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Storia Moderna, Storia dell'idea di Europa, Sintesi del corso di Storia Moderna

CARLO V, FILIPPO II, SUCCESSIONE SPAGNOLA DOPO LA GUERRA DEI TRENT'ANNI, RIVOLTA DEI PAESI BASSI, RIFORMA PROTESTANTE, ANGLICANESIMO, CONTRORIFORMA, INGHILTERRA, PRIMA RIVOLUZIONE INGLESE, SECONDA RIVOLUZIONE INGLESE, FRANCIA, ASSOLUTISMO LUIGI XIV, GUERRA DEI TRENT'ANNI, RIVOLUZIONE AMERICANA.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 10/09/2022

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Rossella142000 🇮🇹

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Scarica Storia Moderna, Storia dell'idea di Europa e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! CARLO V Nei primi decenni del ‘500, per effetto di un’intricata successione ereditaria, un immenso dominio si concentrò nella mani di Carlo d’Asburgo, nipote da parte di madre di Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona. Alla morte del nonno, i vasti territori dell’eredità castigliana e aragonese andarono al giovane Asburgo, e non a sua madre Giovanna di Castiglia, detta la pazza, giudicata incapace di reggere il governo. Questi comprendevano i regni di Castiglia e di Aragona, che comprendevano Sardegna, Sicilia e Napoli nonché le terre colonizzate nel nuovo mondo. I domini iberici e la corona di Spagna si aggiungevano all’eredità dei duchi di Borgogna, ovvero Paesi Bassi, Fiandre, Franca contea e Artois, già destinati a Carlo alla morte del padre Filippo d’Asburgo. Inoltre, nel 1519, alla morte del nonno paterno Massimiliano I, Carlo ereditò anche i domini diretti degli Asburgo, comprendenti i territori austriaci della casata. La morte di Massimiliano I aprì anche la successione al trono imperiale. I principali candidati erano: il re di Inghilterra Enrico VIII, Francesco I di Francia e lo stesso Carlo d’Asburgo. L’elezione fu molto contrastata ma nonostante ciò, Carlo riuscì a prevalere e il 18 giugno 1519 fu eletto imperatore con il nome di Carlo V. Le ragioni della sua vittoria furono diverse; decisive furono le enormi somme messe a disposizione dai banchieri tedeschi, che gli permisero di offrire più denaro del concorrente francese ai principi elettori, orientandone le scelte, inoltre la sua appartenenza alla dinastia degli Asburgo, ovvero a una dinastia tedesca, fu importante per guadagnare un maggiore consenso. Carlo V si ritenne investito di un compito a lui affidato dalla stessa provvidenza divina, ovvero la realizzazione di una monarchia universale, avente come modello il sacro romano impero di Carlo Magno, portatrice di pace tra le nazioni cristiane e in grado di intraprendere una guerra contro i turchi infedeli. Gli esordi di Carlo e il consolidamento della sua autorità non furono facili. In Spagna, la successione a Ferdinando era stata accettata con riluttanza e i gruppi dirigenti manifestarono una forte ostilità nei confronti della corte fiamminga che circondava il nuovo re. Al consolidamento interno si accompagnò la lunga lotta tra Carlo V e Francesco I per l’egemonia in Italia. Nel 1521 Carlo presentò ai francesi le proprie rivendicazioni territoriali sul ducato di Borgogna e su città italiane come Milano e Genova, e ordinò alle truppe di occupare la Lombardia. La guerra che ne seguì con i francesi si concluse con la drammatica sconfitta di Francesco I che fu battuto nella battaglia di Pavia, fatto prigioniero e obbligato a firmare la pace di Madrid, le cui clausole prevedevano la rinuncia ai domini italiani. Tornato in Francia, Francesco I non onorò gli impegni sottoscritti nella pace in quanto affermò che gli erano stati estorti durante la prigionia. Il re francese, determinato a riscattare i propri domini, formò la lega Cognac, alleandosi con il papa, con importati città italiane e con la stessa Inghilterra e intraprese una nuova guerra, durata dal 1526 al 1529, che si concluse tuttavia anch’essa con una sconfitta. Fu proprio durante questa guerra che nel 1527, i lanzichenecchi, al soldo dell’imperatore, saccheggiarono pesantemente la città di Roma per punire il papa, alleatosi con i francesi. Dopo un incontro a Barcellona nel 1529 tra Carlo V e il papa Clemente VII, che permise di risolvere i contrasti tra papa e imperatore, la pace detta “delle due dame” fu definitivamente siglata e, a suggello dei nuovi equilibri instauratisi, nel 1530 Carlo si recò a Bologna dove venne incoronato re d’Italia e imperatore da papa Clemente VII. Conquistato il predominio sull’Italia, Carlo V rivolse la propria attenzione ad altri due fronti: da un lato era chiamato a fronteggiare l’avanzata turca, dall’altro doveva affermare la propria autorità sui principi tedeschi, ristabilendo l’ordine interno scosso dalla riforma protestante. l’impero ottomano viveva una fase di rapida espansione, nonostante alcune offensive imperiali ebbero successo, le forze navali turche dominavano il mediterraneo. Non meno complessa si presentava per Carlo V la soluzione dei problemi interni all’impero tedesco. Il diffondersi della riforma protestante aveva rafforzato il particolarismo dell’area germanica; i principi avevano aderito alla riforma e divennero ancor più riluttanti a riconoscere la supremazia dell’imperatore cattolico. Nel 1526 alla dieta di Spira l’imperatore riconobbe ai principi tedeschi la libertà di aderire al al luteranesimo. Tuttavia in una dieta successiva alla riconciliazione con il papato sancita dalla pace delle due dame, Carlo V ritornò sulle proprie posizioni e vietò ogni forma di proselitismo luterano. Dopo numerosi tentativi da parte di Carlo V di trovare un compromesso tra luterani e cattolici, che generarono anche conflitti armati, il conflitto si concluse con la pace di Augusta nel 1555. L’imperatore fu costretto a rinunciare alla riorganizzazione in senso centralistico dell'impero e a riconoscere il tradizionale carattere policentrico della Germania. Sul piano dei rapporti tra politica e religione invece la pace contemplava due punti di grande rilievo: in primo luogo, ad ogni principe venne garantita la libertà di scegliere tra religione cattolica e luterana; in secondo luogo, i sudditi erano tenuti a uniformarsi alle scelte religiose del principe in base al principio “cuius regio, eius religio”. La pace di Augusta segnò un importante battuta di arresto per l’ambizioso progetto universalistico a cui Carlo si era dedicato per quarant’anni, che mirava a ricomporre un quadro unitario dell’Europa, sia in ambito politico che religioso. Nel 1556, infatti, ormai stanco e deluso, l’imperatore abdicò, dividendo i suoi domini tra il figlio Filippo II, a cui lasciò il regno di Aragona, di Castiglia e i territori italiani, e il fratello