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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 1 Capitolo 4, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 4 – La rottura del Mediterraneo romano

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 1 Capitolo 4 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 4 – La rottura del Mediterraneo romano (Pag. 57-73) Roma già in età repubblicana aveva realizzato un quadro politico-territoriale senza uguali nella storia: l'unità del Mediterraneo. Fu un unità politica che non cancello la varietà delle forme di vita, lingua o culto: il dominio romano restò un insieme di società molto diverse, riunite dal sottomissione politica, apparato burocratico e sistema fiscale. La fine dell'Impero occidentale è il fondamento necessario per comprendere sia la profonda ridefinizione dei circuiti economici, sia il nuovo assetto dell'Impero, ridotto a prospettive poco più che regionali nel Mediterraneo orientale; infine le dispute teologiche, che in questi secoli divisero il Cristianesimo, riprodussero su un piano diverso l'approfondimento delle visioni tra le diverse parti dell'Impero romano. - 1. Produzione e scambi in Occidente Le fonti archeologiche. I funzionamenti economici altomedievali sono difficili da leggere attraverso le fonti scritte, perciò l'intervento dei dati archeologici ha assunto un peso maggiore (reperti ceramici in particolare). Questo implica che l'interpretazione dell'economia altomedievale sia profondamente cambiato, in parallelo allo sviluppo dell'archeologia medievale è uno sviluppo recente, dato che gli scavi archeologici avevano a lungo trascurato quelli di età medievale in favore di quelli più antichi. La ceramica è l'indicatore migliore, poiché abbondante in tutti i siti, e le analisi formali e chimiche permettono di individuarne con certezza la provenienza. Diversi tipi di ceramiche ci offrono risposte a problemi differenti: la ceramica fine da tavola ci dà indicazioni sulla domanda aristocratica, sull'importazione e sulla produzione locale di oggetti di un certo pregio; mentre le anfore ci informano sullo scambio interregionale di prodotti agrari, dato che i prodotti fondamentali dell'agricoltura mediterranea (grano, olio e vino) erano trasportati in esse. La fine dell'espansione imperiale. Fu nel II secolo, con la definizione di un territorio protetto dal limes del Reno e del Danubio, destinato a rimanere stabile fino all'inizio del V secolo. Questo dato militare e territoriale ebbe implicazioni sul piano economico, perché la stagione delle conquiste aveva indotto una crescita “drogata”, sostenuta dall'ingente influsso di bottino e schiavi. Questo afflusso rallentò con il rallentare dell'azione militare romana, e si avviò una stagione di complessivo equilibrio, in cui però i costi dell'unificazione politica pesarono in modo rilevante, a compensare i vantaggi che l'integrazione economica garantiva alle singole regione, le cui produzioni si aprivano al mercato mediterraneo ed europeo. Rispetto a questo duraturo equilibrio, nei primi secoli del medioevo ci fu un mutamento profondo, che comportò la rottura dei più grandi circuiti di scambio e la crisi di molte forme di produzione, nel contesto di un calo demografico di cui al momento non si riesce a dare una spiegazione del tutto chiara e convincente. La rottura dell'unità politica con la conseguente interruzione dei meccanismi fiscali che avevano garantito l'interscambio tra le diverse regioni dell'Impero. All'interno delle singole regioni, si ridussero le funzioni delle città e mutarono i sistemi di produzione e scambio; a livello macroeconomico, si trasformarono le forme di circolazione e dello scambio ed ebbe fine l'interdipendenza tra le diverse parti dell'Impero. Possiamo leggere il mutamento attraverso quattro aspetti: città, reti interregionali di scambio, forme della produzione, società contadina. 