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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 1, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 1 – Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 1 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 1 – Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378) (Pag. 326-347) La costruzione dottrinale e pastorale elaborata nei 150 anni successivi alla riforma su sistematizzata all'inizio del Duecento, sotto Innocenzo III, in un concilio ecumenico (cui parteciparono tutti i vescovi) tenuto nel 1215 a Roma, in Laterano. Il concilio lateranense IV disciplinava a rinnovava procedura giudiziaria interna alla Chiesa, lotta agli eretici, pratiche pastorali da seguire nelle diocesi, inquadrando queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato sulla figura del papa come guida spirituale e politica all'interno della Chiesa. Nel tardo Duecento presero forma anche nuove teorie teocratiche, che attribuivano al pontefice poteri superiori di giudice e legislatore: il papa prendeva sempre le decisioni giuste, emanava leggi valide per tutti e poteva derogare da quelle stesse leggi grazie all'autorità di dispensare dalla loro osservanza. Il concilio lateranense IV promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei primi anni del Duecento. Soprattutto ai due principali ordini mendicanti, i predicatori, fondati da Domenico di Caleruega, e i minori, seguaci di Francesco d'Assisi (chiamati dopo domenicani e francescani). Con il loro esempio, conquistarono un ruolo di guida delle coscienze delle popolazioni urbani come predicatori e confessori, e si posero come mediatori fra le istanze di ordine della Chiesa e le domande dei laici di una partecipazione attiva alla vita religiosa. Come inquisitori esercitarono una funzione di polizia, ma questo rientrava nei loro compiti di difensori della fede e devoti servitori del papa di Roma. L'eresia divenne un campo di forti tensioni nel mondo politico-religioso del tardo medioevo. Il reato di eresia fu sempre più applicato alla politica: l'infedeltà politica di venne anche religiosa, la ribellione si confuse con l'eresia in un unico reato di lesa maestà che richiedeva un intervento eccezionale del potere religioso e civile. Però il papato del secolo XIV entrò in una crisi politica senza precedenti. Prima lo scontro tra Bonifacio VIII ed il re di Francia del 1303, culminato con un processo per eresia intentato contro il papa ormai defunto; poi l'abbandono di Roma e il trasferimento del papato ad Avignone dal 1307 al 1378. infine, dopo il primo tentativo di riportare la sede a Roma nel 1378, uno scisma tra papa romano e antipapa francese che divise l'Europa in due per cinquant'anni. L'inquadramento politico dei regni europei non accettava più inquadramenti dall'alto, neanche sul piano religioso, proprio la lotta tra papi romani e francesi mise in luce il carattere nazionale delle chiese che sempre più ubbidivano a logiche locali nelle loro scelte. Il controllo delle istituzioni ecclesiastiche era condiviso ormai con il re e la vita religiosa era anche affare di Stato. - 1. La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Il concilio lateranense IV riassumeva una stagione di riforme e innovazioni istituzionali che riguardavano in primis il governo della Chiesa. Sotto la guida autoritaria di Innocenzo III, fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa. Fu resa obbligatoria la scrittura degli atti giudiziari, in modo da rendere la giustizia più razionale, in modo da dimostrare la verità delle scelte del giudice in caso di contestazione, e vietato ai chierici di usare le ordalie (prove del fuoco o dell'acqua per affermare una verità) estendendo a tutti i processi il ricorso alle testimonianze e alle prove scritte. Si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all’anno al proprio parroco e ricevere l’eucarestia a Pasqua; chi si rifiutava non poteva entrare in chiese né esservi sepolto. Anche il matrimonio doveva essere celebrato in chiesa ed erano vietati gli sposalizi fatti in segreto. Andare in chiesa divenne segno di adesione esplicita alla comunità dei fedeli, mentre diseredare era considerato atto di rifiuto che meritava l'esclusione, alle quali sono dedicate alcuni canoni di grande rilievo politico e giuridico. Tutte le posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni di una persona scomunicata: una vera “morte civile”. Il tentativo di dare forma compiuta alla struttura gerarchica di controllo impostata dal papato riformatore del secolo XI era giunto a maturazione. L'autorità del papa. Il concilio lateranense IV, fu guidato con mano ferma da Innocenzo III, aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati, con l'assemblea dei vescovi limitatasi a ratificare i documenti. Era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano nelle decisioni che riguardavano lo “Stato della Chiesa”, vale a dire il suo assetto istituzionale. Ideologia del potere. Verso la metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del pontefice si concentrarono sulla natura giuridica del potere, formalizzando la concezione di una potestà assoluta del papa. Il cambio di titolazione avvenuto sotto Innocenzo III, da vicario di san Pietro a vicario di Cristo, sottolineava infatti l’origine divina delle prerogative papali, indiscutibili da persone o istituzioni terrene. I canonisti di metà Duecento distinsero inoltre un potere ordinario del papa, che era in accordo con leggi, e un potere assoluto, vale a dire sciolto dalle leggi e superiore alle leggi stesse, che il papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della Chiesa. I teorici della supremazia papale arrivarono a sostenere anche che il papa non poteva sbagliare, era infallibile, per superare il fatto che necessità, utilità e bene collettivo erano concetti astratti che dipendevano dalla valutazione personale dei singoli pontefici. Infallibilità del papa. Era sorta per un passo del vangelo di Luca ove Cristo insorta Pietro, interpretato nel secolo XII come una prova di fiducia nella Chiesa universale che non poteva errare mai, diversamente da un uomo solo che poteva sbagliare. Nel Duecento, da Innocenzo III in avanti, si affermò un'interpretazione letterale: era proprio Pietro a non sbagliare mai, potere che si era trasmesso naturalmente ai pontefici suoi successori. La pretesa di infallibilità del papa si basava sul potere di definire i dubbi decidere delle cose in sospeso. Il canonista Ostiense aveva definito la podestà assoluta del papa, la sua superiore capacità di “definire le cose”: “il papa può fare questo per la pienezza del suo potere; non per effetto del suo potere ordinato, ma del suo potere assoluto, secondo il quale può modificare la sostanza di una cosa”. Il primato sui vescovi. Furono rafforzare le competenze dei legati pontifici, che sotto Innocenzo III divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del papa soprattutto per le questioni interne alla Chiesa (assegnazione di chiese e prebende); anzi, i canonisti, definendo il legato papale “altro papa”, sancirono la sua superiorità rispetto ai vescovi locali. Nel corso del Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l’elezione dei vescovi. Scavalcarono spesso il capitolo cattedrale e si riservarono il potere di trasferire i vescovi da una sede all'altra, sfruttando la metafora che il vescovo “era sposato con la Chiesa”, e solo il papa poteva spezzare il legame. Se poi aggiungiamo la pretesa di Clemente IV (1265) di decidere l'assegnazione dei beni delle chiese vacanti, le spinte verso la centralizzazione romana erano forti e forse eccessive. La natura e l’estensione del potere pontificio suscitarono naturalmente molte resistenze: quali leggi poteva trascendere il papa? Fin dove poteva dirsi assoluto il suo potere? E soprattutto, il papa poteva contrapporsi al concilio di tutti i vescovi? Resistenze dei vescovi: il potere del concilio. Le tensioni generate dai contrasti fra il papa e i vescovi durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica chiamata appunto “conciliarismo” che affermava la superiorità del concilio sul papa. I giuristi del Due-Trecento si divisero: alcuni sostennero che il papa non poteva decretare cose contrarie ai concili generali; altri pensavano invece che le decisioni dei concili valevano solo se approvate dall’autorità del papa. La possibilità di una spaccatura interna alla Chiesa, con una duplicazione di centri di potere in conflitto, rimaneva aperta. Ma non impedì alla curia romana di rafforzare nel tempo la propria struttura culturale e istituzionale. Autocoscienza giuridica. Il diritto della Chiesa fu profondamente rinnovato nel Duecento. Alla base del nuovo diritto furono poste proprio le lettere pontificie chiamate decretali. Scritte generalmente