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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 5, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 5 – I regni ed i sistemi politici europei fra XI e XIII secolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 5 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 5 – I regni ed i sistemi politici europei fra XI e XIII secolo (Pag. 261-294) Il reticolo di poteri dell'Europa nei secoli centrali del medioevo sembra lasciare poco spazio ai tentavi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governo di un re: signorie di castello autonome, un ceto militare in cerca di una faticosa sistemazione in reti stabili di alleanze, principati regionali in conflitto e gelosi della propria autonomia, città in crescita come centri economici in grado di influenzare gli assetti regionali. I re esistevano, ma fino al secolo XII il loro potere aveva precisi limiti: controllavano un territorio ristretto, contrattavano le principali azioni di governo con i grandi parentati locali, provenivano da dinastie poco legittimate che faticavano ad imporre i propri candidati alla successione al trono. La storiografia tra Otto e Novecento ha peccato di anacronismo, proiettando sui poteri monarchici deboli del secolo XII un disegno di costruzione di uno “Stato” nel senso moderno del termine. I compiti delle monarchie tra l'XI e il XIII erano invece elementari: bisognava affermare prima un “diritto a esistere” come entità politiche superiori, e quindi sforzarsi di recuperare un coordinamento dei poteri sparsi in mani diverse e contesi da principi regionali abituati a governare in piena autonomia i propri territori. Gli strumenti variarono molto, ma furono ovunque improntati al più spregiudicato opportunismo politico, a un'empirica capacità di adattarsi alle realtà circostanti e di superare i vincoli posti dai rapporti di forza esistenti. Fu la chiave del successo dei re, almeno di quelli che riuscirono a presentare il proprio dominio come un “regno” in maniera sufficientemente credibile. Seguiremo i casi più importanti per mostrare forme e tempi di questo processo di costruzione di un'istituzione di raccordo superiore: - L'Inghilterra normanna da Guglielmo il Conquistatore a Giovanni Senzaterra (1216). - La Francia fino a Filippo Augusto. - La Spagna dei regni lanciati verso la riconquista dei territori sotto il dominio musulmano. - La Germania imperiale, che intrecciò le sue vicende con il regno di Sicilia fondato dai Normanni e passato sotto il controllo di Federico II, anche imperatore e dunque re di Italia e Germania. - 1. Limiti dei regni nei secoli XI e XII All'affacciarsi del secolo XII, i poteri di tipo monarchico che si erano affermati dopo la dissoluzione del regno carolingio mostravano delle debolezze strutturali che si traducevano in vincoli e limiti alle capacità d'azione dei re. Dinastie deboli. Le dinastie regnanti si fondavano ancora sul terreno delle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche del continente europeo: un sistema di dominanti sovralocati, costruiti sull'unione temporanea di titoli principeschi diversi nella stessa persona. Si poteva diventare re di regioni lontane sposando l'erede di quel principato, unendo eredità diverse od imponendo un proprio discendente su un trono vacante: una trama che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra le famiglie. Quadri territoriali mobili. Pensiamo alla Francia: il suo assetto mutò quando il ducato di Aquitania fu unito alla contea di Angiò e alla Normandia per matrimonio, e quindi all'Inghilterra sotto il dominio di Enrico II della dinastia Plantageneta. Prese vita una configurazione politica sovraregionale che sovrastò a lungo il re di Francia, per eclissarsi nel 1204. la Germania subì ritagli diversi dei ducati storici, ricomposti ogni volta che una ribellione permetteva all'imperatore di dividere un ducato in più parti. Il regno dei Normanni nel sud Italia è un altro esempio macroscopico di unione e divisione dei territori: dopo l'invasione sparsa dei primi cavalieri, Ruggero II (1130) unì Sicilia, Puglia e Calabria in un solo regno, ma alla fine del secolo XII passò per via matrimoniale all'imperatore svevo Enrico VI, che lo trasmise al figlio Federico II in eredità: nel 1197 Federico si trovò ad essere re di Sicilia e candidato dell'Impero, un'unione che la Chiesa di Roma aveva sempre cercato di evitare. Regni come principati. È difficile tracciare una chiara geografia dei regni tra i secoli XI e XII, fatto salvo il caso inglese: le regioni comprese in un dato regno cambiavano velocemente e, sul piano politico, i regni non si distinguevano chiaramente dai tanti principati vicini. Il regno di Francia era limitato alla regione intorno a Parigi; gli si opponevano le contee di Blois e Champagne, i ducati di Normandia e Borgogna,i principati meridionali di Aquitania e le contee di Tolosa e Provenza non si sentivano affatto legate al re. In Spagna, i regni di Navarra, Castiglia, Aragona e la contea di Catalogna erano entità regionali. In Germania, l'Impero univa formalmente i ducati nazionali, ma aveva poca influenza su di essi, al di fuori delle regioni meridionali e della Franconia dove si concentravano i possessi della dinastia regnante ed i beni demaniali dell'Impero. I regni dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza, visto che una supremazia politica era incerta e poco sostenuta dagli altri principi. Dovremmo parlare di principati a tendenza egemonica o regioni inquadrate in sistemi di alleanze con a vertice un re, più che di veri e propri regni. Una gerarchia feudale incompleta. A questa mobilità dei quadri territoriali, acuta in Francia e Spagna, si aggiunse la difficoltà tecnica di coordinare sul piano feudale una miriade di signorie con obblighi e diritti diversi. I sistemi di alleanze feudali non disegnavano ancora ordinate reti di fedeltà in senso gerarchico. Nel secolo XII i re erano signori “parziali” di grandi vassalli che avevano a loro volta altri vassalli. Vigeva ancora il principio di solidarietà orizzontale nel quale “il vassallo di un vassallo del re non è un vassallo del re”. Sfuggivano ai re tutte le reti di fedeltà locali che vivevano di vita propria, senza preoccuparsi