1.1 Città Crisi delle funzioni urbane. L'importanza in età antica delle città era dettata dalla loro funzione come centri del potere e del fisco imperiale: le élite cittadine (curiae) erano fiscalmente responsabili di fronte all'Impero. Il tramonto del sistema imperiale allontanò le élite dalle città: per essere potenti era meno importante vivere in città, mentre lo era valorizzare le proprie ricchezze (le terre). In un contesto di calo demografico, la crisi delle funzioni dei centri urbani fu accompagnata da una loro drastica riduzione di popolazione. Gli scavi di contesti urbani mostrano case più semplici e frazionate, l'occupazione degli spazi pubblici da parte di chiese o edifici privati e in alcuni casi una vera frammentazione dello spazio urbano in una serie di piccoli insediamenti discontinui, raccolti all'interno di mura di età romana. Ad esempio, in Italia si assistette a una maggiore continuità dei centri urbani, che entrarono in crisi nei decenni centrali del VI secolo, in connessione con i danni dovuti alla lunga guerra greco- gotica e poi alla frammentazione territoriale della penisola in seguito alla conquista longobarda. La trasformazione di Roma. Fu la più radicale: era stata una metropoli da un milione di abitanti, resa tale dalle sue funzioni politiche, come centro simbolico e reale del potere imperiale e sede del Senato; per queste ragioni l? impero contribuiva al mantenimento della popolazione cittadina con la distribuzione dell'annona, e Roma poteva quindi essere così popolosa perché era sostenuta dalle risorse fiscali di tutto l'Impero. Venuto meno quest'ultimo, Roma poté sostenersi con le risorse provenienti dal Lazio e dalle terre del suo vescovo: risorse importati, ma imparagonabili al periodo precedente. Fu necessaria una rapida e profonda riduzione della popolazione urbana, fino ad arrivare a 20000 abitanti (cifra sempre rilevante rispetto agli standard altomedievali), che vivevano all'interno della cerchia delle mura aureliane, in una serie di villaggi intervallati da spazi disabitati, organizzandosi attorno al vescovo e al suo palazzo del Laterano (la basilica di San Pietro, pur prestigiosa, era posta fuori dalle mura, sul luogo del martirio dell'apostolo, e solo in età carolingia fu compresa in una nuova cinta). La continuità urbana e i suoi limiti. Questa crisi non significò la fine dell'urbanesimo, perché i centri urbani conservarono molte funzioni nei confronti del territorio circostante, grazie alla continuità garantita dal potere vescovile, di tipo cittadino proiettato sul territorio limitrofo. Ma indubbiamente le città (e le campagne) cambiarono faccia. Non è possibile leggere l'urbanesimo altomedievale solo nei termini di abbandono e crisi, né lo stanziamento delle popolazioni germaniche come una realtà rurale, opposta al modello urbano romano; ma indubbiamente le città di questi secoli furono diverse da quelle dell'età precedente. Questa trasformazione dei centri urbani deve essere collegata alla rottura della coerenza fiscale dell'Impero e alla lenta semplificazione dei circuiti mediterranei di scambio: poche città avevano una forte vocazione commerciale, solo per alcuni grandi porti (es. Marsiglia) si può dire che vivessero grazie ai traffici commerciali; ma in tutte le città dell'Impero la rottura del quadro politico comportò una riduzione sia delle ricchezze che della disponibilità di beni provenienti da altre regioni. Il cambiamento urbano deve essere letto alla luce delle reti di scambio interregionale e dei sistemi regionali di produzione e scambio. 1.2 Reti Reti fiscali e commerciali in età romana. Per comprendere i meccanismi della circolazione economica e le forme di interdipendenza tra regioni diverse, è utile soffermarsi sui beni di massa, di consumo, sulle materie prime alimentari e sugli oggetti di uso più comune: comprendere dove e come sono prodotti e dove sono rivenduti può dirci molto sui rapporti economici tra regioni diverse. Le reti di scambio in età antica si erano strutturate a partire dall'azione dello Stato, le cui spese rendevano necessario un gettito fiscale importante e un trasferimento di beni tra le diverse regioni dell'Impero: se la città di Roma e gli eserciti del limes renano erano mantenuti grazie alle produzioni