in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati, le numerosissime decretali pontificie assunsero un valore generale e furono raccolte in cinque collezioni (le Cinque compilazioni), che divennero presto punti di riferimento importanti per regolare la vita delle chiese. Una tappa rilevante fu la redazione di un Codice unico, che riordinò le compilazioni precedenti: il cosiddetto Liber extra, voluto da Gregorio IX e composto dal frate domenicano Raimondo di Penafort nel 1234. Raimondo tolse alla produzione di decretali papali l'esposizione dei casi particolari, lasciando solo i passaggi generali. Da un insieme di “casi” si ottenne così una serie di “regole” che disciplinavano tutte le materie di diritto canonico in armonia con le decisioni prese dai diversi pontefici e dai concili ecumenici. Rimase il testo normativo di riferimento fino al primo vero Codice di diritto canonico del 1917. La curia romana e la centralizzazione degli uffici. La curia romana cercò di articolare meglio le funzioni di governo del papato che si muoveva ormai in uno spazio d’azione di ambito europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l’afflusso delle decime da tutto il mondo cristiano; quello giudiziario, con un numero crescente di cause che giungevano a Roma per essere risolte dal papa. La presenza della giustizia era un effetto del potere del papa di decidere le cause in appello e riservarsi il diritto di procedere ex officio contro i membri della Chiesa. Il diritto di appello, stabilito da Alessandro III, aveva favorito la formazione di una giurisdizione piramidale che culminava con il papa. I cappellani del papa, prima impegnati degli affari giudiziari, furono sostituiti dagli auditori delle cause, che si spartivano i processi con i cardinali romani. La curia romana divenne così la più importante sede giudiziaria dell’Occidente medievale, la sola di natura veramente internazionale che riceveva richieste da tutte le diocesi europee. Penitenzieria e dispense. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali strumenti di governo: i peccati riservati al papa, vale a dire i peccati dai quali solo il pontefice poteva assolvere e il potere di concedere una dispensa dall’osservanza di alcune norme canoniche, per il principio che solo il legislatore che aveva fatto la legge poteva sciogliere dal rispetto della regola. Il sistema delle dispense si sviluppò rapidamente, accogliendo un numero crescente di richieste nelle materie che disciplinavano il matrimonio, la concessione di benefici e le carriere degli ecclesiastici. Fu istituito un ufficio destinato a ricoprire un ruolo centrale nella Chiesa basso medievale: la Penitenzieria, in genere affidata ad un esponente degli ordini dei mendicanti. Nel corso del XIV e XV secolo le cause provenienti dalle diocesi europee ammontarono a decine di migliaia ogni anno e rappresentavano il più grande fondo di richieste individuali dell'Europa bassomedievale. La Chiesa romana aveva maturato strumenti di governo delle proprie istituzioni, di guida spirituale e ideologica delle masse dei fedeli, di salvaguardia delle sue prerogative politiche ed economiche. Ma le sfuggiva, come è intuibile, il controllo pieno delle sensibilità religiose presenti nelle società medievali sempre più articolate e complesse sul piano sociale ed economico. - presa sulla realtà cittadina da parte dei frati, spesso provenienti dai ceti medi urbani. Una conoscenza diretta dei problemi, dei punti deboli e delle aspirazioni delle classi artigianali e mercantili, che aiutò moltissimo a impostare una nuova tipologia di predicazione per “esempi”, brevi storie edificanti che illustravano un singolo aspetto della vita religiosa dei fedeli a cui predicavano. Uso di un linguaggio piano, semplificazione dei problemi teologici, capacitò tecnica di tenere viva l'attenzione attraverso una sapiente distribuzione di emozioni, permisero ai frati di trasmettere ai fedeli modelli di comportamento eticamente positivi, correggendo e integrando i valori correnti nelle società urbane. Contro la superbia: l'uomo non basta a sé stesso. I predicatori attaccavano la ricerca di una fama solo terrena e indicavano come radice di tutti i mali la superbia, vale a dire la pretesa di decidere da soli il proprio destino, di modificare la propria condizione sociale e con tutti i mezzi, senza riguardo alla correttezza morale dei comportamenti seguiti. Come rimedio si proponevano