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Storia Moderna V. Criscuolo riassunto, Dispense di Storia Moderna

Riassunto scritto in maniera perfetta e semplificata per capire al meglio argomenti così intricati. All'interno ci sono anche piccole mappe per memorizzare meglio. Contiene tutti gli argomenti

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 10/07/2023

francesca-titas
francesca-titas 🇮🇹

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Scarica Storia Moderna V. Criscuolo riassunto e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! CAPITOLO 1 – L'ECLISSI DELLA MODERNITÀ I limiti dell'età moderna L'inizio della storia moderna viene ricondotto per lo più al 1492, anno della scoperta dell'America, ma si tratta evidentemente di una scelta convenzionale, e del tutto arbitraria. Più che a una data specifica, il punto di partenza dell'età moderna deve essere ricondotto a uno spazio di tempo compreso fra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, caratterizzato da una serie di trasformazioni e di innovazioni di tale portata da far segnare, nella stessa percezione dei contemporanei, una svolta o una rottura nella continuità del processo storico. Il problema del punto di arrivo (terminus ad quem) si è posto quando dal tronco della storia moderna si è staccata la storia contemporanea, la quale a partire dal 1961 ha trovato posto anch'essa nell'ordinamento delle università italiane, affiancandosi alle cattedre di storia del Risorgimento istituite dopo l'unificazione. Prescindendo dalle diverse posizioni che si individuano a questo proposito, riteniamo che il trapasso dall'età moderna a quella contemporanea possa essere generalmente collocato fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, quando l'avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra e la caduta dell'antico regime per opera della rivoluzione francese modificarono profondamente la realtà economico-sociale, politica e culturale dell'Europa occidentale. Bisogna considerare comunque che lo stesso concetto di moderno ha subito una crisi e una trasformazione che rendono molto più complessi e sfumati, per certi versi perfino ambigui, i riferimenti a tale categoria, e di conseguenza anche all'età che con questo termine siamo abituati a designare. Moderno – Il termine modernus, che non esisteva nel latino classico, comparve fra la fine del V e l'inizio del VI secolo, come derivazione dall'avverbio modo, che vuol dire "recentemente, or ora". Esso compare in una lettera scritta da Cassiodoro a nome del re dei goti Teodorico per dare l'incarico di restaurare il pericolante teatro di Pompeo al suocero di Severino Boezio, Simmaco, esaltato come «diligentissimo imitatore degli antichi, nobilissimo educatore dei moderni». Quando Cassiodoro scriveva questa lettera erano passati pochi decenni dal 476 d. C., data della deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre, e ben pochi avevano avuto la percezione di una fine dell’Impero Romano d'Occidente. Si era però già fatta strada la consapevolezza che il mondo antico era tramontato per sempre, per cui nasceva l'esigenza di un termine per indicare l'attualità che, pur mantenendo la sua ammirazione per quel passato prestigioso, avvertiva ormai di rappresentare una realtà distinta, diversa. Di qui la nascita di "moderno" come aggettivo sostantivato per designare i contemporanei; quindi la parola, nel suo significato originario di "recente, attuale" era priva di una connotazione particolare, presentava un valore neutro. Nella concezione cristiana della storia universale, vista come processo lineare, guidato da Dio e preordinato alla realizzazione della salvezza, non poteva esserci che un solo momento periodizzante, la nascita di Cristo. E da questa infatti, parte ancor oggi nei paesi occidentali e, su indicazione dell'ONU, a livello internazionale la misura del tempo. Furono gli umanisti che a partire dal XV secolo, pur senza mettere apertamente in discussione lo schema della storia cristiana universale, manifestarono la convinzione che stesse nascendo una nuova età, nella quale sarebbero ritornati attuali i grandi modelli dell'antichità greco- romana dopo un periodo intermedio, la media aetas, che ne aveva invece trascurato o deformato i valori fondamentali. Le invasioni barbariche e la caduta dell’Impero Romano avevano interrotto il progresso dell'umanità, facendola cadere in un'età di tenebre e di ignoranza: nasceva così il concetto di Medioevo, e si delineava la suddivisione, divenuta poi tradizionale, fra storia antica, storia medievale e storia moderna. Il programma dell'umanesimo presupponeva evidentemente l'idea di progresso, un progresso concepito ancora in forma ciclica, come rinascita della grande lezione degli antichi in ogni campo, nell'arte, nella letteratura, nella filosofia, nella politica. Il termine "moderno" si caricava in tal modo di un valore positivo che era un riflesso dell'enorme prestigio dell'antico: esso si affermava come fattore di innovazione e di progresso in quanto faceva rinascere il modello rappresentato dalla civiltà greca e romana. Un ulteriore passo verso la costruzione del paradigma della modernità si ebbe con la disputa degli antichi e dei moderni che si sviluppò, in particolare nella cultura francese, fra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento; questo dibattito sancì in definitiva l'affermazione nella coscienza europea della superiorità dei moderni, i quali potevano disporre ormai di un patrimonio di conoscenze e di esperienze che consentiva loro di progredire oltre i grandi esempi del mondo classico, il cui valore non era certo negato, ma era definitivamente ricacciato nel passato. Nello stesso periodo veniva a maturazione anche la critica storica della tradizione biblica che poneva le basi per una definitiva separazione fra la storia sacra (dettata dalla rivelazione e fondata quindi su una base teologica), e la storia profana, il cui processo era determinato esclusivamente dall'opera dell'uomo. Era la premessa per l'affermazione dell'idea di progresso espressa dall'illuminismo che, superando il concetto ciclico del tempo ancora proprio degli umanisti, assumeva un carattere lineare: esso si fondava infatti sulla fiducia in un avanzamento illimitato della civiltà, che avrebbe potuto conoscere battute d'arresto, ma che si sarebbe comunque necessariamente affermato e sarebbe proseguito senza conoscere limiti. In questa prospettiva il concetto di moderno assumeva evidentemente una connotazione positiva proprio in virtù del fatto che esso, nella realizzazione di questo processo di perfezionamento dell'uomo, incarnava in ogni momento il nuovo rispetto al passato che si lasciava alle spalle. Il mito del Rinascimento La periodizzazione dell'età moderna si affermò definitivamente nell'Ottocento, quando lo storico svizzero Burckhardt, riprendendo il mito della rinascita già affermatosi nella filosofia e nell'arte fra Quattrocento e Cinquecento, elaborò il concetto di Rinascimento come alba della civiltà moderna. Alla base di questa prospettiva storica vi era la fiducia nel progresso di una borghesia europea trionfante, che si apprestava a vivere la seconda rivoluzione industriale ed era animata dall'orgoglio di rappresentare il culmine del cammino umano verso la civiltà. Non a caso proprio nel XIX secolo si affermò anche nelle lingue volgari europee il termine "modernità", traduzione di modernitas già usato in latino. Naturalmente il progresso del quale era orgogliosa la società ottocentesca poteva anche essere respinto in nome della tradizione come l'incarnazione di un male assoluto: era questa la posizione del papa Pio IX il quale, subito dopo la proclamazione del regno d'Italia, respingeva le tesi di coloro che difendevano alcuni principi della cosiddetta civiltà moderna, in nome dei principi immobili e incrollabili del cattolicesimo, l'unica vera e santa religione. Si affermò anche nel corso dell'Ottocento, parallelamente all'assoggettamento dei popoli dell'Africa e dell'Asia al dominio coloniale dell'Europa, la parola "modernizzazione", che esprimeva appunto l'imposizione del modello della civiltà europea al resto del mondo. Nato dalle correnti storiografiche di orientamento democratico-radicale, il concetto di età moderna era l'espressione di un punto di vista laico, sostanzialmente anticattolico, e non senza qualche sfumatura in senso filo-protestante, incentrato sulla affermazione dell'individuo, che a partire da quel periodo aveva rivendicato la capacità di costruirsi il proprio destino e conquistato finalmente la propria libertà di pensiero e di coscienza contro le autorità e i dogmatismi che ne avevano limitato lo sviluppo. In quella svolta la borghesia europea trovava insomma le proprie radici, visto che proprio fra Quattrocento e Cinquecento si era CAPITOLO 2 – LA POPOLAZIONE La nascita della demografia A partire dal Settecento, si era fatta strada nelle classi colte e nei gruppi dirigenti dell'Europa la consapevolezza che fosse necessario porre su più solide basi lo studio dei fenomeni relativi alla popolazione e all'economia. I primi passi in tal senso erano stati compiuti nel XVII secolo dalla scuola inglese della cosiddetta aritmetica politica, intesa come analisi ragionata su base matematica dei dati che interessano l'attività del governo. I principali esponenti di questo indirizzo furono John Graunt e soprattutto il medico, economista e matematico William Petty. Molto importante fu anche nel secolo seguente il contributo degli studiosi tedeschi, e proprio in Germania si diffuse nel Settecento il termine statistik (scienza delle cose dello Stato o della società in generale). Nel 1741 il teologo berlinese Johann P. Süssmilch dimostrò la possibilità di ricavare leggi di carattere generale dall'osservazione dei fenomeni demografici. In tal modo gli studi sulla popolazione cominciarono a distinguersi, nell'ambito della nascente scienza statistica, come un campo autonomo di ricerca, che avrebbe assunto nel secolo seguente il nome di demografia (termine introdotto per la prima volta dal francese Guillard nel 1855). Nel 1798 comparve la celebre opera del pastore anglicano Robert Malthus, che formulò il problema del rapporto fra popolazione e mezzi di sussistenza. Secondo la sua teoria la popolazione in condizioni naturali si accresce secondo una progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16 e così via) mentre le risorse aumentano solo secondo una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5 e così via); questo squilibrio è corretto periodicamente dai cosiddetti freni naturali, come guerre, carestie, epidemie. Nella cruda analisi di Malthus, la povertà delle classi inferiori era la conseguenza inevitabile di questa asimmetria fra crescita della popolazione e sviluppo dei mezzi di sussistenza. Egli riteneva che fosse possibile attenuare gli effetti di questa legge naturale solo attraverso alcuni freni preventivi o morali all'aumento demografico, come la castità matrimoniale e i matrimoni tardivi. Egli giudicava dannose invece misure di carattere assistenziale che, migliorando la condizione dei poveri, ne avrebbero incentivato la natalità. Paradossalmente Malthus espresse questa concezione pessimistica proprio nel momento in cui erano già da tempo in atto nell'economia inglese profonde trasformazioni che avrebbero drasticamente accresciuto la disponibilità dei mezzi di sussistenza. In ogni caso il pericolo di uno squilibrio fra popolazione e risorse si è ripresentato più volte nel corso della storia e anche negli ultimi decenni ha conosciuto una rinnovata fortuna attraverso la diffusione di teorie che sono state chiamate "neo-malthusiane". Alla fine del Settecento si realizzarono anche le condizioni per un radicale cambiamento nella disponibilità di fonti per lo studio della popolazione. Già nella seconda metà del secolo i tentativi di rendere più efficiente la pubblica amministrazione avevano dato vita in diversi stati europei a rilevazioni più precise. Molto importanti furono in particolare il censimento realizzato in Spagna nel 1787 e quello effettuato negli Stati Uniti nel 1790, in esecuzione delle direttive della costituzione federale approvata tre anni prima. La svolta si determinò durante la Rivoluzione francese quando l'Assemblea nazionale costituente rivendicò allo Stato il compito di registrare le nascite, i matrimoni e le morti di tutti gli abitanti, senza distinzione. Questa novità si estese poi progressivamente a tutti i paesi occupati dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche. In ogni caso nei primi anni dell'Ottocento tutti gli stati europei organizzarono nella pubblica amministrazione appositi uffici incaricati di raccogliere le principali informazioni relative alla popolazione e alla economia: si ebbero così i primi censimenti nominativi dell'intera popolazione. Naturalmente la raccolta sistematica di dati sullo stato della popolazione ha prodotto i suoi effetti solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento; per questo motivo tutte le valutazioni della demografia storica risultano tanto più approssimative quanto più si risale indietro nel tempo. Poiché l'età moderna rientra interamente nell'epoca che si suole definire "prestatistica", sarà utile ripercorrere in breve le principali tipologie di fonti disponibili in questo periodo e delineare anche alcuni dei metodi utilizzati dalla demografia storica per ricostruire, sulla base di un materiale frammentario e spesso scarsamente attendibile, lo stato e la dinamica della popolazione. Fonti e metodi della demografia storica Lo storico, per studiare la realtà economico-sociale, gli assetti politico-istituzionali e la vita culturale e religiosa di un territorio, deve conoscere con la maggiore approssimazione possibile il numero degli individui che vivevano all'epoca considerata sul territorio oggetto della sua ricerca. Il primo compito della demografia storica è quindi ricostruire lo stato della popolazione, vale a dire la sua entità e la sua struttura (ad esempio la sua composizione in base al sesso, all'età e allo stato civile). Non meno importante è lo studio dell'andamento demografico, vale a dire l'analisi dell'evoluzione della popolazione in un dato periodo e degli eventi che hanno concorso a determinarla. A tal fine è importante il calcolo degli indici di natalità, di mortalità e di matrimonio, che, posti in correlazione con altri indicatori della dinamica economica, come ad esempio l'andamento dei prezzi e dei salari, forniscono una serie di dati preziosi per l'analisi delle società di antico regime. Per le epoche più antiche, data l'assoluta mancanza di dati, si può pervenire solo a una stima, cioè a una valutazione approssimata del numero degli abitanti. Nel Medioevo infatti le rilevazioni della popolazione furono occasionali e limitate ad ambiti territoriali ristretti, e inoltre furono promosse soprattutto per fini militari o fiscali, per cui la loro attendibilità deve essere attentamente valutata. Si può ricordare come esempio il celebre Domesday book (libro del giorno del giudizio), redatto in Inghilterra nel 1083-1086 dopo la conquista normanna, nel quale erano registrate le terre con i gruppi di famiglie che vivevano su di esse. In epoche più vicine si segnala il catasto fiorentino del 1427, una fonte di straordinaria importanza, che registra più di 260 mila abitanti nel territorio della repubblica con i loro beni mobili e immobili. In generale però i censimenti, che rappresentano oggi la fonte principale per conoscere lo stato di una popolazione, sono scarsamente attendibili prima del XIX secolo. Più numerose sono le fonti di natura fiscale, che però, oltre a essere molto spesso inattendibili, censiscono a volte, come ad esempio la riforma del 1443 nel regno di Napoli, i fuochi ovvero i nuclei familiari e non gli individui. Per l'età prestatistica la fonte più importante è sicuramente rappresentata dalle registrazioni tenute dagli ecelesiastici, che riguardano in particolare l'età moderna in quanto compaiono in modo frammentario e occasionale a partire dal XV secolo e diventano regolari, e progressivamente più precise e ricche di informazioni, nei secoli seguenti. In tal senso molto importanti furono in ambito cattolico i decreti del concilio di Trento che nel 1563 resero obbligatoria la tenuta dei libri di battesimo e di matrimonio da parte dei parroci, i quali a partire dal 1614 furono tenuti anche (su decisione di papa Paolo V) a redigere uno stato delle anime e il registro delle sepolture. Analoghe forme di registrazione al fine di verificare i comportamenti religiosi della popolazione furono utilizzate dalle chiese protestanti. Gli stati delle anime, volti al controllo dell'adempimento del precetto della comunione pasquale, presentano un elenco nominativo degli abitanti inseriti nei gruppi familiari di appartenenza con l'indicazione del luogo di residenza e della professione del capofamiglia. Essi rappresentano la fonte più importante per conoscere l'entità e la struttura della popolazione. Per lo studio dell'andamento demografico risultano invece preziosi i registri di battesimo, matrimonio e sepoltura, che soprattutto nel XVII e XVIII secolo offrono importanti informazioni accessorie sugli individui censiti. Per ricavare da questa massa di informazioni calcoli utili per ricostruire la dinamica demografica è necessario conoscere il numero degli individui che facevano parte della comunità considerata, e in particolare la loro suddivisione in base al sesso, all'età e allo stato civile; poiché, come si è detto, è abbastanza raro che nell'età prestatistica si disponga al riguardo di dati affidabili e continui, occorre partire dai registri di battesimo, di matrimonio e di sepoltura, disponibili spesso per periodi anche molto lunghi, per ottenere i dati essenziali sullo stato della popolazione in ciascuno degli anni considerati. A questo punto è possibile calcolare, ad esempio, la densità della popolazione, che si ottiene dividendo il numero degli abitanti per la superficie del territorio nel quale essi vivono, espressa in km quadrati. Una volta stabilito il numero degli abitanti in un determinato territorio si possono calcolare gli indici di natalità e di mortalità. Per quanto concerne il primo, si ottiene dividendo il numero dei nati in un anno per il totale della popolazione e moltiplicando per 1000. Analogo calcolo si può fare per ottenere l'indice di mortalità conoscendo il numero dei morti in quell'anno. Altra operazione importante è il calcolo della speranza di vita, che si ottiene cancellando progressivamente dai nati nello stesso anno i morti negli anni successivi fino all' esaurimento della lista; quindi si sommano le età raggiunte dai singoli individui e si divide per il numero totale, e si ha la speranza di vita alla nascita. Avendo a disposizione dati abbastanza completi, è possibile costruire una piramide della popolazione, che rappresenta graficamente l'evoluzione demografica di una comunità nel tempo. In un diagramma cartesiano si rappresentano sotto forma di istogrammi i nati in ogni anno (oppure ogni cinque anni) divisi per sesso, i maschi a sinistra e le femmine a destra. Tutte queste tecniche si fondano sulla aggregazione dei dati disponibili. A partire dal secondo dopoguerra si è sviluppata, grazie soprattutto alla scuola francese, una tecnica di utilizzo dei registri ecclesiastici che ha consentito alla demografia storica di compiere straordinari progressi nella conoscenza dei comportamenti delle popolazioni dell'età moderna: ci riferiamo alla ricostruzione nominativa delle famiglie, che si concentra innanzitutto sui dati relativi alle vicende degli individui. Si tratta di trascrivere in una scheda le date di nascita e di morte di tutti i componenti di un nucleo familiare dal momento della sua costituzione fino alla sua dissoluzione per la morte di uno dei coniugi. L'andamento della popolazione mondiale L'evoluzione della popolazione mondiale mostra che in corrispondenza del periodo convenzionalmente indicato come inizio dell'età moderna non si nota nessuna significativa rottura o discontinuità, Si individuano invece due punti di svolta. Il primo coincide con una radicale trasformazione nella storia dell'umanità avvenuta nell'età neolitica: lo sviluppo dell'agricoltura. A partire dal 10.000 a. C. in alcune zone del pianeta (Cina, Vicino Oriente, America Centrale) l'uomo superò gradualmente l'economia fondata sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta dei prodotti spontanei della natura e iniziò a lavorare stabilmente la terra e ad addomesticare alcune specie di animali. Si è ipotizzato che vi fossero intorno al 10.000 a.C. circa 6 milioni di abitanti. L'agricoltura e l'allevamento consentirono all'uomo di ottenere con regolarità alimenti facilmente conservabili, come ad esempio i cereali, e favorirono quindi una crescita della popolazione che giunse a circa 250 milioni all'inizio dell'era cristiana. Dopo questa prima svolta la popolazione mondiale è aumentata a un ritmo costante ma piuttosto lento, fino alla metà del XVIII secolo, quando prese avvio una fase di crescita, tuttora in atto, che ha fatto segnare, per la sua intensità e per la sua durata, la seconda rottura nell'andamento demografico globale. Il ritmo di crescita è rallentato solo negli ultimi decenni a causa delle politiche di limitazione delle nascite messe in atto dall'India e soprattutto dalla Cina. Il fenomeno è stato definito dagli studiosi "transizione demografica" in quanto, modificando profondamente la mentalità, le tendenze e i comportamenti individuali caratteristici delle società ovviamente differenziati per tempi e modalità nei diversi continenti. Ad esempio, lo sviluppo della popolazione europea nell'età moderna fu fortemente condizionato dalla vera catastrofe demografica provocata dalla peste con la gravissima crisi del 1347-1352 e poi con le successive ondate epidemiche che si manifestarono in diverse zone del continente. Il recupero dei vuoti lasciati da questa crisi fu in generale piuttosto lento per cui i livelli di popolazione di inizio Trecento furono raggiunti quasi ovunque solo agli inizi del Cinquecento, quando si avviò una nuova fase di crescita abbastanza accentuata che durò fino agli inizi del secolo successivo. Il Seicento fu invece caratterizzato da una complessiva stagnazione, soprattutto per quanto concerne Spagna e Italia, e fece segnare per la Germania il picco negativo della guerra dei Trent'anni, ad eccezione dell'Olanda, che conobbe una crescita particolarmente sostenuta per tutto il corso del Seicento. Secondo alcuni le difficoltà del XVII secolo potrebbero essere ricondotte in parte a un sensibile abbassamento delle temperature, per le quali si è parlato addirittura di una piccola glaciazione, che avrebbe provocato carestie più frequenti e particolarmente gravi. A partire dalla metà del Settecento iniziò una fase di crescita sempre più accelerata che assunse un ritmo tale da far segnare la seconda grande rottura nell'andamento della popolazione mondiale. Si è molto discusso sulle cause che diedero avvio nel corso del Settecento alla "transizione demografica". Vi fu con ogni probabilità un concorso di fattori diversi che fecero abbassare la mortalità e alzare la natalità. Intanto non si può stabilire, per quanto concerne l'Europa, un rapporto diretto con la rivoluzione industriale in quanto l'aumento demografico si manifestò prima che questa facesse sentire i suoi effetti e riguardò anche aree che solo molto dopo sarebbero state raggiunte dal processo di industrializzazione. Quest' ultimo solo nel corso dell'Ottocento avrebbe rappresentato un potente acceleratore della crescita. Sulla diminuzione delle morti pesarono sicuramente la scomparsa della peste e la minore frequenza e gravità delle carestie, grazie non solo ai progressi dell'agricoltura ma anche al notevole miglioramento dei trasporti che consentivano di contrastare in tempi più rapidi le crisi locali. L'ultima grande carestia di dimensione europea si ebbe nel 1816-1817 ma, nonostante fosse accompagnata da un'epidemia di tifo, ebbe effetti meno devastanti rispetto a quelle dei secoli precedenti. LA DEMOGRAFIA URBANA L'urbanizzazione è un processo di concentrazione della popolazione, che può avvenire attraverso la crescita delle città esistenti o tramite la formazione di nuovi centri di aggregazione. Per l'Europa occidentale nell'età moderna si può definire città un agglomerato di più di 5000 individui, ma in zone a bassa densità abitativa e a bassa urbanizzazione, come ad esempio l'Europa orientale, bisogna probabilmente considerare anche i villaggi che hanno più di 2000 abitanti. Rispetto alla demografia, il contesto urbano presenta caratteri e problematiche particolari. Intanto bisogna considerare che è maggiore il numero di individui non sposati, sia nei paesi cattolici (per la media più alta di ecclesiastici vincolati al celibato), sia per la presenza di una cospicua immigrazione di donne impiegate come domestiche nelle case delle classi agiate, una parte delle quali rimaneva nubile. La struttura economica, basata sull'artigianato, rendeva più diffusa la famiglia di tipo nucleare. Va segnalato anche che la mortalità era mediamente più elevata in città che in campagna: infatti l'addensamento di popolazione e le condizioni igienico-sanitarie, sicuramente più precarie a causa della non sempre agevole disponibilità di acqua, favorivano la diffusione di malattie e di epidemie. Una parte rilevante della popolazione urbana, in particolare quella immigrata, viveva in condizioni assai precarie, e formava una massa di marginali che assunse dimensioni molto più ampie nell'età moderna. Molto utile è il calcolo del tasso di urbanizzazione, possibile a partire dal XIV secolo: esso indica la percentuale di individui di una determinata società che vivono in uno spazio urbano (nel calcolo si divide il numero degli abitanti in città per la popolazione complessiva e si moltiplica per mille). Nel valutare l'andamento della popolazione urbana è importante in particolare il rapporto con la popolazione complessiva: si può parlare di un processo di urbanizzazione se la popolazione che vive in città cresce non solo in termini assoluti, ma soprattutto in relazione al complesso della popolazione. La dinamica della popolazione urbana ha seguito in Europa un percorso sensibilmente diverso rispetto agli altri continenti. In Cina dopo l'anno Mille vi erano sicuramente alcune città i cui abitanti raggiungevano e forse superavano il mezzo milione di abitanti, e grandi capitali erano anche Baghdad, Costantinopoli, Kyoto. In Occidente invece le invasioni barbariche e il crollo dell’Impero Romano determinarono una profonda crisi della città: basti pensare a Roma, ridotta nell'alto Medioevo a ospitare poche decine di migliaia di abitanti. Una forte crescita degli spazi urbani si ebbe nei secoli XI-XIII nell'Europa occidentale, ma questo sviluppo era già notevolmente rallentato quando intervenne la catastrofe demografica della peste a metà del Trecento. Si segnala anche che questa crescita delle città si realizzò nel quadro di un generale incremento demografico, per cui non fece segnare un aumento del tasso di urbanizzazione. All'inizio dell'età moderna la mappa delle città rifletteva ancora le linee di tendenza manifestatesi dopo il Mille, in particolare grazie al dinamismo dei centri più attivi dal punto di vista finanziario, manifatturiero e commerciale: essa quindi si snodava lungo un asse che andava dall'Italia centrale fino alle Fiandre. Particolarmente intenso appariva lo sviluppo degli spazi urbani nella penisola italiana. Se si esamina lo sviluppo successivo delle città maggiori nel corso dell'età moderna appaiono immediatamente evidenti alcune trasformazioni