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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 1, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 1 – Le istituzioni della Chiesa e l'inquadramento religioso delle popolazioni fra XI e XIII secolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 1 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 1 – Le istituzioni della Chiesa e l'inquadramento religioso delle popolazioni fra XI e XIII secolo (Pag. 188-214) Nel corso del secolo XI, le chiese, benché condizionate dai contesti locali come gli altri poteri territoriali, conservarono una maggiore capacità rispetto ai regni di modellare i quadri sociali delle popolazioni europee, di dare una parvenza di ordine al caos delle relazioni di potere interne al mondo signorile, di immaginare schemi di governo in grado di individuare chiaramente una gerarchia di comando. Fu uno sforzo che coinvolse prima la Chiesa stessa come istituzione sacra sulla terra. Sulla spinta di tante chiese locali, vescovi capaci, imperatori pii e intellettuali militanti si avviò un processo di ripensamento della funzione della Chiesa conosciuto come “Riforma”. Nei primi decenni del secolo XI si individuarono i temi portanti di questa nuova visione: recupero dei beni delle chiese, affermazione della natura inalienabile e indisponibile delle cose sacre (es. le cariche che non potevano essere cedute per denaro, la simonia), esaltazione del carattere sacro del sacerdozio da non contaminare con i rapporti carnali (celibato del clero), necessità di un vertice della Chiesa libero da condizionamenti esterni. Il programma era lungo, difficile da imporre e accettare. Le resistenze vennero dagli stessi quadri episcopali, che approvavano molti punti della riforma, ma si opposero all'ondata moralistica dei riformatori che discutevano le basi tradizionali del loro potere. Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro coinvolse anche l'imperatore Enrico IV. La questione era tecnica, ovvero il potere di un'autorità laica di investire i vescovi; ma emerse anche il motivo profondo dello scontro: il tentativo del papa di inserire i vescovi in una gerarchia solo religiosa, guidata dal pontefice di Roma, eliminando il ruolo dell'imperatore nella creazione delle cariche ecclesiastiche. Fu una lotta fatta di scomuniche, deposizioni e maledizioni, con risultati, sul piano politico, modesti: dopo cinquant'anni di scontro, il compromesso lasciava le cose come erano al tempo di Gregorio. Cambiò il modo di pensare le istituzioni ecclesiastiche, di pensare la Chiesa come istituzione. Le istituzioni dovevano avere una vita propria, seguire delle regole che si ripetessero nel tempo senza farsi condizionare alle azioni dei singoli. La riflessione dei giuristi diede corpo a questo insieme di fregole per definire i funzionamenti di chiese episcopali, clero associate alle chiese, papato e degli uffici centrali. Si inquadrarono anche i nuovi movimenti monastici all'interno di modelli antichi (regola di san Benedetto) riattualizzati secolo le necessità degli ordini. Questo processo di produzione di norme esprimeva l'esigenza di stabilità che la Chiesa inseguì per sé e la società. Rendere stabili le istituzioni era necessario per svolgere meglio il compito fondamentale della Chiesa sulla terra: portare alla salvezza il maggior numero possibile di uomini. I modi di raggiungere la salvezza dovevano essere decisi dalla Chiesa soltanto. I fedeli, battezzati, rinnovati dai sacramenti, educati dai pastori, dovevano accettare le regole in silenzio e seguire la guida illuminata del clero. Non era necessario capire, solo ubbidire. Il processo di inclusione dei fedeli in un percorso salvifico si interrompeva solo nel caso di aperta ribellione agli ordini del clero o disobbedienza palese ai suoi precetti di vita. Accadeva che gruppi di persone decidessero come leggere il messaggio evangelico e quale forma di vita poteva assicurare meglio la salvezza, al di fuori dei riti della Chiesa cattolica. Questa scelta divenne peccato, reato, il più grave di tutti i crimini, perché offendeva la maestà divina. Non era il comportamento peccaminoso ad allontanare il fedele dalla Chiesa, ma la sua ostinazione a negarne la natura malvagia, ripetendolo nonostante il divieto. Testardo come un “asino selvatico”, il fedele cadeva in una spirale di perdizione senza fine: diventata eretico, qualcuno che erra, si perde; ma anche scismatico, che crea divisioni, porta disordine, provoca la rovina della società. L'eresia doveva essere decisa con decisione. Tra la “parte” ed il “tutto” la Chiesa sapeva che bisognava salvare il corpo dei fedeli anche se questo comportava l'uso della forza. A questo dovevano pensare i poteri laici incaricati di dare la morte agli eretici. Dio li avrebbe perdonati. - 1. Per una riforma della Chiesa: vescovi, imperatori e papi nella prima metà dell'XI secolo Una spinta importante per una Riforma della Chiesa nell'Europa medievale venne anche dai vescovi impegnati nella riorganizzazione delle loro diocesi. Riprendendo un linguaggio della tarda età carolingia, che equiparava i beni delle chiese alle cose sacre, i vescovi del secolo XI si impegnarono in recuperi di sostanze e beni dati in beneficio sui quali si era perso il controllo o che erano stati usurpati dai laici nel corso del secolo precedenti. La difesa dei beni ecclesiastici era condotta anche sul piano culturale e ideologico: si ribadiva una concezione sacrale della funzione ecclesiastica e la necessità di rispettare rigore dei costumi da parte del clero diocesano. Gli esperimenti di vita comune del