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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 2 Capitolo 3, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 3 – Impero carolingio, ecclesia carolingia

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 2 Capitolo 3 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 3 – Impero carolingio, ecclesia carolingia (Pag. 116-137) Le strutture di potere, economiche ed ecclesiastiche del X e XI secolo possono essere lette come una rielaborazione dei funzionamenti del IX. Questo avvenne perché l'Impero carolingio trasformò in profondità molti aspetti della vita associata: reti di scambio, ruolo di chiese e papato, funzionamenti della giustizia. Per questo motivo ci si è già riferiti all'età carolingia, quando abbiamo cercato nel regno franco merovingio gli elementi che hanno preparato lo straordinario successo di VIII-IX secolo, o quando abbiamo connesso al potere franco il diffondersi di nuove forme di sfruttamento delle terre (curtes) e il costituirsi di reti di scambio commerciale nel mare del Nord. Nello straordinario sviluppo politico e territoriale dell'Impero carolingio si compì la più alta simbiosi tra potere regio e sacerdotale, si aprirono orizzonti culturali e commerciali prima assenti. Parlando di Impero ed ecclesia occorre chiarire fin da subito che non si tratta di una distinzione, ma della piena simbiosi tra due realtà che appaiono separate ai nostri occhi, ma non a quelli degli uomini del IX secolo: l'ecclesia era l'insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi e nell'imperatore, che convergevano con strumenti diversi verso un doppio fine, la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Impero ed ecclesia non erano Stato e Chiesa, ma due modi per leggere la stessa realtà. - 1. Dal regno all'Impero I Pipinidi. Nei decenni a cavallo tra VII e VIII secolo, i regni merovingi furono l'ambito di affermazione dei Pipinidi, che seppero costruire un potere egemone sull'intero mondo franco, grazie a iniziativa militare, costruzione di una rete clientelare nell'aristocrazia d'Austrasia, occupazione della carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith. Il momento di deposizione di Childerico III va visto come un punto di arrivo, il completamento di un lungo processo di consolidamento del potere pipinide. L'incoronazione di Pipino III. I passi specifici che portarono Pipino all'incoronazione sono difficili da cogliere, perché le vicende sono state tramandate dalle narrazioni redatte in alcune grandi chiese del regno, solidali con il nuovo potere regio. Il punto più sfuggente è il ruolo del papato: gli Annali del regno dei Franchi (prodotti da ambienti vicini alla corte carolingia) narrano che i grandi del regno avevano mandato due ambasciatori a papa Zaccaria, per chiedegli se fosse bene che i re dei Franchi non avessero alcun potere reale; il papa avrebbe risposto che era meglio che fosse chiamato re chi aveva il potere effettivo, e di conseguenza i Franchi avrebbero individuato in Pipino il loro nuovo re. La narrazione pone l'intervento papale prima dell'incoronazione, per legittimare l'azione di Pipino, ma nella deposizione il ruolo papale fu probabilmente minimo e la scelta nacque all'interno del mondo franco: fu la grande aristocrazia a raccogliersi attorno ai Pipinidi e ad attuare attraverso l'intervento cerimoniale dei vescovi la sostituzione della dinastia regia. Il colpo di Stato si attuò rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma (simbolo della sua forza) e procedendo al rito dell'unzione del nuovo re, Pipino, da parte del monaco Wynfrith: era un rito nuovo nella tradizione franca, che riprendeva il modello biblico dell'unzione di David, e che avrebbe avuto un ampio avvenire nelle incoronazioni di età medievale e moderna. Il sostegno papale. Probabilmente l'intervento di Zaccaria giunse dopo, ad approvare ciò che era già avvenuto; ma soprattutto il nesso tra papato e Pipinidi divenne rilevante pochi anni dopo. Nel 754 il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, contro la minaccia militare dei Longobardi, l'Impero di Bisanzio non era in grado di offrire un sostegno efficace. Si volse al nuovo re dei Franchi e – con un'azione inedita per i vescovi di Roma – superò le Alpi per incontrare Pipino a Saint-Denis, dove ripeté l'unzione sia del re sia dei suoi figli, Carlo e Carlomanno, a legittimare il cambio dinastico, sancendo l'idea che il carisma regio non fosse legato