che riflettono i mutamenti intervenuti in questo periodo nella realtà politico-istituzionale ed economico-sociale. Colpisce intanto la crescita di Londra, che agli inizi del Settecento superò Parigi come città più popolosa del continente, e di Amsterdam. In generale il baricentro della mappa urbana si spostò verso l'Europa centrosettentrionale: è l'espressione sul piano demografico di un decisivo spostamento degli equilibri economico-finanziari dall'Europa mediterranea a quella atlantica. L'altro fenomeno caratteristico dell'età moderna è la comparsa di grandi città capitali, Madrid, Vienna, Berlino, San Pietroburgo. Era questa la conseguenza della formazione di uno Stato strutturalmente diverso rispetto a quello medievale. Se la crescita delle città nel basso Medioevo era stata determinata soprattutto dallo sviluppo del commercio, delle manifatture e delle attività finanziarie, l'emergere delle nuove città capitali avvenne in virtù della loro funzione di centro politico-istituzionale e amministrativo dello Stato. Di conseguenza si imposero come componenti essenziali del loro tessuto sociale cortigiani, funzionari, militari, addetti ai servizi. E questo un segno caratteristico della modernità, che in qualche modo anticipava le successive trasformazioni dello spazio urbano in età contemporanea. CAPITOLO 3 – LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: AGRICOLTURA La società di antico regime era fondata su un'economia prevalentemente agricola. Alla fine del Settecento mediamente più del 75% della popolazione europea era impiegata nei lavori agricoli, che continuavano in generale a adottare tecniche e strutture antiquate. Un significativo indice della modernizzazione è la riduzione del numero degli impiegati in agricoltura rispetto al totale degli occupati. Infatti, quando l'agricoltura riesce ad accrescere la sua produttività si creano le condizioni per lo spostamento di uomini e risorse, prima impegnati a garantire la sussistenza della popolazione, verso altri settori produttivi. Questo processo si manifestò precocemente in Inghilterra, e ha interessato in seguito progressivamente tutti i paesi più avanzati. Solo con molta lentezza e fra notevoli difficoltà, ci fu, in tempi e modi diversi nelle varie zone del continente, il superamento dell'agricoltura tradizionale, che creò le premesse per una modernizzazione delle tecniche di coltivazione. In relazione alla vita economica, in realtà la periodizzazione dell'età moderna non è significativa, in quanto non si individuano fra il XV e il XVI secolo elementi di novità tali da determinare una rottura di continuità rispetto all'età medievale. Prima di delineare i caratteri essenziali dell'agricoltura europea, è necessario chiarire preliminarmente che nell'età moderna la condizione del mondo contadino si presentava sostanzialmente diversa nell'Europa centro- occidentale rispetto alla parte orientale del continente, posta al di là di una linea di demarcazione che si fa convenzionalmente coincidere con quella del corso del fiume Elba. Si tratta di una differenziazione molto importante, che ebbe un peso decisivo sulla storia delle due parti del continente, non solo in rapporto allo sviluppo economico ma anche per quanto concerne gli assetti sociali e gli equilibri politico-istituzionali. Il mondo rurale dell'Europa centro-occidentale Nel Medioevo le grandi proprietà erano divise in una pars dominica (gestita direttamente dal proprietario attraverso le prestazioni di lavoro gratuite da parte dei contadini, le corvées), e una pars massaricia (affidata al lavoro di contadini liberi o servi che pagavano un canone in natura o in denaro ed erano obbligati a prestare alcuni lavori o servizi). Tra il IX e il X secolo, a causa della debolezza dei poteri politici, i proprietari terrieri assunsero sempre più una funzione di protezione e di difesa delle popolazioni che vivevano sulle loro terre. Si affermò così la signoria fondiaria, ossia l'assunzione da parte del proprietario terriero di un'autorità che si estendeva non solo sui contadini dipendenti ma su tutti gli abitanti delle terre di sua proprietà. Il signore, in cambio della protezione, imponeva obblighi di varia natura, amministrava la giustizia e riscuoteva tributi. In tal modo le differenze fra le varie condizioni personali andarono progressivamente riducendosi fino a perdere di fatto ogni significato. Scomparve quasi del tutto la schiavitù, ma contadini liberi o dipendenti dal signore, servi addetti alla casa o al lavoro nei campi finirono per essere assimilati in una comune condizione di servaggio. Il servo era in una situazione di inferiorità giuridica che implicava una limitazione della sua libertà personale: egli doveva obbedienza al signore, era obbligato a prestare a suo favore opere gratuite e non poteva lasciare le sue terre. Per definire questo servaggio si fece riferimento ai servi vincolati alla terra del tardo Impero Romano e per questo si parlò di servi della gleba. La signoria svolgeva una funzione di organizzazione e di difesa del territorio che in una società disgregata i poteri pubblici non erano in grado di garantire. A questa situazione di fatto si sovrappose fra il XI e il XII secolo una rete di rapporti feudali che provò a ricostituire una forma di gerarchia politica. Si utilizzò al riguardo (già affermatosi in età carolingia) il vassallaggio: legame personale fra due uomini uno dei quali concedeva un beneficio o feudo (per lo più beni fondiari) a il predominio sociale. In Russia ad esempio nel 1649 un codice di leggi sancì formalmente l'asservimento dei contadini e stabili il diritto del signore di ricercare e recuperare i contadini fuggiti. Si determinò così nelle campagne un clima di profondo malessere che provocava periodicamente fughe collettive, accompagnate in genere da ogni sorta di violenze contro la famiglia del signore. Talora la rabbia contadina esplodeva in vere e proprie rivolte. L'economia contadina Nella società di antico regime la coltivazione della terra e quindi gran parte della produzione erano garantite dal lavoro della famiglia contadina, vera cellula di base della vita economica. Si è detto che nell'Europa orientale il rafforzamento della riserva signorile e l'asservimento del mondo contadino fecero si che ben pochi fossero i liberi proprietari. Ben diversa era invece la situazione nell'Europa occidentale, dove comunque non mancavano notevoli differenze fra le varie zone. Sappiamo ad esempio che in Inghilterra si determinò una precoce crisi della proprietà contadina. Per quanto concerne l'Italia centro-settentrionale furono spesso gli investimenti fondiari dei cittadini a determinare una forte diminuzione dei contadini proprietari. Si può affermare comunque che nel corso dell'età moderna vi era in molte zone dell'Europa occidentale una diffusa proprietà contadina, che ad esempio in Francia e in Germania deteneva ancora nel Settecento circa la metà delle terre disponibili. Non va dimenticato però che questa proprietà era soggetta ai diritti dovuti alla proprietà del signore. In teoria vigeva il principio per cui non c'era terra senza signore, ma la realtà era molto diversa: non mancavano infatti terre allodiali (o allodi), vale a dire in piena proprietà, libere da obblighi e vincoli nei confronti di un signore, particolarmente numerose ad esempio nella Francia meridionale e nell'Italia centro-settentrionale. La struttura della famiglia contadina era condizionata dalla disponibilità di terra e dalla natura dei contratti agrari. Quando la peste del 1348 ridusse drasticamente la popolazione, la terra a disposizione del mondo rurale divenne abbondante e quindi si manifestò la tendenza alla formazione di famiglie di tipo nucleare, composte dai genitori e dai figli. In seguito, l'incremento demografico accrebbe la pressione sul terreno coltivabile per cui risultò più difficile per le giovani coppie rendersi autonome con l'acquisizione di una propria unità coltivatrice: si manifestò perciò in molte zone una tendenza alla formazione di famiglie più ampie nelle quali convivevano più generazioni. Ma la situazione era in generale assai variegata. In Inghilterra il modello familiare si strutturò precocemente sul tipo nucleare, che si affermò anche in buona parte dell'Europa settentrionale e nell'Italia meridionale. Al contrario nell'Italia centrale a partire dal tardo Medioevo si diffusero contratti di affitto parziario che affidavano alla famiglia contadina un'unità poderale completa di casa, stalla e attrezzi da lavoro con l'obbligo di dare al proprietario una parte del prodotto che spesso ammontava all'incirca alla metà (mezzadria). In tal caso la famiglia contadina assumeva la tipica forma ampia con la compresenza anche di più fratelli sposati. Si è detto che nell'Europa orientale dominava in generale la famiglia complessa. Un'agricoltura di sussistenza Il modello dell'economia contadina fu sempre un'agricoltura di sussistenza, che mirava cioè in primo luogo a produrre gli alimenti e gli altri prodotti di cui la famiglia aveva bisogno; il ricorso al mercato era perciò limitato e marginale. Anche tutto ciò che era necessario alla produzione era prodotto all'interno della stessa azienda familiare: il concime era fornito dagli animali, si metteva da parte ogni anno circa un quarto del raccolto per la semina dell'anno seguente, attrezzi e utensili erano in genere costruiti e riparati dagli stessi contadini, con l'eccezione delle parti metalliche. Tuttavia, la famiglia non viveva isolata ma era quasi ovunque integrata nella comunità del villaggio, che ne condizionava ogni aspetto della vita, dall'attività economica alle stesse vicende individuali. Nelle zone dove vigevano contratti agrari, come ad esempio la mezzadria, il paesaggio era caratterizzato dalla presenza di case coloniche sparse nelle campagne, vicine ai terreni da lavorare. Ma in Inghilterra e nella maggior parte dell'Europa occidentale le case contadine si trovavano riunite nei villaggi, generalmente coincidenti con la parrocchia, insediamenti in genere piccoli, e le unità di coltivazione erano disperse nei cosiddetti campi aperti (open fields). Le parcelle di proprietà di ciascun contadino erano spesso diverse e anche piuttosto lontane fra loro, e non erano separate. Si trattava di un'agricoltura di tipo comunitario in quanto ciascuno era vincolato alle pratiche di coltivazione adottate dal villaggio da tempo immemorabile. Predominava quindi la coltivazione dei cereali, frumento e soprattutto segale, che rappresentavano la componente fondamentale della dieta delle classi popolari. L'altro aspetto caratteristico dell'agricoltura comunitaria del villaggio era la rotazione delle colture al fine di garantire al terreno il necessario riposo. Visto che piante nella loro crescita assorbono sali minerali e sostanze nutritive dal terreno, questo non può essere coltivato ininterrottamente. Di qui l'antica pratica di lasciarlo a riposo a intervalli stabiliti, in modo da poterne ripristinare la fertilità con l'eliminazione delle erbe infestanti e la concimazione, per la quale fino alla metà del XIX secolo si utilizzavano esclusivamente sostanze organiche, residui vegetali e soprattutto animali. Si praticava perciò la rotazione delle colture, che seguiva per lo più un ritmo triennale (sistema dei tre campi). Il territorio del villaggio era diviso in tre parti, ciascuna delle quali era coltivata il primo anno a cereali a semina invernale, il secondo ad avena o orzo, la cui semina avviene a marzo, e infine il terzo anno era lasciata a riposo (maggese). Dopo il raccolto però i campi, che per questo venivano detti aperti, erano soggetti a una serie di usi collettivi dei quali tutti gli abitanti del villaggio potevano avvalersi, ad esempio il diritto di spigolatura, vale a dire la raccolta dei chicchi di grano rimasti sul terreno, e il diritto di pascolo. Poi al momento della semina si ristabiliva la divisione fra le varie proprietà individuali. Molto importanti erano anche i campi comuni (common lands), di proprietà collettiva della comunità, spesso formati da boschi e pascoli. Su queste terre gli abitanti del villaggio potevano portare a pascolare i loro animali, raccogliere la legna per l'inverno (legnatico) e fabbricare il carbone. Talora i più poveri costruivano su queste terre misere capanne per ripararsi (in Inghilterra i cottagers) e ne coltivavano piccoli appezzamenti. Naturalmente vi erano nel mondo contadino posizioni anche molto diverse. Uno degli elementi che differenziavano in misura significativa le famiglie contadine era la proprietà di animali da lavoro. In Francia al vertice della gerarchia contadina si ponevano i laboureurs, che avevano proprietà più estese e disponevano anche di animali (buoi o cavalli). Ben diversa la condizione dei manouvriers (braccianti), che non avevano terra. Non mancava nel villaggio anche qualche artigiano, ma spesso anch'essi avevano qualche porzione di terra da coltivare. Vigeva comunque in questo piccolo mondo uno spirito comunitario che, al di là dei contrasti e delle rivalità familiari e sociali, garantiva comunque la sopravvivenza di tutti. Emerge comunque con chiarezza la condizione di un mondo contadino che viveva al limite della sussistenza e che era costantemente esposto al pericolo della carestia in caso di un'annata cattiva per motivi metereologici o per eventi eccezionali. Un'agricoltura statica Il mondo rurale dell'età moderna si è comunque caratterizzato per un'agricoltura incapace in larga misura di superare pratiche e strutture ereditate dalla tradizione. In effetti le più importanti innovazioni tecniche si erano diffuse a partire dall' XI secolo: molto importanti furono in particolare l'aratro pesante (detto asimmetrico perché dotato di un vomere che penetrava nel terreno più a fondo da un lato che dall'altro), e l'uso su larga scala nell'aratura del cavallo (più potente e più veloce del bue, grazie a un giogo che premeva sul petto e non sul collo dell'animale). Nell'età moderna non vi furono invece novità significative, tant'è che per far fronte all'aumento della popolazione nel Cinquecento si seguì la strada di ampliare il terreno coltivato attraverso dissodamenti e bonifiche, o con l'eliminazione di prati e pascoli e l'abbattimento di foreste. Si ebbe anche allora una intensificazione della prevalenza della cerealicoltura, che costituiva ancora la soluzione più semplice e meno costosa per sfamare la popolazione in crescita. Anche per questo scomparve quasi del tutto dalla dieta contadina la carne, che era molto costosa in quanto gli alimenti necessari al nutrimento degli animali erano sottratti all'uomo. Certo la risposta estensiva comportava l'utilizzo di terre di minore qualità che davano rese inferiori. Inoltre, la riduzione dei pascoli limitava l'allevamento del bestiame, il che voleva dire, fra l'altro, una minore disponibilità di concime. Si determinava insomma un conflitto fra agricoltura e allevamento. Il conflitto fra agricoltura e crescita demografica pone un problema: per quale motivo i sistemi tradizionali resistettero così a lungo e vi fu una così grande difficoltà nel promuovere le innovazioni? Intanto si deve osservare che questo tipo di agricoltura era caratteristico dell'Europa ma non era praticato nella maggior parte degli altri continenti. In Asia, nella zona indiana e nell'estremo Oriente, come pure nell'America centrale e meridionale era praticata un' agricoltura che ripristinava la fertilità del terreno sfruttando, con un sistema di irrigazione continua, le acque dei fiumi, che hanno il vantaggio rispetto all'acqua piovana di portare direttamente al terreno i sali minerali. Gravava soprattutto sull' agricoltura europea il vincolo del maggese, che rendeva inutilizzabile ogni anno un terzo della terra coltivabile. In realtà in alcune zone, come ad esempio le Fiandre e la pianura irrigua lombarda, vi erano esempi di un' agricoltura più moderna, che, grazie alla notevole presenza di fiumi, si era emancipata dall'obbligo del maggese e otteneva rese molto più grandi. Ma in generale la struttura dell'economia di villaggio opponeva un ostacolo insuperabile alla estensione di questo modello, che fu superato progressivamente solo a partire dal XVII secolo nei Paesi bassi e in Inghilterra. Un primo passo verso l'eliminazione del maggese fu in genere l'introduzione, in alternanza con i cereali, di leguminose, che rilasciano sali di azoto nel terreno. Ma soprattutto fu decisiva la sostituzione del maggese con piante foraggere (erba medica, lupinella, trifoglio) che non impoveriscono il terreno e che forniscono nutrimento al bestiame. In tal modo veniva superato il conflitto fra agricoltura e allevamento. Lo sviluppo dell'allevamento comportava un' aumentata produzione di latte, burro e formaggi, e inoltre metteva a disposizione una quantità crescente di concime. Nasceva così nei Paesi bassi e in Inghilterra l'agricoltura che è stata chiamata mista proprio in riferimento a questa integrazione fra cerealicoltura e allevamento, in particolare bovino. Condizione importante, anche se non esclusiva, per l'avvio di queste innovazioni era la disgregazione dell'economia di villaggio con il conseguente sviluppo dell' individualismo agrario. Ciò avvenne in Inghilterra attraverso le recinzioni (enclosures), che consistevano in un superamento dell'agricoltura comunitaria del villaggio attraverso un processo di ricomposizione delle proprietà che ponesse fine al frazionamento e alla dispersione delle varie parcelle con la formazione di unità di coltivazione compatte. Si trattava di un procedimento complesso che prevedeva innanzitutto la divisione dei campi comuni fra i proprietari e quindi il raggruppamento delle terre di cui questi erano titolari negli open fields. A questo punto ciascun proprietario poteva recintare il terreno che gli era stato assegnato e quindi poteva introdurre miglioramenti adottando ad esempio le novità della rivoluzione agraria o anche promuovendo la coltivazione di piante diverse dai cereali. Naturalmente per realizzare queste trasformazioni era necessaria una complessa trattativa fra i industriale in Inghilterra: per la prima volta si passava da fonti rinnovabili a una fonte non rinnovabile. Nell'Ottocento poi si sarebbe affermata un'altra fonte energetica non rinnovabile destinata a dominare la vita economica fino ai giorni nostri, il petrolio. Il settore manifatturiero Il settore secondario fino al XVIII secolo era ben lontano dal concetto di industria (che era generalmente inteso come operosità, e non nel senso attuale di attività produttiva caratterizzata da ampia quantità di manodopera e capitale e fondata sulla divisione del lavoro). Per tal motivo è preferibile parlare di manifattura, termine che indica le attività, eseguite a mano o a macchina, per trasformare una materia prima in oggetto di consumo, ovvero in manufatto. Bisogna innanzitutto ricordare che, soprattutto nelle campagne, la famiglia tendeva a produrre da sé ciò di cui aveva bisogno. In questo caso il produttore è al tempo stesso consumatore. Questa attività riguardava, oltre alla lavorazione dei prodotti della terra (pane, olio, vino, formaggi e così via), la filatura e la tessitura (soprattutto di lana, lino e canapa), i mobili, gli attrezzi agricoli per le parti non metalliche, gli utensili e anche i più semplici lavori di edilizia. Solo occasionalmente si ricorreva all'acquisto di oggetti in città o alla fiera più vicina, anche se nel corso del tempo questa produzione domestica andò diminuendo e fu sostituita dal ricorso ad artigiani specializzati, ma ha resistito a lungo. In effetti la domanda di prodotti dell'artigianato e delle manifatture era soprattutto alimentata dai consumi delle classi agiate. Ma nel corso dell'età moderna la domanda di prodotti di lusso si ampliò progressivamente proprio per le richieste provenienti dai gruppi sociali non aristocratici, che avevano raggiunto un notevole livello di ricchezza e di prestigio sociale. Ma in questo periodo incise in modo significativo sull'economia soprattutto la domanda proveniente dallo stato per le esigenze legate all'armamento e all'approvvigionamento degli eserciti e delle flotte. Non mancavano nell'età moderna manifatture nelle quali erano concentrati numerosi lavoratori dipendenti pagati con un salario. Ciò accadeva ad esempio per la costruzione di edifici importanti, come una chiesa o un palazzo, o nelle costruzioni navali. Era comunque una realtà ancora lontana dall'industria moderna, e non solo per il limitato uso di macchine. Spesso si trattava di artigiani proprietari dei loro strumenti di lavoro che lavoravano uno accanto all'altro, anche se poi il coordinamento di queste attività realizzava una vera catena operativa in grado di ottimizzare i tempi di lavorazione. Altri esempi sono forniti da grandi manifatture fondate per lo più con capitali statali per la produzione di beni di lusso destinati alle Corti o alle classi agiate: ricordiamo la fabbrica di arazzi dei Gobelins e quella di vetri di Saint-Gobain in Francia. In ogni caso le manifatture accentrate fornivano una quota modesta della produzione complessiva. La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell'artigianato. A partire dalla ripresa dell' XI secolo, quando le città si erano affermate come centri di produzione, i vari settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle arti o corporazioni, nate da patti associativi giurati analoghi a quelli che avevano dato origine al comune. Si trattava di un fenomeno prettamente urbano, giacché non riguardava in genere gli artigiani che vivevano nei villaggi rurali. Membro della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio; egli aveva presso di sé uno o più apprendisti, che non erano stipendiati anzi spesso pagavano per poter apprendere il mestiere, e dei garzoni salariati, il cui numero variava in ragione del mestiere svolto. Le funzioni principali della corporazione erano innanzitutto la difesa del monopolio della produzione da possibili concorrenti esterni e inoltre la regolamentazione e la riduzione della concorrenza fra i membri in modo da garantire la stabilità degli equilibri interni, evitando la formazione di posizioni dominanti. Gli illuministi nel Settecento svilupparono una dura polemica nei confronti delle corporazioni, ritenute responsabili di ostacolare la libertà del lavoro, in quanto impedivano ad esempio ad artigiani forestieri di esercitare il mestiere in città, a meno che non apportassero nuove conoscenze tecniche, e di essere state spesso ostili all'introduzione di innovazioni che avrebbero potuto alterare l'eguaglianza fra gli artigiani a favore di qualcuno di essi o sostituire il lavoro di molti. A un certo punto comunque le corporazioni sono divenute un freno allo sviluppo dell'economia; non a caso, proprio per superare questi ostacoli, si svilupparono nuove forme di organizzazione della produzione come l'industria a domicilio. Tuttavia, i vani tentativi di eliminare le corporazioni prima della loro abolizione a opera della Rivoluzione francese mostrano con chiarezza quanto esse fossero radicate nel tessuto sociale proprio per le funzioni che svolgevano. La corporazione vigilava sulla qualità della produzione, sul suo sviluppo in relazione all'andamento del mercato, sui prezzi, sui salari e sulla formazione dei nuovi operatori. Ma il legame fra i membri andava al di là del mero interesse economico, e coinvolgeva tutta la trama della vita sociale, come dimostra la tendenza alla endogamia. La corporazione, che aveva un santo patrono e organizzava le cerimonie religiose del suo culto, si collocava con una sua precisa identità nell'universo urbano. Essa inoltre si occupava dell'assistenza per i suoi membri, e in particolare per le vedove, i minori e gli inabili, e dell'istruzione dei figli. Protoindustria L'artigiano in genere lavorava su commissione in quanto non poteva assumersi l'onere finanziario di produrre oggetti in attesa di futuri clienti. Il sarto confezionava un abito su ordinazione del cliente, che talora gli forniva anche il tessuto. Tuttavia, spesso la richiesta veniva da un mercante che anticipava la materia prima e vendeva il prodotto. In tal caso l'artigiano, pur indipendente e spesso proprietario ad esempio del telaio, era di fatto dipendente dal mercante che garantiva i rapporti con il mercato, e, se era costretto a indebitarsi con lui in anni di crisi, rischiava di perdere la proprietà dello strumento di lavoro. Questa struttura di artigianato subordinato si affermò a partire dal basso Medioevo soprattutto nel settore tessile. Nella filiera della lana, che rimase preminente nell'ambito dell'industria tessile, il modello della manifattura a domicilio si diffuse nel XVII e nel XVIII secolo nelle campagne circostanti le città e diede vita al sistema delle manifatture decentrate o disperse (definite in inglese putting out system). Un mercante imprenditore acquistava la materia prima e provvedeva in un magazzino a farla lavare e liberare dalle impurità da lavoratori a salario. Le fasi successive, la filatura e la tessitura, non erano svolte in città ma nelle campagne, presso le abitazioni dei contadini che, disponendo di un filatoio e di un telaio, trovavano modo di arrotondare così il reddito familiare. Lungo la filiera c'erano due ulteriori passaggi: il primo era la follatura, e il secondo era la tintura, anch'essa eseguita presso la bottega di un maestro tintore che poteva esserne proprietario o affittuario. Il mercante imprenditore per coordinare l'attività dei produttori dispersi a domicilio si serviva di suoi agenti che potevano essere dipendenti o anche titolari di questa attività di intermediazione. Attraverso tali incaricati egli forniva la materia prima ai contadini artigiani e ritirava il prodotto al termine della filatura e della tessitura, e provvedeva poi alla vendita del prodotto finito sul mercato. Gli artigiani, pur formalmente proprietari degli strumenti di lavoro (filatoi o telai), erano evidentemente dipendenti in quanto inseriti in un ciclo produttivo controllato dal mercante imprenditore. Essi erano pagati generalmente a cottimo. Il completamento della filiera avveniva in genere in due o tre mesi. Questo dava al sistema una notevole flessibilità in quanto era possibile al titolare calibrare la quantità del prodotto secondo le esigenze del mercato. Soprattutto il mercante imprenditore poteva aggirare i vincoli del sistema corporativo e abbattere i costi grazie alle minori pretese della manodopera contadina. Il notevole sviluppo di questo sistema, che produceva tessuti di minore qualità, ma in grado di coprire un mercato molto più ampio, fu un potente fattore di crisi per le manifatture cittadine fiamminghe e italiane. Nelle città dell'Italia centro-settentrionale, dopo una ripresa alla fine del XVI secolo, vi fu nel secolo seguente una drastica caduta della produzione di tessuti di lana e seta, e si manifestò una tendenza alla specializzazione in prodotti di lusso come, ad esempio, la produzione a Milano e Venezia di tessuti ottenuti intrecciando la seta con fili di oro e di argento. Il putting out system si differenziava dall'artigianato perché caratterizzato dalla dipendenza dei produttori da un imprenditore; esso può essere considerato quindi come una fase di transizione verso la formazione dell'industria accentrata, e per questo viene indicato con il nome di protoindustria. Effettivamente accadde spesso che il sistema evolvesse verso la centralizzazione di alcune fasi dell'attività produttiva, con la formazione di una manifattura nella quale lavorava ormai una manodopera salariata. Tuttavia, non sempre questo tipo di organizzazione della produzione diede avvio ad un processo di concentrazione di più lavoratori in un unico luogo. In molti casi le manifatture disperse si