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Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 4, Sintesi del corso di Storia Medievale

CAPITOLO 4 – Gerarchie sociali alla fine del Medioevo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 14/07/2019

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Scarica Storia Moderna (Provero-Vallerani) - Parte 4 Capitolo 4 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! CAPITOLO 4 – Gerarchie sociali alla fine del Medioevo (Pag. 391-409) Lo sviluppo delle istituzioni politiche dei regni ha mostrato un processo di aristocratizzazione della società: Parlamenti, Stati generali, Diete sono organo ove i membri dell'alta aristocrazia riuscirono ad imporsi nel corso del XV secolo su piccola nobiltà, borghesie rurali, basso clero. Questi ordini erano sì ancora convocati e ascoltati, ma le leve dell'iniziativa politica sembravano essere più riservate agli esponenti di una nobiltà signorile capace di controllare i propri territori a livello regionale e anche dialogare con le corti regie della capitale. Alla base del successo delle istituzioni rappresentative che dialogavano con i re, ne giudicavano le prerogative, limitandone richieste, non vi erano i “territori”, come astratto insieme di residenti in un luogo, ma gli esponenti di una élite sociale ed economica che ne rappresentavano gli interessi in maniera più efficace. Queste aristocrazie, ora chiuse in uno stato nobile definito, si erano rafforzate ovunque. Nelle campagne il loro potere era radicato per un maggiore controllo sulle terre, ora date in concessione con contratti a breve termine che imponevano prestazioni più pesanti e una dipendenza più stretta dal padrone. Una massa di contadini fu privata della terra, espulsa dalle campagne o costretta a lavorare come bracciante. Un processo simile si ebbe on i lavoranti delle botteghe artigiane sparse nelle città europee. Il divario tra l'élite dei maestri legati al commercio ed il resto dei lavoranti si fece incolmabile. Una costante degradazione delle condizioni di lavoro tra Tre e Quattrocento portò i “garzoni” di bottega a perdere la speranza di un lavoro proprio, assimilandosi ai lavoranti di basso livello, privi di mezzi di produzione e altre risorse, costretti a vendere il loro lavoro a giornata o settimana. In sostanza, il mondo bassomedievale dovette fare i conti con una massa crescente di persone “non proprietarie”, senza terra o mezzi di sussistenza: una massa da far lavorare a salario, che aveva solo il lavoro come risorsa economica. Le classi dirigenti fornirono un quadro teorico a questa nuova forma di dominazione: cultura laica ed ecclesiastica giustificarono l'esclusione politica dei dipendenti salariati in base ad un'antica diffidenza per il lavoro manuale dipendente, condizione che sminuiva la qualità umana della persona. Si poneva però il problema del sostentamento di masse urbane che vivevano in uno stato di incertezza continua. Il rischio di cadere in povertà spinse le autorità laiche ed ecclesiastiche a costruire strutture di accoglienza e aiuto. La redistribuzione degli flussi di elemosine raccolti dalle istituzioni caritative fu affidata ad una élite mista che si occupava di raccogliere offerte, organizzare aiuti, decidere a quali persone e per quali motivi potevano essere concessi. La carità istituzionalizzata non si limitava quindi a far fronte ai momenti di bisogno delle fasce basse della popolazione urbana, ma anche a ridisegnare gerarchie sociali, graduare il valore delle persone e delle loro attività, riaffermare un quadro di valori dominanti che dovevano regolare la vita collettiva della società. - 1. Crisi e ristrutturazione dei rapporti nelle campagne Il basso medioevo si aprì con una fase di crisi dei processi produttivi ed economici delle società europee. Primo, una serie di carestie indebolì le popolazioni urbane e rurali fra il 1315 e il 1322; le guerre violentissime e lunghe (Guerra dei Cento Anni), portarono devastazione nei territori teatri degli sconti e soprattutto