di cambiamenti di titoli o passaggi nominali di potere. Assenza di burocrazia. Ultimo limite dei regni era l'assenza di un vero apparato di funzionari pubblici. I grandi uffici regi erano nelle mani della nobiltà che circondava il re, servendolo e al contempo rafforzando le proprie posizioni nel regno: due funzioni non sempre armonizzabili. Esisteva un ristretto apparato burocratico di corte in mano ad ecclesiastici di grande elevatura, ma il loro intervento si limitava a garantire il funzionamento della corte regia sul piano culturale e politico, e non potevano diventare strumento di governo dei singoli territori. Una vera entità statale faticò a mostrarsi compiuta ancora nel Duecento maturo, e anche quando sembrava stabilizzata, poteva facilmente decomporsi. Questo avvenne a tutti gli Stati monarchici del XIV secolo: la Francia si trovò divisa nel Trecento, quando l'Aquitania passò sotto il regno inglese; in Spagna il processo di ricomposizione territoriale u condotto da una pluralità di regni in conflitto tra loro e durò fino a buona parte del XV secolo. Il regno di Inghilterra fu attraversato da divisioni ancora nel Quattrocento. In Germania l'Impero rimase vagante per l'ultima parte del Duecento, e funzionò ad intermittenza nel Trecento. Si può dire che nel XII e XIII si pose una questione cruciale sulle forme del potere laico: con quali mezzi e fini si potevano coordinare le realtà locali formatesi nei secoli precedenti; com'era possibile far convivere poteri territoriali disseminati in mani diverse. Da secoli il potere sulle persone era una “cosa” che poteva essere venduta a trasmessa in eredità: per comandare sulle persone bisognava possedere i beni e i luoghi ove i sudditi abitavano. Un legame diretto tra persone e cose che il medioevo centrale ereditava dal passato e che i re dovevano integrare nella loro politica senza rinunciare alle aspirazioni di superiore coordinamento dei poteri locali che il titolo regio portava con sé. - 2. L'Inghilterra dalla conquista al Duecento Guglielmo il Conquistatore (re 1066-87) sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066 e, nella battagli di Hastings, sconfisse il neo eletto re Harold. L'invasione del regno d'Inghilterra portò ad un rovesciamento delle istituzioni precedenti e alla sostituzione delle élite aristocratiche anglosassoni con baroni normanni. Il rovesciamento impose i baroni francesi come classe dominante e “gente del re”, fedeli di Guglielmo e dei suoi compatrioti. Ma i Normanni non trovarono un deserto, fondando il loro dominio su una base solida di istituzioni pubbliche che non sparirono dopo la conquista. Riallacciarsi alle “antiche consuetudini” del popolo inglese servì ai sovrani per frenare gli impulsi più violenti della nuova aristocrazia continentale e costruire una base di consenso più ampia tra la popolazione dell'isola. L'Inghilterra prima delle invasioni. Era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shires, assegnate a ufficiali pubblichi chiamati ealdormen o earls. Al di sotto degli shires, già al tempo di re Edgar (959- 975), esistevano circoscrizioni minori, le centene (hundreds) formate da tithing, gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di ampia autonomia organizzativa e avevano il fine di amministrate la giustizia attraverso il mantenimento della “pace”. Le assemblee di hundreds e dei villaggi discutevano anche di questioni fiscali, ma il carattere giudiziario nelle sedute era prevalente, poiché questione centrale nelle forme di autogoverno dei distretti inglesi. I processi seguivano i costumi locali, e applicavano quello che il re chiamava “folkright”, il diritto della gente. La pace era centrale anche nella legislazione regia. Al contrario dei re francesi, che avevano smesso di emanare capitolari, i re inglesi continuavano a fare leggi, da re Athelstan del 939 al re Knut (995-1035), che sulla pace come ordine e pacificazione dei conflitti aveva redatto un'importante carte nel 1020. la pace del regno era compito del re, ma condiviso con le comunità che avevano ruolo attivo nell'organizzazione della vita locale. Tra popolo e baroni, il governo di Guglielmo I. Guglielmo riprese questa tradizione, poiché il tema della pace era per lui urgente dopo le guerre di conquista e le repressioni dei baroni inglesi. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva elementi del tradizionale patto tra re e popolo: si impegnava a mantenere i diritti delle chiese e governare il “popolo suddito in modo giusto attraverso le leggi”. Ma la realtà si presentava estremamente difficile. I baroni normanni che avevano seguito Guglielmo in Inghilterra esigevano l'assegnazione delle terre dei nobili inglesi e relativa autonomia politica nei propri possessi e un ruolo di controllo sulle azioni del re. Il domino del re doveva continuare a fondarsi sulla nozione di popolo per sopravvivere, conservando libertà di base dei possessori e appoggio di vescovi e abati. Obiettivi che solo una forte struttura pubblica del regno poteva assicurare. Era evidente la tensione interna a questa struttura politica in formazione: l'appoggio dei baroni era necessario, ma rischiavano di indebolire la presenza regia nei territori; il rafforzamento delle istituzioni centrali era urgente, ma si scontrava con le pretese dei baroni. Il regno inglese si dibatteva tra l'essere minacciato dalla stessa forza militare che ne assicurava l'esistenza, ma a differenza dei monarchi del continente sviluppò prima e meglio gli strumenti di governo che assicurarono al regno una propria autonoma esistenza. La prima organizzazione del regno. Guglielmo, che restava duca di Normandia, dovette nominare un suo rappresentante in Inghilterra (giustiziere), un viceré dotato di pieni poteri in assenza del sovrano. Era una figura nuova, importante per diffondere un'idea di regno in astratto, indipendentemente dalla figura del re. Guglielmo eliminò poi i conti e nominò degli sceriffi, ufficiali pubblici incaricati di amministrare la giustizia e di controllare le finanze nei singoli shire. Cercò poi di conservare il diritto dei liberi uomini a mantenere le proprie cose contro le prepotenze di baroni e potenti. Tutti i liberi furono dichiarati sudditi del re e la terra data in concessione ai baroni