impiantarono in realtà economiche nelle quali il peso della rendita feudale o la mancanza di una vocazione imprenditoriale rendevano impossibile un'evoluzione in tal senso. In genere i fattori decisivi per il superamento di questo sistema furono l'ampliamento eccessivo delle sue dimensioni, che comportava a un certo punto costi di gestione tanto elevati da renderlo non più conveniente, e l'introduzione di macchine più complesse e costose che non erano alla portata dei contadini artigiani. Questi cambiamenti creavano le condizioni per lo spostamento della produzione in un luogo nel quale concentrare i macchinari (capitale fisso) e la manodopera salariata. I trasporti La crescita dell'economia determinò nell'età moderna un aumento degli scambi commerciali e soprattutto lo sviluppo di nuove direttrici di traffico. Rimase prevalente il trasporto su acqua, più veloce e più economico per la possibilità di sfruttare le correnti o il vento, rispetto al trasporto per terra che doveva utilizzare l'energia muscolare degli uomini o degli animali. Un contributo in tal senso venne anche dai miglioramenti della tecnica marinara e dai progressi della cartografia. Tradizionalmente la navigazione mediterranea non si allontanava dalla costa, ma a partire dal XV secolo i perfezionamenti della bussola, l'uso del quadrante e dell'astrolabio per localizzare la stella polare e stabilire l'altezza degli astri sull'orizzonte, i miglioramenti delle carte nautiche resero possibile l'applicazione della scienza matematica al problema di determinare la posizione geografica di una nave in un dato istante. Si crearono così le premesse per tentare finalmente la navigazione in mare aperto. Proprio questa capacità, consolidatasi nel XVI secolo, fece segnare una netta superiorità dell'Europa rispetto alle altre parti del mondo. Ulteriori importanti progressi furono compiuti nel calcolo della latitudine e soprattutto della longitudine nel XVII e nel XVIII secolo. Molte novità si ebbero anche nelle costruzioni navali. Rimase a lungo attiva fino al secolo XVII la galera, che rappresentava il prodotto migliore della marineria mediterranea e costituì il centro delle flotte genovesi, veneziane e ottomane. Fu impiegata soprattutto in guerra, armata dapprima con balestrieri e dotata poi anche di artiglierie. Potendo servirsi dei remi in combattimento, nelle manovre e in assenza di vento era maneggevole e veloce, ma era lenta sui lunghi percorsi e obbligata a rifornirsi spesso di acqua e viveri dato l'ingente numero di uomini imbarcati. I perfezionamenti nella tecnica marinara portarono invece i paesi atlantici a sviluppare soprattutto le navi a vela, che divennero le protagoniste assolute dei traffici commerciali e dei combattimenti navali. Il veliero dei mari del Nord era molto diverso dalla galea mediterranea: superiore di stazza, era tondeggiante e con una stiva capace, aveva i bordi molto alti, ed era dotato non più di due CAPITOLO 5 – LA SOCIETÀ DI ORDINI E LA GERARCHIA SOCIALE La società di antico regime rimase fondata fino alla Rivoluzione francese sulla tradizionale divisione, di ascendenza medievale, fra i tre ceti: quelli che pregano (il clero), quelli che combattono (la nobiltà) e quelli che lavorano. In realtà già a partire dal basso Medioevo la dinamica economico-sociale rese sempre più inattuale questo schema che però non fu mai messo in discussione: di conseguenza la posizione di ciascuno nella società era determinata innanzitutto dallo status, ovvero dalla particolare situazione giuridica che gli derivava dall'appartenenza a uno dei ceti o dei corpi che formavano la compagine sociale. Le minoranze ebraiche poterono restare nella società cristiana in una condizione di «perpetua servitù», essendo oggetto di discriminazioni e persecuzioni; a partire dal XVI secolo furono obbligate a vivere in una zona chiusa della città (il ghetto). Molto difficile fu anche in questo periodo la situazione dei poveri e dei marginali: lo sviluppo del pauperismo come fenomeno di massa modificò l'atteggiamento delle classi dirigenti verso la figura medievale del povero e indusse le autorità a promuovere una legislazione che organizzò l'assistenza agli indigenti, ma impose nel contempo pene severissime per la mendicità e il vagabondaggio, e in ultimo perseguì il progetto di una reclusione dei poveri in apposite istituzioni. Organizzazione sociale Nella società di antico regime il posto di ciascun individuo era stabilito fin dalla nascita in una gerarchia, considerata per sua natura perfetta in quanto riconducibile alla volontà divina. Il cambiamento era quindi di per sé giudicato negativamente, come una pericolosa rottura di un ordine immutabile. D'altra parte, ogni membro del corpo sociale non era un individuo isolato dagli altri suoi simili: ciascuno si inseriva nella comunità e partecipava alla sua vita in quanto parte del gruppo cui apparteneva e dal quale dipendeva il suo status, ovvero la sua condizione giuridica. Fino al 1789 la società fu fondata sulla tradizionale suddivisione in tre ordini distinti in base alla funzione svolta: - oratores (quelli che pregano), cioè il clero. - bellatores (coloro che combattono), ovvero la nobiltà. - laboratores, coloro che non sono né nobili né ecclesiastici e che lavorando producono i beni necessari alla sussistenza di tutti. Proprio sulla base della divisione fra questi tre ordini erano strutturate le assemblee che nei vari stati europei erano periodicamente convocate dal sovrano per chiedere consiglio e sostegno in momenti di difficoltà e in particolare per ottenere il consenso al pagamento delle imposte. La società di antico regime aveva quindi una base corporativa, si poneva cioè come un variegato universo di corpi, gruppi e comunità ciascuno con una diversa e ben definita configurazione giuridica: gli ordini cavallereschi, i corpi militari e i collegi professionali per i nobili, gli ordini ecclesiastici per i membri del clero, in città le contrade e le confraternite, le corporazioni di arti e mestieri per le varie categorie di attività, in campagna le comunità di villaggio. La Rivoluzione francese, sancendo l'uguaglianza giuridica, cancellò di colpo questo particolarismo, creando le premesse per una società di individui eguali. L'appartenenza a un ceto comportava anche, al di là degli aspetti giuridici, l'acquisizione di una mentalità, di un costume di vita, di valori e di comportamenti sociali condivisi. Essa però non implicava una conformità di condizione economico-sociale: ad esempio all'interno del clero vi era un dislivello enorme fra i detentori delle cariche più importanti (vescovi, priori o abati, in larga misura di estrazione nobile e titolari di grandi patrimoni) e il basso clero, di origini plebee e di condizione modesta. La distinzione fra gli individui non si fondava quindi sulla situazione economica, ad esempio la funzione svolta nell'attività produttiva o l'entità del patrimonio; ciò che contava era lo status, che era riconosciuto all'individuo in base alla nascita, al ruolo svolto nella società e alle prerogative (privilegi, obblighi, immunità) che egli condivideva con i gruppi dei quali faceva parte. In generale la divisione nei tre ordini rappresentava ormai uno schema vuoto di contenuto in quanto non corrispondeva più alla realtà dell'Europa occidentale, dove già nel basso Medioevo si era formata un' élite di mercanti, imprenditori, finanzieri, professionisti, proprietari terrieri non nobili, funzionari pubblici, che, per la ricchezza del patrimonio, per la formazione culturale e per lo stile di vita, si distingueva dalla massa dei laboratores, formando un gruppo intermedio fra i nobili e il popolo lavoratore. Si è soliti indicare questa élite con il nome di borghesia, ma si tratta di un termine anacronistico, che non corrisponde alle condizioni della società preindustriale e alla stessa mentalità di quei gruppi, fedeli in fondo alle tradizionali distinzioni di ceto. Naturalmente la dinamica economica provocò la nascita di contraddizioni e di conflitti legati alla produzione e alla circolazione dei prodotti, ma questa crescita economica avvenne all'interno dell'ordine sociale tradizionale, senza metterne apertamente in discussione le secolari caratteristiche fondate sulle distinzioni di ceto. Per parlare di classe sociale occorre che un gruppo abbia la consapevolezza della propria collocazione nell'attività produttiva e degli specifici interessi economici ad essa connessi; questa coscienza era assente in quegli uomini, che tendevano ad imitare i modelli di vita della nobiltà e miravano ad uscire dalla loro condizione di plebei seguendo le molte strade che consentivano di nobilitarsi. Il primo ordine: il clero Il primo ordine nei paesi cattolici era il clero, che comprendeva tutti gli ecclesiastici secolari e regolari. Molto diversa era invece la situazione degli stati che si separarono dalla Chiesa di Roma; infatti la Riforma protestante rifiutò il concetto stesso di un clero dotato di uno status distinto rispetto alla massa dei fedeli, e mise in discussione anche la Chiesa come organismo giuridico autonomo e dotato di una sua legislazione interna, ponendo in modo diverso il problema del rapporto fra l'autorità religiosa e quella civile. La Chiesa deteneva ovunque una quota importante della proprietà fondiaria. I beni ecclesiastici, chiamati "manomorta", erano inalienabili senza un permesso del papa, ed erano in via di principio esenti da imposte (immunità reale). La Chiesa riscuoteva inoltre annualmente la decima, in teoria la decima parte del raccolto, per il mantenimento del clero, degli edifici di culto e dei poveri. La ricchezza del corpo ecclesiastico era generalmente appannaggio dell'alto clero, in larga parte proveniente dai ranghi della nobiltà, a conferma del predominio sociale di questo ceto. Origini e caratteri della nobiltà Non è facile stabilire quando si affermò una vera e propria istituzione dell'ordine nobiliare, e definirne per altro il carattere giuridico, sociale e culturale in una Europa assai diversificata. Sicuramente molto importante fu nella tarda età carolingia l'emergere di una classe feudale votata al servizio militare, principale obbligo del vassallo per adempiere al legame personale di fedeltà stabilitosi con il proprio signore. Si consolidò in tal modo l'idea di una categoria di persone, i bellatores, che trovavano nella guerra la propria vocazione e la giustificazione della propria superiorità rispetto agli altri membri del corpo sociale. A questa aristocrazia di guerrieri si aggiunsero in seguito i titolari della signoria rurale, che esercitavano su quanti risiedevano nel territorio poteri che comportavano il mantenimento dell'ordine e l'amministrazione della giustizia. La continuità della ricchezza, del prestigio di questi gruppi determinò la nascita di dinastie familiari e portò di conseguenza alla progressiva identificazione di un ceto stabilmente insediato al vertice della gerarchia sociale. Necessaria è subito stata l'ereditarietà di questi caratteri, in modo da dare perpetuità allo statuto giuridico riconosciuto al ceto dominante; per questo si delinearono fin da subito precise norme di successione ereditaria per la trasmissione del nome, del patrimonio e del prestigio del casato. Si affermò così la tendenza delle famiglie nobili ad assumere il nome della residenza tramandata dagli avi, e in seguito a distinguersi anche attraverso l'adozione di uno stemma. Questo statuto nobiliare si delineò con sufficiente chiarezza solo a partire dal XIII secolo, quando ormai il modello del vassallaggio feudale era in una fase di declino. Un ruolo decisivo nella formazione del costume e della mentalità nobiliare ebbe la cultura cavalleresca, che impose i modelli della virtù, dell'onore e della difesa delle fede come tratti tipici del cavaliere cristiano. Su queste basi nacquero fra il XII e il XIII secolo i grandi ordini religioso-militari per la difesa dei luoghi santi in Palestina e la lotta contro gli infedeli: l'ordine dei Cavalieri teutonici, quelli spagnoli di Calatrava e di Santiago di Compostela, e l'ordine degli Ospitalieri di Gerusalemme, che furono chiamati prima di Rodi e poi, dopo la conquista di questa isola da parte dell'impero ottomano, di Malta (dove dal 1530 si stabilirono). La proprietà della terra era nell'antico regime la fonte principale della ricchezza, del prestigio sociale e del potere politico. Essa rappresentava dunque anche il fondamento del patrimonio delle famiglie nobili, la prima e più visibile espressione della loro superiorità. Infatti la nobiltà, a conferma del suo primato nella gerarchia sociale, possedeva, pur essendo una parte assai piccola della popolazione, un patrimonio fondiario vastissimo. All'interno del ceto aristocratico vi erano per altro posizioni talora anche molto differenziate (in Polonia esisteva una vasta plebe nobiliare che viveva di fatto al servizio dei membri delle casate più importanti, i cosiddetti magnati. Anche in Francia vi era una profonda differenza fra i nobili che avevano il privilegio di vivere a corte e i nobili di campagna, i cosiddetti hoberaux, che spesso avevano difficoltà a mantenere i loro castelli e palazzi. Così nella nobiltà spagnola, un abisso separava le grandi famiglie, insignite del titolo di Grandi di Spagna istituito da Carlo V, e gli hidalgos). Dalle proprietà fondiarie i nobili ricavavano, oltre il provento delle terre in conduzione diretta, cioè i prodotti dell'agricoltura e dell'allevamento che erano in parte commercializzati, i canoni in natura o in denaro per i fondi dati in affitto e i diritti signorili. Essi poi avevano altre importanti voci di entrata dalla partecipazione a società commerciali o industriali o dagli interessi dei capitali dati in prestito, e inoltre, se vivevano a corte, ricevevano pensioni o donativi dal sovrano. Era vietato ai nobili esercitare professioni ritenute vili, indegne del rango aristocratico. Al riguardo vigevano regole molto differenziate; si può dire comunque che era vietato al nobile praticare le arti meccaniche, svolgere lavori manuali e ricoprire uffici pubblici minori, attività che comportavano la perdita temporanea della nobiltà. In generale lo statuto della nobiltà escludeva anche l'impegno nel mondo degli affari e delle attività mercantili, mentre erano consentiti invece il commercio all'ingrosso e la gestione di vetrerie, miniere e fonderie, attività legate allo sfruttamento delle risorse della signoria. Assai diversa era invece, la condizione della nobiltà nell'Europa orientale: qui i nobili erano proprietari di manifatture i cui prodotti erano venduti sul mercato, ma in realtà queste imprese, fondate sul lavoro servile dei contadini, rientravano appieno nel dominio della signoria. Molto importante per il consolidamento dell'ordine nobiliare fu l'affermarsi di regole molto rigide volte a impedire la divisione e la dispersione del patrimonio familiare, ad esempio l'istituto del fedecommesso: colui che faceva testamento impegnava l'erede a trasmettere il patrimonio familiare, sottoposto a vincolo che lo rendeva unito e inalienabile, ai suoi successivi eredi; al fedecommesso si univa spesso l'istituto del maggiorascato o primogenitura, che restringeva la successione ad un solo figlio, di solito il primogenito. Quest'ultimo aveva l'obbligo di mantenere insegnamenti e delle prescrizioni rivelati da Dio attraverso Mosè e che costituisce la Torah scritta, la legge sacra dell' ebraismo. Non meno importanti sono tutta la serie di norme giuridiche, di indicazioni etiche, di comportamenti nei riti, nelle liturgie e nell'alimentazione che costituiscono parte essenziale dell'identità del popolo ebraico. Figura centrale delle comunità era quindi il rabbino, interprete della legge e custode del patrimonio storico e culturale dell'ebraismo. Nell'età medievale particolarmente importante fu la presenza degli ebrei nella penisola iberica, al cui sviluppo economico e culturale essi diedero un contributo assai rilevante. Chiamati sefarditi (da Sefarad, nome ebraico della Spagna), essi sotto la dominazione araba poterono vivere in condizioni accettabili, pur essendo soggetti a varie restrizioni e al pagamento della tassa prevista dal Corano per ebrei e cristiani, la "gente del Libro" (la Bibbia). In effetti l'Islam non aveva particolari motivi di contrasto con l'ebraismo e condivideva la pratica della circoncisione e molte regole alimentari (ad esempio le norme per la macellazione delle carni). La situazione degli ebrei peggiorava quando i territori in cui vivevano passavano sotto il controllo dei regni cristiani. A parte l'accusa di avere mandato a morte Gesù, pesava il fatto che entrambe le religioni si riferivano all'Antico testamento come libro ispirato da Dio, ma lo interpretavano in modo diverso. Nel 1205 papa Innocenzo III affermò che la presenza degli ebrei in terra cristiana poteva essere tollerata in quanto essi erano testimoni della verità della fede di Cristo, ma solo a patto che fossero tenuti in una condizione di servitù. Di qui l'ossessiva attesa di una loro conversione, che avrebbe dovuto sanare la frattura aperta da una minoranza ostinata nel rifiuto del battesimo. Il clima di esaltazione che caratterizzò la prima crociata del 1096 fu occasione di violenze ed uccisioni nei confronti degli ebrei che vivevano in Germania. Nel 1215 il IV concilio lateranense impose l'obbligo di portare un segno distintivo, variabile per colore e forma nei vari paesi. Seguirono il grande rogo pubblico dei libri del Talmud a Parigi nel giugno del 1242, nel 1290 l'espulsione dall'Inghilterra e nel XIV secolo dalla Francia. In questo periodo cominciarono anche a circolare alcune leggende che avrebbero alimentato a lungo l'antisemitismo di ampi strati della società europea: in particolare si accusarono gli ebrei di uccidere a Pasqua a scopo rituale bambini cristiani per utilizzarne il sangue nella preparazione del pane azzimo e inoltre di rubare le ostie consacrate per trafiggerle con un coltello onde uccidere una seconda volta il corpo di Cristo. Nel basso Medioevo si determinò anche una progressiva evoluzione dell'identità delle comunità ebraiche dal punto di vista economico-sociale. In precedenza gli ebrei si erano inseriti nel tessuto economico delle società cristiane praticando l'agricoltura, l'allevamento del bestiame, l'artigianato, il commercio ed anche molte professioni. Con il peggioramento del loro status giuridico non poterono più esercitare molte di queste attività e non poterono acquistare beni immobili; infine, fu vietato loro sposare donne cristiane o di avere dei cristiani alle loro dipendenze. Dopo il concilio lateranense del 1179 (che vietò ai cristiani il prestito a interesse ad altri cristiani), gli ebrei si specializzarono nell'attività di cambiavalute e nel prestito su pegno e si dedicarono prevalentemente al commercio, caratteristiche che sarebbero state in seguito una delle radici economico-sociali dell'antisemitismo. Proprio la predicazione antiebraica dei francescani portò alla istituzione dei Monti di pietà (il primo nacque in Italia nel 1462) che avrebbero dovuto togliere agli ebrei il monopolio del prestito su pegno. All'alba dell'età moderna l'espulsione dalla Spagna nel 1492 e poi nel 1497 dal Portogallo segnò una svolta decisiva nella storia delle minoranze ebraiche in quanto colpi la comunità europea più antica, numerosa e radicata. Già alla fine del XIV secolo si era avuto in Spagna un massacro degli ebrei accompagnato da migliaia di conversioni forzate; tuttavia anche l'accettazione del battesimo non poneva fine alle discriminazioni e ai sospetti: proprio dalla necessità di verificare che gli ebrei fossero sinceramente convertiti nacque nel 1478 l'Inquisizione spagnola. Agli ebrei furono concesse nel 1492 poche settimane per abbandonare le proprie case e lasciare la Spagna. Coloro che scelsero di partire pur di non convertirsi si diressero per lo più nei Paesi bassi, nei paesi balcanici e verso l'impero ottomano, soprattutto a Istanbul e Salonicco. Negli stessi anni le espulsioni da quasi tutte le città tedesche determinarono un esodo verso l'Europa orientale, in particolare la Polonia. Nell'età moderna la presenza ebraica in Europa non superò mai il tetto dell'1% della popolazione. Nell'impero ottomano gli ebrei, pagando la tassa prevista dal Corano, poterono esercitare diverse professioni ed attività economiche, ma in Europa essi andarono incontro ad un generale aggravamento della loro condizione. Nella crisi religiosa del Cinquecento prevalse una considerazione negativa della presenza ebraica. Lutero, andate deluse le speranze in una loro conversione, pubblicò nel 1543 un violento libello nel quale incitò ad incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei e a limitarne la libertà di movimento; queste posizioni furono sostanzialmente condivise dalla Chiesa di Roma. Gli ebrei furono scacciati da tutti i territori italiani soggetti alla Spagna mentre rimasero nei ducati di Ferrara e di Mantova, nello stato della Chiesa, nel granducato di Toscana e nella repubblica di Venezia. E proprio a Venezia si istituzionalizzò una forma di segregazione che avrebbe caratterizzato tutta la vita dell' ebraismo nell'Europa moderna: il ghetto. In effetti già in precedenza gli ebrei si erano stabiliti preferibilmente in alcuni quartieri delle città, dove potevano avere a disposizione le strutture necessarie ai loro riti ed erano stati soggetti a limitazioni della libertà di spostarsi. Nella primavera del 1516 la repubblica di Venezia impose agli ebrei l'obbligo di risiedere in un'area separata, che fu chiamata "ghetto" perché li era situata in precedenza una fonderia (detta "getto" dal latino iactus, "fusione"). Il nome si diffuse poi progressivamente in tutta Europa ad indicare le zone destinate alla segregazione degli ebrei. La segregazione era in realtà un compromesso per consentire la residenza dei prestatori ebrei, in precedenza non ammessi in città. Nel 1555 il papa Paolo IV Carafa dichiarò in una bolla che gli ebrei dovevano vivere in quartieri distinti, dai quali non potevano uscire di notte e nelle festività cristiane: in tal modo la segregazione divenne un principio di carattere generale. Alla linea fissata da Roma si adeguarono molti stati italiani (ad eccezione di Livorno, l'unica città italiana nella quale non si stabili un ghetto, in virtù della politica di sviluppo dell'attività portuale e commerciale perseguita dai granduchi, che consenti la formazione in città della più cospicua comunità ebraica della penisola). L'istituzione del ghetto, circondato da mura i cui portoni erano chiusi al tramonto e sorvegliati da guardie, obbligò le comunità ebraiche a vivere in spazi molto ristretti e gravemente carenti dal punto di vista igienico- sanitario a causa del sovraffollamento. La popolazione del ghetto, che presentava un livello di istruzione e di alfabetizzazione mediamente superiore a quello dei cristiani, trovava un motivo di speranza nella comune attesa del Messia, che l'avrebbe alfine riscattata dalla sua difficile condizione. Si può dire quindi che quanto maggiori erano l'isolamento e l'ostilità del mondo esterno tanto più forte era la coesione interna a difesa della propria identità. Mentre gli ebrei rimasti in Germania, Olanda e Italia, vivevano in città, le comunità polacche si stabilirono per lo più nei villaggi, dove esercitavano il commercio e l'artigianato, e si distinguevano per l'uso dello yiddish ("giudeo"), lingua nata dalla fusione del tedesco con termini ebraici e slavi. Molti presero in affitto dai magnati polacchi l'amministrazione e la gestione delle loro tenute. Per questo motivo, quando nel 1648 i cosacchi del Don diedero vita ad una rivolta contro la Polonia, i contadini ucraini, di fede ortodossa, individuarono negli ebrei, per la loro attività di intermediazione, i principali artefici dell'oppressione esercitata su di loro dalla nobiltà polacca, cattolica; ne derivò uno spaventoso massacro nel quale gli ebrei uccisi furono non meno di 50.000. Non mancarono per altro ebrei che raggiunsero condizioni di grande prosperità e prestigio, in particolare attraverso il finanziamento degli stati coinvolti nelle guerre e la gestione delle forniture militari. Nel Settecento il clima culturale e politico progressivamente si modificò grazie all'influenza del pensiero illuministico. Intanto si fece strada nell' ebraismo una corrente di pensiero chiamata Haskalah (dall'ebraico seke, "intelletto") che mirava a conciliare la tradizione con il mondo moderno. Ne fu interprete in particolare il filosofo tedesco Mendelsshon, che invitò gli ebrei ad integrarsi nella società tedesca, pur mantenendo la propria fede e le proprie radici; egli perciò rifiutò l'yiddish e tradusse in tedesco il Pentateuco. Non tutti i pensatori illuministi però guardarono con favore alla emancipazione degli ebrei. Fu favorevole ad essa Montesquieu, mentre Voltaire e Diderot considerarono negativamente l'attaccamento degli ebrei alle loro superstizioni e ai loro riti, ritenendoli incapaci di inserirsi nella società moderna; emergeva qui un antisemitismo nuovo, non più legato a motivazioni religiose, che colpiva l'ostinata volontà degli ebrei di preservare la propria identità e la propria separatezza. Agli inizi degli anni Ottanta, l'imperatore d'Austria Giuseppe Il con diversi editti per le varie province dell'impero adottò i primi provvedimenti favorevoli agli ebrei, concedendo loro alcuni diritti civili. Si trattava però di misure parziali e limitate; fu la rivoluzione francese a decretare la completa emancipazione proclamando gli ebrei, sulla base dei principi del 1789, cittadini francesi a pieno titolo. Napoleone mantenne nella sostanza il principio affermato dalla rivoluzione, che fece sentire i suoi effetti in tutti i territori che furono occupati dalle armate francesi. Il clima cambiò nuovamente nell'età della Restaurazione: in molti stati furono messe in discussione le conquiste dell'età rivoluzionaria e in qualche caso, ad esempio nello stato della Chiesa, vi fu anche una violenta ripresa di misure discriminatorie. A Roma fu ripristinato il ghetto, che sarebbe stato poi definitivamente chiuso solo dopo l'annessione al regno d'Italia. L'emancipazione che si affermò nel corso del XIX secolo apri nella storia dell'ebraismo una fase completamente nuova, che ripropose in termini diversi il problema della loro presenza nella società. Gli ebrei erano liberi ormai di spostarsi e di scegliere la loro residenza, potevano acquistare case e terreni, e avere accesso alle professioni e a tutte le attività economiche, ma questa integrazione nella società inevitabilmente allentava il vincolo che per secoli aveva tenuto unite le comunità. Con l'istituzione del matrimonio civile si apriva ad esempio la possibilità di matrimoni misti, i quali però erano vietati dalla legge ebraica. La prospettiva dell'integrazione, con il conseguente rischio dell'assimilazione, inquietava le coscienze di molti. Paradossalmente il ghetto, simbolo dell'umiliazione imposta agli ebrei dalla società cristiana, aveva avuto anche la funzione di proteggere dal mondo esterno il loro patrimonio religioso e culturale che ora rischiava di andare disperso. Di qui il senso di straniamento di molti gruppi e individui quando si trovarono di colpo in una condizione radicalmente mutata, in cui l'avvalersi delle nuove opportunità di integrazione nella società voleva dire nel contempo staccarsi dal mondo che i padri avevano gelosamente e fra tante sofferenze preservato. Nacque così, alla fine del XIX secolo, di fronte al rinnovarsi di persecuzioni e discriminazioni, il movimento sionista, animato appunto dall'idea di un ritorno nella terra degli avi, dove l'antica fede e i secolari valori culturali e religiosi dell' ebraismo avrebbe potuto