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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 2 Capitolo 5, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 5 – Società e poteri nel X secolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 2 Capitolo 5 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 5 – Società e poteri nel X secolo (Pag. 151-182) I territori già compresi nell’Impero carolingio, nel X secolo seguirono percorsi divergenti ma coerenti: divergenti, perché i diversi regi svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche; coerenti; perché le linee di tendenza furono comuni. Trattiamo della “età post-carolingia”, una definizione che non abbiamo scelto di porre in primo piano: questo capitolo deve essere letto con un occhio rivolto al presente, per cogliere quali equilibri sociali, funzionamenti politici e forme religiose vennero costruiti nel X secolo. Per l’Impero carolingio si ripropone lo stesso rischio dell’Impero romano: i secoli dopo la fine dell’Impero sono spesso ridotti ad una lettura in termini di declino, superamento, ecc. Nel X secolo vediamo sicuramente tramontare la struttura imperiale unitaria, ma non si tratta di negare il declino, quanto più rileggerlo cercando anche e soprattutto le novità, i meccanismi di costruzione del potere e della società, che nel X secolo assunsero forme oggettivamente nuove. Nel caso italiano, i secoli X e XI sono visti come un periodo di declino dell’ordinamento carolingio o preparazione dell’età comunale; l’intento è quello di mettere in rilievo i peculiari funzionamenti di questa fase, in cui gli elementi residui dell’ordinamento carolingio si unirono con una libera sperimentazione di nuove forme di potere. - 1. I mutamenti dei poteri comitali L’Impero mutò natura all’interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e per un cambiamento dei comportamenti politici di aristocrazia e chiese. Tra la fine del IX e a metà del X secolo le terre imperiali furono colpite da nuove minacce militari (Saraceni, Ungari, Normanni), ma questa mobilità militare si può comprendere alla luce dell’indebolimento regio e della nuova autonomia delle forze locali : le incursioni non furono la causa della crisi dell’Impero, ma la conseguenza, rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. Occorre partire dai mutamenti interni all’ordinamento e dai comportamenti dei grandi funzionari regi, conti e marchesi, cui era affidato il governo dei singoli territori. Un nuovo equilibrio tra re e aristocrazia. Sotto Carlo Magno, i rapporti tra re e aristocrazia avevano assunto una duplice veste, con la convergenza attorno al re di rapporti vassallatici e incarichi funzionariali, due sistemi che si intrecciavano a dar vita ad un rapporto di coordinamento aristocratico intorno al sovrano. Il rapporto era fondato sullo scambio tra servizi che venivano garantiti al re e la sua redistribuzione di ricchezze in cambio. Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò, poiché si ridusse la capacità redistributiva del re: le grandi espansioni territoriali di Carlo erano terminate, e i re erano senza un continuo afflusso di nuove terre, popoli da governare, bottino, prigionieri, quelle risorse che Carlo aveva potuto concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà. Al contempo, le divisioni e i conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell’appoggio militare aristocratico e che i grandi gruppi parentali erano spesso contesi tra i diversi re: queste famiglie avevano grossi patrimoni e relazioni parentali in tutta Europa, potendo rientrare nelle clientele vassallatiche di uno o l’altro re. L’equilibrio si era spostato: i re avevano bisogno di aiuto e avevano poche risorse per ricompensarlo, per cui erano costretti a cedere alle varie richieste; e ciò che i funzionari chiedevano era la stabilità, la possibilità di conservare la propria funzione e trasmetterla ai figli. Stabilità delle funzioni. A partire dagli ultimi decenni del IX secolo i singoli funzionari restavano sempre più nella propria fede e spesso trasmettevano la funzione ad un figlio. Questo processo si accompagnò da un mutamento nella natura stessa della funzione, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. In età carolingia, era chiaro che essere vassallo del re non significava essere suo funzionario, ma non era così nei decenni successivi. La carica di conte era sì un servizio in favore del re, ma anche una risorsa politica ed economica. Inoltre i re, più deboli, non avevano pieno controllo della rete funzionariale e si appoggiavano sui legami personali. Le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo e confondendo con i benefici vassallatici: il conte era anche vassallo e la funzione di governare un comitato era qualcosa di non diverso da un beneficio vassallatico. Il capitolare di Quierzy. All’inizio dell'XI secolo vediamo apparire nelle fonti l’affermazione esplicita che una carica comitale era concessa in beneficio, ma già nei secoli precedenti la definizione era poco chiara. In questo quadro va inserito il capitolare di Quierzy (877), una legge “ingiustamente” famosa, perché di fatto Carlo il Calvo non deliberò nulla di straordinario, ma per noi resta importante, perché dal testo della norma cogliamo quale fosse la prassi politica diffusa. Testo a Pag. 153 La tendenza all’ereditarietà. Carlo definì in queste norme una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso cui il conte fosse morto mentre il figlio era impegnato in spedizione con l’imperatore: si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata a parenti del conte, funzionari, vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale. L’idea di provvisorietà delle soluzioni proposte è connessa alla rivendicazione da parte dell’imperatore del suo diritto di scegliere chi volesse come nuovo titolare del comitato. Ma significativo è il passaggio delle prime parole del passo (1): si coglie l’idea che, se il figlio del conte non avesse seguito l’imperatore, sarebbe toccato a lui pendere la gestione del comitato alla morte del padre. L’imperatore rivendicava poi il diritto di nominare poi un altro detentore della carica, ma nella prassi e cultura del tempo il successore naturale del conte era sempre