Ferdinando, che ricevette i domini austriaci degli Asburgo, ereditando così anche il trono imperiale. Con l’abdicazione dell’imperatore tuttavia il conflitto franco-asburgico non si è concluso; Filippo II e l’imperatore Ferdinando si allearono con l’Inghilterra contro Enrico II, re di Francia, a sua volta alleato del papa. Nel 1559 venne firmata la pace di Cateau-Cambresis tra Francia, Spagna e impero germanico nella quale alla Francia veniva riconosciuto il controllo sui vescovati di Metz, Toul e Verdun, ma dovette rinunciare alle proprie ambizioni sull’Italia. Inoltre la pace tra Spagna e Francia venne suggellata anche dal matrimonio tra Filippo II e Isabella di Valois, figlia di Enrico II. RIVOLTA DEI PAESI BASSI I Paesi Bassi si estendevano su un’area corrispondente agli attuali Belgio e Olanda ed erano formanti da 17 provincie, ciascuna delle quali godeva di un ampia autonomia sia giuridico-istituzionale che culturale. Erano una delle terre più fiorenti e popolate d’Europa; le industrie tessili delle regioni di Liegi e Bruges godono di un particolare successo e Anversa si affermò come il più importante centro commerciale e finanziario d’Europa grazie alla creazione della borsa nel 1531. Questa prosperità, tuttavia, nella seconda metà del 500, vide dei momenti di crisi; il continuo crescere della potenza marittima inglese minacciava l’egemonia detenuta dagli olandesi, inoltre la perdita di importanza dell’argento tedesco rispetto al massiccio afflusso di argento americano mise in crisi le banche olandesi. Inoltre sorsero difficoltà anche sul piano politico; i Paesi Bassi,infatti, al momento della separazione dell’impero di Carlo V, erano stati assegnati a Filippo II. Il re, non appena salito al trono, mirò ad affermare le sue prerogative sovrane, riducendo le autonomie di cui i Paesi Bassi avevano tradizionalmente goduto fino a quel momento. Ciò fu evidente innanzitutto nel campo della fiscalità, settore in cui i ricchi sudditi delle Fiandre furono sottoposti alla crescente pressione fiscale da parte della monarchia spagnola. Ma la spinta centralistica di Filippo II investì con forza anche la sfera religiosa; vennero infatti riorganizzate le diocesi, a capo delle quali furono posti vescovi di nomina regia; anche ai sudditi dei Paesi Bassi venne imposta un’assoluta uniformità religiosa e, per perseguire gli aderenti al calvinismo, venne introdotta anche lì la temuta inquisizione spagnola. Nel 1566 gruppi di aristocratici e di borghesi decisero di protestare contro le scelte di Filippo II e presentarono una petizione alla governatrice dei Paesi Bassi, Margherita d’Asburgo, nella quale chiesero un alleggerimento della pressione del fisco, l’autonomia politica e la tolleranza religiosa. La governatrice, preoccupata dalla possibiltà dello scoppio di una rivolta, promulgo l’editto di moderazione, che invitava le autorità spagnole ad una minore rigidità. In un primo tempo, Filippo II accolse in parte le richieste dei ribelli rinunciando alla riorganizzazione della Chiesa locale; successivamente, tuttavia, pressato da nuove richieste per lui inaccettabili, Filippo cambiò atteggiamento e decise di rispondere con durezza ai ribelli, designati con l’appellativo di “pezzenti”. Preoccupato dalle rivolte olandesi, nel 1567 il re invio nei Paesi Bassi Fernando Alvarez de Toledo duca d’Alba, che vi si installò con armate e governò con ferocia; istituì un tribunale chiamato “consiglio del sangue” che emise migliaia di condanne e inasprì le tasse per permettere il finanziamento dell’esercito. Di fronte a questi comportamenti e di fatto privata di ogni potere, Margherita si dimette, facendo così ottenere al duca d’Alba la nomina di governatore. I calvinisti radicali olandesi riuscirono ad attirare nelle loro file Guglielmo I d’Orange, grande feudatario ed ex membro della corte di Carlo V, che si trovò a dissentire dalla politica del re e appoggiò la protesta e divenne uno dei principali leader. A causa dell’impossibilità di sostenere tutte le spese militari che servivano per sedare le continue rivolte nei Paesi Bassi, Filippo II dichiarò la bancarotta, causando così una ribellione delle truppe rimaste in stanza nei paesi bassi che, non avendo ricevuto alcun compenso, si diedero a scorrerie e saccheggi, tra cui il celebre sacco di Anversa avvenuto il 4 novembre 1576. Il consolidarsi della rivolta anti-spagnola determinò la divisione dei Paesi Bassi in due zone distinte: il Nord, di religione calvinista, era ormai di fatto indipendente dalla Spagna, e il sud, ancora fedele alla corona spagnola. Nel 1579 nacque l’unione di Utrecht che comprendeva le province ribelli e nel 1581 venne proclamata l’aja in Olanda, ovvero la Repubblica indipendente delle province unite, della quale Guglielmo d’Orange fu eletto “statolder” ovvero governatore generale. Alle provincie unite si contrapponevano le provincie meridionali, ancora leali alla corona spagnola, organizzate nell’Unione di Arras, stipulata nel 1579. I calvinisti olandesi continuarono in conflitto militare e Guglielmo d’Orange aderì all’accordo di Utrecht venendo per questo dichiarato traditore da Filippo II. In difesa del duca di Nassau, venne presentato agli stati generali di Delft nel 1580 un apologia sostenente il diritto del popolo di ribellarsi di fronte ad un sovrano come Filippo II, dichiarato spergiuro e tiranno, dichiarato inoltre, nel 1581, dagli Stati Generali decaduto. Avendo dichiarato la loro piena autonomia, i Paesi Bassi dovettero decidere come riorganizzare lo stato e quale regime politico adottare, vista le prematura morte del principe d’Orange, assassinato a Delft nel 1584. Nel corso degli anni si affermò un regime di tipo repubblicano, con la centralizzazione dei poteri militari; alla famiglia Orange-Nassau venne riconosciuto il diritto ereditario del comando dell’esercito. I conflitti tra la corona spagnola e le provincie unite si conclusero solo nel 1609 con la tregua dei dodici anni, nella quale si ebbe un primo riconoscimento dell’indipendenza olandese da parte della Spagna per la durata prevista dalla tregua. RIFORMA PROTESTANTE La critica alla Chiesa mondanizzata era già da tempo espressa con forza in Europa. Nella Germania del secondo decennio del cinquecento, le critiche contro la corruzione della Chiesa di Roma si combinarono con il malcontento provocato dalla raccolta delle indulgenze. Secondo questa pratica ai fedeli, in cambio di preghiere e di offerte alla chiesa, veniva promessa la remissione delle pene da scontare nel purgatorio. L’indulgenza si reggeva sull’idea che esistesse un immenso patrimonio di meriti accumulato da Gesù con la morte sulla croce è ulteriormente arricchito dai santi; il