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Storia Moderna - Manuale di Vittorio Criscuolo, Appunti di Storia Moderna

Riassunto del manuale "Storia Moderna" di Vittorio Criscuolo, con integrazione degli appunti (lezioni 2019-2020)

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 03/04/2021

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Scarica Storia Moderna - Manuale di Vittorio Criscuolo e più Appunti in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Storia moderna Vittorio Criscuolo 2019-2020 1. Società di Antico Regime La società di Antico Regime era basata su una scala gerarchica stabilita dalla nascita, mantenendo perciò una base corporativa. Con l’uguaglianza giuridica portata avanti dalla Rivoluzione Francese, questo particolarismo venne cancellato.
 Fino al 1789 possiamo perciò definire la società in base a tre ordini ➢ Oratores > Clero ➢ Bellatores > Nobiltà ➢ Laboratores > Lavoratori né nobili né ecclesiastici L’appartenenza ad un ceto non comportava una conformità di condizione economico – sociale. La distinzione tra gli individui era perciò determinata solo dallo status riconosciuto alla nascita. Il Clero -> Comprende tutti gli ecclesiasti secolari e regolari. La Chiesa deteneva una quota importante della proprietà fondiaria. I beni ecclesiastici erano inoltre inalienabili senza un permesso del papa, ed erano esenti da imposte. La Chiesa riscuoteva anche la decima, per il mantenimento del clero, degli edifici di culto e dei poveri. La Nobiltà -> In tarda età carolingia si vide emergere una classe feudale volta al servizio militare. A questa aristocrazia di guerrieri si aggiunsero poi i titolari della signoria rurale. Si svilupparono perciò intere dinastie familiari, con precise norme di successione ereditaria, tra cui il fede- commesso e il maggiorascato. 2. La popolazione Se si osserva l’evoluzione della popolazione mondiale, in corrispondenza del periodo indicato come inizio dell’età moderna non si nota nessuna significativa rottura o discontinuità. Si individuano invece due punti di svolta. Il primo coincide con una radiale trasformazione avvenuta nell’età neolitica con lo sviluppo dell’agricoltura. Dopo questa prima svolta la popolazione è aumentata ad un ritmo piuttosto lento fino alla metà del XVIII secolo, quando prese avvio una fase di crescita, tuttora in atto.
 L’andamento demografico fu caratterizzato in realtà da un ciclico alternarsi di momenti di crescita e di crisi ovviamente differenziati per tempi e modalità nei diversi continenti. Lo sviluppo della popolazione europea nell’età moderna fu fortemente condizionato dalla vera catastrofe demografica provocata dalla peste con la gravissima crisi del 1347 – 1352 e poi con le successive ondate epidemiche che si manifestarono in diverse zone del continente. 3. La società preindustriale: agricoltura La società di antico regime era fondata su un’economia prevalentemente agricola. Il più significativo indice della modernizzazione è la riduzione del numero degli impiegati in agricoltura rispetto al totale degli occupati. Infatti quando l’agricoltura riesce ad accrescere la sua produttività in modo consistente si creano le condizioni per lo spostamento di uomini e risolse verso altri settori produttivi.
 Nella società di antico regime la coltivazione della terra e quindi gran parte della produzione erano garantite dal lavoro della famiglia contadina, vera cellula di base della vita economica.
 La struttura della famiglia contadina era condizionata dalla disponibilità di terra e dalla natura dei contratti agrari. Quando la peste del 1348 ridusse drasticamente la popolazione, la terra a disposizione divenne abbondante e si manifestò la tendenza alla formazione di famiglie di tipo nucleare, composte dai genitori e dai figli. In seguito l’incremento demografico accrebbe la pressione sul terreno coltivabile, manifestando in alcune zone la tendenza alla formazione di famiglie più ampie nelle quali convivevano più generazioni.
 Per comprendere natura e caratteristiche dell’economia contadini bisogna innanzitutto dire che il suo modello fu sempre un’agricoltura di sussistenza.
 In Inghilterra e nella maggior parte dell’Europa occidentale le case contadine si trovavano riunite in villaggi, generalmente coincidenti con la parrocchia, insediamenti in genere non superiori al migliaio di abitanti, e le unità di coltivazione erano disperse nei cosiddetti campi aperti (open fields).
 Si trattava di un’agricoltura di tipo comunitario in quanto per la frammentazione e la dispersione delle proprietà individuali ciascuno era vincolato alle pratiche di coltivazione adottate dal villaggio da tempo immemorabile. L’altro aspetto caratteristico dell’agricoltura comunitaria del villaggio era la rotazione delle colture al fine di garantire al terreno il necessario riposo. Dopo il raccolto però i campi erano soggetti ad una serie di usi collettivi dei quali tutti gli abitanti del villaggio potevano avvalersi. Poi al momento della semina si ristabiliva la divisione fra le varie proprietà individuali. Uno degli elementi che differenziavano in misura significativa le famiglie contadine era la proprietà di animali da lavoro.
 Vigeva comunque in questo piccolo mondo uno spirito comunitario che garantiva comunque la sopravvivenza di tutti.
 4. La società preindustriale: manifatture, commercio e moneta ➢ Il settore manifatturiero Fino al XVIII secolo la parola industria non veniva utilizzata nel significato attuale, ma si preferiva parlare invece di manifattura, termine che indica le attività, eseguite a mano o a macchina, per trasformare una materia prima in oggetto di consumo, ovvero in un manufatto.
 Il produttore è al tempo stesso il consumatore, soprattutto nelle campagne, mentre la domanda dei prodotti dell’artigianato e delle manifatture era soprattutto alimentata dai consumi delle classi agiate. La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell’artigianato. A partire dalla ripresa dell’XI secolo, i vari settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle arti o nelle corporazioni. Si trattava di un fenomeno prettamente urbano, dove il membro della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio. Gli illuministi nel Settecento svilupparono una dura polemica nei confronti delle corporazioni, ritenute responsabili di ostacolare la libertà del lavoro, in quanto impedivano ad esempio ad artigiani forestieri di esercitare il mestiere in città. ➢ Protoindustria L’artigiano in genere lavorava su commissione. Tuttavia sesso la commessa veniva da un mercante che anticipava la materia prima e curava poi lo smercio del prodotto. In tal caso l’artigiano, pur indipendente e proprietario degli strumenti (telaio), era di fatto dipendente dal mercante che garantiva i rapporti con il mercato e, se costretto ad indebitarsi con lui, rischiava di perdere la proprietà dello strumento di lavoro. Questa struttura di artigianato subordinato si affermò a partire dal basso Medioevo, soprattutto nel settore tessile.
 Il mercante imprenditore, per coordinare l’attività dei produttori dispersi a domicilio, si serviva di suoi agenti che potevano essere dipendenti o anche titolari di in proprio dell’appalto di questa attività di intermediazione. Attraverso tali incaricati egli forniva la A segnare la differenza con la cultura medievale fu l’importanza acquisita dalla filologia, ovvero l’analisi critica e storica del testo. 11. La Riforma protestante ➢ Premesse La crisi dello Scisma di Occidente (1378 – 1417), che si risolse con il Concilio di Costanza, mise in discussione il ruolo del papato, anche a causa dell’affermazione delle dottrine conciliariste, che proclamarono la superiorità del concilio rispetto al pontefice.
 I papi avviarono perciò un processo di centralizzazione per ristabilire la propria autorità, provocando un diffuso malcontento in quei territori soggetti ad un vero e proprio sfruttamento, per esempio la Germania. ➢ La figura di Lutero Nato nel 1483, Lutero studiava giurisprudenza quando nel 1505 decise di entrare nel convento degli eremiti agostiniani, dove prese poi il sacerdozio.
 La sua esperienza religiosa fu ossessionata dal problema della salvezza: egli concepiva la vita come una lotta contro il demonio, ed era atterrito da una prospettiva di una morte senza confessione.
 Dopo essersi dedicato agli studi biblici, divenne lettore di teologia presso l’Università di Wittemberg. 
 La giustificazione per sola fede sarà il punto fondamentale della dottrina luterana, ispirato dalle parole di Paolo Tarso: “il giusto vivrà in virtù della fede”.
 Emerge qui la profondità della religiosità luterana: la salvezza è un dono di Dio, e in questo l’uomo ha un ruolo assolutamente passivo. Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536) Intellettuale con un ideale di umanesimo cristiano, nel quale la rinascita degli studi classici si coniugava con il ritorno allo spirito evangelico delle origini. Una delle opere perseguite da Erasmo fu il tentativo di applicare il metodo critico della filologia anche alle sacre scritture. Questo suo programma verrà esposto nella prefazione alle Annotationes al Nuovo Testamento di Lorenzo Valla, opera da lui pubblicata nel 1505. In questo testo, Erasmo presenta la filologia inizialmente come una disciplina umile, serva di tutte le scienze. Questo rapporto viene poi rovesciato, trasformando la filologia nella disciplina più utile di tutte, la sola che consente di ricostruire la verità degli antichi testi. In nome della critica filologica scientificamente fondata, Erasmo afferma di non accettare l’autorità degli antichi e rivendica il diritto della libera ricerca intellettuale. Il suo progetto venne portato a compimento con la pubblicazione nel 1516 di Novum Instrumentum, che pose le basi della moderna critica biblica. Il suo ideale di vita cristiana si trova espresso nella suo opera più nota, L’Elogio della Follia, pubblicata nel 1511 in Inghilterra. Nell’opera è la stessa follia, intesa come “insensatezza”, che declama un elogio di se stessa davanti ad un pubblico di suoi seguaci. Erasmo, per bocca della follia, paragona la vita ad una rappresentazione nella quale ognuno degli attori porta una maschera. Nella seconda parte, l’opera sviluppa una satira nei confronti di tutti i protagonisti della vita culturale e sociale. Nella parte conclusiva vi è un parallelismo fra platonismo e cristianesimo, che fa emergere il carattere elitario dell’umanesimo erasmiano. Il suo è un cristianesimo etico: non è importante ciò che si crede, ma come si vive. ➢ Lo scandalo delle Indulgenze Per ottenere l’arcivescovato di Magonza, Alberto di Hohenzollern acquistò una dispensa papale, con l’autorizzazione da parte del Papa di lanciare sui suoi territori una campagna di vendita delle indulgenze.
 La pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti santi, patrimonio a cui si poteva accedere con la mediazione della Chiesa. Questo era condizionato anche dalla contrizione e dall’assoluzione in confessione. L’offerta di una somma di denaro divenne invece la condizione essenziale. ➢ La presa di posizione e la Dottrina Il 31 ottobre 1517 vennero affisse alla cattedrale di Wittemberg 95 tesi in latino.
 Con la divulgazione delle sue tesi, Lutero intendeva promuovere una disputa teologica fra dotti, non un atto di ribellione verso Roma. Egli innescò invece una serie di reazioni in quegli ambienti favorevoli ad una Riforma della Chiesa.
 Nel 1520 Lutero pubblicò tre scritti che riassumevano le basi della sua dottrina. In queste opere egli rifiutava l’autorità del papa e poneva nella Sacra Scrittura la sola guida della Chiesa di Cristo.
 Egli stabiliva perciò un rapporto diretto e immediato fra l’individuo e la divinità, attraverso due principi fondamentali: sola fide e sola scriptura, facendo così crollare tutto l’apparato istituzionale costruito dalla Chiesa. Furono quindi aboliti il monachesimo e il celibato dei preti, mentre i sacramenti riconosciuti divennero il battesimo e l’eucarestia. Lutero negò la transustanziazione e promosse invece la consustanziazione.
 Cadde l’idea che il Clero fosse dotato di uno status diverso rispetto ai laici, poiché nell’eucarestia il calice fu concesso a tutti. ➢ Reazione Con la bolla Exsurge Domine del luglio 1520, Roma minacciava la scomunica per Lutero se non avesse ritrattato le dottrine. In risposta Lutero bruciò sia la bolla che il codice di diritto canonico in piazza davanti ad una folla di persone.
 L’imperatore Carlo V acconsentì ad ascoltare Lutero nella Dieta di Worms nell’aprile del 1521. Senza aver trovato un punto di incontro, Lutero venne condannato come eretico e posto al bando dall’impero. Su ordine di Federico il saggio, suo principe e protettore, Lutero venne rapito e tenuto nascosto nel castello della Wartburg per quasi un anno. ➢ Polemica con Erasmo Con la pubblicazione dell’opuscolo De libero arbitrio, nel settembre 1524, Erasmo si schierò apertamente contro Lutero, criticando la concezione dell’uomo.
 Al pessimismo luterano, Erasmo oppose la convinzione che la libertà di scelta dell’uomo non era stata distrutta. Egli riteneva che non sarebbe stato conveniente far giungere alle orecchie del popolo la voce che l’uomo nella propria salvezza avesse un ruolo passivo. Analogamente, egli sosteneva la confessione, perché tratteneva molti dal commettere il male.
 A queste affermazioni, Lutero oppose la natura popolare della Riforma, dove la parola di Dio è per tutti, e non si deve tacere la verità al popolo per paura che possa abusarne.
 Erasmo era intimorito dagli aspri conflitti che stavano spaccando la cristianità, mentre per Lutero questi sconvolgimenti dimostravano invece che stava rinascendo lo spirito di Cristo crocifisso. La Riforma nella Svizzera Tedesca Nel 1519, seguendo l’esempio di Lutero, Ulrich Zwingli decise di mettersi sulla via della riforma.
 Il contesto era ben diverso dalla Germania, in quanto Zurigo era una città molto ricca ed era governata da un’oligarchia patrizia che controllava il Consiglio Civico. Con l’appoggio di quest’ultimo, Zwingli riuscì a stabilire in città un culto riformato.
 La sua azione riformatrice si ricollegava all’umanesimo di impronta erasmiana. Proprio perché la fede è spirituale, egli abolì le immagini sacre e la musica. Il razionalismo umanistico lo portò inoltre a negare la tansustanziazione.
 Da Zurigo la riforma si diffuse nel resto della Svizzera, provocando un conflitto con i cantoni originari rimasti cattolici. I cantoni protestanti furono perciò sconfitti nella battaglia di Kappel nell’ottobre 1531. La Dottrina di Calvino Calvino, nato in Francia nel 1509, ebbe una solida formazione umanista. Costretto nel 1534 a lasciare la Francia per sfuggire alle persecuzioni, dopo diversi spostamenti si stabilì a Ginevra.
 Il suo pensiero è incentrato sul principio dell’onnipotenza di Dio, che governava il creato secondo i suoi imperscrutabili disegni. Da queste premesse deriva la dottrina della doppia predestinazione. Secondo tale teoria, Dio crea solo preordinati alla salvezza, mentre destina la maggior parte dell’umanità alla perdizione eterna. Questi decreti sono inoltre incomprensibili per le capacità umane, e sono perciò insindacabili ed indiscutibili.
 Questa dura concezione diventa per il calvinista una fonte di energia positiva. Per Calvino stesso, l’attesa della grazia divina obbliga il cristiano a vivere nella fiducia che Dio lo abbia scelto.
 Vi sono poi dei segni presuntivi che possono far pensare che Dio ci abbia arruolato, come l’adesione alla Chiesa e l’attuazione della vocazione (beruf) che Dio ci ha assegnato nel mondo.
 Il concetto di vocazione (beruf) ha un ruolo centrale nella teologia di Calvino, in quanto Dio ha stabilito per ciascuno il dovere da compiere, portando così il cristiano a conferire ad ogni atto un valore religioso. Questo diviene la matrice dell’attivismo delle comunità calviniste, e la differenza rispetto al concetto di Chiesa di Lutero.