sottoposta a concreti obblighi di fedeltà militare nei suoi confronti. Enrico I (anche duca di Normandia) e fronteggiare le aspirazioni dei conti di Fiandra e Champagne-Blois. Il fronte interno era più promettente: sostenuto da alcuni vescovi e da il consigliere Sugerio, abate di Saint Denis (considerato il vero “inventore” della monarchia”, Luigi VI si lanciò in battaglie punitive contro potenti locali interni ed esterni al suo dominio. Erano guerre non di schieramento, individuali, provocate dall'intemperanza del ceto di castellani-cavalieri che male si inserivano in una gerarchia feudale definita. Sugerio fornì un inquadramento ideologico: sostenendo la teoria che ogni feudo “muoveva” da un altro feudo e solo il re non aveva superiori, poteva presentare gli altri principi come necessariamente dipendenti dal re. Nella sua Vita di Luigi VI il Grosso, Sugerio definì il duca di Normandia, “vassallo del re”; rivolgendosi a Enrico I d'Inghilterra, Luigi VI poteva ricordargli che aveva ricevuto il feudo di Normandia per “generosa liberalità del regno di Francia”. Chiamato in aiuto dal vescovo di Clermont per un oltraggio subito dai conti di Alvernia, Luigi si recò con un esercito nella regione. Il signore dei conti, il duca di Aquitania, decise di chiedere la pace, spaventato dall'armata regia, e fece atto di sottomissione al re, “andando a parlargli come a un suo signore”, ricostruendo la catena delle dipendenze. Il duca ammise la sua inferiorità: “che dall'alto della sua grandezza, la reale maestà non disdegni di ricevere il servizio del duca d'Aquitania e di mantenerlo nel suo diritto”. Una rappresentazione distante dai reali rapporti di forza, ma indicativa di una nuova ideologia regia in via di affermazione. Per Sugerio, il feudo d'Alvernia muoveva dal duce di Aquitania, che a sua volta l'aveva ricevuto dal re. Ecco una sequenza gerarchica che metteva ordine nell'intricato gioco delle dipendenze feudali. Però Sugerio ricordava come le azioni militari del re fossero sollecitate da un esplicito mandato degli uomini di Chiesa. Luigi interveniva contro i castellani quando questi minacciavano le chiese e turbavano la pace pubblica: la spedizione militare era quindi approvata da un concilio provinciale di vescovi che invocavano il re come difensore armato della Chiesa. La presenza costante della mediazione ecclesiastica appariva come un elemento di debolezza forse (il re incapace di reprimere le malefatte dei vassalli), ma divenne col tempo punto di forza. Luigi VII e la reggenza di Sugerio. La funzione di paciere fu assunta dal re, per merito di Sugerio: trasmettere al re il dovere di imporre una pace del Re dove prima si cercava una pace di Dio. Il cambiamento avvenne sotto il figlio e successore Luigi VII (1137-80), sempre coadiuvato da Sugerio, nominato reggente quando il re partì per la seconda crociata (1144). Nei due anni di reggenza, Sugerio (nominato anche legato papale e custode dei beni del re durante la crociata), disegnò una nuova funzione della monarchia attraverso una serie di atti di governo fatti in mano e per il bene del regno. Si configurava un'identità astratta che esisteva anche in assenza del re, imponendosi come soggetto politico da rispettare e temere. La lotta contro i castellani ribelli, sia nel dominio che negli altri territori, continuò anche dopo il ritorno di Luigi VII in patria (1147), ma fu condotta in una pace laicizzata e regia. La pace del regno. Durante il concilio di Soissons (1155), Luigi VII proclamò la pace per tutto il regno, un atto importante per la dimensione sovralocale che aveva assunto il re, grazie al suo compito di pacificatore. Nel concilio di Reims (1157) fu ribadito il concetto, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace e punire i colpevole che i signori locali non avevano perseguito. Si assegnava al re la funzione superiore e sostituiva rispetto ai signori locali (interveniva in caso di negligenza), e si indicava come “mantenere la pace” equivalesse di fatto e diritto, ad esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti. L'idea che la Francia si sia formata grazie a armi e valore dei re esagerazione degli storici dell'Ottocento. Le guerre continue, che i re francesi combatterono per il secolo XII, non portarono accrescimento territoriale: quello che il re guadagnava da una parte, perdevano dall'altra. Ma vero anche il contrario: neanche i poteri regionali confinanti fecero progressi. Si rafforzarono, misero in ordine le proprie clientele vassallatiche minori, sperimentarono alleanze diverse, ma rimasero nei limiti territoriali di pertinenza. Luigi VII e il dominio degli Angiò-Plantageneti. Solo in un caso i principi minacciarono direttamente i confini del regno: quando per ragioni matrimoniali si unirono i ducati di Normandia, Aquitania e il regno di Inghilterra sotto il dominio dei duchi di Angiò, poi detti Plantageneti dalla pianta di ginestra presa a simbolo della casata. Luigi VII aveva sposato Eleonora d'Aquitania, che avrebbe portato in dote il lontano ducato. Il re francese, di ritorno dalla crociata, vi divorziò. Eleonora sposò poi il conte d'Angiò, Enrico, figlio di Enrico I di Normandia e re d'Inghilterra. Con il nome Enrico II, aggiungeva ai suoi titoli anche il ducato di Aquitania, unendo in un solo dominato la Francia nordoccidentale e meridionale. Se Enrico come duca di Normandia era vassallo di Luigi VII, come re inglese si sentiva suo pari, se non superiore per quanto riguardava il controllo della Francia atlantica e meridionale. Iniziò la “prima guerra dei cento anni” fra re francesi ed inglesi; una serie di guerre senza grandi conseguenze sul piano territoriale. Le guerre continue misero alla prova le reti di alleanze di entrambi i re, che si mostrarono permeabili: gli stessi principi si potevano alleare secondo le convenienze del momento, gli equilibri ereditari che potevano mettere in discussione la distribuzione dei poteri territoriali. Luigi VII morì nel 1180, lasciando il figlio Filippo (incoronato nel 1179) a balia di due potenti clan protettori:i conti di Champagne per via materna, di Fiandra per via matrimoniale, avendo sposato la nipote del conte Filippo d'Alsazia, a capo della contea. Il regno si apriva sotto le urgenze di sempre: contenere le