un aumento costante delle tasse, che in tutti i paesi europee vessarono il mondo rurale in maniera crescente. La pressione fiscale prima colpì grandi proprietari e anche contadini. Un esborso improvviso di denaro richiedeva spesso il ricorso al prestito da parte dell'ente proprietario ed un indebitamento per far fronte alle richieste del fisco regio. Un processo che coinvolse signorie laiche ed ecclesiastiche in ugual misura. Anche i bassi prezzi del grano contribuirono alla crisi delle campagne, anche in presenza di un rialzo dei prezzi di capi di vestiario e attrezzi. Su queste società indebolite da una crisi pluridecennale si abbatté la peste del 1348. La peste del 1348. Arrivata probabilmente attraverso navi provenienti da porti orientali, si diffuse in tutta Europa, dall'Italia alla Germania del nord. Incerti i dati sulla mortalità, perché le cronache del tempo spesso ingigantivano gli effetti del morbo, riportandolo a cifre altissime, e il carattere di punizione divina appesantiva ancora di più questa contabilità. L’alta mortalità era considerata espressione della collera di Dio, che puniva l’umanità per i suoi peccati. Molte cronache ripresero moduli classici per descrivere gli effetti dell'epidemia sulla popolazione: famiglie separate, solidarietà parentali spezzate, episodi di saccheggi e fuga dalle città: decomposizione del corpo sociale riflessa nei corpi fisici colpiti dalla peste. Però la sensazione di essere di fronte ad un cataclisma non era infondata. Le fonti demografiche e contabili mostrano ampi vuoti nelle popolazioni urbane, diminuite del 40-50% rispetto ai livelli degli anni precedenti alla peste: abitanti delle città scappati, orfani e quindi non registrati, altri da poco rientrati e quindi ugualmente non figurati negli estimi. Al netto di queste assenze, il calo della popolazione urbana era comunque sensibile, soprattutto negli strati bassi della popolazione, che avevano meno difese per resistere alle malattie. Nelle campagne la situazione era complicata da un perverso meccanismo di impoverimento della popolazione causato dai rigidi dispositivi della fiscalità pubblica, urbana o signorile. Le tasse erano infatti calcolate in base a un numero fisso di abitanti, che non teneva conto delle morti e degli abbandoni. Gli abitanti rimasti dovevano così pagare le tasse per un numero di persone non più reale, caricandosi le quote di persone decedute o emigrate. Un peso per molti insopportabile, che provocava il definitivo abbandono di numerosi centri rurali. La peste aggravò dunque gli effetti della crisi colpendo una popolazione in crescita ma sottoposta a forti tensioni, anche in ragione di una trasformazione di rapporti di lavoro e modi di inquadramento della popolazione rurale. Si trattò di un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro, dei doveri del contadino e delle pretese dei proprietari fondiari animati da una nuova propensione allo sfruttamento economico della terra. Trasformazioni dei rapporti di lavoro nelle campagne: gli affitti a lungo termine. Lungo tutti i secoli centrali del medioevo, i rapporti agrari in Europa furono dominati da poche tipologie contrattuali: in primo luogo il livello e l’enfiteusi, due forme di affitto a lungo termine dai dieci ai ventinove anni, rinnovabili fino a tre generazioni (o anche perpetue). I contadini dovevano pagare il canone in denaro o natura, in aggiunta a delle prestazioni più o meno pesanti secondo usi dei singoli ruoli o del tenore della carta siglata dalle parti in rapporto. In un periodo così lungo (29 fino a 90 anni) il contadino che usava la terra direttamente acquisiva una certa disponibilità della terra stessa anche se non ne era il proprietario: poteva decidere le colture, subaffittare la terra che aveva in concessione o anche venderla con il consenso del proprietario. Secondo una nozione materiale del possesso, le cose erano di chi le usava, si univano a chi le coltivava e faceva fruttare: contadino legato alla terra, ma anche terra al contadino, quindi difficilmente sfrattabile