 Con le Ordinanze ecclesiastiche del 1541 a Ginevra, Calvino gettò le basi della struttura della Chiesa. Seguendo il modello del Nuovo Testamento, egli istituì quattro ordini: ➢ Pastori o ministri, responsabili del culto; ➢ Dottori, ai quali era affidata l’educazione; ➢ Diaconi, che si occupavano dell’assistenza ai malati; ➢ Dodici anziani laici, scelti dal Consiglio Cittadino. Secondo la prospettiva calvinista, lo Stato era responsabile del progetto di rigenerazione cristiana. In tal senso si parla di Bibliocrazia. L’Anabattismo Gruppi che seguirono gli esempi contenuti nella Bibbia riguardo al tema del Battesimo.
 Essi consideravano il battesimo come un punto di arrivo di un processo di rigenerazione interiore, in tal senso è il cristiano che decide di entrare volontariamente a far parte della comunità, da qui l’importanza perciò della somministrazione del battesimo in età adulta. 12. Le horribili guerre d’Italia (1494 – 1530) Dopo la Pace di Lodi nel 1454, il quadro politico della penisola italiana rimase incentrato sull’equilibrio tra i cinque maggiori stati. Regno di Napoli Considerato dal papato come un proprio feudo, era passato nel 1458 a Ferdinando I di Aragona, che si scontrò con l’opposizione della feudalità riguardo all’eucarestia confermò la transustanziazione.
 Il concilio provvide anche ad un rinnovamento morale e disciplinare della compagine ecclesiastica. Per la formazione del clero furono istituiti seminari. Nella restaurazione della funzione pastorale un ruolo centrale fu riconosciuto ai vescovi, ai quali fu imposti il divieto di cumulare più benefici e l’obbligo di risiedere nella diocesi e di visitarla ogni due anni prestando una dettagliata relazione a Roma.
 Dalla crisi del 500 la Chiesa di Roma uscì con una struttura verticistica e gerarchizzata, della quale il papa era monarca assoluto. Il Concilio di Trento fu l’ultimo grande concilio della storia della Chiesa prima del Vaticano Secondo (1962 – 1965).
 L’affermazione del primato del papa pose agli Stati cattolici il problema di difendere l’autonomia delle chiese nazionali, dove l’accettazione dei decreti conciliari andò incontro a notevoli difficoltà.
 Il distacco della Chiesa inglese da Roma, per esempio, fu uno scisma senza eresia. Il fatto che il re fosse anche capo della Chiesa, però, espose quest’ultima a repentini cambiamenti per ogni avvicendamento sul trono. Con la salita al trono di Elisabetta I, la Chiesa Anglicana si legò definitivamente al mondo protestante.
 In Spagna, invece, il re Filippo II, caratterizzato da una forte religiosità tanto chiusa quanto intollerante, non ebbe una vocazione imperiale legata al sogno universalistico della pace della cristianità, ma quanto più alla difesa della fede contro gli eretici e gli infedeli. Da qui, l’Inquisizione venne considerata un elemento unificante.
 15. L’età di Filippo II ➢ La fine della lotta per la supremazia in Europa Enrico II decise di sostenere in Italia la rivolta antispagnola. Ma la penisola, ormai saldamente legata alla Spagna, non era più il centro del conflitto, che si spostò nei Paesi Bassi dove l’esercito spagnolo ottenne una schiacciante vittoria. Filippo II non seppe però sfruttare il successo a causa delle difficoltà finanziarie. Allo stesso modo, anche Enrico II doveva fronteggiare una situazione finanziaria pesantissima. La morte di Maria Tudor privò Filippo dell’appoggio inglese, favorendo così la pace, che fu stipulata a Cateau Cambrésis il 3 aprile 1559. Filippo II mantenne il pieno controllo della penisola italiana dove tutti gli Stati, tranne Venezia, erano legati alla potenza spagnola. A garanzia della pace fu celebrato il matrimonio fra Filippo II e Isabella di Valois, figlia di Enrico II. Le guerre di religione in Francia La morte di Enrico II nel 1559 aprì un lungo periodo di debolezza dell’istituzione monarchica. A questo si aggiunse il problema della divisione religiosa. Si erano formate in Francia comunità di calvinisti, chiamate ugonotti, che si erano dati una solida organizzazione. La concessione ai calvinisti del culto privato scatenò la reazione cattolica, culminata con il massacro di Vassy. Da questo evento avranno inizio le guerre di religione, che dureranno 36 anni.
 Per bilanciare lo strapotere dei Guisa, Caterina fece molte concessioni al partito ugonotto, che ottenne nel 1527 la libertà di coscienza. A conferma del peso politico acquisito, fu concordato il matrimonio fra la sorella del re Margherita e il calvinista Enrico di Borbone, appoggiato dall’ammiraglio Coligny.
 La reazione dei Guisa si manifestò con la Strage di San Bartolomeo (24 agosto 1572) in cui ci fu il massacro degli ugonotti, giunti a Parigi per le nozze.
 Alla morte di Carlo IX salì al trono Enrico III, che nel 1584 lasciò il trono senza eredi, permettendo Enrico II Francesco II (1559 – 1560) Carlo IX (1560 – 1574) In questo periodo il governo è nelle mani del duca di Guisa, zio della regina Maria Avendo appena 10 anni, il potere viene assunto dalla madre Caterina de Medici, che perseguì una politica di concordia religiosa. ad Enrico di Borbone di diventare uno dei papabili eredi.
 Da questo evento scaturì la Guerra dei Tre Enrico, tra Enrico III, Enrico di Borbone e Enrico di Guisa, dalla quale ne uscirà vincitore Enrico di Borbone, che salirà al trono con il nome di Enrico IV. ➢ La rivolta dei Paesi Bassi e l’indipendenza delle Province Unite Le diciassette province chiamate Paesi Bassi erano state formalmente unite nel 1548, ma erano di fatto autonome. In queste zone si erano formati nuclei di luterani e di anabattisti, e si era avuta una notevole diffusione del calvinismo. I problemi insorsero quando il cardinale Granvelle volle introdurre l’Inquisizione. La presenza di un tribunale straniero dotato di pieni poteri rappresentava una grave limitazione dei privilegi delle province, che tradizionalmente si governavano autonomamente. Nel 1566 un gruppo di nobili si presentò al palazzo della reggente per presentare una petizione che chiedeva l’abolizione dell’Inquisizione. Filippo II inviò delle truppe che promossero una durissima repressione, dando vita ad una rivolta capeggiata da Guglielmo d’Orange. A questo punto la rivolta dei Pesi bassi e la lotta dei calvinisti francesi diventarono un problema di carattere internazionale, un aspetto dello scontro fra la Controriforma cattolica e il mondo protestante.
 I costi sostenuti dalla Spagna imposero Filippo II a dichiarare una bancarotta nel 1575. Di conseguenza i soldati spagnoli si ammutinarono e saccheggiarono la città di Anversa, generando un diffuso malcontento anche nelle province meridionali. Il nuovo governatore dei Paesi Bassi Alessandro Farnese, nominato nel 1578, seppe far leva sui contrasti confessionali per ottenere il ritorno all’obbedienza delle province meridionali, le quali con l’unione di Arras riconobbero la sovranità di Filippo II. Rimasero invece nella posizione ostile alla Spagna le province settentrionali, che con l’unione di Utrecht strinsero un patto militare-finanziario, premessa della dichiarazione formale di indipendenza della repubblica delle sette Province unite che fu siglata all’Aia nel 1581. 16. La guerra dei Trent’anni 
 Premesse La Francia da Enrico IV al cardinale Richelieu Dopo la morte di Enrico IV nel 1610, la reggenza fu affidata alla moglie Maria de Medici, poiché il figlio Luigi XII aveva solo nove anni. I nobili imposero alla reggente la convocazione degli Stati generali, che si riunirono nel 1614 – 1615. Nel corso dei lavori il Terzo Stato si pronunciò per un rafforzamento dell’istituzione monarchica. Esso propose di proclamare come legge fondamentale del regno il principio per cui il re riceve il suo potere immediatamente da Dio. La richiesta non venne approvata ma essa orientò i successivi sviluppi assolutistici della monarchia francese. Per quanto riguarda la politica estera, Maria le diede un indirizzo filospagnolo, alla quale si opponevano quanti ritenevano invece indispensabile per la Francia proseguire la politica antiasburgica abbozzata da Enrico IV prima di morire. Luigi XIII, dichiarato maggiorenne nel 1614, prese le redini del potere confinando Maria nel castello di Blois. Con questa presa di potere inizia ad emergere anche la figura di un giovane vescovo, Richelieu (1585 – 1642), che assunse il ruolo di mediatore nell’aspro dissidio fra il re e sua madre. Divenuto cardinale nel 1622, entrò nel Consiglio di Stato poco dopo, divenendo il principale responsabile della politica estera francese. Richelieu pose fine all’opposizione della nobiltà feudale con diverse condanne a morte e si guadagnò il sostegno delle città e dei ceti produttivi incentivando il commercio e avviando l’espansione coloniale della Francia. Egli prosegui poi l’opera di rafforzamento della monarchia già avviata da Enrico IV. Infine affrontò il problema degli ugonotti i quali, grazie alle garanzie militari e politiche concesse dall’editto di Nantes, si sottraevano in larga misura all’autorità regia. Egli promosse una nuova campagna militare che culminò nel 1628 con la presa della fortezza di La Rochelle. A partire dal 1630 Richelieu si impegnò nel conflitto europeo per contrastare l’egemonia degli Asburgo. Per mantenere i costi della politica estera fu necessario aumentare la pressione fiscale, generando un grosso malcontento tra la popolazione e svariate rivolte contadine La Spagna di Filippo II e Filippo IV Con Filippo III (1598 – 1621), non all’altezza del padre Filippo II, si diede inizio alla tendenza di affidare l’esercizio del potere ad un favorito. In questo contesto l’alta nobiltà riprese un ruolo centrale nell’esercizio del potere. Per restaurare le disastrate finanze e superare la recessione economica furono stipulate la pace con l’Inghilterra nel 1604 e una tregua di dodici anni con le Province unite nel 1609, ma il governo non seppe attuare provvedimenti di riforma efficaci. A Filippo III successe il figlio Filippo IV (1621 – 1665), il quale delegò l’esercizio del potere al conte di Olivares, determinato anche a ripristinare il ruolo imperiale della Spagna. I Paesi bassi Meridionali Dopo l’assassinio di Guglielmo il taciturno nel 1584, le sette province settentrionali dei Paesi bassi, che avevano proclamato la propria indipendenza nel 1581, trovarono in suo figlio Maurizio di Nassau (1567 – 1625) un capo militare di grande valore. Questo ceto assunse anche un rilievo politico a livello nazionale in quanto dai suoi ranghi proveniva la maggioranza dei rappresentanti eletti nella Camera dei comuni.
 A partire dalla seconda metà del secolo l’ascesa della gentry, lo sviluppo delle enclosures e l’offensiva dei proprietari nobili per sostituire i contratti a lunga scadenza dei copyholders con affitti a breve termine determinarono una forte contrazione della piccola proprietà coltivatrice. ➢ La politica di Giacomo I
 Nei rapporti con il Parlamento, Giacomo I non si discostò dai principi adottati dalla regina Elisabetta. Egli però essendo scozzese non godeva di grande popolarità.
 Il primo motivo di contrasto fu la difficile situazione finanziaria provocata dalla guerra con la Spagna, alla quale Giacomo pose fine con la pace del 1604.
 Sarebbe stata necessaria un’imposta fondiaria permanente, ma ogni proposta in tal senso era destinata a scontrarsi con l’opposizione del Parlamento, che si limitava a concedere sussidi straordinari e affermava il proprio diritto a discutere le questioni religiose e politiche che il re considerava invece sua esclusiva competenza.
 Nel 1605 la scoperta della congiura delle polveri, ordinata dai cattolici per far saltare con alcuni barili di polvere il palazzo di Westminster durante una seduta alla quale doveva partecipare anche il re, portò ad un inasprimento della legislazione contro i papisti.
 L’ostilità del re verso le richieste del movimento puritano indusse molti esponenti del dissenso religioso a lasciare l’Inghilterra, migrando verso l’America.
 Il contrasto fra il re e il movimento puritano nasceva da considerazioni politiche più che religiose: la trasformazione della Chiesa anglicana in una Chiesa calvinista, che si sarebbe organizzata in modo indipendente dal potere politico, avrebbe sottratto alla monarchia una leva potente per controllare la società. Il controllo della Chiesa era uno dei pilastri sui quali Giacomo I intendeva costruire la sua politica assolutistica.
 ➢ Carlo I Oltre alla corona, Carlo I (1625 – 1649) ereditò dal padre Giacomo I anche l’impopolarità e il favorito, il duca di Buckingham.
 Il Parlamento, convocato nel 1628, prima di votare i sussidi richiesti dal re per finanziare una guerra contro la Spagna, approvò una Petition of right, nella quale ribadì che nessuna imposta poteva essere riscossa senza il suo consenso e protestò contro i prestiti forzosi, gli arresti illegali e gli alloggiamenti forzati dei soldati presso case di privati.
 Il fallimento della spedizione a sostegno degli ugonotti indebolì ulteriormente la posizione di Carlo, il quale diede inizio ad un periodo di governo personale nel quale non riconvocò più il parlamento.
 Carlo I si impegnò a realizzare il programma assolutistico del padre, contemporaneamente al disegno di realizzare l’uniformità religiosa in tutti i suoi domini.
 La crisi esplose quando Carlo volle imporre anche in Scozia le dottrine e l’organizzazione della Chiesa anglicana. Gli scozzesi nel 1638 insorsero a difesa della loro Chiesa presbiteriana, per cui Carlo fu costretto a riconvocare il Parlamento per chiedere le risorse finanziarie necessarie ad allestire un esercito in grado di riportare all’obbedienza i ribelli di Scozia.
 Non avendo ottenuto i prestiti necessari, Carlo affrontò i ribelli scozzesi con forze inadeguate e subì una grave sconfitta.
 Il Parlamento venne perciò riunito nel novembre 1640. In questa occasione verrà chiamato Long Parliament, poiché non si scioglierà più fino al 1653. Venne votato il Triennial act, che prevedeva la convocazione di una sessione parlamentare ogni tre anni. Fu tolto anche al re il diritto di sciogliere il Parlamento senza il suo consenso.
 L’opera del Parlamento fu sostenuta da una vasta mobilitazione popolare, abilmente diretta dai capi dell’opposizione che paventarono più volte il pericolo di una restaurazione cattolica.
 Nel 1641 la cattolica Irlanda si ribellò al dominio inglese, ponendo il problema della guida dell’esercito che avrebbe dovuto ristabilire l’ordine.
 I Comuni, diffidenti verso il re, erano inclini a togliergli il comando delle forze armate.
 Questa occasione fece scoppiare una guerra civile, dove Carlo decise di compiere un atto di forza e di recarsi in Parlamento con un gruppo di soldati, accusando i capi dell’opposizione di tradimento.
 Dopo il rifiuto di consegnarsi al re, Carlo decise di lasciare Londa. Era l’inizio della rivoluzione. ➢ La prima fase della rivoluzione All’inizio della guerra civile il paese rimase in gran parte neutrale, in attesa di conoscere gli sviluppi degli avvenimenti.
