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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 2, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 2 – La guerra, la Chiesa, la cavalleria

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 2 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 2 – La guerra, la Chiesa, la cavalleria (Pag. 215-230) Dalla fine del secolo X l'assenza di una forte autorità centrale era stata avvertita dagli ecclesiastici come un pericoloso vuoto di potere, elemento di disordine che liberava una violenza senza limiti, che colpiva le fasce deboli della società (poveri, contadini, inermi, uomini di Chiesa), indifesi dalle scorrerie di un ceto militare privo di inquadramento stabile in un esercito regio. Era legato al venir meno di un re “difensore della Chiesa”, capace di salvaguardare gli interessi della Chiesa e la rapacità degli uomini armati. Tra X e XI secolo alcuni vescovi tentarono di frenare questa violenza, incanalandola verso un uso della forza sottoposto al controllo etico degli uomini di Chiesa e politico delle autorità laiche. Se esisteva una violenza giusta che difendeva lo stato di pace, poteva esistere una “guerra giusta” per difendere la fede. Nel corso della seconda metà del secolo XI si assiste ad un processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Sulla spinta di questa sacralizzazione della violenza, il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi santi subì, alla fine del secolo XI, una torsione bellica: quattro armate franco-normanne-tedesche partirono per combattere. Il pellegrinaggio diventò guerra santa. Nacquero nuovi Stati “cristiani” nell'Oriente musulmano e forme di unione di vita religiosa e militare: gli ordini monastici cavallereschi, esperimento della cultura ecclesiastica di creare un modello di cavaliere che combattesse per la salvezza della Chiesa. Tentativo riuscito sul piano della rappresentazione ideologica del ceto militare, ma poco efficace su quello del disciplinamento delle clientele militari, poco disposte a sottomettersi a Dio. Gli elementi che facilitavano l'autonomia degli uomini armati: indebolimento della fedeltà, attenuazione del servizio militare a favore del signore, disponibilità dei benefici ricevuti che potevano essere venduti. A queste forme di dispersione, lo strato del ceto militare con maggiore disponibilità di beni e uomini fedeli, rispose con una rinnovata concezione dei doveri impliciti nel legami di vassallaggio: aumentarono le occasioni di sequestro del bene concesso (ora “feudo) in caso di disobbedienza, fu imposta ai vassalli fedeltà esclusiva e impegno a non attaccare il proprio signore. Anche la diffusione di modelli letterali di cavalieri ideali contribuì a rafforzare l'idea di una comune appartenenza ad un ceto eletto, dedito alla guerra e geloso del proprio “onore”. Tuttavia, il mondo composito dei militari non si chiuse ad una classe nobile esclusiva. Rimase un gruppo mobile, contraddistinto dall'uso delle armi, ma differenziato al suo interno da livelli di ricchezza e potenza distanti. La differenza non era fra nobili e non, ma fra signori potenti e signori meno potenti. - 1. Il controllo della violenza e le paci di Dio La violenza come segno della crisi. Nelle cronache dei secoli X e XI, il tema della violenza smodata di una milizia senza regole è prepotente. Massacri, torture, martirii di uomini religiosi disposti a morire per difendere le cose sacre delle loro chiese: sono messi sotto accusa barbari di nord ed est (Vichinghi, Ungari) e anche i “mali cristiani”, che usurpavano terre, uccidevano i contadini dei monasteri e rapinavano le chiese che dovevano proteggere. Dietro queste narrazioni si cela un'esigenza di ordine, tuttavia diverso da quello carolingio, che pure rappresentava un modello quasi mitico di convivenza pacifica di una società. Questo nuovo, era un ordine localizzato, limitato a spazi regionali più facilmente controllabili. Come gli attori sociali, erano più vicini e concreti, identificabili in personaggi reali (conte, avvocato, castellano, cavaliere), anche l'azione di pacificazione, indipendente dall'intervento regio, aveva connotati più concreti, lontani dall'universalismo carolingio. Le paci di Dio (prime ad Aquitania, fine X secolo) e la protezione dei beni della Chiesa. Le “paci” o “tregue”, come furono chiamate nella seconda