il figlio, a meno che ne fosse impedito (impegnato in spedizione lontana o minorenne). Questa capacità del conte di disporre della propria funzione è evidente nelle ultime righe, quando si stabilisce che i fedeli del re, dopo la sua morte, potranno ritirarsi a vita religiosa (2) trasmettendo le proprie funzioni a “un figlio o parente capace di servire lo stato”. È importante notare un passaggio significativo cui, al termine delle disposizioni relative ai conti, Carlo aggiunge che (3): conti e vassalli non erano la stessa cosa, ma l’evoluzione degli incarichi d’ufficio e quella dei rapporti vassallatici viaggiavano parallele, parte dello stesso processo di ridefinizione dei rapporti tra re e grandi che si raccoglievano attorno a lui. Terre e potere. La prassi politica si orientò nella direzione dell’ereditarietà/stabilità delle funzioni, soprattutto tra la fine del IX e del X secolo, favorendo il radicamento delle dinastie nelle regioni conservate. Anche i conti dell’età di Carlo Magno erano potenti e ricchi di terre, ma svolgevano funzioni di governo in regioni lontane da quelle del radicamento patrimoniale: potenza dinamica e potere funzionariale restavano due elementi distinti, sul piano concettuale e geografico (ricchi in un posto, conti in un altro). Fu un processo di regionalizzazione delle aristocrazie, sia perché i quadri politici generali erano ora di respiro più ridotto che perché gli interessi di una famiglia aristocratica tendevano a concentrarsi in ben specifiche regioni. Il limite del potere dei conti. Questo comportò un ulteriore mutamento, dato che, nel momento in cui il conte era anche un proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non era per lui uguali: era più presente in quelle ove disponeva terre ed era più distaccato dalle zone in cui analoghe concentrazioni patrimoniali erano nelle mani di altri dinastie e chiese. Talvolta questo astensionismo dei conti aveva un valido motivo giuridico, quando riguarda le terre delle chiese immunitarie: i diplomi di immunità imponevano agli ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese e questo suggeriva al conte un politica di allontanamento di queste aree per concentrarsi sulle zone in cui il suo intervento era più facile e promettente. Questa tendenza si riproponeva per le aree dove si concentrano grandi possessi di altre dinastie aristocratiche, che non potevano fruire dei diritti connessi all’umanità, ma nei cui confronti il conte era solidale o con cui non voleva aprire conflitti. Questi comportamenti portarono alla formazione di poteri locali, ma già nel X secolo si constata come il territorio del comitato non fosse uguale, ma il campo di affermazione di diverse chiese e dinastie, che fondavano la propria potenza sul possesso fondiario. La famiglia comitale spiccava per rilevanza, legittimità e ampiezza del patrimonio; ma anche i conti erano attenti a quei settori del territorio in cui si concentravano i loro possessi. Esempio di un diploma concesso a un conte nel 940, Pag. 155 Il conte Aleramo ottenne sia un grande possesso (corte di Foro) che il pieno potere pubblico sul villaggio di Ronco. I villaggi sono posti all’interno della circoscrizione governata dallo stesso Aleramo, su cui egli disponeva del pieno potere, ma da questo momento questi diritti giurisdizionali saranno suoi non in quanto funzionario delegato dal re, ma come parte del suo patrimonio: anche se il futuro re imporrà un altro come conte, il potere giurisdizionale su Ronco resterà nelle mani di Aleramo e dei suoi eredi: da questo momento luoghi come Foro e Ronco assunsero un peso maggiore delle altre aree dello stesso comitato. Vescovi e città. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine intorno al vescovo, le concessioni regie in loro favore, la difficoltà di controllare comunità complesse, indussero gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Fu un’evoluzione fondamentale sia per la storia delle chiese che per l’elaborazione delle capacità politiche delle comunità cittadine italiane: mostra come il potere dei conti fosse discontinuo, con aree di forza e di debolezza, e un’assenza totale dei conti in alcuni settori del territorio. L’esito generale fu un cambiamento strutturale nel legame tra il regno e le realtà locale e nel rapporto tra aristocrazia e territorio (in specifico tra funzionari regi e i distretti loro affidati). Queste evoluzioni ci mostrano un indebolimento del controllo del re su territorio e funzionari, ma anche discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; dal punto di vista militare, appare tramontata la capacità di difesa omogenea del re e del suo apparato. È questo il contesto ove situiamo le nuove minacce armate che colpirono l’Europa occidentale dalla fine del IX secolo. - 2. Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni Mobilità militare. Il periodo tra gli ultimi decenni del IX secolo e la metà del X fu segnato da una mobilità di gruppi armati che dall'esterno dell'Impero carolingio partirono in incursioni e saccheggi nelle ricche terre di Italia, Francia, Germania e in una lunga opera di conquista dell'Inghilterra. La cronologia di questi conflitti e saccheggi non è casuale: la crisi del potere carolingio alla fine del IX secolo fu della capacità imperiale di controllare militarmente i territori, e lasciò campo aperto a iniziative di piccole bande che compivano incursioni con intenti di saccheggio. Queste bande possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: Normanni (dalla Scandinavia), Saraceni (bande di pirati attivi in diversi punti del Mediterraneo), Ungari (insediati nelle steppe dell'Ungheria). Occorre trattare le tre vicende separatamente, perché ambiti territoriali, modalità di azione ed esiti furono diversi. tra le aristocrazie fecero sì che la dinamica politica si muovesse da un regno all'altro. Ma i singoli regni erano comunque spazi politici riconosciuti, con evoluzioni specifiche, che possono essere presentate separatamente. Il breve regno di Borgogna. La Borgogna fu la struttura politica di minor durata: si affermò alla fine del IX secolo come territorio autonomo, controllato dai Rodolfingi, che si imposero come dinastia regia, con un dominio concentrato tra le Alpi ed il Rodano, a cavallo tra Francia e Svizzera francese attuali. Nel 933 il dominio rodolfingio si allargò alla Provenza, ma l'autonomia del regno fu ridotta: una crisi dinastica iniziata con la morte di Rodolfo II aprì la strada ai re di Germania per affermare il proprio patronato e controllo sulla Borgogna. La dinastia Rodolfingia mantenne il potere con un'autonomia limitata, che si concluse nel 1034, quando il regno passò direttamente alle mani del re di Germania, Corrado II. Più complesse furono le dinamiche sviluppatesi negli altri regni. 