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Storia moderna riassunti libro "le stanze del re", Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunti libro "Le stanze del re" prof.ssa Campanelli. Esame magistrale corso lingue e letterature moderne, Federico II

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 19/02/2019

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piccolarobby1 🇮🇹

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Scarica Storia moderna riassunti libro "le stanze del re" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 3. MONASTERI FEMMINILI E PATRIZIATO CITTADINO A CAPUA IN ETA' VICEREALE Capua, con i suoi 36 casali, ha rappresentato nel corso dell'età moderna uno dei più importanti centri di Terra di Lavoro, sia per le sue funzioni amministrative che per quelle civili, militari, produttive e religiose. Inoltre, la condizione di città regia non solo aveva contribuito a creare un rapporto del tutto particolare con la capitale del Regno e con gli organi di governo centrali, ma l'aveva resa forte di una lunga serie di privilegi accordati dai vri sovrani, fra tutti quello concesso dagli Eletti capuani di essere i primi, dopo quelli di Napoli, in sedendo et loquendo, nei parlamenti generali e la cosiddetta convenzione dei 1200 fuochi. Tutto ciò, insieme alla presenza di un patriziato urbano, sembra inserirla a pieno titolo nel dibattito intorno all'oggetto storico-città, che ha portato gli studiosi a confrontarsi su vari temi, quali la dimensione degli insediamenti, la dinamica dell'urbanizzazione, la formazione delle gerarchie urbane, il controllo delle cariche pubbliche, ecc. In particolare, ciò ha voluto dire cercare di recuperare la dialettica sociale interna alle istituzioni locali, sulla scorta dello studio del rapporto centro-periferia. 1. La realtà monastica femminile Capura non si sottrasse a tali dinamiche, prendendo come punto di osservazione privilegiato per questo studio i monasteri femminili, una delle delle istituzioni ecclesiastiche a cui è riconosciuto un ruolo di prim'ordine nelle strategie dell'aggregazione e del conflitto all'interno delle varie comunità cittadine nell'età moderna. Fino ai primi decenni del XVII secolo in città furono operativi 3 monasteri: S. Giovanni delle dame monache, S. Maria delle dame monache e quello del Gesù Grande. I primi due erano di regola benedettina; il primo soggetto direttamente alla giurisdizione dell'abate di Montecassino, mentre l'altro dipendeva dall'ordinario diocesano. In quello del Gesù, invece, si osservava la regola francescana. Nel 1627 sarebbe sorto il monastero di S. Girolamo, anch'esso di regola benedettina, istituito dal nobile Lelio Tomasi per le 4 figlie e affidato alla guida di Roberta d'Errico, uscita da quello di S. Giovanni per ricoprire la carica di badessa nel nuovo. Da sempre la migliore gioventù capuana era confluita nei due monasteri benedettini più antichi i quali avrebbero rafforzato il ruolo di roccheforti al femminile dell'aristocrazia cittadina. Le famiglie più influenti, infatti, avevano finito con il controllare le 2 istituzioni, in particolar modo i di Capua, i Lanza, i d'Azzia, i del Balzo. La famiglia di Capua e d'Azzia appartenevano alla più antica nobiltà capuana, di origine longobarda la prima e di origine sveva la seconda. In breve, l'ingresso di una propria rampolla in uno dei due monasteri divenne, sia per le famiglie di nobiltà generosa, sia per quelle della nobiltà fuori piazza, un passaggio obbligato per l'ulteriore legittimazione di un prestigio raggiunto. Queste nobiltà avrebbero dirottato nel giro di pochi anni le donne delle loro famiglie nei monasteri suddetti, dove molte di loro non avrebbero tardato a ricoprire le cariche più importanti. Un caso per tutti è quello di Caterina de Graffis, eletta badessa per tre volte in S. Maria. Il terzo monastero benedettino presente in città, istituito nel 1627 ed intitolato a S. Girolamo, avrebbe finito con lo svolgere una funzione di complementarietà rispetto ai due più antichi, ospitando per lo più giovani provenienti da famiglie capuane in ascesa, come i Friozzi, gli Umbriani, i Vetta, i Pepe, gli Stocchi, alla ricerca di uno status nobiliare, che avrebbero raggiunto solo nel '700 inoltrato. 2. La chiusura dei monasteri E proprio il binomio aristocrazia-monasteri si rivelò, negli anni, come l'asse portante della storia delle due istituzioni più antiche ritmandone le vicende. Fra la fine del '400 e i primi decenni del '500, sia il monastero di S. Giovanni che quello di S. Maria, avevano ampliato i loro possedimenti. Nel corso del XVI secolo, poi, le monache avevano fatto a gara per abbellire e dotare le chiese annesse ai loro complessi conventuali di soggetti iconografici, attraverso una forma di matronage, funzionale ad una più ampia strategia familiare di autorappresentazione. Ad esempio, in quello di S. Maria, Caterina Marzano d'Aragona, badessa nel 1494, finanziò personalmente la costruzione di una tribuna con l'altare maggiore. Ma non furono da meno le monache di S. Giovanni, dove le badesse Geronima e Adriana Clavelli non si limitarono a commissionare e finanziare quadri, ma vollero che gli stemmi delle rispettive famiglie figurassero nel soggetto dipinto. Tutto ciò, dunque, fa pensare alla fitta rete di relazioni esistente intorno a queste donne, insieme al valore culturale che i monasteri da loro diretti rappresentavano nella vita cittadina. Basti pensare che nel 1540, le 20 monache di S. Giovanni e le 8 di S. Maria non solo vivevano separatamente, ma si spartivano fra le più anziane i proventi della mensa abbaziale e le doti delle novizie. Anche qui, furono le istituzioni municipali prima di quelle ecclesiastiche ad avvertire il problema dei monasteri. Il disattendere la regola, infatti, alla lunga rischiava di mettere in discussione la stessa onorabilità delle famiglie di origine delle monache. Con un notevole ritardo rispetto ad altre realtà del Regno, a Capua il problema divenne concreto solo nel 1551, manifestandosi, come accadeva altrove, come un problema di rappresentazione politica. In effetti, già precedentemente si erano diffuse in città voci circa alcune intemperanze, ma fu soltanto in quell'anno che gli Eletti invocarono la clausura per entrambi i monasteri benedettini. In particolare, richiesero il perentorio intervento dell'abate cassinese Ignazio Vicani affinchè sottoponesse ad una rigida clausura le monache di S. Giovanni dove era stata introdotta l'elezione triennale della badessa. La riforma arrivò nel 1556, ma come prevedibile, le monache non accettarono di buon grado le innovazioni apportate che, fra l'altro, prevedevano l'ingerenza di due procuratori scelti dall'amministrazione cittadina, con il compito di far osservare la clausura. Alla fine le monache rientrarono in possesso delle chiavi del monastero e all'abate Vicani fu intimato di lasciare la cura dell'istituzione monastica. Il suo successore, Angelo de Faggis, avrebbe continuato a distanza la sua opera di riforma con apparenti riscontri positivi. 