fedele che acquistava l’indulgenza la poteva usare a vantaggio proprio per evitare o abbreviare l’espiazione dei peccati. La predicazione delle indulgenze fu condotta in modo spregiudicato dei frati domenicani. La campagna per le indulgenze provocò crescente ostilità e resistenza alimentate da motivazioni di varia natura: economicamente, soprattutto per i contadini tedeschi, i versamenti fatti per acquistare l’indulgenza rappresentavano un aggravio di una situazione già difficilmente sostenibile; sul piano politico si determinò un forte malcontento tra i principi tedeschi di fronte al flusso di denaro che andava riempire le casse non della chiesa universale ma del pontefice romano; sul piano teologico, alimentava discussioni e contrasti il fatto che i risvolti dottrinali delle indulgenze, benché fossero praticate da tempo, non erano mai stati definiti con nettezza dalla Chiesa. Fu in tale contesto che intervenne il monaco agostiniano Martin Lutero con le sue celebri 95 tesi contro le indulgenze: secondo le fonti, l’autore le avrebbe affisse alla porta del Duomo di Wittemberg il 31 ottobre 1517. Nel documento Lutero affermava che, non il papa, ma solo Dio aveva facoltà di rimettere le pene del Purgatorio e che dunque l’acquisto delle indulgenze non valeva a conquistare la salvezza. Da quel momento, Lutero non si limitò a negare la validità delle indulgenze o a svolgere una critica all’immoralità dei costumi simoniaci degli ecclesiastici ma si spinse più a fondo, fino a deliberare una serie di scritti, chiamati libelli, che descrivevano una nuova concezione del cristianesimo. Le teorie luterane dicevano che è inutile che l’uomo si sforzi di salvarsi con i suoi comportamenti, l’uomo deve invece affidarsi totalmente a Dio e questo è il nucleo centrale della dottrina luterana: la salvezza è ottenuta mediante la sola fede nella grazia di Dio, e non mediante l’operare dell’uomo che, per quanto buono ispirato, non ha dunque alcun valore ai fini della salvezza. Un’altra fondamentale dottrina che portò Lutero a scontrarsi con la Chiesa romana riguarda l’interpretazione della Bibbia: per il monaco tedesco le sacre scritture, in quanto veicolo della parola di Dio, rappresentano la suprema autorità e la fonte essenziale della fede. Per la Chiesa cattolica tuttavia il significato più profondo e più vero delle sacre scritture non era accessibile al comune cristiano con le sue sole forze e poteva essere colto solo attraverso una laboriosa opera di interpretazione riservata alle autorità ecclesiastiche. Per Lutero, al contrario, il testo della Bibbia non ha significati oscuri e nascosti ed è perfettamente accessibile al fedele; ogni cristiano è dunque libero di esaminare la Bibbia da sé attenendosi al significato letterale del testo. In questa prospettiva Lutero si impegnò direttamente nella traduzione in tedesco della Bibbia affinché il latino ecclesiastico non costituisse un ostacolo alla comprensione della L'applicazione dei risultati del Concilio, i cui decreti furono promulgati nel 1564 da Papa Pio IV, non fu uniforme in tutto il mondo cattolico. Su alcuni punti si manifesteranno forti resistenze; in Spagna gruppi riformati furono duramente repressi dopo l’avvento di Filippo II. In Francia, la repressione antiprotestante e anticalvinista messa in atto da Francesco I, non impedì ai calvinisti francesi, detti ugonotti, di consolidare la loro presenza, che divenne maggioritaria in alcune aree del paese. In Italia, dove vi fu un radicamento, anche a livello popolare, di gruppi riformati ed evangelici, la repressione fu durissima e condusse, in poco tempo, alla completa eliminazione della presenza protestante nella penisola. Lo strumento principale della repressione dell'eresia divenne la Congregazione del Sant'Uffizio, supremo tribunale dell’inquisizione romana, fondata da Paolo III nel 1542. Il Sant'Uffizio coordinava i lavori degli altri tribunale dell'inquisizione, distribuiti capillarmente sul territorio. L'inquisizione perseguì individui appartenenti a tutti i gruppi sociali, da persone illetterate a membri della nobiltà , e accusava sulla base di confessioni estorte con terribili torture. Nelle mani del cardinale Carafa, infatti, il sant'uffizio agì, non solo verso l'esterno, contro gli eretici ma anche contro orientamenti di pensiero interni alla chiesa romana, colpendo in primo luogo le correnti spirituali e dialoganti. Dall'inquisizione furono anche presi di mira gli intellettuali accusati di diffondere idee eretiche o sospette di eresia: ne furono esempio Giordano Bruno, filosofo che fu bruciato sul rogo a Roma come eretico perché aveva giudicato il cristianesimo una cattiva religione, e Galileo Galilei che, pur non nutrendo idee religiose eterodosse, fu costretto all’abiura delle sue idee e alla detenzione in carcere. Accanto ai tribunali dell’inquisizione, un altro fondamentale strumento di repressione della cultura fu l’indice dei libri proibiti, istituito da papa Paolo IV nel 1559. Nell’indice venivano infatti segnalati tutti i libri di cui la lettura era proibita, per il contenuto espressamente eretico, o sospetto di eresia, o moralmente indegno. Vi furono inclusi, oltre i libri di Lutero, Calvino e degli altri scrittori protestanti, anche tutti gli scritti di Erasmo da Rotterdam, che non aveva mai aderito alla riforma protestante, e innumerevoli testi di carattere non solo religioso ma anche filosofico e scientifico e perfino molte lezioni in volgare della Bibbia. La repressione ecclesiastica si indirizzò anche contro le forme tradizionali di culto contro alcuni aspetti della cultura popolare che apparivano in contrasto con lo stile austero della religiosità ufficiale. Ne fecero in particolare le spese numerosissime donne accusate, perché ritenute streghe, di intraprendere rapporti con il demonio, quando, in realtà, si occupavano di forme di medicina popolare. Nello stato pontificio, inoltre, la chiesa mise in atto un tentativo sistematico di conversione degli ebrei: chi accettava di essere convertito veniva allontanato dalla comunità di appartenenza in modo da poter impedire che ritornasse all'antica fede e gli stessi ebrei che rifiutavano di convertirsi furono condannati al rogo. INGHILTERRA Dopo la scomparsa di Enrico VIII, si verificò in Inghilterra un tentativo di restaurazione del cattolicesimo, di cui fu protagonista Maria I Tudor, chiamata “la cattolica”, figlia di Enrico VIII e di Caterina d’Aragona, nonché moglie di Filippo II, re di Spagna. La successione sul trono inglese una regina cattolica suscitò la reazione da parte degli anglicani, che erano, viceversa, favorevoli all’ascesa al trono di Elisabetta, la figlia nata dal contestato matrimonio di