3.1 Italia Le lotte per il trono italico. Per l'Italia, momento chiave fu la morte di Carlo il Grosso (888), l'ultimo carolingio ad aver riunito nelle sue mani l'intero Impero. Se infatti il regno italico aveva conservato una propria identità istituzionale e territoriale all'interno dell'Impero, a partire dall'888 l'Italia seguì una vicenda sua propria, svincolata dalle vicende nelle altre terre carolingie. Tra 888 e 961 conflitti politici particolarmente complessi e violenti, con diversi potenti che si contendevano il trono, furono la norma: la scomparsa della dinastia carolingia dall'orizzonte politico italiano rese irrilevante la componente dinastica, lasciando campo aperto a contendenti di alto livello politico, nessuno dei quali poteva però vantare una diretta ascendenza carolingia per via maschile. L'opposizione fondamentale fu tra i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto: Berengario del Friuli fu incoronato re nell'888, ma sconfitto da Guido di Spoleto nell'889. Mentre re veniva incoronato re (889) e poi imperatore (891), Berengario si concentrava sulla regione che meglio controllava, il nord-est. Da qui, riprese un ruolo centrale dopo la morte di Guido (894), ottenendo la corona imperiale nel 915 e regnando così fino alla morte, nel 924. Ma il regno di Berengario fu caratterizzato dalla concorrenza di Lamberto di Spoleto (figlio di Guido) prima e di Ludovico di Provenza poi, impegnando si in conflitti che si risolsero con la morte di Lamberto nell'898 e con sconfitta, accecamento e ritorno in Provenza di Ludovico, nel 905. Le grandi dinastie di marchesi. Però, la politica di questi decenni era piuttosto l'opposizione tra le maggiori famiglie dell'aristocrazia italica, dinastie marchionali che cercavano di controllare la corona direttamente o indirettamente. Opera a Berengario, Guido e Lamberto di Spoleto, avevano gli Anscaridi (Ivrea) e gli Adalbertini (Tuscia). Dopo la morte di Lamberto e la sconfitta di Ludovico, furono settori della grande aristocrazia italica a chiamare in gioco un nuovo aspirante re, offrendo la corona a Rodolfo di Borgogna. La politica italiana restò quindi polarizzata attorno a diversi pretendenti al trono: Berengario e Rodolfo fino al 924, con l'uccisione di Berengario, e poi con lo contro tra Rodolfo e Ugo di Provenza, che lo sconfisse e costrinse a ritornare in Borgogna nel 926. Il regno di Ugo segò un periodo di relativa continuità del potere regio: tenne la corona fino a 946, quando ritornò al di là delle Alpi e lasciò il regno italico al figlio Lotario, che convisse con il forte potere del marchese d'Ivrea Berengario, nipote di Berengario I. Anche la morte di Lotario (950) e il passaggio della corona a Berengario II non posero fine alle tensioni, perché crebbero le ambizioni del re di Germania Ottone I, che impose la propria egemonia a Berengario e, una volta rafforzato il proprio potere in ambito tedesco, affermò il diretto controllo in Italia, unendo i regni di Germania e Italia, con un legame politico che rimase un dato permanente per tutto il basso medioevo. 3.2 Germania (regno dei Franchi orientali) Re elettivi. L'ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi orientali fu Ludovico il fanciullo, che morì nel 911, lasciando spazio politico all'affermazione di nuovi re, che non ereditarono la corona dai propri antenati. Nel quadro del regno tedesco, si impose un principio elettivo del re da parte dei duchi; ma tale principio convisse sempre con le tendenze dinastiche. Tutta la storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell'ottica della convivenza tra potere principesco e regio, tra principio elettivo e dinastico: il re, nelle fasi di forza, poteva imporre il proprio figlio come successore; ma nei momenti di debolezza o crisi dinastica, tornava dominante il principio elettivo, ed erano i grandi principi (laici ed ecclesiastici) a stabilire chi dovesse prendere la corona. L'affermazione dei duchi di Sassonia. Alla morte di Ludovico (911), fu scelto come re uno dei grandi duchi, Corrado di Franconia, ma il suo regno fu minacciato dall'ostilità di parte della grande aristocrazia, che non vedevano in lui un re pienamente legittimo. Suo principale avversario fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse ad un accodo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re nei domini del duca. Questo accordo tra i due principi più potenti del regno fu premessa per l'ascesa di Enrico al regno nel 919, quando alla morte di Corrado l'aristocrazia tedesca lo scelse come nuovo re. Da quel momento, per più di un secolo (fino alla morte di Enrico II, nel 1024), la corona si trasmise all'interno della dinastia dei duchi di Sassonia, prima direttamente di padre in figlio (da Enrico I a Ottone I, Ottone II e Ottone III), poi ad un cugino, Enrico II. La conquista dell'Italia. Il dominio dei re sassoni ampliò i propri orizzonti: nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia (fascia intermedia tra Germania e Francia), poi il figlio, Ottone I, conquistò il regno d'Italia. La morte del re Lotario (950) aveva permesse l'ascesa al trono di Berengario di Ivrea, ma anche messo in evidenza le possibilità offerte ad un re come Ottone. L'azione di Ottone si situò in un contesto complesso: da un lato le divisioni interne all'aristocrazia italica, tra chi sosteneva Berengario e chi la regina Adelaide, vedova di Lotario; dall'altro la posizione di Berengario, che si era posto sotto la protezione di Ottone; e infine i conflitto tra lo stesso Ottone e il figlio primogenito Liutdolfo, che ambiva ad affermare il proprio potere personale sull'Italia. L'intervento di Ottone in Italia fu l'affermazione della sua protezione della regina debole, che sposò a Pavia nel 