3. Dinamica del patriziato cittadino Qui non si assiste a tentativi di chiusura oligarchica tanto frequenti nella storia dei patriziati cittadini in quel periodo, bensì al processo inverso, cui aveva indubbiamente contribuito il sacco subito dalla città nel 1501 ad opera di Cesare Borgia e che aveva reso Capua "inferno, carcere, sepolcro". La violenza inaudita dalle truppe aveva "fatto in pezzi la maestà, la bellezza e ogni altro ornamento della natura." 5. Roberto Bellarmino, Michele Monaco e l'ideologia nobiliare Il monastero di S. Giovanni, dove nel 1592 era stato sospeso l'abbadessato, sarebbe stato riaperto soltanto nel 1604, grazie all'interessamento di Roberto Bellarmino, chiamato alla guida della diocesi, con l'intento di introdurre all'interno di questo chiostro una condotta di vita in linea con i dettami tridentini. Ben conscio del fatto che il maggior ostacolo a tale programma derivava proprio dalla presenza di donne appartenenti alle maggiori famiglie del patriziato capuano, pronte a riproporre all'interno del monastero alleanze e tensioni come pedine di un meccanismo di autorappresentazione delle stesse famiglie, cercò comunque di attuare un vero e proprio processo di democratizzazione dimostrando come all'interno dei chiostri i valori dei natali e delle ricchezze perdessero tutta la loro valenza. Erano state proprio le nobil, a parer suo, a determinare la rovina dei monasteri di S. Giovanni e di S. Maria. Tuttavia si dichiarò disposto ad accettare che le cariche più importanti all'interno del monastero fossero assegnate alle nobili, ma non avrebbe mai tollerato che ad una giovane virtuosa fosse rifiutato l'ingresso unicamente oerchè non appartenente ad alcun nobile lignaggio. Tutto l'operato appare improntato sulla pastorale controriformistica, secondo cui il cammino verso la perfezione avrebbe dovuto cominciare dal momento stesso in cui si entrava in monastero, basando il proprio comportamento sulla vera e semplice obbedienza verso la badessa e la loro maestra, sulla modestia e sul controllo dei gesti, evitando di "farsi carezze che habbino specie d'amor sensuale". Nel giro di pochi mesi dalla sua riapertura, il Bellarmino avrebbe lasciato la diocesi, anche se le monache avrebbero continuato ad avere in lui un interlocutore accorto e solerte nel venire incontro alle loro richieste. Nè fece mancare il suo sostegno e la sua stima a Michele Monaco, colui al quale aveva affidato l'incarico di confessore spirituale del chiostro. Il Monaco legò il suo nome a una delle prime e più complete opere sulla storia ecclesiastica di Capua, ossia il Sanctuarium Capuanum e la successiva Recognitio; molte altre sue opere inedite erano dedicate alle monache di S. Giovanni, in cui emergono anche temi cari alla pastorale bellarminiana. Sono proprio queste ultime opere che ci aiutano a fare luce sul suo operato all'interno del monastero. Ogni momento della vita della monaca venne da lui attentamente seguito ed illustrato per rendere le giovani consapevoli del valore e del significato della loro scelta claustrale. In particolare, si soffermò con dovizia di particolari sulle varie fasi della vestizione di una monacanda ed illustrò le numerose valenze simboliche insite nella ritualità del matrimonio mistico, racchiuso in 3 momenti, della preparatione, della obligatione e della operatione a suggello di un radicale cambiamento di vita. Il Monaco prestò anche una particolare attenzione al controllo delle letture, per impedire la costruzione di una cultura personale e un qualsiasi sapere speculativo da parte delle monache. E nel 1620 compose un breve memoriale per ricordare alle sue monache i 4 principi cardine su cui era improntata la loro vita, vale a dire l'essere creature umane, cristiane, monache e benedettine. Ma, evidentemente, i suoi tentativi di sensibilizzazione non erano riusciti a sortire gli effetti desiderati se nel luglio del 1621 scriveva amareggiato delle inadempienze delle monache, che si dimostravano solo ciarliere, aduse alla mormorazione, incuriosite da futilità e, in particolare, eludevano il voto di povertà, possedendo anche il superfluo. Ed anche il comportamento della badessa non era esente da critiche per il cattivo uso dell'arbitrio, che veniva inteso come "capriccio" e non come un "giudizio regolato". In breve, in S. Giovanni continuavano ad essere più che mai vive attitudini comportamentali contro le quali la Chiesa tridentina stava da tempo combattendo. Il Bellarmino, come è noto, aveva auspicato un processo di apertura nei confronti delle giovani non appartenenti ad alcun nobile lignaggio e il Monaco scrisse un Discorso, con il dichiarato fine di dimostrare "quanto sia grande la superbia di quelle che stimano più l'essere nata nobile che l'esser monaca" e come l'osservanza della regola finiva con il porre tutte sullo stesso piano. Secondo il Nostro, la nobiltà era suddivisa in 4 tipi: soprannaturale (o spirituale), naturale, morale, civile; tutte dono di Dio; tutte, a loro volta, ripartite in diversi gradi; tutte soggette a precarietà. Ma il primato spettava a quella spirituale, tutte le altre sono nobiltà di ombra. Egli non mancò di sferrare una feroce critica nei confronti della nobiltà ecclesiastica e dei chierici che conducevano una vita di cattivo esempio per i laici. Ed è proprio questo tema che ci induce a porre il Monaco fra coloro che, sullo sfondo della crisi del '600, cominciavano a ripensare in termini critici alle basi stesse della ideologia nobiliare. Ma non dimentichiamo che egli è soprattutto un direttore spirituale, uomo del Bellarmino, che si trova a svolgere il suo incarico in anni in cui a Capua è più vivo che mai lo scontro fra vecchia e nuova nobiltà. La democratizzazione auspicata da Bellarmino e ribadita da Monaco avrebber tardato ad arrivare ed ancora a lungo la nobiltà cittadina avrebbe continuato a fare delle istituzioni monastiche il fulcro per costruire la propria identità sociale. Ciò che è emerso con forza è come la storia dei monasteri femminili capuani debba essere più che mai letta sullo sfondo delle strategie di mobilità e di ascesa sociale, messe in atto dal patriziato cittadino. Nel 1738, in un altro contesto politico e culturale, il panorama conventuale si sarebbe arricchito di un altro monastero di clausura, quello di S. Gabriele, fondato dalla monaca Angela Marrapese e dal carmelitano Salvatore Pagnani. Nel giro di pochi anni la fama della Marrapese, divenuta badessa, e del suo monastero avrebbero varcato i confini capuani, anche grazie alla subentrata familiarità con la famiglia reale. E, ancora un volta, nuove strategie e nuove alleanze avrebbero fatto di una istituzione ecclesiastica un ulteriore spazio di potere. 