clero e l'attenzione alla difesa del patrimonio delle chiese cattedrali contribuirono a ricostruire un apparato istituzionale delle chiese locali, in grado di esercitare una funzione pastorale, che vedeva i vescovi porsi come guide della società. In questa fase della riforma, il papato fu sostenuto dall'imperatore e dalla sua curia formata dai principali vescovi del regno di Germania. Enrico III (1017-1056) e i papi tedeschi. In questa impresa si impregnarono anche numerosi membri della curia imperiale, soprattutto sotto Enrico III, imperatore nel 1039. circondato da ecclesiastici di altissimo livello culturale, si pose come garante di un processo di riforma della Chiesa in generale, estendendo questa azione di controllo anche al papato di Roma, in balia delle famiglie romane in lotta fra loro. Quando Enrico III scese in Italia, a Roma erano stati eletti ben tre papi nello stesso momento. Dopo un primo tentativo di appoggiare Gregorio VI, l'imperatore fu spinto a sciogliere alla radice il nodo inestricabile che soffocava la funzione pontificia: a Sutri (1046), fece deporre i papi romani e candidò il vescovo di Bamberga, membro della sua curia, papa come Clemente II. Era l'inizio di una serie di papi tedeschi, provenienti dalla cerchia dei chierici imperiali, esponenti di un clero episcopale convinto della necessità di una riforma radicale della Chiesa. Succedette a Clemente II il vescovo di Bressanone, con il nome di Damaso II, che morì poco dopo l'elezione (1049). Seguì un altro vescovo della cerchia imperiale, Brunone, vescovo di Toul, al servizio della corte regia fin da Corrado II. Enrico lo inviò a Roma ove fu consacrato come Leone IX. Dopo il suo pontificato, anche i successori furono scelti nel mondo della corte imperiale tedesca, come Vittore II e Stefano IX, fratello del duca di Lorena. Personaggi impegnati a diffondere una profonda riforma del clero, impostata sulla lotta alla simonia e al concubinato del clero (“nicolaismo). Lotta contro la simonia e il matrimonio del clero. La simonia era un peccato che riguardava la vendita o l'alienazione di cose sacre, dai beni delle chiese alle cariche ecclesiastiche. Il termine viene da un personaggio degli Atti degli Apostoli, Simon Mago, samaritano che esercitava la magia, convertito al cristianesimo. Colpito dai miracoli fatti da Pietro e Giovanni, chiese ai due apostoli di vendergli il potere di imporre lo spirito santo con le mani. La condanna di Pietro fu ferma “Tieniti il tuo denaro e ti sia perdizione, perché hai pensato di poter comprare con il denaro un dono di Dio”. Simone fu identificato come l'iniziatore delle sette dissidenti cristiano, e diede il nome al reato di simonia: la volontà di comprare o vendere cose spirituali con un mezzo materiale. Era condannata perché conteneva la pretesa di valutare con un metro umano un oggetto invalutabile come lo spirito santo. Il campo ideologico dello scontro verteva sul potere di valutare le cose, distinguere ciò che aveva un prezzo e poteva essere venduto, da ciò che non lo aveva e non poteva essere oggetto di scambio. Teologi e giuristi riformatori dichiararono le cose sacre “indisponibili”, fuori mercato perché senza prezzo. Si trattava di una posizione di principio, dovuta alla rivalutazione del potere sacramentale donato in via esclusiva agli uomini di Chiesa. Esisteva anche un dato politico più terreno: la vendita delle cariche, si riferiva in realtà ad una pratica assai diffusa tra le élite politiche dell'Occidente cristiano fin dall'età carolingia: donare beni o denaro alle autorità laiche o ecclesiastiche nel momento in cui si riceveva una carica importante. L'episcopato era una di queste. I vescovi, da famiglie dell'alta aristocrazia del regno, erano principi dell'Impero, condividevano responsabilità di governo con l'apparato degli ufficiali pubblici, avevano funzioni pubbliche. Si conformavano ad un sistema di scambi, allo stesso tempo monetari e simbolici, che alimentava la circolazione di ricchezze all'interno del mondo aristocratico del regno. Pagare per la carica era un ringraziamento per chi l'aveva assegnata e investimento per chi l'aveva comprata: uno scambio accettato, necessario, nella necessità dei potenti del tempo. Nessuna corruzione dei costumi ecclesiastici, nessuna Chiesa in mano ai laici, come si legge nella manualistica tradizionale, perché non esistevano modelli alternativi. La Chiesa episcopale funzionava così, e lo sapevano i vescovi corrotti, che si trovarono sotto accusa per comportamenti giudicati da sempre normali, e lo sapevano i riformatori che provenivano dallo stesso ambiente sociale e dovevano faticare per trasformare una pratica corrente in un delitto intollerabile prima e in un'eresia poi. Per il partito riformatore, criminalizzare la simonia era un passo obbligatorio per riaffermare il valore sacrale della funzione sacerdotale, l'unicità della Chiesa e la necessità storica della sua funzione salvifica. Teologia, diritto e politica convergevano in questa opera di rifondazione delle istituzioni ecclesiali. Il matrimonio del clero. Per buona parte dell'alto medioevo, gli esponenti del clero potevano talvolta avere una moglie. Il matrimonio del clero non era sconosciuto né vietato: dopo aver preso gli ordini non era possibile sposarci, ma se si accedeva al sacerdozio dopo il matrimonio, la situazione del prete sposato era tollerata. A volte (Milano, Roma) le consuetudini locali legittimavano pienamente lo stato matrimoniale del chierico anche negli ordini maggiori, nel pieno rispetto dell'essenza sacramentale del legame che non poteva essere sciolto senza commettere