cereagricole di regioni come Egitto, Tunisia o Sicilia, con trasferimenti non commerciali ma fiscali. Questi erano sostenuti da un sistema di infrastrutture che rese possibile anche uno scambio commerciale tra le diverse regioni: in età romana il commercio viaggiava “sulle spalle” delle tasse, perché i commercianti potevano sfruttare infrastrutture nate per garantire il sistema fiscale e perché le stesse navi che trasportavano i beni destinati al fisco integravano il proprio carico con oggetti commerciabili. La rottura dell'asse Roma-Cartagine. La prima grande rottura fu rappresentata dalla conquista vandala della Tunisia, nel 439, che interruppe l'asse fiscale che collegava Cartagine a Roma e garantiva alla capitale il rifornimento di grano nordafricano. Questa rottura ebbe un impatto su tre livelli: reti di scambio, città di Roma e strutture produttive nordafricane. Lo scambio si ridusse drasticamente e assunse forme più commerciali, e non fiscali. La fine del legame fiscale tra Roma e Cartagine non impedì l'afflusso di grano tunisino verso l'Italia, ma ne cambiò la natura: Roma continuò a rifornirsi, ma lo fece per via commerciale, trattandosi così di meno grano e di un rifornimento molto più oneroso per l'Impero (non è casuale che nei decenni centrali del V secolo vi compaiono segni di difficoltà finanziarie). Secondo aspetto: Roma dovette mantenersi su risorse molto più ridotte (le terre laziali e il patrimonio del vescovo), e perciò si avviò un processo di profonda riduzione. Infine le produzioni africane subirono una riduzione, attestata dall'abbandono di laboratori e officine: da un lato l'esportazione verso Roma ed Europa si era ridotta drasticamente, dall'altro l'aristocrazia di area tunisina non era abbastanza numerosa e ricca per sostenere una domanda di prodotti pari a quella che aveva caratterizzato la regione in età romana. Ma per comprendere quest'ultimo punto, occorre allargare il campo alla questione della produzione agraria e artigianale nelle regione già appartenute all'Impero d'Occidente, che non può sovrapporsi al tema delle reti di scambio, perché ci troviamo di fronte a due meccanismi distinti: la domanda dell'élite che è fondamento della complessità economica a livello regionale e subregionale; l'infrastruttura statale e il sistema fiscale che costituiscono la base per lo scambio tra regioni diverse. 1.3 Produzione La domanda aristocratica. Il quadro produttivo delle regioni mediterranee ed europee dei primi secoli del medioevo è segnato da una forte varietà e da alcuni caratteri e tendenze comuni. Va posto all'attenzione la domanda delle élite, la cui ricchezza appare inferiore a quelle delle aristocrazie romane dei secoli precedenti, e non tale da sostituire il prelievo fiscale dell'Impero (che in Occidente cessò comunque tra V e VI secolo). Altro fatto comune al Mediterraneo era la struttura produttivo agraria di base, che si concentrava attorno ai tre prodotti fondamentali – grano, olio e vino – che si ritrovavano in tutte le aree. Le differenze nascevano da molti fattori: – la specializzazione produttiva era un carattere adatto al sistema economico e fiscale romano, ma fu un fattore di debolezza in un quadro di maggiore isolamento e ridotta circolazione: – la ricchezza dell'aristocrazia delle diverse regioni erano diverse, e questo condizionò la domanda e la produzione delle singole regioni: – anche i danni conseguenti alle guerre furono diversi da regione a regione; – infine il sistema fiscale di tradizione romana in alcuni regni fu conservato più a lungo, e questo indusse una maggiore pressione sulla popolazione e quindi una maggiore produzione. alta formazione giuridica fu alla base della riforma legislativa di Giustiniano (imperatore dal 528 al 565), che si espresse nella redazione del Corpus iuris civilis, un insieme articolato di testi giuridici. Il primo problema affrontato l’affollarsi di leggi: la legislazione romana era andata sedimentandosi lungo i secoli, dando vita a un miriade di testi contraddittori, emanati in contesti diversissimi; la funzionalità del potere imperiale