appunto l’umiltà e la penitenza: vale a dire la necessità di riconoscere che le sorti umane dipendono a da Dio e di accettare la propria condizione sociale come parte di un disegno superiore che garantiva l'armonia della comunità. La volontà di legare la pacificazione sociale all'obbedienza alla Chiesa era spesso esplicita: la serena accettazione del proprio ruolo nella gerarchia sociale si univa alla consapevole sottomissione delle proprie azioni al giudizio degli uomini di Chiesa. La predicazione doveva spingere alla confessione e all'ammissione della propria debolezza. Confessione e controllo delle coscienze. Si predicava per spingere i fedeli a confessarsi e si confessata per essere pronti a ricevere l'eucarestia. La confessione era perciò passaggio necessario alla salvezza. Nei manuali di confessione, redatti da esponenti degli ordini mendicanti, si classificavano i peccati secondo i casi, in base a professione, status delle persone, età, disposizione a peccare. Ogni categoria sociale/mestiere aveva i suoi peccati e ogni persona poteva peccare diversamente a seconda delle circostanze. La valutazione del proprio comportamento richiedeva un'analisi delle azioni compiute, che non sempre i fedeli riuscivano a fare da soli. Riconoscere i peccati. I manuali iniziarono a presentare elenchi di peccati e comportamenti peccaminosi per aiutare i fedeli e preti a riconoscere gli errori da emendare. Il sacerdote confessore doveva sollecitare con domande appropriate i fedeli a sondare le proprie coscienze, come recita un manuale per confessori del XIV secolo: Testo a pagina 338. Il prete decideva la gravità delle colpe e l'entità della pena. La confessione diventava un piccolo processo. Nel Trecento la confessione si diffuse come pratica corrente del buon fedele come segno di consapevole sottomissione del singolo alla valutazione degli uomini di Chiesa. Il governo dell'ortodossia: i movimenti penitenziali laici. Tuttavia i laici premevano per un ampliamento delle forme di partecipazione alla vita religiosa, anche in relazione al tentativo della riforma gregoriana di limitarne la presenza nelle materie ecclesiastiche. Già però Innocenzo III aveva prospettato una di vita religiosa di laici, limitata ad un impegno di condurre una vita più vicina ai modelli monastici, non legata ad uno stato di purezza assoluta. Associazioni laicali come gli umiliati, i poveri, erano stata recuperate a approvate. Numerose erano le associazioni di penitenti che imponevano ai loro membri uno stile di vita moderato, lontano dagli eccessi, segnato da pratiche che dovevano rendere distinti dal resto dei fedeli, accusati di seguire il messaggio religioso con minore rigore. Questa funzione di vita esemplare fu approvata dalla Chiesa, sforzandosi di fornire un inquadramento istituzionale attraverso la formula delle Confraternite, che dovevano essere approvate dalla Chiesa e avere uno statuto che ne regolasse vita interna, preghiere, digiuni, rapporti tra confratelli, obbedienza verso il clero diocesano. Lo sviluppo fu tuttavia impetuoso e poco controllato dagli organi centrali. La guida delle confraternite. Questa galassia di movimenti laicali fu ricondotta, con una certa forzatura, sotto l’ala protettiva degli ordini mendicanti, in particolare dei minori. Nel 1289 papa Niccolò IV (primo proveniente dai minori) istituì un nuovo ordine religioso laicale direttamente dipendente dai minori, il terz’ordine francescano, e stabilì che i penitenti potevano essere assimilati ai francescani perché fondati da Francesco. Non era così, ma il tentativo di normalizzare queste associazioni funzionò lo stesso. Tutti gli ordini mendicanti formarono quindi dei “terz’ordini” composti dai laici e, insieme riuscirono a dare un indirizzo comune alla vita religiosa di un gran numero di abitanti delle città europee: obbedienza al vescovo, affiliazione agli ordini religiosi, attività caritativa pubblica come segno di una devozione privata di livello superiore. Parte sostanziale delle élite urbane ritenne opportuno e conveniente appartenere a una qualche associazione religiosa cittadina. Questa era la parte costruttiva dell'azione ordinatrice della Chiesa. Diversa era l'azione di controllo e contenimento delle esperienze religiose giudicate eterodosse. Il contributo degli ordini mendicanti fu in tal senso ancora più rilevate. La repressione dell'eterodossia: i mendicanti e l'Inquisizione. Nel 1254 si