sacrilegio. Molti ecclesiastici rivendicavano la legittimità ed il valore morale del legame matrimoniale, rifiutandosi si scioglierlo solo per obbedire ad un mandato moralistico dei riformatori privo di un fondamento nelle Scritture. Più diffuso era il concubinato, la semplice convivenza con una donna al di fuori del matrimonio. Queste coppie, spesso con figli, potevano assicurare ai propri eredi una carica ecclesiastica senza suscitare scandalo nelle gerarchie. Questa prassi fu presa di mira e censurata dal partito imperiale e riformatore che dipinse a tinte fosche il clero come corrotto e indegno. Gran parte del clero indicato come “corrotto” dai riformatori era altrettanto impegnato nella lotta contro gli abusi locali; apparteneva però al partito avverso ai riformatori e fu per questo accusato. I concili come strumento di controllo dei vescovi. Contro queste pratiche, la reazione del clero imperiale è sempre stata ferma. Sia l'offerta di denaro per ottenere cariche sia la domanda di contributi per amministrare i sacramenti (era d'uso chiedere soldi per celebrare messe, matrimoni, funerali) furono atti condannati in tutte le sinodi provinciali, dal concilio di Pavia del 1046 in avanti. Nel concilio di Reims del 1049, l'iniziativa riformatrice assunse i toni teatrali di un processo pubblico. Alcuni vescovi, chiamati a discolparsi dall'accusa di aver acquisito la propria carica con pratiche simoniache, furono si menzionò esplicitamente l'investitura imperiale: “nessun chierico riceva l'investitura di un episcopato, di un'abbazia e di una chiesa dalle mani dell'imperatore o di un'altra persona laica”. Era un provvedimento che colpiva più i vescovi che l'imperatore, ma era inevitabile che la pretesa di vietare a tutte le autorità laiche di intromettersi nell'elezione dei vescovi doveva finire per coinvolgere anche l'Impero. Gregorio VII rivendicò per la Chiesa di Roma un'onnipotenza senza rivali, una centralità riconosciuta da tutti in virtù del prestigio assoluto dall'ufficio papale. Il Dictatus papae. Documento inserito nel registro di Gregorio VII: lista di 27 testi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. “Solo il papa” poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, dividere ed unire episcopati, spostare i vescovi da una diocesi ad un'altra, usare le insegne imperiali, essere omaggiato dai principi con il bacio del piede e scomunicare e deporre imperatori. A questi poteri sovrani corrispose una superiorità giurisdizionale: nessuno poteva giudicare il papa, modificare le sue decisioni o condannare chi presentava appello alla sua corte. La decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava alla Chiesa di Roma, definita da Gregorio come “esente da imperfezioni”: il papa non errava mai. Di più, la Chiesa di Roma comprendeva tutti i veri cattolici: di non vi faceva parte non era considerato cattolico. Un'identificazione piena e assoluta della Chiesa con il papa e dei fedeli con la Chiesa. L'idea di Christianitas emerge da questo documento come un corpo compatto, sotto la guida del papato. Lo scontro con l'Impero. Il Dictatus è stato studiato per chiedersi come mai il papato di Roma aveva definito in termini così perentori la propria superiorità politica nei confronti degli altri poteri laici ed ecclesiastici del tempo. Si è cercato di ridurre la natura ufficiale del documento a semplice “promemoria”, ma resta l'impressione di un tentativo reale di Gregorio di imprimere alla Chiesa di Roma un crisma istituzionale nuovo, in grado di garantire la preminenza pontificia. Dei vari canoni che compongono il Dictatus, uno sembra essere inserito proprio da Gregorio: il potere di deporre l'imperatore. Il papa poteva già scomunicare un potere laico, ma la deposizione era diverso dalla comminazione di una sanzione spirituale, che scioglieva i sudditi dal dovere di fedeltà al re. Lo si vide bene l'anno seguente quando la questione della nomina dei vescovi scoppiò in tutta la sua violenza. Dopo la deposizione del vescovo di Milano, il simoniaco Goffredo, Gregorio aveva nominato come unico vescovo legittimo Attone. Enrico IV nominò invece il suddiacono Tedaldo, aprendo un contenzioso e di estrema violenza, che coinvolse episcopato dell'Impero e potentati laici del regno italico. Nei due anni seguenti, Gregorio ed Enrico usarono tutti i loro strumenti per delegittimare, scomunicare e deporre il proprio avversario. Ricorsero a concili, elezione di un nuovo sovrano e di un nuovo pontefice, e si nutrirono della medesima retorica salvifica: davanti alla minaccia dell'anticristo, ora sotto le sembianze di re ore del papa, bisognava agire in prima persona. La teoria altomedievale dei due poteri che si dividevano le sfere di governo dell'umanità ne uscì annichilita. Disposizioni incrociate. Pezzo a Pagina 198. La risposta di Enrico fu, sul piano ideologico, più audace: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità. Sulla base di questo rapporto diretto con la divinità, l'imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Enrico IV non aveva solo la forza militare, ma anche il sostegno di una parte rilevante dell'episcopato, che continuava a restargli fedele. Fu in grado di convocare che rinnovarono la deposizione di Gregorio eleggendo un nuovo papa nella figura del vescovo Guiberto. L'arcivescovo di Ravenna. Per dieci anni Guiberto governò come pontefice legittimo agli occhi dei fedeli dell'imperatore. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa (1077) – Enrico chiese perdono e dopo tre giorni Gregorio lo concesse – il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma 1080 Gregorio scomunicò nuovamente l'imperatore, sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano. Enrico scese a Roma insediando Guiberto e facendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio fu salvato dai Normanni, divenuti fedeli del papa, ma abbandonò Roma e morì in esilio a Salerno. Lo scontro sul piano culturale e militare divise le chiese locali in partiti e sottopose anche le popolazioni urbane ad un difficile esercizio di equilibrio tra fazioni contrapposte. Crisi delle autorità. Da questi scontri le due autorità universali uscirono indebolite, almeno sul piano simbolico. Deporre un imperatore, far decadere un papa, si erano rivelate azioni non difficili, e la sovrapposizione dei provvedimenti di scomunica incrociata causò un clima di incertezza e sconcerto presso le masse di fedeli-sudditi. Tra gli effetti reali, emerse il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli esiti della lotta, a condizionare la vita concreta delle chiese furono le scelte prese dai laici in città e diocesi dell'Impero. Si affermò una nuova coscienza nei laici sull'importanza di intervenire sulla natura e la trasmissione del messaggio religioso. Una convinzione che non sempre doveva incontrare l'approvazione della Chiesa cattolica romana. La conclusione della lotta per le investiture. Nel corso di questo decennio di lotte, il tema delle investiture sembrava sommerso da altre urgenze. Ma i papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando il divieto di ricevere investiture di chiese da parte dei laici: tutte le investiture, senza distinzione fra “spirituale” (consacrazione) e “temporale” (terre e immobili). Urbano II impose (1095) il divieto per i chierici di prestare giuramento di fedeltà ad un laico; impedendo qualsiasi subordinazione feudale di un ecclesiastico ad un laico. Nel 1099, Urbano lanciò la scomunica contro i vescovi che avessero concesso gli ordini sacerdotali ad un prete già investito da un laico. Pasquale II e i compromessi falliti. Papa Pasquale II (eletto nel 1099) aveva raggiunto un accordo con i re di Francia e Inghilterra, che rinunciarono a eleggere i vescovi con anello e pastorale, limitandosi alla conferma dell'eletto. Ma in Germania le pretese regie erano più alte. Quando il papa cercò un accordo (1111) con Enrico V, per cui tutti i vescovi del regno dovevano rinunciare ai poteri temporali, furono gli stessi vescovi italiani e tedeschi a protestare contro queste decisioni, tanto più che Enrico V aveva sconfessato il patto con il papa. Pasquale II sospese l'incoronazione dell'imperatore, ma fu arrestato e dopo due mesi, il 13 aprile 1111, capitolò riconoscendo il potere del re di investire con anello e pastorale i vescovi. Una capitolazione che sollevò altre proteste dai romani. Pasquale fu costretto dai vescovi ad annullare questo ultimo privilegio (“pravilegio”) nel concilio lateranense 1112 e a confermare la condanna di Enrico II. L'accordo di Worms (1122). tuttavia il dissidio non poteva essere risolto con un atto di separazione violenta delle sfere spirituale e temporale dell'azione dei vescovi. I due piani dovevano coesistere, tenendo conto sia dell'implicazione politica dei vescovi, inseparabili dalla trama dei poteri laici, sia della natura sacrale del loro potere spirituale, riservato alla Chiesa. A Worms, Enrico V e papa Callisto II (23/09/1122) trovarono un accordo che rispettava queste relazioni tra sacro e profano: al papa spettava l'investitura con anello e pastorale simbolo di potere spirituale e matrimonio mistico del vescovo con la sua chiese; al re l'investitura dei regalia con lo scettro. In Germania le elezioni di vescovi e abati erano fatte alla presenza dell'imperatore, mentre nelle altre parti dell'Impero, es. Italia, veniva prima la consacrazione e dopo sei mesi l'investitura. Un accordo “regionalizzato” che rifletteva uno stato delle cose già in atto. Il controllo papale dell'episcopato locale, almeno in Italia, era salvaguardato. - 3. Pretese universali e definizione istituzionale ella Chiesa Il papato era uscito fortemente indebolito sul piano politico. Durante la lotta per le investiture, numerosi erano stati gli antipapi, più di quelli eletti e riconosciuti dal partito riformatore. I papi ufficiali raramente risiedettero a Roma per tempo lungo: erano spesso in viaggio nelle terre dell'Impero da cui provenivano, e frequentemente erano cacciato da Roma ed in esilio volontario per incapacità di restare nella “loro” città (es. Gregorio VII). Lo scontro con Enrico IV aveva dimostrato che non era difficile deporre un papa, convocando un concilio di vescovi fedeli. La conquista di un episcopato compatto e fedele alla Chiesa di Roma rimase a lungo un miraggio per i papi. Nonostante le debolezze strutturali, era un papato diverso quello che emerse dalle crisi continue. Sdoppiato, conteso, militarizzato e sottoposto al giudizio di vescovi e regnanti, il papa di Roma alla fine del secolo XI era un'istituzione nuova, centro di potere spirituale e politica capace di condizionare i contesti locali e l a politica dei regni europei. Dagli anni Sessanta del secolo XI, il raggio di intervento dei pontefici verso i re europei si era molto disteso, riflesso di un ampliamento senza precedenti delle regioni sottoposte alla religione cristiana: Spagna dei principi “cristiani”, impegnati a combattere il nemico saraceno; paesi del nord, da poco conquistati alla fede e bisognosi di un nuovo inquadramento delle popolazioni (Danimarca e Norvegia); paesi dell'est, in mano ai “pagani” ma lentamente conquistati dalla cristianità da una nobiltà locale convertita e appoggiata