4- Il monastero di San Gabriele a Capua fra età borbonica e soppressioni post unitarie Con l’arrivo dei Napoleonidi, un processo di modernizzazione investì la società in tutti i settori, da quello politico-istituzionale a quello economico-sociale. Ovviamente, a questo processo di modernizzazione, vi fu anche una risposta da parte del mondo religioso e del clero. Nel mezzogiorno, durante l’era napoleonica, vennero soppresse circa 1550 monasteri, su 2000 esistenti e la maggior parte di questi, non vennero più riaperti. L’unica eccezione è stata fatta dal monastero di San Gabriele, riaperto durante la restaurazione. Le notizie sulle origini del monastero, ci sono giunte grazie alla testimonianza di un’anima religiosa che, nell’Ottobre del 1746 su sollecitazione del Pagnani, ne scrisse una breve cronaca. Il desiderio del carmelitano Salvatore Pagnani, di fondare un monastero, lo accompagnava fin da quando abitava a Menfi. Trasferitosi a Capua, aveva consentito a Suor Maria Maddalena della croce di raggiungerlo, la donna desiderava poter continuare ad avvalersi della direzione spirituale del Pagnani. A Capua, Suor Maria M. venne ospitata nella casa del sacerdote don Antonio di Caprio. La sorella del sacerdote, monaca terziara carmelitana, cominciò ad intraprendere con Suor Maria Maddalena alcune pratiche di devozione, ad esse si unirono poi Angela e Matilde Marrapese, due sorelle native del casale di Capua. Le 4 giovani iniziarono una convivenza basata su esercizi spirituali e preghiere e questo fu il preludio dell’organizzazione monastica. Alcuni eventi, come l’apparizioni e la voce dell’arcangelo Gabriele, si manifestavano ad una sorella e diedero sempre più concretezza all’antico progetto del Pagnani. La prima sede ufficiale della comunità fu la casa del sacerdote di Caprio, mentre il trasferimento ad una sede più grande ebbe alcune controversie. Inizialmente i locali destinati alla comunità religiosa, risultarono occupati dalle truppe spagnole, dopodichè anche la stessa città di Capua sembrò mal tollerare la nascita di una nuova istituzione femminile. Decisivo, poi, fu l’intervento di due nobili (Alessandro d’Azzia e Marcantonio Boccardi) per sbloccare la situazione, così il 29 Settembre 1738 venne ufficializzata l’esistenza della nuova comunità monastica. Nelle parole dell’anonima cronista, oltre all’intento di voler celebrare i fondatori della nuova comunità, possiamo ritrovare anche la presenza di un altro protagonista: il BIZZOCAGGIO. Questo termine indicava la scelta di vita delle donne che abbracciavano volontariamente il nubilato , quella particolare forma di “terzo stato”, che nel corso del 700 viene sempre di più alla luce con tutte le sue potenzialità espressive, fino a raggiungere il suo apice nel 1867 con la canonizzazione della bizzocca dei quartieri spagnoli vissuta nel XVIII secolo, Maria Francesca delle Cinque Piaghe. I requisiti indispensabili per poter divenire una monaca di casa erano: almeno 40 anni d’età, entrate personali in grado di garantire una vita dignitosa, dimora singola o con parenti e affini di primo grado. Il mondo delle bizzocche, costituito da donne sostanzialmente libere, fu un fenomeno esteso e oltremodo complesso, e costituì una dimensione estremamente importante dell’universo femminile meridionale: innumerevoli erano i casi in cui le bizzocche, sfidando i decreti vescovili, non esitavano d indossare il velo, il sottogola e la pazienza, capi distintivi della condizione monastica regolare. Il Settecento e la dinamica delle monacazioni Nell’ottobre del 1760 il giovane Re Ferdinando IV pose sotto la protezione regia il monastero di S.Gabriele, così come avevano precedentemente fatto i genitori nel 1752. Nel 1763 la Congregazione dei vescovi e dei regolari, nel concedere all’ordinario diocesano sia di erigerlo in clausura che di riconoscere il Pagnani quale direttore spirituale delle monache, aveva aperto il problema della dipendenza giurisdizionale. In una lettera inviata nello stesso anno, re Carlo si dichiarava fiducioso. Nel ribadire alla Segreteria dell’Ecclesiastico che il monastero era di fondazione regia e, come tale, dipendente dal Cappellano Maggiore, in virtù del decreto pontificio, sarebbe stato soggetto all’arcivescovo competente. Sotto il profilo della disciplina monastica veniva confermata la dipendenza dal Generale pro tempore dell’ordine carmelitano, inoltre sulla porta della chiesa e del monastero avrebbero dovuto essere poste le insegne reali ed un’iscrizione in cui fosse esplicitamente indicato che il monastero era sotto la protezione del sovrano. Nel corso del secolo il Ritiro procuratore generale di Cassazione di relazionare sulle spese necessarie per adeguare nuovamente locali a sede monastica. Venne deciso, successivamente, di elargire alle religiose 1000 ducati e fu aggiunta, inoltre, la restituzione di tutte le suppellettili. Nel Dicembre 1824 Ferdinando I, re delle Due Sicilie, in base a quanto previsto dal concordato stipulato nel 1818 con la Santa Sede, approvava il versamento di 556 ducati e 84 grana all’ente e lo dichiarava corporazione legittimamente esistente. Le monacazioni ottocentesche, non vedono più la forte componente spagnola, così come sembra sensibilmente ridimensionata la presenza di giovani forestiere. Non sembra, però, essere venuta meno la tendenza, da parte degli ufficiali, di scegliere il Ritiro per le proprie rampolle destinate al chiostro. La presenza di giovani straniere, figlie di ufficiali, dimostra come alla riapertura del Monastero, questo avesse continuato ad assolvere la sua funzione di luogo-simbolo delle famiglie militari borboniche. In un esercito già trasformato dalle riforme settecentesche del ministro Acton, che aveva offerto a chiunque la possibilià di una carriera militare abolendo il privilegio