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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 3, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 3 – Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione conflittuale

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 3 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 3 – Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione conflittuale (Pag. 374-390) La definizione dell'assetto politico dei territori europei si configura come un insieme di processi intrecciati: integrazione conflittuale fra monarchie, istituzioni territoriali e forze sociali dai cui tutti i soggetti uscirono trasformati. Da un lato, la corte centrale e l'ideologia monarchica si definirono meglio sul piano culturale ed amministrativo: elaborarono una nuova ideologia regia e svilupparono un apparato burocratico in grado di estendere il controllo pubblico in modo capillare ai territori del regno. Separarono anche la figura concreta del re da quella astratta della corona: se il re moriva e potevano essere deposti, i regni, nella loro proiezione ideale come Corona, continuavano a vivere. Anche i paesi si organizzarono, eleggendo rappresentanti dei singoli luoghi, elaborando le richieste da fare al re, votando le decisioni comuni. La loro esistenza era però legata a quella del regno: per distribuzione delle risorse, contrattazione dei carichi fiscali a loro richiesti, politica estera. Le regioni dovevano essere “regioni di un regno” per contare politicamente; da qui lo sforzo di usare le assemblee rappresentative come luogo ove mediare e negoziare le richieste dei re con le esigenze locali. Nei Parlamenti e negli Stati sedevano in prima fila le forze aristocratiche più vicine al potere e interessate a trovare accordi vantaggiosi. Nonostante le assemblee funzionavano con il voto a maggioranza, valeva la regola che i voti si pesavano, non si contavano. L'aristocrazia, sempre più ordine di nobili separati dal resto della società, fecero sempre sentire il loro peso, accettando una relativa integrazione nelle strutture pubbliche. Trasformandosi in nobili del regno, si inseriva in un nuovo ordine politico che alla fine del XV secolo sembra vedere la luce: un “corpo della nazione”, con la monarchia come testa e guida delle altre componenti che in armonia dovevano svolgere le funzioni assegnate secondo una scala gerarchica; un disegno organico, immobile, ove ognuno doveva riprodurre all'infinito i comportamenti assegnati al suo stato sociale. - 1. Immagini e ideologie del re A dispetto delle discontinuità dinastiche e delle contrastate affermazioni delle monarchie sul quadro politico, fra Tre e Quattrocento l'ideologia monarchica si sviluppò del tutto sul piano rituale della rappresentazione, dall'incoronazione all'immagine simbolica del re-padre e su quello giuridico-istituzionale, con l'elaborazione di una solida base dottrinale a fondamento delle preteste politiche del re. L'ingresso di giuristi e teologici negli organi consiliari del re segnarono per la cultura di corte uno stacco rispetto al passato: manuali, trattati, scritti di propaganda e storie ufficiali crearono immagini del sovrano, potente e voluto da Dio come guida naturale della società, padre premuroso e giudice misericordioso. Immagine diverse e contraddittorie che avevano come punto in comune il principio di una superiorità politica ed istituzionale del re rispetto agli altri poteri temporali. I giuristi e la natura del potere regio. L’ingresso dei giuristi nelle corti europee, al servizio dei re e dei principi come consiglieri e alti funzionari, risale alla metà del Duecento. L’affermazione delle università consentì al diritto di trasformarsi in una vera e propria scienza, fondamentale per la gestione di un regno. I giuristi del re conoscevano la legge insieme al funzionamento della macchina pubblica. La natura del potere regio era il tema che più attirava la loro attenzione. Secondo la tradizione giuridica romana, ripresa anche dai canonisti per definire il potere del papa, il potere del re poteva assumere due forme: un potere ordinato e ordinario per amministrare il regno, un potere assoluto, vale a dire sciolto dal rispetto delle leggi, in base al quale il re era superiore alla legge e poteva derogare alle sue regole. Su questo potere di deroga si basava la preminenza politica del re. Stabilito che poteva fare a meno di rispettare sempre