e modificare i canoni. Una libertà d'azione che si tradusse per molti contadini in una forma di ascesa sociale. Nel Duecento le cose cominciarono a cambiare. I processi di bonifica e messa in coltura di nuove terre, creazione di villenove in funzione della colonizzazione agricola e riassetto del popolamento rurale conseguente, mostrarono una intraprendenza dei signori e minarono i rapporti di lavoro, in primis i nuovi canoni in natura. Affermazione dei canoni in natura: prodotti. Si modificarono le strutture di rendita fondiarie: il passaggio dal canone in denaro al canone in natura, vale a dire la consegna al proprietario di una parte dei prodotti, ciò perché ci fu una crescita esponenziale della domanda di beni alimentari nelle città. I mercati cittadini divennero centri di scambio troppo grandi per essere soddisfatti dalla miriade di piccoli e medi proprietari e affittuari delle campagne. Alla crescente domanda delle città risposero invece le grandi aziende agrarie che dopo secoli di crisi iniziarono nel tardo secolo XII un processo di riorganizzazione del patrimonio fondiario, indirizzando quote crescenti della produzione verso i mercati urbani. La nuova proprietà cittadina. Nel corso del Duecento, nei paesi a più alta densità urbana (Italia), una quota della proprietà terriera fu acquisita da quel ceto di speculatori attivi nel commercio e nel settore finanziario che avevano accumulato ricchezze nella prima metà del secolo. Es. grandi banchieri, intermediari del denaro che guadagnavano dal cambio e dai prestiti usurai, mercanti, strati alti del ceto artigianali. Grandi capitali erano stati investiti nelle campagne, consegnando nelle mani cittadine una quota dei possessi terrieri. Lo si vede nei catasti e negli estimi trecenteschi delle città comunali. I possesso dei cittadini sopravanzavano quelli delle ville del contado, in termini quantitativi (superficie degli apprezzamenti) e qualitativi (tipologia dei terreni): gli apprezzamenti più grandi, redditizi e curati appartenevano ai proprietari cittadini. Differenze sostanziali riguardavano anche i modi di conduzione dei fondi. Nei territori a prevalente dominio cittadino le proprietà erano meno frammentate, richiedevano cure particolari nella gestione dei cicli produttivi e una diversa organizzazione della forza lavoro. Le zone a prevalenza contadina erano invece coltivate direttamente dai conduttori, spesso ancora in affitto enfiteutico (a lungo termine). I contratti a breve termine e la condizione cittadina. Il quasi-monopolio dell’affitto a lungo termine si frantumò e iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali, in forme ibride, con rapporti diversi. Lo scontro tra abitudini dei contadini e nuove esigenze dei proprietari si rifletté nei formulari contrattuali La novità più eclatante era la brevità dei termini di concessione (da 29 a 10, 5, 3 anni, una differenza traumatica). La riduzione dei termini poteva avere ragioni diverse: ridiscutere l’importo dei canoni, riappropriarsi della disponibilità della terra, mettere sotto controllo l’attività del conduttore. In questo modo si liberava il contadino dalla terra, mobilitando persone, ma si provocava anche una maggiore precarietà dei rapporti di lavoro. L'aumento delle clausole di miglioria che i contadini dovevano apportare al fondo concesso era il secondo campo di novità: impianto di nuove colture specializzate, realizzazione di fossati e irrigazione dei terreni, più arature all'anno, concimazione dei suoli. Un insieme di lavori, a carico dei contadini concessionari, che migliorarono le campagne prossime alle città. Il Italia: la mezzadria. In Italia le novità più importanti si ebbero nelle zone a forte concentrazione di proprietà contadina. Qui si trovano le prime forme di contratto di mezzadria, un affitto a breve termine con la divisione a metà dei prodotti tra il proprietario e il contadino. Ma non fu solo una tipologia di contratto, giacché finì per disegnare un nuovo sistema dei rapporti sociali: condizionava le braccia che dovevano