richiedeva che tali testi fossero coordinati, per dare vita a un Codice legislativo unitario e coerente. Questo è il primo incarico che Giustiniano nel 528 affidò ad una commissione di sette giuristi guidati da Triboniano, che poté presentare all’imperatore il Codex, una raccolta delle principali norme imperiali dall’età di Adriano (fine del II secolo) fino al 529. L’opera non si arrestò qui: nel 533 i giuristi presentarono all’imperatore sia il Digesto (o Pandette), una raccolta organizzata e fortemente selettiva di scritti di giuristi, sia le Institutiones, testi destinati all’insegnamento universitario del diritto. Infine furono pubblicate le Novellae, le nuove disposizioni imperiali, emanate dopo la redazione del Codex. Questi quattro testi andarono a costituire il Corpus iuris civilis, che nacque quindi da un’esigenza di funzionalità, per eliminare testi anacronistici, risolvere contraddizioni e sovrapposizioni; ma da questa esigenza pratica si arrivò a una ridefinizione profonda del diritto e delle sue fonti, alla produzione di sistemi testuali destinati all’uso pratico e giudiziario del diritto, alla riflessione e all’approfondimento. Le premesse dell’espansione militare. Le azioni più vistose di Giustiniano furono quelle condotte sul piano militare e territoriale, nel tentativo di riconquistare l’Occidente e riunificare l’Impero. La sua azione militare, che portò alla riconquista di Tunisia, Italia e gran parte delle coste mediterranee della Spagna, fu l’esito di una serie di processi di natura diversa, che integravano aspetti militari, ideologici ed economici. Tre premesse fondamentali: la relativa tranquillità del limes persiani permise all’Impero di alleggerire questo fronte e destinare truppe ad altri scopi; l’ampia riflessione giuridica e politica (espressa nel Corpus iuris civilis) condusse ad un rafforzamento ideologico ed a una riaffermazione della centralità del ruolo universale dell’Impero; infine, la politica fiscale e l’alleggerirsi dell’impegno bellico a est garantirono consolidamento finanziario e nuova prosperità La facile conquista dell’Africa. questi tre elementi resero possibile la ripresa di quello che aveva rappresentato il fondamentale compito imperiale di tutela di mari e navigazione nei confronti della pirateria. Questo richiese il consolidamento della flotta imperiale, che divenne strumento per compiere un passo ulteriore (avviare spedizioni di conquista verso Occidente, per ricreare l'unità mediterranea romana). Il primo obiettivo fu il regno vandalo di Tunisia: proprio loro, per la posizione centrale e l’ostilità verso l’Impero, rappresentavano la principale minaccia alla sicurezza della navigazione mediterranea, al centro degli interessi imperiali; al contempo, il controllo imperiale sulla Tunisia avrebbe consentito di riprendere possesso delle sua grandi produzioni agrarie e artigianali, che rifornivano Roma un secolo prima. Le truppe imperiali, guidate da Belisario, conquistarono il regno vandalo facilmente tra il 533 ed il 543, a testimonianza di una debolezza strutturale del regno, dove non si era attuata nessuna forma di integrazione tra l’élite germanica e la maggioranza di tradizione romana. La guerra greco-gotica. Più faticose furono le altre campagne imperiali: la Spagna visigota, dove la conquista non si estese mai al di là della fascia costiera mediterranea compresa tra Valencia e Cadice; l’Italia ostrogota, oggetto di una campagna militare lunghissima (quasi vent’anni, 535-553) per riportare la penisola sotto il dominio imperiale. Le armate bizantine, guidate da Belisario, attaccarono dal sud, conquistando la Sicilia per poi risalire la penisola: un’avanzata efficace fino alla conquista di Ravenna nel 540, che indusse le due parti a trattare e spartirsi l’Italia, riservando agli Ostrogoti la regione a nord del Po. Questo equilibrio precario fu rotto dall’anno seguente, quando salì sul trono italico Totila, che rilanciò l’azione militare gota: grazie alle nuove risorse ottenute con espropri ai danni dell’aristocrazia senatoria, il re condusse una campagna militare