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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 1 Capitolo 1, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 1 – L'Impero cristiano

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 1 Capitolo 1 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 1 – L'Impero cristiano (Pag. 6-25) Il tardoantico non è più visto come una lunga fase di decadenza dell'Impero, ma come un periodo con suoi propri connotati, in un complesso e innovato equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romano, le istanze del governo centrale, la progressiva penetrazione di nuove popolazioni nei territori imperiali e nuove forme religiose. Dobbiamo osservare le principali strutture di potere e di prelievo, il ruolo dell'esercito e la sua componente barbarica, il mutamento religioso che si attuò a partire dal IV secolo, con la cristianizzazione dell'Impero e l'avvento della figura del monaco cristiano, che assumerà un ruolo rilevante lungo il medioevo. È una fase di intensi confronti tra diversi modelli di civiltà e spiritualità: da un lato le narrazioni di parte cristiana del confronto tra pagani e cristiani hanno rapidamente messo in secondo piano le posizioni pagane (es. l'imperatore Giuliano, detto “l'apostata” per la sua coerente e matura ideologia pagana); dall'altro lo scontro tra mondo romano e popolazioni barbare è narrato da testi esclusivamente di ambito romano, al punto che gli stessi processi di costruzione dell'identità etnica dei popoli germanici sono leggibili in massima parte attraverso testi romani o narrazioni storiche scritte secoli dopo, quando i popoli germanici erano ormai stanziati all'interno dei territori romani. Questo sistema di fonti ha dato vita a ricostruzioni storiche spesso incerte e cariche di implicazioni ideologiche e politiche, attorno al nesso tra potere e religione e attorno alle identità etniche e all'opposizione tra mondo romano e mondo germanico. - 1. Il sistema imperiale tardoromano: poteri e prelievi Un momento fondamentale di transizione nella storia romana si ebbe attorno alla fine del II secolo d.C., quando terminò l'espansione militare dell'Impero, che si stabilizzò nei confini (in ambito europeo) segnati dal limes del Reno e del Danubio: da qui si può far iniziare l'Impero tardoantico. L'apparato di potere imperiale. L'Impero non era in alcun modo uno spazio di civiltà omogeneo: riuniva popolazioni diverse per tradizioni, lingue e religioni, con livelli di romanizzazione molto variabili; ma queste popolazioni erano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Questo apparato subì una crisi lungo la seconda metà del III secolo, con una serie di lotte per il trono che portarono a continue successioni e alla presenza di più imperatori contemporaneamente. Il potere imperiali fu ripristinato sotto Diocleziano, che riaffermò un efficace controllo sull'intero territorio, condividendo il potere dal 285 con Massimiano, nella diarchia: non fu una divisione territoriale dell'Impero, piuttosto una condivisione delle responsabilità all'interno di una chiara e indiscussa superiorità di Diocleziano. Si coglie però qui la crescente importanza di polarità diverse da Roma, come l'Oriente, dove agì Diocleziano, e la Gallia, di Massimiano. Nessuno dei due risiedette a Roma, che iniziò lentamente a perdere le funzioni di unica capitale, restando però centro simbolico dell'Impero e sede del Senato. Questa polarizzazione tra Oriente ed Occidente si accentuò quando la diarchia divenne tetrarchia, con due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro) che affiancarono due Augusti, come loro principali collaboratori e successori naturali: on fu mai messa in discussione l'unità dell'Impero, ma le responsabilità dei diversi sovrani assunsero un più chiaro connotato territoriale. Lungo il IV secolo non ci furono due Imperi, ma spesso due imperatori. Oriente e Occidente. Due furono i passaggi fondamentali nel corso del IV secolo: prima la fondazione di Costantinopoli, poi il segno di Teodosio e la sua successione. Sulla città di Bisanzio, l'imperatore Costantino nel 324 decretò di fondare una città nuova, e nel 330 ve ne celebrò la dedicatio (=consacrazione della città). Questa fondazione assunse un valore particolare perché