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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 2, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 2 – La costruzione dello spazio politico dei regni europei

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 2 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 2 – La costruzione dello spazio politico dei regni europei (Pag. 348-373) Nel corso del XIV secolo, le società europee furono inquadrate in strutture regie più ampie e definite. Francia ed Inghilterra consolidarono i governi monarchici su gran parte dei territori soggetti. I regni spagnoli iniziarono ad ordinarsi intorno ad un'egemonia della Castiglia. Presero forma dei nuovi regni in est Europa, prima assorbiti nella galassia imperiale tedesca: Boemia, Ungheria, Polonia estesero la forma monarchica nella regione danubiana, creando le basi di un sistema geopolitico ai confini orientali dell'Europa. Nelle regioni scandinave la natura regia dei poteri territoriali si rese più chiara in Danimarca, Norvegia, Svezia. Alla fine del XV secolo i regno coprivano buona parte del territorio europeo. Sembrava un mondo avviato verso un percorso di unificazione nazionale degli stati, visto dalle corte centrali. Non si trattò però di un vero trionfo della forma monarchica/affermazione della figura di re come sovrano assoluto di uno stato-nazione. La vitalità del particolarismo delle signorie locali sfruttavano i vantaggi dell'inserimento nella corte centrale del re, senza però rinunciare alle prerogative sui lori territori. La durata dei legami feudali condizionarono ancora per gran parte del Trecento i rapporti tra re e grandi del regno. La capacità di resistenza di comunità locali e città resistevano contro le richieste finanziarie del re. L'esistenza di regioni che identificavano nel paese un luogo di appartenenza più vicino a rilevante rispetto al regno. Si tende a dare maggiori peso a quelle regioni che componevano gli Stati conservando una fisionomia politica, anche nei regni più accentrati. Davanti alle richieste di un'autorità esterna, le società regionali si presentarono come istituzioni, sotto forma di assemblee, parlamenti, stati provinciali, diete. La caratteristica maggiore dello Stato moderno non fu l'imposizione di un potere assoluto, ma l'integrazione di entità ragionali autonome in un regno mobile, basato anche sull'ascolto dei propri sudditi. - 1. La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia ed Inghilterra È impossibile affrontare un esame analitico delle vicende dei singoli regni europei. Nessuna evoluzione lineare è riscontrabile nel corso dei due secoli in esame, segnati da un numero di eventi capaci di mutare continuamente il quadro istituzionale dei regni. La crisi della monarchia Se un dato comune emerge da queste sequenze di eventi, è proprio la diffusa tensione contro la forma monarchia, attaccata su tutti fronti: sui criteri di successione, sui poteri da esercitare, sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai come nel XV secolo, l’esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita secondo le necessità del momento, con paesi divisi e ricomposti in pochi anni, assetti territoriali ancora legati alla casualità degli eventi. Una rete di eventi dinastici si sovrapponeva ad una geografia politica dei regni in maniera disordinata ed artificiale. E tuttavia da queste tensioni fortissime emerge un dato di fondo: l’estrema flessibilità della forma monarchica, la sua capacità di assorbire le pressioni più violente senza spezzarsi del tutto. Le monarchie sopravvissero a dispetto dei re e si reinventarono anche grazie alla loro debolezza, alla possibilità di rimodellare veloce i sistemi di governo in caso di necessità. Si poteva affidare il regno ad un reggente, trasmetterlo ai figli od accettare l'elezione da parte dei grandi; prendere un altro re come proprio, unendo le corone di due paesi diversi; non avere alcun re e affidare il governo ad un consiglio di grandi, o averne due con fedeltà diverse. Le monarchie europee usarono tutti gli strumenti a disposizione per far fronte alle tensioni politiche e istituzionali che le minacciavano. Iniziamo dai regni di Francia ed Inghilterra, che più di altri avevano mostrato la capacità istituzionale di costruire un apparato pubblico egemonico nei loro territori. Francia. La Francia basso medievale partiva avvantaggiata nella costruzione di un regno “nazionale”. Poteva giovarsi dell’eredità di