Enrico VIII e Anna Bolena. Maria Tudor, consapevole del pericolo, aveva fatto rinchiudere la sorellastra nella torre di Londra e promosse una spietata persecuzione dei protestanti che le valse anche l’appellativo di “Bloody Mary” ovvero Maria la sanguinaria. Dopo la sua prematura morte, avvenuta nel 1558, si aprì una crisi di successione: sostenendo l’illegittimità del matrimonio da cui era nata Elisabetta, i cattolici, tra cui lo stesso Filippo II, sostennero la cattolica Maria Stuart, regina di Scozia. Il parlamento inglese però si rivolse a favore di Elisabetta e la elesse come sovrana d’Inghilterra. Ella riprese il programma assolutistico e anglicano del padre, Enrico VIII; infatti la politica elisabettiana fu rivolta al definitivo consolidamento dell’anglicanesimo e alla subordinazione della chiesa al potere monarchico. Nel 1559, un anno dopo essere salita al trono, con l’atto di uniformità, Elisabetta rimise in vigore il testo di preghiera ufficiale che doveva essere utilizzato nei culti della religione anglicana, e nel 1563 , con l’atto di supremazia, riaffermò la superiorità della corona sulla Chiesa d’Inghilterra. La scelta anglicana di Elisabetta non suscitò soltanto l’avversione dei cattolici, ma anche l’opposizione della variegata comunità protestante, in primo luogo dei seguaci del calvinismo. Secondo alcuni calvinisti, ciascuna comunità, anche se piccola, doveva essere autonoma e libera di onorare Dio nel modo ritenuto più opportuno; altri invece, accettavano che ci fosse di un’organizzazione ecclesiastica unitaria: non volevano però che essa discendesse dal re, ma attribuivano gli stessi fedeli il compito di eleggere i propri pastori. Al tempo stesso, però, la regina seppe anche guadagnarsi il consenso dei ceti sociali emergenti attuando una politica di sostegno allo sviluppo economico e all’espansione coloniale. Grande impulso alla presenza inglese nel teatro coloniale venne inoltre dalla costruzione, nel 1600, della compagnia delle Indie orientali, una compagnia commerciale a cui la regina concesse il monopolio del traffici sull’oceano indiano. Maria Stuart, fuggita subito dopo aver perso il trono, non appena tornò nel territorio inglese fu imprigionata, per ordine di Elisabetta, nella torre di Londra. Quando, a seguito della scoperta di ennesima congiura cattolica, Elisabetta fece processare, condannare e decapitare Maria Stuart, Filippo II decise di muovere guerra all’Inghilterra. Il sovrano spagnolo fece allestire una grande flotta chiamata “Invincible Armada” al fine di invadere l’isola; da subito, però, la navigazione dell’imponente flotta fu ostacolata da tempeste e, quando raggiunse finalmente il canale della manica, venne ripetutamente attaccata dalle navi inglesi di sir Francis Drake. Quando giunse in prossimità di Calais, il punto più stretto del canale, fu attaccata dalle cosiddette fireship, piccole imbarcazioni incendiarie, che furono devastanti per la flotta spagnola. Le navi superstiti furono costrette a fuggire circumnavigando l’Inghilterra e, con molte perdite, ritornarono nei porti spagnoli alla fine di settembre. PRIMA RIVOLUZIONE INGLESE Nel 1603 la scomparsa di Elisabetta I, che non aveva figli, determinò l’estinzione della dinastia Tudor. Al trono salì Giacomo I Stuart, figlio di Maria Stuart, nipote di Enrico VIII, e sino a quel momento re di Scozia. Si realizzò così l’unificazione dei regni d’Inghilterra e di Scozia sotto un’unica corona. Il programma assolutistico del nuovo sovrano incontrò forti resistenze; nel campo dell’amministrazione della giustizia, Giacomo I tentò di affrontare rafforzare le corti giudiziarie composti da funzionari nominati dal re e operanti sulla base del diritto romano; sul piano istituzionale, rispetto all’età elisabettiana, aumentarono le ragioni di conflitto tra re e parlamento, che era costituito da due camere: la più antica, la camera dei Lords, radunava i grandi d’Inghilterra, ovvero gli esponenti dell’aristocrazia feudale e i vescovi della Chiesa anglicana, oltre a personaggi di grande ricchezza elevati per nomina reggia, mentre, di situazioni più recente, era il secondo ramo del parlamento, la camera dei comuni, eletta su base censitaria, ovvero dei proprietari che potevano dimostrare di avere una consistente rendita annuale. I membri della camera dei comuni erano eletti in ragione di due parlamentari per ciascuna delle con te in cui era suddiviso il territorio del regno indipendentemente dal numero dei residenti. Questo metodo penalizzava evidentemente le contee più popolate e premiava, invece, le contee di campagna poco abitate. All’epoca di Giacomo I il contesto fra re e parlamento si manifestò intorno al tema del fondamento e dell’esercizio della sovranità. Infatti i parlamentari, in quanto rappresentanti del popolo, reclamavano il diritto al controllo sul governo del re e rivendicavano al parlamento il potere legislativo. In questo quadro, si collocava anche la discussione intorno al diritto di imporre tasse, che Giacomo accampava come propria autonoma prerogativa è che i parlamentari intendevano invece subordinare al loro consenso. La questione era resa più acuta della corruzione della corte di Giacomo I. Ai parlamentari e dei ceti produttivi era elargita la costosa prodigalità di Giacomo I nei confronti dei propri favoriti: di questi faceva parte il duca di Buckingham, che acquistò a corte un potere enorme, suscitando la gelosia e l’avversione dell’aristocrazia parlamentare, tradizionalmente vicino alla monarchia, finché non venne pugnalato nel 1628. Sul piano religioso, la politica del sovrano fu rivolta fin dall’inizio del suo regno al rafforzamento della Chiesa anglicana e della sua struttura episcopale. La scelta del re a favore della Chiesa anglicana suscitò l’opposizione sia dei differenti ordinamenti in cui si dividevano i calvinisti inglesi, sia dei cattolici. L’episodio più clamoroso in cui si manifestò l’avversione dei cattolici contro la politica di Giacomo I si verificò del 1605, con la congiura delle polveri: gli attentatori si proponevano di uccidere il sovrano facendo esplodere una grande quantità di polvere da sparo accumulata nelle cantine della camera dei Lord, dove Giacomo I era atteso per l’apertura del parlamento. L’attentato fu scoperto in tempo, la congiura fallì e ne derivò un inasprimento della legislazione contro erano diffuse idee radicali, sia in ambito religioso sia in ambito politico, che si opponevano a qualsiasi compromesso con la monarchia e si schieravano contro le grandi compagnie monopolistiche e loro privilegi commerciali, in nome dei diritti e degli interessi dei ceti medi. Fu in questo contesto che, nell’ottobre del 1647, a Putney, presso