pretese dei baroni vicini da un lato, difendersi dalla minaccia plantageneta dall'altro. Filippo Augusto (1180-1223). Il regno di Filippo Augusto è visto come punto di svolta della monarchia francese, sia per la durata che per le trasformazioni che impresse ai metodi di governo del regno. Le guerre contro i baroni vicini furono fruttuose e fortunate: sfruttando la dote della moglie, costrinse Filippo d'Alsazia a cedere al regno due contee della Francia settentrionale: Vermandois e Artois. Nel corso dello scontro con gli anglo-normanni, sfruttò le divisioni interne alla dinastia Plantageneta, indebolita dalla competizione fra i figli di Enrico, Giovanni e Riccardo. La forma dello Stato d'Angiò. Enrico II aveva costruito una conglomerazione vastissima, governando territori diversi abilmente. In alcune regioni, la sua azione di riordinamento incise in profondità. In Normandia, impiantò un'amministrazione regia di alto livello: le finanze erano gestite da un magistrato unico (lo Scacchiere), a imitazione del modello inglese; una rete di uffici locali (balivi) assicurava il controllo dei luoghi strategici del ducato. I balivi erano nominati dal duca e amovibili, incaricati a tempo di alcune mansioni; in più (pratica ripresa anche da Filippo), erano reclutati dalla classe media di funzionari fedeli in primis al re. La dinastia Plantageneta, tuttavia, subì gli stessi contraccolpi di qualsiasi famiglia aristocratica al momento della successione: la competizione tra i figli Giovanni Senzaterra e Riccardo, portò alla rovina il dominio continentale dei Plantageneti. Crisi dei Plantageneti. A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato contro il padre che il fratello Giovanni, alla sua morte, Giovanni subentrò come unico, ma senza un reale supporto né dei vassalli inglesi che normanni. Questo fece conquistare la Normandia a Filippo, che prima aveva cercato di confiscare il feudo per per le offese che Giovanni aveva inflitto ad un suo vassallo, poi con un'azione militare, prese il controllo delle principali fortezze del ducato (giugno 1204). Filippo entrava in possesso di una regione dove il demanio del duca era vasto e usabile per rafforzare le clientele vassallatiche locali. Il re francese si alleò con i baroni normanni, ai quali riconobbe ampie autonomie, e estese un'influenza diretta sui ducati dipendenti (es. di Bretagna). La via feudale sembrava promettente, ma fu una guerra a consegnare a Filippo un enorme prestigio. Bouvines 1214: la vittoria di Filippo. La battaglia quivi combattuta fu uno dei rari eventi bellici ad influenzare le vicende dei regni europei della prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano uniti il re inglese Giovanni Senzaterra, l'imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra, il duca di Brabante, molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare le maggiori resistenze della sua espansione verso la Fiandre e il nord del regno. E, dopo Bouvines, Filippo non fu più costretto a difendersi e iniziò una politica aggressiva, anche se talvolta con esiti fallimentari, come il ripetuto tentativo di invadere l'Inghilterra (il figlio Luigi arrivò a Londra nel 1216, ma fu cacciato in Francia). La via per il sud: la crociata albigese. La spedizione che i baroni del nord della Francia fin dal 1209 avevano condotto per conto del papa contro il conte di Tolosa, aprendo una via di penetrazione verso i principati del sud. I cavalieri francesi al comando di Simone di Montfort avevano temporaneamente sostituito il conte. Filippo solo nel 1219 e poi nel 1221 tentò di riprendere la città, ma senza successo. Ma la questione del sud era aperta e l'impresa di Simone di Montfort aveva consegnato a Filippo una potente arma per giustificare un intervento armato contro un vassallo, il conte di Tolosa: la lotta contro l'eresia. Il conte era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III, e gli eretici erano sciolti dal giuramento di fedeltà e privabili dei beni. Filippo rivendicava la spedizione come atto di difesa della fede, risorsa che i re francesi sfruttarono con grande abilità. Importanza del regno di Filippo. Guerre, matrimoni avveduti e doti incamerate (Vermandois, Artois, Vexin), regioni conquistate (Normandia), annessioni indirette (Bretagna), sequestri di beni di feudatari ribelli e una campagna militare nel sud della Francia compiuta da cavalieri privi di mandato regio: furono i mezzi usati per l'espansione. Ma sostenere a lungo uno stato di guerra, indipendentemente dagli esiti delle battaglie, richiedeva una capacità di tenere insieme alleati riottosi, di usare e remunerare clientele militari estese, condurre assedi per lungo tempo: richiedeva una grande capacità di accumulare e mobilitare risorse economiche. Il budget regio. Filippo assicurò al regno una superiorità economica capace di sostenere un apparato militare imponente ed incerto. Le spese del regno erano occupate per l'80% da costi di guerra e mantenimento dell'esercito. Il budget del 1202-1203 mostra come il re francese fosse riuscito a razionalizzare la contabilità e l'amministrazione locale e a sfruttare le pieghe finanziarie dei rapporti feudali. Le entrate, intorno alle 11500 lire: 50& proventi delle rendite agricole del dominio regio, 20% tasse sulle città, 7% giustizia 16% non specificata. L'amministrazione del dominio. La possibilità di sfruttare il dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiali pubblico (il balivo), responsabile di governo giustizia e fiscalità in una circoscrizione definita. Migliorarono le tecniche contabili e di controllo: i balivi redigevano rendiconti mensili della loro attività in libri di entrate e uscite. Questa gestione diretta del dominio assicurò al re entrate stabili e prevedibili. L'amministrazione centrale inoltre era stata affidata ad un personale diverso dai vecchi grandi del regno e baroni, chiamando esponenti di media cavalleria e nobiltà urbana, membri dell'ordine templare specializzati nella contabilità finanziaria: un ceto amministrativo fedele al re, non legato da pericolose dipendenze verso i grandi vassalli del regno. Il sistema fiscale: le entrate. Riguardavano in gran parte le tasse feudali. Filippo usò quegli elementi ideologici che già Sugerio aveva elaborato