almeno due grandi sovrani che avevano segnato la storia francese nella seconda metà del Duecento: Luigi IX che governò a lungo, dal 1226 al 1270, rimanendo nella memoria collettiva come il modello di buon re; e Filippo IV il Bello, in carica fra il 1285 e il 1315. Sotto Luigi IX era cresciuta ancor di più la sfera delle competenze riservate al re, a cominciare dall’attività legislativa: il re riprese a legiferare ufficialmente, emanando ordinanze. La maggior parte erano inchieste contro gli ufficiali regi ed il loro abuso Disponendo di un'indagine imparziale, con migliaia di testimonianze contro il malgoverno locale, il re si poneva al di sopra del suo apparato amministrativo, come protettore dei sudditi ingiustamente vessati. Luigi IX fede della giustizia una virtù quasi religiosa, una dimensione etica del suo governo. Sotto Filippo il Bello le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi; la giustizia rimase strettamente nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della Chiesa. Lo scontro con Bonifacio VIII e il processo ai templari iniziato nel 1307: due episodi importanti proprio per la rilevanza politica assunta dall’affermazione di un potere sovrano superiore come difensore della fede e dell’ordine naturale del mondo. Messo sotto controllo il papa, installato ad Avignone, il re si lanciò in speculazioni finanziare, cambiando varie volte il valore della moneta ufficiale. L'esperimento fu un mezzo disastro sul piano economico, suscitando varie opposizioni verso la sua politica. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore, Luigi X. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Le carte di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa proprio le funzioni pubbliche basilari della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. La tenuta del regno era a rischio, con conseguenze gravi per la sua stessa esistenza. La crisi del regno francese nella seconda metà del Trecento. Con l’esaurirsi della dinastia capetingia (1328) e il passaggio del regno alla linea dei Valois, si riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. Fu una guerra cruciale per la Francia, non solo perché durò a lungo, prendendo il nome di guerra dei Cento anni, ma perché mise in luce le debolezze del sistema politico francese: esercito pesante e lento, scarsa capacità di mobilitazione della popolazione, sistema fiscale incapace di finanziare una guerra prolungata nel tempo, fortissima frammentazione territoriale. Già nel XII secolo le regioni atlantiche erano inglesi: parte della Borgogna, costituitasi invece come ducato dipendente dall'Impero, si rivoltò; le regioni del sud furono in parte assorbite dai re spagnoli. La Francia, nei primi decenni del Quattrocento, era piccola e accerchiata. La prima fase della guerra mise in rilievo drammaticamente la vulnerabilità dell’esercito francese, più volte battuto dagli inglesi: Crezy (1346), Poitiers (1356), e Azincourt nel 1415, dove l’esercito francese fu annientato. Nella seconda fase, gli aspetti politici prevalsero. Non era solo la presenza degli inglesi a minacciare il regno, ma una spaccatura interna all’alta aristocrazia francese che assunse una dimensione “nazionale” prima mai raggiunta. La guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni: due modelli di Stato per due regni. La guerra civile era iniziata intorno al 1392, quando si era aperto un conflitto fra due membri della corte che avevano tentato di influenzare Carlo VI, un re debole e impazzito: da un lato il duca di Borgogna Giovanni senza Paura e dall’altro il fratello del re, Luigi duca d'Orleans. Lo scontro scoppiò quando Luigi, con l’approvazione della reggente, impose una nuova tassa, subito respinta dagli altri principi. Presero allora forma due partiti: gli Armagnacchi, fedeli a Luigi d'Orleans; i Borgognoni, seguaci del duca di Borgogna, i quali riuscirono a prendere il controllo di Parigi e della Francia settentrionale. La resistenza alla politica fiscale degli Orleans divenne il filo costante della guerra civile, tanto che, quando i Borgognoni conquistarono Parigi per la seconda volta, nel 1418, come prima cosa abolirono tutte le tasse nella città. Gli orleanisti abbandonarono Parigi e la Francia settentrionale, per creare un regno itinerante nelle regioni centrali, detti regno di Bourges. Per diversi anni non si seppe così chi fosse il re di Francia. È interessante notare come il conflitto sulla tassazione pubblica fosse diventato ormai un