Londra, si sviluppò un vivace confronto tra i capi dell’esercito ai rappresentanti eletti dai reparti militari; oltre ai problemi contingenti legati al conflitto con il parlamento, il dibattito investì questioni generali, ovvero quale forma doveva assumere l’Inghilterra uscita dalla rivoluzione e a chi doveva essere riconosciuto il diritto di voto: i sostenitori della limitazione del suffragio della parte più ricca della popolazione, ovvero il suffragio su base censitaria, sì contrapposero a chi invece voleva una costituzione repubblicana fondata sulla sovranità popolare e sul suffragio universale. I contrasti sorti tra i vincitori indussero Carlo I, che nel frattempo è riuscito a sottrarsi ai suoi carceri, a rifiutare ogni compromesso. Nel 1648, alleatosi con gli scozzesi, il re attaccò l’esercito parlamentare, ma fu sconfitto da Cromwell. Consegnato dagli scozzesi ai suoi avversari, il re fu sottoposto a processo dal parlamento e, in seguito a un contrastato verdetto, il re fu condannato a morte per aver tradito il popolo inglese, attentando alle sue libertà, nel gennaio del 1649. Il parlamento dichiarò quindi decaduta la monarchia, che venne sostituita da un ordinamento repubblicano chiamato Commonwealth. Tra il 1649 e il 1658 il paese fu governato da Oliver Cromwell. Nei primi anni del Commonwealth, Cromwell fu impegnato a domare le ribellioni degli scozzesi e, soprattutto, dei cattolici irlandesi, insorti dopo l’esecuzione del re. Con il tempo, la direzione di Cromwell venne a caratterizzarsi in senso via via più autoritario. A partire dal dicembre del 1153, Cromwell assunse il titolo di Lord protector e, da quel momento, governò con l’aiuto di un consiglio molto ristretto. In generale, nonostante l’aumento del prelievo fiscale, Cromwell ottenne un ampio consenso della società inglese, mostrandosi sensibile alle aspirazioni politiche religiose e gli interessi economici dei suoi settori; Il Lord protector, infatti, elimino molti privilegi nobiliari, soppresse i diritti feudali e procedette alla redistribuzione delle terre sequestrate ai partigiani da Carlo I. Inoltre favorì lo sviluppo delle manifatture, del commercio e della flotta. Con l’atto di navigazione del 1651, Cromwell stabilì che il commercio da e per l’Inghilterra fosse riservato solo alle navi inglesi provocando un grave danno ai agli interessi olandesi. SECONDA RIVOLUZIONE INGLESE L’azione di Cromwell aveva conseguito buoni risultati in campo economico e favorito la crescita di settori più intraprendenti della nobiltà e dei nuovi ceti borghesi. Al tempo stesso, tuttavia, l’estensione delle recinzioni e le trasformazioni agrarie avevano accelerato la formazione di un consistente nucleo di contadini impoveriti. Dopo la morte di Cromwell, nel 1658, successe per breve tempo il figlio Richard. Venuto meno però, il punto di riferimento del Lord protector, si diffuse tra i ceti più agiati il timore che nella direzione politica del paese potessero avere il sopravvento posizioni democratiche e radicali. Per evitare questa evenienza, gli esponenti politici più moderati avanzarono la proposta di ricostruire il parlamento, che venne riconvocato nella sua composizione originaria, che, riunitosi prima del suo definitivo scioglimento, ristabilì nelle sue funzioni la camera dei Lord, ripristinando il tradizionale assetto bicamerale, e indisse nuove elezioni, dalle quali uscì una camera dei comuni a maggioranza filomonarchica. Il nuovo parlamento riconobbe la legittimità della monarchia e nel 1660 richiamò sul trono Carlo II Stuart, figlio del re giustiziato nel 1649. Accolto trionfalmente a Londra, Carlo II si dedicò a ricostruire il potere della macchina, rivendicandone ruolo e funzioni. L’esercito venne sciolto ma il re fu autorizzato a mantenere, a proprie spese, un apparato militare molto ridotto. In campo religioso la Chiesa anglicana fu restaurata e riottenne i beni precedentemente confiscati. Tutta l’autorità effettiva sulla Chiesa passo dal re al parlamento. nonostante una serie di provvedimenti legislativi contro di loro, le chiese indipendenti furono tollerate, ma, in generale, persero il loro peso politico. Un discorso a parte meritano i cattolici, ormai ridotti al’1-2% della popolazione, che esercitavano presso la corte di Carlo II, egli stesso sposato con una principessa cattolica portoghese, una considerevole influenza. Ciò permise loro di ottenere dal re nel 1672 una dichiarazione di indulgenza verso le confessioni religiose diverse da quella anglicana. Alla dichiarazione del re, il parlamento rispose nello stesso anno con il Test Act, una legge che riservava l’accesso alle cariche militari e politiche ai soli anglicani, poi solennemente confermata nel 1678, in seguito alla scoperta di quella che era parsa a molti come una congiura cattolica contro l’ordinamento inglese. Durante gli ultimi anni del regno di Carlo II, fase in cui i rapporti tra parlamento e monarchia si deteriorarono, venne meno l’equilibrio istituzionale che aveva caratterizzato i primi anni della restaurazione. Il sovrano manifestava infatti una crescente insofferenza per il controllo del parlamento e per questo venne accusato di voler tornare all’assolutismo dei primi Stuart. Ad accendere gli animi era soprattutto il problema della successione al trono; Giacomo Stuart, fratello del re, destinato a succedere a Carlo, si era convertito al cattolicesimo e non avevano avuto successo i tentativi di una parte della camera dei comuni di escluderlo dalla successione come non anglicano, sulla base del Test Act. Il conflitto tra parlamento e corona si aggravò la morte di Carlo II quando, come previsto, salì al trono suo fratello con il nome di Giacomo II. I contrasti più forti sorsero a proposito di una nuova dichiarazione di indulgenza, con cui, nel 1687, Giacomo sospese il Test Act, sollevando i funzionari statali dall’obbligo di prestare giuramento di fedeltà alla Chiesa anglicana. Nel parlamento si era nel frattempo formati due raggruppamenti Politici, ovvero i tories e i wings, conservatori e liberali, entrambi concordi nel sostenere il sistema istituzionale tripartito e nella legittimità della monarchia e il ruolo del re;tuttavia, i due schieramenti si dividevano riguardo alla concezione dell’autorità monarchica: i tories erano partigiani della corona, a cui attribuivano un potere forte e autonomo, mentre i wings propendevano per la superiorità e la sovranità del parlamento. Queste questioni politiche persero, tuttavia, importanza di fronte al concreto pericolo di un ritorno all’assolutismo monarchico, a cui si aggiungeva il rischio di un indefinito perpetuarsi di una monarchia cattolica; ciò in particolare perché Giacomo II, avendo