lavorare in famiglia e l'insediamento (appoderamento: una casa per ogni podere), e rifletteva una cultura diversa dello sfruttamento dei poderi e della manodopera da parte dei nuovi proprietari. Inizialmente, la mezzadria aveva un contenuto innovativo limitato alla breve durata del rapporto di lavoro, ma nel corso del Duecento aumentarono gli obblighi per il contadino, che doveva partecipare con il proprietario alla fornitura di semi e animali, definire il calendario dei lavori, con l'obbligo di inserire nuove colture durante il primo e secondo anno di affitto, assicurare miglioramento e mantenimento di colture arboree e specializzate già presente. Con l'affermarsi del sistema dei poderi (fondi di un unico proprietario affidati ad un conduttore coadiuvato dalla sua famiglia) la mezzadria acquisì i caratteri stabili che mantenne per l'età moderna e parte di quella contemporanea (in Italia la sua abolizione formale è degli anni Cinquanta del Novecento). L’impegno del mezzadro fu esteso alla dei lavoranti, avvertite dai nobili possessori e dai grandi mercanti come un ricatto da respingere. L’ordinanza dei lavoratori emanata in Inghilterra nel 1349 (ripresa dallo Statuto dei lavoratori del 1351) mostra gli argomenti di questa reazione governativa contro i salariati. Testo a Pagina 400. Il testo è chiarissimo: ci sono dei lavoratori che si approfittano della scarsità di manodopera per imporre aumenti salariali ingiustificati preferendo non lavorare che accettare paghe più basse. Si dispose allora che tutte le persone che non avevano già un’occupazione o della terra da coltivare dovessero accettare qualsiasi proposta di lavoro venisse loro offerta. Chiunque si rifiutasse, diventava automaticamente un “ozioso. Si cercava di isolare una classe di lavoratori senza fonti di guadagno alternative da inquadrare nel mondo del lavoro in maniera coercitiva. Nella stessa ordinanza si punivano con la prigione anche i lavoratori che abbandonavano un’occupazione prima del termine e i padroni che accettavano di pagare salari più alti del consueto. L’ordinanza del re di Francia del 1351 appare molto simile al testo inglese, con una maggiore insistenza sul pericolo rappresentato dai poveri che “non volevano lavorare”, perché frequentavano le taverne. Testo a Pag 401. Nel 1354 una lunga ordinanza regia sui prezzi imponeva un limite agli aumenti salariali per varie categorie, che non potevano chiedere un salario superiore a 1/3 del valore degli anni precedenti la peste. Nonostante il tono minaccioso, queste normative ebbero un effetto assai limitato. I salari, dopo la peste, continuarono a salire, anche se questo non voleva dire automaticamente che i lavoratori vivessero meglio. Rivolte e repressioni: l'impossibile governo degli artigiani. Tra il 1340 e il 1400 un numero assai alto di rivolte nelle campagne e nelle città turbò la vita ordinata delle città europee e in alcuni casi portarono all’instaurazione di governi provvisori composti in maggioranza da piccoli artigiani alleati momentaneamente ad esponenti della borghesia mercantile. Le rivolte più importanti furono quelle che saldarono le ribellioni delle campagne con un'agitazione interna alla città, anche se i due processi non avevano all'inizio nulla in comune. Così avvenne a Parigi nel XIV durante la guerra dei Cento anni. I borghesi parigini attentarono il governo popolare diretto da Etienne Marcel, il prevosto dei mercanti che aveva rappresentato il malcontento dei borghesi di Parigi per l'eccessivo carico fiscale imposto dal re Giovanni il Buono. Già negli Stati generali del 1356, gli eletti della città avevano acconsentito malvolentieri alla nuova imposta di guerra. Ora, con il re prigioniero e la cavalleria sconfitta a Poitiers dagli inglesi, i borghesi parigini tentarono il governo popolare diretto da Marcel. Figura appartenente alla grande borghesia artigiana, si appoggiò invece alla piccola borghesia artigiana, al popolo minuto, per creare un governo della città sostituito a quello regi (3 marzo 1357). La crisi colpiva però