951, e della sua superiorità su Berengario II. Ma le tensioni tra Ottone e il figlio si trasformarono in conflitto: questo aspetto mostra come se la discesa in Italia di Ottone sembrava premessa per un suo pieno controllo su regno d'Italia e corona imperiale, questo progetto non si poté attuare immediatamente perché il re dovette impegnarsi a condurre lo scontro con suo figlio in Germania, dove Liutdolfo aveva cercato di riunire i grandi del regno al suo seguito. Il quadro politico italiano fu temporaneamente pacificato con il riconoscimento di Berengario II e del figlio Adalberto come re sottoposti ad Ottone, che assunse il controllo diretto del nord-est della penisola; Ottone si concentrò poi nel conflitto politico-militare contro il figlio, che si concluse nel 954 con un atto di sottomissione da parte di Liutdolfo. La pacificazione interna al regno e l'accresciuto controllo sull'aristocrazia furono le premesse per la grande vittoria del Lechfeld del 955, con cui Ottone mise fine alla minaccia delle incursioni ungare e affermò con evidenza la sua condizione di massimo potere politico-militare dell'Europa di tradizione carolingia. L'Impero ottoniano. Su queste premesse e fondandosi su un regno di Germania pacificato, nel 961 Ottone scese di nuovo in Italia, prese direttamente possesso del regno e ottenne a Roma la corona imperiale (962), che poteva pretendere in quanto detentore del regno d'Italia ed effettivo protettore della Chiesa di Roma. Da questo si definì un quadro istituzionale che si mantenne stabile per il resto del medioevo, con l'Impero costituito dall'unione dei regni di Germania e Italia (e, dal 1034, dal regno di Borgogna); in questo quadro si collocarono i meccanismi di ascesa al trono: il re di Germania veniva eletto dai principi tedeschi, doveva scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e, infine, recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. Da Ottone, si affermò una dinastia regia: la forza della famiglia sassone condizionò le scelte dei duchi sia nel 973, alla morte di Ottone I (che aveva garantito la successione al figlio, associandolo al trono nel 961), sia nel 983, quando Ottone II lasciò il regno ad Ottone III, di soli tre anni, riconosciuto re dall'aristocrazia ducale. Dobbiamo però notare due differenze con i processi dell'età carolingia: la successione al trono avveniva sì all'interno della dinastia, ma con il consenso dei grandi del regno; inoltre fu più chiara un'idea di linea dinastica, di successione a vantaggio esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. Il controllo dell'aristocrazia ducale. Questa convergenza attorno agli Ottoni si comprende se si considera la costituzione della “aristocrazia ducale”: la forza di Ottone I e del figlio si espresse nella sistematica occupazione delle diverse sedi ducali per mezzo del loro stesso gruppo parentale, nominando come duchi cugini, cognati, generi del re. Si delineò un sistema di potere solido, con una piena occupazione da parte di un unico grippo parentale, sotto la guida della linea dinastica costituita dai re. Le cose cambiarono con Enrico II, che apparteneva ad un ramo collaterale della famiglia, e che promosse l'ascesa alla dignità ducale di nuovi aristocratici, non appartenenti al gruppo parentale regio. La Renovatio Imperii. La fondamentale continuità politica subì però un mutamento rilevante sotto Ottone III, che pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum (il “Rinnovamento dell'Impero romano”): linguaggio e cerimoniale imperiale si arricchirono di elementi tratti dalla tradizione occidentale e bizantina, al fine di esprimere un'idea modellata in riferimento all'età sia carolingia che romana. Il riferimento a Roma era una precisa volontà di intervento nel presente: nel 996, mentre il re si avviava verso Roma per ottenere la corona imperiale, lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV; Ottone impose come papa un suo cugino, che divenne Gregorio V e pochi mesi dopo lo incoronò imperatore. La nomina di Gregorio fu un fatto tutto nuovo, perché il nuovo papa proveniva da Oltralpe, dall'aristocrazia tedesca. Dopo il declino dell'Impero carolingio, l'aristocrazia romana nel X secolo aveva avuto il pieno controllo dell'elezione papale: i Romani si ribellarono all'elezione di Gregorio, tanto che intervenne militarmente lo stesso Ottone, nel 998, per sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e reinsediare Gregorio. L'anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa uno dei più grandi intellettuali di quei decenni, che assunse il nome di Silvestro II, a richiamarsi al papa che aveva battezzato Costantino e quindi posto le basi dell'Impero cristiano. Ottone III e Roma. Queste due nomine sono una testimonianza degli ideali politici che guidavano l'azione di Ottone III e della nuova centralità assunta da Roma negli equilibri politici dell'Impero, tanto che lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città. (in concorrenza con quello papale del Laterano). Ma le nomine indicarono anche una possibile evoluzione del papato: pontefici di alto livello intellettuale, svincolati dalle lotte di potere interne all'aristocrazia cittadina, avrebbero consentito una crescita del papato sul piano sia ecclesiastico che culturale, sia nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Ma la nomina imperiale di papi d'Oltralpe non ebbe seguito. Solo dalla metà del secolo successivo, con l'affermarsi dei movimenti riformatori, il papato poté cambiare fisionomia. Enrico II e Arduino. Nel 1002 la morte di Ottone III (22 anni, senza figli) aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente all'interno dello stresso gruppo parentale, con l'ascesa al trono del cugino Enrico II, che si mosse in direzioni diverse rispetto ai predecessori, dando spazio a nuovi gruppi aristocratici che ascesero alle cariche ducali. Dal punto di vista italiano la successione ebbe implicazioni diverse dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell'Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d'Italia Arduino, marchese di Ivrea. La sua vicenda sul trono fu veloce: dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico (1004) e si ritirò nelle sue aree, lasciando il regno nelle mani del re