assiste alla piena istituzionalizzazione dell’Inquisizione, che divenne un’istituzione stabile della Chiesa romana, con il concorso degli interi ordini francescano e domenicano: i minori sono intitolati come inquisitori già nel 1227 in Francia nel nord, dimostrando come i membri dell'ordine nato dallo spirito di carità di Francesco accettassero di svolger compiti di polizia della fede e repressione come inquisitori. Innocenzo IV aveva diviso l’Italia in due province: una assegnata ai predicatori (Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria) e una ai minori (marca di Treviso e Ancona, Romagna, Toscana). L’ordine accettò la partecipazione all’ufficio con normale spirito di servizio, anche davanti all’inasprimento della procedura disposto dalla Chiesa romana. La procedura: scoprire gli eretici e i loro seguaci. La procedura adottata dagli inquisitori era chiamata inquisitio ex officio, ma era diversa da quella che in origine era stata ideata dai pontefici per punire gli ecclesiastici immeritevoli. Nella gran parte dei casi, non era tanto la fede in un determinato credo religioso a esser punita, quanto la frequentazione del gruppo sospetto, l’adesione alla setta, l’aiuto indiretto o la semplice conoscenza. Dell’eresia importava in primo luogo la rete sociale che la sosteneva, non la dottrina. La classificazione degli eretici si ampliò, distinguendo: ribelli, che rifiutavano di convertirsi, relapsi, che tornavano al loro credo dopo essersi pentiti, fautori, che intralciavano l’Inquisizione, sospetti, che rifiutavano di giurare fedeltà alla Chiesa. Nel libro Liber Extra vi erano classificati le tipologie di fautori degli eretici, che andavano dal sodale della setta al semplice conoscente dei componenti, classificati in gerarchia che rispecchiava il grado di informazioni in loro possesso. Tutti erano possibili colpevoli e dovevano rendere conto al giudice ecclesiastico di quanto sapevano e chi conoscevano. Accusare qualcuno come eretico divenne uno stratagemma spesso necessario per sottrarsi a un processo lungo e penoso. Le inquisizioni collettive contro le comunità. Si strutturò una procedura standard: quando gli inquisitori arrivavano in un paese o in un villaggio dichiaravano un “periodo di grazia” durante il quale venivano ascoltati tutti quelli che avevano qualcosa da dire, anche se peccatori o fautori di una setta eretica. Dopo la fine di questo periodo l’inquisitore iniziava il processo contro i sospetti, le persone infamate, quelle indicate come vicine agli eretici. Esempio caso Tolosa a Pagina 340. L’accusa di eresia fu usata anche come strumento di vendetta per i conflitti di fazione interni alle comunità: eretici venivano designati soprattutto i nuovi arrivati, le persone che conducevano un'attività artigianale o di piccolo commercio, aperte verso l'esterno e spesso in conflitto con la parte dei residenti maggiormente radicata. Confessione e pentimento. Le persone indicate come eretiche, in ogni caso, venivano prelevate e interrogate singolarmente. Si trattava di una procedura semplificata: limitata capacità di difesa dei sospetti, possibilità di usare un ampio ventaglio di minacce fisiche e anche di ricorrere alla tortura in caso di presunzioni “violente. Una volta che aveva capitolato, l’imputato poteva scegliere: pentirsi o mantenere ferma la propria fede. Contrariamente a quanto hanno pensato molti storici, il fine dell’Inquisizione antiereticale non era quello di sterminare gli eretici, ma di spingere al pentimento e all'abiura. L'aspetto repressivo era importante, ma sul piano propagandistico erano più utili le conversioni miracolose, le abiure pubbliche. I pentiti venivano fatti sfilare in processioni guidate da clero e autorità civili del posto, che percorrevano il paese mostrando agli eretici ke confessavano colpe, complici. Le pene e la morte. L’eretico che ammetteva la sconfitta era sicuramente più utile dell’eretico giustiziato. Le pene per gli irriducibili erano più severe. Innocenzo IV, nella bolla Ad extirpanda del 1252, aveva inserito nella legislazione ecclesiastica un esplicito assenso alla pena di morte da infliggere agli eretici impenitenti, che dovevano essere bruciati. Era lecito anche il ricorso alla tortura, il sequestro dei beni, la distruzione delle case. L’Inquisizione dimostrava così tutta la potenza di uno strumento eccezionale dotato di mezzi eccezionali per scoprire e abbattere i nemici