aristocratico, e completamente rinnovato dopo il crollo della monarchia Borbonica e la successiva parentesi del Decennio francese, la presenza nel Ritiro di fanciulle legate a famiglie locali e non più provenienti dalla Spagna e dagli altri Stati Italiani, testimonia i mutamenti in atto. Oltretutto una nuova consuetudine investì le monacazioni del Monastero di San Gabriele, quella della produzione di componimenti poetici composti in onore delle fanciulle. Nel corso degli anni le religiose erano tornate a riempire il Monastero, ma, nel 1863, la mancanza di soggetti abili a svolgere le funzioni in chiesa, rese necessario “fare acquisto” di una giovane abile a suonare l’organo, a cantare e in grado di istruire le fanciulle e di aiutare nell’officio del coro in quanto erano pochissime le monache in grado di farlo. Inoltre, nel corso del tempo, i lavori di manutenzione straordinaria dell’immobile, divennero sempre più frequenti. Proprio in virtù della protezione che, da sempre, il Ritiro godeva da parte della famiglia reale, l’arcivescovo di Cosenza, nel 1860 chiese sostegno economico a Francesco II, ricordandogli di quanto fatto dalla famiglia reale, fino al padre Ferdinando II, per le religiose del Monastero. Con la legge del 7 Luglio 1866 il Monastero di San Gabriele, veniva dichiarato soppresso e con esso vennero chiusi anche i 3 superstiti conventi maschili. Alla resistenza opposta dalle residenti, si reagì con la violenza e costringendo molte di loro ad uscire. Fu l’arcivescovo di Capecelatro a dare una svolta alla questione chiedendo, ed ottenendo, dalla Congregazione dei Vescovi e Regolai, che la clausura fosse convertita da pontificia a vescovile. Da quel momento il Ritiro divenne conservatorio soggetto alla congregazione della Carità. Erano gli ultimi sussulti di vita di una istituzione che aveva legato il suo nome a quello della casa regnante, in un legame simbolico che l’aveva vista condividere i momenti migliori, le cadute, i ritorni, fino all’inevitabile fine nel 1880. 5- Angela Marrapese “la consaputa bizzocca di Capua stimata Santa” La vicenda umana di Angela Marrapese è indissolubilmente legata al monastero da lei fondato. Fu lei a conferirgli una notorietà che avrebbe ben presto varcato le mura cittadine. In esso trascorse la maggior parte della sua vita, ricoprendovi a lungo la carica di badessa e sempre da protagonista della scena religiosa locale. Grazie a lei il Ritiro divenne un punto di riferimento per quanti conobbero ad Angela un forte potere carismatico. Le badesse che si succedettero negli anni, continuarono ad intrattenere rapporti con i regnanti, impronati ad una cordialità, che si intuisce più formale che sentita, fatta di scambi di auguri in occasioni come compleanno ed onomastici e di piccoli omaggi inviati a Napoli e in Spagna. Questo è il tono che traspare dalle lettere di ringraziamento inviate da Maria Cristina di Borbone, moglie di Ferdinando VII al Ritiro capuano, così come da quelle scritte da Maria Isabella di Borbone, infanta di Spagna, sposa di Francesco I re delle Due Sicilie. Attraverso le lettere inviate dalla regina Maria Cristina si intuisce come le religiose capuane le erano state vicine spiritualmente durante la malattia del consorte, quando le era stata affidata la reggenza, così come al momento della nascita della figlia Isabella, futura regina di Spagna e, ancora, nel momento della morte del padre Francesco I. La Badessa Angela era nata a Pantoliano nel 1711. Morì a Capua nel gennaio 1789, dopo aver trascorso la maggio parte della sua esistenza nel Ritiro in qualità di badessa, sempre pronta a sollecitare con le sue azioni, le sue intuizioni, le sue strategie a saper trarre l’utile maggiore per l’istituzione voluta da lei e da Padre Pagnani, senza disdegnare comunque il successo personale. La sua caparbietà e la sua risolutezza si sono rivelate quando, giovane bizzocca proveniente da un casale capuano, si era ostinata a seguire il suo padre spirituale, pronta ad affrontare critiche ed ostacoli. Con la stessa determinazione avrebbe trascorso tutta la sua vita accompagnata sia da plausi e stima, che da calunnie e maledicenze. Basta leggere la breve cronaca scritta da lei stessa in chiave autoreferenziale, per comprendere il suo intento di dare di sè un’immagine di donna dotata sin dalla tenera età di doti eccezionali. Le visioni, le tentazioni diaboliche, lo stile austero di vita, l’autorevolezza della maturità erano già presenti in embrione nella piccola Angela. Rispettando il topos dei racconti agiografici relativi alla santità infantile, la sua vocazione era stata precocissima. Il Signore l’aveva esudita facendola nascere al settimo mese di gestazione. Appena venuta al mondo aveva compreso la nullità dell’essere umano e aveva deciso di votarsi alla sofferenza. Subì da piccolissima una grave infermità, nel corso della quale aveva visto intorno a sè creature che non erano umane, che la consolavano. A 5 mesi aveva prnunciato le sue prime parole “Dio Mio”. Il desiderio di farsi santa l’aveva accompagata fin dai suoi primi anni, insieme alla consapevolezza della sua incapacità a realizzarlo. Dal momento in cui ricevette l’eucarestia, a 6 anni, aveva cominciato a riunire delle bambine, alle quali insegnava la dottrina, predicava e con loro pregava. A 12 anni cominciò uno stile di vita segnato da aspre mortificazioni (erbe putrefatte e pane rancido costituivano il suo vitto durante le novene e dormiva in un letto pieno di spine e funi di ortiche), cominciarono allora anche gli assalti del demonio, ai quali rispondeva moltiplicando le sue orazioni. A 17 anni sarebbe avvenuto l’incontro risolutivo e pacificatore della sua coscienza, quello con padre Salvatore Pagnani. Da quel momento sarebbe nata una nuova Angela, ovvero Suor Maria Angela del Divino Amore. Divenuta badessa perpetua, avrebbe affrontato ferma e risoluta ogni problema e accuse e delazioni. Riuscì ad ingrandire il Ritiro, acquistando il palazzo di Francesco Stocchi. Per il suo monastero si avvalse, inoltre, della consulenza dell’architetto che stava dando vita al palazzo reale di Caserta, Luigi Vanvitelli, a cui fece progettare il campanile del Monastero. Il 15 Luglio 1752, alla presenza della Regina, veniva consacrata la chiesa intitolata a San Gabriele. Il 4 Aprile 1758 Angela avrebbe fatto di quella chiesa un luogo di ancor maggior richiamo dal punto di vista devozionale. In quel giorno avevano fatto il loro ingresso trionfale in città le spoglie di S. Placida, questa reliquia venne acquistata