liberarsi dai condizionamenti e dalle tentazioni del mondo esterno. Poveri, marginali e vagabondi Nel periodo di passaggio dall' età medievale all'età moderna mutarono le caratteristiche del pauperismo, e mutò anche l'atteggiamento della società di fronte a questo fenomeno. La società medievale, fondata sui valori della morale cristiana, tendeva a considerare la povertà come CAPITOLO 6 – LE FORME E LE STRUTTURE DEL POTERE L'età moderna fu caratterizzata da un processo di rafforzamento degli apparati amministrativi e di centralizzazione della direzione politica. Si fecero allora i primi passi verso un'imposizione fiscale stabile, necessaria per far fronte alle spese imposte dai progressi nella tecnica militare, furono limitati poteri e prerogative dell'aristocrazia feudale e della Chiesa, si stabilirono anche relazioni diplomatiche permanenti fra gli stati. Affrancandosi in larga misura dal controllo delle assemblee cetuali, alcune monarchie anticiparono molti aspetti dello Stato moderno, che si sarebbe affermato dopo la Rivoluzione francese. Tuttavia, lo Stato di antico regime, se fece segnare per molti aspetti un salto di qualità rispetto agli assetti politici dell'età medievale, non riuscì però ad imporre una sovranità piena ed assoluta e fu sempre condizionato dai particolarismi e dal corporativismo di una società a base cetuale. Il quadro politico dell'età moderna fu quindi caratterizzato dalla costante tensione fra i progetti di accentramento del potere e le spinte autonomistiche e particolaristiche dei vari corpi che difendevano le loro tradizionali prerogative. Lo Stato moderno Lo Stato moderno può essere considerato, per le sue peculiari caratteristiche, una forma storicamente definita nel tempo e nello spazio, che si è affermata nell'Europa occidentale agli inizi del XIX secolo ed è stata poi adottata, in tempi e modi diversi, da tutti i popoli civilizzati. Rispetto alle varie tipologie di organizzazione della vita collettiva e dell'esercizio del potere che si sono realizzate nelle varie epoche storiche, esso si caratterizza come un organismo politico dotato di piena sovranità sul territorio e sugli individui sottoposti alla sua autorità, in quanto dispone del monopolio legittimo della forza, sia all'interno per garantire l'ordine, sia all'esterno nei confronti degli altri stati. In tal senso lo Stato moderno è Stato di diritto, che regola la vita della società attraverso un ordinamento giuridico uniforme, fondato su norme astratte, generali e impersonali, e assume la forma di un ente, che persegue i suoi scopi secondo la legge in modo neutrale e imparziale, come una persona giuridica distinta rispetto agli individui che ne esercitano di volta in volta le funzioni. Esso ha assunto anche a partire dal XIX secolo il carattere di Stato nazionale, in quanto organizzazione politica di una popolazione che ha maturato una coscienza della propria identità sulla base di comuni caratteri etnici, linguistici o storico-culturali (un tipo di Stato sorto storicamente dalla rivoluzione francese, la quale stabili l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, imponendo così l'idea della legge generale e astratta, e diede l'impulso decisivo alla nascita della moderna idea di nazione che ha dominato il panorama politico dell'età contemporanea). Naturalmente il fatto che lo Stato abbia assunto il compito di eseguire la volontà, reale o presunta, di una comunità nazionale ha avuto conseguenze negative, che hanno caratterizzato le drammatiche vicende del XX secolo e che sembrano riemergere da un passato che si sperava fosse sepolto: pensiamo ad esempio alla situazione di minoranze interne non omogenee alla comunità nazionale o ai ricorrenti tentativi di estendere ad ogni costo, anche con l'uso della forza, i confini di uno Stato al fine di inglobare in esso altri territori abitati da popolazioni ritenute parte integrante della nazione. Lo Stato nazionale resta il principale protagonista della scena politica internazionale, ma sta vivendo una fase di profonda crisi, tanto che da più parti si è parlato di un suo irreversibile tramonto. In particolare, colpisce la perdita di significato del concetto di sovranità in una società globale nella quale, ad esempio, lo Stato non è più in grado di controllare i centri della grande finanza internazionale, i cui capitali si muovono ormai senza conoscere confini. Del resto, lo Stato appare inerme di fronte alla minaccia del terrorismo o agli effetti di una guerra nucleare o ai pericoli dell'inquinamento ambientale, fenomeni che nessun governo è in grado di contrastare da solo. Per molti versi insomma lo Stato nazionale non è più avvertito come il fulcro della storia politica, e anche nella storiografia si sono fatti strada orientamenti che non pongono più al centro delle loro ricerche questa forma di organizzazione politica. Lo Stato di antico regime Alcune correnti storiografiche, nel considerare le vicende politiche dell'Europa fra il XV e il XVIII secolo, hanno individuato in alcune monarchie assolute un'anticipazione di molti aspetti dello Stato moderno. A queste interpretazioni si sono contrapposti colore che ritengono anacronistico utilizzare la categoria dello Stato moderno per analizzare le istituzioni delle società di antico regime, che ebbero in realtà numerosi elementi comuni agli assetti politici dell'età medievale. Si pone quindi in via preliminare il problema di definire in modo sufficientemente preciso la natura e i caratteri delle dinamiche politiche che si affermarono nel corso dell'età moderna. Non c'è dubbio che verso la metà del XV secolo si fece strada in molti stati dell'Europa occidentale un processo di rafforzamento del governo centrale volto a limitare le prerogative della nobiltà feudale, della Chiesa e delle autorità periferiche e a formare un apparato amministrativo e finanziario più solido ed efficiente. Non a caso la stessa parola "Stato", utilizzata in precedenza nel senso etimologico di "condizione, modo di essere", cominciò proprio allora ad affermarsi nel significato attuale, come dimostra il celebre esordio del trattato De principatibus di Machiavelli composto nel 1513. In precedenza, si parlava di monarchia, regnum, civitas, oppure si utilizzava in generale il termine res publica (cosa pubblica). Particolarmente importante fu, fra il XVI e il XVII secolo, la definizione del concetto di sovranità, nel quale si riflettono le contemporanee trasformazioni della struttura statale. Nel Medioevo il potere sovrano (dal latino superaneus, "che sta sopra") non aveva il carattere di assolutezza che avrebbe acquisito nel corso dell'età moderna. Lo si definiva come summa potestas o summum imperium, proprio per indicare che esso non era esclusivo ma si poneva al di sopra di una molteplicità di poteri ai quali era affidata nei vari ambiti territoriali l'amministrazione della giustizia, il mantenimento dell'ordine, la coniazione di monete, la riscossione di imposte, la chiamata alle armi. L'autorità del sovrano non si esercitava quindi con un comando diretto ma doveva affermarsi attraverso un complesso sistema di mediazioni con i poteri subordinati. Al superamento di questa visione contribuì la rinascita nell' XI secolo del diritto romano, che impose alla cultura del tempo il concetto di imperium, inteso come potere al quale è connaturato il comando, espressione di una assoluta supremazia. I termini essenziali del moderno concetto di sovranità si trovano già nell' opera di Bodin, il quale indicò come principale caratteristica della sovranità il potere di dare leggi ai sudditi senza il loro consenso, potere che ne riassume in sé tutti gli attributi fondamentali. A questo riguardo Bodin distinse la consuetudine, che si impone col tempo e per consenso comune, dalla legge, che esprime la volontà di colui che ha l'imperium, cioè il potere di comando. La legge prevale sulle altre fonti del diritto, ad esempio il diritto consuetudinario o il diritto romano, proprio in quanto espressione della volontà del sovrano. Su queste basi Bodin, riprendendo una formula del diritto romano, poteva affermare che il sovrano è sciolto dalle leggi, ovvero al di sopra di tutte le leggi delle quali è lui stesso l'artefice. Naturalmente bisogna sempre distinguere fra i principi elaborati dalla teoria politica e la specifica, multiforme realtà degli assetti istituzionali. In realtà, al di là delle rappresentazioni elaborate dalla dottrina politica, la monarchia nell'età moderna fu ben lontana dall'assolutismo descritto dai suoi teorici. Lo stesso Bodin non pensava che il potere del monarca fosse illimitato. Le sue decisioni dovevano essere giuste, rispettose cioè dei precetti del diritto naturale e della legge divina e inoltre non potevano «derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale in quanto [...] connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite»; fra queste, ad esempio, la legge salica, introdotta nel 1328 sulla base di un'interpretazione forzata dell'antica legge dei Franchi Sali, che escludeva dalla successione al trono le donne e i discendenti in linea femminile, o la norma che stabiliva al compimento del tredicesimo anno la maggiore età dei sovrani. Certo in questo periodo si cominciò a considerare la "corona" come ente distinto rispetto alla figura del re, primo passo verso l'elaborazione del concetto di Stato come persona giuridica; tuttavia rimase ben viva la tradizionale concezione patrimoniale dello Stato, per cui l'autorità del sovrano si fondava sulla nozione privatistica di dominium, inteso come possesso di un certo territorio da parte di una dinastia. Quando, dopo la pace di Crépy con la Francia del 1544, si prospettò all'imperatore Carlo V l'ipotesi di una cessione dei Paesi bassi i suoi consiglieri lo dissuasero proprio in considerazione del fatto che quei territori costituivano parte essenziale dell'antico patrimonio della famiglia. Di conseguenza i confini fra gli stati si presentavano sovente in modo tutt'altro che chiaro e definito: un territorio apparteneva a un sovrano per diritto dinastico; a questa linea si sovrapponevano poi, molto spesso senza coincidere con essa, i limiti delle circoscrizioni ecclesiastiche, e quelli di molteplici interessi privati e pubblici, di pedaggi, di balzelli, di concessioni e di privilegi. Tipico in tal senso il vero intrico di posizioni giuridiche che segnava la frontiera fra la monarchia francese e l'impero: basterà ricordare che per alcuni territori di cui era titolare l'imperatore era vassallo del re di Francia il quale a sua volta esercitava la sovranità su territori compresi nei confini dell'impero. Solo dopo la Rivoluzione francese il confine assunse il significato di limite della sovranità e per questo presentò una tipica forma lineare, con la funzione di separare due comunità nazionali ben identificate. Appare chiaro allora che non è esatto definire, come talora accade, la Francia e l'Inghilterra come monarchie "nazionali" proprio perché non si era ancora affermata la moderna idea di nazione, intesa come coscienza di una comunità di costituire una individualità storicamente determinata. Entro questi limiti vanno intesi anche i riferimenti al patriottismo. Nonostante in alcuni momenti dell'età moderna vi siano manifestazioni di amor di patria da parte delle popolazioni, questo sentimento era animato dall'attaccamento alla dinastia regnante o dalla volontà di difendere il territorio o ancora dall'odio nei confronti dello straniero. L'azione degli stati che raggiunsero precocemente un' unità territoriale fu comunque un importante fattore di coesione e favori il secolare processo di maturazione della coscienza nazionale, che giunse a compimento solo nella temperie imposta in Europa dalla Rivoluzione francese. In definitiva, se si osserva il panorama politico dell'Europa agli albori dell'età moderna, si colgono con chiarezza alcune trasformazioni, se non nell'immagine del potere, nelle sue strutture e nei modi del suo esercizio, per cui si può ritenere ancora valida, rispetto ai problemi politico-istituzionali, la periodizzazione tradizionale. Tuttavia per l'età prerivoluzionaria occorre utilizzare con molta prudenza i riferimenti allo Stato moderno, ed è opportuno parlare di stati di antico regime come forme intermedie fra la realtà politica medievale e lo Stato ottocentesco. Non a caso, solo nel XIX secolo il concetto di Stato si impose come punto di riferimento centrale della riflessione politica. Decisiva in tal senso fu l'elaborazione della nozione di società civile come entità autonoma, distinta rispetto al piano propriamente politico. Nel pensiero settecentesco l'espressione "società civile" era utilizzata in genere come sinonimo di società politica. Fu Hegel che nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) elaborò con chiarezza questo concetto: egli defini la società civile come la sfera dell'economia, nella quale ciascuno persegue il proprio particolare vantaggio o interesse. Distinta da questo mondo, nel quale domina la concorrenza, è invece la sfera statale che Hegel pose al culmine della storia, come l'espressione più alta della razionalità e come la piena realizzazione della libertà. Naturalmente in questo mondo si annodavano anche intrighi e sotterranee lotte di fazione per orientare in un senso o nell'altro le decisioni del sovrano. Ma la corte era il centro simbolico del potere, non il luogo nel quale esso concretamente si esercitava. Non a caso in origine sia la cancelleria, il grande ufficio nel quale si redigevano gli atti ufficiali e si teneva la corrispondenza, sia i supremi tribunali che amministravano la giustizia nacquero per distacco dalla corte fra il XI e il XIV secolo. Gli organi di governo Il processo di unificazione del potere nella persona del sovrano si realizzò innanzitutto riservando gli affari politici più importanti, e in particolare la direzione della politica estera, a organismi collegiali ristretti come il consiglio privato (privy council) in Inghilterra, l'alto consiglio (conseil d'en haut) in Francia, il consiglio di Stato (consejo d'estado) in Spagna o il consiglio segreto (Geheimer Rat) in molti stati tedeschi. Spesso all'interno di questi organismi si formò un più ristretto consiglio di gabinetto, che si riuniva in modo del tutto informale; in esso il re prendeva con poche persone di sua fiducia le decisioni più importanti. La composizione di questi organi tendeva in generale a escludere dagli affari di Stato gli esponenti delle grandi casate aristocratiche, che, essendo depositari di importanti ambizioni e interessi familiari, miravano a mantenere o ad acquisire spazi di influenza politica a corte e negli organi di governo. In modi diversi le monarchie che perseguirono un modello assolutistico, pur garantendo il primato sociale della nobiltà, le riservarono cariche puramente onorifiche, chiamando a far parte di questi consigli uomini nuovi, fedeli consiglieri ed esecutori delle decisioni politiche. Nell'età moderna un posto centrale nella vita politica ebbero i segretari di Stato, le cui segreterie erano il vertice di una macchina burocratica che ovunque tese a diventare sempre più complessa. In Inghilterra e in Francia dall'evoluzione di queste funzioni, parallelamente alla diminuzione dell'importanza del cancelliere guardasigilli, emerse progressivamente la figura dei moderni ministri. Tuttavia l'indirizzo politico fu spesso riservato a un uomo la cui autorità si fondava esclusivamente sul favore e sulla fiducia del re. In Spagna il conte duca di Olivares, potente favorito di Filippo III fra il 1615 e il 1643, ebbe solo un incarico a corte che gli dava la possibilità di avere accesso al re in ogni momento. Decisivo ovviamente per il concreto esercizio dell'autorità era il controllo del territorio, sul quale agivano poteri locali depositari di autonomie e privilegi spesso garantiti da statuti e capitolazioni di lontanissima data. Le monarchie per imporre la loro volontà sulle periferie si servirono di commissari nominati e dipendenti dal governo centrale. Tuttavia la struttura burocratica creata dalle monarchie per rendere più efficace l'influenza del centro sulle periferie non annullò la realtà preesistente ma si sovrappose a essa; al riguardo è caratteristico in Francia l'esempio dei governatorati, cariche provinciali di natura militare che erano prerogativa dell'alta nobiltà. Nei momenti di debolezza del potere monarchico, ad esempio durante le guerre di religione della seconda metà del Cinquecento, i governatori furono un elemento importante della lotta politica fra le varie fazioni, ma quando la monarchia usci dalla crisi mise ben presto ai margini queste articolazioni territoriali. Tuttavia i governatorati, anche se privi ormai di ogni effettivo potere, continuarono a sussistere. L'antico regime era il regno del molteplice anche perché nulla scompariva mai davvero per sempre. La burocrazia: la venalità delle cariche La tradizionale concezione patrimoniale del potere condizionò il processo di formazione di un apparato amministrativo efficiente e funzionale, dando vita ad esempio alla pratica della venalità delle cariche, che fu presente in larga parte degli stati europei e divenne in Francia un sistema generale nell'attribuzione degli uffici giudiziari e finanziari. Le origini del fenomeno risalgono al tempo in cui il demanio reale non era che una signoria analoga a quella dei feudatari, e l'ufficio non rappresentava che la gestione di una parte del demanio affidata dal re a qualcuno dei suoi servitori. Il rafforzamento del potere del re e la conseguente necessità di un esercizio più efficace della sua autorità determinarono una trasformazione dell'ufficio, che divenne una delega di una funzione pubblica. Poiché fin dall'inizio si era stabilita la prassi di un commercio degli uffici, questi cominciarono ben presto a essere considerati dai loro titolari come un bene patrimoniale, che poteva essere venduto o trasmesso in eredità. Si determinò così un braccio di ferro fra gli ufficiali e il re, il quale non intendeva perdere la disponibilità dell'ufficio e soprattutto voleva continuare a ricavarne denaro. Per tutto il XVI secolo si levarono voci di condanna di una pratica che, soprattutto per le cariche giudiziarie, sembrava realizzare una vera e propria simonia, cioè un traffico di una cosa sacra come la giustizia. Ma le denunce non sortirono effetto: un provvedimento del 1604 stabili e regolò definitivamente l'ereditarietà degli uffici in Francia. In realtà agi fin dall'inizio la tendenza ad assimilare l'ufficio al beneficio ecclesiastico e al feudo. Come il beneficio, l'ufficio comportava il conferimento di una funzione, con la dignità a essa legata, e l'attribuzione di un reddito. Ma soprattutto operò il permanere della mentalità feudale: essendo una delega di un'autorità pubblica da parte del sovrano, l'ufficio fu già dai contemporanei accostato al feudo e quindi apparve normale che ne seguisse in qualche modo le sorti. Se è chiaro che la monarchia fu spinta alla vendita degli uffici da esigenze di ordine finanziario, coloro che spendevano ingenti somme per acquistarli, uomini che si erano arricchiti con il commercio o con le attività finanziarie, miravano soprattutto a lasciare la condizione di plebei e a entrare nell'ordine privilegiato: infatti negli alti gradi le cariche finanziarie e giudiziarie conferivano la possibilità di nobilitarsi. Si insediò così alla testa dell'amministrazione una casta di ufficiali inamovibili perché proprietari della loro carica, che nel loro insieme formarono, come si è detto nel capitolo precedente, una nobiltà di toga o di roba. La venalità delle cariche fu un elemento importante di mobilità sociale che apri al vertice del Terzo Stato le porte del mondo del privilegio aristocratico. La giustizia Nell'età moderna l'attività legislativa non ebbe mai il carattere continuativo e sistematico che ha nelle società attuali. Il re emetteva ordinanze, editti, decreti e lettere patenti (cioè aperte, destinate ad uffici o funzionari), spesso su argomenti specifici, ma per lo più non poteva stabilire norme dotate di validità generale perché trovava un limite nella pluralità di ordinamenti giuridici particolari, garantiti dalla consuetudine e sanciti talora formalmente da statuti, che regolavano tradizionalmente la vita della società di antico regime. Il diritto era perciò un insieme di norme provenienti dall'accumulo secolare di fonti diverse: le leggi romane raccolte da Giustiniano, il diritto consuetudinario che vigeva in alcune zone del territorio, nei paesi cattolici il diritto canonico che regolava la vita dell'istituzione ecclesiastica, statuti cittadini, ordinanze e provvedimenti emessi in tempi diversi da varie autorità; in questa situazione il giudice di volta in volta doveva creare, anche sulla base delle contraddittorie interpretazioni fornite dalla giurisprudenza precedente, la norma da applicare nel caso specifico. In Inghilterra la legislazione regia aveva poi un limite oggettivo in quanto la giustizia veniva amministrata dai giudici in base alla legge comune (common law), fondata sulle consuetudini giuridiche ovvero sulla precedente giurisprudenza delle corti e sulla dottrina. La pluralità di ordinamenti giuridici determinava l'esistenza di una pluralità di giurisdizioni che limitavano le prerogative del potere sovrano. La giustizia di prima istanza era esercitata in molti casi da autorità e poteri periferici di fatto autonomi rispetto al potere centrale. Si è detto della giustizia signorile, che rimase in vigore per le cause di minore importanza lungo tutto il corso dell'antico regime. Ma funzioni giurisdizionali erano esercitate anche da magistrature cittadine e da associazioni e corporazioni particolari; infatti non vi era ancora una chiara distinzione fra amministrazione e giurisdizione, per cui il più delle volte l'amministratore era anche giudice nelle materie di sua competenza. La giustizia regia incontrava poi un limite nella giustizia ecclesiastica, che aveva una competenza esclusiva nelle cause concernenti i componenti del clero (foro riservato) e inoltre rivendicava la propria autorità in materia di eresia e per una serie di delitti attinenti alla sfera religiosa, come la bestemmia o l'adulterio. Certo il potere di questi tribunali particolari fu notevolmente limitato nel corso dell'età moderna: si stabili che tutte le sentenze dovevano essere pronunciate in nome del re e per i processi più importanti furono previsti l'appello o l'avocazione davanti ai tribunali regi. Anche per questo aspetto insomma l'autorità regia si sovrapponeva alle giurisdizioni inferiori, che poteva regolare e controllare, ma non sopprimere. I rapporti con la Chiesa La sacralità del potere monarchico, legata alla sua origine divina, si rifletteva sui rapporti con l'autorità ecclesiastica, e in particolare nella volontà di accreditarsi come protettore della Chiesa e come baluardo della fede. In questo spirito si coglie il significato dei titoli di "re cattolici conferito ai sovrani spagnoli dopo la presa del regno musulmano di Granada; quanto al re d'Inghilterra Enrico VIII, egli fu nominato dal papa Leone X difensore della fede per avere scritto contro Lutero, ma il titolo gli venne revocato dopo lo scisma da Roma da lui promosso nel 1534. Egli però volle che il parlamento nel 1544 restituisse a lui e ai suoi eredi il titolo, tradotto in Defender of the Faith, che ancora oggi i sovrani inglesi mantengono. Il problema dei rapporti fra il potere politico e l'istituzione ecclesiastica si pose in termini profondamente diversi nei territori che aderirono alla Riforma protestante. Per quanto riguarda i paesi cattolici, rimase il tradizionale dualismo dei due poteri separati, la Chiesa e lo Stato, le cui relazioni costituivano un aspetto centrale degli equilibri politico-istituzionali e sociali. Lo Stato tendeva ad affermare, contro le pretese dei curialisti, le prerogative spettanti al sovrano in materia di religione, rivendicando non solo il compito di proteggere l'istituzione ecclesiastica, ma anche il diritto di controllarla (jus inspectionis) e di intervenire, quando necessario, per riformarne gli abusi (jus reformandi). In ogni caso gli stati erano ben attenti a evitare che gli atti del papa avessero immediata validità all'interno del loro territorio, e ne condizionavano la esecutività al placet del potere politico. In generale l'esigenza di limitare e controllare il potere della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali, giuridici ed economici, fu una componente imprescindibile del processo di rafforzamento del potere monarchico e della struttura statale. Nodi decisivi in tal senso erano il diritto di nomina delle principali cariche ecclesiastiche e la possibilità di ricavare dalle proprietà della Chiesa (non soggette a tassazione) un contributo alle finanze statali. Le finanze Il problema finanziario rappresentò il nodo centrale dei tentativi di dare maggiore solidità e coerenza alla struttura dello Stato. Tradizionalmente le imposte erano concepite come contributi straordinari, legati cioè a una situazione contingente. Le esigenze militari e della politica estera, il mantenimento dell'apparato burocratico, la polizia, intesa allora in generale come gestione degli affari interni, e l'amministrazione della giustizia richiesero agli stati crescenti risorse che non era più possibile ricavare dal patrimonio familiare della dinastia regnante o dagli occasionali donativi contrattati con i ceti e le comunità. Occorreva stabilire un prelievo fiscale sistematico e assoldarle. Non mancarono per altro tentativi di imitare l'esempio dell'ordine svizzero. Già sul finire del Quattrocento l'imperatore Massimiliano d'Asburgo mise in campo truppe provenienti in gran parte dalla Germania meridionale, addestrate e organizzate in modo analogo, i lanzichenecchi (propriamente "compagni"). Poco dopo, nel 1496, fu la Spagna a organizzare i tercios che introdussero progressivamente, rispetto al modello svizzero, importanti innovazioni, che avrebbero consentito a queste formazioni di fanteria di dominare sui campi di battaglia fino alla metà del XVII secolo. Il valore dei tercios era dovuto anche alla loro composizione sociale: ne facevano parte infatti molti esponenti della piccola nobiltà castigliana di modesta condizione, gli hidalgos, che accettarono di combattere a piedi e non a cavallo ed erano animati dalla fedeltà alla dinastia e da un forte spirito di corpo. In effetti il predominio delle fanterie svizzere durò solo fino ai primi anni del XVI secolo, in quanto la crescente importanza delle armi da fuoco determinò ben presto la necessità di un'ulteriore evoluzione della tecnica militare. Per contrastare i quadrati di picchieri era necessario fermare la loro avanzata prima che essi arrivassero a usare la loro forza d'urto; a tal fine risultarono decisivi i progressi tecnici che conferirono maggiore efficienza alle artiglierie e alle armi da fuoco portatili. Il declino irreversibile della potenza militare della Confederazione elvetica ebbe inizio nel 1515 dalla battaglia di Melegnano, dove gli svizzeri al servizio del duca di Milano furono sconfitti dal fuoco delle artiglierie e dei lanzichenecchi al soldo del re di Francia. Lo sviluppo delle armi da fuoco le rese sempre più maneggevoli e leggere e ne migliorò la funzionalità. Per effetto di questi progressi scomparvero progressivamente dai campi di battaglia l'arco e la balestra (che pur non essendo inferiori alle armi da fuoco richiedevano un minuzioso addestramento). Mentre invece l'utilizzo di un'arma da fuoco (come ad esempio l'archibugio) poteva essere appreso in poco tempo da chiunque; ciò rendeva possibile mettere in campo in tempi brevi una massa notevole di soldati. A questo riguardo si può osservare che a lungo il permanere della cultura cavalleresca alimentò un giudizio negativo sulle armi da fuoco: perché un vero cavaliere armato di spada poteva combattere anche con un ignobile mal addestrato. Non a caso solo alla fine del Settecento fu ammesso nel duello fra gentiluomini l'uso della pistola al posto dell'arma bianca. Nel corso del XVI secolo le armi da fuoco conquistarono nella fanteria uno spazio sempre maggiore. Importante fu in tal senso l'introduzione, sul finire del XVII secolo, della baionetta che faceva le veci della picca nella battaglia corpo a corpo con il nemico. Mutò anche il ruolo della cavalleria che, dotata di armi leggere, sciabole e pistole, fu impiegata per azioni isolate di sorpresa o per l'inseguimento. Rimase a lungo il problema della lentezza dei tiri, poiché le operazioni di ricarica richiedevano almeno un minuto e spesso anche due, un tempo troppo lungo per fermare l'impeto della fanteria nemica. La soluzione del problema si ebbe alla fine del Cinquecento quando l'esercito olandese mise in atto contro gli spagnoli la tecnica del fuoco a salve successive: i moschettieri si disponevano su più file in modo che, dopo che la prima aveva sparato, subentrava immediatamente il fuoco della seconda mentre i primi avevano il tempo di ricaricare protetti dai compagni. Naturalmente divenne decisivo l'addestramento delle truppe, che dovettero abituarsi a movimenti coordinati e automatici. Quanto all'artiglieria, essa per un lungo periodo non ebbe un'incidenza significativa sui campi di battaglia a causa delle difficoltà del trasporto, della lentezza nella cadenza del tiro, della scarsa precisione e della limitata gittata. Solo nella seconda metà del Quattrocento i progressi tecnici misero a disposizione degli eserciti cannoni più robusti, leggeri e precisi, che diedero risultati notevoli nell'assalto alle fortificazioni. I progressi della tecnica militare determinarono la formazione di eserciti permanenti di grandi dimensioni. Nella prima metà del XVII secolo gli stati più importanti mantenevano non meno di 100.000 uomini in armi. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe, sottoposte a un capillare addestramento, furono composte da professionisti, mercenari al soldo di volta in volta delle potenze impegnate in guerra, veri automi che dovevano ripetere con precisione e nei tempi stabiliti le operazioni previste per l'utilizzo delle armi da fuoco. Importanti trasformazioni riguardarono anche la guerra sui mari. Gli scontri navali rimasero a lungo legati allo schema tradizionale dello speronamento e dell' arrembaggio, che trasformava la battaglia in un corpo a corpo fra le truppe imbarcate. La più grande battaglia navale del XVI secolo, che ebbe luogo a Lepanto il 7 ottobre 1571, si svolse secondo questa tipologia e fu vinta dalle forze cristiane su quelle ottomane grazie al valore dei tercios spagnoli e alla superiorità nell'artiglieria e nelle armi da fuoco individuali. La situazione cambiò con lo sviluppo della marineria a vela, e soprattutto con l'utilizzo dell'artiglieria. L'eliminazione dei problemi posti alla stabilità della nave dal peso e dal rinculo dei pezzi e l'apertura nelle fiancate di portelli per i cannoni posero le premesse per la comparsa dell'imponente galeone, vera fortezza galleggiante, con le sue formidabili batterie. La potenza e la precisione del cannoneggiamento divennero i fattori decisivi della battaglia navale, che nell'età moderna si risolse sempre più in duelli a distanza fra le artiglierie che miravano a disalberare o ad affondare la flotta nemica. CAPITOLO 7 – IL SISTEMA DEGLI STATI ALLE SOGLIE DELL'ETÀ MODERNA Il tramonto del papato e dell'impero apri lo spazio per l'emergere di realtà nuove, che sarebbero state protagoniste della storia politica dell'età moderna: la formazione della monarchia spagnola grazie all'unione personale fra le corone di Castiglia e di Aragona, il rafforzamento della corona inglese, il consolidamento della monarchia francese che si liberò dai condizionamenti della grande feudalità e realizzò l'unità territoriale del regno. Fallirono invece i tentativi di Massimiliano I di Asburgo di dare maggiore potere alla corona del sacro romano impero, ma la sua politica matrimoniale pose le premesse per la straordinaria eredità del nipote Carlo V. Anche nell'Europa orientale si segnalano eventi importanti come la nascita della federazione polacco-lituana e la formazione dello Stato russo. Tuttavia, il fenomeno più dirompente fu sicuramente la grande espansione dell'impero ottomano, che conquistò Costantinopoli, minacciò da vicino i possedimenti degli Asburgo e contese alle potenze cristiane il controllo del bacino Mediterraneo. Premesse – Il quadro politico dell'Europa all'inizio dell'età moderna è segnato dal declino delle due autorità universali che avevano dominato lo scenario politico del Medioevo: il papato e l'impero. La Chiesa di Roma aveva conosciuto una profonda crisi dapprima con il trasferimento ad Avignone (1305-1378), ed era caduta sotto il controllo della monarchia francese, e poi con il grande scisma di Occidente (1378-1417) che aveva visto contrapposti due e addirittura, a un certo punto, tre papi in lotta fra loro. La corona imperiale era ancora legata a un'idea di universalità, che risaliva alla teoria della translatio imperi (trasferimento dell'impero), secondo la quale Carlo Magno con l'incoronazione della notte di Natale dell'800 aveva riportato la dignità imperiale dall'Oriente all'Occidente, ponendosi come legittimo successore degli imperatori romani. Ma da tempo ormai era caduto il principio di un solo imperatore al mondo, che attribuiva all'impero un potere superiore rispetto a tutti i poteri, monarchie, principati e città libere, che esercitavano di fatto la loro giurisdizione sui territori e sulle persone di loro competenza. Già agli inizi del XIV secolo l'impero si era dimostrato incapace di sostenere l'espansione verso l'Italia e di fatto aveva sempre più ristretto il suo campo d'azione all'area tedesca. Nel XV secolo entrò in uso l'intitolazione di sacro romano impero della nazione germanica, ufficializzata nel 1512. Il sacro romano impero L'impero era una confederazione che comprendeva più di 350 stati assai differenti per status e per estensione, di fatto largamente autonomi, con una frammentazione acuita nelle zone occidentali. Un passaggio fondamentale nell'organizzazione istituzionale si era avuto con la Bolla d'oro emanata nel 1356 da Carlo di Boemia (imperatore con il nome di Carlo IV) che assegnava l'elezione alla corona imperiale a sette principi: il re di Boemia, il margravio di Brandeburgo, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato e gli arcivescovi di Treviri, Colonia e Magonza. Organo centrale era la Dieta, le cui deliberazioni avevano valore di legge generale. Convocata dall'imperatore con frequenza irregolare, la Dieta era divisa in tre ordini: i principi elettori, il Collegio dei principi e dei signori territoriali (nel quale erano rappresentati con diverso peso 120 principi ecclesiastici - arcivescovi, vescovi e abati -, una quarantina di stati maggiori che avevano la dignità di principati e 140 signori minori laici ed ecclesiastici), e il collegio dei rappresentanti delle città libere. Vanno considerati infine i cavalieri, inquieti e turbolenti; dipendenti direttamente dall'imperatore, proprietari per lo più di qualche castello e di poche terre, essi non avevano diritto di rappresentanza come ceto nella Dieta. Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo, che lo avrebbe chiedere l'autorizzazione degli Stati generali, rendendola di fatto un' imposizione ordinaria. Nel contempo si accrebbe l'autorità del Consiglio del re e si consolidò l'apparato amministrativo. Grazie alla regolarità delle sue entrate, la monarchia francese poté liberarsi dalla necessità di ricorrere ai tre ordini riuniti negli Stati generali che, dopo il 1484, non furono più convocati fino al 1560, e anche in seguito, superata la fase buia delle guerre di religione, furono una presenza assolutamente marginale nella storia francese. Nel 1515, quando sali sul trono Francesco I, della linea di Valois- Angoulême, il regno era lo Stato più popoloso, solido e coeso dell'Europa, pronto per il lungo conflitto con gli Asburgo per la supremazia in Italia e in Europa. Il nuovo sovrano conseguì subito un nuovo successo assicurandosi il controllo della compagine ecclesiastica: con il concordato di Bologna del 1516 egli, in cambio della rinunzia a sostenere la teoria della superiorità del concilio sul papa, si vide riconosciuto il diritto di nominare tutte le principali cariche (vescovi, arcivescovi, abati e priori) della Chiesa, detta "gallicana" proprio a sottolineare la sua autonomia da Roma. Nel 1522 Francesco sancì formalmente il sistema della venalità delle cariche istituendo un ufficio per gestire le entrate provenienti da tali vendite. Naturalmente per effetto di questa pratica l'amministrazione Finanziaria e giudiziaria, patrimonio di una casta di ufficiali inamovibili in quanto proprietari della loro carica, sfuggi al diretto controllo del re. Al vertice dell'amministrazione giudiziaria si poneva il Parlamento di Parigi, supremo tribunale di appello; nel Quattrocento esistevano anche in varie province altri sette parlamenti. Oltre alle sue funzioni giudiziarie il Parlamento aveva il compito di registrare gli editti del re e per questa sua prerogativa assunse più volte un ruolo politico, ponendosi, proprio in virtù della sua inamovibilità, come il principale ostacolo all'assolutismo monarchico. In via di principio al Parlamento spettava solo un controllo formale della regolarità dal punto di vista giuridico degli atti reali; spesso però esso sospendeva la registrazione sollevando delle rimostranze nelle quali entrava nel merito delle questioni e manifestava la sua ostilità verso le decisioni del re. Questi aveva la possibilità di imporre la propria volontà convocando il Parlamento in una seduta solenne (letto di giustizia, nella quale, alla presenza dei pari laici ed ecclesiastici, ordinava d'autorità la registrazione. Ma questo spesso non chiudeva la questione e la resistenza del Parlamento apriva conflitti che, come vedremo, si ripeteranno più volte nel corso dell'età moderna. In generale bisogna considerare che la volontà della monarchia di accentrare l'azione di governo trovava un limite nella pluralità di privilegi, distinzioni e immunità che caratterizzavano la società di antico regime. La struttura burocratica e l'amministrazione finanziaria, create per rafforzare le istituzioni centrali dello Stato, non cancellarono i corpi, le magistrature e i poteri territoriali, ma si sovrapposero a essi nel tentativo di controllarli e di regolarli. Nel 1542 Francesco stabili delle circoscrizioni fiscali per la riscossione della taglia, ma nelle province di recente annessione (Linguadoca, Provenza, Borgogna, Bretagna), dette pays d'Etat (paesi di Stato), era costretto a contrattare annualmente l'ammontare dell'imposta con i tre ordini riuniti negli stati provinciali, che provvedevano poi autonomamente alla ripartizione e alla riscossione. Del resto le ordinanze emanate dal Consiglio del re non potevano dare un codice uniforme al paese poiché nel Mezzogiorno era in vigore il diritto romano mentre nella parte settentrionale del regno vigeva il diritto consuetudinario. Non bisogna dimenticare che in realtà il regno restava pur sempre un mosaico di città e province ciascuna delle quali manteneva le proprie prerogative. La Spagna Alla fine del XV secolo, nella penisola iberica la presenza musulmana, a fronte dei quattro regni cristiani di Castiglia, Aragona, Navarra e Portogallo, era ridotta ormai al solo regno di Granada. La nascita della Spagna moderna prese avvio dal matrimonio celebrato nel 1469 fra Isabella e Ferdinando, eredi rispettivamente della corona di Castiglia e di Aragona. La successione di Isabella sul trono castigliano nel 1474 fu contestata e provocò una guerra civile che durò fino al 1479, anno in cui, con la contemporanea salita al trono aragonese del marito Ferdinando, si realizzò definitivamente l'unione dei due regni: da quel momento il termine latino Hispania, che designava nel Medioevo l'intera penisola, indicò la Castiglia e l'Aragona. Per altro i due regni mantennero ciascuno le proprie leggi e le proprie istituzioni. Il regno aragonese, composto di tre province (l'Aragona, la Catalogna e Valencia) possedeva la Sicilia e la Sardegna e aveva installato un ramo della dinastia sul trono del regno di Napoli. La Catalogna in particolare vantava una solida tradizione commerciale e marinara, ma era ormai in una fase di declino. Ben maggiore era il peso economico e demografico della Castiglia, che fondava la sua economia sull'allevamento delle pecore merinos, controllato dalla potente organizzazione degli allevatori, la Mesta, egemonizzata dalla grande nobiltà, e su una fiorente manifattura laniera, che alimentava un' importante corrente di traffici con le Fiandre. La supremazia castigliana si manifestò fin dall'inizio nella decisione di Ferdinando di risiedere nel regno di sua moglie e di delegare stabilmente l'amministrazione dei suoi domini ereditari a dei viceré. La concorde azione dei due sovrani realizzò un notevole rafforzamento dell'autorità della monarchia in Castiglia, dove si poneva innanzitutto il problema di combattere la prepotenza nobiliare e la diffusa violenza. A tal fine la monarchia, appoggiandosi sul consenso delle città, riorganizzò le milizie urbane creando la Santa fratellanza, che, riunendo compiti di polizia e le funzioni di una sorta di tribunale straordinario, represse le aggressioni e le violenze private. Anche in Castiglia la monarchia mirò a sottomettere al suo servizio le grandi casate aristocratiche escludendole dalle cariche politiche e chiamando nel Consiglio reale, il ristretto organismo che governava il paese, giuristi non nobili, che avevano studiato diritto nelle università castigliane. Molto importante fu il controllo dei tre ordini religioso-militari, di Santiago, di cui Ferdinando si fece nominare maestro, ponendoli sotto l'autorità monarchica. Ferdinando e Isabella si preoccuparono anche di limitare il potere delle città nominando dei funzionari, i corregidores, che avevano funzioni amministrative e giudiziarie ed esercitavano un controllo sulla vita delle comunità. Per quanto concerne la Chiesa, i sovrani spagnoli già sul finire del XV secolo si garantirono che il papa affidasse le principali cariche ecclesiastiche le persone designate da loro e inoltre ottennero che le ricchezze della Chiesa dessero un contributo significativo alle finanze statali. Sul piano finanziario, essi accrebbero in notevole misura le loro entrate, grazie in particolare a un'imposta indiretta che colpiva tutte le transazioni, l'alcabala, e riuscirono perciò per lunghi periodi a non convocare i ceti riuniti nelle Cortes del regno castigliano. Il potere di queste ultime fu poi ulteriormente ridimensionato quando, a partire dal 1538, alle loro sessioni non parteciparono più il clero e la nobiltà, ma solo i rappresentanti di alcune città, incapaci di resistere alle richieste della corona. Ben diversa fu invece la situazione istituzionale nel regno di Aragona, dove le Cortes delle tre province difesero con successo le proprie prerogative e rappresentarono un costante freno alla politica della monarchia. Nel 1492 Ferdinando e Isabella portarono finalmente a compimento la reconquista (la lotta contro la presenza musulmana), occupando dopo un lungo assedio Granada. In un primo tempo fu concesso ai musulmani di restare e di conservare le loro consuetudini e la loro religione. Ma l'unità nella fede cristiana era indispensabile per integrare i territori, così diversi dal punto di vista linguistico, sociale e istituzionale, che formavano il nuovo regno. Così alla cacciata degli ebrei, avvenuta immediatamente dopo la caduta di Granada, segui un progressivo inasprimento della politica nei confronti dei musulmani che furono obbligati, per evitare di essere espulsi, a conversioni forzate e battesimi di massa. Proprio per controllare la sincerità delle conversioni degli ebrei fin dal 1478 Ferdinando e Isabella avevano ottenuto dal papa la creazione di un tribunale dell'Inquisizione, esteso poi all'Aragona, alla Sicilia e alla Sardegna. Questo tribunale, dipendente della monarchia, fu l'unica istituzione comune ai vari domini della monarchia ed ebbe una funzione decisiva nel preservare la purezza della fede cristiana e l'unità religiosa che erano, in mancanza di una effettiva unità politica, il fondamento su cui poggiava la Spagna. Di qui l'ostilità e la diffidenza verso gli ebrei e dei mori convertiti (moriscos). La morte di Isabella pose il problema della successione (1504) e il pericolo di una disunione tra i due regni. La corona di Castiglia sarebbe spettata alla figlia dei sovrani, Giovanna, che aveva sposato il figlio dell'imperatore Massimiliano, Filippo il bello (governava i Paesi bassi). La morte di Filippo nel 1506 e la pazzia di Giovanna risolsero la crisi dinastica e consentirono a Ferdinando di continuare a governare anche il regno castigliano. Nel 1512, con l'occupazione della Navarra, portò a compimento l'unificazione della Spagna. L'Inghilterra Uscito vincitore dalla guerra delle due rose fra le famiglie di York (rosa bianca) e di Lancaster (rosa rossa) (1455-1485), Enrico VII Tudor si occupò innanzitutto di restaurare l'autorità della monarchia contro le congiure e le violenze della nobiltà feudale, e si guadagnò così il consenso degli abitanti delle città, dediti al commercio e alle manifatture, e della piccola e media nobiltà. Egli governò nel Consiglio privato con un ristretto numero di uomini di sua fiducia e si servì per rafforzare la propria autorità della corte della Camera stellata, un tribunale che si occupava in particolare dei reati di natura politica e colpi con durezza rivolte e disordini. Si trattava in un certo senso di un tribunale straordinario, perché in Inghilterra vigeva tradizionalmente la common law, diritto consuetudinario che garantiva l'indipendenza dei giudici dal governo e costituiva un limite oggettivo per la legislazione regia. Enrico VII accrebbe anche il proprio patrimonio fondiario con le terre confiscate ai nobili ribelli e incremento notevolmente le entrate finanziarie. Ciò gli consenti di convocare solo una volta negli ultimi anni del suo regno il Parlamento (composto di due camere, la Camera dei Lord, nella quale sedevano i nobili titolati e i titolari delle alte cariche ecclesiastiche, e la Camera dei comuni, formata dai rappresentanti eletti dalle contee e dai borghi). A Enrico VII successe il Figlio Enrico VII, che nei primi anni di regno si impegnò senza molto successo nelle guerre continentali e lasciò la guida del governo al cardinale Thomas Wolsey. Il distacco della Chiesa inglese da Roma (1534) rappresentò una svolta decisiva negli equilibri istituzionali del regno (portando all'affermazione del ruolo centrale del Parlamento). La Russia Il fondatore dello Stato russo fu Ivan III il grande, che occupò la repubblica di Novgorod e il suo vasto territorio, assumendo il titolo di sovrano di tutta la Russia. All'interno limitò il potere dell'aristocrazia, i potenti boiari, ai quali contrappose un ceto di nuovi nobili legati al servizio della monarchia attraverso la concessione di terre, che potevano essere revocate ad arbitrio del sovrano. Egli importò dall'Occidente le armi da fuoco e adottò le nuove costose tecnologie militari per la costruzione delle fortezze, per cui accrebbe notevolmente la pressione fiscale sul mondo contadino. Molto importante fu il trasferimento del metropolita ortodosso da Kiev a Mosca, in quanto la Chiesa, legata alla tradizione bizantina con l’unione fra potere civile e religioso, contribuì al rafforzamento dell'autorità monarchica e insieme sviluppò i primi elementi di un'identità non solo dei musulmani ortodossi seguaci, oltre che del Corano, della Sunna, la tradizione orale fondata sugli insegnamenti di Maometto, e sostenitori del principio elettivo del califfato. Sul piano militare la potenza ottomana fu fondata fin dal XIV secolo sulla formazione di un esercito regolare, il cui nucleo centrale era costituito dalla fanteria dei giannizzeri, formata da prigionieri di guerra e dalla leva coatta di bambini cristiani educati nella fede islamica e addestrati alla guerra con il divieto di sposarsi. La cavalleria dei sipahi era composta invece da notabili i quali, in cambio delle entrate fiscali della terra data loro in concessione (il timar, simile al feudo occidentale ma non ereditario), erano tenuti in caso di guerra a combattere e a fornire un determinato quantitativo di truppe. L'esercito ottomano si avvalse di una potente artiglieria, decisiva nella conquista di Costantinopoli, e fin dal 1480 armò i giannizzeri con archibugi. In base al diritto ottomano tutte le terre, tranne quelle riservate ai bisogni del culto, appartenevano al sultano. L'economia si basava sull'agricoltura, non particolarmente progredita in generale; la cellula di base era la famiglia contadina, che riceveva in concessione dal villaggio una tenuta che non poteva vendere. Nell'insieme la condizione del mondo contadino era migliore rispetto all'Europa occidentale, sia perché le imposte statali e il prelievo da parte dei titolari dei timar (timarioti) erano moderati, sia per l'assenza di ogni servaggio; schiavi (riscattabili) erano i prigionieri di guerra cristiani. Gli abitanti delle città erano in larga parte artigiani, organizzati in corporazioni. Con l'espansione nel Mediterraneo l'impero acquisì una posizione strategica nei traffici dei prodotti di lusso (seta e spezie) che dall'Oriente arrivavano ai porti della Siria e dell'Egitto per essere poi trasportati in Europa. Nella prima metà del XVI secolo l'impero contava più di trenta milioni di abitanti; di questi una parte notevole era formata da cristiani (cattolici, ortodossi e aderenti alla Chiesa armena); vi era inoltre una cospicua presenza di ebrei. Nei confronti delle altre religioni gli ottomani furono sempre tolleranti, e imponevano solo il pagamento prescritto dal corano per la gente del Libro. Molti cristiani e anche schiavi e liberti, convertendosi all'Islam, assursero a posti di rilievo nell'amministrazione. CAPITOLO 8 – CIVILTÀ E IMPERI EXTRAEUROPEI Superata la visione eurocentrica alla quale è rimasta a lungo legata, la storiografia ha dedicato negli ultimi decenni una crescente attenzione alle vicende degli altri continenti nel tentativo di realizzare una storia effettivamente universale e anche di pervenire a una storia del mondo (world history), non più incentrata sulla categoria dello Stato nazionale ma in grado di ricostruire la trama di interazioni e di incroci, di scambi di esperienze e di masse umane dalla quale è nata la società globale nella quale oggi viviamo. In questa prospettiva un notevole spazio è stato riservato all'Africa, a lungo considerata un continente privo, fino all'arrivo degli europei, di una storia degna di essere studiata. In una luce diversa sono stati studiati anche gli Imperi che si sono formati in Asia: in Cina le dinastie Ming (1368-1644) e poi Q'ing (1644-1912), il Giappone dell'era Tokugawa (1603-1867), l'impero Safawide in Persia (1501-1722) e l'impero Moghul in India (1526-1858). In questo quadro sono state inserite le civiltà dette precolombiane, fiorite nel continente americano prima dell'arrivo degli spagnoli, a opera dei maya, degli aztechi e degli inca. L'AFRICA Gli studi sull' Africa sono stati condizionati dalla scarsità e dalla poca attendibilità delle fonti disponibili. Poiché in gran parte delle zone non influenzate dall'Islam non vi era scrittura, molto importanti sono stati, oltre ai racconti dei missionari, i reperti archeologici e i resti delle civiltà materiali, gli studi di etnologia, la ricostruzione della mappa linguistica, i contributi della tradizione orale. Probabilmente, secondo delle ipotesi, nell'età moderna la popolazione ha conosciuto una crescita assai modesta, con un' elevatissima mortalità infantile e una vita media intorno ai 20 anni. Essendo fondamentale per la sussistenza della comunità un elevato numero di figli, le donne si sposavano molto giovani; diffusa era la poliginia. Nelle zone nelle quali si era superata l'economia di raccolta, si praticava per lo più un'agricoltura di sussistenza, non integrata con l'allevamento. Tuttavia, non mancavano centri nei quali era attivo un fiorente artigianato, che produceva tessuti in lana e cotone, manufatti in terracotta, in cuoio e in ceramica, ed era in grado anche di lavorare con maestria i metalli. Molto importante per la storia del continente fu l'espansione dell'Islam, che conquistò dapprima l'occidente, e si diffuse poi, con maggior lentezza e difficoltà, nell'Africa occidentale e orientale. La penetrazione musulmana rappresentò ovunque un forte incentivo allo sviluppo delle attività commerciali e della urbanizzazione. Lungo le rotte del commercio transahariano si svilupparono, al limite meridionale del Sahara, città dove transitavano i prodotti dell'Africa nera (oro, avorio, pelli e schiavi) scambiati con il sale e i manufatti dell'Africa settentrionale. Sulla costa orientale da colonie di mercanti islamici sorsero fin dal X secolo le città- stato Swahili, ad esempio Malindi, Mombasa, Zanzibar, che intrattenevano rapporti commerciali con l'India e con l'Arabia. Tuttavia, le città erano una presenza marginale. Prevalevano società definite di tipo segmentario, strutturate in piccole comunità, nelle quali il principale elemento di coesione era un legame di tipo etnico o parentale, fondato in genere sulla immaginaria discendenza da un mitico capostipite comune del clan. Un carattere frammentario tra l'altro confermato dal grande numero di dialetti e dalla varietà dei culti. Le religioni africane si fondavano su una visione magica, per la quale il mondo è dominato da forze segrete che non si possono controllare e che occorre propiziarsi con riti e sacrifici. Esse erano un fenomeno collettivo, in quanto dettavano gerarchie, norme e comportamenti sui quali si fondava tutta la vita della comunità. Su questa frammentazione si sovrapposero, in alcune zone e in alcuni periodi, forme di organizzazione politica più complessa che si possono definire imperi o stati (ma pur sempre realtà diverse rispetto alla società europea). Mancava l'idea di uno stabile dominio sul territorio in quanto i confini di questi stati erano incerti proprio per la fluidità delle società segmentarie che ne erano la base. In larga parte del continente, e soprattutto nell'Africa equatoriale e meridionale, l'idea di una organizzazione territoriale solida non aveva alcun senso, e comunque era di fatto impossibile. L'impulso alla formazione di un'autorità centrale nasceva in genere dallo stato di guerra o dalla necessità di espandersi, di controllare le vie commerciali o di riscuotere tributi e pedaggi. Questi stati si fondavano comunque su un potere personale, sempre suffragato da una valenza di tipo mitico-religioso. Tuttavia nella maggior parte dei casi la formazione di uno stato non determinava la creazione di una struttura nuova: il controllo del centro faceva riferimento ai capi del clan e del villaggio. Il cristianesimo si diffuse precocemente nell'Egitto sotto la dominazione romana nella forma della dottrina monofisita, che negava la doppia natura umana e divina di Cristo. Si formò così la chiesa copta che sopravvive ancora oggi. Il cristianesimo si espanse poi verso Sud e fu adottato dal regno di Axum formatosi nel IV secolo d.C. sull' altopiano etiopico. Nel XVI secolo lo Stato etiopico respinse, grazie ai moschetti forniti dai portoghesi, i tentativi