le leggi, alcuni giuristi provarono a metterci dei limiti: il re doveva avere una causa necessaria per non rispettare la legge, una ragione d'urgenza. Altri; sostenitori del potere regio, affermarono invece che che questa causa doveva sempre esser considerata implicita e poteva anche non essere dichiarata: come dire che il re, ricevendo la sua potenza extra-ordinaria da Dio, non era costretto a giustifica. Limiti della potenza assoluta. Queste posizioni suscitarono reazioni accese e vedute diverse. In Inghilterra, pur esaltando la monarchia come naturale guida della società, legava il re alla legge. Henry Bracton, giurista inglese del Duecento, pur attribuendo al re una superiorità rispetto ai sudditi e la natura quasi divina del suo mandato, lo riteneva comunque sottoposto alla legge: “è la legge che fa il re. Non c'è il re, dove domina la volontà e non la legge”. Una visione antiassolutistica, ove dentro la dimensione di servizio, al re spettavano giustizia mantenimento della pace, e altre prerogative non alienabili a nessuno. La tradizione inglese conservò la dimensione di monarchia regolata. Il pensatore inglese del Quattrocento, Fortescue, definì l'Inghilterra un regno “regale e politico”, dove il re aveva il potere regale ma si conformava alla legge, che non poteva cambiare senza il consenso del popolo: una testa che non poteva cambiare il sistema nervoso del suo corpo. Un'astrazione necessaria: la corona. Tuttavia anche la figura del re si era complicata. La debolezza delle successioni e la fragilità dei re, favorirono la nascita di un concetto più astratto di regno, qualcosa che potesse rappresentare l’istituzione separata dalla persona. Emerse così la nozione di Corona, come astrazione personificata del regno, investita dei beni e dei diritti pubblici. Questi erano inalienabili, non cedibili dal re perché non appartenevano a lui personalmente. In Inghilterra fu un processo precoce, in Francia arrivò più tardi. Nel 1319 comparve nei documenti come “patrimonio della corona di Francia”, e nel 1361 si inserì nel testo del giuramento del re l'impegno a non alienare i diritti della Corona. Il re doveva difendere i beni come un amministratore che gestisce un patrimonio non suo. La monarchia, come istituzione, ne uscì rafforzata, perché poteva contare su una base patrimoniale e ideale staccata da quella del re. Il dominio naturale del re. La guerra dei Cento anni e il pericolo di avere re stranieri misero in luce infatti una nozione più complessa di regno, inteso come comunità di persone che appartenevano, per nascita, allo stesso paese. L'aggettivo naturale si diffuse nella pubblicistica regia, indicante una catena di metafore: naturale era il dominio esercitato sulla terra dal signore, l'erede che succedeva al re legittimo, l'esercizio del dominio sulla terra dove era nato e risiedevano i sudditi. Con naturale si indicava un'obbligazione necessari e spontanea verso il proprio paese e il proprio signore, da difendere dagli attacchi esterni. Le dominazioni di re stranieri erano infatti usurpazioni innaturali, pericolose, potenzialmente eretiche perché reati contro natura erano un’offesa a Dio. Il re come prediletto divino. Le correnti filo monarchiche insistevano anche sul carattere religioso della missione dei re. Se il potere dei re era di origine divina era evidente che i re non erano solo fedeli come gli altri, ma persone sacre, predilette dal Signore. In Francia il re fu chiamato “re cristianissimo” in onore della sua funzione di difesa della fede e della Chiesa e giustificava la superiorità del re francese sulle altre autorità, a cominciare dall’Impero e dal papato. Predilezione che giustificava la superiorità del re francese su altre autorità come Impero e papato, come dimostrò il conflitto tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Immagini religiose del re: misericordia e amore per il popolo. La manualistica pensata per il buon re, di matrice ecclesiastica, aveva recuperato il modello biblico di re giusto, elevando la giustizia a primo compito del re sulla terra. Il re giusto riequilibrava le disuguaglianze sociali e attenuava quando necessario il rigore della legge umana. La misericordia poneva il re su un piano superiore alla legge, più vicina alla giustizia divina dalla quale doveva trarre ispirazione. Altri insistevano sull'amore che il re doveva avere per il suo popolo e loro per lui, generato da un senso di giustizia