 Il 2 luglio 1644 l’esercito parlamentare ottenne una prima importante vittoria, in cui si distinse nella battaglia Oliver Cromwell (1599 – 1658), un esponente della gentry di fede calvinista, comandante della cavalleria degli ironsides.
 Nel 1645 Cromwell organizzò l’esercito di nuovo modello, che decise la guerra in favore del Parlamento, riportando una grande vittoria a Naseby.
 A Carlo non rimase che prendere atto della sconfitta, venendo consegnato al Parlamento dagli scozzesi. A questo punto, poiché nessuno pensava che si potesse fare a meno della monarchia, si poneva il problema di un accordo con il re, che stabilisse le prerogative della corona e del Parlamento.
 Emersero intanto le profonde differenze esistenti nel movimento puritano.
 La maggioranza in Parlamento era detenuta dai presbiteriani, calvinisti intransigenti, che intendevano imporre una Chiesa di Stato, strutturata sul modello scozzese.
 L’altra ala del movimento puritano rivendicava invece l’autonomia delle congregazioni religiose, ed era favorevole ad un regime di tolleranza per le varie confessioni.
 Queste posizioni dovevano confrontarsi con le aspirazioni ad un profondo rinnovamento religioso e politico, diffuse nella popolazione durante la guerra civile.
 Proliferarono perciò sette e congregazioni che si ricollegavano in vario modo alle posizioni della Riforma radicale. Inoltre, si era formato a partire dal 1646, un vero partito politico, i Levellers, radicati soprattutto nelle classi lavoratrici della città.
 Essi non intendevano mettere in discussione la proprietà privata, ma reclamavano solo misure per alleviare la miseria della popolazione. Essi perseguirono soprattutto un programma politico di netta impronta democratica, chiedendo anche una riforma elettorale che concedesse il diritto di voto a tutti i maschi adulti liberi. Questo programma trovò un notevole consenso tra i soldati dell’esercito, tra i lavoratori delle città e tra i piccoli contadini. ➢ La seconda fase della rivoluzione La seconda fase della rivoluzione vide contrapposti il Parlamento, controllato dai presbiteriani, e l’esercito.
 La maggioranza presbiteriana del Parlamento pensava di liquidare l’esercito smobilitandolo senza pagare le paghe arretrate, oppure inviandolo a combattere contro i ribelli irlandesi.
 I soldati reagirono eleggendo dei delegati incaricati di presentare le loro richieste ai capi militari, occupando poi Londra e impadronendosi della persona del re.
 Cromwell si rendeva conto che molti presbiteriani inclinavano ad accordarsi con il re; dall’altra parte però non condivideva l’estremismo delle sette e dei livellatori, ma accettò il confronto con i delegati per evitare che sfuggisse il controllo dell’esercito.
 La distanza rispetto alle posizioni dei livellatori apparve evidente nella riunione del Consiglio generale dell’esercito, tenutasi nell’ottobre 1647 a Putney, presso Londra.
 Proprio mentre i dibattiti si chiudevano, Carlo riuscì a fuggire, fomentando poi una rivolta realista in Galles.
 Cromwell, resosi conto che ogni accordo con il re era impossibile, sconfisse realisti e scozzesi nel 1648. Da quel momento, la spaccatura fra esercito e Parlamento poteva essere risolta solo con un colpo di stato.
 Il 6 dicembre 1648 il colonnello Pride, agendo a nome del Consiglio dell’esercito, arrestò 45 parlamentari, impedendo l’accesso a Westmister ad una novantina di deputati presbiteriani. Ciò che restava, il cosiddetto Rump Parliament, istituì senza il consenso dei Lord un’altra corte di giustizia, che condannò a morte Carlo I, decapitato l’anno seguente.
 Subito dopo il Parlamento abolì la Camera dei Lord e il 19 maggio 1649 proclamò la repubblica di Inghilterra, Scozia e Irlanda. La situazione politica dopo la condanna del re era comunque tutt’altro che stabilizzata.
 Il figlio di Carlo I fu riconosciuto da scozzesi e irlandesi come re, con il nome di Carlo II. Contemporaneamente, alcuni gruppi di contadini occuparono alcune terre comuni e iniziarono ad ararle. Per questo furono chiamati diggers o anche true levellers. Il loro leader, Winstanley, considerava la proprietà privata contraria ai principi del cristianesimo, e vagheggiava una forma di comunismo agrario di matrice biblica.
 La dura reazione dei proprietari stroncò sul nascere queste iniziative.
 Cromwell era tuttavia consapevole della necessità di chiudere la fase rivoluzionaria e ripristinare l’ordine per dare solide basi al regime repubblicano. Per questo, egli aveva realizzato due dei tre punti del programma livellatore, ma non aveva intenzione di promuovere la riforma elettorale.
 Il Parlamento stabilì che in attesa di nuove elezioni, il potere sarebbe stato gestito da un Consiglio di Stato controllato di fatto dai capi dell’esercito.
 Dopo diverse agitazioni, Cromwell fece arrestare il capo dei livellatori, riprendendo il pieno controllo dell’esercito.
 Iniziarono a diffondersi così diverse sette politiche, come quella degli uomini della quinta monarchia, che vivevano nell’attesa millenaristica del regno della perfetta giustizia, o quella dei quaccheri, che emigrarono nel nuovo mondo fondando la colonia della Pennsylvania.
 Fra il 1649 e il 1650 Cromwell represse con straordinaria brutalità la rivolta dell’Irlanda, e con un ulteriore campagna militare egli riportò all’ordine anche la Scozia, costringendo Carlo II a fuggire in Francia.
 Durante il suo governo Cromwell ridiede slancio alla vocazione marinara e commerciale che si era affermata sotto il regno di Elisabetta.
 Rimase invece insoluto il problema dell’assetto istituzionale da dare al nuovo regime. Mancava una legittimazione, poiché in sostanza il potere di Cromwell si fondava sull’esercito.
 Nel 1653 l’esercito elaborò l’Instrument of Government, ovvero un progetto costituzionale in base al quale Cromwell fu eletto Lord Protettore del Commonwealth di Inghilterra, Scozia e Irlanda, titolo che fu poi reso ereditario. Fallirono però negli anni successivi i tentativi di legittimare il regime con l’elezione.
 Il regime repubblicano non pose di fatto delle radici nel paese, ma fu considerato come una dittatura militare, che assunse un carattere sempre più autoritario e conservatore.
 Alla morte di Cromwell il 3 settembre 1658, gli successe il figlio Richard che si rivelò incapace di governare e lasciò il potere dopo pochi mesi.
 Il nuovo Parlamento eletto nel frattempo votò per la restaurazione della monarchia, con il ritorno di Carlo II nel 1660. 19. L’Italia sotto il predominio spagnolo ➢ Quadro economico e demografico Dopo il trattato di Cateau Cambrésis la penisola conobbe fino agli inizi del Seicento un lungo periodo di pace, che favorì la crescita demografica e la ripresa economica.
 All’inizio del XVII secolo questa fase di crescita si esaurì, e si manifestò sempre più netta un’inversione di tendenza, preludio della crisi che caratterizzò gli anni fra il 1620 e il 1660.
 Fra le cause di questa brusca frenata dell’economia si possono annoverare le guerre della Valtellina e del Monferrato, gli effetti della guerra dei Trent’anni sull’economia della ➢ I domini diretti della Spagna La Spagna governò con moderazione, rispettando le tradizioni e gli assetti istituzionali dei vari territori a lei soggetti, e cercò costantemente una mediazione fra i proprio interessi e le esigenze delle élite locali.
 Il sovrano era coadiuvato a Madrid dal Consiglio d’Italia, istituito nel 1555, nel quale tre dei sei reggenti erano italiani. I rappresentanti del sovrano dovevano tenere conto del parere degli organi che erano espressione delle classi dirigenti italiane.
 Nel ducato di Milano questo ruolo fu esercitato dal Senato. La maggioranza dei suoi membri erano laureati in giurisprudenza appartenenti al patriziato.
 L’amministrazione spagnola lasciò perciò il controllo delle istituzioni locali ai patrizi.
 Nel regno di Napoli invece il gruppo sociale più importante era la nobiltà, che si articolava in diverse componenti. La nobiltà feudale dominava nelle province, esercitando la giurisdizione civile e criminale. Vi era poi la nobiltà maggiore, o di seggio, che controllava l’amministrazione della città di Napoli, formata da sei “sedili”.
 Una rivolta della capitale nel 1547 impedì che si stabilisse nel regno l’Inquisizione spagnola. L’altro potere forte nel Meridione era la Chiesa, le cui proprietà erano superiori a quelle della stessa aristocrazia.
 Una componente caratteristica della società napoletana era il ceto dei “togati”, che furono i principali collaboratori delle autorità spagnole.
 Il governo spagnolo riuscì a spezzare il potere politico della nobiltà, ma in cambio della fedeltà alla corona madrilena finì con il riconoscere di fatto ai baroni il completo predominio all’interno dei loro feudi.
 Anche in Sicilia e in Sardegna esistevano dei Parlamenti divisi al solito in tre bracci, ecclesiastico, baronale e demaniale, che votavano i donativi richiesti dal sovrano ed erano egemonizzati dall’aristocrazia. La Repubblica di Venezia Nel corso del Cinquecento fra le magistrature veneziane si accrebbe costantemente il potere del Consiglio dei Dieci, che si impose ai danni del Senato. A questa tendenza corrispose un progressivo restringersi del potere effettivo in un gruppo di famiglie ricche. Si formò insomma una sorta di oligarchia nell’oligarchia. Questa tendenza fu osteggiata nel Maggior Consiglio dal gruppo dei “giovani”, che si battevano per un ripristino dei poteri del Senato e per una politica estera più risoluta. A questi programmi si opponevano i “vecchi”, convinti che fosse necessario mantenere un atteggiamento prudente. La prima occasione per mettere in atto la politica indicata dai “giovani” fu il conflitto con la Santa sede occasionato dall’arresto nel 1605 di due preti colpevoli di reati comuni. Roma chiese che i due fossero giudicati dal foro ecclesiastico. Al rifiuto della repubblica, papa Paolo V Borghese lanciò contro lo Stato veneziano l’interdetto, ovvero una sorta di scomunica collettiva. Venezia respinse l’interdetto ed espulse i gesuiti, obbedienti al papa. Lo scontro diede vita ad un aspra polemica che divampò per mesi con la pubblicazione di numerosi scritti a sostegno delle due tesi contrapposte. Nella difesa delle posizioni veneziane emerse la figura di Paolo Sarpi, che contestò con efficacia la pretesa della Chiesa di costituire un corpo separato, obbediente al papa e non soggetto alle leggi dello Stato. Alla fine la vertenza fu risolta da una mediazione congiunta della Francia e della Spagna. Appariva ormai evidente che il rilancio della grande politica, auspicato dai “giovani”, era impossibile. Nel Seicento buona parte delle forze finanziarie e militari di Venezia furono impiegate nella difesa dei suoi possedimenti in Oriente. L’approccio della Spagna nei confronti dei domini italiani cambiò nella prima metà del XVII secolo, a causa delle guerre nelle quali il governo di Madrid si impegnò per tentare di conservare la propria supremazia mondiale. Gli enormi costi di questi conflitti portarono ad un inasprimento fiscale, che colpì soprattutto l’Italia Meridionale.
 Maturarono così le rivolte del 1647 – 1648.
 Il primo moto scoppiò a Palermo, dove nell’agosto 1647 la rabbia popolare per il pesante fiscalismo obbligò il viceré ad abolire le odiate gabelle sui generi di prima necessità, e a concedere alle corporazioni una rappresentanza nel governo municipale.
 Ben più importante fu la rivolta napoletana, che iniziò il 7 luglio 1647, con il rifiuto dei venditori nella piazza del Mercato di pagare la tassa sulla frutta fresca, stabilita dalle autorità spagnole. In questa prima fase il moto si rivolse soprattutto contro finanzieri e appaltatori delle imposte.
 A capo del popolo si pose un pescivendolo napoletano detto Masaniello, mosso alle spalle dall’avvocato Genoino, che intendeva saldare la protesta antifiscale con le aspirazioni del fronte intellettuale, mirando ad ottenere per la componente popolare un numero di seggi nel governo cittadino pari a quelli della nobiltà.
 Masaniello dimostrò una certa abilità politica, ma venne assassinato il 16 luglio da una congiura manovrata dal viceré.
 Le rivolte terminarono il 6 aprile 1648 con il rientro in città delle truppe spagnole.
 Dopo il 1648 vi furono importanti cambiamenti nella politica di Madrid, che diede un rilievo maggiore al ceto civile, e inoltre intervenne nelle province a limitare la prepotenza dei baroni. 20. L’età di Luigi XIV Poco prima della morte, Richelieu suggerì a Luigi XIII l’opportunità di avvalersi dei servigi del cardinale Giulio Mazzarino. Il consiglio fu seguito sia dal re sia, dopo la morte del re, dalla vedova Anna d’Austria, la quale affidò al cardinale italiano la guida politica del regno.
 Mazzarino proseguì la politica di Richelieu, sostituendo alla durezza di questi una naturale propensione alla duttilità e al compromesso.
 Egli assunse le sue funzioni in un momento molto difficile per la monarchia, dove la reggente Anna D’Austria doveva fronteggiare intrighi e complotti dell’alta nobiltà.
 Il problema persistente era quello finanziario: occorreva trovare le risorse necessarie a finanziare la guerra. Gli espedienti ai quali ricorse Mazzarino crearono un diffuso malcontento anche nelle classi agiate.
 Punto di riferimento e interprete di questo diffuso malcontento fu il Parlamento di Parigi, che contestò a più riprese i provvedimenti finanziari del governo.
 Quando Mazzarino propose un decreto che condizionava il rinnovo della Paulette (tassa che garantiva l’ereditarietà degli uffici) a una trattenuta di quattro anni degli stipendi degli ufficiali, il Parlamento di Parigi prese un’iniziativa rivoluzionaria promuovendo una riunione comune con le altre tre corti sovrane.
 Da questa assemblea fu approvato nel giugno-luglio 1648 un pacchetto di 27 articoli che limitavano i poteri della monarchia. In pratica le corti sovrane si facevano interpreti del malcontento della società.
 L’arresto dei capi dell’opposizione parlamentare decretato da Mazzarino innescò la rivolta della popolazione di Parigi (26-28 agosto). Mazzarino fu identificato come il colpevole del malgoverno.
 Il moto fu chiamato “Fronda parlamentare”, dallo strumento fionda e dall’assonanza del termine con fronda dell’albero.
 La reggente fu costretta ad accettare i 27 articoli elaborati dalle corti sovrane con una Dichiarazione reale del 22 ottobre 1648. Si giunse così alla pace di Saint-Germain (1 aprile 1649).
 La guerra civile, che durò dal 1650 al 1653, costrinse Mazzarino a rifugiarsi a Colonia, dopo essere stato bandito dal regno su decisione del Parlamento.
 Tuttavia, la popolazione vedeva ormai nella restaurazione dell’autorità monarchica la sola garanzia dell’ordine e della pace. Il ritorno a Parigi del re e Mazzarino sancirono la fine dell’anarchia feudale.
 Nel 1654 ebbe luogo la cerimonia di incoronazione di Luigi XIV a Reims.
 Alla morte di Mazzarino, Luigi XIV si applicò con passione all’esercizio del suo mestiere di re.
 Egli prendeva le decisioni più importanti nell’Alto Consiglio, al quale erano ammessi in genere solo i ministri delle finanze, della guerra e degli esteri.