dall'Impero tedesco. Pretese universali: l'idea di “cristianità”. Però, il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali. La Chiesa aveva il fine della salvezza delle anime; usava il potere dell'ordine sacramentale consegnato da Dio in via esclusiva al clero; aveva un nuovo esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma; e un nuovo popolo che coincideva con tutti i fedeli abitanti nei regni. Un insieme vasto di fedeli-sudditi sottoposti alla Chiesa di Roma in virtù dell'adesione alla fede cattolica. Su questa visione ideologica di una Christianitas – che coincideva con tutta la società – la Chiesa elaborò un edificio istituzionale e religioso capace di condizionare la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. La crescita della complessità istituzionale della Chiesa andava a passo con la costruzione di un sistema di inquadramento dei fedeli e con la definizione di un'ortodossia dottrinale. Andavano controllate le manifestazioni intellettuali del clero e le espressioni religiose delle popolazioni locali. Cosa era “religione” doveva essere giudicato solo da uomini di Chiesa, perché l'elaborazione del messaggio evangelico era stato affidato alla Chiesa di Roma erede di Pietro. Lo spazio per altre fedi e modi di vivere la scelta religiosa doveva adeguarsi a questi limiti. La Chiesa e il diritto: il Decreto di Graziano. L'intesa produzione normativa della Chiesa di Roma nei decenni della riforma si nutriva di un'ampia e capillare attività dei concili provinciali delle chiese cristiane. Gli stessi temi, come lotta alla simonia, celibato del clero, recupero dei beni sacri, ritornavano nei concili, assumendo ogni volta una forma più precisa. Raccolte di decisioni conciliari e lettere pontificie furono preparate, alla fine del secolo XI, senza contare che il conflitto tra Gregorio VII e l'imperatore aveva favorito la nascita di una letteratura a sostegno delle prerogative dei due poteri. Per mettere ordine su queste materie, Graziano (maestro attivo a Bologna intorno al 1140), mise insieme una raccolta di canoni chiamata Decreto. Si tratta di un'opera alluvionale, che riuniva concili, lettere papali, passi biblici introno alle materie del diritto ecclesiastico affrontate con metodo dialettico: Graziano voleva rendere coerenti passi in parte contraddizione. Il risultato non fu sempre semplice, ma il Decreto rimase per molto tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa (canonisti), che presero il nome di “decretisti” (commentatori del Decreto). Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti in materie ecclesiastiche fu un evento cruciale per la storia della Chiesa, perché sempre più l'organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche fu sottoposta a regole giuridiche: elezioni, sinodi, concili, concessioni di benefici, rapporti con le chiese locali, amministrazione dei sacramenti, liturgia, ruolo del clero parrocchiale, ecc. I canonisti intervenivano su tutto, partendo sempre dal “caso concreto”, analizzato nel suo conteso e specificità. Per i canonisti e per il diritto della Chiesa, non ci sono leggi umani assolute da applicare a tutti, ma casi da risolvere secondo equità, tenendo conto delle circostanze. La decisione finale poteva distaccarsi dal rispetto rigoroso della legge, per affidarsi alla discrezione o arbitro del giudice, che doveva avere “solo Dio davanti agli occhi”, come recitano le formule di rito delle sentenze dei tribunali. Rafforzamento della gerarchia. Un sistema così duttile, che adattava il diritto ai casi singoli elaborando soluzioni diverse, aveva bisogno di alcune linee guida, che indicassero una direzione di sviluppo verso cui indirizzare la Chiesa. Emerse la necessità di rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. I vescovi furono sempre più incardinati alle proprie diocesi: erano i responsabili di clero cittadino e parrocchie di campagna, accentravano funzioni di controllo e giudicavano le cause ecclesiastiche della diocesi. Invece i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso rappresentanti (legati apostolici) incaricati di giudicare i conflitti locali e avocare a Roma la soluzione delle cause in corso. Il potere locale del vescovo ne usciva sottoposto a quello del pontefice in caso di conflitto. La superiorità del papa come giudice: l'inchiesta d'ufficio. L'attribuzione di una facoltà di conoscere e decidere sui casi importanti fu prerogativa rivendicata dai papi di Roma per affermare il loro ruolo di guida suprema della Chiesa. Se i giudici ecclesiastici dovevano seguire la propria discrezione, qualcuno doveva averla maggiore e giudicare su materie più delicate. I casi da decidere (liti sul possesso, conflitti di competenze, accuse penali) furono attribuiti in base alla gerarchia dei gradi interni alla Chiesa: le materie di base erano del clero parrocchiale, altre al vescovo e altre ancora (es. quando era coinvolto lo stesso vescovo), dovevano essere giudicate solo dal papa. Negli ultimi anni del secolo XII si affermò una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero: l'inchiesta d'ufficio (inquisitio ex officio), che divenne strumento utile per imporre la supremazia politica del papa attraverso l'esercizio di un potere giurisdizionale superiore. L'inchiesta partiva dalla “fama”: una voce collettiva su una persona o fatto, suscitata dal comportamento riprovevole di un chierico. Il prete si era macchiato di delitti gravi e molti fedeli ne erano a conoscenza, rimanendone turbati. Per i giudici ecclesiastici, questo delitto “notorio” rischiava di allontanare i fedeli dalla Chiesa, impedendo loro di ricevere