per essere data in dotazione alla chiesa di San Gabriele. In tal modo da quel momento anche le monache del Ritiro potettero dotarsi di un patrimonio di risorse simboliche, la cui presenza contribuiva non solo a legittimare la loro identità come spazio sacro all’interno della città ma, al contempo, qualificava ulteriormente lo stesso spazio urbano. Le reliquie di S. Placida finirono con il conferire maggior lustro e notorietà al Ritiro. Sulla scia del successo conseguito a Capua, nel 1757 Angela, insieme al Pagnani, dava vita ad un’altra omonima istituzione monastica a Grumo Nevano. La richiesta era giunta da Caterina di Cirillo, anch’ella bizzocca, che aveva messo a disposizione la sua abitazione per ospitare una comunità di religiose carmelitane scalze, sul modello di quella capuana. Il 30 maggio dello stesso anno, suo Maria Battista della Natività, insieme alla conversa Maria Custode di S.Raffaele, accompagnate dalla Badessa Maria Angela del Divino Amore, lasciarono Capua per insediarsi stabilmente nella nuova sede di Grumo dove sarebbero state accolte da un paese in festa. Ad attenderle c’era il vescovo di Aversa, con due giovani giunte da Napoli per vestire quel giorno l’abito carmeliano. Anche a Grumo, così come era avvenuto a Capua, probabilmente erano sorti degli ostacoli di fronte alla nascita del conservatorio. Angela aveva cercato di porvi rimedio, prontamente bloccata dal suo padre spirituale. Angela gli obbediva nel riprendere a fare la badessa a Capua dove, nel 1764, il San Gabriele era divenuto Monastero di clausura. Anche questa volta era stata la generosità di alcuni privati, fra cui la duchessa d’Andria Imperiali, a provvedere per una cappella in cui celebrare la prima messa e, nel tempo, i sostegni non erano mai venuti meno, a cominciare dai 100 ducati offerti dal vescovo al loro arrivo. Angela era riuscia a fare del Ritiro capuano uno specchio esemplare dell’antica osservanza regolare e nulla esclude che non sia riuscita nel suo intento anche in quello di Grumo. Maria Angela e Maria Amalia di Sassonia Nel 1753 la Marrapese aveva presentato le Regole da sottoporre al pontefice per l’approvazione. Le avrebbe poi confermate Clemente XIII nell’agosto 1759. Nel 1761 la stamperia reale pubblicava le Regole che vennero definite dal Ventimiglia, priore generale dei Carmelitani, tanto sante e prudenti, quanto rigide e rigorose. Rigidità e austerità ritmavano le giornate all’interno del Ritiro. L’assoluto sprito di povertà che imponeva alle monache di non avere nulla, traspirava anche dall’essenzialità della tonaca, dalle celle e dall’incedere scalze. Angela aveva dedicato le Regole a Ferdinando IV come tributo del loro ossequio, insieme ad un panegirico che sottolineava la munificenza mostrata sempre dai genitori nei confronti del monastero. D’altra parte nel ricordare al giovane Re le giornate che la madre aveva trascorso a Capua con lei e le consorelle, la pubblicazione delle Regole assumenva testimonianza tangibile della vita “innocentissima e religiosa” praticata dalla Regina, la quale aveva chiesto di essere sepolta indossando il loro abito. La storia ed il successo della Marrapese e del Pagnani e del loro Monastero non sarebbero comprensibili senza l’apporto della Regina Maria Amalia. Vale la pena sottolineare che fu solo grazie al favore da lei accordato pubblicamente alla Marrapese, che si riuscì a placare coloro che si opponevano alla nuova istituzione monastica. La sua ferma presa di posizione a favore della monaca ed i suoi aiuti pecuniari scongiurarono il pericolo dell’accorpamento del Ritiro al conservatorio di S.Teresa e dettero via al riconoscimento ufficiale del S.Gabriele. Innumerevoli, poi, furono i sostegni, sia in termini economici, ma anche in termini di ricaduta naturalmente, da parte di Angela, non mancarono parole di affetto e di stima per la Regina. Le lettere inviate da Carlo di Borbone alla Marrapese hanno messo in evidenza uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti la figura del Re: la sua profonda religiosità. I richiami alla fede, all’amor divino, sono costanti, così come è frequente il malinconico ricordo della sposa defunta. Angela non mancherà di far sentire la sua vicinanza e il suo sostegno morale al sovrano, condividendo con lui momenti di gioia e momenti di apprensione, accompagnandolo con i suoi scritti fino alla fine. Con il passare degli anni, la loro frequentazione epistolare diventerà sempre più serrata. Si ha l’impressione che il Re prenda il posto della Regina per il clima familiare che si instaura fra i due. Temi quali nascite, matrimoni, decessi, così come lo scambio di informazioni sulle condizioni climatiche, sono facilmente rintracciabili in qualsiasi pratica epistolare. E così accade anche tra Maria Angela Marrapese e il re Carlo diBorbone. Nel corso del 1788, in seguito ai provvedimenti di chiusura decretati dal governo, i Celestinidi s.Maria a Maiella, i Teatini e gli Agostiniani erano stati costretti a lasciare Capua. In Aprile, Maria Angela scrive al Re temendo che possano esserne chiusi altri e Carlo le esprime tutta la sua afflizione per i disordini che ne sono seguiti in città e le assicura tutto il suo sostegno, anche se teme che il suo intervento possa servire a ben poco. A Maggio è definitiva anche la chiusura del convento agostiniano ed il Re si dice estremamente amareggiato per quel popolo che gli fu tanto caro. Con la stessa partecipazione la badessa lo aveva sostenuto, con le sue preghiere, nell’ultima fase della guerra dei Sette anni, mentre Carlo la teneva costantemente informata sull’andamento del conflitto. La stessa confidenza e la stessa familiarità traspaiono anche nel rapporto fra la Marrapese e i giovani Borbone. È il 1 Novembre 1759 quando Maria Luisa, scrive a Maria Angela per rassicurarla del viaggio compiuto da Napoli a Barcellona. In altre lettere le parla della sua vita privata, delle lunghe passeggiate, le descrive le sue giornate e le feste svoltesi a Madrid nel Luglio dello stesso anno. Così come fa il principe Carlo, la ringrazia per le parole di conforto che ha avuto per sè e per i fratelli in occasione della morte della madre, e nel Gennaio 1764, con semplicità e naturalezza le apre il cuore confidandole di essere felicissima di sposare l’arciduca Leopoldo. Molto più sintetiche ed essenziali sono le lettere della giovane Maria Giuseppa. Infine le lettere dell’affezionatissimo Gabriele, il bambino che portava quel nome in suo ossequio. Angela, ben presto volle ricordare al Re i problemi