 Luigi XIV tolse ogni effettivo potere politico ai nobili e scelse come ministri uomini di origini modeste.
 Colonna portante dell’amministrazione erano gli intendenti, funzionari preposti alle generalità. Di questi commissari si era già servito Richelieu, ma Luigi XIV rafforzò i loro poteri ed estese le loro funzioni.
 Il mito del Re Sole fu opera in larga misura della rappresentazione di se stesso che Luigi XIV volle diffondere attraverso tutti i canali che aveva a disposizione.
 La realtà però era ben diversa dall’immagine che Luigi XIV si impegnò costantemente ad accreditare.
 Non a caso dopo la sua morte ripresero vigore poteri e istituzioni che avevano dovuto chinare la testa di fronte alla sua forte personalità.
 La volontà di Luigi XIV di imporre un’immagine altissima della propria regalità si espresse nella reggia di Versailles, eretta fra il 1661 e il 1689.
 In tal modo egli staccò la nobiltà dalla terra, e la obbligò a vivere della luce riflessa dal sovrano. ➢ Le finanze Il principale problema del regno francese rimaneva il risanamento finanziario, al quale si dedicò fin dall’inizio Colbert, nominato controllore generale delle finanze nel 1665.
 Fu istituita una Camera di giustizia che multò e punì i finanzieri che avevano accumulato grandi fortune speculando sul bisogno di denaro dello Stato.
 Il Tesoro, con multe e con la lotta a quanti sfuggivano alla tassazione vantando titoli nobiliari inesistenti, alleggerì la sua posizione, tanto che fu possibile una notevole riduzione della taglia.
 Il peso fiscale fu spostato sulle imposte indirette, e la riscossione di queste fu attribuita con un solo contratto di concessione. SI raggiunse così un livello delle entrate quasi pari alle uscite. ➢ L’Economia La politica economica di Colbert rappresenta un tipico esempio di modello mercantilistico, tanto da venire definita “colbertismo”.
 La sua azione si concentrò innanzitutto sullo sviluppo delle manifatture, nell’intento di realizzare un attivo nella bilancia commerciale che consentisse la crescita della moneta circolante nel paese.
 Oltre alla politica protezionista, egli stabilì un capillare controllo sulla qualità dei prodotti e sulla disciplina dei lavoratori. La produzione fu favorita con la creazione di manifatture “di Stato” e “privilegiate”. Colbert rafforzò anche la marina, e diede un impulso notevole all’espansione coloniale. La politica economica di Colbert diede tuttavia scarsa attenzione all’agricoltura. ➢ Le questioni religiose Il primo problema con la quale Luigi XIV dovette confrontarsi fu la diffusione del giansenismo.
 Giansenio afferma, sulla base del pensiero agostiniano, che per effetto del peccato originale l’uomo è per sua natura schiavo delle cose terrene e incapace di volgersi a Dio.
 In tal modo Giansenio proponeva in ambito cattolico il pessimismo della Riforma.
 Il rigorismo presente nella loro dottrina portò i giansenisti a condannare anche la morale lassista dei gesuiti. Da queste concezioni derivarono esperienze di profondo rinnovamento spirituale, che spesso portavano i cosiddetti solitaires al ritiro dal mondo per vivere nella solitudine e nella preghiera.
 Il giansenismo fu considerato da Luigi XIV un pericoloso elemento di divisione nel Parlamento a rompere gli indugi. Su richiesta di quattro whigs e tre tories, lo statolder di Olanda Guglielmo d’Orange sbarcò in Inghilterra nel novembre, mentre Giacomo fuggiva in Francia.
 Il Parlamento dichiarò il trono vacante e chiamò a regnare Guglielmo. Contestualmente il Parlamento approvò un Bills of rights che i sovrani si impegnarono a rispettare.
 Il Triennal Act del 1694 impose l’obbligo di eleggere un Parlamento almeno ogni tre anni e nel 1701 un Act of Settlement stabilì l’ordine di successione al trono escludendo la linea cattolica.
 L’assolutismo era stato sconfitta, poiché nella prassi costituzionale si affermò infatti il principio per cui il re doveva chiamare al governo il leader del gruppo che aveva vinto le elezioni e aveva la maggioranza in parlamento. ➢ La guerra della lega di Augusta (1688 – 1697) Gli errori del Re Sole si evidenziano soprattutto nell’isolamento diplomatico in cui egli si trovò al momento della nascita della lega di Augusta.
 Quando, durante il conflitto per le regalie, il papa nominò vescovo di Colonia il candidato imperiale e non quello indicato da Luigi XIV, questi ruppe gli indugi e invase con le truppe il territorio del vescovato e il Palatinato nel settembre 1688.
 Si formò quindi un’ampia coalizione comprendente, oltre ai membri della lega di Augusta, Guglielmo d’Orange, vari principi tedeschi, e Vittorio Amedeo II duca di Savoia.
 In pratica la Francia si ritrovò accerchiata e poteva essere attaccata su tutti i fronti.
 In mancanza di eventi bellici risolutivi, si giunse nel 1697 alla pace di Ryswick con la quale Luigi XIV dovette restituire tutti i feudi e le città occupati con la politica delle camere di riunione dopo la pace di Nimega, e dovette riconoscere la legittimità dell’ascesa al trono inglese di Guglielmo III. ➢ La successione spagnola La pace di Ryswick fu avvertita da tutti come una tregua, mentre si poneva alle cancellerie europee il problema della successione al trono di Madrid. Poiché il re Carlo II era malato e privo di figli, i diritti sulla corona spagnola potevano essere pretesi sia dall’imperatore Leopoldo I, sia da Luigi XIV, i quali avevano entrambi sposato una sorella del re.
 Nel primo caso si sarebbe ripristinata la situazione del tempo di Carlo V, mentre la seconda ipotesi era contrastata da Olanda e Inghilterra. Onde scongiurare una guerra non desiderata, si raggiunse un accordo sul figlio dell’elettore di Baviera, che però morì poco dopo.
 A questo punto, la corte di Madrid chiese a Carlo II una soluzione che salvasse l’unità dell’impero. Perciò, poco prima della morte nel novembre 1700, il re nel suo testamento nominò erede il pronipote di Luigi XIV, il duca d’Angiò, con il nome di Filippo V, a condizione che si impegnasse a rinunziare ad ogni pretesa sulla corona francese.
 In realtà apparve da subito evidente l’intenzione di Luigi XIV di porre la Spagna sotto la tutela della Francia, per questo motivo l’Austria stipulò con Olanda e Inghilterra una nuova alleanza, alla quale si aggiunsero Danimarca e molti principi tedeschi.
 Al fianco della Francia e della Spagna si schierarono invece l’elettore di Baviera, il duca di Mantova e inizialmente anche Portogallo e duca di Savoia.
 La guerra fu dichiarata nel maggio 1702 e si combatté in Italia, nelle Fiandre, in Germania e nel Mediterraneo. Le sorti del conflitto volsero ben presto in favore degli alleati, e la coalizione fu inoltre rafforzata nel 1703 dall’adesione di Portogallo e del duca di Savoia.
 Delle sconfitte franco-ispaniche approfittò la Catalogna, che con un’insurrezione permise alle truppe anglo-austriache di insediare a Barcellona come re di Spagna Carlo III, secondo figlio di Leopoldo.
 Le richieste di pace di Luigi XIV vennero respinte.
 La situazione cambiò però a causa di due eventi decisivi. In Inghilterra vinse le elezioni il partito tory, incline ad esaudire il desiderio dei proprietari di porre fine alle enormi spese che comportava la guerra. Inoltre in Austria morì nel 1711 il primo figlio di Leopoldo, Giuseppe I, per cui il secondo figlio, che si era già proclamato re di Spagna con il nome di Carlo III, divenne anche imperatore con il nome di Carlo VI.
 Di fronte al riproporsi dell’unione delle due corone, Olanda ed Inghilterra avviarono con la Francia le trattative per la pace di Utrecht nel 1713. In base alle trattative venne confermato sul trono di Madrid Filippo V, l’Austria ottenne i Paesi bassi spagnoli e lo Stato di Milano, mentre il duca di Savia ebbe la Sicilia.
 La pace sancì soprattutto il trionfo dell’Inghilterra, che ottenne dalla Spagna numerose concessioni commerciali e il monopolio del traffico degli schiavi.
 Con la pace di Utrecht si fece strada la comune convinzione che fosse necessario garantire in Europa una bilancia dei poteri che impedisse il ripetersi di aggressive politiche volte a stabilire l’egemonia di uno Stato. Si affermò quindi il principio dell’equilibrio.
 Con la salita al trono, Filippo V tentò di dare una svolta alle condizioni del suo regno promuovendo un risanamento delle finanze, un rinnovamento dell’esercito e una riforma dell’amministrazione sull’esempio francese. L’Aragona e la Catalogna furono private delle loro tradizionali autonomie.
 La politica di Filippo V fu inoltre fortemente influenzata dalla moglie Elisabetta Farnese, che spinse il marito verso una politica anti-austriaca e fece eleggere alla carica di primo ministro nel 1717 il cardinale Giulio Alberoni. Alberoni organizzò macchinosi piani diplomatici contro Austria ed Inghilterra, passando all’azione occupando la Sardegna e la Sicilia Sabauda. L’avventura terminò con la pace dell’Aia nel 1720, dove il duca di Savoia fu costretto a scambiare la Sicilia per la Sardegna, e Filippo V fu costretto a licenziare l’Alberoni. ➢ Il rafforzamento dell’Austria Nonostante il tentativo degli Asburgo di creare nel Sacro romano impero un forte potere federale, la corona imperiale conservava ancora un notevole prestigio come punto di riferimento per l’identità tedesca.
 Con la guerra di successione spagnola la monarchia austriaca ottenne i Paesi bassi spagnoli e si sostituì alla Spagna come potenza egemone in Italia.
 Intervenendo a fianco della repubblica di Venezia contro gli ottomani, l’impero d’Austria ottenne altre acquisizioni territoriali che gli permisero di assumere, agli inizi del Settecento, le dimensioni di una grande potenza. Tuttavia si trattava di territori generalmente ancora arretrati. D’altra parte i possedimenti degli Asburgo erano un mosaico di domini uniti solo dal vincolo dinastico. Solo nei domini ereditari era stata creata un’amministrazione centrale più solida.
 Nel 1713 venne promulgata da Carlo VI la Prammatica sanzione, nella quale affermò l’indivisibilità dei domini asburgici e stabilì l’ordine di successione al trono. ➢ La Polonia Nel 1668 una guerra civile costrinse il re Giovanni Casimiro ad abdicare.
 La crisi istituzionale fu aggravata dall’affermazione del principio del liberum veto, in base al quale anche un solo membro della Dieta poteva bloccarne le decisioni pronunziando la formula sisto activitatem. Nella seconda metà del XVII secolo il ricorso sempre più frequente a questa consuetudine favorì l’ingerenza delle potenze straniere.
 Nel 1648 i cosacchi del Dnepr, insieme ai contadini ortodossi dell’Ucraina, insorsero contro il dominio polacco ponendosi sotto la protezione della Russia.
 Nel contempo si rinnovò il conflitto con la Svezia.
 Nel 1655 il re svedese Carlo X Gustavo invase il territorio polacco, costringendo il re Giovanni Casimiro a fuggire in Slesia.
 La Polonia fu salvata dalla sollevazione della popolazione contro gli invasori e dall’intervento in guerra contro Svezia e Danimarca dell’imperatore Leopoldo.
 Alla conclusione della guerra nel 1660 la Polonia cedette alcuni possedimenti alla Svezia e rinunziò alle prerogative feudali sul ducato di Prussia, riconoscendone la piena sovranità all’elettore del Brandeburgo. ➢ L’ascesa del Brandeburgo-Prussia Gli Hohenzollern avevano ottenuto nel 1415 la Marca del Brandeburgo, che aveva un posto nella Dieta elettorale dell’impero, e in seguito la famiglia aveva anche acquisito, nel 1525, il ducato di Prussia.
 Con la pace di Vestfalia Federico Guglielmo, detto il Grande Elettore, aveva ottenuto anche la Pomerania orientale e i vescovati di Minden nella Vestfalia e di Magdeburgo e Halbestadt, uniti al Brandeburgo. Si trattava di possedimenti privi di contiguità territoriale e molto diversi fra loro. Inoltre, nei vari frammenti dei suoi possedimenti, il sovrano doveva contrattare la concessione delle imposte con assemblee cetuali.
 Federico Guglielmo tentò, con la partecipazione alla guerra del 1655 – 1660, di ampliare i suoi territori ma senza successo.
 Egli si dedicò quindi al tentativo di creare un vero Stato, nel quale le risorse di tutti fossero impiegate per una politica comune. Il primo passo in tal senso fu compiuto nella Dieta del Brandeburgo del 1653, nella quale Federico Guglielmo riuscì ad ottenere i sussidi finanziari per la creazione di un esercito permanente.
 In Brandeburgo, e poi anche in Prussia, Federico riuscì ad imporre la sua volontà agli Stati che furono progressivamente esautorati. Con le entrate provenienti dal demanio, dalle imposte indirette stabilite nella città, e dalla imposta fondiaria che gravava sui contadini, il Grande elettore poté formare un esercito che giunse a 30.000 effettivi.
 Si delineò fin da allora il compromesso sulla quale si fondò l’assolutismo burocratico- militare caratteristico della Prussia moderna: il sovrano obbligò la nobiltà a servire lo Stato, in cambio di mano libera nei confronti del contadiname.
 Fu il nipote di Federico Guglielmo, Federico Guglielmo I (1713 – 1740) a creare le basi della potenza prussiana. Molto importante fu infatti la sua riforma dell’esercito. Egli nel 1733 divise infatti il territorio in cantoni e stabilì che gli uomini validi di ogni cantone dovessero essere arruolati e istruiti ogni anno e quindi sottoposti periodicamente ad addestramento. L’esercito prussiano diventava perciò composto da due sezioni, i mercenari e i cantonisti. Il Kantonsystem non era una leva di massa, in quanto era radicato nella struttura sociale del mondo rurale.
 Per organizzare in modo efficiente l’apparato militare, Federico Guglielmo rafforzò e centralizzò la macchina burocratica.
 Egli cercò anche di incentivare con una politica di tipo mercantilistico le manifatture e il commercio, e di favorire l’aumento della popolazione. ➢ Le origini della Russia moderna Con la salita al trono di Michele III Romanov, in Russia fu progressivamente ristabilita la tradizionale concezione dell’autocrazia. In tal senso nel 1613 Michele III era stato solo proclamato, non eletto, dallo Zemskij sobor. Questa assemblea nazionale infatti venne convocata sempre più di rado, finendo con lo scomparire nella seconda metà del Seicento. Il compito di assistere lo zar fu invece assunto dalla Duma.
 Il figlio di Michele III, Alessio I, tentò di consolidare le strutture statali e di potenziare l’esercito, ma la sua politica di modernizzazione era ostacolata dall’arretratezza della società.
 Le città non erano centri di attività economiche distinti dalla campagna, e limitato era il commercio interno, mentre quello estero era controllato da stranieri. Lo sviluppo economico era ostacolato dalla mancanza di uno sbocco sul mare.