anche le campagne: l'aumento dei salari portò ad un aumento dei manufatti. I lavoratori guadagnavano di più, ma i contadini delle campagne pagavano di più. Nelle campagne parigine l’insicurezza militare e la crisi dei prezzi colpì lo strato alto dei contadini che si rivoltarono contro i loro signori nel luglio 1358. Il movimento prese il nome di jacquerie (soprannome spregevole dato ai contadini, Jacques Bonhomme) e si accanì contro i piccoli nobili di campagna accusati di non difendere il paese dalle scorribande e di aumentare i prelievi. Marcel, pensò di riuscire a domare la rivolta in città, ma la borghesia parigina di piccoli e medi proprietari si spaventò dalle incertezze del regno e fece cadere il governo. Marcel fu ucciso nei disordini nel luglio del 1358; l’erede al trono entrò a Parigi, tolse di mezzo pochi seguaci del prevosto e iniziò una politica di pacificazione. La rivolta inglese del 1381 scoppiata anch’essa nelle campagne e portata in città dai rivoltosi ebbe un esito simile a quella francese. La rivolta contadina era nata in seguito alla pressione fiscale della Polltax, tassa diretta ma non proporzionale, da pagare in base al numero delle persone: per i poveri aveva un peso maggiore. I rivoltosi arrivarono a Londra e furono accolti da popolo londinese e basso clero che li sostenne nell'attacco ai palazzi nobiliari. Il re fu costretto a trattare, concedendo l'abolizione della servitù. La rivolta fu comunque domata e il capo delle bande contadine, Wat Tyler, impiccato insieme ad altri. In Italia la rivolta dei Ciompi (lavoratori salariati del tessile) seguì un percorso più complesso. La loro agitazione,insieme ad altre categorie lavorative, pose la questione della rappresentanza interna alle Arti: si chiesero di formare nuove Arti minori ed uno spazio nel governo, che era occupato a Firenze da una rappresentanza delle Arti. I ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378, dimostrandosi ostili ai monti che consentivano ai cittadini benestanti di ricevere regolarmente gli interessi sul debito, finanziati con l’aumento delle tasse indirette che pesavano sui ceti bassi. Fu questo a spaventare il resto della città e a promuovere una repressione feroce verso gli artigiani più esposti. Si capì presto che ogni partecipazione politica degli artigiani era destinata a fallire perché metteva pericolosamente a repentaglio lo Stato ed i suoi equilibri sociali. Alcuni punti in comune tornano spesso in queste rivolte: i meccanismi ingiusti del sistema fiscale, che scaricano sui lavoratori e sui contadini la maggior parte del peso fiscale, l’utilizzo improprio delle tasse prelevate dallo Stato, il valore diminuito della moneta con cui si pagava il salario e in generale il basso potere d’acquisto dei salari. La centralità del tema fiscale riflette una trasformazione strutturale del prelievo pubblico bassomedievale: la generale esenzione fiscale che in tutti i regni l'aristocrazia aveva ottenuto e il gravare della tassazione diretta solo sulle campagne. Uno spostamento del flusso del denaro dal basso all'alto, nuovo assetto del quale prendevano atto le rivolte trecentesche. Non si trattava di inseguire il sogno del rovesciamento del mondo, ma del bisogno più concreto di difendere livelli di vita incertissimi esposti a ogni possibile variazione. Salari e tenore di vita: quando è necessario per vivere. Determinare il livello di vita dei salariati è un’operazione non facile. Un salario apparentemente alto non equivale automaticamente a un reddito maggiore. Molto dipendeva dal “potere di acquisto” consentito da quel salario: vale a dire quante cose si potevano comprare con quei soldi. Per capire le reali condizioni del salariato, è necessario conoscere i bisogni primari dei lavoratori, l'andamento dei prezzi di tali generi e rapportare questi dati al salario. È chiaro che se insieme ai salari aumentavano anche i prezzi dei beni di prima necessità, le condizioni dei lavoratori peggioravano. Diversi tentativi di calcolare i costi della vita sono stati fatti, stimando