i sacramenti: si creava uno “scandalo”, un impedimento alla salvezza. Quando il reato era noto e “le voci non si potevano più dissimulare senza scandalo né tollerare senza pericolo”, l'ecclesiastico doveva essere processato e punito. La novità stava nel far divenire la fama il motore dell'inchiesta, mentre la “difesa della Chiesa” diventava la ragione ultima del processo. Una ragione superiore a quella dei singoli: non si trattava solo di accusare o difendere una persona, ma valutare se e quanto il comportamento di quella persona, una volta conosciuto da tutti, potesse danneggiare la Chiesa nel suo complesso. Con la procedura inquisitoria si potevano controllare tutti i gradi della gerarchia, cosa che avvenne molto sotto papa Innocenzo III (1198-1216), che si distinse per l'alto numero di vescovi rimossi, deposti, trasferiti nel corso del su pontificato. Il papa si imponeva sui vescovi non perché “comandava”, ma perché aveva il potere di giudicare le cause che li riguardavano, scegliendo i rimedi da prendere. Un potere duttile, arbitrario, adattato ai singoli casi, legato alla “sapienza illuminata” detenuta solo dal pontefice. Assetti istituzionali. In questi anni finali del secolo XII si modificò anche la titolatura del papa (“vicario di san Pietro”), iniziando ad usare l'ambizioso titolo “vicario di Cristo”, dove la diretta rappresentanza del divino qualificava in senso sacro la figura del papa. Questo si tradusse anche in una diversa articolazione istituzionale della curia romana: ogni spinta politica si traduceva in un organo disciplinato dal diritto, le decisioni collettive della Chiesa erano prese all'interno del concilio “ecumenico” che riuniva tutti i vescovi del mondo cristiano. Intorno al papa si formò un “sacro collegio” formato dai cardinali. Gli affari del governo erano affidati alla curia, con uffici, tribunali e la Camera apostolica, che gestiva le finanze della Chiesa di Roma, ove vi affluivano le decime da tute le diocesi. Roma e la curia papale divennero nel corso del XII secolo uno degli enti più ricchi e potenti sul piano finanziario di tutto l'Occidente medievale: anche i riformatori volevano una Chiesa potente e “ricca”, perché la sua funzione era quella di redistribuire la ricchezza i poveri. Si definirono anche meglio sul piano giuridico ed istituzionale le presenze ecclesiastiche locali. Sia il clero urbano che le diverse esperienze religiose monastiche andavano definite e sottoposte ad una regola comune. Il controllo del clero locale. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita del clero. I canonici, ovvero i chierici adibiti al servizio della cattedrale furono chiamati negli anni della riforma a condurre una vita di penitenza, rinunce e castità. Come scrisse Niccolò II nel 1059: “li esortiamo a compiere tutti gli sfori in vista di raggiungere la vita degli Apostoli, vale a dire la vita comune”. E proprio questa nelle canoniche fu la risposta a questa nuova tensione organizzativa: dormitorio, tavola e possesso di tutti i beni comune. Nelle varie diocesi europee si iniziò la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino, chiamate Sacramenti e la vita dei fedeli. La rivalutazione della funzione del sacerdote aveva portato con sé una nuova rivalutazione dei sacramenti che finivano per inquadrare in una cornice sacrale l'intera esistenza del fedele. La vita terrena si svolgeva sotto il segno del sacro, un lungo viaggio scandito dai riti religiosi amministrati dalla Chiesa. Il battesimo dei bambini si affermò come rito necessario di entrata del fedele nella comunità di appartenenza. Una soglia che accoglienza tutti i nuovi nati indipendentemente dal loro consenso, lavando il peccato originale che si trasmetteva al concepimento. L'eucarestia acquistò nuova centralità, divenendo perno della liturgia della messa. Negli anni della riforma furono infine condannate le teorie “simboliste”, secondo le quali il rito dell'eucarestia si limitava a ricordare il sacrificio di Cristo. Nei decenni centrali del secolo XII si delineò una dimensione più costruttiva della penitenza, il dolore interiore per un peccato commesso, che doveva essere riconosciuto dal fedele e “confessato” al prete. Solo dopo la confessione e l'assolvimento della pena inflitta dal sacerdote, il peccatore poteva tornare nel gregge dei fedeli. Si aprì la conquista dell'interiorità dei fedeli, che doveva essere scandagliata davanti al prete, medico e giudice dell'anima. La sottomissione dei laici alla pratica della confessione fu uno dei principali strumenti degli uomini di Chiesa per inculcare l'obbedienza nelle coscienze dei fedeli. Il matrimonio, riconosciuto come sacramento negli anni della riforma, sottopose ad un controllo stretto la vita sociale dei fedeli: le loro parentele (non ci si poteva unire fino al settimo quadro di parentela, quarto nel 1215), l'espressione degli affetti personali (il sesso fu considerato sempre peccaminoso se compiuto al di fuori della procreazione) e le strategie di alleanza che non dovevano contrastare con il libero consenso degli sposi. Infine la morte, con i riti dell'estrema unzione e della sepoltura benedetta, interpretata come soglia di entrata in una nuova vita ultraterrena che continuava la vita dell'anima. Nel secolo XII il culto dei morti si rilevò potente strumento di tenuta della società. Con l'invenzione del purgatorio, si aprì un canale diretto di comunicazione fra vivi e morti: le preghiere per i morti aiutavano a mantenere il ricordo delle persone scomparse, e ora le pene erano abbreviabili, grazie ad un capitale di meriti che aiutava l'anima del defunto a