efficace, con una parziale riconquista dei territori imperiali. Giustiniano sostituì Belisario con Narsete, e iniziò una nuova campagna via terra, a partire dalla Dalmazia, che portò nel 663 alla piena conquista dell’Italia. Fu una conquista lunga e difficile, durante la quale gli Ostrogoti dimostrarono capacità militari, spregiudicatezza politica e radicamento nel territorio e nella popolazione italica, che permisero una resistenza a tratti efficace. Ma proprio questa resistenza e la durata del conflitto provocarono grandi danni materiali e umani, che colpirono la grande aristocrazia senatoria. Immediatamente dopo la conquista, Giustiniano emanò la Prammatica sanzione (554), norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila, soprattutto per quanto riguarda i possessi: la ricchezza fondiaria dell’aristocrazia era il primo fondamento politico e fiscale del governo imperiale dell’Italia, organizzato intorno ad un grande funzionario, l’esarca di Ravenna: il luogo non fu casuale, poiché riprese la funzione di residenza regia e capitale che la città aveva avuto già nel tardo Impero d’Occidente e poi sotto Teoderico; e al contempo Giustiniano evitò di porre Roma al centro del dominio imperiale, lasciando l’Urbe nelle mani del suo vescovo, in un contesto in cui la presenza imperiale in Italia era troppo fragile per complicarsi la vita con una tensione e concorrenza con i pontefici. La conquista longobarda. La fragilità del dominio imperiale in Italia emerse nel 568, quando i Longobardi valicarono le Alpi e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua. è una vicenda diversa dalla conquista compiuta da Teodorico: lì il re goto aveva potuto assumere rapidamente il controllo dell’intera penisola. I Longobardi si mossero in modo discontinuo: si impadronirono rapidamente del Friuli e del nord-est, per poi espandersi all’intera pianura padana, ma dovettero impegnarsi in un lungo assedio di Pavia e rimasero sempre esclusi dalla zona di Ravenna. Da questo nucleo centrale partirono una serie di spedizioni più o meno coordinate: verso la Toscana e verso il centro e il sud dell’Italia, ma anche oltre le Alpi, nelle aree dei Franchi. L’Impero difese quello che poteva, ma dopo la guerra gotica non disponeva in Italia di forze sufficienti a contrastare i Longobardi, e forse sperava che si trattasse di un’incursione, un passaggio temporaneo di un esercito in cerca di bottino. Due Italie. I Longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, Puglia e Calabria (Meridione continentale) e le grandi isole. L’Impero aveva il controllo quasi completo delle coste, ma le dominazioni erano discontinue, con alcuni punti di frizione (come l’area umbra ove si intrecciavano i domini imperiali di Marche e Lazio e quelli longobardi in Tuscia e Spoleto). Il confine tra Longobardi e Impero non era una linea retta e semplice, ma una trama fitta e complessa: quasi ogni punto del territorio italiano era nei pressi del confine. Dal punto di vista territoriale l’eredità di Giustiniano fu nel complesso fragile: l’Africa rimase imperiale per un secolo, fino alla conquista araba; in Spagna il consolidamento del regno visigoto non lasciò spazio alla presenza imperiale, che fu cancellata nel 625; l’Italia, che aveva un particolare valore agli occhi imperiali, subì l’immediata conquista longobarda, anche se importanti parti della penisola rimasero in mano imperiale (per secoli). Un ulteriore piano dell’azione di Giustiniano fu quello teologico ed ecclesiastico, che si mosse nella dinamica tra unificazione e divisioni, in un tentativo di ricostruire l’unità religiosa dell’Impero, che si scontrò con una dimensione territoriale ormai dominante. - 3. Dibattiti teologici e identità locali Nel IV secolo, la divisione teologica tra cattolici e ariani aveva portato ad una grande frattura religiosa ed ecclesiastica, con connotati territoriali ed etnici, separando l’Impero romano cattolico dalle popolazioni germaniche ariane; questa divisioni aveva poi inciso profondamente nei processi tra Romani e Germani all’interno dei diversi regni. La questione