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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 6, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 6 – Nuove strutture politiche nell'Italia medievale: città e comuni

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 3 Capitolo 6 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 6 – Nuove strutture politiche nell'Italia medievale: città e comuni (Pag. 295-319) La città medievale, una delle più importanti strutture elementari del sistema politico del basso medioevo. . A lungo considerata “principio ideale” della storia italiana, vero centro organizzatore della cita politica. Nel corso dell'Ottocento è stata caricata di ingombranti miti politici: sede delle popolazioni latine contrappose nobiltà feudale germanica del territorio, primo embrione delle libertà italiane contro l'imperatore tedesco, prefigurazione dei governi liberali rappresentativi del XIX secolo. Di contro, dal primo ventennio del Novecento, si ebbe una reazione violenta contro il mito comunale della borghesia: le città furono accusate di essere piccoli organismi corporativi, luoghi di passioni politiche violente, generatrici di fazioni e spirito municipalista che ha segnato le borghesie italiane di antico regime. Negli ultimi decenni è stato messo in dubbio la capacità della città di essere veramente un centro capace di coordinare ambiti territoriali coerenti. Anche sul piano politico si contende l'esperienza comunale in un campo ristretto di realizzazioni limitate e temporanee. Sono critiche parziali, anche riduttive di un fenomeno completo, che ha segnato il panorama politico italiano. - 1. Nascita del comune consolare: una rappresentanza autonoma delle forze cittadine Alla metà del secolo XI era difficile capire chi comandava nelle città italiane. Anche gli imperatori avevano idee poco chiare: quando vi indirizzavano diplomi, usavano un soggetto generico (i “cittadini di Pisa”, i “milanesi”, i “fiorentini”), come non riuscissero a individuare una figura di riferimento o istituzione politica stabile con la quale dialogare. In parte, le città italiane si presentavano come una collettività senza capo, una comunità di cittadini che si autogovernava al di fuori di un preciso ordine gerarchico di poteri delegati. Il ruolo dei vescovi. Il conte imposto dai Carolingi nelle città nel secolo IX non esisteva, ed i suoi discendenti si erano rifugiati nei castelli del contado, disinteressandosi alla vita cittadina. Le famiglie di funzionari minori, al suo servizio (visconti, avvocati) conservavano qualche diritto di natura economica, ma lo dividevano con il vescovo. Il vescovo era sicuramente la figura di maggior rilievo: guidava la vita cittadina, ne assicurava l’unità religiosa e la pace sociale, mediava i conflitti, e soprattutto deteneva importanti diritti pubblici (mercato, dazi sulle merci, giustizia civile) che costituivano la base per un potere superiore di coordinamento della vita politica. Il conte però non prese mai il posto del conte come funzionario pubblico, come avvenne invece in Germania e Francia: qui il rapporto con il sovrano era più stretto e tra i poteri donati dai regnanti ai vescovi si trovava anche la carica di conte (che era laica, ma detenuta da un ecclesiastico). La clientela vassallatica del vescovo. In Italia, il vescovo rappresentava l'unità spirituale e politica della città, ma era anche signore feudale, con interessi economici da tutelare: forniva i suoi vassalli di terreni come ricompensa della loro fedeltà e veniva a patto con i loro per non essere contestato o cacciato. Le città dovettero cercare un equilibrio tra forze sociali diverse, costrette a cooperare nonostante i conflitti divisori. Le famiglie di tradizione militare, legate al vescovo trovavano nel servizio feudale uno sbocco politico ed economico necessario per mantenere il prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad ampliare la propria potenza privata con frequenti usurpazioni di terreni di proprietà vescovile: i conflitti interni mediati dal vescovo contrassegnarono per lungo tempo la vita interna delle città italiane. Nelle città si muovevano gruppi sociali diversi in grado di condizionare il governo del publicum (la sfera pubblica e collettiva della vita dei cittadini). E anzi questo publicum si configurava come un coacervo di alleanze e di cooperazioni forzate fra il vescovo, i suoi milites e i cives, un insieme ancora indeterminato di abitanti politicamente attivi. In