superare gli ostacoli delle pene temporanee. La morte e l'aldilà. Lo sviluppo di una “contabilità” dell'aldilà si riflette nelle pratiche testamentarie dei laici: nelle loro ultime volontà, i fedeli pensavano sia agli eredi che alle istituzioni ecclesiastiche che avrebbero assicurato la celebrazione delle messe in suffragio del defunto, aiutando l'ascensione della sua anima verso il paradiso. Prese forma una “economia religiosa” – donazioni per assicurare la sepoltura in luoghi prestigiosi e la celebrazione delle messe, cappelle votive di famiglia dove continuare un culto riservato dei propri antenati, tombe monumentali dentro le chiese – che trasformò i costumi funerari e gli spazi sacri delle città. Le chiese divennero luogo collettivo di culto delle memorie familiari, di intensa mediazione fra il regno dei vivi e quello dei morti, dove preghiera e ricordo univano i due mondi in un unico sistema di salvezza. Il fedele fu inquadrato in una vita duplice e speculare, con un rimando fra ciò che compiva sulla terra e ciò che si sarebbe subito nell'aldilà. Le azioni terrene ora potevano modificare l'entità di pene e ricompense nel regno celeste, attraverso un canale di comunicazione che solo il clero aveva il potere di attivare. Le eresie del secolo XI. Questa pretesa di dominio assoluto degli uomini di Chiesa sulla vita dei laici si scontrò con altre forme di vita religiosa, classificate come eresie nel corso dell'XI e XII secolo. La nascita delle eresie segnò un punto importante nella costruzione della Chiesa come istituzione. Indicando i limiti di dissenso ed eterodossia, la lotta anticlericale definiva ciò che la Chiesa doveva essere: sua funzione storica (guida dei fedeli verso la salvezza), sua natura istituzionale (Chiesa apostolica centrata sul primato romano), suoi poteri (sacramenti concessi da Dio). Le eresie erano idee, dottrine ed comportamenti che, negavano le basi di questa missione divina della Chiesa. Ciò che sappiamo sulle correnti definite ereticali proviene solo da fonti ecclesiastiche: sono opere scritte da vescovi,chierici, inquisitori o ex eretici che si erano convertiti al nuovo credo. Sono testi che hanno il fine di definire qualcosa o qualcuno come eretico, ricostruire come e in cosa alcune persone ed idee sono diventate eretiche. Queste eresie erano ricostruite secondo schemi culturali e fonti dottrinali di chi indagava e scriveva. I termini per definire gli eretici erano diversi: pauperisti, evangelici, manichei, negatori di Cristo; le loro azioni assurde, i loro riti macchiati della magia nera, dal culto del demonio e pratiche sessuali deviate. Per questo è difficile collegare queste dottrine condannate con la realtà religiosa del tempo, che doveva essere più varia e multiforme delle fonti. Di certo, già nei decenni centrali del secolo XI comparvero dei movimenti religiosi di ispirazione pauperistica, che contestavano le strutture ecclesiastiche in nome di un ritorno allo spirito e lettera del vangelo. Nel 1018 in Aquitania furono trovate persone che negavano il battesimo, il valore della croce come simbolo di Cristo, la dottrina della Chiesa e si astenevano dal cibo e praticavano la castità. Nel 1022 alcuni canonici di Orleans professarono idee simili, che li portava a negare battesimo, eucarestia e culto dei santi. Ademaro di Chabannes, che ne riporta le gesta, per definirli usò una parola destinata a lunga fortuna “manichei”, la setta dualista del IV secolo combattuta da Agostino. Altri eretici attivi intorno al 1025 ad Arras, Francia, erano “popolani rozzi£, indottrinati da un italiano (Gandolfo) che predicava abbandono del mondo, castità, carità, lavoro manuale e l'inutilità dei sacramenti: sostenevano che “non c'era nessun altro sacramento nella Chiesa che li potesse condurre alla salvezza”. A Chalons en Champagne, fu scoperto un nucleo di stretto ascetismo: i suoi membri rifiutavano il matrimonio, ogni contatto con la carne, ed erano convinti di trasmettere lo Spirito Santo attraverso l'imposizione delle mani. Questi fenomeni di ascetismo religioso testimoniano l'ampia circolazione dei temi monastici di povertà, rifiuto della carne e ritorno ad un modello di vita evangelico, ma anche la pericolosità di queste ricerche individuali di una purezza originaria, una volta slegate dai riti ufficiali della Chiesa. Colpiva il rifiuto dei sacramenti, accompagnato da una resistenza accanita alle richieste economiche della Chiesa (decime sui raccolti, beni dei laici). Questi movimenti attaccavano la Chiesa in quanto istituzione, la sua funzione di dispensatrice del potere di salvare gli uomini. Le correnti di contestazione nel secolo XII. Le eresie del secolo XII rafforzarono quest'immagine. Numerosi furono i movimenti scoperti e condannati come eretici che rivendicavano la loro natura di “veri cristiani” contro la Chiesa corrotta e potente. Così fecero gli eretici scoperti a Soissons, ricordati da Guiberto di Nogent, che li definì “manichei” anche se non avevano nulla di dualistico (rifiuto del battesimo dei bambini ed eucarestia); il movimento di Pietro di Bruys, impostato su povertà e predicazione itinerante; e quello del suo continuatore Enrico, che aveva guidato un'insurrezione contro il clero della città di Le Mans in Normandia nel 1116, vietando di pagare le decime e confiscando i beni corrotti. Questi posizione furono condannate nel concilio di Pisa (1135): testo a Pagina 212. Eretici divennero tutti quelli che rifiutarono la mediazione della Chiesa, rivendicando un rapporto di retto con Dio e lo Spirito Santo. Si tratta forse di comunità di preghiera formate da laici che leggevano