Costantinopoli nacque subito come residenza imperiale; non era una capitale (Roma): ma mentre in Occidente assumevano un'importanza e una stabilità crescente le residenze imperiali nelle varie città (Milano, Ravenna, Treviri), Costantinopoli si affermò come punto di riferimento forte del potere imperiale nel Mediterraneo orientale. L'ulteriore anomalia di Costantinopoli fu rappresentata dalla presenza di un Senato, ente rappresentante il fondamento primo del potere romano e che sembra connotare quindi la nuova città come una capitale, una nuova Roma. Ma in questa prima fase il Senato di Costantinopoli era solo una sorta di appendice del Senato di Roma, l'assemblea di quei senatori che (per origine o patrimonio), erano attenti alle aree orientali dell'Impero e per questo avevano seguito Costantino nella sua nuova residenza. Solo a partire dal V secolo, Costantinopoli divenne una vera capitale: ma queste funzioni furono l'esito di un lungo processo di elaborazione, non il frutto diretto e immediato della fondazione. Questa maturazione di Costantinopoli come capitale fu resa possibile anche dal secondo mutamento fondamentale della struttura del potere imperiale, ovvero la divisione stabile tra una parte orientale e una parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I, il cui regno aveva rappresentato una fase di efficacia del potere imperiale e di consolidamento di fronte alle minacce militari, dopo la sconfitta di Adrianopoli. Teodosio si rese conto che un efficace controllo di territori così diversificati e minacciati sul piano militare avrebbe richiesto una presenza diretta dell'imperatore, possibile solo con una spartizione che affidasse a ogni sovrano un territorio di dimensioni più contenute. I figli Arcadio e Onorio ottennero Oriente e Occidente, ed è quindi nei decenni tra il IV e V secolo che è giusto ragionare in termini d'Impero orientale, individuando le linee di una vicenda specifica, che progressivamente si differenziò e allontanò dall'Occidente per poi rimanere l'unico Impero romano alle fine del sec. V. I costi dello Stato. Una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un afflusso costate di denaro, per sostenere la burocrazia (che costituiva il capillare sistema di controllo diffuso su tutto il territorio imperiale), la capitale (sia per la burocrazia centrale che per il rifornimento di cibo gratuito o a prezzo contenuto che gli imperatori garantivano agli abitanti liberi di Roma) e l'esercito (costo rilevante anche perché si trattava di un esercito stipendiato, non l'espressione di una circoscrizione universale obbligatoria). Queste tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo fiscale capillare, il cui cespite principale era costituito dall'annona, l'importa che gravava sulle popolazioni rurali in base all'estensione delle terre, si ala numero di contadini previsti su ognuna di esse. La popolazione urbana era esentata da questa imposta, ma esano tassati quei cittadini che disponevano di beni fondiari nelle campagne. Le città avevano un ruolo fiscale centrale perché i curiales (i membri dell'assemblea cittadina) erano incaricati di riscuotere l'imposta nel territorio circostante e girarla all'apparato imperiale. Di più, i curiales erano responsabili di questa importa e dovevano intervenire di persona in caso di riscossione insufficiente o tardiva. Reti di scambio. Questo meccanismo fiscale costituiva la struttura portante di un sistema di circolazione economica che attraversava Mediterraneo e Europa; era l'espressione concreta della capacità romana di integrare province così lontane e diverse: le imposta non restavano all'interno della singola provincia, ma andavano a sostenere i costi complessivi dell'Impero. Es. Le produzioni cerealicole di Egitto e Nordafrica servivano a nutrice sia la popolazione di Roma (1 milione e mezzo di abitanti nel momento di massima espansione), sia gli eserciti, stanziati lungo il limes del Reno e del Danubio. Non dobbiamo parlare di circolazione commerciale, ma soprattutto fiscale, fatta di moneta e beni di primo consumo. Lo scambio commerciale a lungo raggio si sviluppò su questa base: il sistema fiscale comportò un impegno imperiale per il funzionamento delle infrastrutture e la sicurezza della navigazione. Il commercio a lungo raggio in età