molte realtà urbane, per esempio i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di ricchezza e di mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da: giudici, avvocati notai, grandi mercanti impegnati nell’amministrazione cittadina. Si tratta di un nucleo di persone centrale per la costruzione delle istituzioni cittadine, vista la loro funzione di fornire regole di funzionamento, inquadramenti culturali dell'azione di controllo degli uomini, assistenza nelle questioni giudiziarie. Al ceto dei giudici si affacciano mercanti, cambiatori, prestatori di denaro, in cerca di un ruolo politico più attivo. Al di sotto, si trovavano tutti gli abitanti senza particolari qualifiche, soggetti al potere del vescovo, esposti alle angherie dei suoi vassalli, ma capaci di farsi sentire come “corpo collettivo” nelle assemblee pubbliche. Il vescovo come raccordo. Nei momenti di conflitto, era il presule a risolvere le liti e a imporre la pace, spesso con un giuramento collettivo che impegnava tutti gli abitanti al rispetto della tregua. Esisteva dunque un’entità istituzionale collettiva di “buoni cives” che agiva sotto la protezione del vescovo, e che minacciava la scomunica religiosa e civile contro i malfattori. Es. Quando a Pisa scoppiò una lotta tra le famiglie dell'aristocrazia urbana per la conquista di alcuni lotti di terra, fu il vescovo a imporre una tregua, vietando di innalzare torri oltre una certa misura, lasciando però ad un consiglio di comune della città il potere di decidere delle controversie nate in seguito all'accordo. Esisteva un'entità istituzionale di buoni cives che agiva sotto la protezione del vescovo, una cooperazione di forze sociali diverse. La struttura politica della città, come luogo di convivenza di una popolazione ordinata, aveva preso forma. Il consolato: origine e funzioni. Le città, nel corso del IX secolo, mentre crescevano per numero di abitanti, attività economiche , rilievo culturale importanza delle decisioni politiche prese nelle assemblee e nel palazzo episcopale, divennero centri decisionali che regolavano sempre di più la vita delle persone, anche nel contado. Proprio l’aumento delle funzioni di coordinamento economico e politico spinse i vescovi e le élite urbane a creare una nuova istituzione che si occupasse specificatamente del governo urbano. Fra il 1090 e il 1120 circa, compaiono in quasi tutte le città italiane dei magistrati chiamati “consoli”. Il consolato medievale era formato da un numero variabile di membri, da quattro a sei, che si riunivano in genere nel palazzo del vescovo, a sottolineare una dipendenza di fatto dal potere episcopale almeno nella fase iniziale. Provenivano spesso da famiglie di suoi vassalli, della media e alta aristocrazia urbana, con l’apporto determinante dei giudici: un'origine sociale che influenzò a lungo le scelte di governo, spinte verso a difesa delle classi alte. Tuttavia delle somiglianze con il modello antico rimanevano, come la durata annuale della carica; e soprattutto il carattere “elettivo” della nomina. I consoli erano “eletti”, cioè scelti, da un organo collettivo della città, l’assemblea generale dei cives, detta concio, che li investiva del potere di governo. Il consiglio cittadino. Per coinvolgere le forze sociali più attive nella vita politica delle città lo si creò, formato da un centinaio di persone, in grado di affiancare i consoli nelle scelte più importanti. Lentamente prese piede nei comuni italiani una politica di tipo “parlamentare”: in consiglio di potevano avanzare richiese, discutere le decisioni, contestare l'operato dei consoli ed eleggerne di nuovi. Sempre più spesso i consoli si garantivano facendo approvare i propri atti dalla “maggioranza” del consiglio. Il principio di maggioranza entrò così nella politica nel comune italiano. Il patto giurato con la città. Era questo fondamento della “libertà delle città italiane: l’autonomia di scelta dei propri governanti e le decisioni politiche legittimate dalla maggioranza di un’assemblea cittadina eletta dagli stessi cives. Fra i cittadini e le istituzioni si stabiliva un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco dei consoli verso la civitas e dei cives verso i consoli, un patto di natura pubblica (detto “breve”) che legittimava i nuovi magistrati ad agire come rappresentanti ufficiali della comunità, imporre ordine delle relazioni sociali garantito da strumenti coercitivi (es. bando) e regolare la vita economica della città. Una città