cristologica. Se nel V e VI secolo la distinzione tra cattolici e ariani aveva modificato le forme di convivenza all’interno dei regni, in questo periodo il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: non era più il rapporto tra le diverse persone della trinità la questione, ma la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura divina. Fondamentale era il punto che Cristo doveva essere pienamente Dio, per garantire l’efficacia salvifica dell’incarnazione e della morte; ma al contempo dev’essere pienamente uomo, perché solo così gli si può riconoscere una piena e reale sofferenza nella carne. Ma come possono convivere due natura in una sola persona? Antiochia, Nestorio e il culto di Maria. Non si trattò di un dibattito chiuso in un ristretto gruppo di intellettuali, ma coinvolse l’insieme dei fedeli sia perché evidente la sua incidenza immediata sull’idea di redenzione che perché poteva mutare in modo radicale il culto mariano. Il ruolo di Maria fu al centro del dibattito dalle prime formulazioni, quelle di Nestorio, sacerdote cresciuto e formato ad Antiochia (Siria), divenuto vescovo di Costantinopoli nel 428: sosteneva la presenza in Cristo di una persona umana e una divina, rifiutando di conseguenza a Maria il titolo di “madre di Dio”, sostituendolo con “madre di Cristo” (Gesù congiunto con il Figlio). Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso del 431, su iniziativa dell’imperatore Teodosio II, sollecitato dai patriarchi di Roma e d’Alessandria d’Egitto. Per capire questa condanna e le sue implicazioni, dobbiamo osservare le ragioni teologiche e la contrapposizione fra le diverse sedi patriarcali. Il Nestorianesimo aveva una debolezza intellettuale, perché fondava in modo insufficiente le due nature di Cristo; di conseguenza con era affermato in modo solido il pieno coinvolgimento del Figlio (la natura divina) nella sofferenza e morte di Cristo: se le due persone erano distinte, la morte dell’uomo non aveva coinvolto appieno la parte divina, e questo non garantiva l’efficacia salvifica dell’incarnazione e morte. Però non si trattava di un libero scontro intellettuali tra singoli teologici, poiché le posizioni nate da una sede patriarcale (Antiochia) erano state osteggiate da Roma e Alessandria: è una chiave fondamentale per capire l’insieme delle questioni cristologiche, un grande dibattito teologico, ma anche la divisione tra le più importanti sedi della Chiesa, un’articolazione regionale che andò differenziando le forme della fede e del culto nelle diverse parti del Mediterraneo. Il Nestorianesimo, bandito dai territori dell’Impero romano, si conservò negli episcopati sottoposti all’Impero persiano dei Sassanidi e vi sopravvisse anche dopo il VII secolo, quando tali aree confluirono nel dominio islamico. Alessandria: una sola natura. La via teologica era opposta, elaborata in ambito alessandrino, fu il Monofisismo (mone physis, una sola natura): umanità e divinità si fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado di soffrire concretamente, come uomo, e di operare la redenzione in quanto Dio. Questa posizione fu condannato nel concilio di Calcedonia del 451, convocato dall’imperatore Marciano. Dal punto di vista teologico, il Monofisismo offuscava le due nature, ne cancellava la specificità, mentre l’efficacia salvifica dell’incarnazione deriva sia dall’unione di umanità e divinità che dalla conservazione delle due nature integre. Il concilio di Calcedonia propose un compromesso, il Diofisismo (dyo physeis, due nature), che sostenne la presenza di due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona di Cristo: la formula divenne dominante, tanto da essere tuttora adottata dalle Chiese cattolica e ortodossa. Tuttavia, la questione era di nuovo anche politica ed ecclesiastica: la posizione diofisita fu sostenuta da Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. Un’ennesima divisione tra le sedi patriarcali, con però la nuova centralità di Costantinopoli: il concilio di Calcedonia ratificò l’ascesa della capitale al ruolo di sede patriarcale e ad affermare