio e vedendo di cattivo occhio l’ascesa dello Stato zarista. La Russia continuò la guerra da sola fino al 1721, quando il Governo svedese si vide costretto a chiedere la pace. Englund [lo storico inglese P. Englund, autore di The Battle of Poltava, Londra, 1992] riassunse gli effetti del conflitto dal punto di vista svedese: [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). “Quando la pace, che a lungo aveva tardato, fu finalmente conclusa, essa segnò la fine dell’Impero svedese. Allo stesso tempo, e fatto ben più importante, il Trattato [la Pace di Nystad del 1721] confermò la nascita di una nuova grande potenza europea, la Russi”. Questo Regno sarebbe cresciuto ancor più grande e potente, un vero Impero nella cui ombra gli svedesi avrebbero dovuto imparare a vivere. In termini di storia mondiale, il popolo di un’intera Nazione aveva lasciato il palcoscenico e preso un posto a sedere tra gli spettatori. Lezione 14 – Politica di potenza, politica interna e società nel XVIII secolo 1 (I). 86, poi noto come il Grande) occupò la regione della Slesia, ai confini fra l’Impero e la Prussia. Questa mossa si inseriva nella politica di potenza svolta dal piccolo Stato prussiano e iniziata dal marchese Federico Guglielmo il Grande elettore (1640-88), che aveva ricevuto dall’imperatore il titolo di re “in” Prussia, pur rimanendo feudatario imperiale come marchese del Brandeburgo- Prussia. Il figlio di Federico Guglielmo ottenne dall’imperatore la riconferma della corona di Prussia per la sua partecipazione alla Guerra di successione spagnola e divenne re col nome di Federico I (1688-1713). Il figlio di Federico I, Federico Guglielmo I (1713-40) si dedicò alla creazione di un forte esercito, da qui l’appellativo di “re sergente”, che il figlio Federico II poté in seguito impiegare per l’espansione del Regno. Sessione di studio 1 – Politica di potenza, politica interna e società nel XVIII secolo 1 (VII). L’occupazione della Slesia da parte di Federico II di Prussia compromise il fragile equilibrio europeo, messo a rischio anche dalle pretese avanzate dal duca di Baviera sul trono imperiale con il sostegno della Francia. Iniziò dunque la Guerra di successione austriaca (1740-8) che vide contrapporsi da un lato la Francia, la Baviera, la Prussia e la Spagna e dall’altro il Sacro Romano Impero, la Gran Bretagna, la Repubblica delle Province unite e il Ducato di Savoia. La guerra si concluse con la Pace di Aquisgrana: la Prammatica sanzione venne riconosciuta, ma l’Impero dovette cedere la Slesia alla Prussia. Dal momento però che il possesso della Slesia era vitale per l’Impero, perché gli consentiva di proiettarsi ad Est minacciando il Regno di Polonia, Maria Teresa si alleò con la Francia e con la Russia in funzione anti-prussiana, mentre Federico II si alleò alla Gran Bretagna. Sentendosi minacciato, Federico II iniziò la Guerra dei Sette anni (1756-63). Fu sconfitto dagli austriaci a Kolin (1757) e dovette abbandonare Berlino, ma nello stesso anno sconfisse i francesi a Rossbach e gli austriaci a Leuthen. Nel 1759 venne sconfitto dai russi a Kunersdorf. La guerra volgeva al peggio per la Prussia, che fu salvata solo dalla morte della zarina Elisabetta e dalla salita al trono di Pietro III, ammiratore di Federico II, che gli concesse una pace separata nel 1762. Nel 1763 la guerra si concluse con la Pace di Hubertusburg, che consentì alla Prussia di mantenere molti dei territori occupati. Sessione di studio 1 – Politica di potenza, politica interna e società nel XVIII secolo 1 (VIII). L’esercito prussiano si era confermato il migliore d’Europa, dimostrando di compensare le sue piccole dimensioni con il perfetto addestramento e l’adozione di tattiche innovative (come la formazione detta “ordine obliquo”). La tradizione militare prussiana cominciò ad essere stimata in tutta Europa e la strategia di Federico II divenne materia di studio in molte accademie militari. La vittoria ottenuta a caro prezzo nella Guerra dei Sette anni non frenò l’ambizione di Federico II che si orientò alla conquista con mezzi diplomatici di vaste porzioni del territorio del Regno di Polonia. Nel 1772 propose alla Russia e al Sacro Romano Impero un accordo che privò la Polonia di un terzo del suo territorio (cosiddetta “Prima spartizione”). Da questo momento cominciò un processo di disgregazione del Regno di Polonia. Negli anni Ottanta del Settecento la nobiltà polacca cercò di trasformare il Paese in una monarchia costituzionale, ma l’adozione di una costituzione nel 1791 suscitò una serie di rivolte che nel 1793 vennero sfruttate dalla Russia e dalla Prussia per procedere all’acquisizione di nuovi territori polacchi (“Seconda spartizione”). All’ingerenza straniera seguì una sollevazione guidata da Tadeusz Kosciuzko, il quale nel 1794 tentò di organizzare dei moti contro la Russia, generando i presupposti per un nuovo intervento dell’Impero, della Russia e della Prussia (“Terza spartizione”, 1795) che portò alla scomparsa del Regno di Polonia-Sassonia dal novero delle potenze europee. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). L’equilibrio politico fu la nota più caratteristica del XVIII secolo; per tale ragione vennero evitate le battaglie che avessero effetti distruttivi e potessero sconvolgere quell’equilibrio. Si dava invece la preferenza a operazioni contro le fortezze, i depositi, le linee di rifornimento, le posizioni-chiave: una guerra sapiente, insomma, in cui l’abilità di manovra era considerata più importante dell’impeto in battaglia. La guerra di posizione prevaleva su quella di movimento, una strategia mirante a conseguire piccoli vantaggi era preferita a quella che aveva per obiettivo la distruzione del nemico. Le guerre erano lunghe, ma non intense. […] Per riassumere, nel XVIII secolo le guerre furono combattute con moderazione. Con la scomparsa del fanatismo religioso, i mali della guerra furono ridotti a un livello minimo, mai raggiunto precedentemente o successivamente. Questo periodo di guerre relativamente civilizzate si concluse con la Guerra di indipendenza americana […]. Lo sviluppo delle armi fu quasi nullo […]. Gli eserciti erano di dimensioni limitate e sin quasi alla fine di questo periodo non furono introdotte in essi divisioni organiche permanenti: [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Erano ancora un’unica massa che, in battaglia, formava un solo fronte. Il successo dipendeva dall’abilità dei comandanti più che dalla forza delle armi, dalla qualità più che dalla quantità, e la sorte delle battaglie veniva decisa non tanto dalle perdite inflitte al nemico, quanto dalle manovre. La massa del popolo rimaneva estranea alla guerra ed era protetta contro le sue distruzioni da norme e da convenzioni precise. La guerra del XVIII secolo è stata definita uno sport regale, molto diverso da quello scontro fra popoli in cui si trasformò successivamente. I regali protagonisti, consapevoli delle loro responsabilità e dei limiti che dovevano rispettare per non suscitare la reazione dei loro sudditi, si guardarono bene dall’eccedere: gli eserciti non venivano reclutati con la coscrizione obbligatoria, non venivano nutriti con le risorse dei territori occupati, non distruggevano le strutture pacifiche. I sovrani rispettavano le regole del gioco militare, si ponevano obiettivi moderati e non imponevano condizioni jugulatorie agli avversari sconfitti, ben sapendo che sarebbe potuto venire anche il loro turno. Il gioco non doveva disturbare il benessere generale, le arti, le leggi e i costumi che erano l’orgoglio del secolo. In breve, l’arte della guerra rifletteva la compiaciuta soddisfazione che fu tipica di quel periodo. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 13. La Guerra dei Trent’anni (1618-48) e le guerre dell’età di Luigi XIV portarono all’emersione di alcune potenze minori che in precedenza non avevano mai partecipato alla grande politica. Tra queste può essere menzionato anche il Marchesato del Brandeburgo-Prussia. La marca del Brandeburgo era stata concessa dall’imperatore ai nobili Hohenzollern nel 1415 e ad essa si era aggiunto, dopo il 1525, il territorio della Prussia, in precedenza amministrato dall’ordine monastico cavalleresco dei Cavalieri teutonici. Grazie all’intraprendenza del marchese Federico Guglielmo in Grande elettore (1640-88), la Prussia aveva ottenuto una parziale indipendenza dal Sacro Romano Impero e aveva partecipato alla Prima guerra del Nord (1654-60), che aveva visto trionfare la Svezia. All’inizio del XVIII secolo il dominio svedese sul Baltico venne contestato dalla Danimarca e dalla Russia che – grazie all’azione di personalità quali Aleksandr Nevskij (1220-63), Ivan il Terribile (1547-84) e Michele Romanov (1613-45) – aveva completato il suo processo di costruzione nazionale e si preparava ad entrare nella politica europea. La Seconda guerra del Nord (1700-21) vide lo scontro tra la Svezia di Carlo XII e la Russia di Pietro I il Grande (1682-1725) e si concluse con la sconfitta svedese. Il passaggio tra il XVII e il XVIII secolo vide anche un nuovo impeto di espansione ottomana nei Balcani e nell’Egeo che tuttavia si concluse con una serie di sconfitte, segno di un declino politico-militare ormai inarrestabile. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 14. Le guerre dell’età di Luigi XIV portarono alla creazione di un nuovo schema di rapporti tra le grandi potenze europee, un “sistema internazionale” basato sul ruolo preponderante della Francia, della Gran Bretagna e del Sacro Romano Impero. Agli inizi del XVIII secolo il nuovo equilibrio europeo fu turbato da una serie di problematiche dinastiche che sfociarono in guerre di successione: la Guerra di successione polacca (1733-8) e la Guerra di successione austriaca (1740-8). L’assetto europeo derivato dalla Guerra di successione spagnola (1702-13) venne completamente stravolto e nuove trasformazioni si ebbero a causa delle mire espansive manifestate dalla Prussia del re Federico II (1740-86). Nel 1756 la Prussia scatenò la Guerra dei Sette anni che si trasformò in un conflitto di vasta portata, coinvolgendo tutte le principali potenze europee, e terminò nel 1763 con una vittoria prussiana in extremis. La guerra confermò l’ingresso della Prussia tra le grandi potenze e diffuse in Europa il modello militare prussiano, basato sull’addestramento e l’innovazione tattica. Dopo la guerra l’ambizione di Federico II si concentrò sul vicino Regno di Polonia-Sassonia, il cui territorio venne progressivamente smembrato tra il 1772 e il 1795 attraverso una serie di accordi tra la Prussia, la Russia e il Sacro Romano Impero. Lezione 15 – Politica di potenza, politica interna e società nel XVIII secolo 2 (I). Ad un’osservazione superficiale, può sembrare che buona parte del Settecento sia stata caratterizzata da questioni dinastiche e militari; in realtà il XVIII secolo fu anche testimone di un processo di evoluzione politica dei principali Stati europei, dell’avvento dell’assolutismo illuminato e dal definirsi dell’assetto politico-sociale dell’antico regime. Per quanto riguarda il processo di evoluzione politica, nel corso del Settecento sono individuabili tre principali modelli di gestione politica: il modello britannico, il modello francese e il modello assolutista illuminato. Il modello britannico si affermò in seguito alla morte della regina Anna e alla salita al trono di Giorgio I, principe elettore dell’Hannover (1714). Il nuovo sovrano era del tutto estraneo alle dinamiche del mondo politico britannico (dominato dai due schieramenti dei Whigs e dei Tories e caratterizzato da un’intensa attività di lobbying da parte dei gruppi economici e finanziari) e non conosceva neppure la lingua inglese, di conseguenza dovette rinunciare a una gestione diretta della politica, riservando questa facoltà al Parlamento e al gruppo dei ministri. Lo stesso approccio fu seguito anche dal suo successore, Giorgio II. Il contrarsi della sfera di competenza politica del monarca determinò l’avvento di un periodo di grande stabilità, in cui nessuna delle parti politiche mise in discussione questioni basilari quali la confessione religiosa dei sovrani o l’autorità del Parlamento. Liberata dal pericolo dell’instabilità politica interna, la Gran Bretagna poté dedicarsi ad una politica diplomatica e coloniale aggressiva e fruttuosa. Lezione 15 – Politica di potenza, politica interna e società nel XVIII secolo 2 (II). Dal 1715 il Parlamento britannico era dominato dai Whigs che, conformemente alla propria tradizione di intraprendenza economica, spinsero il Governo a stringere forti e rischiosi rapporti clientelari con importanti gruppi economici. Nel 1720 si ebbe il fallimento della Compagnia dei mari del Sud, una società privata dedita alla tratta degli schiavi, che negli anni precedenti aveva ottenuto dal Governo la conversione di una parte del debito pubblico britannico in proprie azioni. Il fallimento della Compagnia portò ad uno scandalo politico-economico e la caduta del Governo fu evitata solo grazie all’abilità del parlamentare dei Whigs Robert Walpole che si impose quale personalità di riferimento della propria corrente politica e divenne primo ministro. Walpole adottò uno stile di governo particolare: iniziò a presiedere le riunioni del Comitato dei ministri senza la presenza del re, riferendo poi al sovrano le proprie decisioni e provvedendo autonomamente alla designazione dei ministri. Nacque così il sistema del “Governo di gabinetto”. Walpole risolse lo scandalo della Compagnia dei mari del Sud e adottò una politica fiscale moderata. In ambito “industria rurale domestica”, una forma di proto-industria che permetteva a mercanti-imprenditori operanti nell’ambito tessile di sfruttare i periodi morti delle coltivazioni, affidando ai contadini il lavoro di filatura a domicilio. Sempre nell’ambito proto-industriale si ebbe anche la comparsa della manifattura (un’evoluzione del sistema di bottega che consisteva nella concentrazione in un’unica sede degli operai preposti alle varie fasi del processo produttivo di un bene) e all’introduzione di istituzioni socio-assistenziali come le Workhouses britanniche (case di lavoro destinate a persone bisognose). Tali fermenti in settori economici diversi rispetto a quello agricolo generarono il clima ideale per la Prima rivoluzione industriale. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Quali furono in breve le ragioni della “esplosione demografica” nella seconda metà del Settecento? In primo luogo sembra universalmente accettato che in molti Paesi europei il tasso di mortalità cominciò a scendere all’incirca nel 1740 o 1750, per quanto non si sappia con precisione, o se ne sia rigorosamente discusso, quando ciò avvenne, quanto durò, perché e quanto si estese, ovvero quali ceti e gruppi di età ne furono maggiormente partecipi […]. L’abbassamento del tasso di mortalità, caratteristica comune dei Paesi dell’Europa occidentale, è stato attribuito a una serie do fattori, compreso il venir meno di sciagure come le carestie, le pestilenze e le carneficine delle guerre, a migliori agevolazioni igieniche e sanitarie, nonché a un progresso delle condizioni generali di vita. Alcune di queste spiegazioni sono state in genere più accettabili di altre. […] Secondo un’opinione diffusa, l’abbassamento del tasso di mortalità e dovuto in gran parte a una maggiore resistenza alle malattie, specie in Inghilterra, in Francia, in Svizzera e in alcune parti della Germania, e ciò grazie ai miglioramenti in agricoltura tra la fine del Seicento e i primi del Settecento. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). E’ vero che le epidemie persistettero e non scomparvero affatto da un giorno all’altro; per esempio nel 1719 il vaiolo uccise 14 persone nella sola Parigi e nel 1770 devastò la maggior parte dei grandi centri europei. La Spagna subì epidemie di malaria nel 1784-7 e di nuovo nel 1790-2; si dice anche che in Svezia la pertosse abbia causato la morte di 40.000 bambini tra il 1749 e il 1764. Tuttavia durante questo secolo ci fu, almeno in Europa occidentale, un generale declino dell’incidenza e della virulenza delle malattie, e la paventata peste bubbonica, che nel passato era stata un autentico flagello, non si ripresentò a partire dal 1720 per motivi mai del tutto chiariti. […] Alcuni autori hanno rivolto la loro attenzione più all’aumento del tasso di natalità che alla diminuzione del tasso di mortalità, come fattore chiave per determinare l’incremento della popolazione […]. Beninteso l’equilibrio fra natalità e mortalità oscillò non solo in relazione a influenze come la situazione dei raccolti o il prevalere di epidemie, ma fu riscontrata anche una considerevole diversità del tasso di natalità fra un Paese e l’altro e perfino tra una generazione e quella immediatamente vicina. […] Quali furono gli effetti palesi di un così generale aumento di popolazione in Europa? Il pensiero dei contemporanei era diviso a seconda che lo si ritenesse utile o dannoso all’interesse nazionale. Come ben noto, Malthus [reverendo inglese che studiò il problema della sovrappopolazione] ne ebbe una visione nettamente pessimistica. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). Nel suo Saggio sul principio della popolazione nel 1798 egli sostenne che, in mancanza di guerre, pestilenze e carestie e senza l’uso di ulteriori “controlli preventivi” come l’emigrazione e l’astinenza volontaria, il numero crescente di nuove bocche avrebbe presto esaurito la capacità della Nazione di nutrire se stessa, provocando carestia e rovina. Egli non fu il primo ad avere prospettive tanto fosche. Nel 1761 un economista scozzese, Robert Wallace, manifestò il timore che il genere umano si sarebbe raddoppiato ogni trent’anni se non ci fossero state le guerre e i vizi; e ancor prima di Malthus, un gruppo di scrittori italiani – Ortés, Ricci, Beccaria, Briganti e Filangieri – espresse analoghe apprensioni. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 15. Sotto il profilo delle modalità di gestione della politica, nell’Europa del XVIII secolo possono essere identificati tre modelli: quello britannico, quello francese e quello assolutista illuminato. Il modello britannico, affermatosi con la salita al trono dell’elettore dell’Hannover Giorgio I (1714), fu caratterizzato da un ritrarsi della sfera di competenza politica del monarca e dall’avvento del sistema del “Governo di gabinetto” con personalità quali Robert Walpole (1720-42) e William Pitt il Vecchio (1742-61, 1766-8). La stabilità politica garantita dall’affermarsi di tale modello consentì alla Gran Bretagna di concentrarsi sull’espansione coloniale, divenendo la prima potenza coloniale d’Europa. Il modello francese dell’età di Luigi XV (1715-74) si caratterizzò invece per l’impostazione assolutistica mutuata dal sistema di governo di Luigi XIV, ma non riuscì a evitare gli scontri tra la corona e i ceti privilegiati o a risolvere la disastrosa situazione economica della Francia, né a condurre una politica estera di successo. Il XVIII secolo europeo vide anche importanti trasformazioni sul piano demografico ed economico. Dal punto di vista demografico si registrò ovunque (tranne che in Francia) un significativo incremento della popolazione, mentre sul piano economico si assistette all’avvento di nuove forme di gestione agraria (Grundherrschaft e Gutsherrschaft tedesche ed enclosures inglesi), oltre che al diffondersi dell’industria rurale domestica e della manifattura. Lezione 16 – L’Illuminismo e l’assolutismo illuminato (I). L’Illuminismo può essere definito come un movimento intellettuale che si aprì in Europa tra il XVII e il XVIII secolo, dando vita ad un’autentica stagione culturale e diffondendosi poi alle colonie britanniche del Nord America. Esso rappresenta per certi versi un unicum nel panorama della storia culturale europea, dal momento che – pur sviluppandosi con tempistiche diverse nelle varie Nazioni e mantenendo sempre un carattere piuttosto frammentato – si rivelò dotato di un nucleo ideale omogeneo, i cui punti essenziali possono essere così riassunti: guidare l’uomo all’utilizzo libero della propria ragione, affrancandolo dall’oscurantismo e dal dogmatismo medievali; indurre l’uomo a utilizzare la propria intelligenza per riformare la società e migliorarla; mettere in discussione tutte le concezioni ormai sedimentate dalla tradizione e dalla fede in ogni ambito della vita umana; promuovere la conoscenza in ogni campo attraverso l’adozione di un metodo di indagine scientifico ed empirista. La differenza più sostanziale tra l’Illuminismo e i movimenti intellettuali precedenti può essere individuata nella sua volontà “operativa”, ovvero nella dichiarata intenzione di fuoriuscire dall’ambito della speculazione intellettuale pura per procedere ad una riforma della società. Tale proposito generò le condizioni per una stretta collaborazione tra gli illuministi e alcuni sovrani europei, producendo il fenomeno politico denominato “assolutismo illuminato”. Lezione 16 – L’Illuminismo e l’assolutismo illuminato (II). Nei vari contesti europei il termine “Illuminismo” venne declinato in modo differente: âge des lumières in Francia, enlightment in Gran Bretagna e Aufklärung in Germania. Ovunque si adottarono termini che facevano riferimento a un’idea di risveglio, di rinascita della ragione. Una delle più complete definizioni dei caratteri e degli obiettivi dell’Illuminismo si deve al filosofo Immanuel Kant (1724-1804), che realizzò l’opuscolo Che cos’è l’Illuminismo? (1784). Nello scritto l’Illuminismo era definito come un movimento intellettuale finalizzato al raggiungimento della maturità da parte dell’uomo, ovvero all’emancipazione della coscienza umana dallo stato di immaturità e di ignoranza in cui si trovava dai tempi del Medioevo. L’interpretazione di Kant era molto radicale e presentava l’Illuminismo come un momento di totale distacco dalle tradizioni intellettuali precedenti. A questo proposito sembra più adeguata l’interpretazione del filosofo inglese contemporaneo Bertrand Russell (1872-1970) secondo cui l’Illuminismo andrebbe considerato unicamente come la fase conclusiva di un processo di sviluppo intellettuale iniziato fin dall’antichità classica. La riflessione di Russell introduce un altro problema fondamentale dell’Illuminismo, quello della sua cronologia. Pur tenendo presente le differenti tempistiche nella comparsa del movimento nei vari Paesi europei e il suo carattere frammentato, è possibile collocare i limiti cronologici dell’Illuminismo tra la metà del Seicento e gli anni Ottanta del Settecento, alle soglie del Romanticismo. Lezione 16 – L’Illuminismo e l’assolutismo illuminato (III). Risulta difficile anche individuare gli eventuali movimenti intellettuali che hanno precorso l’Illuminismo, costituendone gli antecedenti diretti. La volontà di instaurare la libera riflessione in tutti i campi del sapere può tuttavia essere identificata in alcuni fenomeni culturali del Seicento inglese – come la corrente del deismo, il cosiddetto “circolo di Tew” o il gruppo dei “platonici di Cambridge” – oltre che nell’attività di filosofi e scienziati quali Baruch Spinoza (1632-1677), John Locke (1632-1704), Pierre Bayle (1647-1706), François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778) e Isaac Newton (1643-1727). Tali fenomeni e tali figure hanno costituito il sostrato ideale sul quale si è innestato l’Illuminismo, con la sua fiducia incondizionata nei confronti delle possibilità illimitate della ragione, il suo criticismo nei confronti di tutto ciò che fosse tradizionale o a-razionale e la sua volontà riformatrice. Sessione di studio 1 – L’Illuminismo e l’assolutismo illuminato (IV). La culla dell’Illuminismo fu la Francia del XVII secolo, con le sue varie culture di opposizione nei confronti di quella ufficiale rappresentata dall’assolutismo di Luigi XIV. La prima figura di intellettuale che presentò caratteri illuministici fu Charles Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), avversario dell’assolutismo e sostenitore della separazione dei poteri, la cui opera Lo spirito delle leggi rappresentò un capolavoro di filosofia politica e di antropologia. Su una posizione opposta a quella di Montesquieu si collocava invece François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), critico dell’oscurantismo, ma sostenitore dell’assolutismo illuminato. La diversità tra Montesquieu e Voltaire evidenzia la molteplicità di posizioni su temi filosofici e politici riscontrabile nell’Illuminismo e, di conseguenza, il carattere composito di tale fenomeno. La più grande realizzazione dell’Illuminismo francese fu l’Enciclopedia, un Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri la cui stesura (1751-81) fu coordinata da Denis Diderot e Jean le Rond d’Alembert e vide la partecipazione delle più importanti figure di ogni campo dell’intellettualità francese. Un’altra personalità di rilievo, Jean-Jacques Rousseau (1712-78), nella sua opera Il contratto sociale (1761) delineò i concetti di base della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa in senso moderno, divenendo così uno dei precursori delle teorie politiche che animeranno la Rivoluzione francese. Sessione di studio 1 – L’Illuminismo e l’assolutismo illuminato (V). Dopo aver creato il clima idoneo per l’avvento dell’Illuminismo con la corrente del deismo, il gruppo dei “platonici di Cambridge” e il “circolo di Tew”, l’ambito intellettuale britannico vide la importante personalità intellettuale del Granducato fu Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), storico ed erudito. Nel Regno di Napoli, il re Carlo III introdusse un Catasto e adotto una legislazione commerciale che favoriva gli scambi. Tra le più importanti personalità intellettuali napoletane possono essere menzionati lo storico, giurista e filosofo Giambattista Vico (1668-1744), lo storico Pietro Giannone (1676-1748) e il giurista Gaetano Filangieri (1752-88). Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). L’espressione “dispotismo illuminato” […] è infelice e fuorviante. “Dispotismo” evoca ai giorni nostri – e già evocava nel Settecento – l’idea di un potere arbitrario, capriccioso, oppressivo, idea che mal si adatta ad un’attività proveniente dall’alto (dai sovrani e dai loro collaboratori) la quale vuole essere – e tale fu considerata in sede storiografica – sollecita del bene dei sudditi: appunto illuminata, aggettivo singolarmente in contrasto con un sostantivo carico di implicazioni negative. […] “Illuminato”, poi, pare scelto apposta per creare confusione. […] Se ci volgiamo ai personaggi e agli Stati, la prima impressione che ne ricaviamo è quella della più grande confusione. Coloro che abitualmente si fanno rientrare nella categoria “despoti illuminati” sono diversissimi l’uno dall’altro. A fianco di un Carlo III di Spagna e di una Maria Teresa d’Austria, sovrani noti per la loro devozione, stanno gli scettici Federico II di Prussia e Caterina II di Russia. Differenti e talvolta addirittura opposti, inoltre, i provvedimenti adottati. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Mentre in Lombardia e in Toscana si abolì l’appalto delle imposte, in Prussia lo si istituì; mentre Caterina II si fece in quattro per favorire la nobiltà ed aumentare i carichi dei contadini, Giuseppe II condusse una politica anti-nobiliare e abolì le servitù e le corvée; mentre in Prussia rimasero inalterati i vincoli al commercio dei grani, in Toscana si attuò una piena liberalizzazione. Insomma, il “dispotismo illuminato” sembra disintegrarsi in una miriadi di elementi privi di un punto di riferimento comune. Occorre tuttavia spingere lo sguardo più a fondo e verificare, pur senza voler sistematizzare a tutti i costi, se vi siano tratti tali da consentire una visione unitaria. Che il dispotismo illuminato costituisca un tipo distinto di regime politico è cosa circa la quale è lecito nutrire i più seri dubbi. In realtà, se esso – quale che sia la data in cui lo si voglia far cominciare – si caratterizza per una più alacre attività riformatrice e per un parziale mutamento delle basi teoriche che fanno da supporto a tale attività, chiara è la linea di continuità con intenti e metodi riconducibili ad un orientamento assolutistico esistente prima del Settecento. Proprio nella volontà di rafforzare l’accentramento, di creare un più ampio ed efficiente apparato burocratico, di meglio distribuire e fissare responsabilità e competenze, insomma, di dar vita ad una macchina statale congeniata nel miglior modo possibile, risiede l’elemento unificante per eccellenza, al di là delle varianti locali, del dispotismo illuminato. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). E’ dunque molto discutibile parlare di un regime autonomamente configurato. Tutt’al più si potrà affermare che “Il dispotismo illuminato è una versione secolarizzata della monarchia assoluta”. […] Philosophes e sovrani costruirono il mito di ciò che sarebbe poi stato chiamato “dispotismo illuminato”. Ma oltre tale mito si deve andare, se ci si vuol rendere conto della natura e del significato delle riforme venute dall’alto. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 16. L’Illuminismo si configura come un movimento intellettuale unico nel panorama della storia culturale europea e, pur radicandosi con tempistiche differenti nei vari Paesi, presentò delle caratteristiche omogenee, soprattutto la fede nella ragione, la fiducia nel progresso e la volontà di trasformare la società attraverso la critica a tutto ciò che era ritenuto tradizionale e a-razionale. I limiti cronologici dell’Illuminismo possono essere identificati tra la metà del XVII secolo e gli anni Ottanta del XVIII secolo, ma non bisogna dimenticare che alcuni movimenti culturali (come il movimento deista, il gruppo dei “platonici di Cambridge” e il “circolo di Tew” britannici) hanno precorso l’Illuminismo creando un clima culturale adeguato per il suo avvento. Considerata la volontà di trasformare la società, chiaramente espressa dagli illuministi, non stupisce che tra questi intellettuali e alcuni regnanti europei si siano sviluppati dei rapporti di collaborazione. In Prussia, in Russia, nel Regno di Napoli e nel Sacro Romano Impero, infatti, i sovrani d’antico regime ricorsero spesso alla consulenza degli illuministi e avviarono riforme politiche, economiche e sociali in linea con la nuova sensibilità culturale dando vita al fenomeno del cosiddetto “assolutismo illuminato”, ottenendo significativi vantaggi sul piano della razionalizzazione e dell’efficienza dell’amministrazione statale. Lezione 17 – La Prima rivoluzione industriale (I). Per convenzione, gli storici definiscono con l’espressione “Prima rivoluzione industriale” il complesso di profondi mutamenti nelle forme di produzione verificatosi in Gran Bretagna nella seconda metà del XVIII secolo. Con riguardo a tale fenomeno, il termine “rivoluzione” è impiegato per indicare non tanto la rapidità, quanto l’aspetto irreversibile e radicale dei mutamenti avvenuti. Si trattò, in effetti, di un cambiamento che trasformò completamente l’economia degli Stati d’antico regime: il settore agricolo e quello artigianale vennero rapidamente affiancati dal nuovo settore industriale, un fatto le cui ricadute andarono ben oltre l’ambito economico, riverberandosi sull’organizzazione sociale, sui sistemi politici, sui modelli culturali e sugli stili di vita. La culla della Prima rivoluzione industriale fu rappresentata dalla Gran Bretagna che, come tutti gli Stati d’antico regime, aveva un’economia prevalentemente agricola. Il settore artigianale inglese non presentava significative diversità rispetto a quello di altri Paesi europei e aveva appena registrato la comparsa delle prime manifatture, poco più di botteghe dalle dimensioni maggiorate, attività in cui tutte le fasi della realizzazione di un bene erano concentrate in un unico luogo. Come in altri contesti d’antico regime, anche in Inghilterra esisteva l’industria domestica, relativa alla lavorazione tessile, considerata dagli storici dell’economia una forma di proto-industria. Lezione 17 – La Prima rivoluzione industriale (II). Considerati i caratteri della sua economia, la Gran Bretagna non presentava alcun elemento che lasciasse presagire i futuri sviluppi industriali, ma in realtà era dotata di alcune caratteristiche peculiari che la resero il contesto idoneo per l’avvento di nuove forme di produzione. In primo luogo la Gran Bretagna costituiva la prima potenza coloniale d’Europa e – pur avendo un territorio complessivamente povero – poteva sfruttare le risorse provenienti dal proprio impero, in secondo luogo deteneva la supremazia marittima tanto nell’ambito mediterraneo, quanto in quello atlantico e ciò le consentiva di sviluppare al massimo i propri commerci. In terzo luogo la Gran Bretagna rappresentava un contesto in cui le lotte politiche si erano ormai concluse e dove si registrava una grande libertà e tolleranza, ciò creava il clima ideale per lo sviluppo della libera iniziativa economica. In ultimo luogo, un’ altra caratteristica significativa era rappresentata dalla propensione delle classi abbienti al cambiamento. La proprietà terriera britannica aveva infatti un orientamento conservatore, ma allo stesso tempo presentava un atteggiamento economico flessibile, che non induceva a considerare come eresie eventuali trasformazioni dell’assetto vigente. In tale prospettiva può essere inquadrato il fenomeno delle enclosures, ovvero la progressiva razionalizzazione della proprietà terriera attraverso la costituzione di fondi omogenei grazie a transazioni, acquisti e matrimoni. Lezione 17 – La Prima rivoluzione industriale (III). Un altro elemento positivo, che avrebbe avuto ampie ricadute sull’avvento dell’industria, era rappresentato dalla scarsa estensione del territorio britannico, i cui collegamenti interni erano però difficili a causa della mancanza di infrastrutture. L’elemento più importante è tuttavia da identificare nel crescente aumento della popolazione britannica che dai 6.000.000 di abitanti nel 1740 superò i 14.000.000 nel 1830 a causa dell’incremento della natalità, dell’abbassamento dell’età del matrimonio e dell’aumento della nuzialità. L’incremento demografico rese necessaria una trasformazione economica su vasta scala per produrre in modo industriale generi alimentari (ad esempio meccanizzando in parte l’agricoltura) e la grande quantità di beni necessaria per la vita della popolazione. L’aumento della popolazione generò anche un’ampia disponibilità di manodopera a basso costo, un dato fondamentale per l’instaurarsi dell’industria. L’avvento dell’industria sarebbe tuttavia stato impossibile senza il progresso tecnologico. Il primo settore in cui si registrarono innovazioni fu quello tessile, dove a partire dagli anni Trenta del Settecento si ebbe la comparsa di macchine utensili sempre più perfezionate, capaci quindi di un maggior rendimento. Nel 1733 Kay brevettò il telaio a “navetta volante”, nel 1765 Hargreaves migliorò questo progetto ottenendo una nuova macchina per la filatura che venne chiamata “Jenny”, mentre nel 1769 Arkwright introdusse un modello di telaio idraulico. Sessione di studio 1 – La Prima rivoluzione industriale (IV). Nello stesso anno in cui Arkwright introdusse il telaio idraulico, l’inventore scozzese James Watt cominciò a studiare la possibilità di applicare la forza motrice del vapore alle macchine utensili per la filatura. I suoi studi ebbero un immediato successo, che condusse nel 1779 alla comparsa di un nuovo telaio mosso dal vapore, il Mule di Crompton, e nel 1787 all’introduzione del primo telaio completamente meccanizzato, quello di Cartwright. La fonte energetica utilizzata per produrre il vapore e quindi per muovere le nuove macchine era rappresentata dal carbone di legna, di cui la Gran Bretagna aveva grandi giacimenti. Il primo settore in cui si affermò la meccanizzazione fu, come già detto, quello tessile. Si trattava di un ambito economico in cui la Gran Bretagna aveva fin dal Medioevo una posizione di spicco in Europa, grazie all’esportazione della lana scozzese. Per via della sua natura, tuttavia, la lana era difficilmente lavorabile con le nuove macchine e quindi ci si orientò sul cotone, di cui la Gran Bretagna poteva disporre in grandi quantità grazie al suo impero coloniale, soprattutto all’India. Il territorio della Gran Bretagna venne dunque diviso in due dal punto di vista economico: il Nord continuò la produzione di lana, mentre il Sud si concentrò sulla lavorazione del cotone. Per via della sua conformazione, sostanzialmente priva di alti rilievi, il territorio britannico si prestava inoltre alla costruzione di ampie fabbriche, connesse fra loro e con i mercati di sbocco da assi viari. Sessione di studio 1 – La Prima rivoluzione industriale (V). Un altro settore in cui la rivoluzione tecnologica ebbe ricadute importanti fu quello siderurgico. Nel XVIII secolo la lavorazione dei metalli aveva mantenuto in tutta Europa dei caratteri ancora medievali, la fabbricazione di leghe (ovvero composti di più metalli) era ai primordi e si erano compiuti i primi esperimenti per la fabbricazione dell’acciaio. L’industria siderurgica britannica Con l’esposizione delle trasformazioni economiche, politiche e sociali conseguenti alla Prima rivoluzione industriale si può considerare terminato il sintetico ripasso dei principali avvenimenti e nuclei tematici della prima età moderna. L’avvento del capitalismo industriale e dell’industria proiettano infatti l’età moderna verso una nuova fase, che può essere definita “seconda età moderna” e che costituisce il preludio all’età contemporanea. E’ opportuno, in questa fase del corso di Storia moderna 1, concentrare l’attenzione su uno degli avvenimenti più significativi della prima età moderna, ovvero la Riforma luterana. In questo modo si avrà l’occasione di riflettere criticamente su uno degli snodi della storia europea, un complesso di avvenimenti le cui ricadute hanno prodotto avvenimenti quali le guerre di religione francesi del XV-XVI secolo e la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), dei quali si è ampiamente trattato nelle lezioni 1-17. La seconda parte del corso risulterà quindi essere costituita, come da programma, da un corso monografico dedicato agli avvenimenti e agli esiti dottrinali della Riforma, mentre la terza parte del corso si concentrerà sulla disamina di alcune tra le principali confessioni nate in Europa sulla scia della Riforma. Lezione 18 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (II). La Riforma luterana costituisce uno degli avvenimenti-chiave della prima età moderna e, per via delle sue importanti ricadute tanto sul piano confessionale, quanto sul piano politico-sociale, si può annoverare tra i fatti che più contribuiscono a marcare la separazione tra il Medioevo e l’età moderna. Essa si configura come l’esito ultimo di una serie di movimenti religiosi votati al rigorismo, alla riforma della Chiesa e alla sequela del Vangelo che animarono la vita religiosa dell’Europa a partire dal XIII secolo. I movimenti di John Ball e di John Wycliffe nell’Inghilterra del XIII e XIV secolo e il movimento di Jan Hus nella Boemia del XIV-XV secolo si possono in effetti identificare come animati dalla medesima tendenza riformatrice che connotò l’azione di Martin Lutero in Germania. La Riforma luterana presenta tuttavia un carattere specifico rispetto a questi movimenti ed ebbe esiti più vasti e radicali, portando alla divisione della cristianità in una serie di correnti tutte caratterizzate dal comune riferimento al Vangelo come fonte ultima di verità, per l’interpretazione della quale non era necessaria l’intermediazione di alcuna struttura terrena. Le confessioni nate dalla Riforma – definibili come “evangeliche” solo in modo improprio, dato che il termine “evangelico” si riferisce a ogni movimento caratterizzato dal richiamo diretto al Vangelo, anche non connesso alla Riforma – trasformarono la cristianità in un mosaico e ne ruppero l’unitarietà in modo ancora più radicale di quanto era avvenuto con lo scisma d’Oriente del 1054, che aveva generato la Chiesa ortodossa. Lezione 18 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (III). La Riforma luterana fu un avvenimento percepito dai contemporanei come traumatico. Già all’epoca di Lutero, infatti, la sua ribellione contro Roma venne considerata come un attentato all’unitarietà della Respubblica christiana che si era costituita con il riconoscimento del cristianesimo quale religione ufficiale dell’Impero romano da parte di Teodosio e che aveva raggiunto il suo apice durante il Medioevo. Nella mente dei contemporanei, tuttavia, era chiaro che la Riforma non si era sviluppata con l’obiettivo di stravolgere la teologia cristiana, ma piuttosto con l’obiettivo più limitato di far cessare gli abusi all’interno della Chiesa cattolica. Si tratta di una prospettiva corretta e oggi largamente accettata dalla storiografia, dal momento che – come si vedrà – i primi passi dell’azione riformatrice di Lutero furono orientati alla critica di alcune devianze interne alla Chiesa (nicolaismo, simonia, vendita delle indulgenze ecc.); solo in un secondo tempo Lutero si applicò all’ambito teologico e giunse a proclamare dottrine scismatiche ed eretiche. E’ pur vero, tuttavia, che Lutero era animato da un’insoddisfazione nei confronti della teologia tradizionale ancora prima di intraprendere la sua lotta contro le devianze della Chiesa. La costante oscillazione tra le questioni dottrinali e teologiche e i problemi concreti (come la questione delle indulgenze) costituisce uno dei tratti fondamentali della Riforma luterana, un carattere che è possibile riscontrare in tutto il suo corso. Sessione di studio 1 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (IV). L’interpretazione della Riforma luterana ha da sempre rappresentato per gli storici una sfida e ciò deve essere ricondotto al carattere multiforme della Riforma che – nelle varie fasi della sua storia – è stata di volta in volta un movimento di contestazione, una corrente teologica e una ribellione politica contro l’unitarietà del Sacro Romano Impero. Considerato tale carattere composito, è evidente che un’interpretazione univoca della Riforma è impossibile. Normalmente tutti gli eventi storici – specie i più grandi – risultano di difficile inquadramento, dal momento che il loro carattere sfaccettato e la loro estensione spazio-temporale, nonché la vasta portata delle loro conseguenze, impediscono agli studiosi di averne una visuale complessiva. Tale problematica è particolarmente evidente per la Riforma. Nel corso del tempo, tuttavia, si sono delineate tre interpretazioni storiografiche che, sedimentandosi, sono divenute scuole di pensiero o tradizioni. Una loro sintetica disamina rappresenta un passaggio essenziale per l’analisi delle cause della Riforma luterana. Le tre tradizioni storiografiche si possono così definire: la “tesi tradizionale”, la “tesi protestante” e la “tesi marxista”. Sessione di studio 1 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (V). La cosiddetta “tesi tradizionale” è sostenuta da studiosi cattolici o da studiosi luterani non radicali e interpreta la Riforma come un fenomeno di risposta agli abusi e ai disordini presenti nella Chiesa cattolica e nella Curia romana. Uno degli esponenti principali di tale tendenza interpretativa fu John Emerich Dalberg, lord Acton (1834-1902), esponente del cattolicesimo liberale inglese e autore della Cambridge Modern History. Secondo lord Acton, la Riforma luterana ebbe origine da un’esigenza espressa dal popolo cristiano, ovvero la volontà di ripristinare lo spirito delle origini del cristianesimo, azione che avrebbe fatto cessare gli abusi interni alla Chiesa e indotto un risanamento morale del clero. All’inizio dell’età contemporanea la concezione di Acton venne duramente criticata dal momento che perderebbe di vista la specificità della Riforma che nacque come un fenomeno tedesco e non fu il prodotto di un senso di disgusto generale del popolo cristiano nei confronti del malcostume che imperava nella Chiesa cattolica. La tesi di Acton, in sostanza, non riuscirebbe a spiegare perché la Riforma sia nata proprio in ambito tedesco e in un momento temporale preciso, quando anche altre epoche avevano conosciuto gravi abusi ecclesiastici senza giungere ad una rivolta contro Roma. L’enfasi di Acton sul malcostume, inoltre, sarebbe troppo riduttiva e non potrebbe sintetizzare tutte le motivazioni scatenanti della Riforma. Sessione di studio 1 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (VI). La cosiddetta “tesi protestante”, invece, è solitamente sostenuta da studiosi protestanti o comunque evangelici e interpreta l’azione di Lutero come l’esito della volontà di restaurare il vero cristianesimo, che secoli di dominio incontrastato dei pontefici romani avevano ormai snaturato. Si tratta di un’interpretazione faziosa perché sembrerebbe indicare Lutero come un campione dell’ortodossia, quando invece la sua riflessione sul piano dottrinale-teologico si rivelò eretica. Non bisogna dimenticare che dietro il pretesto di riformare moralmente la Chiesa e riportare il cristianesimo alla purezza, Lutero contestò e poi rifiutò alcuni punti essenziali della dottrina cattolica come il primato petrino (ovvero la supremazia del papa sugli altri patriarchi della cristianità), il principio della giustificazione (nucleo del sacramento della confessione) e la valenza sacrificale dell’Eucaristia. Anche se l’interpretazione di Lutero come personaggio ortodosso non può reggere alla prova dei fatti, è sbagliato ritenere che la massa dei cattolici tedeschi che aderirono alla Riforma avessero tendenze eretiche. Come è stato evidenziato dallo storico francese Lucien Febvre (in un saggio del 1929 oggi reperibile in L. FEBVRE, Studi su Riforma e Rinascimento e altri scritti su problemi di metodo e di geografia storica, Einaudi, 1966), infatti, la Riforma fu piuttosto generata da fattori psicologici quali il desiderio di una nuova religiosità lontana dalla superstizione e dall’aridità della filosofia scolastica e l’ansia di ottenere il perdono per i propri peccati. Sessione di studio 1 – La tradizione storiografica sulla Riforma luterana (VII). La cosiddetta “tesi marxista” si caratterizza invece per la sua ottica del tutto particolare volta alla minimizzazione delle motivazioni religiose della Riforma e all’esaltazione di quelle politiche, economiche e sociali. A parere della scuola storica marxista la Riforma luterana nacque per l’azione simultanea di un fenomeno politico (l’opposizione della nobiltà tedesca al centralismo imperiale e al controllo delle nomine ecclesiastiche da parte della Santa Sede) e di un fenomeno sociale (ovvero i fermenti delle masse contadine tedesche). In quest’ottica la crisi spirituale di Lutero e la sua riflessione teologica non vengono considerate dati significativi e ciò induce a ritenere il padre della Riforma unicamente un agitatore popolare figlio di un contadino oppresso, destinato a guidare una popolazione esasperata alla rivolta. La tesi marxista risulta essere riduttiva ed ideologicamente connotata, dal momento che induce a considerare la Riforma come il travestimento religioso di una crisi economico-sociale, e presenta molti elementi di debolezza. Ad esempio è possibile rilevare che Lutero non era espressione diretta della classe contadina, dal momento che proveniva da una famiglia moderatamente agiata, inoltre la tesi secondo cui la Riforma fece presa solo sulla classe contadina è contraddetta dal fatto che coinvolse anche mercanti, borghesi e addirittura principi grazie alla forza del suo messaggio. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). L’insoddisfazione per le tradizionali impostazioni storiografiche di tipo controversistico volte ad assegnare certificati di valore agli uni o agli altri, cominciò a manifestarsi nel secondo Ottocento, quando si cercò di capire la vera realtà della Riforma collocandola in un più ampio contesto storico- culturale-religioso. A muovere gli storici in questa direzione non furono tanto aspirazioni ireniche ed ecumeniche, quanto piuttosto una maggiore consapevolezza della specificità del lavoro storico e in particolare della necessità di una più viva attenzione a tutta “Quella storia della cultura intellettuale, delle arti belle, delle lettere, delle scienze teoriche e della tecnologia, della vita economica e sociale” che certamente la storiografia precedente non aveva del tutto ignorata, ma aveva collocato in una posizione “ancillare” rispetto ai suoi prevalenti interessi confessionali. Non si vuol dire con questo che delle precedenti impostazioni non restasse nulla: nel mondo cattolico, ancor più che in quello protestante, permaneva nei confronti della riforma una posizione di rifiuto e di condanna, tanto che lo stesso Lortz [che nel 1942 scrisse La Riforma in Germania, edito da Jaca Book nel 1979], uno dei primi a riconoscere che la Riforma ebbe un valore positivo nella storia d’Europa e perfino nella storia del cristianesimo, la giudicava globalmente una “Catastrofe”. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Resta comunque il fatto che dinanzi alla complessità dei problemi contemporanei, lontanissimi dai conflitti religiosi del XVI-XVIII secolo, è diventato più agevole per gli storici accostarsi a quegli avvenimenti senza proiettarvi sopra, con la medesima immediatezza del passato, le convinzioni e le scelte del presente. Oggi, nei testi cattolici, ad esempio, Lutero non è più l’eretico, il depravato, il tutti coloro che partecipavano a guerre contro i nemici politici dello Stato della Chiesa o alle repressioni contro i pagani e gli eretici. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 1 (VI). L’inizio della situazione di disordine interna alla Chiesa cattolica può essere ricondotto al pontificato di Benedetto Caetani, salito al soglio col nome di Bonifacio VIII (1294-1303) dopo l’abdicazione di papa Celestino V (Pietro del Morrone) che regnò per solo quattro mesi. Il pontificato di Bonifacio VIII fu caratterizzato dalla lotta per affermare i principi della teocrazia alto- medievale contro le nuove tendenze spirituali e contro le monarchie europee che stavano portando a compimento il processo di stabilizzazione del proprio potere, contribuendo allo sviluppo di un senso di identità nazionale all’interno dei loro Stati. Bonifacio VIII non intendeva adattare il proprio magistero alle circostanze storiche e si ricollegava direttamente alle concezioni di Innocenzo III (1198-1216). In ambito religioso soffocò i nuovi movimenti spirituali che reclamavano il ritorno della Chiesa cattolica al messaggio evangelico, mentre in ambito politico il suo principale avversario fu il re di Francia Filippo IV il Bello. Il re fondava la sua concezione dell’autorità regia sul principio del diritto romano secondo cui rex in Regno suo est imperator, ovvero sull’idea che il sovrano deve interpretarsi come sciolto da ogni autorità nell’amministrazione del proprio territorio. In conformità a tale principio, Filippo il Bello riconosceva l’autorità del papa esclusivamente nella sfera spirituale e non tollerava ingerenze di tipo politico. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 1 (VII). In previsione di una guerra contro l’Inghilterra, Filippo il Bello impose tributi straordinari al clero e Bonifacio VIII reagì emanando la bolla Clericis laicos (1296) con la quale vietò l’esazione di tasse sui beni ecclesiastici senza l’autorizzazione della Santa Sede. Filippo il Bello rispose proibendo il trasferimento di denaro all’estero, mossa che fece cessare l’ingente flusso di elemosina francesi destinate a Roma e Bonifacio VIII permise allora al clero di contribuire alle necessità del Regno offrendo un donativo straordinario al sovrano. Alla fine del XIII secolo la controversia tra il papa e il re si riaccese e Bonifacio VIII condannò il comportamento del sovrano nella bolla Ausculta fili (1301), convocando anche un Concilio a Roma per l’anno successivo. Filippo il Bello impedì la diffusione della lettera in Francia e fece realizzare un falso documento in cui il papa rivendicava estese prerogative in campo politico, così da sollevare contro il pontefice la nobiltà francese, poi nel 1302 riunì gli Stati generali per discutere l’atteggiamento che la cristianità francese avrebbe dovuto mantenere nei confronti di Bonifacio VIII. Nello stesso anno il papa emanò la bolla Unam sanctam con la quale si ribadiva l’unità della Chiesa cattolica sotto un solo capo, la supremazia papale su tutti i sovrani (in base alla teoria medievale delle “due spade”, elaborata nel V secolo da papa Gelasio I) e la funzione della Chiesa cattolica come unico strumento di salvezza. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 1 (VIII). Nel 1303 il Parlamento di Parigi condannò il papa per simonia ed eresia e gli intimò di difendersi davanti a un Concilio ecumenico. Bonifacio VIII riaffermò l’autorità papale negando che un Concilio potesse esserle superiore ed emanò la bolla Super petri solio con cui il re di Francia era scomunicato e deposto. Degli esponenti della famiglia romana dei Colonna, da sempre nemici della famiglia dei Caetani a cui apparteneva Bonifacio VIII, invasero la città di Anagni, dove il papa risiedeva, e lo fecero prigioniero. Il popolo insorse e liberò il pontefice che, minato nel fisico e nello spirito, morì nell’ottobre 1303. Con la morte di Bonifacio VIII tramontò la concezione medievale della superiorità assoluta del potere papale e si aprì un periodo di crisi del pontificato. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Il conflitto fra papa Bonifacio VIII e Filippo il Bello di Francia è un momento importante anche nella storia delle idee politiche. Certo, esso fu un urto di interessi. Ma, siccome ripugnava alla concezione medievale della vita una politica che trovasse mera giustificazione in se stessa, fu anche scontro ideologico. Così le ambizioni papali di dominio universale in temporalibus e l’opposizione francese (la quale, poi, conteneva a sua volta aspirazioni di egemonia sulla cristianità) costituirono l’occasione di un’ampia disputa dottrinale, che, sotto il pungolo delle aspre circostanze, vide portare il discorso, da una parte e dall’altra, alle estreme conseguenze. […] Non è affatto un caso che nel suo estremo sforzo teocratico il papato urtasse contro l’opposizione della Francia. La Francia era all’avanguardia del processo evolutivo europeo: là si era venuta formando una classe politica, per molta parte espressione di una borghesia colta ed economicamente salda, la quale aveva un altissimo sentire della monarchia e (ciò che è particolarmente importante) del popolo francese, di cui proclamava il primato ed esaltava la missione, tanto che al proposito qualche storico ha creduto di poter parlare addirittura di nazionalismo e persino di sciovinismo. […] [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). A differenza delle altre [bolle di Bonifacio VIII] che hanno uno scoperto carattere di polemica immediata anche per essere indirizzate a un preciso destinatario, [la bolla Unam sanctam] ha natura di formulazione di principi. Certo, nell’insieme le motivazioni e le conclusioni non sono nuove, le linee dottrinali di fondo sono quelle stesse che si trovano nelle altre bolle; ma qui sono insieme, tutte esplicite e svolte in modo pieno e organico. Sebbene complesso, in sostanza il discorso si articola in due parti: la prima tratta della costituzione della Chiesa, la seconda dei poteri che ne conseguono. Dopo aver proclamato drasticamente che non c’è che una Chiesa e che essa ha un’unica testa, cioè Cristo e il vicario di Cristo, Pietro e i successori di Pietro, la bolla si serve dell’allegoria delle due spade per asserire la pienezza del potere ecclesiastico anche nella sfera temporale. E’ vero che la distinzione fra potere civile e religioso non è negata, bensì è di subordinazione dell’uno all’altro, che se la spada spirituale dev’essere adoperata dalla Chiesa per mano di sacerdoti, la temporale dev’esserlo “per mano dei re e dei cavalieri, ma secondo la volontà del sacerdote”. Insomma l’autorità temporale “deve essere sottoposta alla potestà spirituale”, poiché questa è superiore per dignità e nobiltà, come fra l’altro (ed è argomento da ricordare) testimonia anche l’uso della consacrazione dei sovrani. Ne deriva che la Chiesa, cioè il papa, ha persino il diritto e il dovere di istituire e giudicare il potere civile. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). Sono tali risolute proposizioni a dare il significato alla formula finale: “Noi dichiariamo, affermiamo e definiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana, che essa sia sottomessa al pontefice di Roma” […] e a far vedere nell’Unam sanctam la più aperta e forte affermazione di imperialismo ecclesiastico che mai si apparsa in un documento ufficiale. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 18. La Riforma luterana rappresenta uno degli avvenimenti-chiave della prima età moderna e può essere collocata tra i fatti che più segnano la separazione tra Medioevo ed età moderna. Essa si configura come l’esito ultimo di una serie di movimenti che animarono la vita religiosa europea a partire dal XIII secolo, quindi non è da ritenere come un avvenimento senza radici. La Riforma fu percepita dai contemporanei come traumatica dal momento che ruppe l’unitarietà della Respubblica christiana costituitasi con l’accettazione del cristianesimo quale religione ufficiale dell’Impero romano. Nella mente dei contemporanei, tuttavia, era anche chiaro che essa non si era sviluppata con l’obiettivo di stravolgere la teologia cristiana, ma piuttosto con il fine di far cessare gli abusi all’interno della Chiesa cattolica. L’interpretazione della Riforma rappresenta da sempre una sfida per gli storici. Nel corso del tempo sono emerse tre principali scuole di pensiero o tradizioni: la “tesi tradizionale” (secondo cui la Riforma sarebbe stata un fenomeno di risposta agli abusi e ai disordini presenti nella Chiesa cattolica e nella Curia romana), la “tesi protestante” (che interpreta la Riforma come l’esito della volontà di restaurare il vero cristianesimo, snaturato dal dominio incontrastato dei pontefici romani) e la “tesi marxista” (caratterizzata dalla minimizzazione delle motivazioni religiose della Riforma e dall’esaltazione di quelle politiche, economiche e sociali). Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 19. La Riforma luterana può essere interpretata come il frutto di alcune tendenze di rinnovamento della Chiesa cattolica emerse fin dal XIII secolo e caratterizzate dalla volontà di ritornare alla purezza del cristianesimo delle origini. Fin dall’età medievale, infatti, in seno alla Chiesa cattolica si evidenziavano abusi – quali il nicolaismo, la simonia, il cumulo delle prebende e dei benefici, il mancato rispetto dell’obbligo di residenza dei presuli, il malcostume dei religiosi e la vendita delle indulgenze – che ne compromettevano gravemente l’immagine nei confronti dei fedeli, stimolando l’azione dei movimenti religiosi rigoristi che chiedevano a gran voce una riforma della Chiesa fondata sull’applicazione diretta del messaggio evangelico. La Riforma luterana appare come una conseguenza diretta di tale clima, come del resto dello stato di disordine ideologico che regnava all’interno della Chiesa cattolica a causa dell’evidente declino della teocrazia papale. Il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), caratterizzato da una serie di scontri politico-giuridici con il re di Francia Filippo IV il Bello, segnò in effetti il definitivo superamento delle teorie sulla potestà temporale universale del papa e – nonostante la riaffermazione pontificia delle proprie prerogative in ambito politico con la bolla Unam sanctam (1302) – si concluse con il trionfo del potere civile su quello religioso. Alla morte di Bonifacio VIII il clima di confusione appariva ancora più evidente e tale situazione di incertezza avrebbe presto portato ad una nuova crisi con il trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone. Lezione 20 – Le cause religiose della Riforma luterana 2 (I). La morte di Bonifacio VIII nel 1303 segnò il tramonto della concezione teocratica medievale e si aprì un periodo di crisi del pontificato. Il successore di Bonifacio VIII, Benedetto XI (Nicolò Boccassini) regnò per soli due anni e cercò in tutti i modi di difendere la memoria del suo predecessore, illustrandone il ruolo di difensore a oltranza dell’ortodossia cattolica. Il tentativo di difesa, tuttavia, apparve inopportuno già ai contemporanei, dal momento che la politica papale di Bonifacio VIII non era stata improntata tanto alla difesa della fede cattolica, quanto al mantenimento ostinato delle prerogative politiche del papa, decisamente negate dal re di Francia Filippo IV il Bello. Gli scontri tra Bonifacio VIII e il sovrano francese rappresentavano solo l’avanguardia di un problema politico sentito da tutti i più importanti sovrani europei, dal momento che la rivendicazione pontificia della sovranità universale anche in ambito politico cadeva in un momento in cui le principali nazioni europee – soprattutto la Francia, l’Inghilterra e la Spagna – avevano iniziato un processo di rafforzamento della propria struttura statale, che non poteva escludere una precisa definizione delle prerogative regie. Alla morte di Benedetto XI (1305) – dopo quasi un anno di conclave, a Perugia – venne eletto papa Bertrand de Goth, arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V. Il nuovo pontefice subì presto pesanti pressioni da parte del re di Francia Filippo il Bello, che ne condizionò la politica. Non bisogna dimenticare che gli stessi ordini religiosi furono fortemente contestati dagli stessi papi avignonesi. I francescani, ad esempio, furono osteggiati da Giovanni XXII per la loro enfasi sull’assoluta povertà di Cristo; lo scontro degenerò al punto che alcuni dei pensatori francescani di punta, come Michele da Cesena e Guglielmo di Occam, si schierarono con l’imperatore Ludovico il Bavaro contro il papa. In linea generale il periodo avignonese fu caratterizzato dalla tendenza dei pontefici ad ingerirsi nelle questioni politiche utilizzando i propri strumenti spirituali, come la scomunica. Si trattava di una dinamica già presente nel pieno Medioevo, ma portata all’eccesso. Il popolo cristiano vide con preoccupazione la decadenza morale del papato e iniziò a chiedere a gran voce una riforma complessiva della Chiesa cattolica, senza distinguere tra riforma morale, riforma istituzionale e riforma dogmatica. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). Che ci sia una e una sola santa Chiesa cattolica ed apostolica noi [la formula del plurale majestatis, con cui il pontefice indica se stesso] siamo costretti a credere ed a professare, spingendoci a ciò la nostra fede, e noi questo crediamo fermamente e con semplicità professiamo, ed anche che non ci sia salvezza o remissione dei nostri peccati fuori di lei […]. Al tempo del diluvio, invero, una sola fu l’arca di Noè, raffigurante l’unica Chiesa; era stata costruita da un solo braccio, aveva un solo timoniere e un solo comandante, ossia Noè, e noi leggiamo che fuori di essa ogni cosa sulla terra era distrutta […]. In quest’unica e sola Chiesa ci sono un solo corpo ed una sola testa, non due, come se fosse un mostro, cioè Cristo e Pietro, vicario di cristo e il successore di Pietro; perché il signore disse a Pietro: “Pasci il mio gregge”. “Il mio gregge”, Egli disse, parlando in generale e non in particolare di questo o quel gregge; così è ben chiaro, che Egli gli affidò tutto il suo gregge. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Se perciò i Greci [ovvero i fedeli della Chiesa ortodossa, staccatasi da Roma con lo Scisma d’Oriente del 1054] od altri affermano di non essere stati affidati a Pietro e i suoi successori, essi confessano di conseguenza di non essere del gregge di Cristo perché il signore dice in Giovanni che c’è un solo ovile, un solo e unico pastore. Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale, perché, quando gli apostoli dissero: “Ecco qui due spade” – che significa nella Chiesa, dato che erano gli apostoli a parlare – il signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti. […] Quindi ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale; una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la prima dal clero, la seconda dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. […] Ma è necessario che chiaramente affermiamo che il potere spirituale è superiore ad ogni potere terreno in dignità e nobiltà, come le cose spirituali sono superiori a quelle temporali. [segue] Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (III). Il che, invero, noi possiamo chiaramente constatare con i nostri occhi dal versamento delle decime, dalla benedizione e santificazione, dal riconoscimento di tale potere e dall’esercitare il governo sopra le medesime, poiché, e la verità ne è testimonianza, il potere spirituale ha il compito di istituire il potere terreno e, se non si dimostrasse buono, di giudicarlo. Così si avvera la profezia di Geremia riguardo alla Chiesa e il potere della Chiesa: “Ecco, oggi Io ti ho posto sopra le Nazioni e sopra i Regni” ecc. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 20. Alla morte di Bonifacio VIII (1303) salì al soglio pontificale Benedetto XI (1303-5), a cui succedette Clemente V (1305-14) che, in seguito alle pesanti pressioni del re di Francia Filippo IV il Bello, nel 1309 trasferì la sede papale ad Avignone, dando così inizio al periodo della cosiddetta “cattività avignonese”. A Clemente V succedette Giovanni XXII (1316-34) il cui pontificato fu caratterizzato da un forte nepotismo e da frequenti scontri con l’imperatore Ludovico il Bavaro. Nell’ambito di tali lotte politiche, l’imperatore depose Giovanni XXII e indusse il popolo romano a nominare un nuovo pontefice, l’anti-papa Niccolò V. La serie dei papi avignonesi continuò con Benedetto XII (1334-42), Clemente VI (1342-52), Innocenzo VI (1352-62), Urbano V (1362-71) e Gregorio XI (1371-8), che nel 1378 riportò la sede papale a Roma. Il periodo del papato avignonese può essere interpretato come una fase di esilio del pontificato, sottoposto alla forte di ingerenza della monarchia francese che impose papi, cardinali, santi e beati in prevalenza francesi. I pontefici in carica dal 1305 al 1379 si macchiarono frequentemente di nepotismo, utilizzarono la loro autorità spirituale per raggiungere obiettivi politici, governarono in modo accentrato ed instaurarono un forte fiscalismo. Lo shock generato nel popolo cristiano dal trasferimento della sede papale si accompagnò alla confusione dovuta alla nomina di un anti-papa e alla scissione interna ad alcuni ordini religiosi, facendo emergere in modo sempre più evidente la necessità di una riforma radicale della Chiesa. Lezione 21 – Le cause religiose della Riforma luterana 3 (I). Nel 1378 Gregorio XI riportò la sede papale a Roma, ma morì poco dopo il suo ritorno nella città. Il popolo romano entrò in uno stato di agitazione temendo che i cardinali – in gran parte francesi in seguito alle numerose nomine effettuate durante il periodo della “cattività avignonese” – potessero eleggere un pontefice francese, magari favorevole al ritorno ad Avignone. Il conclave ebbe uno svolgimento tumultuoso e venne interrotto una prima volta dal popolo romano. I cardinali, atterriti, indicarono come papabile l’arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano. Dopo due ulteriori turni di elezione, il popolo romano irruppe di nuovo nella sede del conclave: una parte dei cardinali fuggì, mentre un’altra parte indicò come papabile il cardinale romano Trebaldeschi. Ricostituitosi nella sua unità, il conclave elesse da ultimo Prignano che assunse il nome di Urbano VI. Il nuovo pontefice manifestò presto comportamenti violenti, rimproverando aspramente i cardinali e ricoprendoli di insulti. La fazione francese interna al Collegio cardinalizio decise quindi di riunirsi ad Anagni e di emanare una enciclica in cui l’elezione di Urbano VI era dichiarata invalida perché estorta dalla folla. Successivamente un numeroso gruppo di cardinali francesi e italiani si riunì a Fondi in un nuovo conclave che scomunicò Urbano VI ed elesse quale nuovo pontefice il cardinale Roberto di Ginevra che assunse il nome di Clemente VII e fissò la sua sede ad Avignone. Lezione 21 – Le cause religiose della Riforma luterana 3 (II). L’elezione di Clemente VII, un anti-papa in quanto eletto contro il diritto canonico e da una porzione del Collegio cardinalizio riunita in conclave, aprì uno scisma interno alla Chiesa, che dagli studiosi di storia del cristianesimo viene definito “scisma d’Occidente”. La presenza di due papi obbliga ad affrontare la storia del pontificato tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo seguendo due linee parallele. In ambito romano, Urbano VI scomunicò l’anti-papa avignonese, successivamente depose la regina di Napoli e affidò il Regno al nobile Carlo Durazzo, scomunicandolo però poco dopo a causa di alcuni contrasti di natura politica. Carlo assediò il papa presso Nocera, ma il pontefice venne liberato da una flotta genovese che lo ricondusse a Roma nel 1378. Alla morte di Urbano VI (1379) il soglio venne assunto dal cardinale Pietro Tomacelli con il nome di Bonifacio IX (1381-1404). A Bonifacio IX successe il cardinale Cosimo de’ Migliorati con il nome di Innocenzo VII (1404-6), che si adoperò per comporre lo scisma senza ottenere però risultati apprezzabili. Alla sua morte, i cardinali elettori riuniti in conclave pubblicarono la Capitolazione elettorale, un documento secondo cui il futuro papa avrebbe dovuto riunire un Concilio per risolvere la situazione dello scisma. Il conclave elesse il cardinale Angelo Correr, con il nome di Gregorio XII (1406-17), che tuttavia non tenne fede alla Capitolazione elettorale, indisposto anche dall’atteggiamento dell’anti-papa avignonese. Lezione 21 – Le cause religiose della Riforma luterana 3 (III). In ambito avignonese, a Clemente VII successe il cardinale Pedro Martínez de Luna, che assunse il nome di Benedetto XIII. Il nuovo anti-papa si dimostrò inflessibile nel difendere la legittimità della propria elezione, aggravando in questo modo la situazione dello scisma. L’inflessibilità di Benedetto XIII infastidì anche il clero francese che tentò la via della “sottrazione di obbedienza” dichiarandosi non obbligato a seguire l’obbedienza romana o quella avignonese. Si andava così delineando una situazione di frammentazione religiosa ancora più pericolosa, che venne risolta nel 1403 – su mediazione del rettore dell’università di Parigi, il teologo Jean Gerson – con la “restituzione di obbedienza” al papa avignonese. Quando i cardinali riuniti in conclave proclamarono la Capitolazione elettorale, Benedetto XIII accolse favorevolmente l’idea di un futuro Concilio, con la speranza di poter risultare l’unico pontefice. Dopo l’elezione, però, il pontefice romano Gregorio XII non tenne fede al documento emanato dal conclave e ciò allontanava la prospettiva di una veloce risoluzione dello scisma. Sotto pressione dell’opinione pubblica, i due pontefici promisero di incontrarsi per discutere di un’eventuale abdicazione comune, ma presto si delineò l’impossibilità di un accordo. Molti cardinali di entrambe le obbedienze cominciarono ad organizzarsi per l’indizione di un Concilio nonostante l’opposizione dei papi, ma alla fine i pontefici accettarono di aprire una discussione sull’abdicazione. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 3 (IV). Invece di aprire un grande Concilio, Gregorio XII e Benedetto XIII aprirono due “conciliaboli” separati a Cividale e a Perpignan, suscitando la protesta dei cardinali di entrambe le obbedienze che imposero l’apertura di un Concilio comune. Nel 1409 si aprì dunque il Concilio di Pisa che dichiarò entrambi i pontefici scismatici ed eretici ed elesse un nuovo papa, il cardinale Pietro Filargi, arcivescovo di Milano, che assunse il nome di Alessandro V. Gregorio XII e Benedetto XIII non rinunciarono tuttavia ai loro diritti e così da una situazione di doppia obbedienza si giunse ad una triplicità ancora peggiore. Nel 1410 Alessandro V morì e il conclave riunito a Bologna elesse il cardinale Baldassarre Cossa, con il nome di Giovanni XXIII (1410-15). Il nuovo pontefice venne riconosciuto da tutti i principali Stati europei, ma il suo comportamento discutibile fece presto cadere l’entusiasmo per l’obbedienza pisana. Giovanni XXIII era comunque il vero pontefice e a lui si appellò l’imperatore Sigismondo del Sacro Romano Impero, che comprese la necessità di un intervento imperiale per chiudere lo scisma. L’imperatore indusse il papa a convocare un Concilio che si aprì nel 1414 a Costanza. L’imperatore spinse i padri conciliari ad adottare un nuovo criterio di votazione in base al quale i voti sarebbero stati contati per Nazione d’appartenenza, non su base individuale, togliendo in questo modo ai padri italiani la loro superiorità numerica. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 3 (V). In seguito ad alcuni contrasti con l’imperatore Sigismondo e con l’assemblea, Giovanni XXIII fuggì da Costanza. Il Concilio proseguì i suoi lavori e nell’aprile del 1415 venne approvato un decreto redatto dal cardinal Zabarella, l’Haec sancta, che affermava la superiorità del Concilio sul papa (posizione di per sé eretica). Giovanni XXIII venne ricondotto a Costanza e deposto per simonia, Eugenio IV, aprì il Concilio di Basilea, imponendone poi lo spostamento a Firenze (1438-9). Una parte del Collegio cardinalizio si oppose alla decisione papale e convocò un nuovo Concilio a Ferrara (1438) nominando anche un nuovo pontefice, Felice V. Per risolvere definitivamente la situazione di scisma, nel 1447 venne convocato il Concilio di Basilea, durante il quale venne eletto un pontefice unico, Niccolò V (1447- 55). Lezione 22 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (I). Le vicende legate al Concilio di Pisa (1409), al Concilio di Costanza (1414-8), al Concilio di Basilea (1431) e ai Concili di Firenze e Ferrara (1438-39) avevano riportato in auge le pericolose teorie conciliariste. Si trattava delle teorie secondo le quali un Concilio avrebbe avuto un’autorità superiore a quella del pontefice. In quest’ottica il Concilio avrebbe sempre dovuto essere convocato dal papa, come prescritto dal diritto canonico, ma una volta riunito avrebbe anche potuto svolgersi senza la presenza del pontefice o addirittura sottoporre a verifica l’operato del papa. Tale linea di pensiero, portata all’estremo, poteva implicare l’idea che il Concilio fosse destinato a svolgersi in seduta permanente, costituendo quasi un organismo collegiale di governo della Chiesa, totalmente sostitutivo nei confronti del pontefice. Le teorie conciliariste erano emerse per la prima volta alla metà dell’XI secolo quando il teologo Umberto da Silva Candida aveva recuperato delle teorie già circolanti nel VII secolo. Secondo tali teorie un papa caduto in eresia avrebbe potuto essere sottoposto al giudizio di un Concilio, che se necessario lo avrebbe deposto provvedendo in seguito alla nomina di un nuovo pontefice attraverso la convocazione del conclave. Tra l’XI e il XII secolo le teorie conciliariste erano state riprese dal canonista Ivo di Chartres che le aveva formalizzate in modo pressoché definitivo, ovvero nel senso in cui furono utilizzate nei vari Concili dal 1409 al 1439. Lezione 22 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (II). Ivo di Chartres non metteva in discussione il fatto che l’autorità suprema sulla Chiesa appartenesse al pontefice, in quanto vicario di Cristo, ma ammetteva la possibilità che il pontefice – pur sempre un uomo – potesse cadere nell’eresia o dare vita ad uno scisma per motivi mondani. In tale caso il pontefice avrebbe dovuto essere giudicato da un Concilio convocato di necessità dai vescovi o da un’autorità civile (preferibilmente l’imperatore del Sacro Romano Impero, considerato il difensore secolare della fede cattolica). Il Concilio avrebbe dovuto emettere una sentenza “declaratoria” con la quale si prendeva atto del fatto che il pontefice aveva perso la sua autorità in seguito al delitto di cui si era macchiato. Studiando attentamente