consapevole della sua struttura istituzionale e che un governo pubblico doveva avere un surplus di potere da contrapporre a forze ostili. Il termine “comune”.Solo nei decenni finali del secolo XII abbiamo la comparsa della parola “comune”. Dall'aggettivo “di tutti” assunse una connotazione politica che lo rese sostantivo “ciò che è comune”. Al comune si può applicare il linguaggio della res publica, dello Stato, perché si tratta effettivamente di un’istituzione distinta dagli uomini, un frutto dell’esigenza di autonomia espressa dalle città italiane nella seconda metà del XII secolo. Il governo della città aveva una direzione di sviluppo, ascensionale connaturato alla forma politica connaturale: si può parlare di “beni del comune”, onore, utilità, salvezza, incremento. - 2. Le funzioni di governo: giustizia, economica e controllo del territorio Tra fine XII e inizio III secolo le città italiane affrontarono sfide importanti: aumento demografico, con correnti migratorie che portavano in città persone di vari livelli sociali; l’ampliamento delle zone abitate, con la creazione dei sobborghi, i nuovi quartieri poco fuori la prima antica cinta muraria: l’inserimento sociale dei nuovi arrivati, da integrare giuridicamente e politicamente; la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione politica e di riformulare le istituzioni comunali secondo differenti equilibri sociali. La necessità della giustizia pubblica. La crescita economica e politica delle città portava inevitabilmente con sé nuove tensioni, mettendo in pericolo la sopravvivenza del giovane organismo comunale. Ben presto la giustizia divenne una funzione prioritaria della nuova magistratura, e per molti storici il vero inizio del comune come istituzione va individuato proprio nell’atto di nascita di tribunali cittadini. Si instaurarono delle corti comunali, ove era possibile presentare lamentele e ottenere giustizia dopo un processo, mentre gli atti di vendetta furono considerati reato. Chi rompeva la pace pubblica veniva bandito e la sua casa abbattuta, come simbolico sradicamento della violenza dalla città. La giustizia aveva però anche altre funzioni: es. contenere la conflittualità sui beni, far accedere i deboli ad un tribunale terzo in caso di dispute contro signori potenti, e, rendendo pubblica una lite, evitava la riproduzione di atti violenti. Non sempre si arrivava ad una sentenza, tanto che il processo serviva più come mezzo per continuare la lite con altri sistemi che come soluzione reale. Eppure la giustizia pubblica, proprio per questa capacità di sospendere i conflitti e farli procedere su altri binari (che evitavano un confronto diretto) divenne una funzione necessaria al mantenimento della vita associata e del comune come ente collettivo. La fiscalità. Il comune e la città avevano bisogno continuo di finanziamenti, di entrate garantite da un costante afflusso di denaro da parte dei cives. Bisognava convincere i cittadini a pagare le tasse senza dar loro l’impressione di essere soggetti o sudditi di un potere dispotico. Le imposte in città erano sempre straordinarie, a differenza del contado dove erano ordinarie, ovvero raccolte ogni anno come segno di dipendenza dalla città. Pagare da liberi era un privilegio, ma i pagamenti dovevano essere presentati come necessaria contribuzione di tutti alle urgenze del momento o alla “salvezza della patria”, come si legge nei documenti fiscali del secolo XII e XIII in caso di guerra. Essere cives era anche un dovere, liberamente assunto nel momento in cui si voleva abitare in città; e la traduzione materiale di questo dovere era appunto la contribuzione volontaria, ma allo stesso tempo doverosa, alla necessità finanziarie del comune. Strade, edifici pubblici, e soprattutto le mura assorbirono così gran parte delle entrate, legando Milano vi entrarono (Cremona, Como, Lodi, Bergamo) insieme a storiche alleate (Brescia, Piacenza, Bologna). La Lega era governata dai rettori, eletti da tutte le città; aveva un tribunale proprio per risolvere le controversie fra i comuni: coordinava sul piano militare le azioni delle singole città, spostando eserciti e aiutando i membri in difficoltà. La Lega diffuse anche fra tutti i comuni alleati un modello unico di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di pertinenza del comune intoccabile da parte di altre città. L’alleanza con il papa Alessandro III (in suo onore fu fondata la città di Alessandria nel 1167), rafforzò la natura ideologica