 Gli zar crearono, in contrapposizione ai boari, una nuova nobiltà di servizio alla quale affidarono i principali incarichi civili e militari. Dalla fine del XVII secolo la proprietà delle terre concesse a questi nuovi nobili fu piena e quindi ereditaria. Ma in Russia non vi erano gruppi sociali che potessero esprimere un’amministrazione efficiente, e i ceti non avevano come in Occidente un proprio status e proprie prerogative.
 ricostruiva la rete di scambi fra i vari gruppi protagonisti dell’economia: la prima classe è costituita dai proprietari della terra; gli agricoltori formano la classe produttiva; alla classe sterile appartengono invece artigiani, manifatturieri e commercianti.
 La teoria rifletteva chiaramente la realtà di un’economia rurale come quella francese, e si basava su un evidente errore nella concezione del valore.
 Il tableau économique di Quesnay ebbe il merito di introdurre una moderna nozione di classe, legata alla funzione dei gruppi sociali nel processo produttivo.
 Secondo i fisiocratici, l’economia è retta da leggi naturali che lo Stato non deve assolutamente intralciare, in quanto esse, lasciate libere di agire, garantiscono necessariamente il raggiungimento del giusto prezzo e quindi dell’equilibrio.
 Lo Stato deve perciò astenersi da ogni intervento nell’economia, limitandosi a garantire l’ordine e la difesa, e per il resto assicurare la libera circolazione dei prodotti.
 Questo liberismo andava mostrando anche l’errore implicito nella teoria del commercio estero adottata dalla politica mercantilistica. E’ infatti impossibile che la bilancia commerciale di un paese possa essere permanentemente attiva.
 Rispetto alla teoria fisiocratica, il pensiero di Adam Smith rifletteva il dinamismo di una società come quella inglese. Lo spirito delle leggi di Montesquieu L’Esprit des lois, pubblicata nel 1748, rappresentò un vero manuale della politica settecentesca.
 La volontà di applicare allo studio della politica i metodi delle scienze naturali induce Montesquieu ad assumere un atteggiamento relativistico di fronte alle forme di governo presenti nel suo tempo o realizzatesi nel corso della storia.
 Montesquieu modifica la tradizionale teoria che distingueva le forme di governo in base al numero dei detentori del potere: uno (monarchia), i migliori (aristocrazia), il popolo (democrazia), prevedendo anche le rispettive degenerazioni, ovvero tirannide, oligarchia e oclocrazia.
 Per Montesquieu invece i governi sono essenzialmente tre: repubblicano, monarchico e dispotico.
 Fedele al meccanismo adottato, egli esamina ciascuna forma come un meccanismo, del quale occorre mettere a nudo gli ingranaggi che deteriorandosi ne provocano la decadenza.
 Il governo repubblicano, nel quale o il popolo tutto o una parte di esso esercita il potere, trova il suo principio nella virtù, ovvero nella disposizione dei cittadini a sacrificare il proprio interesse individuale per garantire il bene della patria e l’interesse comune. Se viene meno la virtù, la repubblica non può più reggersi e inevitabilmente decade.
 La monarchia si fonda sull’onore, ovvero sulle prerogative di ceti e istituzioni gelosi del proprio rango e del proprio ruolo. Nel dispotismo invece uno solo regge lo Stato senza leggi né freni, a suo arbitrio.
 Il regime dispotico si fonda perciò sulla paura.
 I tre tipi di regime si differenziano anche per la dimensione territoriale: la repubblica è adatta a piccoli territori, la monarchia ai medi e il dispotismo alle grandi estensioni. Queste leggi agiscono in modo meccanico, necessario.
 Quanto al modello repubblicano, Montesquieu ne evidenzia la crisi.
 Il quadro politico settecentesco era ormai incentrato invece sulla contrapposizione fra monarchia moderata e dispotismo.
 Come modello di monarchia fondata sulle leggi di Montesquieu poneva la costituzione d’Inghilterra affermatasi con la gloriosa rivoluzione del 1688: in essa la libertà, intesa come garanzia per ciascuno della propria vita e dei propri beni, era fondata sulla separazione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Tuttavia Montesquieu non comprese appieno la realtà politica dell’Inghilterra. Non a caso egli poneva l’accento non sul potere legislativo ma su quello giudiziario, e in particolare su quei corpi politici che “annunciano le leggi quando vengon fatte e le richiamano alla memoria quando vengon dimenticate”: era proprio il ruolo dei Parlamenti, principale baluardo contro l’assolutismo monarchico francese.
 Il costituzionalismo di matrice lockiana era declinato evidentemente da Montesquieu in chiave aristocratica. L’aristocratico Montesquieu riteneva infatti l’assolutismo del Re Sole esistenziali per le sorti della Francia e dell’Europa, tanto da considerare positivo il fallimento dei suoi progetti espansionistici. Jean-Jacques Rousseau Il ginevrino Jean-Jacques Rousseau fu il principale esponente del filone democratico-radicale. Il suo pensiero si può articolare in due fasi: ➢ Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, 1750, e nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, 1755, egli rovesciò provocatoriamente l’immagine della società settecentesca della quale andavano orgogliosi gli illuministi. Rousseau non criticava un regime, ma esprimeva un radicale rifiuto della società stessa, la quale aveva irrimediabilmente corrotto l’uomo, rendendolo egoista e malvagio.
 Egli negava perciò il valore positivo dello sviluppo delle conoscenze, delle scienze e delle arti.
 Questa radicale critica della civiltà provocò la rottura dei suoi rapporti con gli illuministi;
 ➢ Nel Contratto sociale, 1762, egli prese le mosse dalla conclusione alla quale era giunto nei due Discorsi. Rousseau era convinto che fosse impossibile per l’uomo recuperare l’innocenza e la semplicità delle origini. Era tuttavia possibile elaborare razionalmente un modello di società nel quale gli individui, pur sottraendosi ad una legge comune, conservassero la loro originaria libertà. Locke aveva sostenuto che nel passaggio dallo stato di natura alla società gli uomini avrebbero dovuto cedere la minima porzione dei loro diritti allo Stato, ma riservandosi per il resto una piena libertà di iniziativa individuale. Rousseau invece giudicava negativamente questa sfera di autonomia e di libertà fondata sul diritto di proprietà, principale responsabile dei mali del vivere civile. A suo parere, nel contratto sociale gli individui devono cedere tutti i loro diritti allo Stato, perché solo questa condizione garantisce l’eguaglianza.
 Gli individui divengono così cittadini, uniti dall’amore della patria comune: contro il cosmopolitismo illuministico, Rousseau rivalutava il senso di appartenenza e di identità nazionale.
 Egli non pensava però che si dovesse abolire la proprietà privata e stabilire una perfetta uguaglianza, ma occorreva solo che ciascuno fosse indipendente.
 La sovranità popolare, essendo per sua natura indivisibile e inalienabile, non può essere rappresentata: il suo ideale era la democrazia diretta, possibile solo in un piccolo Stato.
 Per questo Rousseau giudicò negativamente il regime dell’Inghilterra: gli inglesi solo nel momento delle elezioni godevano della libertà, subito dopo tornavano ad essere schiavi.
 D’altra parte egli riteneva che in una società democratica i cittadini al momento del voto avrebbero dovuto prescindere dai loro egoistici interessi per seguire la volontà generale, ovvero il bene comune.
 Egli perciò concludeva amaramente che un governo perfetto come la democrazia sarebbe stato adatto ad un popolo di dei, ma non conveniva agli uomini. Nella sua grande opera pedagogica, l’Emile, del 1762, Rousseau delineò un modello educativo volto a preservare il fanciullo dall’influenza nefasta della società e a favorire lo sviluppo del sentimento e della fantasia.
 Nell’attesa che l’educazione creasse un uomo radicalmente rigenerato, solo attraverso la religione sarebbe stato possibile creare fra gli individui un vincolo di solidarietà in grado di unirli in una società giusta.
 Rousseau pensava ovviamente ad una religione civile, a base razionale e naturale, per effetto della quale gli uomini sarebbero stati in grado di acquisire quei principi morali che erano incapaci di elaborare razionalmente.
 La critica della società, che portò Rousseau a vagheggiare una organizzazione sociale di piccoli produttori indipendenti, indusse altri pensatori ad assumere posizioni più radicali, che sfociavano nell’aperto rifiuto del diritto di proprietà e sconfinavano nell’utopia.
 L’illuminismo, se da un lato seppe esplorare lucidamente la realtà della vita sociale, dall’altro non rinunziò mai alla volontà di incidere sulla realtà del suo tempo.
 Si spiega in questa prospettiva il fatto che la maggior parte degli illuministi, fra il 1760 e il 185, considerò la monarchia assoluta come il solo regime che avrebbe potuto realizzare, almeno in parte, i progetti di riforma che essi avevano elaborato. 24. La supremazia della Gran Bretagna 
 Le paci di Utrecht e Rastadt sancirono l’affermazione di una linea particolarmente favorevole agli interessi inglesi. In base all’Act of settlement del 1701, alla morte di Guglielmo III la corona passò alla figlia di Giacomo II, Anna. Il regno di Anna fu caratterizzato dall’unione parlamentare e amministrativa fra Scozia e Inghilterra, che porterà nel 1707 alla nascita del Regno Unito di Gran Bretagna.
 L’avvento al trono nel 1714 di Giorgio I di Hannover e poi del figlio Giorgio II non fu visto favorevolmente da una parte cospicua del partito tory.
 Nel 1715 la vittoria nelle elezioni portò al governo i whigs, i quali vi rimasero a lungo grazie anche al fatto che Giorgio I delegò la gestione del potere a loro, preferendoli ai tories, che contavano nelle loro fila numerosi giacobiti. Protagonista indiscusso di questo periodo fu Robert Walpole.
 Approfittando della presenza sul trono di sovrani stranieri, Walpole diede un contributo importante allo sviluppo del sistema parlamentare.
 Si affermano in questo periodo istituti fondamentali come la figura del primo ministro, con la funzione di tramite tra il governo e il re, e il governo di gabinetto, fondato sul principio della collegialità e della responsabilità solidale dei suoi membri.
 I tories, una volta accettata la dinastia hannoveriana, si fecero portavoce in particolare degli interessi della grande proprietà fondiaria. I whigs invece si mostrarono più sensibili al mondo del commercio e della finanza.
 Per quanto concerne la religione, l’atto di tolleranza del 1689 garantiva la libertà ai dissidenti protestanti.
 Il periodo in cui Walpole fu al governo venne caratterizzato da un forte sviluppo del commercio e delle manifatture, favorito dalla riduzione del debito pubblico operata dal ministero, che consentì un notevole calo dei tassi di interesse. Questo processo venne favorito dalla creazione nel 1694 della Banca d’Inghilterra.
 In politica estera Walpole stabilì un’intesa con la Francia nell’intento di tenere la Gran Bretagna fuori dai conflitti, e svolse infatti un ruolo di meditazione durante la guerra di successione polacca. Dalla reggenza di Filippo d’Orléans al ministero Fleury 
 Subito dopo la morte di Luigi XIV, nel 1715, il Parlamento di Parigi attribuì la reggenza al duca Filippo d’Orléans, in nome del pronipote del re defunto, Luigi XV.
 Il reggente inizialmente assecondò il moto di reazione dell’aristocrazia, restituendo ai Parlamenti il diritto di presentare rimostranze prima della registrazione degli editti reali. La reggenza fu caratterizzata inoltre da una notevole libertà intellettuale e dalla diffusione clandestina di audaci idee materialiste e libertine.
 Filippo d’Orléans si dimostrò anche un abile politico, e si dedicò al problema più grave della Francia, ovvero il risanamento delle finanze schiacciate dall’enorme debito pubblico.
 Il reggente decise di adottare l’ardito programma di riforme propostogli dallo scozzese John Law, che si ispirava al modello della Banca d’Inghilterra.
 Egli creò dunque nel 1718 la Banca reale, e nel contempo fondò una Compagnia di commercio che nel 1719 prese il nome di Compagnia delle Indie.
 L’obiettivo era quello di incrementare la circolazione attraverso la carta moneta, e quindi stimolare l’economia, e nel contempo trasformare i detentori di quote del debito pubblico in azionisti della Compagnia.
 All’iniziale entusiasmo del pubblico, che corse ad acquistare le azioni della Compagnia garantite dalla Banca, si contrappose il crollo delle azioni stesse e il rapido deprezzamento della moneta cartacea, causato da profitti molto inferiori alle aspettative.
 accentrò nelle sue mani la gestione delle imposte.
 Nel 1753 venne nominato cancelliere di corte e di Stato, ovvero ministro degli Esteri, il conte Kaunitz-Rittberg, che, aperto alla cultura dei Lumi, incarnò lo spirito riformatore della monarchia asburgica, agendo come una sorta di primo ministra fino al 1792.
 Egli rinnovò l’ordinamento interno, promuovendo nel 1760 l’istituzione di un Consiglio di Stato, che ebbe il compito di dirigere tutti gli affari interni nel corpo austro-boemo e di coordinare i vari organi specializzati che furono creati al posto del Direttorio, abolito nel 1761.
 Alla morte nel 1765 di Francesco Stefano, primogenito di Maria Teresa, divenne imperatore Giuseppe II, che fu associato dalla madre al trono come co-reggente.
 Dopo la guerra dei sette anni, Maria Teresa prese diversi provvedimenti per riordinare l’apparato fiscale, istituendo una Corte dei conti con il compito di controllare l’operato di tutti gli organi finanziari, e adottando una politica mercantilistica, sostenendo manifatture nei settori tessile e siderurgico. Maria Teresa agì con grande cautela nei confronti del potere ecclesiastico, adottando una politica giurisdizionalistica solo nella Lombardia. Si definisce giurisdizionalismo un politica volta ad affermare la giurisdizione dello Stato sull’organizzazione del clero, nell’intento di formare Chiese nazionali autonome, sul piano disciplinare, da Roma. Provvedimenti caratteristici del giurisdizionalismo sono l’affermazione del diritto dello Stato di nominare le principali cariche ecclesiastiche e l’imposizione dell’exequatur e del placet per rendere efficaci le nomine e le disposizioni del Papa. La politica riformatrice non riguardò il regno di Ungheria, che si considerava di fatto autonomo rispetto al governo di Vienna. ➢ Giuseppe II Salito al trono nel 1780, Giuseppe II proseguì lungo le linee seguite dalla madre. Particolare attenzione venne data alla politica ecclesiastica, dove nel 1781 venne emanata una patente di tolleranza. Nel contempo liberò gli ebrei da gran parte delle misure discriminatorie in vigore nei loro confronti. Giuseppe II era mosso dal desidero di servirsi di tutti i sudditi che potevano dare un utile contributo all’economia e all’amministrazione.
 Contemporaneamente egli avvio un drastico ridimensionamento del clero regolare, attuando provvedimenti che suscitarono un’allarmata reazione da parte del papa Pio VI Braschi. Giuseppe II mirava a creare una Chiesa nazionale, composta da ecclesiastici fedeli servitori del sovrano, oltre che pastori del gregge di Cristo.
 In questa prospettiva egli intervenne a regolare aspetti del culto nei quali la politica giurisdizionalistica non era mai entrata, come pellegrinaggi e cerimonie devozionali.
 Per favorire la libertà del lavoro Giuseppe avviò una progressiva demolizione delle corporazioni, abolendo la servitù personale dei contadini e promuovendo la formazione di un catasto delle proprietà fondiarie.
 Va ricordata anche la riforma al codice penale del 1787, che abolì la tortura e stabilì pene uguali per tutti i sudditi, senza alcuna distinzione di rango o di status.
 Giuseppe II mirava a fare dei suoi domini un corpo compatto e uniforme. Non a caso egli nel 1784 impose il tedesco come unica lingua dell’amministrazione.