sposato in un secondo matrimonio una principessa cattolica italiana, aveva avuto un terzo figlio il quale nell’ordine di successione veniva a precedere, in quanto maschio, le figlie, Anna e Maria, venute dal precedente matrimonio, che erano protestanti: quest’ultima sposata a Guglielmo III d’Orange, protestante e Stratolder d’Olanda. Nel 1688 il parlamento passò all’azione contro Giacomo II e all’unanimità chiese l’intervento di Guglielmo III. Nel novembre di quell’anno, Guglielmo sbarcò in Inghilterra e Giacomo II fu costretto a fuggire in Francia. Guglielmo III d’Orange e la moglie, Maria Stuart furono proclamati sovrani d’Inghilterra nel febbraio del 1689. In questa seconda rivoluzione inglese, che fu in seguito detta “Glorious Revolution”, poiché Maria Stuart era figlia protestante di Giacomo II, il parlamento poteva giustificare, anche in termini di continuità dinastica, l’incoronazione dei nuovi regnanti. Al momento dell’incoronazione, i nuovi sovrani dovettero sottoscrivere una dichiarazione dei diritti dettata dal parlamento e poi tradotta in legge, il Bill off Rights, che sanciva le fondamentali libertà e garanzie per i sudditi e riaffermava le prerogative del parlamento, in particolare riguardo alla potestà legislativa. Gli eventi del 1689 portarono nel loro insieme al delinearsi di una nuova forma di regime monarchico: la monarchia parlamentare, in cui il re era sottoposto a precisi vincoli dell’esercizio del potere. Alla morte di Maria Stuart e di Guglielmo III, che non avevano figli, la corona passo ad Anna Stuart, sorella di Maria e regina di Danimarca. Alla scomparsa di quest'ultima, il parlamento, per evitare che i cattolici si insediassero sul trono e per impedire qualsiasi tentazione di restaurazione assolutistica, fece in modo che la corona passasse alla dinastia tedesca degli Hannover, protestanti e lontanamente imparentati con gli Stuart. Sia Giorgio I Hannover, sia Giorgio II, rimasero un corpo estraneo alla nazione, di cui ignoravano per fino alla lingua. aristocratici e personaggi di primo piano, furono incarcerati nella prigione di Parigi, la Bastiglia, sulla base degli ordini del sovrano, le famose “lettres de cachet”. Cominciò a delinearsi quel centralismo politico e amministrativo che rappresenta un tratto peculiare del sistema istituzionale francese. Anche l’obbligo di risiedere a corte, imposto alla grande nobiltà, di spada o di sangue, rappresenta uno strumento di rafforzamento dell’istituto monarchico. Per accogliere adeguatamente la corte, fu costruita la grande reggia di Versailles, che giunse ad ospitare fino a 10.000 persone. Versailles fu la massima espressione del mecenatismo di un re consapevole dell’importanza che il sostegno dato ad artisti, scrittori e scienziati aveva in termini di ritorno di immagine. Concentrata a corte e obbligata a risiedervi, l’aristocrazia francese fu costretta a rinunciare a molte delle prerogative politiche e a integrarsi definitivamente nella vita dello Stato monarchico. Tuttavia, in cambio della fedeltà e della sottomissione al sovrano, la nobiltà conservo il proprio status sociale di ordine privilegiato, sottraendosi agli obblighi fiscali. Nel programma di Luigi XIV la politica religiosa svolse un ruolo centrale. Il sovrano era infatti convinto che l’uniformità religiosa rappresentasse un importante fattore di omogeneità politica del paese e dunque di forza della monarchia. In questa prospettiva, tre furono i principali obiettivi del sovrano: lo sradicamento del giansenismo; l’estirpazione del calvinismo ugonotto; l’affermazione della supremazia regia sulla Chiesa francese. Il giansenismo è un particolare orientamento del cattolicesimo seicentesco che prende nome dal teologo olandese Cornelio Giansenio; i giansenisti privilegiano il ruolo della grazia divina rispetto alle opere compiute dall’uomo, avvicinandosi alle religioni riformate. Il principale ostacolo all’uniformità religiosa in Francia però era ancora rappresentato dalla presenza del calvinismo ugonotto. Per convincere gli ugonotti a convertirsi si utilizzavano argomenti teologici, a cui si affiancavano tuttavia anche altri mezzi. Tra questi ricordiamo i numerosi ostacoli frapposti all’accesso degli ugonotti alle cariche pubbliche; l’istituzione di una cassa delle convenzioni finanziate a favorire la conversione al cattolicesimo degli ugonotti più bisognosi, con la promessa di un aiuto economico: infine si era passati alle maniere forti con lo stanziamento nelle città e nelle case delle famiglie ugonotte di truppe scelte del re che ottenevano le conversioni con le malversazioni il terrore. La persecuzione dei calvinisti francesi venne ufficializzata nel 1685 con l’editto di Fontainebleau che revocava il precedente editto di Nantes. L’editto stabiliva la chiusura delle scuole protestanti l’obbligo del battesimo cattolico per i bambini e la demolizione degli edifici di culto; imponeva per decreto la conversione in massa al cattolicesimo degli ugonotti, ai quali proibiva persino di abbandonare la Francia. Ciò nonostante, molti ugonotti riuscirono a fuggire fuggire all’estero e la Francia si trovò così privata della loro competenze tecniche e professionali. L’adesione della monarchia al cattolicesimo non impedì, tuttavia, a Luigi XIV di impegnarsi in un conflitto giurisdizionale con il Papa, con il quale si contendeva la supremazia sulla chiesa francese. Nel 1673 Luigi XIV, bisognoso di denaro per le dispendiose guerre che stava conducendo, estese alle diocesi che ne erano esenti la cosiddetta regalia, ossia il diritto del re di percepire le rendite della diocesi in caso di vacanza della sede episcopale fino alla nomina di nuovo vescovo. Questa rivendicazione, che non concedeva al papa alcun potere temporale sul suolo francese e sosteneva il diritto del sovrano di controllare la Chiesa francese attraverso la nomina dei vescovi, incontrò la ferma opposizione di Papa Innocenzo XI. Nel 1682 vi fu un’assemblea straordinaria del clero francese che, pur non rompendo i legami con il Papa, riconoscendogli un primato nel campo della fede, riaffermava solennemente autonomia della Chiesa francese da Roma e la supremazia del sovrano su di essa. In campo economico, sotto Luigi XIV, divenne più deciso e ampio rispetto al passato l’intervento della monarchia nelle attività produttive e commerciali. Artefice di questa politica fu Colbert, seguace di un’impostazione accentuatamente mercantilistica. Il ministro di Luigi XIV si sforzò di ridurre le importazioni di merci provenienti dall’estero: a questo scopo promosse iniziative nelle colonie francesi per evitare di dover acquistare altrove prodotti coloniali; scoraggiò, con pesanti imposte, i commerci