di invasione dei vicini stati musulmani e poi un attacco dell'impero ottomano, ma in seguito andò incontro a un progressivo decadimento. Alle soglie dell'età moderna si formò il regno Songhai, che approfittò del declino del precedente impero islamizzato del Mali per acquisire il controllo dell'alto corso del Niger; nel 1469 si impadronì della città di Timbuctu, snodo dei traffici carovanieri, che in questo periodo raggiunse il suo massimo splendore. Il regno del Marocco, l'unico nell'Africa settentrionale a non essere soggetto agli ottomani, nel 1591 sconfisse grazie alla cavalleria leggera armata di archibugi il regno Songhai provocandone la scomparsa. Vanno ricordati anche i regni islamizzati di Benin, uno dei più antichi dell'Africa occidentale, che nel XVI secolo giunse a controllare una vasta area fra il delta del Niger e la città di Lagos, nell'attuale Nigeria, e di Kanem-Borno, che assoggettò una parte delle regioni attorno al lago Ciad, ponendo sotto controllo una parte del traffico transahariano. Molto importante fu anche il regno del Congo, insediatosi sul tratto finale del fiume omonimo, nei territori delle attuali repubbliche del Congo e dell'Angola. Il re Nzinga Nkuwu si fece battezzare nel 1491 e il figlio prosegui la cristianizzazione dello stato. I re del Congo tentarono anche, invano, di appellarsi al papato per difendersi dalla brutalità dei portoghesi, interessati al monopolio del traffico degli schiavi. Quindi il regno andò incontro a un processo di indebolimento e di disgregazione. LA CINA La storia della Cina moderna inizia dalla caduta della dominazione mongola, travolta dalle rivolte contadine e da una insurrezione militare capeggiata da un ex monaco buddista di umili origini, Zhu Yuanzhang. Questi prese il potere nel 1368 dando inizio alla dinastia Ming (luminosa), durata fino al 1644. L'economia cinese si fondava su un' agricoltura che presentava caratteristiche molto diverse rispetto a quella europea. Fra le colture predominava il riso, che assicurava l'alimentazione della popolazione con rese fino a cinque volte superiori rispetto a quelle del frumento. Si coltivavano anche tè, cotone e soia. Per la risicoltura era necessario un sistema di irrigazione che richiedeva un costante impegno di una enorme massa di manodopera. Era fondamentale quindi l'energia muscolare dell'uomo: per questo motivo la nascita di un bambino, che in Occidente era una bocca da sfamare, era invece una risorsa preziosa per l'agricoltura cinese. Rispetto all'agricoltura europea si utilizzavano pochi strumenti agricoli e molto scarsi erano anche gli animali. In questa agricoltura di sussistenza prevalse fino al XX secolo la famiglia allargata, che tendeva a produrre tutto ciò che era necessario alla vita. Tuttavia, nel periodo Ming vi furono un notevole sviluppo delle manifatture, in particolare della seta, dei tessuti di cotone e della porcellana, e una crescita dei VI secolo d.C., e anche di alcuni aspetti del confucianesimo. Tutta la storia religiosa del Giappone è incentrata sulle relazioni fra lo shintoismo e il buddhismo, che oggi convivono in larga parte della popolazione. Lo shintoismo per altro ha avuto una funzione importante in chiave nazionale perché ha fornito la legittimazione del potere dell'imperatore, ritenuto, fino al 1946, di natura divina in quanto discendente dalla suprema divinità shintoista, Amaterasi, la dea del sole. Quanto al cristianesimo, esso era stato introdotto a partire dalla metà del Cinquecento dal gesuita Francesco Saverio, ma già sul finire del secolo si sviluppò una violenta persecuzione nei confronti dei cristiani. I missionari furono uccisi o espulsi e il cristianesimo fu severamente proscritto come una pericolosa dottrina straniera. Fino ad allora i rapporti con i mercanti europei avevano introdotto nel paese le armi da fuoco, ma anche gli occhiali, gli orologi, il tabacco, la patata. Nel 1635 fu vietato ai giapponesi di uscire dallo Stato e fu imposto ai residenti all'estero di tornare; quindi furono scacciati i mercanti stranieri. I Tokugawa favorirono la diffusione del confucianesimo, che costituiva un valido sostegno del regime grazie alla sua dottrina etica che giustificava le gerarchie sociali e insegnava la virtù dell'obbedienza. La società era fondata sulla divisione in 4 classi: guerrieri, agricoltori, artigiani e mercanti; poiché questo ordine era considerato una legge naturale, ciascuno era vincolato alla propria condizione. Non mancò tuttavia un notevole sviluppo economico, che modificò di fatto questa rigida struttura sociale. Grazie anche al miglioramento della rete dei trasporti, vi fu un aumento del commercio interno e si formò un mercato nazionale; poiché era proibito ai guerrieri il commercio, i mercanti, pur disprezzati in base ai principi confuciani, videro crescere notevolmente le loro attività. Molte terre furono bonificate e fu intensificata la produzione del riso, ma soprattutto furono incentivate colture non volte alla sussistenza della popolazione, come il cotone, la canapa, il gelso, il tabacco e il tè. Di conseguenza si frantumò l'omogeneità del villaggio rurale, nel quale a ogni famiglia era assegnato un campo con l'obbligo di lavorarlo e di versare una quota del raccolto; dalla massa del mondo contadino si staccò un ceto di ricchi proprietari terrieri, che introdussero nella coltivazione nuovi metodi atti a sviluppare la produttività (fertilizzanti, attrezzi agricoli, irrigazione). L'incremento delle attività manifatturiere fu del pari assai sensibile e creò le premesse per l'avvio del processo di industrializzazione. Crebbe anche in misura notevole l'alfabetizzazione. Prova di questa crescita furono l'aumento della popolazione e lo sviluppo delle città. Il Giappone era una delle nazioni a maggiore urbanizzazione. Edo nel 1700 sfiorava il milione di abitanti. Il Giappone per altro non conobbe il forte incremento demografico della Cina del XVIII secolo: dal 1720 al 1860 la popolazione rimase stabile. Ciò si spiega da un lato con il fatto che l'agricoltura aveva raggiunto il limite massimo di espansione, dall'altro con la pratica della limitazione delle nascite messa in atto dalla popolazione contadina, anche con il ricorso all'infanticidio. La storiografia negli ultimi anni ha insistito sulla specificità del caso del Giappone, che avrebbe rappresentato il solo paese, nel mondo extraeuropeo, ad avviarsi autonomamente verso la forma di produzione capitalistica. La politica del «paese chiuso» favori infatti lo sviluppo dell'economia e pose le premesse già nell'era Tokugawa per il processo di industrializzazione che si sarebbe pienamente realizzato nella seconda metà dell'Ottocento con l'abolizione della struttura feudale e l'apertura alle tecnologie straniere. In tal senso si è parlato di una via giapponese alla modernità, diversa dalla rivoluzione industriale dell'Occidente. L'IMPERO SAFAWIDE DI PERSIA Nel 1478, alla morte di Uzun Hasan, turcomanno che dal 1466 aveva regnato su Armenia, Mesopotamia e Persia, si apri un periodo di anarchia del quale approfittò Ismail I, membro di una famiglia di sceicchi della città di Ardabil nella Persia occidentale. Egli riuscì a sottoporre al suo dominio gran parte del territorio persiano fino al golfo Persico e nel 1501 si proclamò primo shah dell'Iran, fondando così la dinastia dei Safawidi destinata a regnare fino al 1722. Nel 1514 una grave sconfitta da parte dell'esercito ottomano lo costrinse ad abbandonare l' Anatolia orientale, l'Armenia e il Kurdistan al sultano Selim I. Fin dall'inizio in effetti lo Stato persiano ebbe come suo principale nemico l'impero ottomano, con il quale fu costantemente in lotta, in particolare per il possesso dell'Iraq e per il controllo dei numerosi principati musulmani e cristiani, formalmente autonomi, lungo la catena del Caucaso. Ai motivi politico-territoriali di conflitto si aggiunse poi una contrapposizione di natura religiosa: mentre l'impero ottomano si poneva come erede dell'Islam sunnita, i Safawidi imposero come religione nazionale l'Islam sciita (che considerava degli usurpatori i primi tre califfi, riconosceva come solo successore legittimo di Maometto il quarto, il cugino e genero Ali e i suoi discendenti, e negava il carattere elettivo del califfato, sostenuto invece dai sunniti). Questa posizione religiosa era anche il fondamento della legittimità dei Safawidi, che si ponevano come eredi diretti di un discendente del profeta. Un contributo decisivo al rafforzamento della dinastia venne dallo shah Abbas I il grande il quale, riordinato l'esercito con le truppe mercenarie, ottenne importanti vittorie sugli ottomani riconquistando alcune regioni nella zona caucasica e occupando anche il territorio fino a Baghdad. Data la natura prevalentemente montuosa del terreno, in molte regioni l'agricoltura era possibile solo grazie a un complesso sistema di irrigazione, con canali sotterranei per evitare l'evaporazione. La terra, anche se non mancavano in alcune zone dei contadini indipendenti, era per lo più nelle mani di grandi proprietari. Abbas si impegnò a sviluppare l'agricoltura, ma la popolazione rimase formata in maggioranza da gruppi nomadi dediti all' allevamento di cavalli, cammelli e pecore (da queste ultime si ricavava la lana per la tessitura dei celebri tappeti che, con la seta greggia, era il principale prodotto di esportazione). Abbas si sforzò anche di incentivare il commercio fondando nel 1623 sul golfo Persico un porto che da lui prese il nome. Egli sposto la capitale a Isfahan, che arricchì di grandi opere pubbliche. Con Abbas l'impero raggiunse il suo massimo splendore, testimoniato anche dalla grande fioritura letteraria e artistica. Dopo la sua morte l'impero ai avviò a un lento declino, segnato dalla lotta con l'impero ottomano per il possesso della Mesopotamia, che fu stabilmente occupata dai sultani di Istanbul. Nel 1722 l'impero fu travolto da un'invasione degli afghani, che occuparono la capitale Isfahan. Si mise in luce allora un avventuriero di umili origini del Khorasan, Nadir Quli, che sconfisse gli afghani e nel 1736 assunse egli stesso il potere e il titolo di shah. In seguito, egli occupò tutto il territorio afghano e quindi invase l'India occupando Delhi (1739) e ponendo fine di fatto all'impero Moghul. Alla morte di Nadir shah, la Persia piombò in un periodo di anarchia e di sanguinose guerre civili. A partire dal 1786 la capitale fu spostata a Tehran. L'IMPERO MOGHUL Nel XIII secolo nella parte settentrionale del subcontinente indiano si era stabilito uno Stato musulmano, il sultanato di Delhi. Dopo l'invasione e il saccheggio della capitale da parte di Timur Lang (Tamerlano) nel 1398 il sultanato era caduto in una condizione di anarchia, caratterizzata da ripetute frammentazioni del territorio e da frequenti insurrezioni e rivolte. Nell'India meridionale, la penisola del Dekkan, vi erano invece vari principati induisti, e soprattutto il regno induista chiamato, dal nome della sua capitale, Hampi. Il processo di riunificazione di questi territori fu avviato da un capo militare afghano di stirpe turca e di fede musulmana, chiamato Babur (tigre), discendente di Tamerlano, che fra il 1526 e il 1530, anche grazie all'uso delle armi da fuoco, conquistò Delhi creando nell'India nord-occidentale, sulle rovine del sultanato, un ampio dominio destinato a rappresentare il primo nucleo dell'impero Moghul (propriamente = mongolo). In realtà, lo Stato creato da Babur rimase per lungo tempo precario, anche a causa dell'ostilità dei principi locali induisti. Il consolidamento dell'impero fu opera del nipote di Babur, Akbar il grande, che riuscì a imporre il suo controllo su tutta l'India settentrionale e in seguito estese i suoi domini a Nord fino a Kandahar in Afghanistan e verso Sud al Gujarat, al Dekkan settentrionale e al Bengala. Una delle cause della fragilità dell'impero era la sua eterogeneità: vi convivevano infatti popolazioni di etnie e di lingue diverse. Ma il fattore principale di divisione era la religione. La maggioranza della popolazione era legata all'insieme di credenze, di pratiche religiose, di regole sociali e di usi e costumi, risalenti in origine all'antica letteratura dei Veda (che gli inglesi nel XIX secolo designarono con il nome di induismo). La religione induista non ebbe un fondatore e non forma una chiesa, è un modo di concepire la vita secondo l'ordine del cosmo e i principi universali che lo animano. Parte essenziale di questo ordine, e pertanto sacra e immodificabile, è la divisione della società in quattro classi, una convinzione che persiste ancora oggi in alcuni strati della popolazione: i sacerdoti (bramini), i guerrieri o governanti, gli artigiani e mercanti, gli addetti ai lavori servili; al di sotto delle caste vi erano gli impuri o intoccabili ai quali erano riservati i compiti più umili e degradanti. Come il cosmo si rinnova continuamente, anche le creature sono soggette a una serie indefinita di esistenze; l'appartenenza alle varie classi è la conseguenza delle azioni compiute da ogni individuo nella vita attuale e in quelle precedenti. Circa un quarto della popolazione aderiva invece all'Islam, che fin dal IX secolo si era diffuso nelle regioni settentrionali e occidentali attraverso la dominazione turca; e di fede musulmana era anche la dinastia straniera che deteneva il potere imperiale. Nel periodo che consideriamo si formò inoltre una nuova corrente religiosa, il movimento sikh, che condivideva molti motivi della tradizione induista (ad esempio la credenza nella reincarnazione), ma rifiutava il sistema delle caste e soprattutto intendeva unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico, del quale non si doveva dare alcuna rappresentazione materiale. Infine, con l'arrivo degli europei iniziò anche una limitata penetrazione del cristianesimo. Akbar cercò di superare queste divisioni promuovendo una riforma religiosa e sociale che sancisse la parificazione di fronte allo Stato di musulmani e indù. Egli a tal fine abolì la tassa prescritta dal Corano per i non musulmani. Inoltre, praticò una larga tolleranza, operando anche una limitata apertura nei confronti dei gesuiti. Infine, volle stabilire un nuovo culto che cercava di fondere insieme elementi tratti dalle due religioni principali allo scopo di imporre la fede in un solo Dio e di garantire l'armonia fra le diverse confessioni religiose; per superare le forti resistenze, soprattutto da parte musulmana, egli pose al centro del nuovo culto la venerazione della sua stessa persona. La riforma in realtà mirava ad avviare un processo di modernizzazione dell'India, ma era troppo legata al suo prestigio per cui non sopravvisse alla sua morte. L'impero Moghul costruì nel tempo una struttura amministrativa solida, che consentì ai sovrani un efficace controllo sulle varie regioni dello Stato. A tal fine era centrale la figura del faujdar, insieme comandante militare e capo amministrativo della circoscrizione a lui affidata. Egli aveva competenza sulle questioni militari e sulla vita economica del territorio, e doveva garantire il rispetto della legge e il mantenimento dell'ordine pubblico, potendo disporre a tal fine delle truppe ai suoi ordini. L'economia dell'impero si fondava su un'agricoltura di sussistenza, generalmente piuttosto arretrata, fondata sulle comunità di villaggio che vendevano le merci che producevano ma raramente ne acquistavano. Il peso delle imposte e le ricorrenti inondazioni provocate dalle piogge estive resero difficile la vita dei contadini. Tuttavia, non mancarono nelle terre dei grandi proprietari terrieri tentativi di innovazione e di promozione di nuove colture (ad esempio il cotone). D'altra parte, l'amministrazione ebbe un ruolo importante nel migliorare i trasporti, nel favorire il commercio interno e nel promuovere alcune attività manifatturiere, in particolare la produzione di organizzazione era utilizzata per impiegare in modo razionale tutti gli uomini disponibili nella mita (turno di lavoro), cioè nei servizi dovuti allo stato, ad esempio la costruzione dell'ottima rete di strade, i lavori pubblici, la coltivazione delle terre del sole o dell'inca. In ogni provincia vi erano dei magazzini nei quali erano conservati i generi necessari alla sussistenza di coloro che erano assegnati ai servizi della mita o da utilizzare in caso di carestia. Nelle cerimonie religiose degli inca i sacrifici umani ebbero un rilievo molto minore che presso gli aztechi. Fra le divinità adorate dagli inca va ricordato, oltre al dio del sole Inti, Viracocha, considerato il creatore e il civilizzatore. La storiografia ha molto discusso sulla natura di questa divinità che non risulta ancora del tutto chiara, anche perché le testimonianze degli spagnoli ne hanno travisato o deformato le caratteristiche, sovrapponendo alla sua figura quella del Dio cristiano. CAPITOLO 9 – UMANESIMO E RINASCIMENTO Le origini dell'umanesimo Sviluppatosi dapprima in Italia fra Trecento e Quattrocento, il movimento umanistico perseguì un programma di radicale rinnovamento culturale e educativo incentrato sulla rinascita dei grandi modelli dell'antichità classica, nella convinzione che ciò avrebbe avviato una nuova età di progresso dopo il lungo periodo intermedio (media aetas) di barbarie e di ignoranza seguito alla caduta dell'impero romano d'occidente. Gli umanisti ammirarono le grandi opere della cultura greca e latina non solo per il loro valore letterario o filosofico, ma perché ritrovavano in esse il nuovo modello di formazione dell'uomo al quale intendevano ispirarsi. Per questo motivo gli studi classici furono definiti (con espressione risalente a Cicerone) studia humanitatis, o anche humanae litterae. Da questa formula derivò il termine latino humanista, che fu usato nel corso del Cinquecento per designare appunto colui che, ispirandosi alla lezione dei grandi maestri della cultura classica, si dedicava allo studio e all'insegnamento delle discipline umanistiche, letteratura, grammatica e retorica. Gli stessi umanisti individuarono le origini della nuova cultura nell'opera di Francesco Petrarca, il primo a usare il termine media aetas dal quale sarebbe derivata la periodizzazione dell'età moderna. L'umanesimo si sviluppò in particolare nelle città dell'Italia centro-settentrionale, autonome ormai dal potere imperiale e fiorenti di manifatture e commerci. In tal senso esso fu l'espressione delle aspirazioni e della visione del mondo di quei ceti emergenti che animarono la civiltà comunale: cadde allora il monopolio della cultura detenuto dall'autorità ecclesiastica e, tramontò progressivamente la figura del dotto medievale (il chierico, organicamente legato per cultura e per condizione alla Chiesa); invece si affermò una nuova classe intellettuale di formazione laica, inserita nel tessuto sociale urbano e desiderosa di mettere il suo sapere al servizio della vita civile. I destinatari della nuova cultura furono dunque uomini di palazzo, segretari e funzionari delle magistrature cittadine, maestri, esperti di diritto, notai, professionisti, uomini che si erano affermati nel mondo del commercio e degli affari. Al centro del pensiero umanistico c'era l'idea che l'uomo di lettere dovesse partecipare attivamente alla vita politica della sua città (da cui l’umanesimo civile, soprattutto in relazione a Firenze, vera capitale del movimento umanistico, che ebbe cancellieri umanisti come Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini). La crisi delle libertà comunali modificò il quadro nel quale si era affermato il primo umanesimo: nelle nuove condizioni politiche gli umanisti furono chiamati soprattutto a illustrare con le loro opere la figura dei signori o dei principi e a formare i quadri dell'apparato burocratico-amministrativo dei nuovi regimi. Emblematicamente fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento il centro della vita artistica si spostò da Firenze a Roma, alla corte dei papi rinascimentali. Ormai letterati e artisti trovavano protezione e sostegno materiale per la loro attività nel mecenatismo delle grandi famiglie principesche (i Gonzaga a Mantova, gli Este a Ferrara, i Montefeltro a Urbino). Mutò così progressivamente anche l'immagine dell'umanista: se Leon Battista Alberti, grande architetto e raffinato letterato, aveva posto come ideale della cultura umanistica la formazione di un uomo integrale, scienziato, artista, tecnico, e al tempo stesso partecipe della vita politica cittadina, ben diversa è l'immagine delineata da Baldassar Castiglione nel Cortegiano (1528), opera di larga fortuna europea: l'intellettuale, inserito nella società di corte, è un uomo di mondo, attento alle belle maniere, maestro nell'arte della dissimulazione, pronto a celebrare i fasti del principe e del mondo aristocratico che lo circonda. In questa evoluzione vi era anche il germe della crisi del sapere umanistico, che perse progressivamente il fecondo impatto rinnovatore delle origini e perseguì sempre più una vuota eleganza formale. Nel frattempo però la cultura umanistica si era progressivamente staccata dalle sue radici italiane e si era trasformata nel corso del Quattrocento, attraverso la circolazione degli uomini e delle idee, in un fenomeno europeo, che fece sentire la sua influenza fino Ungheria, in Boemia e in Polonia. La riscoperta della cultura classica Per realizzare il loro progetto di rinascita degli studi classici, gli umanisti si dedicarono a una paziente opera di ricerca di manoscritti nei monasteri di tutta Europa (fra i tanti testi riportati allora alla luce c'era il De rerum natura di Lucrezio, ritrovato da Bracciolini). Ancora più importante fu la riscoperta del greco, generalmente ignorato dalla cultura occidentale dell'età di mezzo: fu proprio Salutati a favorire l'istituzione a Firenze nel 1397 della prima cattedra di greco. Molti umanisti durante i loro viaggi in oriente si impegnarono nella ricerca di manoscritti greci: in tal modo fu recuperato quasi tutto il corpo della letteratura greca. In particolare si impose all'attenzione della cultura europea la filosofia di Platone, del quale fu finalmente messa in circolazione tutta l'opera grazie alla traduzione e al commento curati dal filosofo Marsilio Ficino; questi nella villa di Careggi vicino Firenze, diede vita a un cenacolo che fu chiamato appunto Accademia platonica, un centro di studio e di discussione che ebbe larga influenza in tutta Europa. In generale la rinascita della cultura classica promossa dall'umanesimo favori un allargamento della circolazione dei testi latini e greci, dapprima attraverso il moltiplicarsi delle copie manoscritte e poi in misura ancor più grande grazie alla rapida diffusione della stampa, che permise di predisporre in tempi molto rapidi un elevato numero di copie di un'opera. Risultati di qualità nettamente superiore dava la tecnica della stampa a caratteri mobili, nota fin dal X secolo in Cina, che fu messa a punto a Magonza, probabilmente in modo autonomo, da un orafo tedesco, Johann Gutenberg, intorno alla metà del XV secolo. Con questa tecnica fu realizzata tra il 1454 e il 1455 la Bibbia latina a due colonne, detta anche mazzarina (dalla copia posseduta dal cardinale Mazzarino), che si considera il primo grande libro a stampa. Le tipografie si diffusero velocemente in tutta Europa, dando un contributo decisivo all'allargamento della vita culturale. L'arte La capacità di lanciare uno sguardo nuovo sulle cose e sulla stessa interiorità dell'uomo si manifestò dapprima, in modo ancora istintivo, nel mondo dell'arte, lungo un itinerario che essenzialmente parte da Giotto e si snoda attraverso Masaccio, Piero Della Francesca e Brunelleschi per giungere fino ai grandi artisti dell'età rinascimentale. Nell'età precedente avevano prevalso preoccupazioni di carattere religioso per cui tutti i momenti dell'esistenza, quindi anche la produzione artistica, dovevano essere rivolti al conseguimento della salvezza dell'anima: di qui il carattere didascalico e allegorico di tanta parte dell'arte medievale che tendeva a trasfigurare la realtà, individuando in essa la realizzazione di un disegno divino o l'immagine concreta dei principi dell'etica cristiana. Quando si fece strada una nuova sensibilità, che si può ben definire moderna, si iniziò a considerare la natura e l'uomo nel loro autentico significato e valore, a prescindere dal loro coinvolgimento in un disegno divino. In una opera medievale, tutte le figure erano poste su uno stesso piano, e le loro dimensioni e la loro disposizione nello spazio sono dettate da un ordine o da una gerarchia ispirati da criteri di carattere religioso. Ora invece l'artista si proponeva di ricostruire lo spazio secondo precise regole matematiche, in modo da creare sulla superficie del foglio o della tela l'effetto tridimensionale, attraverso il senso della distanza e della profondità. Si affermò così la tecnica della prospettiva, elaborata dal Brunelleschi ed esposta poi nel 1436 nel trattato De pictura da Leon Battista Alberti. Il termine (dal lat. perspectiva, verbo perspicere che vuol dire guardare innanzi) l'esigenza di verificare ogni teoria sulla base della esperienza, vale a dire attraverso un'analisi diretta della realtà naturale. L’UMANESIMO CRISTIANO DI ERASMO DA ROTTERDAM Erasmo, il più importante esponente della cultura umanistica, perseguì l’ideale di un umanesimo cristiano, nel quale la rinascita degli studi classici si coniugava con il ritorno allo spirito evangelico del cristianesimo delle origini. La filologia applicata alle Sacre Scritture L’opera di rinnovamento culturale e religioso di Erasmo si espresse innanzitutto nel tentativo di applicare il metodo critico della filologia, oltre che ai testi classici, anche alle sacre scritture. Erasmo presenta la filologia come la disciplina più utile di tutte, la sola che consente di ricostruire la verità degli antichi testi. In nome della critica filologica da lui fondata scientificamente, Erasmo afferma di non accettare l’autorità degli antichi, e dei padri della Chiesa, rivendicando il diritto di libera ricerca intellettuale e portando a piena maturazione il frutto di una coscienza propriamente moderna. Con la pubblicazione del Novum Instrumentum (1516), testo greco del Nuovo Testamento: la Bibbia, ormai concepita come libro storico, doveva essere analizzato con un metodo critico filologico. Fautore di un ritorno alle origini non solo per quanto concerne le fonti, ma anche nel sentimento religioso, che egli voleva semplice e puro, lontano da ogni esteriorità, fedele allo spirito evangelico, Erasmo criticò gli eccessi della devozione, il culto delle relique, i digiuni, le veglie, i pellegrinaggi, e qualsivoglia forma di religiosità esteriore. Elogio alla follia – Il suo ideale di vita cristiano si trova espresso nell’Elogio della follia (1511), sua opera più nota, concepita inizialmente come uno scherzo (per la somiglianza tra il nome greco della follia, morìa, e il cognome del suo amico Thomas More, cui l’opera è dedicata). Follia qui intesa non nel senso di malattia mentale, ma nel significato del termine latino stultitia, ossia come insensatezza. La stessa follia declama un’orazione in elogio di sé stessa davanti ad un pubblico di seguaci, con un berretto a sonagli in testa. La follia dimostra che senza di lei nessun aspetto della vita umana potrebbe esistere: se molti uomini si lasciassero guidare dalla saggezza sarebbero indotti a non compiere molte delle loro azioni. Erasmo, per bocca della follia, paragona la vita ad una rappresentazione nella quale ciascun attore indossa una maschera. Se qualcuno rompesse la finzione tutta l’efficacia del dramma sarebbe distrutta, perché è proprio la finzione a tenere avvinti gli spettatori. CAPITOLO 10 – L’ETÀ DELLE SCOPERTE GEOGRAFICHE PORTOGHESI E SPAGNOLE I viaggi oceanici iniziano intorno alla fine del XV secolo, per motivi politici, economici e tecnologici. Cause politiche – La Spagna era impegnata nella guerra di liberazione dagli arabi (la Reconquista), durata circa 7 secoli e terminata soltanto nel 1492. I sovrani cattolici di Spagna, Ferdinando e Isabella, si trovano nelle condizioni di poter finanziare la spedizione di Colombo. Cause economiche – Gli arabi nel 1453 conquistarono ciò che restava dell’Impero bizantino e acquisirono il predominio nel mar Mediterraneo, controllando per terra la via delle Indie e arricchendosi particolarmente grazie al commercio con l’Oriente, basato principalmente sulle spezie; un commercio molto remunerativo ma rischioso, per via dei viaggi molto lunghi in terre poco sicure. Per questo, sorse l’esigenza di trovare una via alternativa e marittima per le Indie e l’unica possibilità conosciuta era la circumnavigazione dell’Africa. Cause tecnologiche – Soltanto grazie al progresso che caratterizzò la fase finale del Medioevo, le tecniche di navigazione poterono essere migliorate per far fronte all’oceano Atlantico. In generale, si assistette alla diffusione della bussola, del timone unico e di una cartografia accurata. L’ostacolo principale, d’altronde, era costituito dalle imbarcazioni commerciali allora in uso, le cosiddette galere. Lo sviluppo delle tecniche di produzione culminò con l’invenzione della caravella, che permise di tentare la circumnavigazione oceanica. L’esplorazione portoghese in Africa L’inizio dei viaggi di esplorazione – 1415, con l’occupazione portoghese della città commerciale di Cetua, nel nord-Africa. Negli anni successivi i portoghesi raggiunsero il Capo Bojador (1434), situato sulla costa settentrionale del Sahara occidentale, e Capo Verde (1444), poi colonizzata soltanto nel 1460. Una svolta decisiva è rappresentata dall’arrivo sulle coste dell’attuale Ghana che, proprio per le notevoli quantità di metallo che si potevano estrarre, venne chiamata Costa d’oro. I portoghesi furono i primi europei a raggiungere le coste dell’Africa occidentale. L’impulso alle scoperte geografiche e alle navigazioni fu dato dal principe Enrico della dinastia Aviz, detto Enrico il Navigatore. Questi promosse le esplorazioni per motivi non soltanto scientifici, ma anche politici, economici e religiosi.  