per il padre, quando impose l'idea che il re non era tenuto a prestare omaggio a nessun principe del quale era vassallo. Filippo sfrutto sul piano economico tali prerogative feudali. Richiese somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo: per riottenere la contea di Fiandra gli eredi sborsarono, tra 1190 e 1227, circa 75000 lire. Altrettante ne chiese per la custodia dei feudi regi nei momenti di minorità dell'erede. Il re riuscì a monetizzare il mancato servizio militare, imponendo una tassa per assoldare dei “sergenti”. Distribuì anche molto: nelle zone contese creò dei feudi-rendita da assegnare cavalieri e signori locali per comprare la loro neutralità in caso di guerra. Struttura feudale e amministrativa del regno si svilupparono in parallelo. Fu la combinazione sapiente di strumenti giuridici ed economici diversi ad assicurare il successo della politica regia. Ancor prima di Bouvines, Filippo era diventato uno dei principi più potenti sul piano finanziario, capace di resistere a lungo nelle guerre locali e offrire di più, rispetto ai suoi concorrenti, a quei domini locali che avessero accettato la sottomissione al regno di Francia. Anche perché il regno era ancora un insieme di grandi feudi intorno ad un nucleo centrale in cerca di legittimazione. Mancavano Aquitania e le contee del sud, in mano all'Impero (Borgogna, Provenza) o controllate dalle dinastie “spagnole” dei conti di Barcellona e di Aragona. - 4. I regni spagnoli La Spagna del secolo XI era divisa in contee con aspirazioni monarchiche, relegate nella parte settentrionale della penisola. Il grosso del territorio era sottoposto al dominio musulmano. La storia della Spagna è stata segnata dalla conquista araba del secolo VIII che mise fine al regno Visigoto di Toledo. Il dominio arabo, prolungatosi per circa sei secoli ricchi di storia e trasformazioni interne, fu letto dalla storiografia spagnola come una parentesi del regno visigoto, mai del tutto scomparso. Un regno cristiano continuava ad esistere a nord, per risvegliarsi nel secolo XI e iniziare una lenta riconquista dei territori verso sud. Reconquista è il termine celebrativo usato dagli storici per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso medioevo, quasi una riacquisizione di una cosa già posseduta e ora tornata nelle mani dei legittimi proprietari. Per molti intellettuali spagnoli moderni, la presenza araba si configurava come una vera usurpazione, un'occupazione illegittima che non aveva diritto di esistere. Natura regionale dei “regni”. Questa visione trionfalistica pecca di alcune esagerazioni ideologiche. I regni spagnoli nel secolo XI non erano esattamente “regni”, ma contee di dimensione regionale, che occupavano solo la parte settentrionale della penisola, dai Pirenei alla Galizia. La contea di Barcellona rimase a lungo legata alle vicende della Francia meridionale; Navarra, Aragona, Leòn e Castiglia erano invece formazioni territoriali fluide, e per tutto il secolo XII la loro esistenza come regni fu intermittente, fra unioni dinastiche e separazioni successive. La Castiglia assorbì il Leòn, ma con due fasi di separazione fra il 1065-1072 e poi fra 1157-1230. Navarra e Aragona furono unite fino al 1134, per poi avere due sovrani diversi. Il conte di Barcellona divenne governante dell'Aragona quando Raimondo Berengario IV sposò la figlia infante di Ramiro II d'Aragona (1150). Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel Duecento avanzato, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro natura territoriale. Anche l'identità etnica della popolazione era incerta. Il mito della purezza di sangue assicurata dalla discendenza diretta dai Visigoti di ceppo germanico è l'elemento più fragile di tutta la celebrazione ideologica della storia spagnola. Né le popolazioni delle regioni settentrionali asturiane e pirenaiche, né quelle del sud erano visigote. La lunga permanenza della dominazione araba aveva creato una dominazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe come “ispanica”. Mondi connessi. Furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e alleanza fra i re spagnoli, soprattutto di Aragona e Castiglia, e i diversi potentati delle città della frontiera. Alfonso VI di Castiglia (1040- 1109), es., cacciato dal fratello, trovò ospitalità presso il califfo di Toledo e, divenuto re, intervenne a suo favore contro una fazione nemica che aveva occupato la città. Il Cid Rodrigo Diaz (1043-49), cavaliere castigliano esiliato da Alfonso, celebrato nei poemi cavallereschi di fine secolo XI come modello di eroe cristiano, fu mercenario presso principi cristiani e musulmani prima di fondare un suo staterello autonomo. Profondi erano i contatti di collaborazione con alcuni califfi nel secolo XII. La Reconquista fu una celebrazione in termini epici di una lunga mutazione politica, che solo in parte dipese dalle conquiste militari dei principi cristiani. Senza la crisi della dominazione almoravide fra XI e XII secolo, la Spagna musulmana non avrebbe mai cessato di esistere. La prima fase delle guerre. Tuttavia la guerra all'infedele era motivo ricorrente nel linguaggio politico dei regni spagnoli, soprattutto dopo l'avallo papale concesso alle spedizioni di cavalieri francesi nel 1063 e 1085, configurate in termini di pre-crociata. I sovrani più impegnati nelle guerre di espansione, re di Castiglia e di Aragona- Catalogna, ricorsero a questo armamentario retorico quando affrontarono conflitti armati con i califfati confinanti e trovarono nell'esaltazione religiosa delle attività belliche sostegno ideologico forte alle loro pretese monarchiche, legittimandosi re in quanto liberatori. Es. Alfonso IV di Castiglia dopo la conquista di Toledo (1085); l'occupazione delle Baleari dei Catalani; la presa di Saragozza degli Aragonesi (1118); anche se furono sempre vittorie passeggere. Le guerre della prima metà del secolo XII furono però poco decisive sul piano territoriale. Sia le battaglie (cavalcate) dei re spagnoli nelle regioni meridionali in mano ai califfati, sia le guerre di razzia dei principi musulmani verso il nord cristiano furono episodi bellici di segno altalenante. Fino al 1115-30 gli Almoravidi prevalsero (riconquista delle Baleari). Nei decenni successivi, alcune