 Egli urtò non solo contro i privilegi della nobiltà, ma anche contro i particolarismi radiati nelle tradizioni istituzionali e sociali dei vari ambiti del suo impero. La sua politica ecclesiastica sconvolse consuetudini e tradizioni fortemente sentite dalla massa del popolo. Alla sua morte, avvenuta nel febbraio 1790, l’impero rimase in una situazione molto difficile. ➢ La Russia di Caterina II In Russia l’azione di modernizzazione di Pietro il grande fu ripresa dalla figlia Elisabetta I, che favorì l’apertura della cultura russa all’influsso europeo e sostenne la fondazione dell’Università di Mosca nel 1755. A lei successe il nipote Pietro III, ma la sua posizione filo-prussiana suscitò molti malumori, tanto da essere vittima di una congiura di palazzo.
 Al trono salì la moglie Caterina II, che dovette innanzitutto affrontare la grave situazione finanziaria ereditata dopo la guerra dei sette anni. A tal fine non esitò a proclamare nel 1764 la confisca dei beni della Chiesa ortodossa. Caterina fu in contatto con molti intellettuali illuministi, che videro in lei un modello di sovrana illuminata.
 La sua iniziativa più ambiziosa fu la convocazione di una commissione legislativa, incaricata di redigere un nuovo codice di leggi. Tuttavia la Commissione fu sciolta nel 1768 senza aver portato a termine il suo compito. 
 Nel 1773 un cosacco chiamato Pugacev si mise a capo di una rivolta che rivelò quanto fossero lontani i proclami della zarina dalla concreta realtà della società russa.
 Nei suoi proclami, firmati con il nome di Pietro III, egli si presentò come restauratore della fede dei vecchi credenti, radicata nel mondo rurale, promettendo di ristabilire “la vecchia croce e le vecchie preghiere”. La rivolta, accompagnata da feroci atti di violenza contro i proprietari nobili e funzionari, si estese rapidamente. Solo nell’estate del 1774 Pugacev fu catturato e portato a Mosca, dove venne condannato e giustiziato nel gennaio 1775.
 Da quel momento la zarina abbandonò ogni velleità di riforma e si impegnò a consolidare l’apparato statale.
 Nel 1785 emanò una Carta della nobiltà nella quale ribadì e ampliò i tradizionali privilegi dei nobili.
 Se aveva definito disonorevole per la Russia che i servi fossero trattati come bestiame, ora estese e rafforzò le condizioni del servaggio. ➢ Le spartizioni della Polonia Alla morte di Augusto III, nel dicembre 1763, la Russia impose con il sostegno della Prussia l’elezione di Stanislao II Augusto Poniatowski, amante della zarina Caterina.
 In realtà il nuovo sovrano non intendeva essere uno strumento della politica russa e tentò di avviare un processo di modernizzazione che passava per forza di cose attraverso il superamento del liberum veto e il rafforzamento del potere della monarchia.
 Egli dovette scontrarsi con la cinica politica di Caterina, ostile ad ogni rafforzamento dello Stato polacco, che sollevò abilmente il problema degli ortodossi e impose un regime di tolleranza per tutte le fedi, comprese quelle protestanti.
 Questo provvedimento suscitò la reazione di alcune famiglie di magnati cattoliche che si associarono nella Confederazione di Bar.
 Dopo un agitato periodo di lotte interne, la Russia impose con la forza delle armi la sua volontà e si accordò con Prussia e Austria per una spartizione del territorio polacco, che fu amputato di circa un terzo: Caterina ottenne gran parte della Bielorussia, Maria Teresa si annetté la Galizia e la Lodomiria mentre Federico II potè finalmente congiungere la Prussia orientale al Brandeburgo. Nel 1768, proprio mentre era impegnata nella crisi polacca, Caterina dovette fronteggiare un attacco dell’impero ottomano. La flotta russa distrusse quella ottomana nella battaglia di Cesme, presso l’isola di Chio nel 1770. Con la pace del 1774 la Russia ottenne Azov e alcune zone costiere del mar Nero. La Russia si liberò così finalmente del costante pericolo rappresentato dalle incursioni da Sud delle popolazioni tatare. Una seconda guerra russo-turca (1787 – 1792), nella quale si schierò al fianco di Caterina anche Giuseppe II, obbligò la Turchia a riconoscere alla Russia il possesso della Crimea.
 26. L’Italia del Settecento Agli inizi del Settecento, la guerra di successione spagnola sconvolse gli equilibri politici della penisola, provocando la fine del lungo dominio degli Asburgo di Madrid e l’affermazione dell’egemonia dell’Austria.
 La pace di Rastadt del 1714 diede la Sicilia ai Savoia, che nel 1720 furono però obbligati a cederla all’Austria in cambio della Sardegna. La pace di Parigi attribuì i regni di Napoli e di Sicilia a Carlo di Borbone.
 I cambiamenti intervenuti nella situazione internazionale per effetto della “gloriosa rivoluzione” del 1688 e del crollo della potenza spagnola crearono in Italia le condizioni per il superamento dell’età della Controriforma e per la ripresa della circolazione di idee e di esperienze con la cultura europea. La sostituzione dell’impero d’Austria alla Spagna favorì una rinascita delle posizioni ghibelline e dell’anticurialismo. ➢ Vittorio Amedeo II da duca di Savoia a re di Sardegna Lo Stato sabaudo comprendeva una serie di feudi e di territori uniti dal legame dinastico nei confronti della famiglia dei duchi di Savoia. A differenza degli Stati italiani, esso manteneva una natura tipicamente signorile-feudale, ed era composto da quattro domini principali: il ducato di Savoia, la contea di Nizza, il ducato di Aosta e il principato del Piemonte. Quando salì al potere Vittorio Amedeo II, egli dovette innanzitutto affrontare il problema dei rapporti con il suo potente vicino, la Francia.
 Nella guerra di successione spagnola egli orientò le sue mire espansionistiche verso lo Stato di Milano. Mentre all’interno, Vittorio Amedeo stabilì nelle province dei rappresentanti del potere centrale, gli intendenti, con il compito di eseguire le decisioni sovrane, di controllare e limitare i ceti privilegiati e i poteri locali.
 Nel 1717 furono istituiti il Consiglio di Stato e il Consiglio generale delle finanze. Nel 1723 e poi, con alcune modifiche, nel 1729 furono emanate le costituzioni, raccolta ordinata delle leggi vigenti, iniziativa importante perchè andava ad unificare la legislazione.
 Nei confronti della Chiesa, Vittorio Amedeo adottò un rigoroso giurisdizionalismo, rivendicando il diritto di nomina dei vescovi ed intervenendo in attività come l’istruzione e l’assistenza, gestite in genere dal clero.
 Il regno di Sardegna fu il solo Stato italiano ad avere un esercito in grado di competere con le grandi potenze europee. ➢ Il papato Dopo aver contrastato agli inizi del Settecento gli attacchi del giurisdizionalismo, la Chiesa assunse progressivamente un atteggiamento più moderato e accettò di fare diverse concessioni nei concordati stipulati con il regno di Sardegna, con il regno di Napoli e con la Spagna.
 Le speranze suscitate dall’elezione di Benedetto XIV andarono progressivamente esaurendosi nel corso del suo lungo pontificato. Ai toni concilianti e alla bonomia del carattere non corrisposero scelte in grado di modificare gli orientamenti conservatori della curia.
 Benedetto XIV pose anche fine alla lunga controversia sui cosiddetti ‘riti malabarici e cinesi’, vale a dire sulle concessioni fatte dai gesuiti a costumi e tradizioni dell’India e della Cina.
 La seconda metà del Settecento fu per la Chiesa cattolica un periodo molto difficile sia per gli attacchi della cultura illuministica, sia per le politiche giurisdizionalistiche messe in atto da tutti gli Stati italiani.
 Molti provvedimenti furono volti a ridimensionare gli ordini regolari. L’ostilità generale si appuntò sui gesuiti, per lo speciale voto di sottomissione al papa, che li sottraeva all’autorità dei vescovi, e per la funzione di educatori dei rampolli delle classi alte.
 La Chiesa dovette anche fronteggiare le critiche del giansenismo che lasciò sullo sfondo le tematiche teologiche alle quali erano legate le sue origini, e sostenne in primo luogo una concezione rigida della morale cristiana.
 le colonie del New Hampshire e del Connecticut. Queste colonie furono chiamate insieme New England. La colonia di Maryland venne fondata nel 1634 e divenne inizialmente un rifugio dei cattolici.
 All’inizio XVIII secolo le colonie inglesi contavano già 250.000 abitanti, che sarebbero diventati nel 1775 addirittura due milioni e mezzo. A questo incremento demografico concorsero sia la crescita naturale, sia il costante arrivo di immigrati dall’Europa.
 L’eterogeneità della popolazione si accrebbe nel XVIII secolo, quando dall’Europa arrivarono, oltre a inglesi e scozzesi, anche irlandesi, olandesi e tedeschi. Gli immigrati furono attirati soprattutto dalle opportunità di lavoro e dall’ampia disponibilità di terra che offriva il nuovo mondo. ➢ La svolta della guerra franco-indiana (1754 – 1763) Le conseguenze della guerra dei sette anni, chiamata in America guerra franco-indiana, ebbero un peso decisivo nell’evoluzione delle relazione fra le colonie e la madrepatria. Il governo di Londra riteneva necessario far contribuire i coloni al risanamento dell’enorme debito pubblico provocato dalle spese militari, mentre gli americani, dopo l’espulsione della Francia dal nord America e della Spagna dalla Florida, iniziarono a considerare meno pressante l’esigenza della protezione della potenza navale inglese, e quindi meno giustificato il pagamento delle imposte stabilite da Londra. Un altro motivo di contrasto fu determinato dal problema dell’occupazione dei territori già francesi del Canada, che furono sottoposti nell’ottobre 1763 all’immediata sovranità della corona inglese.
 Queste varie divergenze si innestarono sui contrasti di natura commerciale che da sempre avevano caratterizzato i rapporti fra Londra e le sue colonie americane.
 La crisi prese avvio dall’entrata in vigore nel 1765 dello Stamp Act, che introdusse nelle colonie l’obbligo del bollo su documenti e carta stampata, provocando diffuse proteste da parte dei coloni. Il governo inglese alla fine abrogò la tassa ma nel contempo ribadì il diritto del Parlamento di regolare con le sue leggi i rapporti con le colonie americane. A Londra si fece strada l’esigenza di stabilire un maggiore controllo sui territori che facevano parte dell’impero e infatti nel 1767 venne creato un Segretariato per le colonie americane.
 In questo contesto la controversia fra colonie e madrepatria assunse un sempre più chiaro contenuto costituzionale, relativo all’assetto complessivo dell’impero inglese.
 I coloni, per opporsi ai dazi imposti dalla madrepatria, si appellarono proprio al principio sul quale si erano fondate le rivoluzioni inglesi del Seicento, ovvero ‘nessuna tassazione senza rappresentanza’. Il parlamento inglese non aveva il diritto di emanare leggi relative alle colonie perchè queste non vi erano rappresentate: le assemblee coloniali erano le uniche legittime depositarie del potere legislativo. Gli americani organizzarono perciò un sistematico boicottaggio dei prodotti inglesi.
 L’atto di inizio guerra si ebbe nel 1773, con il celebre Boston tea party, dove la reazione del governo di Londra fu durissima.
 La mobilitazione dell’opinione pubblica e delle altre colonie permise di giungere al primo Congresso continentale, apertosi nel settembre 1774 a Philadelphia, che chiese l’annullamento della legislazione approvata dal Parlamento di Londra.
 Il governo inglese elaborò anche una proposta riconciliatrice, ma i margini si erano esauriti perchè al fondo dei contrasti emergeva chiaramente il nodo di fondo: la sovranità inglese sulle colonie, che Londra intendeva ribadire in via di principio e che i coloni ormai di fatto rifiutavano.
 Si aprì nel maggio 1775 il secondo Congresso continentale che affermò la necessità di rispondere con le armi all’intransigenza di Londra, e nominò comandante delle truppe americane il generale George Washington (1732 – 1799).
 Le truppe inglesi erano superiori per organizzazione e addestramento alle forze messe in campo dalle colonie. Gli inizi del conflitto furono quindi favorevoli agli inglesi.
 I lealisti organizzarono contingenti di volontari che combatterono al fianco delle giubbe rosse, per cui la guerra di indipendenza fu allo stesso tempo una guerra civile.
 La resistenza degli americani si giovò soprattutto della migliore conoscenza del terreno e dell’enorme estensione del territorio.
 Washington riteneva necessario formare anche un esercito continentale e, nonostante la difficoltà di trovare volontari disposti ad arruolarsi in permanenza per un lungo periodo, riuscì a creare una struttura militare dotata di un’accettabile organizzazione strategica e logistica. ➢ La dichiarazione di indipendenza (4 luglio 1776) Lo sfaldamento delle autorità coloniali provocò, fin dal 1775, la formazione nelle città e nelle contee di comitati che si assunsero il compito di gestire l’amministrazione, la giustizia e la vita economica. Si giunse così, nel terzo Congresso continentale di Philadelphia, all’approvazione della dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, opera del virginiano Thomas Jefferson.
 Il testo affermava che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati di diritti inalienabili, come il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità; di conseguenza i governi sono istituiti per garantire questi diritti e derivano i loro poteri dal consenso dei governati.
 Questo testo ebbe una straordinaria importanza soprattutto perchè espose con chiarezza i principi ideologico – politici che giustificavano il rifiuto dalla sovranità inglese, ponendo le basi di un’identità americana superiore ai particolarismi delle varie colonie. In tal modo la lotta per l’indipendenza si poneva come una guerra di tipo nuovo, radicalmente diversa dai conflitti settecenteschi motivati da contrasti dinastici o commerciali.
 La dichiarazione ebbe un’ampia eco in Europa e nella stessa opinione pubblica inglese, favorendo un’internazionalizzazione del conflitto. Molti decisero di partire volontari per combattere al fianco degli insorti, tra cui il giovanissimo marchese de La Fayette.
 Sul piano militare risultò infatti decisivo l’intervento di Francia e Spagna a sostegno dei ribelli americani. La guerra si concluse con il vittorioso assedio di Yorktown, dove l’esercito inglese dovette arrendersi nell’ottobre 1781.
 L’Inghilterra, con i trattati di Parigi e Versailles del 1783, riconobbe l’indipendenza degli Stati Uniti. ➢ La nascita degli Stati Uniti d’America La conquista dell’indipendenza pose il problema assai delicato della formazione di un’organizzazione istituzionale in grado di unire i territori che si erano emancipati dalla sovranità dell’Inghilterra. Fin dal 1776 il Congresso aveva assunto le funzioni di un governo provvisorio e le assemblee provinciali avevano preso il nome di Congressi provinciali.
 Nel contempo le ex colonie si erano trasformate in veri e propri Stati, dotandosi anche di costituzioni scritte. Con gli articoli di Confederazione approvati dal Congresso nel 1777 gli Stati strinsero fra loro uno ‘stabile patto di amicizia’, ma conservarono la propria sovranità e indipendenza. Essi delegarono al Congresso solo la politica estera, la difesa e la possibilità di contrarre prestiti. Gli articoli entrarono in vigore nel 1781, dopo la ratifica degli Stati.
 Nel 1783 i particolarismi statali ripresero vigore e tesero in vario modo a limitare i poteri del Congresso. La guerra aveva determinato notevoli danni e l’economia era in crisi. Un altro problema fu l’emigrazione dei lealisti, appartenenti alle aristocrazie dominanti delle vecchie colonie.