sassone. La successiva lontananza di Enrico dall'Italia lasciò nuovo spazio ad Arduino per ricostruire una erte di solidarietà e alleanze: nel 1014 una nuova discesa in Italia di Enrico pose fine alla vicenda di Arduino, che si ritirò in un monastero. Ma l'elezione di Arduino rese visibile una tensione sotterranea, una ricorrente volontà dell'aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re: se la forza ottoniana aveva precluso ogni capacità di scelta, la breve crisi dinastica sembrò riaprire questa possibilità; così avvenne anche negli anni successivi, quando alcuni settori dell'aristocrazia italiana cercarono altrove un nuovo re, contattando (es.) un grande principe francese, Guglielmo d'Aquitania, per offrirgli la corona. I decenni attorno al Mille andarono a definire, nei regni di Germania e Italia, un durature equilibrio tra regno e aristocrazia: una preminenza dell'aristocrazia ducale tedesca, che affermò il proprio potere di elezione del re; ricorrenti tendenze dinastiche, alla trasmissione del titolo regio di padre in figlio; un'autorità regia condizionata dall'aristocrazia principesca, ma dotata di una forte base di potere fatta di legittimità, prestigio e di un concreto controllo di terre, castelli e vassalli; un'aristocrazia italica a cui sostanzialmente sfuggì il controllo della corona, ma che consolidò il proprio potere per vie diverse, con processi di potenziamento dinastico e signorile. Questo equilibrio connotò la prima metà del secolo XI, per poi subire una trasformazione soprattutto a causa della Riforma della Chiesa e del conseguente radicale mutamento dei rapporti tra papato e Impero. 3.3 Francia Oddone di Parigi e Carlo il Semplice. In Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno, e una svolta fu segnata dalla morte di Carlo il Grosso (888), che lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: prese il potere il conte Oddone di Parigi, ma non si trattò di un netto cambiamento di dinastia regia, quanto dell'inizio di un'instabilità politica che segnò i successivi decenni. Si trovarono a contendersi la corona le maggiori dinastie principesche del regno, ma un primo elemento peculiare fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni settori dell'aristocrazia scelsero di appoggiare Carlo il Semplice, incoronato a Reims nel 893 e si contrappose a Oddone, la cui morte nel 898 rese Carlo unico ed indiscusso re di Francia, grazie ad un accordo con gli eredi di Oddone. Fu un re debole, che poté fermare le incursioni normanne solo concedendo a Rollone un ampio settore del regno; e la sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. Principati territoriali. La definizione di “Grandi del regno” ci introduce al dato strutturale dell'evoluzione del regno francese in questi decenni: il cambiamento più profondo fu costituito dal diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Regioni come Borgogna, Champagne, Aquitania, ecc, si organizzarono attorno ad altrettante dinastie di conti e duchi, detentrici di domini territoriali non diversi da quello regio; anzi, il territorio realmente dominato dai re, tra Parigi e Orleans, non era più grande dei principati. Negli anni successivi l'aristocrazia francese pose sul trono prima Roberto di Neustria (fratello di Oddone), poi Rodolfo di Borgogna (genero di Roberto): si scelsero i re all'interno del gruppo parentale derivante da Oddone (Robertini), ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio del re Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l'idea di una vera dinastia regia. In questi decenni i grandi principi di Francia, liberi dal peso del carisma regio carolingio, cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re, ma al contempo nessuno poteva ignorare la presenza forte e ingombrante di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca, i Robertini. L'affermazione dei Capetingi. Era un equilibro delicato, come fu evidente nel 936, alla morte di Rodolfo di Borgogna: Ugo il Grande, nonostante la sua potenza, scelse di no imporre la propria elezione a re e preferì far tornare dall'esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987 (Ludovico IV, Lotario, Ludovico V). La scelta di Ugo fu probabilmente un segno di realismo: se la forza dei Robertini era notevole, essi non erano certo gli unici potenti del regno, ma dovevano convivere con altri principati territoriali. Le dinastie principesche rappresentavano i principali attori politici del regno e Ugo, rinunciando alla corona e lasciando spazio ai Carolingi – figure concretamente deboli ma simbolicamente forti e legittime . Evitò di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri principi, fatto che avrebbe suscitato la loro ostilità. I Carolingi sul trono nella seconda metà del secolo X non furono re-fantocci, ma il processo che in questi decenni segnò i meccanismo politici del regno di Francia fu la costruzione dell'egemonia dei Robertini, che culminò nel 987 con l'ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese vita la dinastia capetingia, che conservò la corona di Francia fino al 1328 (quando passo ad un ramo collaterale della famiglia, i Valois). Il 987 è considerata una data chiave della storia francese, momento fondativo della monarchia nazionale; è un momento in cui si chiude una lunga fase storica (fine della dinastia carolingia) e se ne aprì un'altra ancora più lunga, con la piena affermazione dei Capetingi, destinati a un duraturo futuro alla guida del regno. Ma deve essere chiaro che l'ascesa al trono di Ugo Capeto – resa possibile da una crisi dinastica carolingia, con la morte senza eredi la novità non era nelle norme, che rappresentavano alcune garanzie fondamentali (per chiese, chierici e pauperes, gli inermi) già presenti nelle norme carolingie; la novità era nel fatto che queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma dalla convergente volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti a forte intensità religiosa e cerimoniale. Le paci di Dio erano la pace del re in assenza del re: le stesse norme trovavano fondamento non nella capacità regia di coercizione, ma nell'iniziativa dei vescovi, nella loro capacità di assumere la guida della popolazione, grazie sia agli specifici linguaggi e segni religiosi, sia alla