ondata di concili del secolo XI, erano riunioni di vescovi che disponevano la sospensione delle violenze in nome di Dio. Si faceva divieto di portare armi, attaccare battaglia, molestare i poveri, invadere le chiese. In queste assemblee miste di laici ed ecclesiastici si ordinava la sospensione dell'attività bellica in momenti e spazi determinati: es. nei giorni del signore, nei periodi festivi, nei pressi delle chiese. Erano spazi e luoghi sacri che salvaguardavano beni e persone ecclesiastiche e disciplinavano l'attività armata da esercitare in ambiti determinati: es. era lecito combattere una guerra giusta, sotto il comando di un'autorità legittima, e anche la violenza armata come atto di giustizia, per reprimere i criminali. Sono sfumature che hanno spinto gli storici a modificare l'interpretazione delle paci di Dio: non più generica condanna della violenza, ma difesa dei beni delle chiese dalle “rapine” di aristocratici ribelli. Una difesa che, senza un re, era presa in carico da autorità laiche fedeli all'episcopato (es. duca di Aquitania). Nei concili si affermava la presenza di un'autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia, rispettare la pace e, in caso, usare una violenza lecita per difendere le chiese. - 2. La sacralizzazione della guerra e le prime crociate Questa violenza militare regolata aprì la strada ad un processo di inserimento della guerra nella vira religiosa, di definizione di una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede e strumento di espansione della religiosità cattolica. Un processo di rivalutazione che coinvolse anche la figura del cavaliere e le funzioni del ceto armato che si poneva come gruppo dominante nell'Europa medievale. Guerre sante. Insieme alla riforma della Chiesa si sviluppò, nei decenni successivi al 1050, un'attività bellica per conquistare le regioni periferiche dell'Europa in mano agli infedeli: tutte le forze locali che si opponevano alla Chiesa di Roma. I papi riformatori sostennero queste guerre, concedendo ai cavalieri che vi combattevano privilegi spirituali e uno statuto di “combattente di Cristo”. Sotto Leone IX, bande di “cavalieri (milites) della chiesa di San Pietro” furono radunate in difesa dei beni del papato di Roma contro i Normanni, che le sconfissero a Civitate (1053): essi ottennero comunque la qualifica di “soldati di Cristo” e la palma del martirio. Nel 1063, papa Alessandro II concesse una bolla di remissione dei peccati a chi partiva a combattere in Spagna i musulmani, dopo l'assassinio di Ramiro I d'Aragona. Sempre contro i Normanni, Gregorio VII schierò una “milizia di San Pietro” (1074), ma furono gli stessi Normanni, tornati alleati del papa, a riconoscersi come fedeli vassalli pontifici usando la qualifica di milites sancti Petri. Fedeli e vassalli, questi laici incaricati di difendere la fede e san Pietro furono inviati a guidare l'espansione delle armate cristiane nelle terre in mano agli infedeli. Appelli di guerra. Gli appelli alle spedizioni militari si fecero numerosi sotto Gregorio VII. In una lettera del 1073 invitò di nuovo i principi cristiani a liberare il regno di Spagna, restituendolo alla Chiesa che lo aveva “in proprietà”. Incitò il vescovo di Cartagine a resistere contro i Saraceni. A più riprese invitò i milites “in servizio di San Pietro” a soccorrere i cristiani di Costantinopoli, la cui difesa fu equiparata ad un atto di compassione a imitazione della carità di Cristo verso gli uomini. In una lettera a Enrico IV, Gregorio pensò di guidare lui stesso una spedizione a Gerusalemme di 50000 cristiani “ispirati da Dio sotto la guida dello stesso pontefice”. Non si tratta di un'anticipazione della crociata, ma della maturazione di un linguaggio della guerra che diventa “santa” nella misura in cui obbediva ad un imperativo religioso di difesa stabilito dal papa. Nel 1089 Urbano II concesse indulgeva e vita eterna per la conquista di Tarragona, promesso da Raimondo II di Catalogna. Una Chiesa per molti nemici. Combattere contro eretici, scismatici, infedeli e nemici di San Pietro assunse una nuova dimensione religiosa: la qualifica di “soldati di Cristo” venne concessa a molti principi laici che si impegnavano in conflitti religiosi: es principe di Danimarca (1075); estesa ai patarini che combattevano a Milano il clero simoniaco, tanto che il cavaliere Erlembaldo, loro