imperiale viaggiava sulle spalle del sistema fiscale: era possibile e redditizio perché le esigenze dello Stato avevano attivato sistemi di circolazione a lungo raggio e garantito le infrastrutture necessarie a questa circolazione. Le difficoltà del tardo Impero. La peculiarità dell'età imperiale risiede nel fatto che le regioni produttivamente diversissime erano economicamente interdipendenti: alcune aree si nutrivano regolarmente in base ai prodotti agrari di regioni lontanissime. Il tardoantico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni. La fine dell'espansione militare (ca. Seconda metà II secolo d.C.) determinò anche la fine di un'espansione economica che era stata accelerata dalle conquiste, che avevano garantito l'afflusso di bottino e la disponibilità di prigionieri di guerra come manodopera servile. Cambiarono molti punti di vista dell'economia romana, con un declino delle funzioni economiche della schiavitù, che non rappresentò più la base del sistema produttivo. Le villae tardoromane non furono l'espressione di un sistema schiavistico, ma dell'integrazione tre grande proprietà aristocratica e colonato contadino, in cui la distinzione tra liberi e schiavi non aveva un rilievo strutturale dal punto di vista dei funzionamenti economici. Per quanto riguarda le esigenze economiche dell'Impero, il contesto politico-militare fece sì che non fossero comprimibili le spese militari, ingenti a causa della pressione continua di diversi popoli sul limes (renano- danubiano e persiano). Questa continua richiesta di moneta impose agli imperatori, lungo il IV secolo, una politica inflazionistica: si produsse sempre più moneta riducendo la quantità di metallo prezioso effettivamente contenuto nella singola (l'intrinseco). L'Impero incassava monete, le fondeva e ne rimetteva in circolo un numero superiore. Questo andò a colpire i ceti più poveri, che si trovavano in mano monete di valore sempre minore. I costi dell'unificazione (esercizio e burocrazia soprattutto) divennero via via superiori ai vantaggi derivanti dall'integrazione economica. Cambiò anche il rapporto tra l'Italia e le province, con la prima che perdette progressivamente la propria rilevanza produttiva, divenendo luogo di consumo dei prodotti provenienti dalle diverse parti dell'Impero. Il sistema fiscale e commerciale fu strutturato attorno a un flusso di derrate e manufatti che dalle periferie andavano verso il centro, o vero quelle aree dell'Impero (es. Limes) per le quali il potere centrale aveva un continuo bisogno di risorse. Una polarità forte fu rappresentata dalla provincia dell'Africa proconsolare e dal suo centro, Cartagine, come area di produzione sia agraria (cereali) sia artigianale : si strutturò un'asse stabile di circolazione di ricchezze tra Roma e Cartagine, soprattutto quando i prodotti dell'altra grande provincia cerealicola, l'Egitto, furono indirizzati prioritariamente su Costantinopoli, che nel V secolo affiancò Roma come capitale imperiale e metropoli del Mediterraneo. - 2. L'esercito, il limes, i barbari In età tardoantica l'esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi per lo Stato. Il costo era alto perché si trattava di un esercito stipendiato: la circoscrizione obbligatoria era tramontata a favore di una tassa sostitutiva che i grandi proprietari pagavano per esentare dal servizio i propri coloni e garantirsi la mano d'opera sulle proprie terre. Grazie a questa tassa, l'Impero era in grado di nutrire, equipaggiare e stipendiare l'esercito. Era una struttura ampia, a causa delle continue pressioni sui confini, ma anche per le ricorrenti guerre civili tra i diversi aspiranti imperatori. Nel corso del IV secolo, si definirono due settori dell'esercito: i comitatenses, la forza nobile incaricata di accompagnare l'imperatore, e i limitanei, le guarnigioni poste a difesa del confine (limes). • Plur. dei Cristianesimi: le Sacre Scritture avevano lasciato il campo aperto ad interpretazioni teologiche diverse; • Plur. dell'organizzazione ecclesiastica: per tutto l'alto medioevo non si può parlare di una centralità papale, ma di una superiorità del vescovo di Roma più che altro in termini di prestigio, in quanto successore di Pietro; la struttura portante dell'organizzazione ecclesiastica era invece costituita