in cui si dibatteva l’ordine carmelitano e lamentarsi per la soppressione di alcuni conventi e, naturalmente, volle dire, soprattutto, chiedere aiuti finanziari per il Ritiro. Questa volta non c’erano estasi e visioni ad agire sulla sensibilità del Re, tutto era affidato alle doti persuasive di Angela. Le espressioni di vera e propria devozioni, impreziosivano tutte le sue lettere al Sovrano. Il Re l’aveva ben presto esaudita, inviandole denaro, e Angela, puntualmente, aveva pianto un diluvio di lacrime. Il Re non mancò mai di inviare alle consorelle cacao, china e tabacco. Anche Maria Giuseppa dovette confrontarsi con le richieste provenienti dall’amica di famiglia. Con lei però i risultati non furono quelli sperati e avuti con i suoi genitori. Ma è la lettera del 1774 che mette fine a quella che sembra essere divenuta la prassi del chiedere da parte della moanca. Con la franchezza di sempre e mettendo a nudo la sua condizione economica Maria Giuseppa le aveva scritto che la famiglia reale non navigava più nell’oro. Il clima di familiarità ch negli anni del soggiorno napoletano si era creato tra Angela e i componenti della famiglia reali, continuerà anche in seguito quando i bambini saranno cresciuti e divenuti giovani e adulti. Ferdinando, rimasto a Napoli insieme al fratello Filippo, aveva avuto modo di esternare concretamente il suo attaccamento a quella monaca, da lui conosciuta da sempre. È il suo precettore a darne notizia, nelle lettere inviate al sovrano in Spagna, alle visite che il giovane Re compiva a Capua recandosi prima presso la chiesa di S.Gabriele per assistere alle funzioni liturgiche, e poi passeggiando nel conservatorio e nel giardino, sempre e solo in compagnia di San Nicandro e del padre Pagnani. Questo accadde fino al 1762, quando il San Nicandro confidò al Re Carlo le sue perplessità sull’opportunità che un Re potesse continuare le visite in quel luogo. L’imminente trasformazione del Ritiro in monastero di clausura gli avrebbe offerto il pretesto per raggiungere il suo scopo senza provocare traumi nel giovane. Già nel 1763, le visite si limitavano alla chiesa e le religiose vennero ammesse al bacio della mano attraverso una piccola porta, ma i colloqui con la monaca che lo conosceva in da piccolo, non sarebbero mai venuti meno, al pari del suo interesse verso la comunità capuana, così come aveva promesso a suo Maria Angela nel 1759, poco dopo essere stato proclamato Re. Nel 1788 Carlo muore, l’anno dopo toccherà la stessa sorte a Maria Angela. Morta la fondatrice carismatica del Ritiro i debiti aumentarono e le monache furono costrette a vivere in grande ristrettazza e, ancora una volta, come avveniva in passato, sarà la nuova badessa, Maria Evangelista dell’arcangelo Gabriele, a scrivere, nel Magio 1790, al nuovo sovrano di Spagna. Carlo IV. E così come accadeva nel passato, anche la badessa di turno ringrazierà l’attuale monarca per il cacao, la china e il tabacco che egli continua ad inviare, in ottemperanza al volere paterno. La nuova badessa avrebbe continuato, così come nella tradizione del monastero, ad inviare scapolari e abitini della Madonna del Carmine, confezionati dalle religiose. Attraverso questi doni, di scarso valore economico, ma di altissimo valore simbolico, Maria Angela veva perfezionato la sua rete di rapporti sociali , e cole che le era subentrata nella carica di badessa, avrebbe continuato a far tesoro del suo insegnamento. Maria Angela e Alfonso Maria de Liguori La fama della Marrapese non aveva tardato a diffondersi ben oltre Capua. Il suo stile di vita, le sue esperienze estatiche le avevano dato di certo notorietà; il favore goduto da parte dei sovrani aveva fatto il resto. Era noto che la monaca capuana godeva di amicizie influenti, come l’arcivescovo di Capua o il vescovo di Capri, e Angela, da parte sua, non aveva esitato ad avanzare richieste a sostegno dei suoi protetti. Aveva anche caldeggiato nomine vescovili, come era accaduto nel 1769 con la nomina della cattedra episcopale in Puglia. Nulla di cui stupirsi, se tramite Monsignor Benedetto Latilla, nel 1761, aveva cercato di giungere al Papa. Probabilmente avrebbe voluto sollecitare il riconoscimento della clausura per il Ritiro, ma il precettore del giovane re Ferdinando le aveva comunicato la sua impossibilità a favorirla, in quanto Clemente XIII accettava a stento le raccomandazioni dei sovrani e dei principi. Con Gioacchino Pontalti, uno dei maggiori esponenti dell’ordine carmelitano, la Marrapese intrattenne un rapporto epistolare dalla durata decennale, fino a febbraio 1771, cinque mesi prima che lui morisse. La situazione della chiesa, indebolita dalle contraddizioni latenti all’interno del mondo ecclesiastico era al centro delle riflessioni e delle preoccupazioni del carmelitano. Maria Angela è l’interlocutrice cui confessare ansie e timori. Impegnato a rilanciare il ruolo della chiesa nella società del tempo, e soprattutto attraverso una rivalutazione dell’operato del clero regolare, rivolse le attenzioni, in prima istanza, al suo Ordine ed ai fermenti che si agitavano in seno ad esso. E così, di volta in volta, dalle lettere inviate a Maria Angela emergono le difficoltò per l’attuazione della riforma nella provincia del Piemonte così come in quella di Roma. Appena eletto generale, aveva promesso di visitare tutti i conventi per riformarne, ove necessario, studi e costumo e aveva dato prova della sua determinazione nel sanare attriti ed operare esclusivamente nell’interesse delle varie comunità. Il suo interesse per il mondo ecclesiastico regolare aveva coinvolto anche il ramo femminile. Ne è una riprova non solo l’impegno profuso nel favorire le sorto del Ritiro capuano, intervenendo per il riconoscimento delle Regole, per la sua trasformazione in monastero di clausura ed altro ancora, ma anche la malcelata soddisfazione con cui l’11 Dicembre 1770 comunicava a Maria Angela la notizia che, finalmente, dopo 30 anni, aveva preso vita un nuovo monastero carmelitano di clausura, a Rovereto. Nel 1786 sarà un altro generale carmelitano, Audras, subentrato nel 1780, a rivolgersi alla monaca per chiedere di intervenire presso il Re, al fine di impedire che in Spagna e in Sicilia avvenissero delle scissioni. L’Audras era, infatti, fermo sostenitore della necesità di conservare uniti in un solo ordine, sia i conventi carmelitano dell’antica osservanza, sia quello che avevano abbracciato la riforma. Di fatto, non ci furono scissioni. Ad un grande risultato a favore della Congregazione