conflitto sulla monarchia: i sostenitori del re supportavano un apparato pubblico centralizzato e potente, mentre i Borgognoni erano per un assetto politico basato su autonomia dei territori e meno esoso fiscalmente. Autonomia dal fisco si traduceva in autonomia dal re, ma anche in divisione del regno in regioni relativamente autonome. Due re per la Francia: Enrico VI (inglese) contro Carlo VII (francese). La complicazione divenne massima quando, in seguito al trattato di pace di Troyes, con il quale la Francia era riuscita a raggiungere una tregua con gli inglesi, il re d’Inghilterra Enrico V (1387-1422) sposò Caterina, la figlia del re francese Carlo VI. Non solo Carlo VI aveva esautorato l’erede legittimo, il delfino Carlo (poi VII), ma aveva eletto come suo “figlio” e successore il re inglese, investito già “della facoltà di governare ed esercitare la cosa pubblica”. Alla morte dei due re (Carlo VI e Enrico V), l’erede inglese, Enrico VI, pretese legittimamente di essere eletto re di Francia. Ancora una volta il nodo dinastico è indicatore di una debolezza strutturale dei regimi monarchici, ancorati a un sistema di alleanze matrimoniali. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti, che sostenevano l’altro figlio del re francese, Carlo VII. Due partiti due re: Borgognoni per Enrico VI, Armagnacchi per Carlo VII, il vero re francese. Politica, lotte di fazione e ideologia nazionale confluirono in un grande processo di trasformazione dello Stato francese. Giovanna d'Arco: una profetessa al servizio della Francia. Fu in questi anni, fra il 1428 e il1431, che si svolse la parabola di Giovanna d’Arco: una donna condottiera, ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII come vero re francese, guidandola nella riscossa vittoriosa contro gli inglesi e i Borgognoni invasori. Giovanna fu subito messa al servizio della propaganda regia, anche dopo il processo e la condanna a morte per stregoneria, eseguita nel 1431 dal vescovo di Rouen al servizio dai Borgognoni (Giovanna fu riabilitata nel 1456 dal legato pontificio che annullò la sentenza del 1431). Nell’ultimo ventennio la guerra con gli inglesi si rivolse a favore della Francia: una serie di campagne vittorie permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano inglese, fra il 1449 ed il 1453. La guerra si spense soprattutto per le divisioni interne che investirono l’Inghilterra: un re pazzo (Enrico VI), due partiti che si contendevano la corona, una lunga guerra civile. Il regno e i principati: nuovo centralismo sotto Luigi XI (1461-1483). Le vicende di luigi XI mostrano bene le contraddizioni dello Stato monarchico francese alla fine del Quattrocento. Ribelle al padre, esiliato nel Delfinato per quattordici anni (1447-1461), Luigi, divenuto re, cercò in vari modi di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati. Gli si contrapposero suo fratello Carlo, il duca di Borgogna, vari signori. Sotto questo strato mobilissimo di eventi politici, emergeva lentamente la costruzione istituzionale di un regno ormai radicato nelle sue funzioni di base. Le ordinanze regie sulla fiscalità, la moneta, la Chiesa, la giustizia, l’esercito e gli ufficiali pubblici e, allo stesso tempo, il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un oggettivo rafforzamento dello Stato. Tuttavia, la costruzione di uno spazio politico francese riposava ancora su alleanze dinastiche, matrimoni e sulle morti senza eredi dei principi vassalli, che assegnavano al re di Francia come tutore il principato vacante. Solo così, tra 1460 e 1490, le regioni più distanti furono attaccate al regno di Francia: Delfinato nel 1461, Angiò nel 1480, Provenza nel 1486 e Bretagna nel 1498, grazie ad un matrimonio con la politica sovra locale, che non si traduceva certo nell'adesione ad uno Stato centralizzato. Jan Hus e la divisione della Boemia. In Boemia in seguito alla predicazione di Jan Hus un sacerdote riformatore che predicava il ritorno alla vita evangelica, la libertà di predicazione e la comunione sotto le due specie (pane e vino) il regno fu di fatto diviso in due: la Dieta e la città di Praga si schierarono in difesa della riforma hussita, mentre la Moravia, sotto Sigismondo vi si oppose. Ci furono 17 anni di guerra civile senza re, con la Dieta a capo della parte ribelle. Solo nel 1436, dopo che Sigismondo di Boemia riconobbe la Chiesa hussita, si riformò l’unità del paese. Anche in Ungheria, dopo la morte di Corvino, i nobili non elessero un re