 Particolarmente urgente era poi la necessità di regolare l’espansione verso Ovest, che era proseguita nel frattempo. Questo problema fu risolto con una serie di provvedimenti che posero sotto il controllo dell’Unione l’allargamento delle frontiere a Ovest.
 La dichiarazione del 1776 prefigurava la nascita di un nuovo soggetto politico.
 Per realizzarlo nel 1787 si riunì una Convenzione di 55 delegati nominati dalle assemblee legislative di tutti gli Stati, con lo specifico compito di rivedere la costituzione del 1777. Molto delicata era la contrapposizione fra Stati maggiori, che premevano per una rappresentanza proporzionale alla popolazione, e gli Stati più piccoli, fedeli alla rappresentanza paritaria stabilita nel 1777. Il testo definitivo della costituzione si basava su una rigorosa separazione dei poteri. Il potere legislativo fu attribuito ad un Parlamento bicamerale, il Congresso, composto dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti.
 Il potere esecutivo fu assegnato ad un Presidente, che univa in sé la figura di capo dello Stato e capo di governo. L’articolo VI dichiarava la costituzione stessa, le leggi federali e i trattati internazionali superiori, in quanto legge suprema degli Stati Uniti, alle legislazioni statali.
 La costituzione entrò in vigore nel 1788, ed è tuttora la legge fondamentale degli Stati Uniti. ➢ La nascita dei partiti Con l’elezione delle principali cariche previste dalla costituzione prese avvio la normale vita istituzionale. Già nei primi dibattiti si era delineata una contrapposizione fra federalisti, favorevoli ad un forte potere centrale, e anti-federalisti, che privilegiavano invece l’autonomia dei singoli Stati.
 In politica estera i federalisti furono inclini a un riavvicinamento con l’Inghilterra e ostili alla Francia rivoluzionaria. L’opzione federale apparve invece a molti un tradimento dell’ispirazione originaria della rivoluzione. La struttura federale fu perciò vista da molti come un potere dispotico, lontano dalla concreta realtà della società americana. Questi orientamenti trovarono espressione nel 1791 nel partito anti-federalista, che si chiamò “repubblicano”, proprio per contrapporsi ad un centralismo che sembrava riproporre i mali della monarchia.
 28. La rivoluzione francese: dalla rivoluzione costituente alla caduta della monarchia La causa immediata della rivoluzione francese fu una grave crisi finanziaria che obbligò la monarchia a convocare dopo 175 anni gli Stati generali, e fu l’occasione per l’esplodere delle tensioni.
 Più volte si era tentato senza successo di porre rimedio alle inefficienze e agli sprechi del sistema fiscale.
 Nel 1701 era stata indotta la capitazione, imposta sul reddito, e nel 1749 il ventesimo, che colpiva immobili, commercio, rendite e diritti feudali. Queste due imposte in teoria dovevano gravare anche sul clero e sulla nobiltà, ma il primo se ne affrancò con un donativo allo Stato e la seconda riuscì a sfuggirvi quasi del tutto.
 Nel 1783 Luigi XVI nominò controllore generale delle finanze Calonne, che nell’estate del 1786 elaborò un pacchetto di misure volte a risanare le finanze e a rilanciare l’economia. Occorreva far pagare almeno in parte le imposte a coloro che ne erano di fatto esenti.
 Entrò a questo punto in gioco un altro fattore decisivo della crisi: la personalità debole di Luigi XVI.
 I decreti preparati da Calonne non furono infatti portati subito alla registrazione dei Parlamenti, e furono sottoposti all’analisti di un’assemblea di notabili, esponenti dell’alta nobiltà.
 L’assemblea si rivelò tutt’altro che docile, tanto che Luigi XVI fu costretto a licenziare Calonne e a nominare al suo posto Loménie de Brienne.
 Dopo che i notabili si furono dichiarati incompetenti a decidere, fu necessario presentare i decreti al Parlamento di Parigi, il quale rifiutò di registrare la sovvenzione territoriale, attribuendosi addirittura un ruolo costituzionale, ergendosi a custode delle leggi fondamentali del regno.
 A questo punto Luigi XVI decise di stroncare l’opposizione parlamentare facendo approvare una riforma della giustizia che abolì il Parlamento di Parigi.
 I provvedimenti suscitarono vivaci proteste che degenerarono anche in tumulti.
 Essendo le casse del tesoro ormai vuote, Loménie de Brienne si dimise, lasciando l’incarico a Necker.
 Fu quindi l’aristocrazia che diede inizio alla crisi rivoluzionaria che avrebbe portato alla caduta dei suoi privilegi. I Parlamenti richiamarono in vita gli Stati generali come l’unico organo legittimato ad approvare nuove tasse. Quando il Parlamento di Parigi affermò che gli Stati generali avrebbero dovuto riunirsi sulla base della distinzione dei tre ordini, la sua popolarità crollò.
 Il tradizionale conflitto fra monarchia e nobiltà perse rilievo e si impose invece il programma del Terzo Stato che mise sotto accusa l’egoismo dei privilegiati.
 Necker, nel regolamento elettorale pubblicato nel gennaio 1789, volle dare un esplicito Non mancava un puntuale richiama a Montesquieu nell’articolo 17, secondo il quale una società he non garantisce la separazione dei poteri non ha costituzione. Il testo è incentrato sulla libertà: esso contiene infatti tutti i principi concernenti la libertà personale, di pensiero, di opinione che si trovano nelle costituzioni moderne.
 Nacque allora l’espressione “antico regime” per designare la società del privilegio, delle distinzioni, dei particolarismi, che la dichiarazione aveva cancellato per sempre. ➢ Le giornate del 5 e 6 ottobre 1789 Mentre si metteva al lavoro per redigere la costituzione, l’Assemblea dovette prendere atto che la resistenza del re rischiava di vanificare la sua opera. Luigi XVI, intenzionato a non penalizzare il ‘suo’ clero e la ‘sua’ nobiltà, non intendeva firmare i decreti del 5-11 agosto.
 L’occasione per la mobilitazione popolare fu la notizia di un banchetto svoltosi a Versailles. Ancora una volta le motivazioni furono innanzitutto economiche: la mattina del 5 una folla di alcune migliaia di donne si presentò all’Hotel de ville a reclamare del pane e, non avendo trovato nessuno, si avviò in direzione Versailles. Nel corso della giornata una seconda colonna di guardie nazionali e di popolani partì da Parigi alla volta di Versailles. Quando il primo corteo giunse alla reggia, il re si impegnò a firmare i decreti di agosto e a garantire l’approvvigionamento di Parigi.
 La mattina del 6 alcuni popolani penetrarono nel castello. Il re dovette cedere alle richieste della folla e nel pomeriggio partì insieme con la sua famiglia verso la capitale dove si insediò alle Tuileries. Con la rivoluzione costituente del 1789 si affermarono i concetti e i termini del linguaggio politico moderno, a partire dalla distinzione fra ‘destra’ e ‘sinistra’ in relazione alla collocazione degli schieramenti sui banchi dell’Assemblea. Si avviò allora un processo di politicizzazione che coinvolse tutta la società francese. Anche le masse erano tutt’altro che ignare dei problemi politici del momento. SI diffuse fin dalla campagna per l’elezione degli Stati generali un gran numero di pubblicazioni sui problemi del giorno.
 Nel novembre del 1789 si formò la Società degli amici della costituzione, che si insediò nel convento dei domenicani, in francese jacobins. Formato all’inizio soprattutto da deputati, esso si affermò come un importante luogo di discussione e di elaborazione politica che estese la sua influenza a tutta la Francia grazie alla rete di club provinciali affiliati ad esso.
 Nel giugno 1790 nacque il club dei cordiglieri, così chiamato dal nome francese dei francescani nel cui convento esso si riuniva. Fina dal 1789 si delinearono anche le strutture di base del movimento popolare.
 Il 14 luglio 1790, a un anno dalla presa della Bastiglia, fu celebrata la festa della federazione. ➢ L’opera della costituente L’iniziativa politica nella Costituente fu assunta per un certo tempo dai cosiddetti “anglomani”, fautori di una monarchia costituzionale su modello inglese.
 I nobili reazionari, che a destra formavano il partito dei ‘neri’, si astennero. A differenza che in Inghilterra, dove l’aristocrazia aveva accettato il compromesso del 1688, in Francia la maggior parte della nobiltà rifiutava in blocco la costituzione.
 Fu questa la prima divisione nel fronte rivoluzionario: spaventati dalla violenza popolare, li anglomani, già dopo le giornate di ottobre, scesero dal carro della rivoluzione.
 La guida della borghesia rivoluzionaria fu assunta quindi dal cosiddetto 2triumvirato”, composto da Barnave – Duport – Lameth, che ispirarono in larga misura l’attività leghista dell’Assemblea. L’Assemblea nazionale costituente cancellò l’intrico di circoscrizioni amministrative, fiscali e giudiziarie dell’antico regime e riconobbe le autonomie locali: la Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti di estensione simile. Per quanto concerne la giustizia, fu garantita, grazie all’elezione dei giudici da parte dei cittadini, l’autonomia del potere giudiziario.
 Dando attuazione al principio dell’eguaglianza fiscale sancito nella dichiarazione, l’Assemblea riorganizzò su nuove basi il sistema finanziario, stabilendo un’imposta fondiaria, un’imposta sulla ricchezza mobile e una patente sulle attività commerciali, professionali e artigianali.
 Seguendo l’indicazione del vescovo Talleyrand-Périgord, l’Assemblea decise il 2 novembre 1789 la nazionalizzazione di tutti i beni ecclesiastici. Avendo tolto alla Chiesa tutti i suoi beni, l’Assemblea dovette incaricarsi di una sua completa riorganizzazione, che fu realizzata il 12 luglio 1790 con la Costituzione civile del clero. Gli ecclesiastici divennero dei funzionari al servizio dello Stato. Il legame con Roma divenne quanto mai esile: il vescovo eletto doveva solo informare il papa. ➢ La fuga di Varennes Nella notte fra il 20 e il 21 giugno 1791, Luigi XVI tentò di lasciare la Francia con la sua famiglia per rifugiarsi in Belgio. Riconosciuto poco prima della frontiera, a Varennes, Luigi XVI fu costretto a tornare alle Tuileries. La maggioranza dell’Assemblea respinse le richieste di deposizione del re, e accreditò la versione ufficiale di un rapimento della famiglia reale. La verità era che Luigi XVI aveva sempre tenuto contatti segreti con la Spagna e con l’Austria nella speranza di un loro intervento in suo favore. La fuga del re fu l’occasione per una nuova spaccatura del fronte rivoluzionario. Il 16 luglio l’ala moderata, rappresentata dal triumvirato e da La Fayette, uscì dal club dei giacobini per fondare il club che fu detto dei foglianti dal nome del convento dove si riuniva. Il giorno seguente una manifestazione organizzata dal club dei cordiglieri fu dispersa con la forza dalla Guardia nazionale. Fu questo l’inizio del tramonto della stella di La Fayette.
 Portati a temine i suoi lavori, l’Assemblea approvò, il 4 settembre 1791, il testo della costituzione, che Luigi XVI, prestandosi all’ennesima finzione, firmò il 13 settembre. Il 30 settembre l’Assemblea nazionale costituente si sciolse al grido “Viva il re! Viva la nazione!”.
 La Costituente diede vita a una monarchia costituzionale nella quale il sovrano, definito “re dei francesi”, conservava la titolarità del potere esecutivo, e otteneva anche un veto sospensivo delle leggi, ma vedeva sensibilmente limitato il suo potere da un’Assemblea depositaria del potere legislativo, eletta a suffragio censitario. Questa scelta strideva con l’affermazione contenuta nella dichiarazione, che riconosceva a tutti i cittadini il diritto a concorrere alla formazione della legge. La rivoluzione paradossalmente negò i diritti politici a un gran numero di francese ai quali la monarchia di antico regime aveva dato invece la possibilità di prendere parte alle elezioni degli Stati generali.
 Per quanto concerne la politica estera, i costituenti, non fidandosi di Luigi XVI, subordinarono le decisioni del re concernenti trattati internazionali e dichiarazioni di guerra alla ratifica dell’Assemblea.
 La costituzione ripudiò il diritto di conquista e pose le basi di un nuovo diritto internazionale che, contrapponendosi alla diplomazia di antico regime, si ispirava all’idea della nazione come espressione della libera volontà dei popoli. ➢ L’Assemblea legislativa Eletta nell’estate del 1791, l’Assemblea legislativa prevista dalla costituzione di insediò il primo ottobre. Su proposta dell'avvocato Robespierre, si era deciso che nessuno dei membri della Costituente ne avrebbe fatto parte. Dei 745 membri, più di 250, iscritti al club dei foglianti, erano fautori della monarchia costituzionale. A sinistra sedevano 136 deputati, molti dei quali aderivano al club dei giacobini. Provenienti in gran parte dal dipartimento della Gironda, gli aderenti a questo gruppo passarono alla storia con il nome di ‘girondini’. Infine, all’estrema sinistra si collocava una sparuta pattuglia di democratici, fautori del suffragio universale. A prescindere dall’ostinata volontà di Luigi XVI di restare fedele alla monarchia assoluta, altri fattori minavano alla base il regime costituzionale del 1791. Una costituzione ispirata al modello inglese ma monocamerale appariva zoppa, proprio per la mancanza di un sostegno da parte dell’aristocrazia.
 Un altro motivo di instabilità e di debolezza era il problema religioso. Nel maggio 1791 giunse da parte del papa la condanna formale della costituzione civile del clero. Quando l’Assemblea nazionale impose agli ecclesiastici un giuramento di fedeltà alla costituzione, quasi tutti i vescovi e circa la metà dei parroci rifiutarono. Si determinò così nel clero una frattura che fece naufragare l’unità religiosa della nazione.
 Alla radicalizzazione del processo rivoluzionario concorse anche l’aggravarsi della crisi economico-sociale.
 Un ulteriore fattore di accelerazione della crisi fu la guerra, sulla quale nei giacobini si svilupparono due fazioni pro e contro. Nel marzo 1792 Luigi XVI insediò un ministero composto da girondini.
 Questi ultimi d’altra parte, manifestando la necessità di una crociata che portasse i principi del 1789 al di là delle frontiere francesi, esprimevano con efficacia la portata universale della rivoluzione.
 L’opposizione di Robespierre rimase comunque una voce isolata. Il 20 aprile 1792 l’Assemblea approvò a larga maggioranza la dichiarazione di guerra all’imperatore d’Austria Francesco II.
 I primi insuccessi militari provocarono una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria, che mise sotto accusa il tradimento del re.
 Intanto a Parigi erano affluite le delegazioni dei patrioti provenienti da tutte le province per celebrare la festa della delegazione. L’insurrezione nella notte fra il 9 e il 10 agosto vide i popolani muoversi all’assalto delle Tuileries. L’Assemblea legislativa, presso la quale si era rifugiato Luigi XVI decise la sospensione del re e la formazione di un Consiglio provvisorio. Nel contempo i 288 delegati eletti dalle sezioni si sostituivano alla vecchia municipalità travolta dall’insurrezione, dando vita al comune rivoluzionario. 29. La rivoluzione francese: la Convenzione e il regime del Direttorio All’indomani della caduta del re si creò un dualismo istituzionale fra il Comune rivoluzionario, che si era insediato al posto della precedente municipalità, e l’Assemblea legislativa, che restava in carica in attesa che fosse eletta a suffragio universale una Convenzione. Un punto di accordo era il consiglio esecutivo provvisorio, formato dalla stessa Assemblea, nel quale la figura principale era il ministro della giustizia Danton.