dalle singole sedi vescovili. Da culto minoritario a religione dominante. La cristianizzazione dell'Impero fu, oltre alla sua diffusione nei territori imperiali, la trasformazione delle strutture di potere in senso cristiano e la sua adozione come religione ufficiale e ideologica fondante del potere imperiale. Questo processo politico-religioso non fu la conseguenza di una generale e dominante diffusione del Cristianesimo tra le popolazioni romane, perché l'adesione alla nuova religione da parte dei gruppi dominanti fu stimolata dalla nuova ideologia cristiana del potere imperiale. Nel corso del IV secolo il Cristianesimo passò dalla condizione di religione minoritaria e illecita a quella di religione dominante e ideologica dell'Impero. Le persecuzioni. Si svilupparono soprattutto nella seconda metà del II secolo, a partite dall'imperatore Decio (250). Furono un elemento di novità, rispetto alla tradizionale tolleranza religiosa romana, e prima di tutto espressione di una trasformazione del potere imperiale, il cui crescente assolutismo si espresse anche in un'esaltazione intollerante del culto dell'imperatore, forma di omaggio politico attuata attraverso un linguaggio religioso. Le persecuzioni avevano quindi un chiaro fine di consolidamento della coesione ideologica dell'Impero, ma a questo si univano indubbie ragioni di tipo economico (per le requisizioni a danni dei cristiani) e un tentativo di orientare verso obiettivi pretestuosi l'ostilità popolare. Un mutamento radicale si attuò nel primi anni del IV secolo: nel giro di poco tempo si arrivò alla libertà di culto per i cristiani (tra il 311 ed il 313), innescando un processo che portò nel 380 a fare del Cristianesimo la religione ufficiale dell'Impero. Tre sono le tappe che lungo il IV secolo scandirono questo processo: l'editto di Milano (313), il concilio di Nicea (325) e l'editto di Tessalonica (380), che sono però le tappe del rapporto della religione cristiana col potere imperiale, non la sua diffusione. L'editto di Milano (313). La sua esistenza è incerta. Dopo la vittoria su Massenzio e la presa del potere, Costantino si limitò a confermare e porre in atto un decreto di Galerio del 311, che già aveva posto fine alle persecuzioni e sancito la libertà del culto cristiano. La figura di Costantino resta però fondamentale, sia perché fu spesso evocato come modello di imperatore cristiano sia perché fu la sua azione a rendere operativo il nesso tra potere imperiale e Cristianesimo. La scelta di Costantino non diede vita a un Impero stabilmente cristiano, non furono vietati i culti pagani né perseguitati gli eretici; la stessa aristocrazia senatoria non confluì nelle file cristiane prima della fine del secolo. Ma da questi anni gli imperatori individuarono nel Cristianesimo una possibile ideologia unificante del frammentato mondo romano, un nuovo fondamento di legittimità del potere imperiale. La scelta era coerente con alcune esigenze religiose diffuse nel mondo romano del IV secolo, come la ricerca di una religione salvifica a forte connotazione morale, orientata non solo ad una dimensione culturale, ma a una crescita etica e umana dell'individuo. Il concilio di Nicea (325): la condanna dell'Arianesimo. La funzione di collante dell'Impero richiedeva un'unità teologica del Cristianesimo, problema posto a Nicea. Qui la principale decisione dei vescovi cristiani fu la condanna dell'Arianesimo, la dottrina cristiana elaborata dal prete Ario, giudicata eretica per una ragione propriamente teologica: per conciliare monoteismo e trinità, Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio sarebbe stato creato dal Padre, e quindi a lui sottoposto e non eterno; prevalse invece l'interpretazione per cui il Figlio era coeterno e fatto della stessa sostanza del Padre, "generato e non creato" (Credo). Il fondamento della capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva nell'incarnazione di Dio e la sua efficacia era connessa alla piena natura divina del Figlio, incarnato in Cristo; la tesi di Ario, anche se di più facile comprensione e accettabile sul piano filosofico, vedeva nel Figlio incarnato una figura minore q quindi non garantiva l'efficacia salvifica del Cristianesimo. L'élite romana aveva l'esigenza di chiarezza filosofica, il che rendeva inaccettabile