e provato dalla correttezza dei suoi comportamenti. La figura del re divenne oggetti di devozione religiosa: re e dinastia dovevano essere ricordati nelle preghiere pubbliche e in quelle private dei sudditi-fedeli, che assicuravano così la salvezza della nazione, posta sotto la protezione di forze celesti superiori. Si diffusero simboli e culti legati alla storia del paese. In Francia si affermò il culto di San Dionigi, l'abbazia dove erano custodite le spoglie dei re francese. Durante la guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni, quando il nord della Francia (ove vi era l'abbazia) era occupato dai Borgognoni, si scelse il culto di san Michele arcangelo come protettore della monarchia francese vera. Gli inglesi si posero sotto il dominio di San Giorgio, il santo cavaliere che uccise il drago. Le virtù assegnate al re furono tradotte in poteri di governo in quasi tutti i regni: protezione dei poveri e dei deboli; la misericordia del re si tradusse in un potere di grazia condonare cioè le pene comminate dai giudici, accogliere le suppliche dei sudditi e cambiare il normale corso delle leggi; l’amore verso il re portava con sé una celebrazione religiosa della sua superiorità istituzionale; i fondamenti celesti rafforzavano l’immagine della monarchia come scudo protettivo, guida naturale della nazione. La salvezza della “nazione” finiva per giustificare una politica fiscale sempre più pesante, un’intromissione della giustizia pubblica che erodeva le giurisdizioni private e una richiesta crescente del coinvolgimento diretto dei sudditi nella difesa della patria. Celebrazione, propaganda e amministrazione facevano parte del medesimo sistema di governo. - 2. L'amministrazione del regno: corti, ufficiali, fiscalità La consapevolezza della monarchia di essere a capo di un corpo del regno articolato in funzioni diverse, si tradusse nella costruzione di un sistema burocratico a più livelli, sulla sia degli esperimenti di governo impostati dai re nel XIII secolo. Si ebbe un rafforzamento sensibile dell’amministrazione centrale, articolata in organismi complessi e la costruzione di una rete di ufficiali pubblici nei territori. Si impiantò il sistema fiscale per finanziare lo Stato e la sua politica di espansione. Organi centrali, uffici territoriali e sistema fiscale sono elementi che troviamo in tutte le monarchie europee : segno che i modi governo nazionali o regionali seguivano meccanismi simili. Fu comunque un processo politico, e istituzionale importante, che cambiava natura dei regno e forme del governo degli uomini. Lo sviluppo di una burocrazia pubblica, nelle corti e nei territori, fu importante per diversi motivi: favoriva una vita autonoma del regno che funzionava anche “senza re”; assicurava una presenta capillare nei territori di un corpo di ufficiali che, nel bene e nel male, “rappresentavano” il re in quel luogo; permetteva la promozione del ceto intermedio urbano, favorendo gli esponenti più dinamici delle classi cittadine che avevano facilmente accesso a una formazione di base (leggere e far di conto). Esaminano questi tre punti. Gli organi centrali. Lo sviluppo degli organi centrali era strettamente dipendente dalla formazione di una corte intorno al principe e dall’individuazione di una capitale del regno. Le funzioni della corte erano tre: fornire al re un consiglio ristretto; assistere il renelle principali funzioni di governo; amministrare le finanze. l'unità della corona, almeno nei paesi dove più forte si poneva l'istanza regia (Francia, Inghilterra, Spagna); - e infine fissarono la divisione in ordini conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico che ne sostenne a lungo la preminenza politica e sociale. Una rappresentanza limitata. Queste assemblee non erano rappresentative: vale a dire che non erano elette dal popolo e avevano una composizione sociale interna molto sbilanciata. I membri degli ordini maggiori, ecclesiastici e baroni erano convocati individualmente ed erano presenti di persona; mentre le città e le comunità, quando erano chiamate, dovevano inviare solo dei rappresentanti scelti tra i “migliori e più saggi” del luogo. Erano spesso una minoranza e in più non erano consultati su tutte le questioni. La loro presenza dipendeva da volere regio e materia trattata. Il parlamento inglese prevedeva una rigida gerarchia sociale: prima dovevano essere convocati i membri del clero, arcivescovi, vescovi , abati e priori che erano anche detentori di una baronia; poi i baroni e i conti o i proprietari terrieri idi pari livello; a seguire i rappresentanti dei cavalieri, eletti due per ogni contea; poi i cittadini di Londra e altre città, i rappresentanti dei borghi, sempre in numero di due per la località. La stessa composizione fissa si aveva nelle Diete tedesche e dei regni dell'est, dove la nobiltà era presente in gran numero. Periodicità delle convocazioni. La frequenza con cui le assemblee furono riunite dipendeva soprattutto dalla funzione e dalla regione in cui si tenevano. Nei territori con molte città o a preponderanza di assemblee cittadine (es. contea di Fiandre a Paesi Bassi o città tedesche), le riunioni erano molto frequenti. Nella regione del Brabante, ricca di città attive, si sono contate ca 4055 riunioni nel 1385-96 con una media di 36 sedute all'anno, per una durata di 324 giorni; di fatto erano istituzioni permanenti. Gran parte delle assemblee francesi, spagnole e tedesche riguardavano territori regionali a prevalente interesse agrario e furono convocate con una frequenza lenta una o due volte all’anno. In Francia, gli Stati generali furono convocati circa due volte l'anno (1418-1444), per poi scendere a una volta all'anno nel periodo seguente. In Boemia, le diete ebbero una frequenza alta intorno alla rivoluzione hussita, ma poi le convocazioni calarono. In Ungheria, sotto Corvino, la Dieta fu convocata due volte l'anno, ma non più dopo il 1440. Le Cortes spagnole furono riunite 93 volte fra 1379-1520, ma no si riunirono mai fra 1420-1498, quando più violente erano le guerre di successione. Il parlamento inglese si riunì 151 volte nel Trecento, per rallentare nel XV secolo. La drastica diminuzione delle convocazioni nell’ultima parte del Quattrocento pone delle domande circa la funzione di queste assemblee come “contropotere” dei re alla fine del medioevo. Ruolo politico delle assemblee: opposizione o sostegno? In molti casi le assemblee e i parlamenti riuscirono a bloccare le pretese regie di imporre tasse senza ascoltare i corpi territoriali; in altro i rapporti (sopratutto verso la fine del medioevo) sembrano meno conflittuali. Esempi a pagina 385-386 con testi. Il governo politico dello Stato si reggeva anche sulla negoziazione , sullo scambio , sulle pressioni incrociate tra un re che si voleva assoluto e una serie di corpi che limitavano queste pretese senza rovesciarle del tutto . La concessione e l’ascolto delle richieste del popolo rafforzava il potere dei re. Eppure non tutto si risolveva a favore dei re. Il patto prevedeva uno scambio e ci sono forze sociali più interessate e capaci di altre a indicare quali lamentele presentare e quali soluzioni accettare in cambio del voto. Stiamo parlando della grande nobiltà e, in alcune regioni. Dell'élite commerciale della città. Questo era il nucleo sociale che dalle assemblee rappresentative traeva i vantaggi più consistenti. La difesa degli interessi dei territori: élite locali e ufficiali regi. La composizione sociale delle assemblee era molto varia, ma la presenza di un nucleo costante delle alte aristocrazie territoriali fu un dato comune in tutta Europa. I territori erano rappresentati dagli elementi in vista di quelle regione, ,e persone che avevano più interessi da difendere: baroni inglesi e francesi, principi territoriali tedeschi, nobiltà terriera degli stati dell'est. E in molti casi, in Inghilterra e Francia più intensamente, anche i rappresentanti dei comuni erano legati a re e ufficiali regi. Nel parlamento inglese questo processo è visibile alla fine del secolo XIV, soprattutto fra i rappresentanti dei cavalieri. Negli Stati generali francesi uguali. Nella sessione di Tours del 1484 erano numerosi i membri eletti che ricoprivano una carica pubblica. Insomma le assemblee sono in insieme sociale ogni volta diverso, in parte manipolato dall’alta aristocrazia, che aveva reti clientelari molto estese nelle regioni dove si concentravano i suoi possessi, e in parte determinato dai rapporti di dipendenza del re con alcune forze locali. Questo spiega anche il declino delle assemblee alla fine del XV secolo. Convocate sempre più raramente, molte non avevano più la capacità di proporre una politica autonoma né rivendicare un potere di veto sulle decisioni del re; al massimo difendevano i privilegi locali, come accadde a molto Stati provinciali del regno