solo alla persona di Pipino, ma all'insieme del gruppo parentale. La legittimazione del nuovo re. Nel 754 si attuò un legame destinato ad esiti importanti. Papa Stefano cercava un potere che assumesse in modo permanente le funzioni di protezione della Chiesa di Roma. L'incontro a Saint-Denis fu la premessa per la spedizione franca in Italia, contro re Astolfo, ma l'attribuzione a Pipino del titolo di patricius (protettore della Chiesa di Roma) orientava il regno franco ad un impegno permanente di collaborazione e protezione del papato. Al contempo, il nuovo re aveva urgenza di legittimare il proprio potere: se nei decenni precedenti era divenuta troppo netta la scissione tra la realtà (potere effettivo nelle mani di Carlo Martello e poi del figlio Pipino) e il sistema simbolico (la corona detenuta dai Merovingi), il potere regio aveva sia un carattere sacro che una lunghissima consuetudine, dato che da due secoli e mezzo la corona si era trasmessa all'interno del gruppo parentale merovingio. Pipino si trovò di fronte alla necessità di mettere in gioco un sistema di atti di legittimazione, sul piano cerimoniale, politico e storico: l'unzione di Wynfrith, il rinnovo dell'unzione di Stefano II, l'alleanza stabile con Roma (la Chiesa più prestigiosa d'Occidente), la costruzione di un racconto dell'ascesa al trono orientato a legittimare la deposizione di Childerico. Questa esigenza di legittimazione non si esaurì rapidamente: Eginardo, biografo di Carlo Magno, che scrisse dopo il 841, dedicò una pagina a descrivere il vuoto titolo regio di Childerico, il potere concreto e dinastizzato dei Pipinidi, l'intervento papale a sostegno del colpo di Stato. Testo a Pag. 119 Da Eginardo nacque la tradizione che a lungo ha rappresentato gli ultimi re merovingi come “re fannulloni”: ma è importante notare come, sessant'anni dopo la presa del potere, quando i Carolingi regnavano da due generazioni e avevano trasformato il regno dei Franchi in un Impero di respiro europeo, la corte regia fosse ancora attenta a costruire una narrazione storica rea a legittimare il colpo di Stato di Pipino. La spedizione in Italia. Fu la più immediata conseguenza dell'incontro del 754, contro i Longobardi e re Astolfo, che aveva conquistato precedentemente l'Esarcato (la regione di Ravenna), terra imperiale su cui aveva ambizioni egemoniche il papato. La discesa in Italia non fu di conquista, ma un'azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti di papato e terre imperiali. Pipino sconfisse Astolfo, lo costrinse a restituire al papato le terre conquistate e poi ritornò in Gallia. Da Pipino a Carlo. Questa spedizione non avviò un periodo di conflittualità endemica tra Franchi e Longobardi, come si vede negli anni che seguirono immediatamente alla morte di Pipino (768), quando la vedova Bertrada e i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica legami e solidarietà tra Franchi, Longobardi e Bavari. I fratelli si unirono con due figlie del re longobardo Desiderio, mentre una terza principessa longobarda sposò il duce di Baviera Tassilone, a sua volta legato da rapporti di fedeltà nei confronti del re franco. Fu una politica di equilibrio che resse pochi anni: dopo la morte di Carlomanno (771), Carlo si mosse in una prospettiva di espansione, rompendo i rapporti amichevoli con Longobardi e Bavari. La tradizione politica franca prevedeva che il potere regio fosse considerato come parte del patrimonio del re e fosse diviso tra tutti i suoi figli maschi: questa pratica successoria aveva portato nel VI e VII secolo a continue divisioni e ricomposizioni dei regni franchi, nelle amni di diversi re Merovingi. Questo modello di trasmissione del potere non ebbe fine con il passaggio nel regno nelle mani dei Pipinidi/Carolingi, ma per vaie vicende i nuovi re poterono fruire per tre generazioni in cui il potere fu di solo uno: prima Pipino, il cui fratello Carlomanno aveva scelto una vita religiosa e si era ritirato in monastero; poi Carlo, che condivise il potere con il fratello Carlomanno dal 768 al 771, quando la morte del fratello lo lasciò unico re; infine Ludovico il Pio, che dopo la morte dei fratelli rimase unico erede di Carlo e regnò da solo dall'814 all'840. Per 90 anni (751-840) ci fu sempre un solo re dei Franchi, e ciò contribuì a dare forza alla loro azione (ma non cancellò la tradizionale concezione patrimoniale del regno). L'espansione territoriale. Carlo, ora unico re dei Franchi, nel giro di pochi anni avviò una