 Nel mese di settembre si svolsero le elezioni per la Convenzione, a suffragio universale maschile.
 La Convenzione, riunitasi a Parigi il 20 settembre, proclamò ufficialmente la repubblica.
 Poiché i 749 deputati erano tutti di orientamento repubblicano, erano presenti tre fazioni: ➢ Girondini, seduti nell’ala destra; ➢ Montagna, di cui molti membri erano del club dei giacobini, chiamata così perchè seduta nell’aula in alto a sinistra; ➢ Pianura, che occupava il centro, composta da un grosso raggruppamento di personaggi privi di precisa caratterizzazione politica. Fin dall’inizio si sviluppò fra Montagna e Gironda un’aspra lotta politica. Dietro la Gironda vi erano i grandi porti, centri del capitalismo commerciale, e una borghesia provinciale legata alla rivoluzione ma ostile allo strapotere di Parigi e intimorita dalla violenza del movimento popolare. Fra i capi della Montagna vi erano Robespierre e Saint-Just.
 A partire dalla primavera del 1792 il movimento popolare impose la sua centralità nel processo rivoluzionario. Esso era passato da una folla indistinta ad essere un’organizzazione militante. I militanti del movimento popolare furono chiamati “sanculotti” perché portavano i pantaloni lunghi e non le culottes.
 Il sanculotto divenne l’incarnazione del militante e dell’agitatore rivoluzionario. Questo non era un gruppo socialmente definito, ma era la proiezione del composito tessuto sociale del lavoro urbano.
 La componente maggioritaria era formata da artigiani e bottegai. Nelle giornate rivoluzionarie uomini di così diversa condizione erano uniti dal fatto che scendevano in piazza non come produttori ma come consumatori, preoccupati che fossero garantiti i prodotti di prima necessità.
 sardo, riuscì a dividerlo a metà, sconfiggendo prima gli Austriaci a Montenotte e poi i Sardi a Millesimo. Con l’armistizio di Cherasco la Sardegna lasciò alla Francia il Piemonte come base per continuare la campagna. Napoleone decise di invadere il ducato di Parma, neutrale, battendo le truppe francesi sul ponte di Lodi, ed entrando trionfalmente a Milano il 15 maggio 1796. Con gli armistizi firmati, la Francia aveva sotto il suo controllo tutta l’Italia settentrionale. Il 2 febbraio 1797 l’esercito austriaco trincerato a Mantova capitolò, e l’offensiva di Napoleone si spostò verso il Papa, che con la pace di Tolentino cedette le delegazioni di Romagna.
 L’Austria di Francesco I fu costretta a firmare la Pace di Loeben nell’aprile 1797, dove fu lo stesso Napoleone a dettarne le condizioni.
 In Italia furono formate la Repubblica Cispadana e la Repubblica Cisalpina, mentre la repubblica di Genova venne trasformata in Repubblica Ligure. Queste repubbliche erano soggette al completo controllo dei francesi. ➢ Il triennio repubblicano Nella penisola si erano formati circoli clandestini e società segrete di orientamento repubblicano-democratico. Nel 1796 i patrioti poterono uscire allo scoperto e impegnarsi per ottenere la formazione di una repubblica democratica unita e indipendente. A queste attese corrispose in parte Napoleone che, disattendendo le indicazioni del Direttorio, favorì la formazione di alcune repubbliche. Egli ebbe sempre cura di emarginare i democratici e affidare l’amministrazione delle repubbliche agli elementi più moderati. Con il trattato di pace di Campoformio del 17 ottobre 1797, la Francia ottenne Belgio, la frontiera sul Reno e il predominio in Italia, mentre l’Austria ottenne Venezia, Istria e Dalmazia.
 A parte il ducato di Parma e Venezia oramai austriaca, rimanevano indipendenti solo Sicilia e Sardegna, mentre il resto della penisola fu assoggettato al predominio francese.
 Dopo la pace di Campoformio restava in campo contro la Francia solo l’Inghilterra, contro la quale Napoleone preferì svolgere una spedizione in Egitto. Egli riuscì a sconfiggere le truppe dei Mamelucchi, ma rimase prigioniero della sua conquista, a causa della distruzione della sua flotta da parte dell’ammiraglio inglese Nelson. Le forze francesi riuscirono a resistere in Belgio e a respingere l’attacco nemico, ma in Italia dovettero abbandonare tutti i territori conquistati e rifugiarsi a Genova. Le sconfitte militari acuirono la crisi del regime dittatoriale.
 Sieyès, divenuto direttore nel maggio 1799, cominciò a progettare un colpo di Stato. Quando seppe che Napoleone era sbarcato in Francia si accordò con lui per la realizzazione del progetto. Il 9 novembre 1799 (18 brumaio) i consigli legislativi furono fatti trasferire a Saint-Cloud, mentre i membri del Direttorio si dimettevano. Il colpo di Stato rischiò di fallire a causa dell’opposizione di una parte del Consiglio degli Anziani e della maggioranza del Consiglio dei Cinquecento. Fu il fratello Luciano a salvare la situazione, denunciando i deputati come corrotti dall’Inghilterra.
 A sera pochi deputati raccattati in fretta diedero il potere ad un triumvirato, formato da Bonaparte, Sieyès e Ducos, e nominarono due commissioni per la preparazione di una nuova costituzione.
 La borghesia affidava al potere militare il compito che il Direttorio non aveva saputo assolvere: chiudere la rivoluzione, garantire l’ordine e la pace con l’Europa. 30. L’Età napoleonica ➢ Rapporto con la Corsica e Paoli Nato in Corsica nel 1769 da famiglia di origine toscana trasferitasi in Corsica nel XVI.
 La Corsica apparteneva alla Repubblica di Genova, ma con il Trattato di Versailles del 1768 viene ceduta alla Francia. Tuttavia la popolazione, guidata da Pasquale Paoli, decise di opporre resistenza ai francesi, venendo sconfitta nella battaglia di Pontenuovo, nel maggio 1769. Paoli decise di fuggire in Inghilterra. Le opere scritte in giovinezza da Napoleone permettono di intuire l’evoluzione del suo pensiero politico. Nel “Discorso” (1791), egli si ricollega all’opera di Rousseau e indica la nazione Corsa come l’ultimo baluardo dell’originaria semplicità ed eguaglianza dello stato di natura, prima della conquista francese che ha solo portato la corruzione del secolo dei lmi.
 A far mutare le sue idee fu la Rivoluzione Francese, poiché egli valutò positivamente gli eventi del 1789, in particolare i decreti del 4 e del 29 agosto.
 Nella lotta politica per l’indipendenza, i Corsi adottarono così i principi del 1789. La Corsica venne infine proclamata dall’Assemblea nazionale costituente del 1789 parte integrante della Francia, e ne adottò la costituzione. Paoli, di ritorno dall’Inghilterra, divenne il nuovo governatore dell’isola.
 Napoleone tornò in Corsica dove divenne tenente colonnello in seconda. In tale veste partecipò alla spedizione contro la Sardegna, che si rivelò un completo disastro e suscitò polemiche contro Paoli. La Convenzione emanò un decreto di arresto contro Paoli, accusato di tradimento dal fratello di Napoleone, Luciano, ma egli venne difeso dalla popolazione. La famiglia Bonaparte venne successivamente scacciata dall’isola. Stabilitosi a Marsiglia e ripreso il servizio militare, con la caduta di Robespierre Napoleone, sospettato di giacobinismo, fu arrestato a Nizza e, dopo la scarcerazione, fu tenuto in disparte.
 L’occasione per risollevarsi gli fu data dalla Convenzione, che lo incaricò di stroncare l’insurrezione monarchica provocata dal decreto dei due terzi a Parigi. Dato il suo successo, egli decise di abbandonare la collocazione a sinistra, riservando i colpi più duri ai giacobini. Con il prestigio raggiunto dalle Campagne d’Italia e d’Egitto, e la crisi del regime direttoriale, Napoleone potè pensare al colpo di Stato, che avvenne nel 18 brumaio VIII, insieme a Sièyes e Ducos.
 Dopo il colpo di Stato, Bonaparte impose subito la sua volontà, relegando in una posizione subalterna Sieyès. Redatta in tutta fretta ed entrata in vigore già nel dicembre 1799, la costituzione dell’anno VIII pose alla testa dello Stato per dieci anni tre consoli, ma in realtà attribuì tutto il potere a Bonaparte. Il potere legislativo era affidato a due assemblee: il Tribunato, che discuteva le proposte di legge elaborate dal Primo console con l’aiuto di un Consiglio di Stato, e il Corpo legislativo, che poteva approvare queste leggi o respingerle. Il carattere autoritario del nuovo regime fu chiaro fin dai primi provvedimenti: la libertà di stampa fu cancellata, e venne imposto il divieto di criticare il governo.
 Abituata ai colpi di stato dell’età direttoriale, l’opinione pubblica non percepì il 18 brumaio come una svolta, e attendeva gli sviluppi degli eventi: sarebbe bastata una sconfitta militare a spazzare via il nuovo regime.
 Napoleone riuscì a stabilire la pace continentale attraverso la pace di Lunéville, febbraio 1801 con l’Austria e la pace di Amiens, marzo 1802 con l’Inghilterra, che rappresentò la fine delle guerre tra la II coalizione e la Francia. Forte dei successi militari, il primo console poté dedicarsi all’opera di pacificazione interna. L’opposizione di sinistra fu colpita da una dura repressione, anche a causa di un attentato ideato contro Napoleone stesso, mentre alla destra venne mostrata l’inutilità di una lotta per la restaurazione dei Borbone, dal momento che in Francia era presente un potere forte.
 Il nodo decisivo era la pacificazione religiosa causata dallo scisma del 1790, che dopo trattative lunghe e faticose fu sancita dal concordato firmato a Parigi nel luglio 1801. Il papa Pio VIII ottenne che il cattolicesimo fosse dichiarato religione della maggioranza dei francesi e vide ristabilita la sua autorità sulla chiesa di Francia.
 In due anni Napoleone era riuscito a chiudere la rivoluzione, ristabilendo l’ordine interno e la pace. Questi successi crearono le premesse per un rafforzamento de suo potere. Nel 1802 Tribunato e Corpo legislativo gli conferirono il consolato a vita. Quindi il Senato emanò un Senato-consulto che modificava la costituzione dell’anno VIII. I poteri del primo console furono ulteriormente accresciuti. Infine nel 1804 un nuovo Senato-consulto assegnò a Napoleone il titolo di imperatore dei francesi, reso ereditario nella sua famiglia. Poco dopo egli ricevette anche il titolo di Re d’Italia.
 
 Da questo momento finisce l’età rivoluzionaria e inizia il dispotismo napoleonico.
 
 Dalle riforme costituzionali del 1802 e del 1804 emersero alcune caratteristiche tipiche del modello bonapartista. L’elemento centrale del sistema era il plebiscito. Non a caso il ricorso al plebiscito scandì tutti i passaggi fondamentali dell’avventura napoleonica. Il plebiscito aveva la funzione di sostituire e di fatto cancellare la rappresentanza politica attraverso libere elezioni. L’altra caratteristica del bonapartismo era infatti l’antiparlamentarismo.
 Negli anni del consolato Napoleone riorganizzò su nuove basi l’amministrazione, secondo un piano razionale che garantiva la rapidità e l’efficacia della trasmissione e dell’esecuzione degli ordini dal centro alla periferia. Lo snodo centrale era il prefetto, che aveva alle sue dipendenze i sottoprefetti e i sindaci dei comuni. Molto importante fu anche la razionalizzazione e il riordino del sistema finanziario, che portò in tempi brevi al pareggio del bilancio.
 Nel frattempo la pace di Amines non aveva fermato l’antagonismo fra Inghilterra e Francia nei vari ambiti dello scacchiere europeo. La Francia mette in atto una nuova politica espansionistica, annettendo il Piemonte, lo Stato di parma e l’Isola d’Elba.
 Intanto una terza coalizione antifrancese composta da Austria, Inghilterra, Russia, Svezia e Regno di Napoli, prese l’iniziativa con l’esercito austriaco che occupò la baviera, alleata francese. Dopo aver sconfitto sia l’esercito austriaco che quello russo, Napoleone entrò per la prima volta a Vienna il 15 novembre 1805.
 Anche una quarta coalizione composta da Prussia, Russia e Inghilterra non riuscì a sconfiggere Napoleone, che entrò a Berlino in ottobre. Con la Pace di Tilsit del 25 giugno 1807 ci fu il primo incontro tra Napoleone e Alessandro I. L’unica nemica in piedi rimaneva l’Inghilterra, contro la quale venne attuata una guerra commerciale. L’Inghilterra bloccò le coste francesi facendo in modo che non avvenisse il commercio tra Francia e Stati Neutrali. Napoleone rispose con il decreto di Berlino del 1806, con cui dichiarò il blocco continentale. Poichè Napoleone era diventato padrone della Germania, e alleato con la Russia, poteva anche imporre a tutti i paesi europei di chiudere tutti i porti all’Inghilterra. Per rendere effettivo il blocco continentale era necessario il controllo del Portogallo. ➢ L’intervento in Spagna Napoleone si accordò con la Spagna per occupare il Portogallo, che era alleato dell’Inghilterra ed era uno snodo centrale nel commercio inglese. In Spagna il blocco commerciale aveva provocato un forte malcontento, dove una sommossa popolare (tumulto di Aranjuez) costrinse Carlo IV di Borbone ad abdicare in favore del figlio Ferdinando VII. Napoleone, dichiarando nulla l’abdicazione di Carlo IV, colse l’occasione per imporre la sua volontà, dando nel maggio 1808 la corona al fratello Giuseppe, ed esiliando i sovrani spagnoli in Francia. Sul trono di Napoli salì perciò il cognato di Napoleone, Gioachino Murat. Il brutale intervento scatenò la reazione della popolazione. Il 2 maggio 1808 l’ostilità dei madrileni nei confronti dei francesi provocò un violento tumulto represso dai francesi con la fucilazione degli insorti (quadro di Goya). La popolazione diede il via ad una violenta sollevazione antifrancese. La rivolta spagnola, sostenuta dagli inglesi, continuò sotto forma di guerriglia. L’insurrezione, chiamata in Spagna guerra di indipendenza, fu sostenuta dall’aristocrazia e dal clero. Solo nel 1812 le Cortes, riunitesi a Cadice, formarono una costituzione liberale, modellata su quella francese del 1791, che però Ferdinando VII, ritornato sul trono nel 1814, annullò per ripristinare la monarchia assoluta. Napoleone dovette interrompere la campagna di Spagna nella primavera del 1809, a causa dell’invasione della Baviera da parte dell’Austria. Napoleone entrò trionfante a Vienna per la seconda volta, firmando l’armistizio con gli austriaci nel Trattato di Schonbrunn del 1809. ➢ Secondo matrimonio e sgarbo alla Russia I rapporti tra Napoleone e lo zar Alessandro I si incrinarono definitivamente con il secondo matrimonio di Napoleone. Egli, ottenuto il divorzio da Giuseppina, chiese la mano della sorella dello zar Caterina. Mentre il rifiuto di questa proposta stava arrivando, egli raggiunse un accordo per sposare la figlia dell’imperatore d’Austria, Maria Luisa, facendo così uno sgarbo alla Russia.

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