una fede religiosa che non fosse dotata di coerenza intellettuale; la chiarezza dell'Arianesimo non era però pienamente coerente con le finalità salvifiche, meglio affermate dalla teologia nicena. Il concilio di Nicea fu convocato da Costantino: un imperatore non ancora battezzato, che da pochi anni aveva concesso la libertà di culto ai cristiani, ritenne necessario per la solidità del proprio potere convocare un concilio che risolvesse una questione ideologica. L'efficacia della religione come collante ideologico nel mondo romano era direttamente proporzionale alla sua unitarietà e coerenza; la tesi nicena era teologicamente superiore a quella ariana, a forse dal punto di vista di Costantino era soprattutto importante che dal concilio uscisse una tesi unitaria, che il Cristianesimo si rimodellasse in una religione coerente e priva di visioni, tale da funzionare come elemento di supporto all'ideologia imperiale. Il concilio di Nicea quindi da un lato affermò la centralità del concilio, l'assemblea dei vescovi, come luogo di elaborazione teologica, e dall'altro mise in evidenza il ruolo dell'Impero, che aveva bisogno dell'unità ecclesiastica e assunse il ruolo di tutore dei conflitti interni alla Chiesa. La separazione tra cattolici e ariani si rafforzò lentamente, soprattutto a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando da un lato crebbe l'intolleranza del Cristianesimo romano, e dall'altro l'Arianesimo accentuò la sua diffusione nel mondo germanico, anche grazie alla traduzione del vescovo Ulfila della Bibbia in lingua gotica. Se l'Impero agì con crescente determinazione a perseguitare le posizioni eretiche, la sua forza si arrestava al limes e non poteva incidere sulla diffusione Ariana in ambito germanico, ove la maggior semplicità intellettuale fu un punto di forza delle sue tesi. Si creò quindi una bipartizione religiosa, tra un modo romano cattolico-nicena e un mondo germanico ariano. Questo ebbe importanza nel secolo successivo, quando l'affermarsi dei regni romano-barbarici nei territori imperiali si tradusse nel dominio di una minoranza germanica ariana su una maggioranza latina cattolica. L'editto di Tessalonica (380). Con questo può essere colto il pieno consolidamento a livello imperiale del Cristianesimo, col quale l'imperatore Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il Cristianesimo, facendone la religione ufficiale dell'Impero. Questa decisione diede il via ad una più dura azione di repressione delle forme religiose eretiche, ma furono anche i decenni nei quali l'affermazione del Cristianesimo compì un salto di qualità decisivo, con la massiccia conversione dei ceti più ricchi. - 4. Vescovi e monaci Vescovi e diocesi. Alla fin del IV secolo possiamo vedere nel Cristianesimo la religione dominante nell'Impero romano: per le posizioni del potere imperiale, per la sua diffusione nell'insieme della popolazione, per il ruolo guida assunto dall'aristocrazia senatoria. Ma non dobbiamo pensare alla Chiesa cristiana del IV-V secolo come ad una organizzazione unitaria, a una Chiesa universale. La struttura portante era costituita dalla singola diocesi, la comunità cristiana di una città e del suo territorio, raccolto attorno al vescovo. Fu la ripresa di un modello organizzativo dell'Impero, il cui governo passava attraverso un'articolazione in distretti cittadini. La centralità del vescovo nei confronti della società cittadina nasceva dalla sua funzione religiosa, come principale mediatore verso il sacro e guida dei fedeli verso la salvezza ultraterrena, ma questo si arricchì con il progressivo inserimento nella Chiesa cristiana della grande aristocrazia senatoria, i cui membri furono i più naturali candidati a occupare i ruoli di maggiore responsabilità ecclesiastica, ovvero le sedi vescovili. A costituire il prestigio dei vescovi concorsero quindi le loro funzioni religiose e la loro identità sociale e familiare: erano importanti in quanto vescovi e in quanto aristocratici. Nei secoli seguenti seppero agire come mediatori dei modelli istituzionali romani nei confronti dei nuovi dominatori germanici: nei vescovi andarono addensandosi le tradizioni istituzionali, culturali e religiose del tardo Impero, ed essi furono perciò in grado di trasmettere tali tradizioni ai regni