campagna di espansione territoriale, che gli meritò l'appellativo di Magno e lo portò a costruire un dominio comprendente larga parte dell'Europa occidentale, ovvero Francia, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera, Austria e Italia centro- settentrionale. La conquista più importante fu quella del regno longobardo, perché qui Carlo si trovò ad affrontare la struttura politico-territoriale più definita e con la conquista dell'Italia il rapporto con il papato aumentò di qualità, premessa per la trasformazione del regno in un Impero. La conquista del regno longobardo. La conquista non fu difficile: la difesa longobarda si concentrò prima sul confine alpino, poi nella capitale Pavia, dove un lungo assedio pose fine al regno di Desiderio, deportato in Francia. Rimasero estranee al dominio franco le terre bizantine e papali, ed il ducato di Benevento, ultima traccia di domini longobardo. La geografia politica dell'Italia non subì una semplificazione con la conquista carolingia, ma un'ulteriore articolazione tra aree franche, bizantine, papali e longobarde. Con questi limiti territoriali, la sottomissione al dominio franco non cancellò del tutto l'identità politico-territoriale dell'Italia longobarda, perché Carlo stesso operò per conservarne alcuni elementi: si intitolò rex Francorum et Langobardorum (“re dei Franchi e dei Longobardi”); conservò la capitale a Pavia (capitale del regno d'Italia fino al secolo XI); assimilò l'aristocrazia longobarda all'interno del proprio seguito e del proprio apparato di governo. La marca di Spagna e la Sassonia. Ma l'azione militare di Carlo non si limitò all'Italia. L'espansione verso la penisola iberica fu modesta: brevi conflitti si succedettero dal 778 (vittoria dei Baschi) all'813, e portarono alla costruzione della marca Hispanica, la fascia territoriale a sud dei Pirenei, inquadrata nel regno franco (la marca era un distretto militare e amministrativo). Fu invece di rilievo l'azione verso le terre poste a oriente, in particolare in Sassonia (Germania settentrionale). I conflitti con i Sassoni si erano ripetuti a più riprese nel corso dell'VIII secolo, nel quadro del desiderio franco di tenere sotto controllo un popolo militarmente forte e attivo, autori di incursioni verso occidentale. Sotto Carlo l'azione militare franca cambiò natura, divenendo il tentativo di incorporare la Sassonia nel regno e di assimilarne complessivamente la popolazione: da questo derivarono un'iniziativa bellica tendente alla conquista e una coloritura religiosa del conflitto. I Sassoni erano pagani e nel 711, nella prima campagna militare, Carlo fede distruggere l'Irminsul un idolo importante per la religiosità sassone. Questo non deve farci pensare ad una guerra mossa con intenti religiosi: lo scopo di Carlo era la sottomissione e assimilazione dei Sassoni, e la dimensione religiosa era una delle componenti di una identità di popolo che si voleva cancellare. Il processo di espresse anche nella fondazione di diocesi in ambito germanico, destinate e funzionare su un piano di complessivo inquadramento delle popolazioni sottomesse. Fu una guerra lunga (772-803), con ribellioni, massacri e leggi emanate apposta per porre sotto controllo il popolo Sassone. L’espansione verso est non si esaurì nelle campagne contro i Sassoni: la Baviera fu posta sotto un più diretto controllo, limitando le ambizioni autonomistiche del duca Tassilone, vassallo dei re carolingi; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico-militare, la marca orientale (nucleo originario dell’Austria), destinato a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio. L'influenza carolingia oltre i confini. Il confine ed il suo controllo militare avevano grande importanza, ma al contempo l confine della dominazione carolingia non corrispondeva ai limiti della sua influenza, estesa ben al di là obblighi di fedeltà ed impegno militare) era cosa ben diversa da essere un suo funzionario (con compiti di governo, giustizia e coordinamento delle forze militari locali). Anzi si sostenevano a vicenda: il legame tra il re ed i suoi funzionari era rafforzato dal vincolo personale che li univa; e la funzione come conti o marchesi era uno sviluppo del rapporto di solidarietà e aiuto reciproco che univa il vassallo al proprio signore. Le funzioni comitali avevano un carattere duplice: erano un servizio che il conte svolgeva a nome del re, e quindi si collegavano idealmente ai servizi del vassallo nei confronti del