quanta parte del salario fosse necessaria per acquistare la quantità di pane sufficiente ad assicurare l'apporto calorico di una giornata. Sono calcoli ipotetici, che non tengono in conto di fonti alternative di reddito o possibilità alimentari alternative al pane. Eppure, l'immagine che ci consegnano è ugualmente utile per capire i modi di vita delle classi lavoratrici del tardo medioevo. Il rischio continuo di cadere in povertà. Non esiste una chiara divisone fra “poveri” e “non poveri”, o meglio non esistono due insiemi sociali chiusi e definiti. Esistono invece due condizioni diverse secondo i cicli di vita: se il salario medio di un operaio poco specializzato come il giardiniere poteva essere sufficiente per un lavoratore celibe, che viveva solo, il medesimo salario diventava drammaticamente insufficiente in caso di lavoratore con famiglia e due figli. A questa differenza dei cicli di vita, si aggiungevano le variazioni impreviste. Ogni minimo cambiamento rischiava di sbilanciare le finanze del nucleo famigliare: un qualsiasi aumento, anche basso, dei prezzi alimentari o degli affitti eliminava qualsiasi spesa non necessaria (carne, vestiti nuovi). Il dato che emerge dalle serie degli indici del potere d’acquisto calcolate per singole realtà medievali è proprio l’estrema variabilità negli anni: una condizione di instabilità continua, di possibile caduta nel mondo della povertà, dei mendicanti e degli infami esclusi. Più che la povertà in sé, era il rischio della povertà che pesava sulle economie urbane. Questa estrema incertezza era la condizione normale di via delle classi lavoratrici salariate: non erano sempre povere, ma lo potevano diventare con estrema facilità per periodi più o meno lunghi. - 3. Povertà e assistenza: nuovi modelli di solidarietà e la promozione di élite sociali Per fronteggiare questa povertà ciclica, le società urbane tardo medievali elaborarono un complesso sistema di aiuti caritatevoli e di assistenza organizzata: ospedali, confraternite, chiese e monasteri si impegnarono in un opera di redistribuzione delle donazioni ai poveri della città. Capire chi erano i poveri meritevoli di assistenza, però, non era cosa semplice. Nel medioevo povertà aveva significati diversi. Il successo degli ordini mendicanti, minori soprattutto, aveva posto la povertà al centro dei sistemi di definizione di una società giusta e ispirata alla carità di Cristo. La predicazione francescana aveva insistito molto sul tema della rinuncia al denaro per misurare il valore delle cose. I rapporti sociali indirizzati verso l'altro dovevano essere guidati da amore gratuito verso il prossimo: solo in base ad un rapporto di amicizia il favore poteva essere ricompensato – in modo altrettanto gratuito e non monetizzabile – con un altro favore. La povertà come atto volontario. L’etica francescana era però basata su un atto di volontà ispirato da una superiore conoscenza delle cose del mondo e dei suoi valori. La rinuncia ai beni era il risultato di una riflessione alta sulla povertà come condizione di privazione raggiunta dopo una decisione interiore di rinuncia al mondo. Era definita povertà “volontaria”. Diverso era il caso della povertà involontaria che colpiva gli indigenti di nascita e in generale i mendicanti: persone segnate dalla mancanza di mezzi di sussistenza. La povertà involontaria: la condanna dell'ozio. I poveri involontari, proprio per l’assenza di scelta, non erano molto considerati dal mondo ecclesiastico. Anzi fin dal tardo XII secolo, canonisti e teologi avevano distinto i “poveri meritevoli”, che erano gradi della carità ricevuta e si impegnavano a trovare un’occupazione per sopravvivere e “poveri oziosi”, che spendevano le elemosine in taverne, senza lavorare. Testo a Pagina 405. Si vede bene che il peccato (mortale) di cui i poveri immeritevoli si macchiavano era proprio quello di appropriarsi delle risorse destinate ad altri, aggravando il carattere antieconomico del loro accattonaggio: non solo non lavoravano, ma sottraevano elemosine utili