romano-germanici, contesto di una profonda ripresa e rielaborazione dell'eredità romana. Le sedi patriarcali. Al di sopra dei singoli vescovi non esisteva una struttura unitaria: tra IV e V secolo andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori, definite sedi patriarcali (Roma, Antiochia in Siria, Alessandria d'Egitto e Gerusalemme, cui si aggiunse, a metà del V secolo Costantinopoli). Non si trattava di una gerarchia, era una superiorità di prestigio, un grande coordinamento che espresse la sua efficacia nei dibattiti cristologici che divisero la cristianità tra V e VII secolo, quando le diverse sedi patriarcali divennero poli di riferimento per posizioni teologiche contrapposte. Niente di simile all'accentramento intorno a Roma che connoterà la Chiesa cattolica in età moderna e contemporanea: Roma era l'unica sede patriarcale d'Occidente, la più prestigiosa di tutti, per il suo richiamo alla tradizione imperiale e perché il vescovo di Roma era il successore di Pietro, il primo degli apostoli. Ma l'idea che Roma dovesse essere centro della Chiesa fu l'esito di una lenta elaborazione, che trovò chiara espressione solo a partire dal secolo XI, nel contesto della grande Riforma della Chiesa. I processi di evangelizzazione. Lungo l'alto medioevo è più corretto parlare di “chiese” al plurale, per sottolineare le differenze teologiche e la frammentazione gerarchica, per cui la sola unità di inquadramento efficace era la singola diocesi. Furono i vescovi protagonisti del processo di evangelizzazione all'interno dell'Impero: l'editto di Tessalonica non aveva cancellato i culti pagani, ed è dalle sedi vescovili che si avviò il processo di evangelizzazione delle campagne, attraverso la creazione di una rete di chiese dipendenti dal vescovo (pievi), a cui era affidato il compito di curare le anime nei vari settori della diocesi. Fu un processo di acculturazione, che non significa una trasmissione unidirezionale di fede e conoscenze, ma uno sviluppo per cui innestandosi nelle campagne il culto cristiano assunse connotati nuovi, rielaborando luoghi, forme e oggetti di culti precedenti, dando vita a santi, santuari e reliquie che in alcuni casi rappresentarono la riproposizione sotto vesti cristiane di una religiosità pagana. Un secondo livello di evangelizzazione fu quello che dai territori dell'Impero di spinse oltre al limes. Oltre all'Arianesimo tra i Germani, il cristianesimo ebbe forme e temi diversi anche nelle isole britanniche. La Scozia e l'Irlanda non furono mai parte dell'Impero, mentre il dominio romano dell'Inghilterra ebbe termine all'inizio del V secolo. L'affermazione del cristianesimo all'interno dell'Impero alla fine del IV secolo ebbe influssi limitati in queste aree. In Inghilterra il primo radicamento del Cristianesimo fu precedente alla caduta del dominio romano; in seguito la conquista anglosassone (V secolo) pose ai margini le chiese cristiane, che sopravvissero per acquistare nuova vitalità all'inizio del VI secolo, grazie a missioni di evangelizzazione provenienti dal continente e dall'Irlanda. Quest'ultima terra si era orientata piuttosto precocemente al Cristianesimo: già nel 431 abbiamo notizia dell'invio papale di un vescovo destinato ai cristiani irlandesi; negli stessi decenni si compì la vicenda di Patrizio, un bretone rapido dai pirati irlandesi che divenne missionario e guida spirituale dell'isola, in conflitto con i druidi preesistenti. La cristianizzazione di una regione come l'Irlanda, estranea alla tradizione romana e priva di città, assunse una fisionomia particolare, con una fortissima importanza dei centri monastici e una grande spinta missionaria. L'ascesi monastica. Le sue origini vanno situate nel Mediterraneo orientale del IV secolo. Il monachesimo è una forma di vita presente in molte religioni diverse: è una fuga dal mondo finalizzata a seguire un metodo tendente alla purificazione e all'avvicinamento all'Essere supremo, metodo che si costruisce attraverso la rinuncia. È una forma di ascesi (perfezionamento, avvicinamento alla divinità), che non necessariamente si fonde con un percorso di penitenza: es. nel monachesimo buddista, connotato da un percorso di ascesi pura, è privo di forme di penitenza. Il monachesimo cristiano valorizzò la penitenza come purificazione dal