signore; erano un’opportunità per questi aristocratici, un’occasione per acquisire potere e guadagnarsi la benevolenza del re. I rapporti vassallatici e l’apparato funzionariale devono essere considerati anche come parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. Il coordinamento dell’aristocrazia. Per leggere il rapporto tra re e aristocrazia in età carolingia, da un lato dobbiamo constatare che gli imperatori si mossero in una prospettiva statale, nell’ottica di costruire un apparato di governo con un sistema di deleghe e di responsabilità centrali e locali; dall’altro lato prendiamo atto che la sostanza di cui era fatto questo governo era il coordinamento della grande aristocrazia. La forza carolingia nasceva dalla capacità di coordinare l’autonoma potenza aristocratica, coinvolgendola in una rete di clientele e di funzioni, limitandone il potere in forma compatibili con la superiorità regia. Era un equilibrio precario ed efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo, quando si ridusse la capacità regia di redistribuire agli aristocratici ricchezze e potere, indebolendo il rapporto di fedeltà e servizio. Il re e i liberi. Se quindi il coordinamento dell’aristocrazia fu la base fondamentale del potere carolingio, nelle fasi di maggior forza il regno rivendicò la propria capacità di saltare la mediazione aristocratica e di conservare un rapporto diretto con i liberi, con i pauperes (gli inermi, in opposizione ai potentes). Era un’istanza ideologica del regno, ma anche un’effettiva prassi di governo, che possiamo leggere nelle fonti giudiziarie: lungo l’età carolingia vediamo gruppi di contadini che si presentavano davanti alla giustizia del conte o anche al palazzo regio per chiedere di essere difesi da un potente (una chiesa in genere) che tentava di sottometterli e asservirli. Questi contadini, nella documentazione, sono sistematicamente sconfitti, ma questo è dovuto a due elementi strutturali: la fondamentale solidarietà che univa il re ai potenti e che orientava a loro favore le decisioni della giustizia regia; il dato della conservazione documentaria, perché solo le grandi chiese avevano le capacità culturali e organizzative per costituire un archivio in cui conservare gli atti utili a provare i loro diritti, e quindi le sentenze erano a loro favorevoli. Perciò, se ci furono sentenze contrarie a queste chiese, non ci sono conservate. Ma interessante non è l’esito delle liti, ma il fatto che esse venissero aperte e portate davanti alla giustizia regia: gruppi rurali non aristocratici non solo avevano la concreta possibilità di accedere alla giustizia regia, ma ritenevano tale giustizia sufficientemente credibile ed equa da affrontare i costi e le difficoltà derivanti da questi processi, nella convinzione che una sentenza favorevole fosse possibile. - 3. Le chiese carolingie I rapporti tra Pipino III e Carlo Magno con il papato furono rilevanti non tanto nella presa del potere da parte di Pipinidi, quanto piuttosto nel sollecitare gli interventi suoi e del figlio Carlo in Italia e poi all'incoronazione imperiale di quest’ultimo. Dall’800 in poi si definì un intimo e stabile rapporto di cooperazione tra papato e Impero, che entrò in crisi solo nel contesto della Riforma del IX secolo. Ma per comprendere le relazioni tra regno e Chiese, dobbiamo concentrarci sulle chiese episcopali e sui monasteri posti all’interno del dominio franco e sulla loro cooperazione con il potere regio. Re e vescovi. I chierici non potevano giurare e (secondo una norma canonica) combattere né portare armi: il legami tra il re ed i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. Né i vescovi divennero conti: le funzioni governo territoriale furono sempre affidate a laici (per il loro carattere militare). Spesso però vediamo vescovi in qualità di missi regi, in quella funzione in cui la componente giudiziaria e politica, di mediazione tra re e società locale, prevaleva su quella prettamente militare. Ma non vanno seguite le specifiche funzioni amministrative attribuite ai prelati, perché erano i vescovi in quanto tali a considerarsi e ad agire come collaboratori del re: imperatore e vescovi, con strumenti diversi, convergevano verso lo stesso duplice fine, la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Prima e a prescindere da specifici incarichi, i vescovi consideravano connaturato alla propria funzione, in quanto vertici e guide della comunità cristiana della propria diocesi,l’impegno a cooperare con l’imperatore per garantire giustizia e salvezza, ovvero per governare la società. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculiari del clero, come le capacità di orientare le anime verso l'obbedienza al re, o le capacità culturali e di elaborazione di testi necessari al governo; erano in gioco anche le concrete risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e le loro clientele vassallatiche. Così nei capitolari (le leggi) che preparavano le grandi spedizioni militari, l’imperatore poteva dare ordini ai propri vassalli, a quelli di conti e marchesi, ma anche a quelli di vescovi e abati, ritenuti a tutti gli effetti parte della forza armata a disposizione del re. I monasteri: preghiera, cultura e ricchezze. I monasteri non avevano compiti pastorali, non guidavano le anime dei fedeli laici, non avevano quelle funzioni complessive di guida delle comunità connaturate alla carica vescovile. Ma erano nuclei di santità, centri di preghiera e ascesi la cui spiritualità si rifletteva sul violento mondo circostante, avvicinando alla salvezza chi si affidava alle preghiere dei monaci; era luoghi per l’elaborazione culturali e, infine, grandi punti di concentrazione di ricchezze che potevano fornire un aiuto importante al potere regio. Aspetti religiosi, culturali ed economici devono essere tenuti presenti per comprendere l’impegno regio nel tutelare centri monastici, che culminò nella riforma promossa da Ludovico il Pio ed attuata da Benedetto di Aniane, che consolidò la disciplina interna ai monasteri. Un’attività di riforma che si allargò al clero in cura d’anime; in una serie di concili indetti da Ludovico il Pio e tenuti ad Aquisgrana, i chierici di corte promossero la definizione di un testo normativo destinato a regolare le forme di vita in comune del clero. Benché questa regola non fosse mai sistematicamente applicata fu espressione della volontà imperiale di intervenire direttamente all’interno delle forme di vita religiosa, ed ulteriore testimonianza del fatto che per questi secoli sarebbe impossibile ragionare nei termini di un rapporto tra Chiesa e Stato come due enti separati: era l’ecclesia carolingia, la comunità cristiana guidata da vescovi e imperatori verso la salvezza. Appare chiaro come le chiese non fossero concepite estranee al potere imperiale, ma come sue articolazioni locali, perché essere per la loro stessa natura cooperavano al controllo regio sulla società. Le ampie donazioni e concessioni regie alle chiese possono essere viste come un trasferimento di risorse dal fisco (il patrimonio regio) alle chiese, sempre restando all’interno del sistema di potere che faceva capo all’imperatore. L’immunità. I diplomi di immunità, concessi di norma a chiese, vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o amministrare giustizia. Non era un concessione di potere, la chiesa non diveniva titolare dei poteri già spettanti al conte; si definiva però uno spazio inviolabile, un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava di un’ampia esenzione . Tali diplomi era forme di riequilibrio tra i diversi elementi (apparato funzionariale, patrimonio fiscale, chiese) che andavano a costituire la forza degli imperatori, ed erano quindi strumenti del governo regio. La cultura di corte. La simbiosi ideologica tra le chiese e l’Impero trovava a corte le sue espressioni culturalmente e ideologicamente più alte. Gli intellettuali che si riunirono alla corte di Carlo Magno e Ludovico il Pio e le grandi chiese solidali con il potere imperiale, collaborarono a costruire la memoria del popolo franco e della dinastia carolingia. “Costruire la memoria” significa operare alcune scelte narrative ideologiche e precise: l’esaltazione dei maestri di palazzo pipinidi, come la battaglia di Poitiers, che nelle narrazioni posteriori divenne uno scontro epico in cui Carlo Martello avrebbe fermato l’invasione islamica del mondo franco; o la creazione del mito dei “re fannulloni”, gli ultimi Merovingi, che avrebbero avuto solo l’apparenza di re, mentre il vero potere era nelle mani dei maestri di palazzo; o la legittimazione del colpo di Stato operato da Pipino III, con un intervento di papa Zaccaria che avrebbe sostenuto la necessità del passaggio del potere formale nelle mani di chi già deteneva il potere di fatto. Tutto ciò che sappiamo dell’ideologia politica dei Carolingi ci è arrivato attraverso le elaborazioni e la mediazione di questi intellettuali: le stesse leggi carolingie