autoctono, ma preferirono unirsi sotto il governo del re Ladislao II Jagellone, re di Boemia, che aveva garantito ampie autonomie locali. La formazione dello Stato Ottomano. La formazione di uno Stato potente ed esteso dall’Asia minore alle regioni balcaniche aveva condizionato moltissimo la natura ideologica e i limiti territoriali dei nuovi regni dell’Europa orientale. Nato da uno emirato presente nella penisola anatolica, lo Stato ottomano fu il risultato di un’abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi realizzata dall’élite delle tribù turcomanne installate in tutta la penisola. Conquiste di Anatolia, Tracia (bizantina), Europa sudorientale, merito di una campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi realizzata dall'élite delle tribù turcomanne installate nella penisola. Fortissima fu la spinta verso la guerra di conquista come guerra santa, e altrettanto forte la capacità di inglobare popoli e gruppi sociali diversi sotto la stessa struttura politica sovralocale. L'espansione fu inarrestabile verso la metà del trecento in avanti: stanziati vicino la capitale, Bisanzio, gli ottomani si spinsero oltre la Tracia (1345) assoggettando Macedonia, Bulgaria (Sofia nel 1385), Albania (Kosovo nel 1389), fino ad una parte del regno di Ungheria. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l’inizio di un processo di unificazione politica e religiosa di tutta la regione, con gradi diversi di dominazione e assimilazione religiosa e culturale: molto alta nella penisola anatolica e nelle regioni orientali (colonizzate in massa da tribù turcomanne), meno forte in quelle occidentali, dove le popolazioni locali pure sottomesse non furono completamente assorbite. La dominazione ottomana rappresentò per secoli un “nemico” e una minaccia che alimentava le ideologie religiose dei regni dell’est e dell’Impero (il baluardo cristiano contro l’Islam) e con minor successo una serie di sfortunate “crociate” contro i Turchi. L’Impero ottomano era uno Stato solidissimo sotto il potere assoluto del sultano, in grado di resister tranquillamente ai colpi di re europei poco saldi e di un’aristocrazia regionale in cerca di autonomia. Ma riflette anche la duplicità pragmatica dei regni europei che trattarono da subito con il sultano alleanze e accordi economici, riservando lo spirito di crociata ai momenti di crisi. - 3. Il caso italiano: gli Stati regionali dal XIV alla fine del XV secolo Nei primi anni del Trecento le regioni italiane furono soggette a un doppio processo di ricomposizione e di divisione. Da un lato vi fu la riunificazione di molteplici realtà cittadine e comunali in alcuni “Stati territoriali” maggiori, di carattere regionale. Dall’altro lato, questa pluralità di dominazioni regionali non aveva alcun coordinamento centrale superiore, visto che né l’imperatore né tanto meno il papa riuscirono mai a presentarsi come poteri unificanti, più parti in causa, elementi di una competizione politica senza tregua. In questo quadro di frammentazione relativa possiamo distinguere tre aree politico-territoriali principali: 1. I grandi Stati regionali principeschi: - il ducato di Savoia, tra il Piemonte e la Savoia; - lo Stato dei Visconti, tra Lombardia, Piemonte ed Emilia; - lo Stato estense, comprendente parti di Emilia e di Romagna con capitale Ferrara; - lo Stato della Chiesa, dai confini ancora incerti tra Lazio, Marche, Umbria e Romagna; 2. Le formazioni regionali ancora sotto regimi repubblicani: - la repubblica di Venezia con Terraferma (Veneto e Friuli); - la repubblica di Firenze, estesa su quasi tutta la Toscana dopo la conquista di Pisa nel 1406; - la repubblica di Genova. 3. Le regioni meridionali inserite nei regni: - la Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi; - il regno di Napoli sotto gli Angioni fino al 1442 e poi unito alla corona di Aragona. Si trattava di piccoli stati tendenzialmente autonomia che univano più dominazioni cittadine in una compagine nuova. Il salto riguardò dunque la trasformazione del dominio di una città in una costellazione pluricittadina. Dominazioni sperimentali. Questi dominati ebbero peraltro un’origine molto variegata, differente da una città all’altra e segnata da una sperimentalissima capacità di riadattare istituti comunali alla nuova realtà di poteri personali o familiari. La prima generazione di “signorie” cittadine erano di fatto dominazioni personali, ancora bisognose di legittimazioni dal basso (es. la delega della carica di