peccato, che divenendo parte costituente del percorso ascetico, tanto che l'unione di ascesi e penitenza fece assumere al termine “ascesi” connotati penitenziali. Lungo il IV secolo il consolidarsi del Cristianesimo all'interno dell'Impero portò a un'attenuazione sia delle tensioni escatologiche (l'attesa della fine dei tempi), sia della radicalità implicita nella scelta di fede essere cristiano non era più una posizione estrema, ma l'adesione alla linea religiosa e ideologica dominante. Il monachesimo si affermò anche come una forma di tacita protesta, per riaffermare un modello di vita religiosa coerente ed estrema questa lettura era proposta da Giovanni Cassiano in Gallia nel V secolo, e in seguito alla base dell'ideologia monastica che nei secoli centrali del medioevo vide nel monachesimo la forma perfetta di Cristianesimo. Il monachesimo cristiano nacque da una pluralità di stimoli e suggestioni, ma il richiamo all'età apostolica e la rivendicazione di una superiore perfezione religiosa di fronte alla “normalità” dei fedeli cristiani del IV-V secolo furono chiavi fondamentali per la costruzione della stessa ideologia monastica. Il tardoantico fu caratterizzato da una grande ricchezza di fenomeni ed esperienze, accomunate dai pochi principi teologici fondamentali. Il monaco era spinto da una tensione verso Dio, che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo e la capacità di avere un animo imperturbabile. Lo scopo centrale di queste scelte di vita era l'ascesi personale, il perfezionamento spirituale del singolo monaco; non troviamo alla base né una volontà di assistenza ai poveri o ai malati, né la cura delle anime dei laici, né un'attenzione specifica a cultura e studio. Questi principi fondamentali si tradussero nella prassi di allontanamento dal mondo e dalla società civile, un rapporto continuo con le Sacre Scritture, la rinuncia alla ricchezza, la scelta di auto-sostentarsi con il lavoro. Ma questi dati comuni coprono un'estrema varietà di forme di vita, a partire dalla fondamentale divaricazione tra eremiti (coloro che che scelsero di compiere il percorso di ascesi in solitudine) e cenobiti (coloro che si riunirono in una comunità, un “cenobio”). Le origini: eremiti. Nel IV secolo troviamo in Siria ed Egitto le prime notizie di monaci cristiani: si tratta di eremiti, individui isolati che si dedicavamo a una vita di preghiera e ascesi, circondati da una fama di santità che permetteva loro di ostentarsi con le elemosine. “Atleti di Dio”, come gli stiliti, che vivevano in cima alle colonne di edifici diroccati. La scelta di vita ascetica e penitenziale in questi casi conviveva con una componente di esibizione e con una forte volontà di intervenire sulla società circostante tramite l'ostentato esempio. Le origini: cenobiti. Fu in parte reazione a queste esperienze e nella ricerca di un'ascesi più intima e meno esibita che si andarono elaborando le prime comunità cenobitiche, a partire dalle esperienze promosse da Pacomio in Egitto, nella prima metà del IV secolo. Organizzare una comunità di questo tipo implicava la messa in comune di ricchezze, edifici, lavoro e la creazione di una regola che definisse comportamenti e doveri dei monaci e desse vita a una gerarchia, una sia pur semplice struttura di controllo e di coordinamento dei singoli. Pochi decenni dopo, il vescovo Basilio di Cesarea sviluppò un'ampia e puntigliosa precettistica rivolta ai monaci, orientata a una forma di ascesi equilibrata, lontana dagli eccessi degli “atleti di Dio”. Il monachesimo basiliano aveva alcune caratteristiche c che non si ritroveranno nelle forme monastiche più diffuse in Occidente, come la stretta cooperazione tra monachi e vescovo e l'ampio spazio dedicato al lavoro e all'assistenza in favore dei concittadini più deboli. L'importazione in Occidente del monachesimo si avviò precocemente, alla fine del IV secolo, con figure come san Gerolamo in Italia, sant'Agostino in Tunisia e san Martino in Francia. Ma questo processo deve essere letto all'interno della trasformazione che subì l'intero Occidente romano, con la scomparsa dei quadri organizzativi imperiali e la costituzione dei regni romano-germanici, dei quali i monaci diventarono interlocutori di rilievo. -
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