spedizioni cristiane ottennero qualche successo: es. la “cavalcata” di Alfonso VII verso Cordova e Cadice (1133). Ma erano razzie e saccheggi, non guerre di occupazione. La crisi del regno almoravide e l'ascesa degli Almohadi. Si aprirono le possibilità di uno scardinamento del documento imperiale, firmato a Wurzburg nel 1196, i principi tedeschi rifiutarono il patto e mantennero il diritto di elezione. Il matrimonio di Enrico con Costanza di Altavilla. Enrico VI aveva però guadagnato una posizione di forza sposando nel 1186 l'ultima erede dei re normanni, Costanza d'Altavilla, dalla quale ebbe nel 1194 Federico Ruggero (poi Federico III). Questo episodio è uno dei casi ove la via matrimoniale incise sull'assetto politico dei regni. Nonostante le ribellioni in Sicilia e l'elezione di un anti-re, Tancredi conte di Lecce (1190, figlio illegittimo di Ruggero III), Enrico entrò a Palermo nel 1194 e fu eletto re di Sicilia. Federico eredità il regno di Sicilia ed il titolo imperiale. Il potenziale di conflitti non fu chiaro a tutti subito, anche perché Federico, che alla morte di Enrico aveva 3 anni, fu messo da parte riguardo la successione imperiale. Stabile la sua posizione nel regno normanno di Sicilia. 6. Il regno di Sicilia Costanza d'Altavilla era l'ultima esponente della famiglia che più aveva contribuito a conferire unità alla multiforme presenza dei cavalieri normanni sbarcati nell'Italia meridionali intorno al 1013-16, che si misero al servizio dei principi longobardi come mercenari nelle lotta interne e fra i domini e le aree rimaste sotto la presenza bizantina. Un primo gruppo riuscì a stabilirsi ad Aversa (1030) ed impadronirsi di Capua (1058). Altri si espansero in Campania, Calabria, Puglia, costruendo basi di un potere locale disperso ma con tendenze egemoniche regionali ambiziose. Fu un processo lungo, e ci volle un secolo prima di parlare di un regno, ma la qualità del potere esercitato dai cavalieri francesi fu avvertito subito come diverso. Le iniziative militari dei normanni cambiarono la natura dei poteri locali. Il controllo esercitato sui territori da questa aristocrazia militare fu violento ed inedito. La rapacità dei baroni normanni chiedevano di più e imponevano obblighi maggiori a popolazioni, chiese e comunità soggette. Non avevano un vero ordinamento gerarchico all'interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantini Campania e Puglia fu sostituita dai cavalieri normanni o si riadattò ai modi di gestione del potere di questi: divennero tutti signori di castello, attraverso matrimoni e alleanze con i nuovi venuti. Gli Altavilla. Cinquant'anni dopo gli sbarchi, ca 1070, si impose come punto di riferimento di un coordinamento unitario fra i territori conquistati. Presenti in Sicilia, Puglia e Calabria intorno al 1040 (Guglielmo Braccio di Ferro fu al servizio dei Bizantini e del principe di Salerno), i discendenti della sfruttarono debolezze dei potentati bizantini e contrapposizioni tra papa e imperatore, cercando di legittimarsi presso entrambi: Drogone (fratello di Guglielmo) fu eletto conte di Puglia dal cuna salernitano e duca (1047) dall'imperatore Enrico III. Il fratello Umfredo riprese il titolo di duca di Puglia alla sua morte e cercò un raccordo più stretto con il papato di Roma: il titolo fu ripreso nel 1059 da Roberto (il Giuscardo), impegnato dopo il suo arrivo in azioni predatorie in Calabria; nel 1059 ci fu un primo giuramento di fedeltà al papa. Ruggero I e la conquista della Sicilia. Roberto e suo fratello Ruggero (1031-1101) operarono su più fronti. In Puglia occuparono Bari, ultimo avamposto Bizantino in Italia meridionale (16/04/1071); in Sicilia, negli anni Sessanta del secolo XI, avevano iniziato una campagna contro i musulmani, che terminò con la conquista di Palermo (1072). Fu un evento cruciale perché aprì alla famiglia le strade per una posizione politica permanente nel gioco politico europeo. Il riconoscimento papale si rafforzò nel 1098 con la conferenza a Ruggero di una carica simile di legato apostolico: poteva eleggere vescovi, controllare le finanze della Chiesa e dirimere le controversie fra ecclesiastici. Ruggero ottenne un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche dell0siola che aiutò la costruzione di una nuova amministrazione pubblica. Ruggero II ed il regno. La ricostruzione di un dominato pubblico in Sicilia fu favorita anche dal modello di governo musulmano, accentrato e basato su un controllo economico e politico-istituzionale delle sue articolazioni locali. Questo esempio probabile spinse Ruggero II (1095-1154), figlio di Ruggero I, a impostare un disegno monarchico che abbracciasse i territori dell'Italia meridionale, a cominciare dalla Puglia. Lo aiutò aver ottenuto da papa Anacleto II (antipapa) il titolo di re, in cambio di un riconoscimento di dipendenza vassallatica verso la Chiesa di Roma, titolo confermato da papa Innocenzo II (1138) e mai più discusso. Quando però Ruggero provò ad esportare queste forme di controllo regio sul continente, aumentarono le congiure e sollevazioni dei baroni. Nel 1160 una scosse le basi del regno sotto Guglielmo I (associato al trono nel 1151) e fu repressa dal re. L'autonomia dell'aristocrazia normanna sul continente, rimase a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Esiste un feudalesimo normanno? Il regno normanno non era feudale: non ci fu alcuna distribuzione sistematica di concessioni in feudo in territori o una vera gerarchia di fedeltà regolava i rapporti interni tra aristocrazia e re. A complicare il quadro si era diffusa una concezione del possesso di terra ove: le terre erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista delle regioni meridionale con confische ed erano sentite come proprie dai discendenti; si conservava un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento, e si riconosceva ai capi un diritto sulle terre per averle conquistate. Il re sapeva quando donava una terra che la sua disponibilità sul bene si indeboliva e si accontentava di veder riconosciuto un diritto all'aiuto militare e poco altro. Il Catalogo dei baroni (1142): un elenco di prestazioni militari. I cavalieri normanni in Italia conservarono sempre una disponibilità dei propri beni, in pochi casi