furono prodotte dai grandi ecclesiastici attivi alla corte imperiale e si sono tramandate solo grazie all’opera di conservazione, compilazione e selezione condotta dalle chiese vescovili. Sono le chiese a offrire ai nostri occhi la rappresentazione del potere carolingio. Circolazione di persone e di idee. L’ampiezza del dominio carolingio si rifletteva sull’ampiezza del reclutamento degli intellettuali di corte (es. Paolo Diacono dall’Italia fino ad Alcuino di York dalla Britannia). Era un sistema di circolazione di uomini e idee tra la corte imperiale e le chiese interne al dominio carolingio, che coinvolgeva anche nuclei di potere e di cultura esterni all’Impero. Emblematico il caso di Paolo Diacono, che soggiornò alla corte di Carlo per cui scrisse varie opere (es. Imprese dei vescovi di Metz, destinato a celebrare gli antenati dell’imperatore): quando Paolo, tornato in Italia, scrisse la storia del suo popolo d’origine, i Longobardi, ormai sottomessi ai Carolingi, fece confluire nella sua opera la memoria longobarda con i quadri culturali e politici derivati dalla corte imperiale. La cultura di corte operava quindi su ambiti diversi: le leggi e gli atti di governo; la storia di Carolingi, singole chiese, popoli sottomessi; l'elaborazione delle forme liturgiche. Strumentale a ciò era la lingua latina. È indubbio che nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari: un concilio dell'813 impose ai chierici di tradurre le proprie omelie in rustica Romana lingua aut Thoetisca, in volgare romanzo o germanico, per andare incontro alle capacità linguistiche dei fedeli; così a Strasburgo nell'840 2Carlo il Calvo e Ledovico il Germanico si scambiarono giuramenti nelle rispettive lingue; e così più tardi, nel 960. un notaio incaricato di registrare le testimonianze presentate in un processo a Capua decise di scriverle in volgate, lasciandoci il primo testo scritto in volgare italico. Ma la lingua di potere, liturgia e scritto era il latino, la cui efficacia attraversava tutti i territori dell'Impero L'attenzione per la dimensione linguistica si riflesse sullo studio del classici: il IX secolo fu una fase di intensa copiatura e circolazione dei testi antichi, tanto che la nostra conoscenza dei classici latini dipende da quest'opera di selezione, riproduzione e tutela compiuta dagli intellettuali di età carolingia. - 4. Dall'Impero ai regni (oggetto di questo paragrafo è un processo più specifico, ovvero l'articolarsi dell'Impero carolingio in regni distinti, processo che si attuò negli anni centrali del secolo) L'equilibrio tra re e aristocrazia. L'Impero di Carlo Magno fu un'efficace equilibrio tra la potenza aristocratica ed il coordinamento regio: questa è la dimensione su cui bisogna valutare l'efficacia del potere regio nelle diverse fasi, senza dare un'importanza eccessiva né alla morta di Carlo Magno nel 814, né alla divisione tra i figli di Ludovico il Pio negli anni '40, che rappresentarono importanti momenti di transizione, ma non mutarono la natura e l'efficacia del potere regio. Gran parte del IX secolo può essere letto come una fase di continuità nei funzionamenti politici: la forza del potere regio si fonda sul coordinamento efficace dell'aristocrazia e delle chiese. La continuità di Pipino III a Ludovico il pio aveva assicurato la presenza di un solo re/imperatore dal 751 al 840, ma non avesse cancellato una cultura politica che vedeva nel potere un elemento del patrimonio regio. Durante i decenni di potere di calo e Ludovico, si sviluppò la tensione tra una concezione unitaria dell'Impero e le aspirazioni dei diversi membri della famiglia regia. Progetti di divisione. Il problema si pose a Carlo nei primissimi anni del secolo, di fronte alla prospettiva di una divisione tra i suoi tre figli: Carlo (parte centrale del dominio), Ludovico (Aquitania, parte sudoccidentale della Francia) e Pipino (Italia, di cui era stato incoronato re nel 781). Non si trattò di una semplice spartizione, ma di un atto con implicazioni complesse: la Divisio regni del 806 individuò diversi regni all'interni del dominio carolingio, ma insistette sul totum corpus regni (“l'intero corpo del regno) e su un'idea di Impero come sovrastruttura istituzionale che trovava la sua origine nel nesso con Roma e consolidava l'identità unitaria di un sistema politico avviato verso la spartizione. Tuttavia la morte precoce dei fratelli fede sì che nel 8147 l'unico erede fosse Ludovico: il nuovo imperatore dovette però gestire