della Chiesa e della fede, ma anche i nemici della società. La lotta all’eresia aveva creato un nuovo ambito di potere: la difesa dell’ordine sociale come ordine istituito da Dio. Fu inevitabile che su questo si aprisse una serrata competizione con le autorità civili. - 4. L'uso politico dell'eresia: re e pontefici alla ricerca del carisma Nel corso del Duecento, la lotta all’eresia divenne un’arma politica di prim’ordine, molto ricercata anche dai poteri laici che ne abusarono quanto e più della Chiesa stessa. Federico II, dopo aver combattuto l'eresia a fianco della Chiesa (fin dal 1220), reprimendo gli eretici patarini in Sicilia ed emanando leggi contro ogni corrente eretica o dichiarata tale da un tribunale ecclesiastico. Aveva introdotto lo strumento dell’eresia nella sfera politica: contro i ribelli del regno e nei comuni italiani, non aveva esitato infatti a usare l’accusa di eresia, equiparandola al reato di lesa maestà. I comuni erano eretici in quanto ribelli, sovvertitori di una monarchia voluta da Dio, scismatici ispirati dal demonio. Eresia e politica nel Duecento. Quando però Federico ruppe violentemente con il papato e venne scomunicato dal papa durante il concilio di Lione nel 1245, si trovò improvvisamente additato come eretico e massimo nemico della Chiesa. La lotta del papato contro l’imperatore si trasformò in una crociata per la difesa della fede, che proseguì anche contro i suoi eredi, dopo la morte di Federico II nel 1250. Rimanevano potentissimi dominanti fedeli al partito imperiale dei ghibellini, e oppositori della chiesa. Il più forte capo ghibellino del momento era Ezzelino da Romano, che aveva instaurato un dominio tirannico di estrema violenza tra Padova, Treviso e Verona, che fornì alla Chiesa romana un modello di “tiranno eretico” destinato a lunga fortuna. Ezzelino, nei documenti papali che chiamavano alla crociata, non era solo protettore degli eretici: era un vero agente del demonio, una sua personificazione terrena incaricata di sterminare il genere umano. La sua pratica di uccidere i nemici e di far evirare i loro figli tendeva a impedire la moltiplicazione degli uomini, contravvenendo all’imperativo divino di pagare la vita sulla terra. La crociata convocata contro di lui e guidata dal legato pontifico era indirizzata a liberare Chiesa dai suoi persecutori. Testo a Pagina 342. Propaganda, ma lo stretto legame creato fra potere e peccato, tirannia e demonio, ci mostra che la stessa nozione di potere politici stava cambiando: grazie agli sforzi compiuti dalla cultura ecclesiastica, l’eresia era diventata un reato politico, i comportamenti dei fedeli venivano esaminati sul piano dell’ortodossia religiosa e la fedeltà politica doveva andare di pari passo con la fedeltà ai dogmi. Essendo dunque chiamato in causa il potere politico in generale, era chiaro che il papa non poteva essere l’unico a usare l’armamentario ideologico religioso costruito intorno all’eresia. Federico II, sulla scorta del diritto romano, lo aveva dimostrato: l'eresia colpiva Impero e ordine civile. E contro l'eresia potevano e dovevano intervenire i re cristiani dell'Europa medievale. Due episodi, entrambi legati alla figura del re di Francia, Filippo IV il Bello (1285-1314), devono essere ricordati come emblematici di questa nuova via di affermazione del potere regio: il conflitto con Bonifacio VIII e il processo contro i templari. Due atti che cambiarono la natura del potere regio e i suoi compiti di guida anche religiosa del regno. Lo scontro tra Bonifacio VIII e il re di Francia. Il conflitto con Bonifacio VIII verteva su due elementi fondamentali della politica pontifica: la difesa dell’immunità della Chiesa dal fisco e dalla giustizia dei re. Per due volte, Filippo IV il Bello aveva forzato la mano: la prima, imponendo una tassa al clero francese in occasione della guerra; la seconda, mettendo sotto processo un vescovo, in teoria esente dai tribunali laici. In entrambi i casi la reazione di Bonifacio VIII fu violentissima. Minacciò il re di scomunica, lo richiamò all’ordine, riaffermò in una bolla il potere assoluto del papa su tutti i prìncipi laici. La Chiesa, in quanto guida unica, aveva il potere su entrambe le spade, anche quella secolare, che doveva essere usata “a profitto della Chiesa e su ordine del sacerdote e nei limiti che egli prescrive”. Naturale quindi la subordinazione del potere temporale a quello spirituale: “una