concessi davvero dal re. Il più importante documento “feudale” del periodo Catalogo (censimento dei cavalieri normanni del regno e loro potenziale militare-fiscale) non contiene l'elenco dei feudatari del re, ma dei soldati che potevano armare. Non importava l'origine della terra, ma quanto un barone poteva dare in termini militari. Il Catalogo creò un senso di fedeltà militare dei baroni verso il re: i doveri erano quantificati, i cavalieri tenuti all'aiuto in guerra secondo le cifre stabilite dal catalogo. Il demanio come fonte di potere. Altro strumento di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia, lo sfruttamento del demanio fu la chiave di volta dei sistema economico normanno, perché si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del domino (apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali sicuri) e nelle terre demaniali si sperimentarono nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino. Più del ceto baronale, furono gli ufficiali regi a praticare un controllo diretto del lavoro contadino e prelevarne il surplus disponibile. La legislazione pubblica. Prima nelle assise di Melfi (1129) Ruggero II proclamò una pace del regno, ovvero il divieto di guerre private in favore della giustizia del re. Nell'assemblea del 1132 riaffermò l'obbligo di fedeltà per i baroni. Anche le assise di Ariano (1140= contengono tracce di uno sforzo di affermare la superiorità regia ed il controllo pubblico sui baroni, soprattutto sul piano fiscale e giudiziario. Fonti romane relative al potere imperiale, tradizioni bizantine, modelli papali, i re della dinastia li usarono per rivendicare un potere con caratteri di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; stabilirono una dipendenza dei baroni dal re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero una relativa egemonia politica nelle regioni del regno. Limiti all'azione baronale. I re cercarono di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni, attraverso dei giustizieri regi che avocavano le cause maggiori, controllando i matrimoni per impedire eccessive concentrazioni di patrimoni e stemperando le richieste dei signori verso i propri dipendenti. Comunità e singoli si rivolgevano facilmente ai tribunali regi per lamentarsi delle richieste eccessive dei signori, e numerosi furono gli interventi regi per modificare i disegni matrimoniali dei baroni. Il regno normanno, alla fine del secolo XII, viveva in questa polarità di tensioni politiche: instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva un governo accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale. Un mondo contraddittorio e complesso, con il quale io giovane Federico II dovette confrontarsi e scontrarsi da subito. - 7. La successione imperiale e il regno di Federico II Federico ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complicate. Le lotte per la successione imperiale. Il primo conflitto per la successione vedeva contrapposti Filippo di Svevia e Ottone di Sassoni, in riproposizione della faida tra guelfi e ghibellini. Arbitro della competizione inizialmente fu Innocenzo III, prima a favore di Filippo e poi, dopo il 1208, a favore di Ottone. Il papa era però anche tutore di Federico, che divenne presto pretendente al trono imperiale. Federico era re di Sicilia per via di madre, e una nomina imperiale gli avrebbe consegnato il regno d'Italia, accerchiando Roma e domini pontifici. Gli eventi precipitarono. Negli 1211 Innocenzo III appoggiò Federico, eletto re di Germania nel 1214. Uscito vincente dalla battaglia di Bouvines, Federico fu prima eletto re dei Romani e nel 1220 consacrato imperatore da papa Onorio III. Nelle sua mani riuniva le sorti dell'Impero e di tre regni, Germania, Italia e Sicilia. La Germania al tempo di Federico. Federico II, come il nonno Federico I, operò per rafforzare i suoi domini nelle regioni meridionali. Agì con successo nel recupero dei beni della sua casata e del regno, favorito dagli alleati Svevi e l'appoggio dei ministeriali, cavalieri di basso rango di cui fece uso nell'amministrazione del regno. Quando agiva come signore rafforzò il controllo politico dei sui domini personali, incrementando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici (sculdasci, margravi, procuratori) e promuovendo le città del ducato. Quando agiva come re di Germania, risiedendo poco on terra tedesca, doveva da lontano creare le condizioni per mantenere la pace del regno attraverso compromessi con i potentati regionali. Doveva sforzarsi non provocare ribellioni aperte contro il suo governo. Al momento dell'elezione imperiale (1220), emanò un atto importante per i futuri assetti del regno: un privilegio ai principi ecclesiastici tedeschi ove si concedevano ampie autonomie giurisdizionali, tali da rendere labile il controllo regio su estese porzioni del regno in mano alle chiese locali. Un decennio dopo, quando il figlio di Federico, Enrico, per domare una ribellione dei principi tedeschi nel 1231, concesse una serie di privilegi che ricalcava quelli concessi a quelli ecclesiastici. Nonostante la contrarietà di Federico verso l'operato del figlio, confermò le concessioni nel 1233, rafforzando ulteriormente l'autonomia dei principi. Sicilia e regno d'Italia: recupero del potere regio e controllo della vassallità. In Sicilia, Federico operò per recuperare i beni usurpati dai nobili durante il periodo della reggenza materna. Nonostante la modernità del sistema politico normanno, la tendenza dell'aristocrazia ad impadronirsi di beni pubblici non trovò veri limiti dopo gli anni di ribellione del re Tancredi contro Enrico VI e Costanza. Appena maggiorenne, Federico aveva formato un consiglio di giuristi incaricato di elencare le possessioni del re ed in inventario dei beni sottratti alla corona. Nel 1220 in un'assise legislativa valida per il regno (a Capua), ordinò una politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni: richiese ai possessori di presentare i privilegi emanati dal padre Enrico Iv o la madre Costanza, con la perdita dei diritti per chi presentava titoli non validi o contraffatti. Un diritto regio, fatto dal re e applicato dal re giudice, che voleva “tutte le cose illuminate sotto il suo dominio e ricondotte nello stato di giustizia