con la Francia delle compagnie straniere; si impegnò a sviluppare la produzione nazionale, favorendo l’immigrazione di tecnici provenienti da altri paesi e promuovendo la nascita di manifatture, soprattutto nel campo degli articoli di lusso. Inoltre, per rendere competitivi i prodotti francesi, Colbert pretese che tutti gli artigiani si iscrivessero alle corporazioni e impose a queste ultime di esercitare un severo controllo rispetto ai regolamenti di produzione e dei livelli di qualità. Il ministro cercò di anche di migliorare la raccolta fiscale, attraverso il controllo sugli appaltatori, per ridurne la corruzione, l’aumento delle imposte indirette e cercando di perseguire l’evasione delle imposte. Nonostante gli sforzi, Colbert non riuscì a compiere l’obbiettivo del pareggio del bilancio statale, anche a causa delle costosissime guerre in cui la Francia fu impegnata dal Re Sole. Nei confronti degli altri Stati europei, Luigi XIV mise in atto una politica aggressiva, con i seguenti obiettivi: allargare i confini dello Stato francese, garantendo nel contempo a quest’ultimo frontiere stabili verso nord e verso est; imporre la propria supremazia in Europa, facendo della Francia la potenza egemone del continente; rafforzare la presenza francese in campo coloniale e nei commerci mondiali, secondo i principi della teoria mercantilistica. Con il Re Sole la Francia attraversò, dunque, una lunga fase di guerre, che portò con sé un’intensa e dispendiosa opera di rafforzamento militare. Il primo teatro sul quale Luigi XIV volle affermare la forza della Francia fu quello dei Paesi Bassi spagnoli, che egli rivendicò nel 1667, occupando, con una breve campagna militare, alcune importanti città. La successiva guerra fu combattuta contro l’Olanda, non solo per allargare il territorio francese verso nord, ma anche per impadronirsi della sua formidabile flotta mercantile, che provvedeva fino a quel momento a gran parte dei commerci marittimi francesi. A fianco delle province unite, guidate dallo stratolder Guglielmo III d’Orange, si schierarono la Spagna, l’Inghilterra e i principi tedeschi che sconfissero i francesi. Nel 1678 l’Olanda ottenne le città occupate dei francesi ma Luigi XIV acquisì però la Franca Contea e delle città delle Fiandre meridionali, riuscendo in tal modo a consolidare i propri confini settentrionali e orientali. Negli anni successivi, Luigi XIV si preoccupò di estendere e di rafforzare ulteriormente le proprie frontiere orientali, rivendicando l’intera Alsazia e altri territori lungo il Reno. L’esercito francese procedette all’occupazione delle città libere imperiali e penetrò nei Paesi Bassi spagnoli. A Ratisbona, nel 1648, venne siglata una tregua tra Francia Spagna e impero con la quale Luigi XIV ottenne Strasburgo, il Ducato di Lussemburgo e gran parte dei territori alsaziani. La forza della Francia creava grande preoccupazione in Europa, in particolare nell’imperatore Leopoldo I. Questi, dopo essere riuscito a respingere un attacco turco, si diede a contrastare l’espansionismo francese promuovendo la lega di Augusta, sottoscritta nel 1186 da Spagna, impero e Svezia. Il conflitto tra Luigi XIV la lega, costosissimo, durò per anni fino alla conclusione negoziata della pace di risoWeek nel 1697, che rappresentò un serio colpo per le pretese egemoniche della Francia. Luigi XIV infatti ottenne il definitivo possesso dell’Alsazia e di Strasburgo ma dovette accettare di restituire il Ducato di Lorena, da tempo occupato dalla Francia, e il Lussemburgo. RIVOLUZIONE AMERICANA La nascita degli Stati Uniti non fu solo un atto di ribellione, bensì il risultato di una serie di nuovi ideali che si erano diffusi a quel tempo. L’avvento delle idee illuministiche stravolse l’ideale politico dell’epoca, ancora incentrato sull’assolutismo monarchico, introducendo valori come la ragione, la libertà, la ricerca della felicità e la tolleranza, che posero le basi della moderna concezione della società, della politica e della vita. Gli ideali filosofici del giusnaturalismo, del contrattualismo e del liberismo, teorizzati dai filosofi Hobbes e Locke, risultarono fondamentali per il popolo americano; l’idea che lo stato nasca da un contratto, in grado di garantire agli individui dei diritti inalienabili, e la dottrina della divisione dei poteri spinsero le colonie americane a ribellarsi al dispotico governo inglese per far rispettare i loro diritti naturali. Le 13 colonie inglesi nate lungo la costa orientale del continente nord americano avevano forti legami culturali, linguistici e religiosi con l’Europa, ma anche i caratteri specifici e originali. Non erano, infatti, frutto di un’espansione imperiale ma colonie di popolamento, risultato di un’immigrazione iniziata nel 1607 con la fondazione della Virginia. Vi abitava un’umanità molto varia, che attraversava l’oceano per cercare fortuna o libertà: dissidenti religiosi come i puritani, perseguitati politici, contadini rimasti senza terra, piccoli mercanti e artigiani; inoltre le colonie erano assai più diversificate dal punto di vista etnico e religioso: c’erano presbiteriani, luterani, cattolici, ebrei, che migravano nel nuovo continente in quanto gli spazi di libertà religiosa erano più ampi. Il sovrano britannico non era interessato al controllo politico delle colonie, ma solo a quello commerciale, e perciò non le governava attraverso un apposito ministero o un altro organismo statale; ogni colonia aveva un governatore nominato dal re, ma godeva di una notevole autonomia politica. Ciò favorì, nel tempo, la formazione di una società decentrata, animata da un forte spirito autonomistico e comunitario e da una spiccata coscienza della propria diversità e della propria identità. Fino a metà del settecento, il rapporto fra le colonie e la corona britannica fu poco conflittuale. L’autonomia politica e l’inserimento nella vasta e dinamica rete commerciale inglese permetteva alle colonie di partecipare con profitto ai traffici atlantici e, inoltre, queste fornivano al mercato europeo prodotti agricoli e prodotti navali. La situazione mutò nella seconda metà del secolo per due principali ragioni: da un lato, l’impetuoso sviluppo economico e demografico delle colonie rese a loro sempre meno accettabile la dipendenza dalla madre patria; dall’altro, il governo inglese, dopo la guerra dei sette anni, con la quale aveva strappato ai francesi tutto il Nord America, intraprese una più decisa politica imperiale, cercando di esercitare un maggiore controllo sui suoi possedimenti americani, che erano ormai diventati un’area di notevole importanza economica e politica. Il governo di Londra impose alle colonie di ospitare e mantenere un