guida, era impegnato in una “guerra di Dio”. Tutti questi soldati meritavano una ricompensa nel regno dei cielo: ai morti in battagliai in difesa della Chiesa fu assicurato l'ingresso in paradiso, di cui il loro vero signore, San Pietro, possedeva le chiavi. Sotto questa diversità di nemici si coglie una capacità di assimilare cose diverse in una semplice contrapposizione: gli interessi della Chiesa di Roma e Dio, identificazione che rende il papato espressione di una volontà divina; e la serie infinita di nemici, manifestazioni di un'unica presenza diabolica che minacciava continuamente la fede. - 3. Le spedizioni in Terrasanta Per la ricerca di una perfezione nell'esercizio della violenza, la Chiesa predispose altri strumenti di inquadramento culturale, a cominciare dalla concessione di indulgenze e la remissione dei peccati per i morti nelle guerre di liberazione. Se la morte era una forma di penitenza, meritava una ricompensa spirituale. Il modello era già attivo nelle lettere indirizzate ai cavalieri che combattevano contro i Mori in Spagna, ma fu ripreso da Urbano II nel 1095 per i pellegrini che partivano per la Terrasanta. Pellegrinaggi e penitenza. I pellegrinaggi ebbero uno straordinario successo nel secolo XI. Le folle di pellegrini in movimento erano spinte da motivazioni diverse: ricerca di una vicinanza con i luoghi santi; possibilità di toccare tomba e corpi dei santi (dotati di poteri taumaturgici); viaggio come forma di penitenza, ricerca di pericolo, solitudine per misurare la propria fede; penitenza come strumento di salvezza. Reliquie e luoghi santi. Un ricchissimo mercato di reliquie attivava una serie di circuiti locali di chiese e monasteri che conservavano i resti dei santi: ossa, braccia, dita, corpi, teste conservate in reliquiari, insieme spine, chiodi, veli, frammenti della croce. Si scatenò una competizione internazionale per accaparrarsi le reliquie più importanti, che conferivano prestigio politico. Gli stessi principi laici parteciparono alla ricerca degli oggetti sacri, essendone talvolta anche propiziatori. Possesso delle reliquie, difesa di luoghi e vie di pellegrinaggio, furono strumenti di legittimazione per un'aristocrazia militare in cerca di un sistema ordinato di preminenze locali. Gerusalemme. Emersero poli di attrazione religiosa che più di altri indirizzarono i cammini penitenziali: san Giacomo di Compostela in Spagna, che i cavalieri francesi si impegnarono a difendere dalle incursioni dei mori tra il 1060 ed il 1080. Ma la via per Gerusalemme interessò maggiormente insiemi diversi di fedeli: dai semplici pellegrini ai grandi aristocratici dei regni europei. Principi, duchi, conti e re si recarono a Gerusalemme in pellegrinaggio, guidando masse di fedeli sotto la loro protezione. Il viaggio era pericoloso, l'ostilità di gruppi musulmani impediva di arrivare a destinazione: il ricorso (benedetto dalla Chiesa) alla protezione armata di soldati era diffuso. Urbano II ed il concilio di Clermont (1095). Vi lancio l'appello al pellegrinaggio a Gerusalemme, che entusiasmò i presenti, ma non li stupì. Il concilio aveva affrontato questioni riguardanti il mondo ecclesiastico e laico. Era tornato sul tema della violenza, sull'inutilità e la pericolosità della guerra tra cristiani, incitandoli a combattere i nemici della fede. Il cronista che ricorda l concilio, Fulcherio di Chartres, riporta le parole del papa: a Pagina 220. Il papa offriva l'indulgenza plenaria a tutti i pellegrini intenzionati a partire. Fu il primo atto ufficiale di quelle che, secoli dopo, furono chiamate le “crociate”. Dal pellegrinaggio alla guerra. La stratificazione di ideologie religiose e politiche relative alle crociate ha creato contemporaneamente. Non erano rari i casi di vassalli fedeli ad una pluralità di “signori”, ed esigere l'aiuto militare era difficile. A complicare il quadro delle relazioni, vi erano le “riserve” di fedeltà, le eccezioni all'aiuto militare da prestare al signore: il vassallo non avrebbe combattuto contro alcuni personaggi con cui aveva precedenti legami di fedeltà. Se contiamo che l'aiuto militare durava in genere 40 giorni, condurre una guerra e radunare i fedeli equivaleva a mettere insieme pezzi difficili: bisognava vedere quali erano i vassalli “veri”, escludere quelli avevano riserve di fedeltà vero il nemico, calcolare i tempi di impiego di ogni