loro forza patrimoniale e politica. Modelli opposti. Due modelli politici elaborati da vescovi nello stesso contesto (regno di Francia) e nello stesso periodo (decenni a cavallo dell'anno Mille), per rispondere ai problemi posti dalla crisi del potere regio; eppure la tripartizione funzionale e le paci di Dio sono modelli opposti da vari punti di vista. Abbiamo la tripartizione, modello di ordine espresso in testi di alto livello intellettuale e di debole circolazione, modello destinato ad una lingua fortuna ma che ebbe impatto ridotto; poi le paci di Dio, che non fondarono su una teoria formalizzata, ma su un sistema di pratiche cerimoniali, rielaborate lungo il secolo XI, che ebbero un fortissimo impatto sulla società alla quale si rivolgevano, direttamente coinvolta nei riti e nei giuramenti destinati a fondare la pace. Ma anche da un altro punto di vista la tripartizione e le paci di Dio rappresentarono modelli diversi, “sistemi concorrenti” (cit. Georges Duby): la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una centralità dei vescovi, destinati a fungere sia da garanti della salvezza eterna, sia da guide intellettuali nel presente; le paci di Dio, seppur guidate dai vescovi, si fondavano sulla convergenza di tutti i copri sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento. Se il problema fondamentale era quello di contenere e regolare la violenza aristocratica, la tripartizione lo faceva delimitando i campi di azione dei diversi corpi sociali )i cavalieri dovevano limitarsi a combattere al comando del re e sotto la guida spirituale dei vescovi), mentre nelle paci di Dio tutti diventavano promotori di un nuovo ordine attraverso il giuramento. In comune, c'è una profonda trasformazione del rapporto tra i vertici delle chiese ed i fedeli: sfumò la distinzione tra suddito e fedele, perché la fede era sì connotato fondamentale dell'appartenenza all'ecclesia, ma l'ecclesia era l'intera società. La piena appartenenza alla società passava attraverso la piena sottomissione alla fede e ai vescovi: in questo senso, l'inquadramento religioso non era solo un inquadramento delle credenze, ma della persone, ed essere fedeli significava essere sudditi di un complessivo sistema di dominazione. - 5. Nuove chiese, nuovi poteri Le chiese guidavano il processo di riflessione che tra X e Xi secolo accompagnò la transizione dall'Impero carolingio al sistema dei poteri locali; ma queste riflessioni vanno collocate anche in un processo di profonda trasformazione delle chiese e del loro ruolo nella società e nel quadro politico. È ben noto il rinnovamento radicale attuato dalla Riforma del secolo Xi, la trasformazione si avviò già nel secolo X, su due piani: profondo rinnovamento del monachesimo, prima con l'affermazione di Cluny, poi con la diffusione di nuove forme di vita religiosa, a orientamento eremitico; nuovo e diverso coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. L'abbazia di Cluny. Nel 909 o 910 il duca Guglielmo d'Aquitania – principe che controllava dei territori sparsi nel sud della Francia, dai Pirenei alla Borgogna – fondò l'abbazia di Cluny, nella diocesi di Macon, non lontano da Lione, e l'affidò all'abate Bernone. Tra X e Xi secolo centinaia di monasteri nacquero per iniziativa di nobili che li edificarono, li dotarono di patrimoni fondiari e li affidarono ad un abate di loro fiducia. La peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duce a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita successiva di Cluny: in genere, le fondazioni aristocratiche di monasteri implicavano un patronato della famiglia del fondatore, un'opera di tutela e controllo e il diritto a nominare i successivi abati. Non fu così per i monaci di Cluny, che ottennero il pieno diritto di scegliere al proprio interno i nuovi abati. Al contempo l'abbazia fu svincolata anche dal controllo del vescovo di Macon, diocesi ove era collocata: la protezione e benedizione del monastero erano affidate al vescovo di Roma. Preghiera e liturgia. Cluny nacque sotto il segno della piena autonomia, sia dal fondatore che dalle strutture del potere ecclesiastico, dato che la lontananza da Roma garantiva che il papa non si sarebbe concretamente intromesso nelle vicende dell'abbazia. I primi abati seppero dar vita a una forma di vita religiosa peculiare, che innalzò Cluny a una fama a livello europeo. Pur muovendosi nella regola benedettina, i Cluniacensi ne diedero un'interpretazione specifica, che pose al centro la dimensione di liturgia e preghiera: una liturgia più ricca e solenne, una preghiera che andò ad occupare la massima parte del tempo dei monaci. La preghiera era il centro della della vita monastica, percorso di ascesi personale che si concentrava in ampi momenti di celebrazioni collettive, preghiera individuale e meditazione sulle Scritture; e la stessa Regola di Benedetto aveva fatto della preghiera l'attività centrale delle comunità. Il monachesimo di Cluny propose un'accentuazione coerente con la tradizione impostazione benedettina, con un ampliamento del tempo dedicato alla preghiera, un'accresciuta solennità dei momenti liturgici e una specifica attenzione alle preghiere per l'anima dei defunti. Le preghiere furono una via per l'ascesi dei monaci, ma anche l'espressione dello scambio che avveniva tra monaci e società laica: i monasteri cluniacensi, con le preghiere per i defunti, garantivano beneficio spirituale a quei settori della società circostante che sostenevano il monastero sul piano materiale, con le donazioni di terre che andarono a costituire un robusto patrimonio fondiario. Riforma monastica. Cluny fu espressione di un monachesimo dalla disciplina e spiritualità rigorose, modello di vita religiosa che garantiva ai benefattori le efficaci preghiere di uomini santi; al contempo non fu elemento politicamente destabilizzante, ma pienamente parte del sistema aristocratico di dominazione: era un'abbazia ricca e potente, alleata dei principi e della grande aristocrazia. Per questi motivi, nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono grande fama all'interno ed esterno del regno di Francia, e già il secondo abate Oddone (927-942), fu incaricato di riformare la vita monastica in abbazie antiche e prestigiose, in declino dal