corpo di spedizione; proibì la colonizzazione delle terre a ovest della catena dei monti Appalachi per frenare l’autonoma espansione delle colonie e ridurre i conflitti con i nativi; rese più difficile il contrabbando, imponendo bolle di accompagnamento delle merci. Infine, introdusse la legge sul bollo, una tassa sui giornali, atti legali, documenti commerciali, per iniziare ad assoggettare le colonie e imporre loro una tassazione, anche per ripagare i costi del conflitto contro la Francia. Il divieto di espansione fu considerato dai coloni un inaccettabile limitazione di un diritto che consideravano imprescindibile ma, quello che sollevò la loro indignazione fu la tassa sul bollo, perché per la prima volta imponeva ai coloni un tributo fiscale. Sino a quel momento, infatti, le colonie non erano state soggette a vere proprie tasse, in quanto non avevano rappresentanti nel parlamento inglese e perciò, in base al principio sul quale era fondata la lotta all’assolutismo in Inghilterra, non può essere tassato chi non gode di rappresentanza politica. La legge sul bollo assunse così un grande significato politico; il governo inglese sostenne che l’imposta era legittima perché il parlamento rappresentava tutti i cittadini, anche quelli privi del diritto di voto; ma i coloni americani risposero negando la rappresentatività di un parlamento che non tutelava i loro interessi, sostenendo, in questo modo, il proprio diritto ad autogovernarsi. Contro la legge sul bollo si mobilitò un vasto movimento di opinione: assemblea di deputati delle diverse colonie, manifestazioni di piazza organizzate da associazioni, accordi fra mercanti per boicottare le importazioni di prodotti inglesi. Per evitare conflitti e danni economici il governo di Londra ritirò la legge sul bollo, ma riaffermò contestualmente il proprio diritto di tassare i coloni. Nel 1773 il governo inglese, per riassettare le finanze della compagnia delle Indie orientali, assegnò a quest’ultima il monopolio dell’esportazione del tè nelle colonie, danneggiando così i mercanti e i contrabbandieri americani. La risposta fu il famoso Boston Tea party, nel corso del quale una grossa partita di tè fu gettato in mare nel porto di Boston. Dopo ciò, dalle discussioni si finì per passare alle armi. Iniziarono i primi scontri fra le truppe inglesi, cui il re aveva dato l’ordine di riprendere il controllo dei territori, e i coloni, che nel 1775 crearono un esercito comandato da George Washington. L’opinione pubblica più radicale puntava sulla separazione dalla madrepatria. Non tutti, però, volevano l’indipendenza anche a costo di rompere con l’Inghilterra; numerosi erano i lealisti fedeli al sovrano, e i moderati, favorevoli a negoziare un accordo con la corona inglese. I veri e propri ribelli erano i radicali che si autodefinivano patrioti e che, seguaci di alcuni principi fondamentali dell’Illuminismo, come il contrattualismo e la teoria dei diritti naturali, consideravano la lotta per l’indipendenza come una lotta per la libertà contro il dispotismo del sovrano. La posizione radicale dimostrò grandi capacità di mobilitazione, conquistando buona parte delle classi dirigenti moderate, attratte dalla prospettiva di dare vita a una società nuova ed indipendente. Il 4 luglio 1776, il congresso delle colonie, riunito a Philadelphia, approvò la dichiarazione di indipendenza, redatta da Thomas Jefferson. Si trattò di un documento di importanza storica fondamentale perché in esso i principi illuministi della libertà e dell’uguaglianza fra i cittadini trovarono per la prima volta un’espressione politica. Ciò però non fermò lo scontro armato. La guerra di indipendenza fu un conflitto in cui l’inferiorità militare dei ribelli americani fu compensata dagli errori strategici degli inglesi e dall’aiuto francese, che intervenne per prendersi una rivincita sugli inglesi, usciti vittoriosi dalla guerra dei sette anni. Il prolungarsi del conflitto e la pesante sconfitta subita a Yorktown, indussero il governo di Londra a sottoscrivere la pace di Versailles, il 3 settembre del 1783, con la quale veniva riconosciuta l’indipendenza delle 13 colonie e la loro sovranità su tutti i territori americani. Conquistata l’indipendenza, le colonie si trovarono di fronte a un problema cruciale: bisognava dare vita a un nuovo Stato. Ciascuna delle colonie costituiva già uno stato sovrano, con la con una propria costituzione e propri organi di governo. I leader americani concordavano, però, sul fatto che fosse necessaria una qualche forma di unione, in quanto una frantumazione in 13 Stati avrebbe messo a rischio l’indipendenza appena raggiunta. Si fronteggiavano in proposito due posizioni: alcuni, ritenevano che si dovesse garantire la libertà e l’indipendenza delle singole colonie creando una confederazione, ovvero un’unione di Stati in cui l’autorità del potere centrale fosse nettamente limitata; l’altra linea, detta federalista, proponeva invece uno stato federale, in cui le singole colonie mantenessero ampie autonomie, ma le decisioni di interesse generale fossero di competenza di un parlamento e di un governo unici per tutta la nazione. Molti non ritenevano possibile la creazione di una Repubblica unitaria su un territorio così ampio. Alla difficile situazione tra le diverse aree del nuovo stato, venutasi a creare una volta venuto meno l’obbiettivo comune, si aggiunsero le difficoltà economiche provocate dai costi della guerra; fu ciò a far pendere la bilancia in favore della soluzione federalista, in quanto si ritenne che solo un governo centrale avrebbe potuto affrontare i problemi e mantenere l’ordine interno. Tra il maggio e il settembre del 1787, si decretò la forma politica del nuovo stato, ovvero una repubblica presidenziale federale, e si riunì a Philadelphia una convenzione che redasse e approvò la costituzione degli Stati Uniti d’America. Inoltre, nel febbraio 1789, venne eletto il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington. Quella degli Stati Uniti era una costituzione breve, finalizzata a stabilire il quadro di principi e di procedure sulle quali doveva svolgersi la vita collettiva; i sette articoli costituzionali, infatti, si limitarono a stabilire l’ordinamento dello Stato e non parlarono esplicitamente di diritti. La discussione su questo punto portò, nel 1791, all’approvazione dei primi 10 emendamenti, comunemente noti come Bill off Rights, che specificavano le libertà e le garanzie delle quali cittadini non potevano essere privati. La costituzione americana si è mantenuta sostanzialmente immutata, salvo le modifiche e le integrazioni apportate col tempo da 27 emendamenti.
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