direttamente il vangelo e pretendevano di metterlo in pratica e raggiungere la salvezza. Ma eretici furono definiti soprattutto quelli che rifiutavano di obbedire ai precetti della Chiesa. L'esperienza di Valdo di Lione. Mercante al servizio del vescovo riformatore di Lione. Aveva fondato una comunità di ispirazione pauperistica, ove predicava e leggeva il vangelo tradotto in volgare. Cercò e ottenne l'approvazione del papa inizialmente: nel concilio Laterano 1179, Alessandro III approvò il suo voto di povertà assoluta, ma gli impose di non predicare il vangelo. Valdo si rifiutò di obbedire e fu così scomunicato come eretico nel 1184. si trattava di una “eresia dell'obbedienza”, dove il vero reato consisteva nel disobbedire ad un ordine di Roma. Non si colpiva un'antichiesa, ma la volontà di vivere e diffondere il messaggio religioso come forma di salvezza a disposizione dei fedeli, in una pericolosa autonomia alla Chiesa cattolica. Il catarismo. Sette scoperte prima in Germania (ca 1140), poi in Francia meridionale e Italia, alle quali si attribuiva una dottrina non cristiana: un dualismo di fondo, che riconosceva due principi, il bene ed il male come coesistenti ed in conflitto continuo tra loro. Il dualismo cataro, sulle orme del manicheismo antico, intendeva la vita terrena come una forma di purificazione continua dalla materialità del corpo fino all'autoconsunzione e il suicidio assistito. Ai catari si attribuisce una natura istituzionale di vera antichiesa. In alcune fonti si ricorda l0esistenza di chiese catare locali, organizzate sul modello cattolico, con vescovi e preti divisi per diocesi e un “papa” venuto dall'Oriente a coordinare le nuove chiese dell'Europa occidentale. La diffusione del credo cataro sembra essere stata intensa nei ceti urbani, tra artigiani e lavoratori che contestavano apertamente al Chiesa cattolica. Le fonti inquisitoriali parlano di migliaia di fedeli in Italia, intere città conquistate dall'eresia in Francia. Un'adesione massiccia che non trova riscontri al di fuori degli scritti degli stessi inquisitori. I dubbi sono numerosi: le prime attestazione del dualismo nel XII sono state condizionate da una ripresa delle parole di Agostino relative ai manichei: i nomi dei “vescovi catari” sono inventati o distorti, e non corrispondono ad alcun personaggio reale. Non è mai stato trovato un solo testo dottrinale riconducibile ad un gruppo cataro. L'unico testo di probabile provenienza ereticale è una trascrizione del vangelo di Giovanni, che non ha nulla di dualistico. La repressione. Fu violenta e colpì migliaia di persone classificate come eretiche. La legislazione anticlericale fu inasprita, con la messa in opera di un sistema di controllo e punizione che coinvolse direttamente i laici. Es. la decretale di Lucio III Ad abolendam, preparata insieme all'imperatore Federico Barbarossa nel 1184. si colpirono tutte le eresie, senza distinzioni: catari, patarini, poveri di Lione, ecc. non sono menzionate idee ma gruppi formalizzati di eretici. In secondo luogo, il vero reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizione. L'eresia è in primo luogo disobbedienza: testo a Pagina 213. Contro queste persone non erano necessarie prove certo: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. La ricerca dei sospetti era affidata al vescovo che doveva indagare nelle parrocchie, una o due volte l'anno, per scoprire i possibili eretici: testo a Pagina 214. Nel passo si legge che il dovere di denunciare i sospetti ricadeva su alcune persone degne della parrocchia, informatori del luogo, che dovevano portare all'attenzione del vescovo gli eretici noti, le persone che si riunivano in segreto e coloro che tenevano in comportamento diverso dal normale. Sotto la categoria eresia veniva quindi ricompresa qualsiasi forma di non conformismo religioso, lasciando ampio spazio all'arbitrio dei denunciatori di decidere. Le autorità laiche (re, baroni, conti e città) erano incaricate dell'esecuzione materiale delle sentenze, rispondendo alla chiamata del vescovo e punendo i colpevoli. I meccanismi di autocontrollo dei parrocchiani individuavano e denunciavano i sospetti, giudicati dai vescovi e puniti dai laici, loro compito fondamentale. In un'altra bolla papale, la Vergentis in senium (1199), l'eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà che, nel diritto imperiale romano, era unti con la morte. L'eretico doveva essere scomunicato, isolato, privati dei beni e della possibilità di fare testamento: una morte civile che rendeva la “morte un sollievo e la vita un supplizio”. L'eresia segnò la linea di confine fra il gregge dei fedeli e i “lupi” rapaci che li minacciavano. La fantasia linguistica dei giudici ecclesiastici produsse moltissime metafore sulla presenza pericolosa degli eretici e sull'opera salvifica degli uomini di Chiesa. Prevalse l'immagine medica, dove il sacerdote, medico dell'anima, copre la malattia, il “cancro” dell'eresia e opera con decisione per salvare il copro: deve tagliare la parte malata, “eradicare”, “estirpare”, “evellere” il cancro. I verbi non sono casuali, il senso di taglio netto, si impose come una necessità di salvezza per la comunità. Già Agostino, alle prese con i manichei, aveva ammesso con dolore che, in caso di necessità, l'eretico andava eliminato per mano dello Stato. La Chiesa dei secoli XI e XII fece la medesima scelta: l'eretico andava “sterminato” da parte dell'autorità pubblica. Si doveva legittimare la violenza giusta e disciplinare gli uomini armati che monopolizzavano l'arte della guerra. -
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