punto di vista spirituale e disciplinare: avvenne a Fleury, a San Paolo fuori le Mura a Roma e a San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. La congregazione. Gli interventi di Oddone incontrarono resistenze nelle comunità monastiche, attente a difendere la propria autonomia, dato che un'abbazia benedettina tradizionalmente non dipendeva da nessuno e trovava nel proprio abate il vertice assoluto; molte delle abbazie riformate da Oddone non conservarono un legame con Cluny nei decenni successivi. Ma nella capacità di Cluny di rinnovare la vita religiosa in altri monasteri cogliamo gli inizi di quello che diventerà il connotato più specifico del monachesimo cluniacense, ovvero la costituzione di una rete di monasteri coordinati dall'abbazia borgognona: non un ordine, ma una congregazione, un insieme di enti religiosi che riconoscevano la propria guida nell'abate di Cluny. La congregazione fu composta in parte da antiche abbazie che si sottoposero al controllo di Cluny per rinnovare la propria vita spirituale e consolidare la propria disciplina; ma il modello prevalente fu la costituzione di nuovi enti monastici che non erano abbazie, ma priorati. Nell'ordinamento benedettino il vertice di un monastero era l'abate, assistito dal priore: in questi nove enti monastici l'abate non c'era, perché l'unico era quello di Cluny. Molti aristocratici del X e XI secolo, quando vollero fondare un ente monastico che garantisse con le sue preghiere la salvezza delle loro anime, non scelsero di creare un'abbazia autonoma e sottoposta al patronato dei fondatori, ma di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato, sottoposto all0abate di Cluny e svincolato da qualsiasi controllo laico. La scelta era dettata dalle esigenze spirituali di questi laici, che cercavano nei monaci i garanti della propria salvezza spirituale, e ambivano ad ottenere la preghiere di monaci santi, come sapeva garantire la disciplina imposta da Cluny. Il trionfo di Cluny. Le basi furono poste nel X secolo, con gli abbaziati di Oddone e Maiolo e poi, tra X e XI, di Odilone (abate 994-1049): in questo periodo l'abbazia seppe acquisire un grande prestigio, anche grazie al legame con la sede papale: ma soprattutto lungo il secolo XI i priorati cluniacensi si diffusero in larghi settori d'Europa, come Spagna, Germania, Italia. L'influenza di Cluny andò al di là della congregazione: come per il caso di Fleury, gli enti monastici riformati dagli abati cluniacensi non sempre conservarono un rapporto di diretta sottomissione all0abbazia, ma il loro monachesimo fu comunque influenzato da spiritualità e forme di vita cluniacensi. Alla fine del secolo XI molte sedi monastiche in Europa che si richiamavano direttamente a una dipendenza da Cluny, o esprimevano una forma di vita monastica influenzata dal modello cluniacense. Questa congregazione non fu un caso isolato, e forme analoghe di coordinamento tra enti monastici si realizzarono ad esempio attorno alle abbazie di Fruttuaria, in Piemonte (fondata nel 1003 da Guglielmo da Volpiano, discepolo di Maiolo di Cluny), e di Sassovivo, presso Foglino (fondata nel 1080 dal monaco Mainardo); nessuna congregazione raggiunse dimensioni e prestigio paragonabili a Cluny, ma sono segno di una diffusa volontà di riforma del monachesimo, attuata attraverso il coordinamento dei singoli monasteri attorno a sedi prestigiose e affidabili. Il massimo trionfo di Cluny fu negli ultimi anni del secolo XI: emblematica, nel 1088, l'elezione al soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante, per la storia di Cluny (cui concesse un'ampia bolla di esenzione), e per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica europea: a lui si deve, nel 1095, la proclamazione della prima crociata, un fenomeno destinato a trasformare i rapporti con il Mediterraneo, le strutture degli scambi commerciale e l'identità sociale dell'aristocrazia. Monaci ed eremiti. In parallelo con la crescita di Cluny e di altre congregazioni analoghe, il secolo XI fu segnato dall'emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti diversi, con un'inspirazione eremitica. Si pose prima di tutto Romualdo che, sulla base di precedenti esperienze eremitiche, attorno al 1023 fondò il monastero di Camaldoli (Appennini toscani), che manifestò una grande forza di attrazione, dando vita ad un movimento che, dopo la sua morte, trova guida in Pier Daminai, grande intellettuale, guida dei movimenti riformatori, il cui impegno nella Chiesa e nel mondo conviveva con una costante volontà di isolamento e un'aspirazione ad una vita eremitica. Modello simile fu quello di Vallombrosa, fondato nel 1035/6 da Giovanni Gualberto, monaco benedettino: la comunità era rigidamente isolata dal mondo, in un eremitismo collettivo. In questo aspetto individuiamo l'elemento connotante di queste esperienze monastiche: erano esperienze in cui la volontà eremitica si risolveva in una dimensione comunitaria, in gruppi che si separavano dal mondo. Il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido e legato al mondo, e si operavano scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. Il grande successo di queste esperienze ci segnala l'avvio di un cambiamento nella coscienza religiosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere: se la ricchezza dei monasteri altomedievali era vista come segno tangibile del loro successo e santità, i due piani lentamente divergevano, attorno ad un ideale di religiosità povera, priva di potere, lontana dal mondo. I poteri dei vescovi. Parallelamente a questa dinamica di trasformazione del mondo monastico, mutò anche il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine e con la società e i poteri circostanti. Fin dall'età carolingia, i vescovi erano elemento strutturale del sistema di potere regio, sia a corte, sia nelle diocesi, come consiglieri e coadiutori del re. Con la fine dell'Impero e la crisi della capacità regia di controllo, la natura del potere vescovile muta, e si afferma il loro controllo politico e sociale sulle città, fondato sui legami tra vescovo e società cittadina, sull'allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche su specifiche concessioni regie. Da questi diplomi regi partiamo, per comprendere gli