spada sia sottoposta all'altra spada e l'autorità temporale sia sottoposta a quella spirituale”. Non era la prima volta che le idee teocratiche entravano nel teatro politico europeo. Ma questa volta lo scontro verteva anche sulla capacità di esercitare un potere reale su un territorio. Bonifacio, papa nel 1294 dopo le dimissioni di Celestino V, era un papa potenze, spregiudicato nel governo della Chiesa e violento nel rapporto con i poteri laici. Ma le lunghe lotte con la famiglia dei Colonna, contrapposta alla sua dei Caetani e le resistenze dei comuni allo Stato della Chiesa, nonché una fronda di cardinali suoi oppositori in tutta Europa erano i suoi punti deboli. Filippo il Bello usò lo scontro per affermare una reale indipendenza del re di Francia da poteri superiori. Di più: accusando Bonifacio di essere un pontefice eletto illegalmente, si ergeva a vero protettore della Chiesa contro gli abusi di un papa indegno. Filippo inviò in Italia il suo cancellerie Guglielmo di Nogaret, che fece prigioniero Bonifacio ad Anagni costringendolo a non pubblicare la bolla di scomunica contro il re. Dopo un mese, nel giugno del 1303, Bonifacio morì, e si aprì una delle più importanti crisi del pontificato medievale. La reazione del re di Francia: il processo contro Bonifacio. Venne aperto per la prima volta nel 1301, ripreso poi nel 1308 e nel 1311. due serie di accuse imputavano al papa defunto ogni serie di nefandezze, rendendolo un papa eretico, minaccia per Chiesa e Cristianità. Le pressioni del re per una condanna furono molto forti, anche se la curia, che pure aveva accettato il processo per eresia, rimaneva prudente. Il processo a Bonifacio si intrecciava tuttavia con un’altra causa celebre intentata dal re di Francia, contro i templari. Entrambi i processi condotti dal re andavano a detrimento della curia pontifica ”esiliata” dal 1309 ad Avignone. Il processo contro i templari. Filippo aveva bisogno di denaro, ma i templari, che custodivano il tesoro regio, gli negarono dei prestiti ingenti. Non si sa se fu questo rifiuto o l’idea di impossessarsi degli enormi possessi dell’ordine a spingere il re (e i suoi giuristi) a preparare un’offensiva giudiziaria senza precedenti contro un ordine religioso. La mattina del 7 ottobre, con un ordine impartito in tutto il regno, Filippo fece arrestare i generali dell’ordine e tutti i templari del regno. I numerosi capi d'imputazione giravano ancora intorno al nesso tra eresia, culto demoniaco e condotte sessuali illecite, come per Bonifacio. Testo a Pagina 344. Davanti a questo atto che “esula dai limiti della natura”, il re doveva agire perché investito da Dio della funzione di protettore della fede. I templari eretici erano contro la natura, nemici del patto sociale tra gli uomini, e attentavano all'ordine del mondo. Questo ordine doveva essere difeso dal re, davanti a un papa “dormiente” che non reagiva. Ecco forse la più chiara formulazione della presa in carico da parte di un’autorità laica del compito di difendere la fede. Lesa maestà e stregoneria. In pochi anni il reato di stregoneria, di patti segreti con il demonio, uniti a comportamenti sessualmente illeciti come la sodomia, divenne un modulo di accusa molto usato nei casi di opposizione politica e di lesa maestà. La gravità dell'attacco sferrato da queste forze del male restituiva però i contorni della maestà da difendere: il rovesciamento della fede comportava un rovesciamento dell'ordine naturale delle cose e dei regni. L’autorità politica si presentava dunque come la protettrice dell’ordine del mondo voluto da Dio. Per questa via, il re ed il papa procedettero per un certo tempo in parallelo. Nel 1314 Filippo il Bello accusò il vescovo Guichard di Troyes di aver provocato la morte della regina con una statuetta di cera; nel 1315 il consigliere di corte fu impiccato per aver attentato alla salute del re Luigi X. Esempi processi per stregoneria a pagina 345. La Chiesa e i regni. I processi lanciati da Giovanni XXIII tra il 1315 e 1320 erano i segni evidenti di un papato sotto attacco: confinato ad Avignone da un decennio, il papato doveva governare la cristianità da una città piccola, lontana dall’Italia e sotto l’influenza diretta, se non proprio il controllo, del re di Francia. Eppure il lungo settantennio avignonese rappresentò per la chiesa un momento di forte sviluppo delle pratiche
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