della Lega, che diventava il baluardo della “libertà” delle città italiane contro il tiranno Barbarossa. Sul piano militare Federico aveva risorse limitate: ad ogni spedizione militare, doveva convincere i principi tedeschi a fornire uomini per l’esercito imperiale e non sempre questi erano disposti a concederli. Le città italiane alleate poi, erano poco affidabili: in cambio del loro aiuto, chiedevano all’imperatore in contraccambio sempre nuovi privilegi. Da Legnano a Costanza. In un momento di stanchezza avvenne nel 1176 lo scontro di Legnano in cui i comuni lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito imperiale. Fu una vittoria formidabile sul piano della propaganda politica. Aiutati anche dalla Chiesa di Roma, i comuni usarono Legnano come sanzione divina della loro giusta lotta contro il tiranno. La parola “Libertà” divenne il manifesto di questa rappresentazione e per la prima volta assunse il significato politico di “non dipendenza dall’imperatore”. Ma prevalse la diplomazia, e nel 1177 il papa riuscì a strappare all’imperatore una tregua di cinque anni (pace di Venezia) e allo scadere del termine, nel 1183, si raggiunse una concordia definitiva tra l'Impero e le città, a Costanza. La pace di Costanza. Federico Barbarossa la intendeva come una “grazia imperiale”, un atto di generosità con cui consentiva alle città di continuare a godere dei diritti pubblici (sempre di origine regia), dopo una formale concessione imperiale. Le città ne fecero la loro “carta costituzionale”, una sorta di riconoscimento “di fatto” delle istituzioni consolari come forma di autogoverno delle città. Da allora le istituzioni comunali non furono più messe in discussione e Federico, dopo il 1183, pose fine alle guerre d’Italia. L'imperatore si dedicò a imprese guerresche più gloriose, come la crociata e la liberazione di Gerusalemme (riconquistata da Saladino nel 1187). Partì nel 1188 e trovò morte attraversando il fiume Salef. Si creò un mito di lunghissima durata sul suo ritorno futuro per combattere la battaglia finale contro il Male. L'idea di Impero non era tramontata, anzi si rivelò ancora utile per inquadrare gli sviluppi delle città italiane nei decenni seguenti. I costi della pace: nuovi tensioni. La fine del periodo imperiale, che aveva permesso ai comuni di superare un lungo periodo di tensione, fece emerger nuovi conflitti politici e sociali. Gli anni della guerra avevano richiesto un grande sforzo in termini economici ma anche in termini di impegno personale. Il grosso degli eserciti comunali era composto di pedites, soldati appiedati senza cavallo, vale a dire di normali cittadini che lasciavano la propria attività per combattere sotto il comando di una cavalleria aristocratica spesso infida e dispotica. La partecipazione all’esercito rendeva invece visibile a tutti la propria “appartenenza alla città”, e allo stesso tempo rendeva insopportabile l’esclusione dal governo sancita di fatto dal ceto consolare al potere. Perché dopo aver combattuto per il comune, non si poteva aver voce sui destini della città? Si aprì così una competizione violentissima, aggravata dall'ormai palese inadeguatezza del regime consolare, dominato da una ristretta e litigiosa oligarchia di famiglie. Da qui iniziò la ricerca di nuove soluzioni. - 4. L'affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di Popolo Le famiglie aristocratiche che dominavano il consolato pretendevano di comandare quasi per diritto, in base a una prerogativa tipica del sistema signorile che legava il potere politico alla detenzione della forza militare. Tuttavia, dopo le guerre federiciane, il collegamento fra “potere politico” e “forza” fu apertamente contestato dalla cittadinanza non nobile. Tra gli ultimi anni del secolo XII e i primi del Duecento in quasi tutte le città scoppiarono disordini violenti, con interi quartieri (in genere quelli nuovi, abitati da immigrati recenti, piccoli medi artigiani) che si ribellavano all’iniqua ripartizione delle tasse imposte dai consoli in occasione di costose imprese militari. Si contestava la ristrettezza del ceto dirigente che prendeva le decisioni per tutti, la sua sordità alle richieste di giustizia sociale e anche la prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare agli interessi della città. I milites ricevevano dal comune un cospicuo risarcimento per le perdite subite in battaglia, e quindi erano due volte avvantaggiati sul piano fiscale: erano esenti dalla maggior parte delle imposte