la sua superiorità (poiché sede imperiale) rispetto ad Antiochia ed Alessandria, in una prospettiva di pieno parallelismo con Roma. Fu un passaggio chiave nel ratificare quel processo che aveva prima portato Bisanzio da residenza imperiale (con la rifondazione e cambio nome del 324), poi in centro di potere e infine in vera capitale dell’Impero. Teologia e Impero. Queste implicazioni geopolitiche furono un limite in certo contesti: riconoscere le delibere teologiche del concilio avrebbe implicato riconoscere la superiorità della sede patriarcale di Costantinopoli, inaccettabile per quei settori della cristianità che gravitavano attorno ad Alessandria. Così i monofisiti rimasero numerosi nelle chiese del Mediterraneo orientale e meridionale e in Egitto, aree in cui il Diofisismo fu considerato come una ripresa mascherata delle tesi nestoriane (condannate nel 431). Le divisioni teologiche avevano una loro piena autonomia intellettuale ed esprimevano scelte religiose e cultuali; ma erano anche una delle espressioni dell’articolazione del Mediterraneo romano in spazi sempre più chiaramente distinti. Sia l’aspetto teologico che quello geopolitico ci aiutano a comprendere l’impegno imperiale per la risoluzione dei conflitti cristologici. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e l’ortodossia religiosa era una componente fondamentale dell’ideologia universalistica: non ha senso per questi secoli ragionare in termini di Stato e Chiesa come due entità distinte, perché il primo compito dell’imperatore era la difesa delle chiese e i precetti religiosi avevano valore per tutti i sudditi, sostenuti dalla forza coercitiva del sovrano. Obbedire o meno ai decreti conciliari significava anche aderire al sistema di potere imperiale, ed era quindi prioritario per l’imperatore sanare questi conflitti e ricostruire i territori dell’Impero a un’unità teologica ed ecclesiastica. Da qui comprendiamo gli interventi imperiali a sostegno dei concili destinati a risolvere i dibattiti cristologici: a Efeso nel 431, quando Teodosio II condannò il Nestorianesimo; a Calcedonia nel 451, concilio convocato da Marciano. Giustiniano e la condanna dei Tre capitoli. L’impegno imperiale tendente a tutelare l’unità della teologia cristiana proseguì nel secolo successivo. Qui poniamo l’intervento di Giustiniano, che condannò i Tre capitoli, tesi diofisiti le cui formulazioni più spinte portarono all’accusa di Nestorianesimo. Potrebbe sembrare una rottura all’interno del quadro teologico vincente (il Diofisismo affermato a Calcedonia nel 451), ma si trattò di un tentativo consapevole di avvicinare i monofisiti d’Egitto, rifiutando le formulazioni diofisite più estreme. Il progetto fallì, perché le chiese d’Occidente respinsero le posizioni imperiali e, se il vescovo di Roma Virgilio decise infine di adeguarsi all’orientamento imperiale (nel concilio di Costantinopoli del 553), altre province ecclesiastiche (Milano, Aquileia e le diocesi del Nordafrica) diedero vita a un vero e proprio scisma, sanato solo nel secolo successivo. Il monoteismo di Eraclio. E ancora questa volontà imperiale di realizzare l’unità teologica della Chiesa si ritrovano nel VII secolo nell’azione dell’imperatore Eraclio (610-641), mirante a riavvicinare i monofisiti: con l’accordo delle sedi patriarcali di Costantinopoli ed Alessandria, promosse la posizione del Monotelismo (monos télos, un solo scopo), l’idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite da un’unica attività e volontà, connessa alla fondamentale unità della persona. Ma il monotelismo fu condannato nel concilio di Costantinopoli del 681, mentre le regioni sudorientali erano passate in mani islamiche. La questione cristologica aveva perso importanza politica: il Diofisismo (Calcedonia, 451) era dominante nell’Impero e in Occidente; Nestorianesimo e Monofisismo erano vive in regioni sfuggite al controllo imperiale. La divisione teologica non minava quindi l’unità imperiale, il suo superamento non era più un obiettivo politico rilevante. -
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