rettore dal consiglio comunale, il prolungamento della durata delle magistrature ordinarie, podestà o capitano). La forza consisteva nell’aperta deformazione del quadro istituzionale comune; la debolezza stava invece nella necessità di ricorrere comunque a forme di legittimazione esterne al proprio potere. Questo dato contraddittorio si trovava in molte proto-signorie padane: la volontà del marchese estense a Ferrara era superiore a quella dei consigli cittadini e lo stesso statuto poteva essere modificato quando e come il signore voleva. A Verona, Cangrande della Scala poteva intervenire o prescindere dalla normativa comunale qualora le necessità del governo lo prevedessero, come fecero altre decine di signori del Trecento italiano. Eppure nessuno di loro poteva fare a meno di costruirsi una sorta di mandato: la nomina per acclamazione del consiglio o dell'assemblea plenaria dei cittadini che approvava la cessione del potere al signore; o l'uso della carica di vicario imperiale o pontificio, che poteva rafforzare, ma non giustificare, la nuova forma di governo. L'ideologia signorile fra arbitrio e legittimazione: il caso dei Visconti. Neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV secolo, quella dei Visconti a Milano, riuscì a sfuggire all’obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo. Si sottomisero con la forza o dietro una pattuizione, tutte le maggiori città lombarde (Pavia, Como, Cremona, Piacenza, Brescia, Bergamo), i principali centri urbani (Novara, Vercelli, Alessandria, Asti) e, intermittenti, anche alcuni grandi comuni emiliani, da Reggio a Modena, a Bologna. L’esperienza viscontea, insieme a quella estense, rappresenta dunque un momento centrale del riassetto politico dell’Italia signorile. I Visconti si presentavano programmaticamente come i restauratori dell’ordine, i salvatori della città dilaniata dalle lotte civili. A Cremona, che vessava in uno sotto pessimo per guerre e lotte civili non sedabili senza la potenza di Azzo Visconti. O a Como. L'immagine dell'Uno salvatore della città in lotta divenne luogo comune storiografico fino a tempo recenti. Nello statuto di Bergamo del 1331, preparato per sottomettere la città al re di Boemia, poi riadattato ai Visconti due anni dopo, il signore si presenta come colui che assicura la pace, mette da parte ineguaglianze seguendo solo giustizia ed equità. Il fine della politica non era più il bene comune, ma l'esaltazione dei signori Giovanni e Luchino Visconti, che avevano totale arbitrio di governare, giudicare e creare leggi. Un arbitrio attribuito spesso anche ai collegi ristretti delle città repubblicane, come Firenze, Perugia o Siena, ma che i Visconti usavano come estensione talmente ampia da apparire come usurpatori. Avevano la pretesa di assumere un potere di natura esplicitamente regia. Arbitrio e tirannide: Bartolo da Sassoferrato. I signori non erano “piccoli re”. Le loro pretese erano poco fondate, i loro atti di potere spesso fuori dai sistemi riconosciuti di derivazione del potere. I signori si appropriarono anche di alcuni attributi della sovranità, come la qualifica di “legge animata in terra” riservata agli imperatori. Era troppo, ma l’esagerazione dimostra quanto deboli fossero in realtà le basi di legittimazione del dominato visconteo e quanto il signore avesse bisogno di sostegni legali. Un aiuto in tal senso dalla cultura giuridica non arrivò mai. Anzi, il maggiore giurista italiano del Trecento, Bartolo da Sassoferrato, aveva respinto il principale argomento dei Visconti sostenendo che il conferimento della podestà legislativa dal popolo al signore era valido solo quando la scelta dei consigli era libera, non costretta da forza. Invece, la maggior parte delle dedizioni di città al signore, votate dalle assemblee di cittadini, era condizionata dalla presenza di armati del signore che non lasciavano molta scelta ai presenti. Per questo, secondo Bartolo, la maggioranza dei signori rimanevano comunque tiranni, un termine volutamente politico, usato con piena coscienza dal giurista in diverse opere. La costruzione dello Stato: accentramento e localismo. Un tratto comune a tutte le dominazioni territoriali va identificato nell’acquisizione per “blocchi separati” di città e territori che patteggiarono col signore modi e forme dell’entrata nel dominio. Anche lo stato visconteo, che poteva usare una lunga tradizione interventistica a Milano nelle faccende lombarde, si formò per acquisizioni successive, con