cavaliere e far esaurire il conflitto in poco tempo Benefici ereditari. Anche il modo di intendere il beneficio era cambiato. Nonostante i riti di investiture si fossero arricchiti di immagini e segni di sottomissione, il beneficio era sentito dai vassalli come un bene proprio, trasmissibile in eredità. Era così di regola nel secolo XI, anche senza l'assenso del signore. Questa stabilità dei benefici era stata stabilità dall'imperatore Corrado II, che per sedare la ribellione dei vassalli minori di Milano, emanò nel 1037 un editto in cui si rafforzava il ruolo di giudice dell'imperatore e si stabiliva il divieto di sequestrare i benefici dei vassalli senza giusta colpa e la possibilità di trasferire in beneficio in eredità per via maschile. Era una norma pensata come protezione dei vassalli minori, ma coinvolgeva anche i vassalli regi. Alienazione dei feudi. Col tempo si diffuse la tendenza ad alienare i benefici con una vendita o una sotto- infeudazione che sottraeva al signore la scelta del nuovo concessionario. Si arrivava a una rottura del legami di fiducia tra vassallo e signore. Eppure la pratica di alienare o acquisire feudi con denaro si diffuse ovunque e interessava feudi minori e maggiori: anche l'alta aristocrazia si comportava come “proprietaria” dei feudi ricevuti dal re. Un secolo dopo l'editto dei benefici, nel 1136, l'imperatore Lotario III lamentava le conseguenze della prassi, ampiamente diffusa, di pensare il feudo come una cosa propria. Testo a Pagina 225. Concessioni senza servizio e feudo come patrimonio. Ne usciva compromessa l'efficacia dell'esercito regio, ma il problema riguardava anche gli eserciti dei grandi, che non riuscivano più a ottenere il servizio dovuto in base al feudo concesso. In alcune regioni dell'Impero (es. Italia), il legami tra servizio e feudo era scisso del tutto: nei contratti del primo secolo XII non si faceva più cenno ad un servitium. Il feudo era concesso come atto di benevolenza del senior, dopo un giuramento di fedeltà del vassallo che conservava un'amplissima disponibilità del bene, trasmissibile in eredità. I giuristi milanesi del secolo XII classificarono il feudo tra i diritti “reali”, vale a dire relativi alle cose (res), attribuendo al vassallo un diritto quasi uguale a quello del proprietario. Questo conservava certo un dominio “eminente” sul bene (diritto astratto) ma la disponibilità materiale del bene era ormai nelle mani del vassallo. Tenuta e proprietà: modelli fluidi di possesso. Si tratta di categorie giuridiche che cercavano di definire una realtà in movimento dove i comportamenti delle persone avevano creato nuove regole che sfuggivano alle tradizionali categorie di bene “in concessione” o “in allodio” (piena proprietà). La cultura giuridica non poteva che prendere atto della raggiunta autonomia del vassallo e della natura prevalentemente patrimoniale del feudo. Strumenti di connessione feudale. Per contrastare dispersione delle fedeltà e ereditarietà dei benefici si usarono gli strumento dello stesso diritto feudale, che era stato piegato dalla forza del radicamento locale di tutti gli strati che componevano il ceto armato. Furono sperimentate regole di protezione dei diritti del signore, come la commise, il sequestro del feudo in caso di disobbedienza, che permetteva di intervenire in maniera coercitiva contro i vassalli infedeli, ma che provocava conflitti armati. Ricorrere alla commise richiedeva una capacità militare in grado di piegare le resistenze del vassallo ed un prestigio riconosciuto dagli altri vassalli della curia che dovevano giudicare un loro compagno infedele. Feudo ligio: fedeli di un solo signore. Più diffuso era il ricorso al feudo “ligio”, una fedeltà privilegiata che si doveva ad un signore in particolare. Era un tentativo di gerarchizzare la fedeltà, ed in alcuni casi funzionò come collante di una schiera più prossima di vassalli. Funzionò una clausola di riserva “negativa”, giurata dal vassallo di non combattere contro il proprio signore, utile per inquadrare i vassalli entro una rete di fedeltà garantite verso un signore. Anche alla base dei rapporti feudali restava ancora la natura contrattuale e reciproca del patto. Anche in caso di concessioni di terreni “in feudo”, la natura del feudo era legata più al modo di intendere la relazione fra i due contraenti che al carattere giuridicamente definito