le ambizioni dei propri figli e quelle di Bernardo, re d'Italia, figlio del fratello di Pipino. Ludovico affrontò la questione con la Ordinatio imperii (“l'ordinamento dell'Impero”) del 817, in cui affermò con maggiore forza l'idea di unità dell'Impero e ruppe con la tradizione franca di spartizione: nominò il primogenito Lotario co- imperatore e suo unico erede, attribuendo ai figli Pipino e Ludovico nuclei territoriali minori, in Aquitania e Baviera. Ribellione e solidarietà regionali. Fu una scelta che creò tensioni e portò alla ribellione del nipote Bernardo, che si vide escluso da ogni prospettiva ereditaria e seppe raccogliere attorno a sé una consistente quota dell’aristocrazia italica. La ribellione non ebbe successo, Bernardo fu imprigionato ed accecato, ma la sua vicenda mostra come in questi decenni le clientele aristocratiche attorno ai Carolingi non si traducessero solo in un sostegno politico all’imperatore, ma potessero dar vita a forme di solidarietà di respiro più regionale: il radicamento italiano di Pipino prima e del figlio Bernardo poi, aveva dato via ad una rete clientelare italica, in contrapposizione all’imperatore. Non fu un’identità nazionale, non era un mondo italico contrapposto all’Impero, ma il sistema clientelare coordinato da Bernardo aveva una connotazione territoriale. Questi processi trovarono pieno sviluppo nella seconda metà del secolo, dopo le partizioni che suddivisero l’Impero tra gli eredi di Ludovico il Pio. Un ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia, derivò dalla nascita di Carlo il Calvo (823), figlio di Ludovico il Pio e delle ausa nuova moglie Judith, che agì per garantire al figlio un futuro politico e di riaffermare il principio tradizionale della patrimonialità del potere regio. Judith orientò la politica di Ludovico in direzioni diverse dall’Ordinatio Imperii (817), che aveva relegato i figli minori al controllo di territori marginali rispetto al nucleo centrale dell’Impero, destinato al primogenito Lotario. La massima tensione si ebbe nel 833: Ludovico fu sconfitto a Colmar da Lotario, Pipino e Ludovico (nati prima del matrimonio), che si vedevano minacciati dal ruolo di Carlo e arrivarono a far deporre il padre in un concilio nel quale i vescovi franchi costrinsero l’imperatore a far penitenza per i suoi peccati, per poi dichiararlo indegno al titolo imperiale, che rimase a Lotario (associato al trono nel 817). Le discordie tra i figl permisero a Ludovico di tornare sul trono l’anno successivo: fu un potere pieno, ma appare evidente come le tensioni non fossero affatto risolte. I figli di Ludovico il Pio. Alla morte di Ludovico il Pio (840), queste tensioni sfociarono in conflitto parto, che oppose Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (Pipino era morto nel 838). Tre passaggi sono significativi: battaglia di Fontenoy del 841, in cui Lotario fu sconfitto; giuramenti di Strasburgo (842), che sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo: pace di Verdun (843), che pose fine al conflitto. A Fontenoy, la battaglia si risolse in un massacro, mostrando come l’unità dell’aristocrazia attorno al potere imperiale fosse finita, sostituita da reti di solidarietà clientelare che facevano capo ai diversi re. A Strasburgo, significativo è il dato rappresentato dal doppio giuramento dei fratelli alleati contro Lotario: per farsi comprendere l’uno dai seguaci dell’altro, Carlo prestò giuramento in tedesco, Ludovico in lingua romanza. Ma è interessante notare come questo giuramento esprima la presa d’atto dell’esistenza di spazi di civiltà diversi, riuniti nei decenni precedenti nella costruzione politica di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Questa presa d’atto si tradusse sul piano politico-territoriale a Verdun, quando i tre fratelli spartirono l’Impero: a Carlo il regno dei Franchi occidentali (Francia), a Ludovico il Germanico quello dei Franchi orientali (Germania), a Lotario una fascia intermedia che andava dall’Alsazia all’Italia. Lotario mantenne il titolo imperiale: era il primogenito ed era colui che controllava l’Italia, quindi nelle condizioni di attuare il compito di tutela della Chiesa di Roma, connaturato al titolo imperiale. Appare mutato il concetto stesso di Impero: se nell'843 si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in una forma di coordinamento unitario, mentre gli atti dell’806 e dell’817 avevano posto al centro l’idea
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