e in più accaparravano una parte delle entrate grazie al risarcimento dei danni. La formazione di società di Popolo. Fu chiaro ai cittadini che se non si entrava di prepotenza nel consiglio della città, non si potevano cambiare le regole del gioco. Si organizzarono nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non nobili, le societates. In primo luogo sorsero le società rionali, o “società di armi”, che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. In un secondo momento si aggiunsero le società di mestiere, o “corporazioni di Arti”, più complesse nella loro composizione mista artigianale e mercantile. In una fase iniziale prevalse uno spirito unitario e federativo. Le società avevano inizialmente uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma col tempo si diedero una struttura comune, coordinata, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario chiamato “Popolo” (che non indica quindi popolazione, Popolo come se fosse un partito), una vera istituzione pubblica che si affiancava al comune come ente esterno e interno allo stesso tempo. Il Popolo cercò di cambiare il comune secondo i propri indirizzi di governo. Le richieste del Popolo. Le società avanzarono richieste di natura politica come: riservare ai membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili (che non pagavano tasse pubbliche), impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e soprattutto assicurare una pace interna della città. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare fu incapace di superare le divisioni interne e soddisfare le richieste di apertura. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città. Questo il programma dei movimenti di Popolo tra gli anni Venti e trenta del Duecento. Il sistema consolare si rivelò incapace di superare divisioni interne e soddisfare le richieste di apertura all'esterno. Alcune città presero atto della crisi e cercarono soluzioni alternative. Il nuovo sistema istituzionale: il regime del podestà forestiero. Una fu di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città: questo magistrato fu chiamato podestà. Era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città: potere politico, giustizia, direzione economica, comando degli eserciti cittadini. Prima si nominarono potestà locali, esponenti della nobiltà urbana che però fecero aumentare le rivalità interne. Si decise di chiamare come podestà delle personalità “esterne” alla città, provenienti da altri comuni, sempre in carica un anno, e con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo seguito (la “famiglia” del potestà). Il podestà forestiero dava maggiori garanzie di imparzialità rispetto alle lotte interne, non creava poteri personali, e con la sua sola esistenza, toglieva alle forze politiche cittadine un motivo di scontro: se il potere esecutivo era in mano ad ufficiale forestiero, non si poteva più litigare su chi doveva ricoprire le cariche di governo, casomai su cosa fare e come farlo. Nel giro di qualche decennio, fra 1190 e 1220, le città passarono dal regime dei consoli al governo del podestà forestiero, con istituzioni simili e problemi comuni. Il podestà doveva intervenire per sanare le discordie, mediare i conflitti, assicurare gli scambi, difendere il comune dagli attacchi esterni, guidare l'attività dibattimentale dei consigli e amministrare la giustizia. Molti si specializzarono nella politica itinerante e ricoprirono la carica in diversi comuni per anche quindici anni di seguito, talvolta seguiti dai figli che continuarono a ricoprire magistrature forestiere. Una politica per il comune. Il podestariato era divenuto, per molti, una vera professione, la prima di carattere squisitamente politico che il medioevo ricordi. Furono scritti i “libri del governo della città”, specifici per istruire il podestà sui possibili modi di parlare, presentarsi al pubblico, formulare proposte, tenere discorsi. L'arte di reggere la città divenne parte del sapere universale sotto il titolo di politica. Curiosità a pag. 310. La centralità del consiglio. La legge era creata dagli stessi cives, nei consigli, che sotto il regime podestarile assunsero un’importanza molto maggiore che nel periodo precedente. Per compensare il potere dato nelle mani del magistrato forestiero, il consiglio comunale divenne il cuore politico del comune, non solo perché doveva eleggere il podestà e approvare le sue decisioni, ma perché al suo interno si prendevano le scelte principali per la vita