del feudo. Il senior che concedeva il bene pretendeva una fedeltà militare da parte del vassallo, ma nei fatti non esistevano regole rigide da seguire in ogni situazione. Una giustizia contrattata. Le pratiche negoziali, fatte di minacce e compensazioni, violenze e atti di conciliazione, dominarono il medioevo centrale in tutta Europa. Non ci si poteva sottrarre a questa tessitura di compromessi locali che tendevano ad una spartizione regolata dei diritti sulle zone contese. La giustizia dei secolo XI e XII ricopriva la funzione di “redistribuzione controllata”, dove i giudici, sostituiti dai vassalli dei signori superiori, garantivano l'applicazione del nuovo patto raggiunto nel corso del processo e mostrare a tutti, soprattutto al perdente, la forza di persuasione del signore giudicante. Ma la sentenza raramente assegnava il bene interamente a uno dei litiganti, operando ad una compensazione fra le due parti: nessuno doveva vincere o perdere troppo, perché era sempre meglio ottenere l'approvazione del perdente al giudizio espresso nel processo. I sistemi di inquadramento delle fedeltà militari rientravano nel più ampio problema di ordinare le relazioni sociali e le solidarietà di gruppo in una rete di alleanze stabili. Una rete “orizzontale”, in cui i signori ordinavano i propri alleati secondo rapporti individuali contrattati caso per caso. Non si arrivò mai a costruire uno schema “piramidale” di fedeltà che dal basse sale verso l'alto fino al re. Questa fu un'immagine tarda ed inventata, che si diffuse nei secoli finali del medioevo per dare spessore al tentativo dei re di imporre un ordine da sempre esistito: nulla di più lontano dalla realtà del secolo XII. - 5. L'ideale cavalleresco e la socialità di corte Che l'attività guerresca andasse regolata era una convinzione sia delle élite ecclesiastiche che laiche, che dovevano controllare queste masnade militari irruente. L'invenzione letteraria di un'etica cavalleresca poteva servire. I romanzi cavallereschi. Diffusissimi nel secolo XII, propagandarono un'immagine idealizzata del cavaliere, che si sceglieva nemici più forti, violatori delle chiese e persecutori dei deboli. Il cavaliere li cercava ed affrontava come prove di un percorso di ricerca della propria identità. Questi racconti narrano un viaggio, una peregrinazione in terre sconosciute, attraversamenti di lande desolate o foreste fittissime, paesaggi della paura che il protagonista doveva affrontare per raggiungere il nuovo status di cavaliere. Era uno status che aveva riti di entrata e modelli di comportamento codificati nel corso del secolo XII. In particolare il “addobbamento”, il rito di entrata nella cavalleria, esaltato come un momento di passaggio e trasformazione del cadetto in cavaliere, del ragazzo in uomo. Tuttavia non bisogna idealizzare il cavaliere come figura autonoma della società medievale, né esagerare il carattere religioso dei riti di entrata nel mondo cavalleresco. La regolamentazione della violenza rispondeva agli obblighi, reali di una élite militare inquadrata in reti di alleanze relativamente mobili. Vestizione e autonomia del cavaliere. Nel rituale di addobbamento, prevaleva un aspetto politico molto concreto: l'entrata nel mondo degli adulti di un giovane erede, la sua capacità di difendere con le armi i diritti su un possesso. Si trattava di un rituale giuridico e sociale, che metteva in moto meccanismi a catena: ricevere le armi segnava la sua legittimità come erede e questo nuovo status provocava la reazione negativa dei parenti prossimi che potevano condividere quote di quel bene o di signori vicini che avanzavano pretese su esso. Le zone ambigue alimentavano una lunga serie di guerre di successione, che a loro volta generavano uno stato di conflitto regionale, da tenere sotto controllo o inquadrare in una rete chiara di alleanze e protezioni. Durante l'addobbamento, intervenivano spesso i principi locali. La parata dei cavalieri che assistevano al rito pubblico serviva ad indicare l'entrata del giovane cavaliere in una rete di alleati potenti che facevano a capo ad un principe. E ne serviva uno “addobbatore” per legare il giovane armato a sé, mostrando la capacità di difendere con le armi il proprio onore, parola con significato patrimoniale: honor è la terra, il patrimonio (disonorato=diseredato). L'addobbamento era un primo passo, ma poi