del SS Redentore, da lui fondata, aspirava di certo, un altro religioso che si era ripetutamente rivolto alla monaca: Alfonso Maria de Liguori. Non era di certo la prima volta che questo si rivolgeva ad una religiosa, ma il tono usato con la capuana è però del tutto particolare,così come particolare è il momento in cui viene scritta la lettera a lei indirizzata. La Congregazione redentorista stenta ad ottenere il regio exequatur ed il pericolo di veder svanire tutti gli sforzi fatti per farla nascere si fa sempre più vicino e concreto. La supplica inviata al Re nel settembre 1752 non aveva sortito alcun effetto. Invano il de Liguori aveva sottolineato in essa come i suoi missionari, già presenti sul territorio da 19 anni con un attivo di quasi 40 missioni all’anno, avevano riscosso ampi consesia sia presso le popolazioni, sia presso i vescovi e come nel passato lo stesso Carlo di Borbone aveva mostrato interesse alla Congregazione. Il decreto emanato dallla Real Camera di S. Chiara nel dicembre 1752 si era limitato a concedere unicamente la sopravvivenza estremamente precaria. In un momento così difficile, Alfonso non esita a rivolgersi a Suor Maria Angela per chiederle aiuto e otenere il sospirato placet, intercedendo in suo favore presso la regina Maria Amalia. Nel passato, la religiosa era stata una penitente del de Liguori. Di certo li unisce un legame vivo e solido. Alfonso le scriverà ancora 3 volte nel 1753 ed ogni volta facendo appello a tutta la sua capacità persuasiva ed esortandola a insistere con la Regina per farle comprendere il danno che avrebbero subito molti fedeli se la Congregazione non fosse riuscita ad ottenere l’approvazione regia. Si intuisce che Alfonso pone grande fiducia in quanto la monaca potrà fare e, a volte, le parole assumono un ritmo così incalzante che egli stesso chiederà scusa per il suo atteggiamento tedioso. Le chiede, inoltre, in caso di risposta positiva, di indicargli dove può inviarle il memoriale da far recapitare a Maria Amalia. Leggendo le lettere è facile intuire che il de Liguori e la monaca sono legati da un’indubbia stima reciproca e da una sincera amicizia. Alfonso le In un momento in cui imperversava la polemica sulle doti monacali e si discuteva sulla loro abolizione o su una riforma in materia, non ci si può sorprendere se il Tanucci aveva contestato alla priora la somma richiesta al Betti. Maria Angela si era difesa, dicendo di non aver fatto altro che rispettare quanto previsto dalla Congregazione dei vescovi e dei regolari che contemplava, per le soprannumerarie, il pagamento doppio della dote. Angela, sentendosi offesa dal Tanucci, si rivolse direttamente al re Carlo a Madrid per presentargli le sue lamentele. La risposta regia non si era fatta attendere, nel giro di poco tempo la Badesse ricevette i 1650 ducati da lei richiesti per monacare la fanciulla Betti, ma da quel momento il Tanucci rimase sempre ostile al monastero di S.Gabriele. Con questa vicenda, Maria Angela aveva dimostrato, ancora una volta, l’influenza della monaca. “Santa” o “Strega”? Suor Maria Angela non fu ne una “Santa” ne una “Strega”, ne lei si professò tale, eppure i suoi atteggiamenti divisero l’opinione pubblica verso le due opzioni. Le prime apparizioni della giovane Marrapese in città, non tardarono a divenire oggetto delle conversazioni nei salotti e nei caffè e la donna finiva, ogni volta, con l’essere derisa e beffeggiata, ingiurata per il suo incedere scalza e per il suo stile di vita. Da qui, all’accusa di stregoneria per Maria Angela, supportata dalle visioni e dalle estasi di cui era protagonista, il passo fu breve, così come fu inevitabile la richiesta della discretio spirituum da parte dell’arcivescovo Orsini. Il riconoscimento di Angela quale indemoniata, avrebbe potuto rivelarsi l’arma vincente per spegnere definitivamente ogni velleità di nuove fondazioni di monasteri nella zona del Capuano. La monaca Maria Angela fu sottoposta ben due volte alla discretio spirituum, ma insoddisfatto del risultato negativo di queste due, invitò la Marrapese a presentarsi a Napoli, per essere giudicata da quattro religiosi di grande fama (gli oratoriani Gennaro Ausilio e Giuseppe Coppola, il dominicano Ludovico Fiorillo e il gesuita Francesco Saverio Manulio). Maria Angela uscì a testa alta anche da questa ennesima prova, e non risulta che venne mai giudicata dal Sant’Ufficio. Nel 1738 la piccola comunità di terziarie, celebrava la sua prima messa ufficiale, e dava il via alla vera e propria avventura monastica. Negli anni a seguire non mancarono altre indagini. Nonostante il perpetuarsi delle maldicenze, l’arrivo della Regina e la sua ferma presa di posizione a favore della “sua strega” avrebbero cambiato il destino del Ritiro e quello di Maria Angela. Nel 1741 alla novizia Teresa Poitier venne affidato il compito di registrare le estasi e i rapimenti della priora. Da allora, fino al 1757, quello che potremmo definire dei veri e propri diari, accompagnano il lettore alla scoperta delle giornate e delle notti di Maria Angela. Si tratta della Marrapese privata, che all’interno della cappella o della sua cella, vive in maniera complessa e contraddittoria, il suo rapporto con la divinità, ripetendo in maniera ossessiva gesti che sembrano rispettare una tacita codificazione. Con piccole varianti nella descrizione e nella terminologia, vengono riproposte, specialmente a partire dal 1745, situazioni e scene, diverse soltanto nella datazione, ma pressochè uguali nella loro rappresentazione. Il modello predominante è quello del Carmelo teresiano e della sua invasione amorosa ancora presente nel 700 inoltrato, così come le pratiche ascetiche di mortificazione. Non era raro, infatti, vedere la monaca mangiare a terra, farsi calpestare dalle consorelle all’uscita dal refettorio, trascinare la croce e così via. L’atteggiamento in cui la ritroviamo rapita più frequentemente è quello che simboleggia la rappresentazione del Cristo in croce e proprio per onorare la festività della Croce, aveva istituito, insieme al Pagnani, una particolare novena che comprendeva un meccanismo rituale, di chiara ascendenza barocca e controriformistica, ma di immediata ricezione, dai toni facili, femminili, tipici della religiosità del periodo. Di chiara derivazione barocca anche la spasmodica ricerca del corpo di Cristo, quando l’amore divino la invadeva al punto tale da toglierle il respiro. Il patimento affannosamente ricercato da Maria Angela trovava il suo humus migliore nel silenzio e nell’oscurità