politica ed economica della città. Il podestà proponeva gli argomenti dei quali discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta (“posta) e decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza, palese (per alzata e seduta) o segreta per tutelare la libertà di scelta dei singoli. I voti erano espressi con delle palle o fave che ogni consigliere depositava in una sacca al momento del voto. Esempio di Bologna a Pagina 310. Il principio di maggioranza, “una testa, un voto”, suonava come rivoluzionario alle orecchie del ceto nobiliare e apriva le porte a un modo di far politica completamente diverso, fatto di programmi politici complessi, che tenessero conto degli interessi generali o di gruppi sociali consistenti, per essere approvati nel consiglio. L’intero sistema sembrava girare intorno a questo rapporto bilanciato fra podestà e organi consiliari: il podestà guidava la politica cittadina, ma il consiglio disponeva le cose da fare. Il ruolo di comando del singolo fu equilibrato dal “potere dei molti”, in un sistema istituzione di grande spessore ideologico. Nuovi soggetti, nuovi abitanti. Trovare una sintesi generali, causa l'aumento degli abitanti, era diventato difficile. Città di media grandezza, come Perugia, Siena, Pisa si aggiravano attorno ai 25000 abitanti. Bologna toccò i 50000 nella seconda metà del XIII secolo, Milano e Firenze superarono gli 80000. Molti erano i nuovi abitanti immigrati, e la società urbana fu scosso dal flusso di migrazione impetuoso, rendendo necessario trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. Alcuni divennero lavoratori salariati, alle dipendenze dei maestri, altri divennero artigiani in proprio. Lo sviluppo delle corporazioni. Il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico, sia su quello politico. Le corporazioni (raggruppavano lavoratori dello stesso ramo) contavano diverse migliaia di membri: a Bologna, su 50000 abitanti, gli iscritti alle Arti erano 12000, ovvero quasi tutti i maschi adulti. Iscriversi alle Arti era diventato dunque molto importante per i cittadini del XIII secolo. In primo luogo per un motivo economico: le corporazioni controllavano il lavoro e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti quindi, per aprire un'attività, bisognava essere iscritti all'arte.. La seconda ragione era di natura politica: il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato enorme-mente nella seconda metà del Duecento. I consoli delle Arti erano confluiti in un consiglio unitario detto del Popolo che prendeva decisioni importanti per tutta la città. In molti comuni, alla fine del Duecento, fu liberalizzata l'iscrizione alle Arti: non era necessario esercitare un mestiere, ma solo avere l'intenzione di appartenere a quella società e avere sufficienti conoscenze per essere accettati. Il passaggio a società pienamente politiche, non più o solo corporative, era dunque compiuto. - 5. Il governo delle corporazioni nel Duecento Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo della città in nome di una nuova idea di comunità, fondata su giusta divisione delle spese pubbliche e pace sociale. Inizialmente, il Popolo duplicò le istituzioni comunali, affiancando al podestà e al consiglio del comune, un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo, chiamato il Capitano del Popolo, che guidava il Consiglio del popolo; poi, ove prevalse, tra 1270 e 80, instaurò un governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. A Bologna gli Anziani, a Siena i Nove: nomi diversi per esperienze simili, un governo collegiale formato dal podestà, dal capitano, da due consigli, dal comune e dal Popolo, coordinati dai rappresentanti delle Arti. Giunto il popolo al potere, si formarono al suo interno gruppi egemoni che influenzarono l'indirizzo di fondo della politica comunale nelle singole città. Esempi a Pagina 314. Il processo di razionalizzazione delle pratiche di governo subì una brusca accelerazione. In tutte le città furono create liste generali di appartenenza “qualificata” alla città. Si censirono, in primo luogo, i residenti. Quindi i contribuenti, distribuiti prima in liste fiscali di soggetti al fodro, l’antica tassa pubblica di matrice regia, e poi in estimi più moderni, con una valutazione reale della ricchezza individuale. Alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito un valore totale che rappresentava la cifra di estimo dei quel civis, sintesi della sua ricchezza. La tassazione proporzionale. Si