tale meccanismo alla luce del diritto canonico, Ivo di Chartres ritenne che la provvidenza stessa avesse previsto tale soluzione in modo da salvare la Chiesa da un momento critico. La teoria di Ivo di Chartres si rivelava seducente, sia perché fondata sullo studio accurato del diritto canonico, sia perché non si rivelava in contraddizione con il primato papale sugli altri vescovi. La potestà pontificia non era infatti negata dall’eventuale Concilio riunito per giudicare il papa, ma ritenuta soggetta ad un esercizio abusivo in relazione al delitto commesso dal pontefice. Nel corso del XIV secolo, la riflessione sui rapporti tra il pontefice e il Concilio prese un orientamento decisamente più radicale. Lezione 22 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (III). Figure quali Marsilio da Padova (nella sua opera Defensor pacis) e Guglielmo di Occam (il maggior esponente del pensiero filosofico francescano) contestarono infatti l’idea che la Chiesa avesse ricevuto da Cristo un’impostazione monarchica e verticistica. A loro parere il potere papale si era trasformato nel corso del tempo da una potestà spirituale in una potestà monarchica e assoluta, ma ciò era da ritenere un abuso dal momento che sarebbe stato preferibile introdurre nel governo della Chiesa una certa collegialità permettendo ad un Concilio permanente di divenire organo legislativo della Chiesa. In quest’ottica il pontefice avrebbe assunto le prerogative di un sovrano costituzionale, esecutore delle leggi promulgate dal Concilio. Nel corso del XIV secolo, stante anche la situazione di forte instabilità all’interno della Chiesa, le teorie conciliariste vennero sostenute da molti intellettuali, la maggioranza dei quali erano legati all’università di Parigi. Figure quali Jean Gerson, Pierre d’Ailly, Einrich Langenstein, Konrad von Gelnhausen e Nicolas de Clemanges proposero apertamente nei loro scritti la possibilità di convocare un Concilio per la risoluzione dello scisma generatosi ai tempi di Urbano VI e di Clemente VII. A loro parere lo scisma poteva concludersi solo ricorrendo a tre strategie: la via cessionis (ovvero la rinuncia dei due papi contendenti, la via compromissionis (ovvero l’arbitrato) e la via concilii (ovvero la convocazione di un Concilio che deponesse i due papi nominandone uno solo). Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (IV). Per quanto eretiche, le teorie conciliariste ebbero notevole diffusione nel periodo di confusione compreso tra l’inizio della “cattività avignonese” e il Concilio di Basilea. Le dinamiche, molto complesse, di quel periodo scatenano discussioni anche fra gli storici attuali che riflettono in particolare sulla legittimità della convocazione del Concilio di Costanza (1414-8). Esso, infatti, venne convocato da Giovanni XXIII dietro lo sprone dell’imperatore Sigismondo del Sacro Romano Impero, preoccupato soprattutto della situazione di instabilità anche politica che lo scisma aveva generato in Europa. Il fatto che il pontefice abbandonasse l’assemblea in seguito a dei contrasti con Sigismondo e che questa continuasse senza la presenza del papa, addirittura convocandolo d’autorità e deponendolo, è oggi valutato dagli studiosi di storia del cristianesimo come un segnale di illegittimità del Concilio. Un altro nodo problematico su cui gli studiosi riflettono è rappresentato dal decreto Haec sancta, redatto dal cardinal Zabarella e approvato dal Concilio di Costanza nell’aprile del 1415. Sembra che tale documento debba essere considerato privo di un autentico valore giuridico e interpretato come espressione di un conciliarismo moderato. Una misura legislativa e non dottrinale, quindi, valida per la situazione eccezionale generata dallo scisma. Al di là del problema dell’Haec sancta, tutti gli studiosi concordano nell’interpretare il Concilio di Costanza come l’apice del conciliarismo. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (V). L’impressione che le teorie conciliariste si fossero ormai radicate tra gli ecclesiastici di più alto rango deve essere stata forte anche nel XV secolo, non a caso un pontefice politicamente accorto quale Pio II (Enea Silvio Piccolomini) avvertì la necessità di condannare definitivamente tali concezioni con il decreto Execrabilis del 1460, che ribadiva la suprema autorità papale e la subordinazione di ogni Concilio al pontefice. L’emergere delle teorie conciliariste e il loro progressivo rafforzamento deve essere interpretato come un ulteriore sintomo della crisi interna alla Chiesa cattolica. I Concili del XV secolo rivelarono una cristianità divisa, all’interno della quale non erano chiari neppure i limiti dell’autorità pontificia e quindi le basi della struttura gerarchica della Chiesa. L’età dei Concili può essere considerata rilevante non solo in riferimento alla cristianità universale, ma anche alla storia delle singole Chiese nazionali. La frammentazione della Chiesa cattolica monolitica andò infatti di pari passo con la conclusione del processo di rafforzamento delle principali monarchie nazionali europee. In Francia, ad esempio, la confusione generata dai ripetuti scismi e dai frequenti Concili venne sfruttata dalla monarchia per emanare la Prammatica sanzione di Bourges (1438) che recepiva nel corpus delle leggi statali molti decreti emanati dal Concilio di Basilea in relazione al rapporto di obbedienza tra il clero e il pontefice. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (VI). Accettando la critica alla supremazia papale svolta dal Concilio di Basilea in conformità al pensiero conciliarista, la monarchia francese riconosceva la possibilità che il clero nazionale tributasse al pontefice solo un’obbedienza formale, rispondendo in realtà direttamente al sovrano. Tale interpretazione andava nella direzione della creazione di una Chiesa nazionale francese, parzialmente indipendente da Roma. In ambito tedesco, il malessere derivato dalla situazione di scisma e l’ostilità nei confronti del centralismo romano sfociarono nella redazione dei Gravamina nationis germanicae, una raccolta di scritti curata dall’arcivescovo di Magonza alla metà del XV secolo. I principi cattolici regnanti su alcuni piccoli Stati tedeschi protestarono contro la potestà politica dei pontefici imponendo tasse anche al clero, generando così uno stato di tensione con Roma che in un secondo tempo avrà un peso determinante nella Riforma luterana. In Boemia, la “cattività avignonese” e la situazione di scisma avevano generato le condizioni ideali per il radicarsi dell’eresia hussita, derivata dagli insegnamenti del teologo e giurista Jan Hus. Giunto a Costanza per giustificare le proprie concezioni, Hus venne incarcerato e bruciato sul rogo per volontà dell’imperatore Sigismondo che temeva la trasformazione del movimento religioso hussita in una rivolta politica contro il centralismo asburgico. La morte di Hus aprì il periodo delle “Guerre hussite” che videro numerose atrocità sia da parte dei ribelli, sia da parte delle forze imperiali. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 4 (VII). In Inghilterra la “cattività avignonese” ebbe come conseguenza lo sviluppo di una grande diffidenza del cattolicesimo nazionale nei confronti del pontefice. Lo scoppio della Guerra dei Cent’anni (1337- 1453) e la presenza di una serie di pontefici francesi indussero il popolo cristiano inglese a considerare il papato come un’istituzione lontana, corrotta e controllata dalla Francia. In tale clima di scontento ripresero vigore le dottrine eretiche di John Wyclife, che fin dalla metà del XIV secolo criticava gli abusi della Chiesa chiedendo a gran voce una riforma. In Spagna, invece, la situazione di scisma non compromise la saldezza del cristianesimo nazionale: l’unità religiosa era infatti alla base di quella politica e proprio per contrastare l’emersione di movimenti eretici a sfondo riformatore e pauperistico ebbe origine l’Inquisizione. Ovunque il popolo cristiano visse la situazione di scisma e l’affermarsi del conciliarismo con sgomento, interpretando tali dinamiche come il segno più evidente della necessità di una riforma radicale della Chiesa. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento 1 (I). Scheda biografica su Ivo di Chartres. Ivo (o Ivóne) di Chartres (latinizzato in Ivo Carnotensis), santo, canonista (nato nella regione di Beauvais nel 1040 circa – morto a Chartres nel 1116). La sua attività è importante per la partecipazione alla riforma ecclesiastica e alla polemica per le investiture, in cui si mostrò di spirito conciliante. Compose due notevoli raccolte canoniche: Decretum e Panormia, in cui, dietro l'esempio di Burcardo di Worms [un altro canonista], riunì i decreti, le lettere, le deliberazioni dei papi e dei concili, servendo in seguito come fonte alla grande opera di Graziano. Studiò a Parigi poi all'abbazia di Le Bec, dove ebbe a maestro Lanfranco di Pavia; abate di Saint-Quentin a Beauvais (1078), divenne vescovo di Chartres e in questa occasione si recò a Roma per la conferma (1090). Molto importante è l'opera di Ivo nella storia delle collezioni di diritto canonico; si attribuiscono a lui tre collezioni di leges e canones: Collectio tripertita e i già citati Decretum e Panormia. La Collectio tripertita, nelle due prime parti (anteriori al Decretum) contiene una raccolta di auctoritates (in ordine cronologico) sulle quali si deve edificare il diritto: sono tratte dalle decretali pontificie, dai concilii, dai Padri [della Chiesa] e da altri autori ecclesiastici. lettura del Rinascimento è stata sostenuta dal Romanticismo, sempre propenso ad identificare una sottile rete di legami spirituali e ideali tra i vari periodi della storia umana. Lezione 23 – Le cause religiose della Riforma luterana 5 (III). Tanto la teoria della frattura quanto la teoria della continuità sembrano tuttavia dotate di un’ottica troppo semplificata e riduzionista per comprendere la vera natura di un movimento ampio e complesso come il Rinascimento. La loro manifesta insufficienza ha dunque portato allo sviluppo della cosiddetta teoria della diversità nella continuità secondo la quale il Rinascimento avrebbe integrato alcuni fermenti già presenti nel Medioevo, ma ne avrebbe parzialmente trasformato la fisionomia. In ambito religioso, ad esempio, tanto il Medioevo quanto il Rinascimento sono caratterizzati dalla volontà di scoprire il senso dell’umana vicenda; mentre il Medioevo, però, si rifugia nell’ambito spirituale (esaltando la fuga dal mondo, la rinuncia ai valori terreni e la subordinazione di tutte le attività umane alla religione), il Rinascimento si caratterizza invece per il rifiuto di una soprannaturalità che pare inverosimile e misteriosa, lontana dalle possibilità conoscitive della razionalità umana. Anche se il Rinascimento sembra risolversi in un assoluto razionalismo, in un trionfo di estetismo fine a se stesso e in un abbandono di ogni vincolo morale, la Riforma luterana evidenzia tuttavia il permanere di un vivo senso del peccato, quindi degli impulsi della coscienza. Tale clima complesso e contraddittorio rappresentò lo scenario nel quale ebbero luogo le riflessioni di Martin Lutero. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 5 (IV). Il Rinascimento rappresentò un fenomeno con il quale anche la Chiesa dovette misurarsi, proprio in un momento di grande debolezza interna conseguente alla conclusione dei grandi scismi che avevano segnato il periodo compreso tra l’inizio del XIV e la fine del XV secolo. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti del Rinascimento fu ambivalente: da un lato molti ordini religiosi – soprattutto quelli mendicanti, come i francescani – si rivelarono ostili nei confronti del nuovo clima intellettuale a causa del suo razionalismo e del suo relativismo, dall’altro lato molti papi manifestarono grande apertura intellettuale e furono essi stessi letterati. Uno dei pontefici quattrocenteschi più benevoli nei confronti del Rinascimento fu Niccolò V (1447-55) che si distinse per un ampio mecenatismo. L’opinione del pontefice sui rapporti tra la Chiesa e la cultura nelle sue varie forme è ben sintetizzata dal suo discorso sul letto di morte, in cui il papa dichiarò chiaramente che la protezione alla cultura rappresentava un titolo di merito per la Chiesa e ne accresceva il prestigio e l’autorità sia presso i dotti, sia presso gli ignoranti. Niccolò V si rifaceva al principio secondo cui la Chiesa aveva il dovere di raccogliere, indirizzare e proteggere tutte le attività intrinsecamente buone, rivelatrici dell’intelletto umano che era da considerare come una scintilla divina. La lodevole apertura manifestata da Niccolò V non può tuttavia far dimenticare che il Rinascimento appare all’osservazione degli storici come uno dei periodi più drammatici della storia della Chiesa cattolica. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 5 (V). Anche se la Chiesa tentò di assumere una posizione di guida dei nuovi fermenti artistici e letterari, infatti, molto spesso si dimostrò priva di equilibrio e non metabolizzò lo spirito di cambiamento insito nel Rinascimento continuando a tollerare molti abusi, dimostrando una scarsa moralità ed eludendo il problema di una Riforma radicale. Il Rinascimento appare quindi come un periodo chiaroscurale perché allo splendore culturale e al mecenatismo si contrapponeva uno spirito religioso lasso. Come già detto, Niccolò V fu un grande mecenate, promosse numerosi progetti culturali (come la fondazione della Biblioteca vaticana) e si impegnò nel rinnovamento architettonico di Roma, avviando il progetto per la costruzione della nuova basilica di San Pietro. Uno dei suoi successori, Pio II (Enea Silvio Piccolomini, 1458-64) fu un dotto umanista, molto versato nella storia, nella poesia e nella pedagogia. Anche se non immune da gravi colpe (aveva infatti alcuni figli naturali), rappresentò un grande esempio di pontefice rinascimentale, mantenendo un perfetto equilibrio tra la sua funzione pastorale e la protezione delle arti. In ambito politico, Pio II si impegnò senza successo per l’organizzazione di una crociata contro i Turchi ottomani, che ormai avevano conquistato l’Impero bizantino; in ambito religioso, invece, combatté contro le teorie conciliariste (decreto Execrabilis, 1460) e ottenne dal re di Francia Luigi XI l’abrogazione della Prammatica sanzione di Bourges, riportando il clero francese sotto il pieno controllo papale. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 5 (VI). Il successore di Pio II, Paolo II (Pietro Barbo, 1464-71) manifestò un atteggiamento più contraddittorio nei confronti della cultura: da un lato protesse le arti, dall’altro si oppose al gruppo degli umanisti romani. Il suo pontificato, d’altra parte, fu segnato da forti problematiche politiche, ad esempio scontri con il re di Francia Luigi XI e con il re di Boemia Giorgio Poděbrady, che fecero fallire i suoi progetti di crociate contro i Turchi ottomani e contro gli hussiti boemi. Il suo successore, Sisto IV (Francesco della Rovere, 1471-84) riprese in grande stile il mecenatismo al punto da essere considerato il tipico papa rinascimentale. Dopo essere salito al soglio grazie all’appoggio del duce di Milano e ai maneggi dei cardinali Orsini, Borgia e Gonzaga, Sisto IV si rivelò un pontefice fortemente nepotista, la cui attenzione era volta più ad una politica estera ambiziosa che non al governo della Chiesa, nel quale dimostrò grande autoritarismo. Sul piano politico fu coinvolto nella congiura dei Pazzi, stabilizzò la situazione in Boemia riconoscendo come re Mattia Corvino, concesse al re di Spagna di rivolgere l’Inquisizione contro i “marrani” (mussulmani convertiti) e gli apostati e cercò di promuovere l’idea di una nuova crociata, senza però riuscire a coinvolgere i sovrani europei. Sul piano culturale protesse artisti e letterati, arricchì la Biblioteca vaticana e fece erigere la Cappella Sistina e l’ospedale di Santo Spirito, considerati tra i capolavori dell’arte rinascimentale. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 5 (VII). A Sisto IV succedette Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo, 1484-92) che si rivelò una personalità spregiudicata. Fece ampio ricorso alla corruzione e alla simonia per elevare alle somme cariche ecclesiastiche figure che gli fossero fedeli e per primo fra i papi rinascimentali ostentò pubblicamente i propri figli naturali, a cui assegnò posizioni di rilievo nel governo della Chiesa. La sua politica estera fu contraddittoria e aggressiva, contrassegnata soprattutto da lunghe lotte contro il re Ferdinando di Napoli per il possesso dei territori al confine tra il Lazio e la Campania. Sul piano dottrinale fu completamente indifferente alle istanze di riforma provenienti non solo dal popolo cristiano e da numerose personalità religiose, ma anche da alcuni intellettuali. Particolarmente rilevante fu ad esempio la sua lotta contro Giovanni Pico della Mirandola (1463- 94), che nel 1486 gli presentò 900 tesi (Conclusiones) nelle quali era invocata una pubblica discussione su tutti i punti problematici della teologia e della filosofia medievale. Il papa condannò tredici tesi e indusse Pico della Mirandola ad abbandonare l’Italia. L’ostilità manifestata dal papa nei confronti dell’umanista può essere intesa come un rifiuto del Rinascimento stesso – di cui l’Oratio de hominis dignitate, premessa alle 900 tesi, è spesso considerata il manifesto – in controtendenza rispetto all’atteggiamento degli altri pontefici. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). L’immagine della nuova vita, della Rinascita, domina già l’epoca di Bonaventura, di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, del Rienzo, mantiene la sua efficacia sul sec. XV, e sul sec. XVI ne viene fissata la permanente validità. E questa immagine si riferisce già fin da principio a più che gli studi; serve già fin dal suo primo sorgere ad esprimere l’esigenza sentita dagli uomini principali,di un rapido mutamento, di una trasformazione della cultura spirituale dal principio della Chiesa e dello Stato, più tardi prevalentemente della letteratura e dell’arte, della vita etica e sociale. E’ la parola d’ordine della bramata trasvalutazione delle norme politiche e religiose, poi sempre più di quelle etiche ed artistiche. Accanto a questo deve essere accentuato con grande energia un dato di fatto importantissimo: quasi tutti gli scrittori italiani contemporanei, fossero poeti, dotti, artisti che espressero in considerazioni retrospettive il loro parere sul mutamento e sul nuovo slancio preso dalla cultura italiana, dalle arti e dalle scienze italiane, concepirono l’età di Dante e di Giotto come età del mutamento, del grande inizio. Specialmente al Vasari i tre secoli, Trecento Quattrocento e Cinquecento, sembrano costituire insieme un grande movimento d’ascesa nazionale. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). Chi limita cronologicamente il concetto di rinascita e ne esclude il secolo XIV, l’età del divenire dell’Umanesimo, l’età di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, ma anche di Giotto, dei Lorenzetti, dei potenti inizi di una nuova pittura a fresco e di una nuova scultura, si mette in contrasto con innumerevoli e concordanti espressioni e concezioni dei testimoni storici contemporanei. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 23. Se la situazione di scisma e l’avvento del conciliarismo costituirono lo scenario religioso della Riforma, il suo scenario intellettuale fu invece rappresentato dal Rinascimento, che si configura come un fenomeno culturale altamente complesso. Nel corso del tempo si sono sviluppate tre teorie storiografiche sul Rinascimento – la “teoria della frattura”, la “teoria della continuità” e la teoria della “diversità nella continuità” – tra le quali solo l’ultima può essere considerata non riduzionista e quindi capace di spiegare in modo esauriente il rapporto tra il Rinascimento e la precedente età medievale. Il Rinascimento rappresentò un fenomeno con il quale la Chiesa dovette confrontarsi e infatti, dalla metà del Quattrocento, si può registrare un aumento dell’interesse pontificio per le arti e la cultura. Papa Niccolò V (1447-55) protesse numerosi intellettuali; Pio II (1458-64) fu umanista, promosse senza successo una crociata contro i Turchi ottomani e condannò il conciliarismo (decreto Execrabilis, 1460); Paolo II (1464-71) ebbe invece un atteggiamento contraddittorio verso la cultura e si scontrò sia con il re di Francia Luigi XI, sia contro il re di Boemia Giorgio Poděbrady; Sisto IV (1471-84) fu il tipico pontefice rinascimentale, autoritario e nepotista; Innocenzo VIII (1484-92) fu anch’egli nepotista, spregiudicato e sordo alle istanze di riforma della Chiesa avanzate dal popolo cristiano e da alcuni intellettuali, come Giovanni Pico della Mirandola. Lezione 24 – Le cause religiose della Riforma luterana 6 (I). Tra i pontefici che meglio incarnarono lo spirito rinascimentale spicca naturalmente anche Alessandro VI (Rodrigo de Borjia, italianizzato in Borgia, 1492-1503). Proveniente da una famiglia spagnola estremamente ricca, il cardinale Borgia ebbe un ruolo importante nell’elezione di Sisto IV e assunse una posizione di estremo potere all’interno del Collegio cardinalizio. Divenuto papa nel “piccolo nepotismo”, ovvero della prassi di assegnare incarichi di rilievo a figure variamente collegate al pontefice. Il nepotismo risulta essere uno degli elementi caratterizzanti della Chiesa rinascimentale, ma non giovò al governo pontificio, dal momento che le cariche di primaria importanza tendevano ad essere assegnate ad incapaci. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 6 (VII). Altra tendenza della Chiesa rinascimentale appare essere il lusso imperante nell’ambiente curiale, dinamica che imponeva forti spese alle quali tutti i pontefici, in diversa misura, tentarono di ovviare permettendo agli alti ecclesiastici il cumulo dei benefici, praticando la vendita degli uffici, innalzando le tasse e promuovendo la vendita di indulgenze, pratiche che esacerbarono il malcontento del popolo cristiano generando le condizioni idonee per la Riforma. Accanto al nepotismo e al lusso, un’altra tendenza della Chiesa rinascimentale appare essere la volontà di organizzare una nuova crociata contro i Turchi ottomani, in piena fase espansiva. Il pericolo turco era reale, ma i pontefici non riuscirono ad ottenere la collaborazione dei sovrani europei perché l’idea di una lotta militare in nome della fede ormai tramontata. Niccolò V e Pio II cercarono di scuotere la coscienza dei principi cristiani, ma fallirono. Pio II convocò ad esempio una Dieta per indire la crociata, disertata dai sovrani cattolici. Lo spirito di crociata riemerse solo dopo le traversie della Riforma, con la vittoria di Lepanto (1571) e la difesa di Vienna dall’assedio ottomano (1683). Tutti i principali pontefici rinascimentali si rivelarono più interessati all’aspetto mondano dell’autorità papale che non alla risoluzione dei problemi della cristianità: le questioni problematiche vennero affrontate superficialmente, i progetti di riforma rimasero teorici e l’espansione missionaria nei nuovi territori scoperti fu lasciata allo zelo dei singoli sovrani. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 6 (VIII). La preoccupazione essenziale dei pontefici rinascimentali sembra essere stata l’ottenimento di risorse economiche per la sopravvivenza dello Stato della Chiesa e per il finanziamento della sua politica estera, che assunse a tratti i caratteri di un’autentica politica di potenza. Emblematiche sotto questo profilo sono l’indizione del Giubileo del 1500 da parte di papa Alessandro VI e la frequente vendita delle cariche ecclesiastiche più importanti. Di fronte all’aumentare dei soprusi e alla corruzione morale che caratterizzava il pontificato, il popolo cristiano attraversò il periodo rinascimentale con inquietudine, vedendo allontanarsi la possibilità di una riforma complessiva della Chiesa e svilirsi l’originario significato del messaggio evangelico. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (I). La “positività” della cultura del Rinascimento non è la presa di coscienza di un’età felice della vicenda umana. Nato sul terreno della cultura, e soprattutto su quello dell’arte, solo su quel piano il moto rinascimentale mantiene il suo valore “positivo” di conquista e di affermazione di certi valori umani, di certi progressi teorici e morali, contro una realtà che li negava, in un mondo di travaglio agitato da crisi profonde. I Regni di Saturno, l’età dell’oro [due tra i più importanti miti rinascimentali], vagheggiati con maggiore forza proprio perché sembrano tanto lontani dalla Terra. […] Il Rinascimento, giova insistere, nella positività che sembra intrinseca al termine stesso, non è il riflesso sul piano ideale di un rinascere di tutta la società, in tutti i suoi aspetti: è, al contrario, un fatto culturale di vastissima portata, i cui effetti opereranno sempre più in profondità, con ripercussioni sempre più vaste, ma gradualmente, col passare del tempo. Gli ideali di vita che l’Umanesimo italiano del secolo XV afferma con tanta passione, contro un modo che li ignora o li respinge, solo dopo lunghissime lotte riusciranno a determinare risultati concreti nella società. Sessione di studio 2 – Lettura di approfondimento (II). La tolleranza religiosa, la pace della fede, l’accordo delle credenze, così altamente teorizzati ed invocati dal cardinale Cusano [importante ecclesiastico ed umanista] a metà del Quattrocento, e poi gravemente ripresi nella sua sintesi platonico-cristiana da Marsilio Ficino [filosofo e letterato, 1433- 99] al cadere del secolo in un mondo travagliato da lotte di religione di ogni genere, e minacciato dai turchi, dovranno attendere secoli per farsi dottrine largamente accettate. […] Il Rinascimento trova un senso adeguato al termine solo sul terreno della cultura: è, innanzitutto, un fatto di cultura, una concezione della vita e della realtà che opera nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, nel costume. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 24. Papa Alessandro VI (1492-1503) – grande mecenate, ma anche politicamente spregiudicato e moralmente indegno – è una delle figure che meglio sintetizza le contraddizioni caratteristiche dei pontefici rinascimentali. Il suo successore Giulio II (1503-13) si impegnò nella politica estera (promosse la Lega anti-veneziana di Cambrai, 1509) e nel mecenatismo (protesse Bramante, Raffaello e Michelangelo), ma ignorò completamente le istanze di riforma della Chiesa. Leone X (1513-21), al contrario, si dimostrò sensibile a questa problematica e protesse Erasmo da Rotterdam, pur continuando ad essere nepotista. Leone X dovette anche affrontare la protesta di Lutero, come del resto i suoi successori Adriano VI (1522-3) e Clemente VII (1523-34), che si trovò a gestire lo scisma anglicano. Paolo III (1534-49) si impegnò nella politica estera (ad esempio promosse la stipula della Pace di Crépy del 1544 tra Carlo V e Francesco I), ma soprattutto convocò il Concilio di Trento (1545-63), che segnò l’inizio della Controriforma. In sintesi, durante il Rinascimento la Chiesa cattolica risultò afflitta dagli abusi che avevano caratterizzato l’età medievale, ma presento anche nuove tendenze negative quali il nepotismo, il lusso sfrenato, un forte fiscalismo, l’incapacità di coalizzare i sovrani cristiani in vista di una nuova crociata contro i Turchi ottomani, uno scarso impegno nell’evangelizzazione del Nuovo mondo e un sostanziale disinteresse per le istanze di riforma provenienti tanto dagli intellettuali, quanto dal popolo cristiano. Lezione 25 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (I). Dopo aver illustrato gli abusi interni alla Chiesa cattolica, le lotte di potere relative alla situazione di scisma, l’avvento delle teorie conciliariste e l’atteggiamento dei pontefici rinascimentali, per concludere l’analisi delle cause religiose della Riforma luterana è opportuno ricostruire sinteticamente il panorama dei movimenti filosofico-religiosi e delle tendenze spirituali che più hanno contribuito a generare il clima ideale all’interno del quale si sviluppò la riflessione di Lutero. Una simile indagine, anche se breve, richiede di prendere in considerazione numerosi movimenti, i cui caratteri dovranno essere ricostruiti nel dettaglio nel tentativo di comprendere il loro contributo alla Riforma. Nelle prossime lezioni verranno dunque considerati movimenti quali l’agostinismo, l’occanismo, il movimento fiammingo dei Fratelli della vita comune e l’hussitismo boemo, oltre a personalità quali Eckhart von Hochheim (1260-1327), Johannes Tauler (1300-61), John Wycliffe (1320-84), Jacques Lefèvre d’Étaples (1450-1536) ed Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Sarà inoltre necessario approfondire le origini della corrente religiosa definita “evangelismo” o “paolinismo”. I movimenti e le personalità menzionate appartengono in molti casi all’età medievale, ma la loro disamina costituisce un passaggio indispensabile per comprendere il retroterra culturale di Lutero e quindi le basi ideali della Riforma. Lezione 25 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (II). Il primo movimento del quale è necessario ricostruire la fisionomia è l’agostinismo, ovvero il complesso delle dottrine teologiche, filosofiche, storiche e politiche di Sant’Agostino (354-430). L’agostinismo si può in realtà suddividere in due componenti principali: in primo luogo l’“agostinismo filosofico” e in secondo luogo l’“agostinismo politico”. Con riferimento all’agostinismo filosofico, è indispensabile ricordare che, pur avendo ricevuto un’educazione cristiana, attorno al 373 Agostino approdò al manicheismo, una dottrina religiosa fondata nel III secolo dal persiano Mani che desiderava riformare il cristianesimo adottando un’impostazione dualistica. A parere di Mani, infatti, tutta la realtà era pervasa da due principi: il principio del bene significava luce, verità, saggezza, spiritualità e coincideva con la divinità; il principio del male coincideva con la materia, la malvagità e il demonio. In tale visione l’uomo era interpretato come una creatura dotata di un corpo materiale – quindi malvagio – ma caratterizzato da una scintilla divina, che andava liberata attraverso una vita di purificazione. Dopo aver maturato una progressiva insoddisfazione nei confronti delle dottrine manichee, Agostino si dedicò all’approfondimento della filosofia storica, poi di quella neo-platonica ed infine del cristianesimo, al quale si convertì nel 387, ricevendo il battesimo dal vescovo di Milano, Ambrogio. Lezione 25 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (III). Il vissuto esistenziale di Agostino, con il suo oscillare tra le suggestioni manichee e la fede cristiana, si proiettò anche sul suo pensiero che risulta fondato sul tentativo di conciliare l’atteggiamento contemplativo con la vita attiva, la ragione con il sentimento, il pensiero classico e pagano con quello cristiano. In questa prospettiva Agostino sostituì la teoria platonica e neo-platonica della “reminiscenza delle idee” (secondo cui le idee delle cose sono eterne, immutabili e universali, risiedono nell’Iperuranio – ovvero nel mondo trascendente – da cui proviene anche l’anima umana, che “ricorda” le idee) con una teoria fondata sull’illuminazione divina, che permetterebbe all’uomo di conoscere la realtà. Sempre in un’ottica di fusione tra pensiero classico e teologia cristiana, Agostino concepì la creazione dell’universo non come un processo necessario della divinità (che si manifesta nel suo atto creatore), ma come un libero atto d’amore di Dio, che avrebbe anche potuto non avere luogo. Quest’ultimo concetto – ovvero l’idea della creazione come dono divino – influenzò anche il pensiero di Agostino sulla Grazia divina, che rappresentò uno dei cardini della riflessione di Lutero. Altro elemento del pensiero agostiniano che influenzò Lutero fu l’enfasi sull’incarnazione: superando le teorie neo-platoniche, che concepivano la divinità come un essere impersonale e distante dall’uomo, Agostino rivendicò infatti il carattere di divinità vivente del Dio cristiano, fisicamente entrato nella storia attraverso l’incarnazione. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (IV). Concepire la creazione dell’universo come un libero atto d’amore della divinità significava ammettere anche che il mondo e tutti gli enti corporei creati avessero un valore e un significato intrinseco, in quanto frutti dell’amore divino. Questa concezione agostiniana superava e contraddiceva sia il pensiero neo-platonico, sia quello manicheo, ma apriva la strada al problema di motivare la presenza del male nel mondo e nell’uomo. Tale questione rappresentò una costante del pensiero agostiniano, il problema era in effetti stringente: se la divinità era buona e non poteva desiderare che il bene per le sue creature, perché permetteva la presenza del male e del dolore nel mondo? In secondo luogo: se l’uomo era stato creato a immagine e somiglianza di Dio, perché poteva compiere deliberatamente il male? Non si trattava di spunti di pensiero nuovi né nella teologia cristiana, né nel percorso intellettuale di Agostino, che proprio per trovare una soluzione ad essi aveva aderito al manicheismo. Mentre tale dottrina permetteva di spiegare la presenza del male esattamente quanto successe a Lutero che, formatosi nell’ambito del monachesimo agostiniano, metabolizzò le dottrine del fondatore dell’ordine fino a divenire ossessionato dal problema della salvezza e, soprattutto, dalla questione della Grazia. Sessione di studio 2 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (X). Al di là dei suoi contenuti, la storia dell’agostinismo filosofico può essere complessivamente divisa in tre età. La prima età comprende il periodo dalla morte del Santo (430) al XIII secolo e si può ritenere il momento di trionfo dell’agostinismo, che rappresentò la filosofia più diffusa in Occidente grazie all’opera di divulgazione di intellettuali e maestri quali Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Alcuino di York, Sant’Alberto Magno, Anselmo d’Aosta, Pietro Abelardo e Ugo di San Vittore. Nonostante la sua diffusione, non mancarono delle controversie relative ai passaggi teologici più complessi del pensiero di Agostino, come evidenziato dall’intervento di papa Celestino I che nel 431 avvertì il bisogno di sanzionare ufficialmente l’agostinismo filosofico contro le critiche dei teologi Semipelagiani (che ne criticavano le teorie sulla Grazia divina), riconoscendolo come il pensiero filosofico e teologico ufficiale della Chiesa. Nel 529, con il Concilio di Orange, la Chiesa adottò ufficialmente una versione moderata dell’agostinismo filosofico, che nel corso del IX secolo sconfisse ogni altra dottrina sulla concessione divina della Grazia. Nel XII secolo l’agostinismo filosofico divenne disciplina universitaria e non venne contestato fino all’avvento della scolastica, nel XIII secolo. Gli scontri dottrinali tra i sostenitori della nuova corrente filosofica tomistica e i maestri dell’agostinismo segnarono l’inizio della seconda età dell’agostinismo filosofico. Sessione di studio 2 – Le cause religiose della Riforma luterana 7 (XI). Mentre l’agostinismo filosofico risultava fondato sull’integrazione del neo-platonismo nel cristianesimo, la scolastica si basava invece sul pensiero di Aristotele, visto con sospetto dai maestri agostiniani. In quest’ottica possono essere inquadrate alcune condanne del pensiero di San Tommaso d’Aquino pronunciate dal vescovo di Parigi e dall’arcivescovo di Canterbury, entrambi seguaci dell’agostinismo filosofico, nel 1277. Gradualmente la contrapposizione tra le due scuole si trasformò tuttavia in dialogo e nel 1325, con la canonizzazione di San Tommaso, le condanne dei maestri agostiniani alle teorie filosofiche scolastiche vennero ritirate. La terza e ultima età dell’agostinismo filosofico ebbe invece inizio nel XIV secolo, quando illustri teologi religiosi e laici delinearono nuove dottrine sulla Grazia e comparvero movimenti – come quello guidato da John Wycliffe – che si ispiravano alle concezioni agostiniane sulla predestinazione alla salvezza, assumendo a volte posizioni eretiche. Nel XV secolo degli elementi di agostinismo filosofico migrarono nel pensiero di alcuni umanisti, come Francesco Petrarca (1304-74), mentre alla fine del secolo teologi e filosofi quali Giovanni Bessarione e Marsilio Ficino sfruttarono l’agostinismo per favorire l’imporsi nella Chiesa delle teorie platoniche contro quelle aristoteliche che costituivano il cuore della scolastica, ancora la filosofia ufficiale della Chiesa. Nel XVI secolo, invece, l’agostinismo filosofico fu tra i capisaldi da cui si sviluppò la Riforma luterana, come si avrà modo di vedere nel proseguo del corso. Sessione di studio 3 – Riepilogo dei contenuti della Lezione 25. Per comprendere appieno il significato storico e teologico della Riforma luterana è necessario ricostruire il clima generato, nei secoli che la precedettero, da alcuni movimenti religiosi, tendenze spirituali e personalità. Si tratta di movimenti quali l’agostinismo, l’occanismo, il movimento fiammingo dei Fratelli della vita comune, l’hussitismo boemo e l’“evangelismo” o “paolinismo” e di personalità quali Eckhart, Tauler, Wycliffe, Lefebvre d’Etalpes ed Erasmo. L’agostinismo si può intendere come il complesso delle dottrine teologiche, filosofiche, storiche e politiche di Sant’Agostino (354-430) e si articola in due componenti: l’“agostinismo filosofico” e l’“agostinismo politico”. Tra le più importanti dottrine dell’agostinismo filosofico possono essere menzionate quella sulla creazione come libero atto d’amore della divinità, quella sul male (metafisico, morale e fisico), quella sul libero arbitrio, quella sull’onnipotenza e prescienza divina e quella sulla Grazia, fondamentale per spiegare il meccanismo della salvezza secondo Sant’Agostino. Al di là dei suoi contenuti dottrinali, l’agostinismo filosofico si configura come un fenomeno culturale dotato di una lunga storia, che si può segmentare in tre età: la prima dal V al XIII secolo (in cui l’agostinismo fu sostanzialmente la dottrina filosofica ufficiale della Chiesa), la seconda dal XIII al XIV secolo (in cui l’agostinismo si scontrò con la nascente filosofia scolastica) e la terza dal XIV al XVI secolo (con l’umanesimo e il ritorno dell’agostinismo durante la Controriforma). Lezione 26 – Le cause religiose della Riforma luterana 8 (I). Il pensiero di Sant’Agostino sul male, sul libero arbitrio dell’uomo e sulla Grazia divina ebbe un ruolo fondamentale nel determinare il clima intellettuale nel quale si sviluppò la riflessione di Lutero. Anche al pensiero storico e politico del santo si può tuttavia riconoscere una certa rilevanza, dal momento che esso si tradusse in un atteggiamento di pessimismo e di rigetto nei confronti di ogni autorità politica (agostinismo politico) che si unì alla paura di non ricevere la salvezza, generando negli uomini del Medioevo e della prima età moderna un senso di viva inquietudine. Dal momento, infatti, che le opere buone non garantivano la salvezza e che ogni autorità politica terrena (inclusa quella imperiale) non poteva collaborare con la Chiesa per la guida dei fedeli in quanto intrinsecamente negativa, al popolo cristiano non rimaneva altro che affidarsi totalmente alla divinità con uno slancio fideistico, chiedendo perdono per i propri peccati e implorando la concessione della Grazia. Un simile atteggiamento, la ricerca di un Dio misericordioso, rappresentò la scintilla che scatenò la riflessione di Lutero. La sua pericolosità è evidente: abbandonandosi fideisticamente alla divinità e ricercandone il perdono attraverso un colloquio diretto e individuale, il fedele annullava il ruolo della Chiesa come struttura di intermediazione tra Dio e il popolo cristiano, instaurando una sorta di “religione personale” nutrita di misticismo e animata dall’ansia di ottenere il perdono divino. Lezione 26 – Le cause religiose della Riforma luterana 8 (II). Prima ancora di tradursi – con Lutero – in una concezione teologica, l’agostinismo politico fu una filosofia della storia, dal momento che aveva per obiettivo la comprensione delle dinamiche che governavano la storia umana a partire dal peccato originale. Già nelle Confessioni Sant’Agostino aveva riflettuto sulla storia, con particolare riferimento alla creazione del mondo e dell’uomo, ma fu ne La città di Dio che il suo pensiero si espresse compiutamente. L’opera (in 22 libri) fu composta tra il 410 e il 426 e nacque in un momento storico molto particolare sia per la romanità, sia per la cristianità. Da un lato, infatti, il sacco di Roma da parte dei goti di Alarico (410) aveva generato una forte crisi di fiducia nella romanità: Roma, la città eterna, non era più intoccabile perché era stata violata dai barbari. Dall’altro lato i cristiani, oramai ben inseriti nella società, erano accusati dai pagani di essere i responsabili delle disgrazie sperimentate dalla romanità perché avevano allontanato il popolo romano dal culto delle divinità tradizionali, garanti della sicurezza e della prosperità dell’Impero. In un simile clima era necessario che i pensatori cristiani rispondessero alle accuse pagane enunciando la propria concezione della storia e mostrando il fattore positivo rappresentato dall’avvento del cristianesimo nell’Impero. A questo scopo, Agostino realizzò La città di Dio. Lezione 26 – Le cause religiose della Riforma luterana 8 (III). La città di Dio si configura come un’opera altamente allegorica, il cui obiettivo è spiegare il pensiero cristiano relativamente alle dinamiche in azione all’interno della storia a partire dal peccato originale e dalla cacciata dei progenitori dal giardino dell’Eden. In essa Agostino considera la storia come la lotta tra due “città” metaforiche, ovvero tra due distinti gruppi di individui: la “città di Dio”, composta da coloro che antepongono l’amore di Dio all’amore di sé, e la “città terrena”, composta da coloro che antepongono l’amore delle cose terrene all’amore di Dio. Le due città sono naturalmente figurative e risultano composte da individui che nella vita concreta vivono mischiati fra loro, ciò non impedisce tuttavia che tra le due città esista un conflitto latente destinato a terminare con la Parusia, ovvero con il ritorno di Cristo sulla Terra alla fine dei tempi e con il definitivo instaurarsi del Regno di Dio. Anche se figurative, senza dubbio le due città ricavano la loro ispirazione dal mondo reale. Nel corso del tempo, infatti, si è ritenuto che la “città di Dio” descritta da Agostino fosse costituita dai fedeli cristiani e, nello specifico, dai sostenitori del dogma trinitario stabilito al Concilio di Nicea (325) e al Concilio di Costantinopoli (381), mentre la “città terrena” sarebbe costituita dai pagani, dagli eretici e da tutti coloro che vivono in modo edonistico. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 8 (IV). Sant’Agostino sviluppò la visione delle due città espressa ne la città di Dio anche in reazione alla comparsa delle dottrine eretiche donatiste. Sostenne quindi l’esistenza esclusiva di una sola Chiesa all’interno della quale sono distinguibili però due realtà: l’aspetto visibile (formato dalla gerarchia, dai sacramenti e dai laici) e l’aspetto invisibile (costituito dalle anime di coloro che fanno parte della Chiesa, viventi o defunti, predestinati alla salvezza o alla dannazione). L’aspetto visibile coincide con l’istituzione Chiesa fondata da Cristo con lo scopo di proclamare la salvezza e amministrare i sacramenti. Sotto questo profilo tutti i fedeli cristiani e il clero compongono una simbolica “città” governata dall’amore e destinata a trionfare su tutti gli imperi terreni, guidati dall’orgoglio. Tale interpretazione figurativa della realtà era accompagnata da tesi particolari sulla creazione, sul peccato originale e sull’escatologia. Per quanto concerne la creazione, il pensiero di Sant’Agostino presenta dei punti di tangenza con la sua visione del peccato originale. Agostino sostenne infatti che l’uomo fosse stato creato contemporaneamente al resto dell’universo, non in un momento successivo come descritto dalla Genesi. Il corpo dell’uomo, inoltre, sarebbe stato creato intrinsecamente mortale, quindi Adamo ed Eva sarebbero stati mortali anche prima del peccato originale. In quest’ottica, il peccato originale non aveva portato alcun cambiamento strutturale nella vita dell’universo e nell’esistenza dell’uomo, anche se aveva steso su ogni cosa un velo di negatività. Sessione di studio 1 – Le cause religiose della Riforma luterana 8 (V). Per quanto riguarda, invece, il il peccato originale, Sant’Agostino sostenne che esso andava considerato come un atto di insipienza seguito dall’orgoglio e infine dalla disobbedienza. A suo parere l’albero del bene e del male era da interpretare metaforicamente come un simbolo dell’ordine della creazione e il fatto che Adamo ed Eva ne avessero mangiato il frutto significava che avevano rigettato la gerarchia tra le creature, e soprattutto tra la creature e il Creatore, stabilita da Dio. I progenitori non avrebbero tuttavia potuto passare dall’insipienza alla disobbedienza nei confronti del Creatore se Satana non avesse istillato in loro la radice del male: la natura umana, infatti, era stata macchiata ancora prima dell’atto di disobbedienza dalla concupiscenza e dalla libidine, che dominavano la volontà e l’intelligenza umana. Con il peccato originale, la concupiscenza e la libidine erano diventate le due pulsioni chiave dell’animo umano e le loro conseguenze erano visibili nella storia e nella realtà tanto a livello individuale, quanto a livello collettivo. Tale
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