della notte quando, dichiarava, di essere percossa, da mostri non umani, con forza con delle serpi. Ben presto anche le esperienze diurne non furono da meno. La sapiente regia del tutto era affidata a padre Pagnani, il quale aveva consentito di poterla interrompere e chiedere spiegazioni ogni qual vola lo si riteneva opportuno, così come, era sempre il suo intervento che poneva fine a questa vera e propria rappresentazione ed altre analoghe, richiamandola all’obbedienza. Anche Maria Angela conobbe la pratica della scrittura. Alcuni sostengono che sia stat proprio lei a scrivere le Regole del monastero, da sola o con l’aiuto dell’arcangelo Gabriele, sottoponendole, successivamente, alla revisione di padre Pagnani; altri affermano che furono scritte da entrambi. Dagli epistolari esaminati, si può ipotizzare che scrisse un consistente numero di lettere. Purtroppo l’estrema esiguità di quelle che ci sono giunte, non consente di poterne ricostruire la tipologia. In ogni caso, le è stata attribuita una Dottrina che dà il nostro protettore san Gabriele alle religiose Carmelitane scalze della città di Capua, acciocchè siano vere figlie della SS Vergine con la perfetta immitazione delle sue virtù (titolo), rimasta inedita ed ignorata. Si tratta di un compendio della vera perfetione e regola di vivere un vero e proprio scritto didattico, una vera e propria direzione spirituale, dedicata alle sue consorelle. Ribaltando completamente quanto avveniva alle mistiche, che si estraniavano dalle parole, affidando ad altri il compito di comporle (caratteristica tipica della scrittura mistica femminile inerente agli argomenti spirituali), questa volta è lei a comporre un’operetta di argomento spirituale di cui, però, afferma non esserne l’autrice. Nella premessa, infatti, sottolinea la sua inabilità e incapacità nello scrivere, e attribuisce il merito dell’opera all’arcangelo Gabriele che le ha dettato il contenuto, mentre lei si è limitata a tenere la penna in mano e muoverla. In base a quanto scritto nell’operetta, la perfetta claustrale avrebbe dovuto vedere nella Vergine Maria, l’eccellente esempio da seguire. Maria Angela è la badessa che, attraverso i suoi scritti, da maggiore concretezza alla sua funzione di guida all’interno del monastero e, di conseguenza, una maggiore compattezza e identità al gruppo di monache claustrali. Le estasi da cui è colpita Maria Angela, di chiara derivazione cateriniana, avevano rappresentato un modello di santità visionaria e un modello di lunga durata per molte monache carismatiche. L’invasione amorosa, l’amore inteso come pentimento, la mortificazione corporale erano mutuatu, come si è detto, diretamente dall’insegnamento di Teresa d’Avila, di cui veniva privilegiata l’esperienza estatica. L’idea di una fusione tra Dio e l’anima del credente era già ampliamente diffusa nei monasteri femminili durante il Medioevo. Il rapporto diretto d’amore tra Maria Angela e Dio è estremamente intenso. Come le mistiche, anche nel caso della nostra monaca, il corpo viene usato per sperimentare la gioia e il dolore e, anche in questo caso, la linea che separa l’aspetto spirituale da quello corporeo e l’aspetto psicologico da quello sessuale è estremamente labile. Angela vive in un periodo in cui la Chiesa punta su una vita virtuosa, ma normale ed è costretta a respingere estasi e manifestazioni analoghe. Per comprende il personaggio di Maria Angela bisogna partire proprio da queste esperienze “soprannaturali”. La sua scelta claustrale non era forzata, non vi erano logiche familiari ad imporgliela; Angela aveva abbracciato la vita religiosa da monaca di casa (bizzocca). Divenuta monaca di clausura, non avrebbe rinunciato a quelle giovanili conquiste di libertà, ma le avrebbe utilizzate nel costruire sapientemente quella rete di rapporti interpersonali, che le avrebbero consentito di rimanere nella società e di farne parte pienamente, anche dall’interno del monastero. Angela si serve del suo status e della istituzione ecclesiastica che la ospita e che dirige, per conquistare e potere ed influenza. Le sue estasi, i suoi ratti, il suo patire, proiettati all’esterno, sono tutti funzionali ad un progetto rivestito di religiosità ma che, in realtà, si serve di questa (religiosità) per raggiungere scopi molto più terreni. Il suo stesso matrimonio mistico si presenta sotto questo punto di vista. Così come per Teresa d’Avila, erano stato interpretate (le estasi e il matrimonio mistico) come un modo per restistere alle costrizioni intellettuali e spirituali imposte dalla clausura e un modo per esprimere la propria autonomia intellettuale, così vengono interpretate anche per Maria Angela Marrapese. Maria Angela è, senza dubbio, una donna che ha saputo costruire intorno alla sua immagine di claustrale, un ruolo pubblico, destinato a rivelarsi importante nella cultura religiosa, e non solo, del tempo; infatti negli ultimi anni, le relazioni di potere sono state indagate per conoscere il reale peso esercitato dalle donne nella società di età moderna. Finì con l’esercitare un potere che non derivava nè per nascita nè per eredità, ma che aveva raggiunto, giorno dopo giorno, con l’intelligenza e oculatezza, e di cui era pienamente consapevole. Fu una delle tante “donne di palazzo”, che dal suo chiostro influenzò le scelte di molti e segnò con la sua presenza, per vari anni, la storia di un’intera città. Salvatore Pagnani, il santo mancato L’esperienza di suo Maria Angela del Divino Amore non sarebbe comprensibile senza la presenza del carmelitano Salvatore Pagnani, colui che l’aveva introdotta alla vita monastica, costantemente al suo fianco, dal suo primo apparire in scenam fino alla morte. Insieme avevano dato vita al Ritiro di Capua e a quello di Grumo; li avevano provvisti di Regole; avevano elaborao ed istituito delle pratiche devozionali e insieme avevano condiviso successi e malversazioni. Entrambi avevano frequentato gli ambienti di corte. Lei sempre in primo piano, nel suo ruolo di amica e confidente di personaggi di spicco, lui più appartato, ma proiettato a riscuotere consensi ad un livello più spirituale, attraverso la sua condotta di vita, le sue doti taumaturgiche, lo spirito profetico, il suo stile di vita improntato alla povertà ed alla sofferenza. Alla morte del Pagnani, Maria Angela e la comunità chiesero di istituire un processo di canonizzazione in suo favore, le cui prime fasi si svolsero a Capua, Melfi e Aversa. Il costo della santità
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