pagavano le tasse in proporzione alla ricchezza reale, come nei decenni precedenti aveva richiesto il Popolo. Su un piano ideologico per la prima volta si intaccavano i patrimoni più ricchi; sul piano pratico le cose andarono in maniera diversa. I capitani mobili sfuggivano all’estimo; gli sconti per i crediti non pagarti erano concessi con generosità; e infine dare soldi al comune non era avvertito come una perdita di capitale, ma come un investimento. Molte famiglie i banchieri e mercanti trovarono vantaggioso prestare al comune e mostrarsi generosi benefattori della comunità. Gli estimi. In base a questi elenchi generali che delimitavano la cittadinanza (residenti e contribuenti) si elaborarono liste “secondarie” di appartenenti ai consigli, alle società territoriali e corporative (le matricole) e agli uffici comunali., permettendo di ricopiare i dati quando le esigenze amministrative richiedevano di isolare un gruppo particolare: chi non era iscritto all'estimo, non pagava le tasse, non si presentava al consiglio, ecc. Il presupposto di questa rivoluzione delle prassi documentarie fu il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi, ma sintetici e facilmente aggiornabili. Tutti gli aspetti delle relazioni fra cittadini e istituzioni erano immessi in strumenti contabili che misuravano l'affidabilità o meno dei singoli cives. Giustizia più severa. Anche la politica repressiva del comune si adeguò all’uso di questi mezzi più sofisticati. La giustizia divenne più severa. Fatto salvo il principio che tutti potessero recarsi al tribunale pubblico per difendere i propri domini, si concessero ai giudici poteri speciali per scoprire e punire severamente le infrazioni contro l’ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza della nobiltà militare. Inoltre si presero provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari. In città si pose un limite ai prezzi degli affitti delle case. Nel contado, la necessità di assicurare il rifornimento di grano per le città spinse quasi tutti i comuni a vietare di esportare grano fuori dal contado o ammassare frumento nei periodi di carestia per far aumentare il prezzo. Controllo del contado. Il contado fu oggetto di una profonda ristrutturazione nelle sue articolazioni amministrative. Fino alla prima metà del Duecento, tentativo di creare un territorio fedele aveva portato a pattuizioni, acquisti, alleanze di varia natura, capaci di coordinare una pluralità di villaggi e persone. Negli ultimi decenni del Duecento le pretese delle città comunali aumentarono: divisero il territorio per zone amministrative corrispondenti a prolungamenti dei quartieri cittadini; al loro interno, queste partizioni furono suddivise a loro volta in aree minori, affidate a un ufficiale cittadino, il vicario o il podestà, responsabile della condotta degli abitanti. I castelli furono controllati da contingenti militari di provenienza urbana. Si impose alle comunità del contado una serie di doveri fiscali e annonari che scaricavano sui comitatini una parte rilevante del costo del mantenimento della città e della sua popolazione in crescita. Liste di villaggi con la quota di grano da assicurare alla città di sommarono agli estimi del contado, che definivano una quota fissa di tasse per i villaggi in base ad un conteggio ipotetico degli abitanti: un criterio che non teneva conto dei processi di mobilità e spopolamento dei centri del territorio, costretti a pagare sempre e comunque la stessa cifra. Anche la disciplina sull'accoglimento dei comitatini in città si irrigidì, con provvedimenti di chiusura verso gli immigrati rurali meno integrabili nel tessuto urbano. Una legittimità maggiore. Nonostante le tensioni, il comune di Popolo ricercava una “legittimità” più alta del regime podestarile: una legittimità fondata sulla disciplina (riconoscimento del regime esistente e controllo delle condizioni individuali), e su reale compartecipazione agli interessi collettivi raggiunta attraverso un sistema di rappresentanze a catena che mettevano in contatto i membri delle associazioni di mestiere con gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali. I meccanismi elettivi delle corporazioni moltiplicarono i rappresentanti delle singole società in piccoli consigli societari, che a loro volta eleggevano i Priori o gli Anziani. Così come molti provvedimenti esaminati nei consigli maggiori del Popolo erano impulsi dalle società di Arti. I
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