equilibri che portarono (soprattutto nel regno italico) all'affermazione di un pieno potere vescovile sulle città. Diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962. Testo a Pagina 179. la concessione al vescovo Uberto è enorme: Ottone gli assegnò tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, le mura, ogni diritto di prelievo in città e per una fascia di tre miglia attorno, il potere giudiziario sugli abitanti della città. Di fatto, il vescovo di Parma assunse in città e in un ampio suburbio tutti i poteri già spettanti al conte, e con questo diploma l'imperatore, nel conflitto che opponeva vescovo e conte, prese posizione a favore del primo. Questo non significa che il vescovo assumesse le funzioni di conte: i poteri non furono delegati come faceva un re nei confronti dei suoi funzionari, ma furono concessi in piena proprietà alla sede vescovile (“ dal nostro diritto e dominio trasferiamo nel di lui diritto e dominio completamente”), in quella che, da un punto di vista giuridico, sembrerebbe una completa abdicazione regia, una totale rinuncia a esercitare il potere. Il controllo regio dei vescovi. Non è così, lo si può comprendere ponendo questo diploma in un contesto più ampio. La concessione a Uberto di Parma non fu un caso isolato: tra X e XI secolo, e soprattutto nell'età ottoniana, molti vescovi ricevettero diplomi simili, con concessioni di potere giurisdizionali, trasferiti dal re alla proprietà della sede vescovile. Non fu una politica sistematica, gli Ottoni non scelsero di costruire una giurisdizione vescovile ai danni di conti e marchesi; ma certo fu una scelta adottata in contesti diversi, nel quadro di una politica imperiale pragmatica, pronta a sostenere il potente locale più favorevole agli interessi imperiali. Dal punto di vista regio, il senso politico si coglie considerando i meccanismi di trasmissione del potere comitale: i conti avevano solidamente dinastizzato la propria carica, ed erano in grado di trasmettere la funzione ai figli, senza che il regno fosse concretamente in grado di opporsi. Questo non significava che si fosse persa la consapevolezza della natura funzionariale del loro potere, del fatto che essere conti significava essere potenti in nome del re, essere suoi rappresentanti, ma il vincoli tra re e funzionari era indebolito. Dall'altra parte, nelle incertezze del diritto canonico, i re erano in grado di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o impedendo l'elezione di vescovi ostili. Perciò, nei casi di conflitti locali e difficili rapporti tra re e dinastie comitali, un re forte come Ottone I poteva intervenire, non cacciando il conte (causa conflitti), ma riducendone l'autorità in favore del vescovo, che costituiva un potere affidabile per il re , che sapeva di poter contare su una rete di vescovi fedeli o non ostili: per quanto un vescovo potesse decidere di ribellarsi ad un re, non poteva avere eredi legittimi, e alla sua morte il re sarebbe potuto intervenire per nominare un successore più affidabile. Il potere del vescovo non era di un funzionario, formalmente non rispondeva al re, perché i poteri gli erano concessi in piena proprietà; ma nella concreta dinamica politica affidare ampi poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace (anche se indiretto) controllo della società locale. Vescovi e comunità cittadina. I vescovi erano un strumento di potere efficace grazie ai loro legami con la città ed i suoi ceti eminenti: la plurisecolare solidarietà tra vescovi e cives assumeva contorni concreti, perché le principali famiglie andavano a costituire il gruppo dei canonici (clero che direttamente assisteva il vescovo) e la clientela vassallatica vescovile. Questi gruppi famigliari – egemoni nei confronti della società cittadina e legati al potere vescovile – fungevano da raccordo tra vescovo e società e da fluide della comunità cittadina, soprattutto sul piano militare. Non sorprende che alcuni diplomi imperiali associno il vescovo ai concives, o che in alcuni casi gli imperatori concedessero due diplomi paralleli, uno per il vescovo e uno per i suoi concittadini: ad esempio nel 1014 Enrico II confermò al vescovo di Savona tutti i suoi possessi, e chiese ed i diritti, minutamente elencati; al contesto, in un diverso diploma, confermò i possessi degli uomini di Savona tutelandoli da eccessive e indebite pretese fiscali di conti e marchesi. Qui, come in molti altri casi, il potere vescovile e la crescita politica della comunità non fossero in opposizione, ma due processi direttamente collegati, in cui il vescovo accompagnava la crescita politica della comunità e ne legittimava l'identità politica agli occhi degli imperatori. L'efficacia del controllo vescovile sulla comunità cittadina è evidente anche se si considerano i casi di città italiane in cui si sviluppò un forte potere vescovile sulla città pur in assenza di una vera concessione imperiale: i diplomi imperiali erano importanti, ma spesso andavano a confermare processi avviati prima ed indipendentemente da essi. Caso emblematico è quello degli arcivescovi di Milano, la sede episcopale più potente dell'Italia del nord: gli arcivescovi del XI agirono alla guida delle città e di un'ampia clientela vassallatica, con un forte potere politico, pur senza mai ottenere dall'Impero un diploma che ratificasse tale potere. Le concessioni imperiali ai vescovi italiani si concentrarono nell'età dei re sassoni, da Ottone I a Enrico II (961- 1024), per poi attenuarsi nei decenni centrali del secolo XI, quando il rapporto tra l'Impero ed i vescovi fu coinvolto nei profondi mutamenti legati alla Riforma. L'età ottoniana fu un periodo di intensa azione imperiale sull'Italia e sulle sue chiese: non è un caso se proprio sotto Ottone III abbiamo constatato la capacità imperiale di imporre chierici provenienti dalla corte imperiale anche sulla stessa cattedra papale. L'azione imperiale perse efficacia nei decenni successivi, ma questi diplomi accompagnarono il definirsi di un equilibrio politico che ebbe un rilevante impatto nella storia delle città italiane, in quella simbiosi tra potere vescovile e comunità cittadina che condizionò pesantemente la formazione dei comuni cittadini.
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