sotto il nostro regno”. Uso del diritto, pratiche amministrative e affermazione della potenza regia andavano di pari passo. Nel 1231, lo stesso anno i cui Enrico cedeva a Worms i privilegi ai principi tedeschi, Federico emanava a Melfi il più importante atto legislativo del suo regno: il Liber constitutionum o Liber Augustalis, ove l'ideologia regia riceveva una sistemazione di grande spessore culturale. Ma il regno d'Italia continuava a sfuggirgli, divisa in distretti cittadini molto autonomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l'Italia centro-settentrionale aveva seguito una via diversa dalle altre regioni. L'inquadramento regio fu debole per tutto il secolo XI e metà del XII, e lo sforzo di autogoverno delle città, che sapevano di essere inserite in un regno assente, creò un sistema di territori cittadini che non ebbe uguali in Europa. - 8. Conclusioni L'analisi dei contesti nazionali ha messo in luce un quadro ricco di contrasti: tentativi dei re di porsi a vertice di una configurazione sovraregionale che esisteva solo su carta, contraddizioni generate dalle incerte fedeltà dei grandi, che mal sopportavano il peso dell'inquadramento regio, tensioni continue con gli apparati pubblici promossi dal re. Il risultato è poco nitido. La costruzione di apparati monarchici nazionali in termini di processo evolutivo era interrotto, non risolvo all'affacciarsi del Duecento. Le carte territoriali dei regni sono occupate dalle macchie irregolari dei principiati regionali. Es. Francia a metà del XII secolo e nel primo quarto del XIII: le aree del dominio regio sono aumentate, ma ancora “isola” in un sistema di dominati locali. Per la Spagna valgono le linee di espansione locale portate avanti dai regni: la linea del XIII secolo si arresta poco sotto la metà della penisola, il sud è sotto i regni musulmani. L'Impero non presenta quadro migliore: i principi aumentarono le sfere di autonomia sotto Federico II, confermando una frammentazione strutturale delle regioni imperiali tedesche. Il regno normanno d'Italia è apparentemente uno dei più solidi sul piano territoriale. Il re come coordinatore: pace e giustizia. Se guardiamo a soluzioni pratiche, strumenti di governo, sistemi amministrativi, il giudizio cambia. I re si proposero come autorità legittimate a ricomporre un quadro unitario di questi poteri dispersi e a creare un nuovo equilibrio tra le prerogative della poteva privata dei signori e l'esercizio di funzioni pubbliche di coordinamento e pacificazione riservate al potere regio. Questo il re doveva fare: assicurare una convivenza ordinata di principati, città, signorie, popolazioni rurali, disciplinando la violenza del ceto militare e recuperare, almeno sul piano simbolico, le funzioni di controllo della vita politica degli antichi territori del regno. Nessuno pretendeva un controllo diretto dei territori locali da parte dei sovrani né una vera sottomissione degli individui al governo regio. Qualche pretesa fu avanzata, ma si arrestò davanti la natura delle cose: i potentati regionali potevano essere messi al servizio del re nei momenti di necessità, ma non appartenevano al re come depositario di un potere pubblico unico e sovrano. I re potevano contare sulle fedeltà dei territori, non sui territori in quanto suoi dominati. Per il secolo XII, la mediazione di signori regionali e principi rimase condizione inevitabile per determinare successo e durata delle monarchie. Come strutturale rimase tensione fra progetti di centralizzazione monarchici e difese di autonomia dei grandi. Per promuovere le funzioni regie, i monarchici usarono metodi diversi, in combinazioni variabili. Nonostante la pretesa di superiorità sovrana, dovevano procedere in maniera graduale, tenendo conto di forze e reali capacità di imporre una fedeltà superiore ai loro vassalli. Rafforzare il controllo sui vassalli. In primo luogo, i re fecero ricorso al diritto feudale per intervenire in territori sterni al loro dominio. Rivalutando la loro funzione di senior (superiore al quale si doveva fedeltà), rispetto ai principi suoi vassalli, intervenendo nelle liti tra potenti e tra potenti e vassalli minori, che, sentendosi in qualche modo offesi, facevano appello al re per essere difesi. Il re interveniva come superiore feudale del principe, e poteva arrivare a privare del feudo il signore che non si presentava alla sua curia o riconosciuto colpevole dai pari. Re di Francia ed imperatore di Germania usarono spesso le curie feudali per regolare i conti con i grandi vassalli avversari. Acquisizione dei feudi per vie patrimoniali. Anche la natura patrimoniale del feudo permetteva ai re di manipolare i dominati territoriali. Nel secolo XII, molti feudi o benefici erano considerati parte del patrimonio dei vassalli, trasmissibile in eredità o dote. I re approfittarono della trasmissibilità del feudo, con politiche matrimoniali e attraverso un controllo dei passaggi ereditari. Affidare la costruzione di un regno ai matrimoni era rischioso, ma creava anche obblighi giuridici che alimentavano le pretese regie per anni. Rivendicare territori della moglie come dote fu pratica usata dai re di Francia. Usata fu anche la retrocessione (riconsegna durante dopo un periodo di tenuta) dei feudi di vassalli morti senza eredi o in minore età, che venivano incamerati per poi essere riceduti a caro prezzo. Era necessario nelle corti europee del XII e XIII secolo seguire i fili delle successioni dei principati per cercare di riunire in una trama unitaria i possessi in mobilità. In altri casi i re, sempre in logica patrimoniale, comparono feudi e principati usando il denaro per acquisire poteri pubblici su territori, in teoria, di loro pertinenza. Prevaleva il criterio del possesso: rispetto ad una fedeltà incerta e contrattata, l'acquisto in denaro di un feudo dava garanzie maggiori di stabilità. Nuovi ufficiali di corte e controllo dei territori. Su un piano tecnico-amministrativo, i re capirono che una chiave del successo dipendeva da funzionari di corte e ufficiali locali che dovevano governare i soggetti del loro dominato. Ancora nella prima metà del secolo XII i maggiori uffici di corte erano affidati a grandi vassalli di rango
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