contrattazioni ogni volta che si spezzava la continuità dinastica ed il signore doveva ricostruire la trama di fedeltà personali che teneva unito lo Stato. Il ducato sabaudo, che copriva gran parte del Piemonte e la Savoia (francese), più di tutti conservò l'ossatura dei territori che ne corso del secolo la formarono. Solo nel 1418 si riunì il ducato d'Acaia, che comprendeva Torino ed il Piemonte, con il ducato, radicato oltre le Alpi, in Savoia e nella Tarentaise. La formazione dello Stato della Chiesa fu incerta perché le pretese del papato su territori umbri, marchigiani e romagnoli rimasero a lungo disconosciute da signori e città interessate. Le ribellioni furono costanti, e i sistemi inviati dal papa non riuscirono a ricomporre una trama unitaria del dominio. L'assenza del papa dall'Italia (1309- 1378) ebbe la sua parte nel frenare l'unificazione. In quei decenni si formarono molte signorie autonome, come quelle dei Malatesta, dei Montefeltro, dello Sforza nella marca di Ancona. La formazione del ducato veneto era più compatta, che estendeva la dominazione veneziana in un area che comprendeva Verona, Vicenza, Padova e Treviso. Lo stato veneto rispetto la precedente struttura comunale delle città, integrando le oligarchie urbane ad un sistema di governo condiviso: l'ordine locale era affidato alle aristocrazie cittadine, dietro un controllo di un rettore veneziano che risiedeva in città come anello di collegamento con la dominante. Lo stato fiorentino, che inglobava Pistoia, Arezzo e Pisa, fu improntato su una severa ridefinizione dei contadi, staccati dalla città madre ed affidati a governatori provenienti da Firenze. Ricoprire la carica di podestà nei castelli del contado divenne un primo passo per la carriera politica fiorentina. Ma per le città soggette, questa divisione amministrativa arbitraria significò un distacco dal proprio territorio e una disarticolazione dei rapporti sociali ed economici con gli antichi contadi. Uffici centrali e controllo locale. L’ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di ufficiali locali naturalmente richiese una ristrutturazione delle corti centrali. La costruzione di una sorta di burocrazia centrale faceva progressi ovunque, dai grandi Stati ai piccoli principati. Nascevano organismi come la cancelleria principesca, i segretari, una camera dei conti che gestiva le finanze dello Stato, collegi segreti di consiglieri occupati da giuristi ed esperti del diritto. In alcuni casi i signori puntarono sulla promozione culturale, perché la presenza di un personale tecnico di estrazione borghese fornì sostegno su pratiche di governo impostate su criteri statuali, razionalizzanti l'amministrazione del principato. Qualche progresso ci fu: per la prima la fiscalità e il diritto furono armonizzati in gran parte dei luoghi del dominio, ma fu un percorso lungo. Es. nel 1355 le decisioni dei Visconti valevano per l'intero dominio, mentre prima erano applicabili solo per le città ove erano destinati. Solo nel 1295 Gian Galeazzo fu investito dall'Impero del titolo di principe e lo stato visconteo divenne ducato. Questo consentiva di superare momentaneamente il problema della legittimità, ma soprattutto di rafforzare le pretese di coordinare i poteri locali attraverso le investiture feudali. Particolarismi signorili e instabilità del dominio. La chiave di volta degli Stati signorili o principeschi (Visconti- Sforza, Este, Stato della Chiesa) rimase infatti la capacità del signore di assicurare un rapporto diretto tra il centro, in alcuni casi la corte, e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Un intelligente uso di esenzioni, privilegio patto che univa in una rete di relazioni i soggetti inseriti in un debole inquadramento statale. Il grado di autonomia delle comunità rimase molto elevato quasi ovunque in Lombardia, veneto, ducato sabaudo, Stato della Chiesa. Il governo centrale si assicurava infatti il controllo sulle decisioni politiche attraverso l’invio o la scelta di magistrati esterni di affiancare ai collegi cittadini, o in alcuni casi, ai consigli comunali che erano rimasti in vita e difendevano gelosamente le prerogative del governo urbano. I rapporti erano tormentati, ma trovò spesso forme di mutua convivenza a spartirsi pacificamente aree di potere diverse. Un conflitto di più vaste proporzioni ci fu, ma non riguardava la città e il signore, quanto la città e il suo territorio. Qui lo scontro assunse forme diverse: lamentele delle comunità