Francia, più utili dei caotici Stati generali. I motivi di questo declino furono diversi ma tra loro collegati: - i re, alla fine del Quattrocento, avevano reintegrato i beni della corona, ridotto il numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi; - la tassazione ordinaria era ormai un dato accettato: si poteva discutere l'importo ma non la sua imposizione; - infine in quasi tutti i regni, la nobiltà aristocratica e terriera e urbana, erano ormai esenti dalle imposte ordinarie. Se prima dovevano partecipare alle assemblee per difendere i propri interessi, alla fine del XV secolo questo non era più necessario. Le tasse colpivano ormai i contadini e le campagne. La nobiltà non si interessava più delle assemblee: le vie di affermazione furono altre, più prestigiose. Il ruolo della nobiltà nel Quattrocento. Nella seconda metà del Quattrocento l’alta aristocrazia cambiò strategia, espandendo la penetrazione nell’amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo, come la diplomazia e l’attività militare, entrò nell’alto funzionar iato regio coprendo cariche di ufficiali maggiori nei territori, contrattò con il re dei privilegi pesanti, capaci di ridare alla nobiltà molte competenze cedute agli ufficiali regi nel secolo precedente. In Francia le guerre continue valorizzarono le capacità di comando militare molti balivi/ siniscalchi provenivano dalla nobiltà di tradizione cavalleresca, soprattutto nei territori di frontiera prossimi a quelli del nemico. In Inghilterra i giudici di pace, con funzioni giudiziarie e di polizia appartenenti alla media e alta nobiltà erano i custodi della “pace del re”. Un sistema economico per assicurare l'ordine pubblico affidandolo al ceto già in possesso della capacità militare di quei luoghi. In Spagna la nobilita rimase sempre potente da condizionare la vita dei regni, anche se esclusa inizialmente dalla Cortes e in parte dai consigli del re. Inoltre la parte più alta poteva contare su ampie dominazione personali quasi autonome dal regno (estados), su una rete di clienti della media nobiltà dei cavalieri (hidalgos) e dei letrados di origine urbana, associati per privilegio alla nobiltà. Il nesso con il regno divenne più stretto nel XV secolo, quando i re cedettero ai signori gran parte delle tasse regie da riscuotere nei loro stessi territori: come dire che i nobili erano gli esattori di sé stessi nei loro domini. I re cercarono inoltre di coinvolgere una parte della nobilita di forme private: si chiamavano infatti privados i signori entrati nella “privanza del re” a cui venivano affidate alcune funzioni di governo come especiales servidores. Il servizio regio divenne un fattore di prestigio, di conferma pubblica della propria nobiltà e potenza politica. La situazione può apparire paradossale: Il ceto che più si contrapponeva al re finiva per far dipendere la sua potenza proprio da legame con il re. L’integrazione della nobiltà in varie forme segnò l’ingresso delle clientele nel sistema di governo dei territori del regno, attraverso la promozione di esponenti a ufficiali o la vendita delle cariche regie a vita. Insomma più lo Stato riusciva a distribuire quote di potere pubblico in amministrazione alla nobilita territoriale, più le speranze di successo e di durata aumentavano. La metafora del corpo. Il regno divenne il grande contenitore dei gruppi sociali. Le forze sociali e le istituzioni costituivano un blocco unico (metafora) un corpo vivente con il re come testa e tutti gli ordini sociali come organi, ognuno con una propria funzione specifica, e coordinato con gli altri. L’unità e l’armonia di tutte le parti serviva dunque a garantire la sopravvivenza del corpo. Ma questi fattori richiedevano che tutte le componenti facessero solo quello che spettava loro senza deviare dai propri compiti: una pluralità di forze, disposte in ordine gerarchico, che non potevano cambiare posto e ruolo nel funzionamento della macchina sociale. Il corpo divenne uno strumento di legittimazione di gerarchia e differenze sociali, stabilizzatore dell'unità del regno. Come scrisse il filosofo Jean Gersone: ecco i piedi che si ribellano, che non seguono il cammino giusto provocano inevitabilmente la rovina del corpo. La stabilità dell’ordine sociale doveva essere garantita dal rispetto dei ruoli e della gerarchia stabilita dalla natura e approvati dalle istituzioni regie. -
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