per altri. La carità per essere utile richiedeva capacità di distinguere le situazioni sociali secondo una logica dei bisogni che solo i religiosi erano in grado di comprendere. Gli ordini mendicanti accentuarono questa dimensione economica della carità, facendosi interpreti del senso di debolezza e precarietà delle società urbane e rafforzarono la loro presenza alla guida di enti assistenziali. Ospedali, ospizi e assistenza. Il panorama delle città europee fu profondamente influenzato dallo sviluppo di numerosi istituti assistenziali tra Tre e Quattrocento. Molte confraternite si specializzarono nell'assistenza ai propri iscritti e nella distribuzione di elemosine ai bisognosi. Si crearono anche dei piccoli ricoveri per i soci anziani e malati. Anche gli ospizi (in origine luoghi di accoglienza dei viandanti) iniziarono a estendere l’ospitalità a persone malate e deboli. Lentamente il carattere medicale delle strutture di accoglienza si fede più evidente, nel corso del Trecento gli ospedali per malati si moltiplicarono. Gli ospedali mantennero sempre un'attività di assistenza ai poveri, sia con la distribuzione di elemosine che con l'assistenza domiciliare alle persone incapaci di muoversi. Il numero degli assistiti era imponente e crebbe moltissimo dopo la peste. I veri poveri le donne e l'assistenza. Ma chi erano i “poveri di Cristo” della città? La maggioranza dei soggetti assistiti che ricevano l’elemosina erano donne, che si presentavano sotto varie forme di debolezza, come madri di famiglie numerose, come vedove, come malate o come giovani da sistemare. Le donne sposate erano però sempre la maggioranza. La necessitò di mantenere la famiglia e la difficoltà di trovare un lavoro autonomo facevano delle donne, mogli e madre, le destinatarie ideali dell'assistenza pubblica. Alle donne era anche garantita un’assistenza per il parto e le confraternite specializzate nel fornire le doti per le giovani donne povere al momento del matrimonio. Si trattava quindi di uno scopo civico che meritava di essere sostenuto dalla carità collettiva. Come meritoria era l’assistenza ai bambini orfani e abbandonati, che furono accolti in ospizi per infanti e mantenuti dalle istituzioni pubbliche o dalle corporazione di mestiere. La carità come virtù civica: redistribuire il superfluo. Si chiariscono ora meglio i nodi sociali e istituzionali che la carità metteva in luce. Da un alto bisognava far convergere tutte le donazioni e le elemosine verso istituti specializzati in opere pie selezionate da religiosi. Dall’altro si dovevano assistere insiemi di persone scelte in base alla loro capacità di mettere a frutto, sul piano lavorativo e morale, la beneficenza che la collettività aveva concesso. Ovvero, la messa in comune delle sostanze dei cittadini più facoltosi doveva favorire una redistribuzione controllata della ricchezza fra i poveri; dovevano compensare il beneficio ricevuto, quando possibile, con un’attività lavorativa. Gli oziosi ed i poveri mendicanti non meritavano aiuto. Il modello cristiano dell’assistenza prevedeva due categorie entrambe virtuose: ricchi generosi e poveri laboriosi. Correggere la povertà: il lavoro. Per molti laici delle classi agiate, aiutare i poveri mettendoli in ospedali o ricoveri aveva anche un'altra funzione: evitare che torme di mendicanti girassero per la città. L'umanista fiorentino Leon Battista Alberti (1404-72), parlando degli ospedali nel suo Trattato di architettura, ricordava come alcuni governi, per non vedere i mendicanti andate “uscio a chiedere l'elemosina, disturbando gli onesti cittadini inutilmente con l'accattonaggio ed il loro aspetto ripugnante”, avevano vietato ai poveri di restare in città senza fare niente per più di tre giorni (come nell'ordinanza di Filippo VI). Testo a Pagina 407. Dietro questa severità per il mendico vagabondo, si celava un'intolleranza verso il povero ozioso, che la cultura giuridica ecclesiastica aveva condannato senza appelli. I poveri potevano essere aiutati, ma non restare inattivi. Il criterio