locali con il signore contro l’oppressione delle città, richieste di esenzioni, suppliche di esser sottoposti solo al governo centrale e non agli avidi ufficiali cittadini. Molte comunità lombarde chiesero agli sforza di essere riconosciute autonome, provviste di “mero e misto impero” (enti sovrani): una richiesta che dimostra l'appropriazione da parte delle comunità locali di un linguaggio politico alto, con il fine esplicito di staccarsi dalla città. Legami feudali. Questo localismo esasperato dimostrava quanto ancora provvisoria e imperfetta fosse la sottomissione del contado attuata in età comunale, e quanto radicati ancora fossero i diritti particolari, sia delle comunità sia dei signori. Le numerose e sparse signorie locali, rivendicarono un’autonomia politica e giurisdizionale piena sui territori di loro pertinenza. Le numerose signorie locali rivendicarono autonomia politica e giurisdizionale sui territori di loro pertinenza, sicuri di trovare nel principe una risposta più attenta alle esigenze dei poteri territoriali di quella riservata loro dagli odiati magistrati comunali. Le attese non erano infondate. I Visconti soprattutto, ma anche i Savoia, gli Sforza e i pontefici furono generosi nel riconoscere e inserire nello Stato le signorie locali con una formale investitura feudale che rendeva palese la nuova gerarchia dei poteri pur lasciando intatto il prestigio dei signori: da un lato riconoscere poteri signorili effettivamente operanti sul territorio, che non erano in grado di contrastare; dall’altro far riconoscere a questi poteri la supremazia politica del signore. Il sistema feudale e il nuovo senso del vassallaggio, inteso come soggezione politica e non come fedeltà militare, riuscirono in qualche misura a stabilizzare le migliaia di signorie locali dei territori regionali. Le debolezze degli Stati signorili. Sembrava un sistema efficiente, in grado di comprendere tutte le realtà dello Stato con le quali impostava relazione diverse. A fare difetto, tuttavia, era proprio lo Stato centrale, il nucleo istituzionale di riferimento che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti. Non si trattava solo di una questione di legittimità ma anche di continuità del potere e di mentalità di governo. La prima rimase chimera per molti principati italiani, per la fragilità dinastica delle famiglie signorili e una connaturata incapacità di concepire la successione come elemento ordinario dello Stato, di pensare lo Stato come elemento separato dalle vicende familiari. Alla morte del principe si scatenava una selvaggia competizione per impossessarsi del titolo o parti del principato, spesso smembrato. I regni in Italia: Napoli e Sicilia. Un problema che, in teoria, non doveva toccare le regioni italiane inserite in compagini monarchiche: la Sicilia e il regno di Napoli. Le strade dei due regni si erano separate nel 1282, quando la Sicilia era passata sotto il re di Aragona, dopo una rivolta della popolazione di Palermo (Vespri siciliani) contro gli angioini. Il governo aragonese in Sicilia iniziò una politica di valorizzazione delle realtà locali, baroni e città, riempendoli di privilegi, esenzioni, compiti di autogoverno, alienando competenze all'amministrazione pubblica, ma legando allo Stato le comunità e una parte del ceto baronale. I re aragonesi aumentarono il numero di cavalieri, concessero loro un’ampia disponibilità di feudi che potevano esser liberamente venduti e trasmessi in eredità affidarono alle comunità la riscossione delle imposte dirette. Un elemento di debolezza fu la vendita di beni demaniali per aumentare le entrate. Una fase di instabilità dinastica e politica portò a un governo condiviso di quattro vicari che si spartirono l’isola favorì la nascita di centri di potere autonomo che non riconoscevano il re: un potere vicariale dal 1377 al 1392. Una crisi simile fu attraversata dal regno di Napoli sotto la dominazione angioina, quando la successione fu contesa da due rami della prolifica famiglia: il ramo degli Angiò di Provenza e quello degli Angiò - Durazzo, re d’Ungheria. Per più di sessant'anni le due corti e i due partiti di baroni meridionali si scontrarono. Guerra che si spostò con il re di Aragona, Alfonso il Magnanimo, che nel 1442 sconfisse gli Angioini e unì il regno di Napoli ai domini della corona di Aragona: Barcellona, Baleari, Sardegna, Sicilia, Regno di Napoli erano sotto la dominazione aragonese.
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