seguivano l'esaltazione del valore personale e della forza da sfogare in momenti ludici, come i tornei; e una maggiore solidarietà tra fedeli dello stesso signore da rafforzare in rituali. Società rituale: i tornei. L'invenzione di un'etica del cavaliere poteva servire ad indicare un modello di comportamento, ma le guerre feudali nulla avevano di eroico. Si basavano sull'assedio di un castello e sul saccheggio dei territori circostanti; una pratica distante dal mito della difesa dei deboli, atti distruttivi e mortali. Forse come rimedio parziale a questi elementi negativi, si svilupparono forme embrionali di combattimenti ristretti ai pochi campioni. Sconti limitati e sottoposti a regole condivise, ricordati nelle cronache del secolo XI e XII, quando sfumarono in una rappresentazione ritualizzata della battaglia da giocare in occasioni pubbliche: il torneo, che si prestava a molteplici funzioni. Piano simbolico: consentiva di mostrare il valore individuale come uomo d'armi in un combattimento singolo; sociale: punto d'incontro dei cavalieri di livello diverso in un rito che aumentava la socialità interna; politico: serviva al signore per affermare la sua capacità di coordinare le forze militari del proprio territorio. La cavalleria come ordine? Alcuni vedono nell'emersione di un ordine militare l'affermazione di un ceto nuovo, formato da guerrieri di umile origine innalzati socialmente dalla valorizzazione dell'attività militare; altri sminuiscono gli elementi di rottura, per far risaltare le continuità della preminenza del ceto militare già dall'età carolingia. Le differenze regionali erano notevoli e disegnavano scenari sociali diversi. Anche il linguaggio delle fonti è ambiguo e definisce ruoli e persone con termini diversi a seconda delle situazioni. Sul piano militare milites indica un combattente a cavallo, contrapposto ai pedites (fanteria a piedi) e ai rustici (contadini). Identifica un ceto superiore. Al suo interno il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale variegato. Lo strato superiore era composto dai grandi aristocratici discendenti dall'élite carolingia che aveva fondato sul servizio armato del re la base della loro ascesa sociale e prestigio politico. Già nel secolo X cavalieri e “nobili” coincidevano in alcuni contesti regionali, dove la parola nobilis indicava una generica ma ben visibile preminenza sociale. Lo strato inferiore era dei vassalli minori, custodi di castello, giovani scudieri. Era un ceto multiforme, i grado di rivestire più funzioni oltre quella militare: amministratori, funzionari di signori potenti. Era un gruppo mobile ed instabile, pronto a rivendicare i diritti sui benefici ricevuti e ricercare maggiore libertà d'azione. Andava stabilizzato, reso fedele ai signori che pretendevano di coordinate le forze militari locali e regionali. Ascese individuali. Forme di inclusioni erano presenti e la comune appartenenza a un gruppo professionale di guerrieri giocava un ruolo importante, anche sul piano simbolico, senza cancellare le differenze di ricchezze tra i singoli individui. In alcune regioni (es. tedesche), al servizio armato aderivano anche i ministeriali, uomini armati di condizione quasi servile, agli ordini di una nobiltà militare impenetrabili da questi soggetti minori. Difficile dire se l'addobbamento ed il titolo di cavaliere fossero sufficienti a garantire l'ingresso nell'aristocrazia di un ceto basso. Che esistessero casi di ascese eccezionali non vi erano dubbi, ma sono lente e costruite grazie ad un'attenta scelta dei signori più disposti a cedere benefici. È invece da escludere che l'addobbamento fosse una soglia di ingresso della nobiltà già nel XII secolo. Le condizioni sociali non cambiano con un rito, semmai il rito segna la fine di un percorso individuale di promozione coronato dal successo. Indipendentemente dalla comune identità corporativa dei combattenti a cavallo, “cavalleria” e “nobiltà”, almeno fino alla metà del secolo XIII, non coincidono. Se la gran parte dei nobili faceva parte della cavalleria, non tutti i cavalieri erano nobili. Soprattutto, prima che nobili, i cavalieri erano, o dovevano diventare, anche “signori”. La signoria era il quadro di affermazione del ceto militare. Il medioevo, ormai è opinione consolidata, fu molto più signorile che feudale. -
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