dell’utilità, inteso come attitudine al lavoro, entrò così nella gestione pubblica dei poveri, favorendo politiche di riutilizzo a basso costo di una forza lavoro altrimenti inattiva. Es. i ragazzi degli orfanotrofi venivano allevati per diventare “figlioli” di bottega”. Il povero doveva essere spinto a non cadere nell’ozio, a rendersi utile lavorando. Solo così l’economia della carità chiudeva un circolo virtuoso del denaro e della ricchezza pubblica, sempre più accentrata nelle mani di una élite di laici illuminati dalla fede. Mettere la ricchezza in comune: contro l'accumulazione privata. Di per sé la ricchezza non era un male, ma facilmente poteva esser usata male. Per la cultura cattolica, l'accumulo di beni dettato da avidità e falsa convinzione che il benessere materiale fosse merito delle proprie capacità conduceva i ricchi a cadere nel peccato di vanagloria, sentirsi estranei al messaggio religioso, slegati dai doveri morali verso il resto della società L’avidità era in effetti il peccato antieconomico per eccellenza, perché impediva la circolazione dei beni. L’impulso ad accumulare beni per sé, era totalmente sterile: immobilizzava capitali senza farli fruttare, li tesaurizzava in una vana ostentazione di ricchezza. La Chiesa aveva condannato severamente queste pratiche. I beni andavano messi in comune e fatti circolare in un sistema di scambi fondato, appunto, sulla carità, sulla capacità di dare e di distribuire in maniera equa e soprattutto gratuita il superfluo che diventava il necessario per i più poveri. Arbitri di questo scambio erano gli uomini di Chiesa, unici a saper valutare cosa era necessario o meno. I monti e l'assistenza pubblica. Minori francescani e predicatori furono all'avanguardia nella riflessione cristiana sull'economia pubblica della città: consigliarono, re, principi e governi cittadini di mettere in comune i beni per assicurare il bene comune. Nozione cardine del pensiero politico bassomedievale, il bene pubblico riceve nei trattati francescani una concretezza nuova ed economica. Riprendendo un'immagine dei testi biblici, i francescani attualizzarono la metafora del “monte” come luogo di concentrazione della grazia infinita di Cristo da distribuire a tutti. Quel termine fu trasferito alle nuove istituzioni laiche che dovevano mettere in comune le ricchezze della città per distribuirle ai bisognosi in forme caritatevoli. Monti furono così chiamati gli istituiti pubblici fondati su capitali messi in comune con scopi morali ed esplicitamente ispirati ai valori cristiani. Già il debito dei comuni italiani era stato chiamato monte delle prestanze, ma nel Quattrocento i nuovi monti a scopo caritatevole si specializzarono nell'assistenza di particolari categorie di persone. Per esempio i monti delle doti (fornivano una dote alle donne nubili senza famiglia o povere), i monti di pietà (offrivano prestiti di bassa entità a persone povere dietro consegna di un pegno). L’intento dichiarato del monte di pietà era quello di sostituire il prestito ebraico giudicato usurario e anticristiano con un prestito cristiano a interesse modico e giusto. Il pegno era comunque un legame che impegnava la persona ad attivarsi per ottenere la restituzione dell’oggetto. La povertà andava aiutata, ma sempre dietro una reazione positiva dell’assistito. Nulla era dato a fondo perduto. Politica ed economia. La saldatura tra la carità istituzionalizzata e la promozione di uno strato aristocratico che si faceva carico del governo della povertà era ormai compiuta: L’élite economica divenne anche un’élite politica e di governo che monopolizzava le cariche e controllava di fatto l’economia della città, la redistribuzione di beni e di ricchezze nella società urbana. I compratori delle quote del monte del debito divennero i controllori della politica non solo fiscale del comune. Si crearono istituti esterni che gestivano le finanze pubbliche in forme apertamente speculative. Il Banco di San Giorgio a Genova ne è un esempio.
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