Innanzitutto, nacque il desiderio di ampliare le conoscenze geografiche del tempo, grazie all’impulso fornito dalla fioritura della cultura umanistica e della civiltà rinascimentale. A ciò si aggiunge la circolazione di opere classiche, tra cui la Geografia di Tolomeo, che contribuirono a radicare negli uomini colti d’Europa rinascimentale la convinzione della sfericità della Terra. Enrico fondò a Sagres un centro di studi astronomici, geografici e cartografici per perfezionare le tecniche di navigazione dei marinai portoghesi e organizzare le loro spedizioni. In generale, si svilupparono una spiccata apertura mentale, e il desiderio di affermare la forza e l’intelligenza dell’uomo; caratteri che hanno dato avvio al punto di rottura con il Medioevo e gettato le basi verso un’epoca moderna.  Oltre alla volontà di rafforzare il ruolo del Portogallo come potenza, vi era anche l’intento di diffondere il cristianesimo: i papi Niccolo V e Callisto III, con tre bolle, legittimarono queste spedizioni, in quanto svolgevano la missione di diffondere la fede cristiana, e concessero perciò ai portoghesi il diritto di sottomettere musulmani e pagani.  Molto importante è il desiderio di trovare nuove rotte per raggiungere i giacimenti di oro situati in Africa. Navigare ed esplorare il continente africano significava inoltre, scoprire una via alternativa per raggiungere l’Oriente, e mettere le mani sul lucroso commercio delle spezie. Nel XV secolo, tale commercio era ancora controllato e gestito dagli arabi (e anche dai turchi). Spezie come chiodi di garofano, cannella e noce moscata erano merce di lusso, assieme ad altri beni preziosi, come seta e porcellane, reperibili soltanto grazie all’intermediazione degli Arabi. Essi controllavano infatti le comunicazioni e i trasporti marittimi tra Oceano Indiano e Oriente. D’altra parte, sulle coste occidentali africane i portoghesi miravano a controllare il commercio che portava oro, avorio e schiavi. Qui, stabilirono una serie di scali commerciali che trasformarono in delle fortezze, a protezione dei loro traffici. Le loro navi portavano drappi, tessuti e monili di ottone, riportando in patria oro e schiavi acquistati sui mercati o frutto di razzie. La ricerca del metallo prezioso era particolarmente importante per il Portogallo che aveva crescenti difficoltà nella monetazione.  L’espansione portoghese nell’oceano Indiano Il predominio arabo nei commerci delle spezie con l’Oriente cominciò a subire una deviazione quando i portoghesi aprirono nuove rotte.  1487 – Bartolomeu Dias fu il primo a tentare la spedizione in Africa; questi doppiò la punta meridionale dell’Africa, chiamata poi Capo di Buona Speranza.  1497 – Specie in vista dei successi spagnoli grazie ai viaggi di Colombo, i portoghesi miravano a completare la circumnavigazione dell’Africa da tempo progettata. L’impresa iniziata da Dias venne portata a compimento da un nobile, Vasco da Gama, esperto navigatore che dapprima giunse a Malindi (Kenya) e successivamente riuscì a toccare le coste indiane a Calicut (1498) aprendo così l’alternativa via delle Indie. Vasco da Gama riuscì ad ottenere una certa quantità di pepe e cannella, nonostante i burrascosi rapporti con i principi locali, dopodiché fece ritorno a Lisbona l’anno successivo.  La nuova rotta commerciale venne consolidata grazie alla nuova spedizione nel 1500 comandata da Pedro Cabral. La flotta toccò le coste di una terra sconosciuta. Cabral ne prese possesso a nome del Portogallo e venne denominata poi Brazil (probabilmente per via del colore rosso brace degli alberi che ricoprivano le sue coste). A Calicut Cabral vi fondò un emporio commerciale, ottenendo carichi di spezie da portare in patria, grazie ai rapporti commerciali con il sovrano di Cochin (rivale di Calicut). Nonostante l’ostilità dei mercanti arabi e locali, Cabral rispose incendiando alcune navi arabe e bombardando la città.  Nell’oceano Indiano il progetto di mettere le mani sui traffici commerciali fu perseguito con brutale violenza, grazie alla superiorità garantita dalle armi da fuoco. I portoghesi costruirono fortezze per proteggere i loro empori e strinsero o imposero con la forza accordi commerciali con i sovrani locali. Questa fase dell’espansione portoghese culminò con il contributo del governatore Alfonso. Questi occupò Goa, Malacca, e costrinse il sovrano di Calicut a sottomettersi e accettare la presenza di una fortezza portoghese. Con la conquista delle Molucche, l’impero portoghese raggiunse la sua massima espansione, potendo così imporre un controllo militare sul libero commercio nell’oceano Indiano attraverso un sistema di lasciapassare (cartazes). Tuttavia, i portoghesi non riuscirono a bloccare le tradizionali vie commerciali tra l’oceano Indiano 1550, distrussero le civiltà precolombiane con brutale spietatezza, assoggettando al dominio della Spagna un immenso territorio. Cortés e l’assoggettamento degli Aztechi – La prima spedizione fu guidata da Cortès, il quale ricevette dal governatore di Cuba l’incarico di verificare le voci circa l’impero azteco. Nel 1519 Cortès partì dall’isola con 11 navi, circa 500 soldati, 16 cavalli e 14 pezzi di artiglieria. Sbarcò sulla costa messicana e fondò la città di Vera Cruz. Nell’arco di soli tre anni, Cortès si impadronì dell’impero azteco e spartì tra i suoi uomini i possedimenti dell’aristocrazia azteca. Egli infatti assunse la carica di capitano generale della nuova colonia, certamente grazie all’aiuto della tecnologia bellica (armi da fuoco), ma anche grazie all’aiuto di numerosi alleati indios, che erano soliti ribellarsi al dominio azteco al quale erano sottomessi (lo accolsero infatti come un liberatore). Conquista dell’impero inca – Vi furono altre spedizioni verso nord. In particolare, Francesco Pizarro era penetrato nel 1531 nei territori (corrispondenti all’attuale Perù) allora sede dell’impero Inca. L’enorme impero era stato recentemente travagliato e diviso da una guerra civile per il trono, di cui gli spagnoli seppero approfittare catturando l’usurpatore Atahualpa grazie ad un tranello. L’imperatore Atahualpa fu tenuto prigioniero da Pizarro per diversi mesi e, nonostante i tentativi degli inca di liberarlo, venne strangolato. Nello stesso anno, seguirono la presa e il saccheggio della capitale, che segnarono la fine dell’Impero. Pizarro fece costruire la città dei re nel 1535, poi chiamata Lima. La distruzione delle civiltà precolombiane – Una volta terminata l’esplorazione delle nuove terre, era giunto il momento di impadronirsene. La monarchia spagnola affidò il relativo incarico ai “conquistadores”, messi a capo di piccoli eserciti. Il loro obiettivo era di conquistare con la forza e la violenza i nuovi territori e preparare tutto quanto sarebbe servito per accogliere i futuri coloni spagnoli. Essi consentirono la diffusione in Europa del mito che l’America fosse una specie di terra promessa in cui la ricchezza era alla portata di tutti. I conquistadores erano degli “hidalgos” (figli cadetti dei feudatari e quindi esclusi dall’eredità dei propri genitori), abituati fin da piccoli ad essere violenti e fanatici dal punto di vista religioso. I loro comandanti furono: Hernàn Cortés e Francisco Pizarro. Cortès, con inaudita violenza, fu responsabile del crollo dell’impero atzeco. Pizarro, insieme a Diego Almagro, con un uso spietato ed indiscriminato della forza, distrussero l’Impero degli Inca, fondando la città di Lima, come nuova capitale del vicereame spagnolo del Perù. I conquistadores costrinsero gli indigeni alla massacrante raccolta di oro che si trovava solo setacciando l’acqua dei fiumi. A questo tipo di sfruttamento, si aggiunsero le conseguenze di alcune malattie portate dagli Spagnoli, sconosciute in America quali il morbillo, il tifo e la stessa influenza. Non avendo le difese immunitarie necessarie, gli indigeni furono decimati. Per ragioni diverse, e comunque in tempi brevissimi, uno ad un o tutti gli imperi appartenenti alla civiltà precolombiana crollarono: quello atzeco, quello maya e quello inca. Alla loro caduta contribuirono diversi fattori: 1) la superiorità delle armi usate dagli Spagnoli 2) l’uso in battaglia di animali sconosciuti agli indigeni come i cavalli e i cani feroci 3) lo scoraggiamento generale dei popoli indigeni di fronte alle sconfitte e all’uccisione dei loro imperatori che veniva interpretata come un segnale degli dei. L’America spagnola La conquista spagnola cancellò le civiltà degli Indios (come venivano chiamati dagli Spagnoli stessi) e causarono un forte calo demografico. Il lavoro a cui gli indigeni venivano sottoposti era talmente massacrante che molti Indios preferivano lasciarsi morire di fame. Ad un certo punto, la situazione diventò talmente grave che Carlo V, decise di intervenire, modificando in parte le leggi che riguardano il lavoro degli Indios. Però gli effetti pratici delle leggi in difesa degli Indios furono esigui anche perché molto spesso esse non venivano applicate. Al contrario di quando accadde nelle colonie portoghesi, gli Spagnoli si trasferirono in massa nelle nuove terre sostituendo la loro organizzazione sociale e politica a quella degli indigeni. Nelle colonie americane essi deportarono anche gli schiavi neri il cui commercio era particolarmente redditizio, ma degradante.  La struttura amministrativa fu ricalcata sulle istituzioni spagnole: furono creati due vicereami, la Nuova Spagna e il Perù. L’amministrazione della giustizia fu affidata alle audiencias, tribunali regi composti da giudici inviati dalla Spagna. Gli Spagnoli fondarono nuove città su modello di quelle della madrepatria, le quali furono particolarmente utili come strumenti di controllo del territorio e della popolazione indigena che viveva in precedenza dispersa nelle campagne.  L’altra istituzione fondamentale dell’America spagnola, affermatasi sin dall’inizio della colonizzazione, fu l’encomienda, che esportò nel nuovo mondo un modello di derivazione feudale, già adottato durante la reconquista. In America le terre e i popoli conquistati o scoperti erano proprietà della corona, ma il re li concedeva in usufrutto (in commenda) a un encomendero, un conquistador o un colono, il quale poteva esigere dagli indios dei servizi personali, prestazioni di lavoro o tributi; dunque, pur non essendone proprietari, essi avevano il diritto di ricavarne un guadagno. In cambio egli era tenuto a proteggerli e a istruirli nella fede cattolica, oltre a prestare servizio militare al re in caso di richiesta.  Gli spagnoli emigrati in America erano in gran parte uomini, e pochissime donne, un fattore questo che impediva una crescita demografica rapida, per cui non fu molto alto il numero dei creoli (figli di spagnoli nati nel nuovo mondo). Inoltre, c’erano anche molti schiavi africani. Questa condizione determinò sin dall’inizio numerosi incroci tra diversi gruppi etnici. L’economia – Già i viaggi di Colombo portarono semi di piante ed esemplari di animali da introdurre nelle terre scoperte. Gli avventurieri che intrapresero il viaggio per il nuovo mondo, in cerca di fortuna e ricchezze, sfruttarono il dominio sugli uomini, per beneficiare attraverso il lavoro coatto delle risorse del territorio. Esaurita la caccia all’oro dei primi anni, l’economia fu caratterizzata soprattutto dall’allevamento di pecore, buoi e cavalli. L’agricoltura ebbe un minore impatto: in alcune zone, accanto alla coltivazione del mais, fu importata quella del frumento e della segale, e furono portati in Europa l’orzo, il riso e varie piante da frutta. Nelle isole caraibiche si affermò la coltivazione della canna da zucchero. In Europa furono portati dal continente americano numerosi prodotti agricoli, come mais, patata, zucchine e zucca gialla, pomodoro, peperoni, girasoli, cacao, ananas. Va detto anche che inizialmente la Spagna non ricavò le grandi ricchezze promesse da Colombo. Ma la situazione mutò quando, con la scoperta di miniere di oro e di argento, i metalli preziosi divennero la risorsa più importante del nuovo mondo. In particolare, l’impulso alla produzione di argento si deve alla scoperta in Bolivia della ricchissima miniera di Potosì (1545). L’evangelizzazione – Sin dall’inizio le spedizioni portoghesi furono animate dalla volontà di diffondere il cristianesimo, di pari passo all’obiettivo di impadronirsi del commercio orientale. Anche nella colonizzazione del continente americano c’è un legame stretto tra motivazioni economiche e religiose. Già Colombo si sentiva investito dalla missione di salvare le anime degli indigeni educandoli alla religione cristiana. Dunque, sia Spagna che Portogallo improntarono la loro missione religiosa ai principi che avevano già caratterizzato la reconquista, propagando un cristianesimo animato dallo spirito di crociata (uso della forza per ottenere la conversione al proprio credo). Il papato, per’altro, legittimò il diritto di conquista dei due stati iberici in virtù del loro impegno a diffondere il cristianesimo tra i popoli che non lo praticavano; per questo, concesse ai sovrani il pieno controllo delle istituzioni ecclesiastiche nei territori occupati o scoperti. Quanto all’evangelizzazione, la cui responsabilità era affidata agli encomenderos, fu molto spesso un pretesto per giustificare lo sfruttamento degli indios. Si ricorse a battesimi di massa, ai quali gli indios non potevano sottrarsi. Per cui, sopravvissero alcuni vecchi culti clandestinamente. L’IMPATTO DELLA SCOPERTA Le esplorazioni geografiche cancellarono la concezione medievale di un blocco di tre continenti posti nell’emisfero settentrionale e circondato dall’oceano. I progressi nella conoscenza del pianeta superarono il mito dell’antichità classica: i moderni avevano superato le colonne d’Ercole che segnavano il confine del mondo antico e che il Medioevo aveva segnato come un limite oltre il quale non era possibile spingersi. Premesse per il relativismo culturale – Attraverso l’incontro tra due mondi rimasti sconosciuti l’uno all’altro avvenne un evento unico nella storia mondiale. Evento reso possibile specie grazie ai conquistadores, che imposero con brutalità alle popolazioni indigene i modelli istituzionali, sociali, religiosi e culturali del vecchio continente. D’altra parte, il confronto con realtà sconosciute maturò nel pensiero europeo l’esigenza di una riflessione critica sulle proprie radici. Ci si interrogò sulla natura degli abitanti del nuovo mondo, e si sviluppò anche un appassionato dibattito sull’atteggiamento da assumere nei loro confronti. 1) Emblematico è il caso di Bartolomé de Las Casas, voce coraggiosa volta a difendere i diritti degli indios: egli rinunciò all’encomienda ed entrò nell’ordine domenicano per denunciare le violenze dei conquistadores e predicare una evangelizzazione pacifica delle popolazioni indigene. 2) Anche Carlo V promulgò nel 1542 le ‘nuove leggi’, che equiparavano gli indios agli altri sudditi e prescrivevano che si sarebbe dovuto tenere conto delle loro tradizioni e gerarchie interne. Un principio in realtà che non riuscì a comportare l’eliminazione dell’encomienda, in virtù delle violente proteste dei titolari di queste concessioni (culminate in una rivolta in Perù). Carlo comunque dimostrò di avere a cuore la sorte dei sudditi americani, tanto che raccomandò al figlio Filippo di proteggerli dagli abusi. In seguito, Carlo V prescrisse che non si usasse più la parola conquista per indicare i domini spagnoli nel nuovo mondo. 3) A questi tentativi, seguono anche quelli del filosofo Las Cases, il quale ribatté che occorreva avviare con dolcezza i popoli selvaggi e barbari alla civiltà e alla vera fede. Le sue argomentazioni abolivano infatti lo spirito della crociata. Un altro domenicano, de Vitoria, allo stesso modo ribadì che il diritto dei cristiani nel predicare il Vangelo doveva essere perseguito con la ragione e non con la forza. 4) Si aprirono in quegli anni nuovi orizzonti culturali: Michel de Montaigne sostenne la necessità di confrontarsi con gli usi e i costumi dei tanti popoli di cui era composta l’umanità, in modo aperto e privo di pregiudizi, per poter valorizzare la specifica identità di ciascuno. Era la premessa di un relativismo culturale che si sarebbe affermato nel pensiero europeo molto più tardi, nell’età dei Lumi. I caratteri degli abitanti del nuovo mondo cominciarono ad essere resi noti grazie ad alcune testimonianze dei resoconti di Colombo, che delinearono un’immagine pacifica e semplice dei popoli primitivi, in totale armonia con la natura. Si formarono i primi elementi della nozione o mito del buon selvaggio, che poi è stato contrapposto in seguito ai mali del progresso e della civiltà. negargli qualsiasi ruolo: per la sua natura irrimediabilmente corrotta dal peccato originale, le opere dell'uomo apparentemente meritevoli, come atti di pietà e di carità, pratiche di devozione, penitenze, sono inquinate dall'orgoglio, dall'ipocrisia, dall'egoismo. Emerge qui la profondità della religiosità luterana: egli non dà alcun valore a opere compiute per timore di punizione o per desiderio di ricompensa, di malavoglia e per costrizione. La salvezza è un dono di Dio. L'uomo ha in questo un ruolo assolutamente passivo: è la grazia divina che, infondendogli la fede, lo rende giusto e lo chiama alla vita eterna. Non si può sapere chi né perché, ma qualcuno sarà chiamato: questo è scritto nel Vangelo, che diventava così davvero per Lutero, secondo la sua etimologia greca, la "buona novella", promessa di salvezza. Emergeva allora al centro della riflessione di Lutero la figura di Cristo, morto sulla croce proprio per redimere l'umanità dal peccato. E il Dio dell'ira si convertiva nel Dio di misericordia che aveva inviato suo figlio in terra a farsi uomo. Era la teologia della croce, che aprì a Lutero, come egli stesso scrisse, la porta del cielo. Lutero nel 1517 aveva già maturato la sostanza del suo pensiero teologico; egli però non pensava affatto di essersi posto al di fuori della tradizione ecclesiastica. In fondo aveva solo criticato la teologia scolastica, sviluppando una conseguenza del pessimismo di sant'Agostino, che era fra l'altro il padre del suo ordine. Fu un evento occasionale, lo scandalo delle indulgenze, a indurlo a una presa di posizione che sarebbe divenuta poi l'atto di inizio della Riforma. LA QUESTIONE DELLE INDULGENZE Alberto di Hohenzollern nel 1513 per conservare la carica di arcivescovo di Magonza dovette versare una somma anticipatagli dai banchieri Fugger di Augusta. Il papa gli concesse perciò il permesso di lanciare nei suoi territori, confinanti con la regione di Lutero, una campagna di vendita delle indulgenze il cui ricavato sarebbe stato diviso a metà: una parte sarebbe servita ad Alberto per restituire la somma anticipatagli dai banchieri, l'altra parte sarebbe servita a contribuire alla costruzione della basilica di San Pietro a Roma. Lutero probabilmente non conosceva i termini di questa operazione finanziaria, ma, quando vide la spregiudicatezza con la quale i predicatori cercavano di convincere la popolazione ad acquistare le indulgenze, prese posizione con la redazione in latino di 95 tesi che, secondo una tradizione non verificata, affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg alla vigilia di Ognissanti del 1517 (31 ottobre). La pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti dei santi: a questo patrimonio si poteva accedere, attraverso la mediazione della Chiesa, per compensare le colpe dei peccatori, i quali potevano ottenere in tal modo, per sé o per i defunti, la remissione parziale o totale (plenaria) delle pene temporali da scontare in purgatorio. Questo beneficio era per altro condizionato alla contrizione e all'assoluzione in confessione. L'offerta di una somma di denaro, in origine non legata direttamente alla concessione dell'indulgenza, ne divenne invece la condizione essenziale. I predicatori incaricati da Alberto di Hohenzollern di vendere le lettere con il sigillo papale che garantivano l'indulgenza, pur di ottenere maggiori introiti, promettevano ai fedeli non solo la remissione delle pene ma anche il perdono dei peccati, a prescindere da un sincero pentimento, e giunsero ad affermare che nel momento stesso in cui la moneta tintinnava sul fondo della cassa l'anima volava dal purgatorio in paradiso. Lutero condannava le indulgenze perché creavano nel cristiano un atteggiamento sbagliato, lo incitavano a intraprendere una scorciatoia per sfuggire alle sue colpe, mentre invece ogni uomo, consapevole della propria miseria di fronte alla maestà di Dio, doveva innanzitutto maturare un sincero e profondo pentimento per i propri peccati, e quindi cercare e amare le pene: questo ragionamento induceva Lutero a condannare, oltre gli abusi, la pratica stessa delle indulgenze, perché per lui non esisteva alcun tesoro dei meriti dei santi, visto che nessun uomo può avere un merito dinanzi a Dio. La rottura con Roma Lutero, divulgando le sue tesi in latino, intendeva solo promuovere una disputa teologica fra dotti, non certo un atto di ribellione contro Roma. Ma lo scritto, subito tradotto e stampato in tedesco, suscitò nei suoi confronti un vasto consenso in tutti gli ambienti favorevoli alla Riforma della Chiesa e innescò reazioni profonde. Un ruolo decisivo nella diffusione della Riforma ebbe la stampa: i principi essenziali del pensiero di Lutero furono divulgati in forma schematica e semplificata da opuscoli, libelli, manifesti che raggiunsero tutti gli strati della popolazione. Particolarmente importanti furono le immagini, che proposero in forma immediata, anche alla cospicua porzione della popolazione non in grado di leggere, la contrapposizione fra Lutero, raffigurato come il difensore della Germania oppressa dallo sfruttamento di Roma, e il papa presentato come incarnazione di Satana. Negli anni seguenti Lutero elaborò le basi della sua dottrina che riassunse in tre scritti pubblicati nel corso del 1520: in queste opere Lutero rifiutava l'autorità del papa e poneva nella Sacra scrittura la sola guida della Chiesa di Cristo: la Riforma realizzava sul piano religioso quel ritorno alle origini che l'umanesimo aveva promosso sul piano linguistico, culturale e artistico. La parola di Dio era la sola fonte di consolazione e di speranza per il cristiano, che a essa era libero di aggrapparsi senza sottostare ad alcuna Chiesa. Attraverso i due principi fondamentali della sua dottrina, sola fide e sola scriptura, Lutero stabiliva un rapporto diretto e immediato fra l'individuo e la divinità, e abbatteva l'intermediazione della Chiesa sia nella via verso la salvezza sia nella interpretazione della Bibbia. Crollavano così tutto l'apparato istituzionale costruito dalla Chiesa nell'età di mezzo e tutta la costruzione teologica della Scolastica. Furono aboliti il monachesimo e il celibato dei preti (lo stesso Lutero sposò una suora ed ebbe sei figli). Lutero ridusse anche i sacramenti, riconoscendo solo battesimo ed eucarestia, gli unici comprovati dalla Sacra Scrittura. Egli ovviamente negò che al momento dell'elevazione le specie si trasformassero nel corpo e nel sangue di Cristo (transustanziazione), ma ritenne che Cristo, onnipresente, entrasse attraverso il sacramento in comunione con i suoi fedeli, il corpo e il sangue di Cristo erano dunque presenti accanto al pane e al vino (consustanziazione). In base al principio del sacerdozio universale dei credenti, per cui tutti sono fratelli in Cristo, cadde l'idea di un clero dotato di uno status diverso rispetto ai laici: nell'eucarestia a tutti fu concesso il calice. Spariva il purgatorio, la cui invenzione risaliva al XII secolo. La reazione di Roma giunse nel luglio 1520 con la bolla Exsurge Domine che minacciava la scomunica per Lutero se non avesse ritrattato le sue dottrine. Per tutta risposta il riformatore tedesco bruciò sulla pubblica piazza la bolla e il codice di diritto canonico, atto simbolico di rifiuto dell'intera istituzione ecclesiastica. Nel frattempo la situazione in Germania, dove nel 1519 era stato eletto imperatore il giovanissimo Carlo V, era esplosiva. Carlo V acconsentì ad ascoltare il riformatore alla Dieta di Worms il 17 aprile 1521. Al cospetto dell'imperatore, di tutti i principi laici ed ecclesiastici e dei delegati delle città libere dell'impero nonché del nunzio papale, Lutero, alla richiesta di sconfessare gli scritti che aveva pubblicato, riassunse con chiarezza i fondamenti della Riforma: il richiamo all'autorità della Bibbia, unica fonte alla quale il fedele deve ispirarsi, e la libertà della coscienza individuale animata dalla fede, coscienza che impone al cristiano di conformarsi alla parola di Dio. A questo punto Lutero, condannato come eretico e posto al bando dell'impero, venne salvato dal principe Federico il saggio e condotto nel castello della Wartburg, dove vi rimase per circa un anno. I rivolgimenti in Germania Poco dopo esplosero nella società tedesca le tensioni occasionate dal diffondersi della nuova dottrina. I cavalieri ritennero che fosse giunto il momento di mettere le mani sulle proprietà ecclesiastiche, primo passo verso il ripristino della libertà tedesca sotto gli auspici del potere imperiale. Più importanti furono gli sconvolgimenti provocati dalla guerra dei contadini che fra il 1524 e il 1525 infiammò larga parte della Germania. Le rivendicazioni degli insorti sono sintetizzate con efficacia nei dodici articoli dei contadini di Svevia elaborati nel febbraio del 1525: libera elezione dei pastori e riduzione della decima, ripristino delle tradizionali prerogative della comunità di villaggio usurpate dai signori laici ed ecclesiastici (diritti di caccia e pesca, taglio della legna, restituzione delle terre un tempo di proprietà comunale), fissazione di canoni e di servizi di lavoro giusti. Era in fondo il mondo della comunità di villaggio che provava a ripristinare la sua tradizionale autonomia e le sue consuetudini, avviando una rivolta che trovava il suo motivo di coesione nel senso di giustizia e di eguaglianza ispirato dal Vangelo. La protesta voleva essere pacifica, ma non mancarono violenze contro chiese, monasteri e castelli. Fra i predicatori, i capi politici e militari che nelle varie zone guidarono il movimento, si segnala la figura di Thomas Müntzer, un discepolo di Lutero che, staccatosi dalle posizioni del maestro, aveva collegato la riforma religiosa a un profondo rivolgimento sociale che, anche attraverso l'uso della forza, stabilisse il regno della giustizia e della pace. Anticipando un aspetto tipico di alcune correnti radicali della Riforma, Muntzer riteneva che la voce di Dio risuona direttamente nel cuore degli eletti. Come un profeta ispirato dall'illuminazione divina egli prediceva perciò l'avvento in terra del regno di Cristo. Alla rivolta pose fine nel 1525 la disastrosa sconfitta degli insorti nella battaglia di Frankenhausen, in seguito alla quale Thomas Miüntzer fu condannato alla decapitazione. Naturalmente Lutero prese subito le distanze dalle rivendicazioni dei contadini ed esortò i principi a punire i ribelli. Questa reazione era la logica conseguenza delle sue convinzioni: la libertà del cristiano è solamente interiore, la realtà terrena non deve interessarlo più di tanto, perché egli vive nella speranza e nell'attesa di essere accolto nel regno di Cristo che verrà dopo la fine dei tempi. Quindi il cristiano deve in ogni caso obbedienza al potere politico, qualunque esso sia, poiché è stabilito da Dio per mantenere l'ordine. A queste posizioni conservatrici si ispirò l'organizzazione delle comunità luterane. Rimase sempre ben ferma in Lutero la distinzione fra la Chiesa invisibile, composta da quanti sono stati destinati da Dio alla salvezza, e la Chiesa visibile, vale a dire la comunità di coloro che aderiscono a una comune professione di fede. Della prima nessuno poteva essere certo di far parte perché la sua composizione era nei disegni imperscrutabili di Dio; quanto alla seconda, Lutero non le diede grande importanza, dal momento che è impossibile distinguere in essa i veri dai falsi cristiani, i sinceri dagli ipocriti. La Chiesa luterana divenne così una Chiesa di Stato, amministrata da commissioni composte di ecclesiastici e laici che rispondevano in ultima istanza al principe territoriale o al governo cittadino. La polemica con Erasmo Nella crisi che spaccava la cristianità occidentale, Erasmo fu da più parti incitato a intervenire. Egli tergiversò a lungo ma nel settembre 1524 si schierò apertamente contro Lutero pubblicando un opuscolo intitolato De libero arbitrio, al quale il riformatore tedesco rispose con il De servo arbitrio. Rispetto ai tanti temi che lo accostavano al pensiero del riformatore tedesco (il rifiuto degli Ginevra città di Dio – Nel 1541, subito dopo il suo rientro in città, Calvino gettò le basi della Struttura della sua Chiesa. Secondo il modello del Nuovo Testamento, egli istituì quattro ordini: i pastori o ministri (riuniti nella Venerabile compagnia dei pastori, responsabili del culto e della predicazione); i dottori (ai quali era affidata l'educazione e la difesa dell'ortodossia); i diaconi (che si occupavano dell'assistenza ai malati); i dodici anziani laici (presbiteri) con il compito di vigilare sulla vita cristiana del cittadino dei dodici distretti in cui era divisa la città. Gli anziani e i pastori formavano insieme il Concistoro, che esercitava un controllo penetrante, casa per casa, su ogni aspetto della vita morale e sociale e poteva comminare pene di natura ecclesiastica (ammonizione, scomunica) o nei casi più gravi, proclamare l'espulsione o la condanna capitale. Diversamente da Lutero, Calvino garanti quindi l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, che non poteva intromettersi nella vita della comunità riformata. A Ginevra comunque non si stabili una teocrazia, giacché il potere politico e quello religioso rimasero distinti. Il governo fu sempre nelle mani del Piccolo consiglio, espressione del patriziato, e solo dal 1555 i sostenitori della Riforma disposero della maggioranza al suo interno. Lo stesso Calvino solo nel 1559 ottenne lo status di borghese che gli dava il diritto di votare nelle elezioni delle magistrature cittadine. Tuttavia egli, attraverso gli organi della sua Chiesa, impose una rigorosa disciplina, che tese a trasformare la città in una repubblica di santi: fu proibito il gioco con le carte, furono vietati i nomi di battesimo non presenti nella Bibbia, furono puniti i balli immorali, gli abbigliamenti lussuosi o eccentrici, i comportamenti ritenuti non consoni durante la celebrazione della Cena. Lo Stato era responsabile, nella prospettiva calvinista, della realizzazione di questo grandioso progetto di rigenerazione cristiana: vi era quindi una distinzione di compiti fra i due poteri. In tal senso si può parlare, più che di teocrazia, di bibliocrazia, nel senso che la legge della Bibbia fu posta a fondamento di tutta la vita non solo religiosa, ma anche politica, sociale ed economica della città. Calvino quindi attribuiva al potere politico il dovere di ispirare le sue azioni alla parola di Dio, e riteneva anche che fosse legittima la resistenza contro provvedimenti ingiusti, non da parte dei singoli sudditi, ma su iniziativa delle magistrature inferiori. Non mancarono, lungo tutto il corso della vita di Calvino, polemiche e contrasti con le autorità cittadine: molti ambienti, a cominciare da ampi settori del patriziato, manifestarono malumore, e anche aperta ostilità, nei confronti del modello di vita calviniano. Per parte sua Calvino non amò mai particolarmente Ginevra: gli fu completamente estraneo il patriottismo di Zwingli. La sua azione riformatrice si legò in modo indissolubile alla città anche perché si impose come la principale garante della sua autonomia: Ginevra, che solo nel 1815 sarebbe entrata a far parte della Confederazione elvetica, grazie all'adesione alla Riforma si costituì in repubblica indipendente. La progressiva identificazione di Ginevra con la fede calvinista fu dovuta in misura notevole anche sella sua composizione demografica: molti cattolici e dissensenti furono espulsi, mentre giunse un consistente flusso di profughi fuggiti dalla Spagna, dalla Francia e dall'Italia per scottarsi alla persecuzione. Il caso Serveto – L'intransigenza mostrata nei confronti degli oppositori e dei dissidenti era particolarmente profonda. In particolare le posizioni contrarie alla dottrina ortodossa erano considerate da lui uno strumento di Satana per combattere la gloria di Dio e per minare l'unità e la forza della Chiesa. In questa prospettiva si spiega l'esecuzione capitale di Miguel Serveto, medico spagnolo che aveva divulgato in precedenza posizioni contrarie al dogma della trinità. Di passaggio a Ginevra, fu riconosciuto e denunciato e, dopo un processo, bruciato vivo nel 1553 per anabattismo e antitrinitarismo. La sentenza fu formalmente emessa da un magistrato civile, il Piccolo consiglio, ma Calvino, interpellato come teologo, si pronunciò a favore della condanna capitale. L'episodio ebbe una grande eco in tutta Europa e innescò un'aspra polemica fra il riformatore e numerosi dissidenti, molti dei quali italiani, che criticarono l'uso della violenza in materia di fede, contrario allo spirito di Cristo. Geografia della Riforma La diffusione del luteranesimo in Germania fu sicuramente favorita dal fatto che esso dava la possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della Chiesa e ai feudatari ecclesiastici di secolarizzare i loro beni dando vita con essi a dei principati laici. D'altra parte la guerra dei contadini provocò un certo arresto della sua espansione in Germania per il timore di rivolgimenti sociali che si diffuse nella nobiltà e nella borghesia cittadina. Il cattolicesimo quindi dopo il 1525 tornò a diffondersi in varie zone toccate dalla Riforma e rimase comunque saldamente stabilito in buona parte della Germania meridionale. Convinto che la corona imperiale gli assegnasse la missione universale di ripristinare l'unità della cristianità, Carlo V si impegnò con ogni mezzo per superare la divisione religiosa della Germania, che rappresentava del resto un oggettivo fattore di indebolimento della sua azione politica. Dopo avere sconfitto la Francia e ottenuto il controllo dell'Italia, egli minacciò alla Dieta di Spira del 1529 di rimettere in vigore gli editti contro il luteranesimo approvati alla Dieta di Worms. Contro questo disegno si alzò la protesta di sei principi e di 14 città che avevano aderito alla Riforma. Entrò in uso allora il nome di protestanti per i seguaci delle nuove dottrine. L'anno seguente alla Dieta di Augusta il principale collaboratore di Lutero, Filippo Melantone, presentò, in vista di un tentativo di conciliazione, una versione particolarmente moderata dei principi della teologia luterana, la Confessio augustana. Caduta, dopo diversi mesi di trattativa, ogni possibilità di accordo per l'intransigenza dei cattolici, i principi luterani rifiutarono l'invito di Carlo V a sottomettersi e si unirono nel 1531 nella Lega di Smalcalda, guidata dai duchi di Sassonia e di Assia. Il luteranesimo si stabili anche nell'Europa settentrionale, dove dal 1397 l'unione di Kalmar aveva istituito, sotto l'egemonia danese, un legame personale fra i tre regni di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il passaggio alla Riforma di queste regioni fu dovuto in origine a motivazioni soprattutto politiche, legate alla volontà dei sovrani di incamerare i beni della Chiesa e di controllare le nomine ecclesiastiche. Nel 1523 la Svezia si sollevò contro il re di Danimarca Cristiano II, che si era reso responsabile nel 1520 del massacro dei suoi oppositori a Stoccolma, e si dichiarò indipendente affidando la corona a Gustavo Vasa. Il nuovo sovrano si impadronì dei beni del clero e nel 1527 favori la costituzione della prima Chiesa nazionale protestante. In realtà il luteranesimo si affermò solo col tempo, e non senza resistenze, nella coscienza della popolazione in Svezia e nella Finlandia soggetta alla corona svedese. Con Cristiano III (1533-1559), di fede protestante, il luteranesimo fu proclamato nel 1536 religione di Stato. La Chiesa lurerana fu imposta con forza alla Norvegia e all'Islanda, rimaste legate al cattolicesimo. Anche il calvinismo ebbe ampia diffusione, in virtù dell'attivismo che si sposava con la concezione stessa della Chiesa calvinista. Oltre che in Germania, anche in Francia si diffusero le chiese riformate, dove i loro adepti furono chiamati ugonotti e divennero protagonisti delle guerre di religione che dilaniarono il regno nella seconda metà del Cinquecento. Nei Paesi Bassi animarono la loro lotta contro il predominio spagnolo. Una notevole diffusione del calvinismo si ebbe in Ungheria, in Polonia, e in Boemia. In Inghilterra invece si diffuse una corrente ispirata al calvinismo (sotto il regno di Elisabetta I), che per il suo rigoroso moralismo fu detta puritanesimo; in Scozia il calvinismo divenne religione nazionale. CAPITOLO 12 – LE ‘HORRIBILI’ GUERRE D’ITALIA (1494-1530) A partire dalla discesa di Carlo VIII di Francia in Italia, nel 1494, la penisola italiana divenne il campo di battaglia per il predominio in Europa. Una prima fase della guerra si concluse nel 1516 con la pace di Noyon che dava il possesso del ducato di Milano alla Francia e del regno di Napoli alla Spagna. Francesco I, salito al trono di Francia nel 1515, e Carlo di Asburgo, re di Spagna e presto imperatore del Sacro romano impero, furono i due protagonisti del lungo conflitto che diede vita alla fase più acuta e drammatica delle guerre d’Italia, conclusasi nel 1530 con l’affermazione del predominio spagnolo in Italia, sancito dall’incoronazione imperiale di Carlo V a Bologna. La caduta nel 1530 della seconda repubblica fiorentina con il conseguente stabilimento dei Medici rappresentò l’ultimo atto della crisi comunale. LA PENISOLA ITALIANA NEL XV SECOLO Dopo la pace di Lodi (1454) il quadro politico italiano rimase incentrato per circa un cinquantennio sull’equilibrio stabilitosi fra i cinque maggiori Stati: il regno di Napoli, lo Stato della Chiesa, il ducato di Milano, la repubblica fiorentina e la repubblica veneziana. Regno di Napoli – Era passato nel 1458 a Ferdinando I d’Aragona, i cui tentativi di rafforzare l’apparato amministrativo e politico del regno si scontrarono con l’opposizione dei potenti baroni che spadroneggiavano nelle province. Nel 1485 i baroni organizzarono una congiura che fu duramente repressa, nella speranza di abbattere la dinastia aragonese. Stato della Chiesa – Rientrati a Roma (dopo lo scisma d’Occidente) nel 1420, i papi si impegnarono per ristabilire il proprio dominio temporale sia nella capitale (dove il loro potere era limitato dalle importanti famiglie dell’aristocrazia romana, come gli Orsini e i Colonna), sia nel territorio dello Stato (dove alcune città come Bologna e Perugia, affidate a signorotti locali, erano diventate di fatto autonome). Cosicché la politica pontificia mantenne saldo l’obiettivo di assicurarsi un equilibrio politico fra gli stati italiani e più in generale a livello europeo, in modo che il papa potesse svolgere una funzione di mediazione e consolidare il proprio potere sia come capo della cattolicità che come sovrano temporale. E’ proprio per questo motivo che Roma ostacolò sistematicamente gli stati italiani più forti, una strategia che si intrecciò con la tendenza da parte dei papi a favorire la propria famiglia di appartenenza. Essendo che il pontificato era elettivo, molti papi cercarono di dare continuità al potere familiare nominando, spesso in giovanissima età, un proprio nipote come erede. A questo ‘piccolo nepotismo’ si affiancò il cosiddetto ‘grande nepotismo’, ossia il tentativo di alcuni papi di creare uno Stato autonomo da affidare a qualcuno dei membri della propria casata. E’ il caso di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), il quale tentò con ogni mezzo di utilizzare il proprio potere in favore dei figli, e in particolare per erigere uno Stato per il prediletto Cesare Borgia. Ducato di Milano – Lo stato di Milano, nato dall’evoluzione dell’esperienza comunale, comprendeva nove province: Milano, Pavia, Lodi, Cremona, Como, Novara, Tortona, Alessandria e Vigevano. Passato alla metà del XV secolo dai Visconti a Francesco Sforza, lo stato milanese rappresenta un nodo cruciale della supremazia in Europa. Repubblica di Firenze – Si era manifestata un’evoluzione delle istituzioni comunali verso un regime oligarchico caratterizzato dal predominio di un gruppo ristretto di famiglie. Dal 1434 si affermò in città l’egemonia di una famiglia arricchitasi con l’attività bancaria, i Medici, che acquisì una sorta di signoria di fatto grazie all’opera di Cosimo il vecchio: questi acquisì il controllo delle Fuori i barbari – Ripristinato il potere nella Romagna, Giulio II pose le sue mire sul ducato di Ferrara (che considerava feudo pontificio e che era sostenuto dalla Francia). Egli si accordò dunque con la Confederazione elvetica contro Luigi XII. Questi reagì convocando un concilio a Pisa per deporre Giulio II. Il papa a sua volta organizza a Roma il V concilio lateranense, e organizzò contro la Francia un’ampia coalizione, la lega santa, che univa svizzeri, Venezia, Ferdinando il cattolico e il re d’Inghilterra. L’iniziativa fu giustificata dal papa con la parola d’ordine ‘fuori i barbari!’, ma certo non era in gioco la liberazione del territorio italiano dallo straniero, poiché il fulcro della coalizione era la Spagna. Sul piano militare la Francia sconfisse le forze nemiche nella battaglia di Ravenna (1512), ma l’arrivo di un corpo di spedizione della Configurazione elvetica costrinse Luigi XII ad abbandonare Milano, dove vi rientrò, protetto dagli svizzeri, il figlio di L. il Moro, Massimiliano. Inoltre, Ferdinando il cattolico occupò il regno di Navarra, alleato della Francia (1512). La sconfitta francese segnò anche la fine della prima repubblica fiorentina, che era nata e si era mantenuta all’ombra della Francia. Un corpo di spedizione spagnolo ristabilì a Prato la signoria dei Medici, che rinsaldò il suo potere alla morte di Giulio II, con l’elezione di papa Leone X (figlio di Lorenzo il magnifico). La conclusione della prima fase delle guerre d’Italia Nel 1515 Luigi XII morì senza eredi diretti, per cui il trono francese passò a Francesco I di Valois- Angouleme. Il giovane sovrano scese in Italia con un forte esercito e sconfisse le truppe messe insieme da Spagna, impero e ducato di Milano (battaglia di Marignano). I mercenari svizzeri, che costituivano il nerbo della coalizione, vennero sconfitti. Nel 1516 la Francia rioccupò Milano e stipulò con gli svizzeri un trattato di pace perpetua, i quali furono destinati ad occupare Locarno (stabilendo il confine rimasto quasi invariato fino ad oggi). La pace di Noyon nello stesso anno sancì l’equilibrio lasciando i francesi a Milano e gli spagnoli a Napoli. Intanto, Carlo d’Asburgo, nipote dell’imperatore Massimiliano, divenuto maggiorenne, assume il governo dei Paesi Bassi ed eredita il trono di Spagna (alla morte del nonno materno Ferdinando). Insieme a Francesco I, sarà il protagonista del duello franco-asburgico per il controllo della penisola e per la supremazia in Europa. Carlo V – Carlo d’Asburgo nacque da Filippo il bello (figlio di Massimiliano I e di Maria di Borgogna) e da Giovanna di Castiglia (figlia di sovrani spagnoli). Carlo visse nelle Fiandre (a differenza di suo fratello Ferdinando cresciuto in Spagna presso i nonni materni) e si formò dunque in un ambiente dominato dagli ideali cavallereschi della tradizione borgognona. Alla morte improvvisa di Filippo il Bello (1506), Carlo diviene sovrano dei Paesi Bassi (retti in suo nome dalla zia Margherita d’Austria). Nel 1516, alla morte del nonno materno Ferdinando, Carlo viene proclamato a Bruxelles re di Spagna, nonostante l'erede legittima della corona castigliana era pur sempre sua madre Giovanna, impossibilitata a regnare a causa della sua follia. Nel 1519, con la morte del nonno paterno Massimiliano I, Carlo acquisì i domini austriaci ereditari, e inoltre si aprì il problema della successione imperiale, alla quale il giovane Asburgo era ovviamente il naturale candidato. Così nel 1519 egli fu eletto all'unanimità e assunse con il nome di Carlo V anche il titolo di Imperatore del Sacro romano impero. Circa la Spagna Carlo dovette confrontarsi una difficile realtà, caratterizzata da uno Stato formato da due regni distinti e attraversato da conflitti religiosi- sociali e da forti tensioni autonomistiche. L’impatto di Carlo non fu positivo: egli era un'adolescente straniero che non parlava il castigliano, mal visto dagli spagnoli. Tra l’altro, le Cortes castigliane opposero resistenza alle richieste di sostegno finanziario da parte di Carlo. Esplose allora il malumore degli spagnoli con la rivolta delle città, detta appunto dei comuneros: si trattò di un moto autonomistico che intendeva difendere le prerogative della comunità contro i funzionari regi che le limitavano. Il movimento chiedeva anche l'indipendenza delle Cortes. La rivolta si estese rapidamente e assunse una matrice popolare, avanzando rivendicazioni di ordine sociale contro il potere dei nobili e dei ricchi. La sconfitta degli insorti a Villalar (1521) segnò la fine del movimento, ma Carlo V comprese la necessità di tenere conto delle tradizioni e della specifica realtà del Regno spagnolo, che si sarebbe rilevato negli anni seguenti la base più solida del suo potere . Lasciata la Spagna, le altre minacce erano rappresentate anzitutto dal pericolo cui andava incontro l'unità religiosa della Germania, minacciata dal dilagare della rivolta promossa da Lutero. Mentre Francesco I era visibilmente intenzionato a dare battaglia per assicurarsi l'espansione della Francia visto che, accerchiato dai domini asburgici, si vedeva preclusa l'espansione verso il Reno e verso l'Italia. Carlo si garantì l'alleanza dell'Inghilterra e del Papa Leone X, e decise nel 1522 di lasciare i domini ereditari al fratello Ferdinando, che sarebbe stato in sua assenza luogotenente dell'Impero. La ripresa della guerra in Italia Francesco I prese l'iniziativa attaccando senza successo sui Pirenei e Lussemburgo. La guerra si spostò poi in Italia, dove la sconfitta della Bicocca obbligò i francesi a lasciare lo stato di Milano. Nel contempo si ebbero altri due eventi favorevoli alla causa asburgica: l’elezione di papa Adriano VI, precettore di Carlo, e inoltre la defezione del comandante generale dell'esercito francese, Carlo di Borbone che, in urto con Francesco, passò al servizio dell'Impero. Tuttavia, con un notevole sforzo finanziario, il re di Francia riuscì a mettere insieme un nuovo forte esercito con il quale scese in Italia e nel 1524 si impadronì nuovamente di Milano; quindi, pose l'assedio a Pavia, nodo strategico per le comunicazioni con Genova e con la Francia e si preparò ad una spedizione verso il Regno di Napoli. L'assedio durò circa quattro mesi e ciò consentì l'arrivo dalla Germania di rinforzi che attaccarono l'esercito francese. Fu per Francesco I una vera disfatta: lui stesso fu ferito e fatto prigioniero, poi costretto a firmare un umiliante trattato con il quale rinunciava ad ogni pretesa in Italia e nelle Fiandre e si impegnava a cedere la Borgogna, lasciando in ostaggio i suoi figli. Tuttavia, una volta ottenuta la libertà, egli organizzò una coalizione, la Lega di Cognac con tutti gli Stati che erano intimoriti dal potere asburgico: il re d’Inghilterra, il nuovo Papa Clemente VII Medici, Firenze, la Repubblica di Venezia e il duca di Milano, Francesco II Sforza. In pochi mesi, Carlo V era passato dal successo di Pavia ad una situazione difficile. Il sacco di Roma – Tuttavia, giocarono a favore di Carlo le divisioni e le reciproche diffidenze che minavano la Lega di Cognac e che impedirono un'efficace risposta all'offensiva delle truppe imperiali: queste occuparono Milano. costringendo il duca Francesco II Sforza alla resa. Carlo lanciò un'ulteriore offensiva contro le forze della Lega, inviando in Italia a un corpo di spedizione di 12.000 lanzichenecchi, al quale i coalizzati non imposero in pratica alcuna resistenza, eccetto un condottiero al servizio del Papa, Giovanni dei Medici (chiamato dai colori delle sue armi Giovanni dalle bande nere) che si scontrò con i tedeschi, rimanendo ucciso. I lanzichenecchi giunsero così fin sotto le mura di Roma, mentre Clemente VII e i cardinali si rifugiarono in Castel Sant'Angelo. Ma poi, con l’uccisione di Borbone, le truppe da tempo prive di paga e di bottino, rimaste senza guida, entrarono in città abbandonandosi ad un terribile saccheggio: gran parte dei palazzi fu distrutta dagli incendi e la popolazione si dimezzò anche a causa di un'epidemia di peste. L'evento suscitò una emozione straordinaria tra i contemporanei: condotto da truppe in gran parte di fede luterana, il sacco fu interpretato da molti come una punizione divina per la corruzione della Chiesa. Quando la notizia giunse a Firenze l'oligarchia cacciò i Medici dalla città e instaurò la seconda repubblica fiorentina (1527-30). Andrea Doria e la repubblica di Genova – Francesco I riprese l'offensiva inviando un esercito che occupò Genova, e proseguì verso Sud con lo scopo di cacciare gli spagnoli da Napoli. La capitale fu assediata, ma dal mare era bloccata dalla flotta dell'ammiraglio genovese Andrea Doria. L'impresa fallì proprio per il passaggio di campo di quest'ultimo che tolse improvvisamente il blocco navale di Napoli. Privo di sostegno dal mare e colpito da un'epidemia di tifo, il corpo di spedizione francese dovette ritirarsi. Membro di una delle più antiche famiglie genovesi, Andrea Doria era un imprenditore della guerra, proprietario di una flotta: la sua scelta di lasciare il servizio di Francesco I per passare dalla parte di Carlo V (che lo nominò ammiraglio della flotta del Mediterraneo) fu dovuta anzitutto ad un interesse strettamente personale, ma anche alla volontà di realizzare un decisivo cambiamento della situazione politica della sua città. Porto naturale di Milano, Genova era stata coinvolta nella contesa franco-imperiale per il possesso di quello Stato e si era trovata perciò di volta in volta alla mercè del vincitore di turno. Nel 1528 Andrea Doria sbarcò a Genova e di fatto se ne impadronì, sentendosi come il restauratore della libertà cittadina. Da quel momento Genova rimase vincolata all'alleanza della Spagna, garante della sua indipendenza. Nel frattempo, Doria iniziò una riforma delle istituzioni cittadine che diede vita a una repubblica oligarchica sul modello veneziano. La svolta operata da Andrea Doria ebbe un impatto decisivo sul conflitto, perché diede a Carlo V una potenza navale alla quale la marina francese non era in grado di opporsi. La pace delle due dame La guerra proseguì ancora finché, fallita anche l'ultima offensiva francese in Italia, si giunse nel 1529 alla pace di Cambrai, detta anche pace delle due dame (perché negoziata dalla madre di Francesco I, Luisa di Savoia e dalla zia di Carlo V, Margherita d'Austria). La Francia rinunciava a ogni pretesa nella penisola, pur conservando la Borgogna; a Francesco I furono restituiti i figli dati in ostaggio in precedenza. Carlo V aveva raggiunto un accordo con il papa Clemente VII, il quale gli diede l'investitura del Regno di Napoli e acconsenti ad un’incorporazione nei domini asburgici dello Stato di Milano. In cambio Carlo V si impegnò a restaurare il dominio dei Medici a Firenze (principale obiettivo del papa). La pace delle due Dame fu confermata nel Congresso di Bologna che riorganizzò il quadro politico della penisola. Il Papa Clemente VII nella basilica di San Pietro incoronò Carlo V imperatore e re d'Italia il 24 febbraio 1530. Dopo un lungo assedio da parte delle truppe imperiali Firenze (che aveva tra i suoi difensori anche Michelangelo Buonarroti) dovette arrendersi, nell'agosto 1530: il potere fu dato ad Alessandro dei Medici che ebbe da Carlo V il titolo di duca. Così si realizzò anche a Firenze la transizione dal regime repubblicano al principato. LE ABDICAZIONI Di fronte alla prospettiva di un'alleanza tra tutti i suoi disparati nemici, e dopo un nuovo conflitto con la Francia, Carlo V abdicò nel 1556, consapevole del fallimento del progetto di restaurare un impero universale. Egli decise di separare i possedimenti spagnoli da quelli tedeschi, dividendoli tra suo figlio Filippo II di Spagna (che ottenne Spagna, Paesi Bassi, Napoli, Sicilia e Sardegna, oltre alle colonie americane) e suo fratello Ferdinando I d'Austria (che ricevette Austria, Croazia, Boemia, Ungheria e il titolo di imperatore). Il Ducato di Milano e i Paesi Bassi furono lasciati in un'unione personale al re di Spagna, ma continuarono a far parte del Sacro Romano Impero. Carlo V si ritirò nel 1557 in Spagna presso il monastero di Yuste, dove morì un anno dopo, avendo abbandonato il sogno dell'impero universale di fronte alla prospettiva del pluralismo religioso e all'emergere delle monarchie nazionali. I successori di Carlo V ereditarono anche i nemici dell’imperatore. Nel 1557 scoppiò l’ultima guerra d’Italia, che coinvolse ancora Francia e Spagna. Nell’aprile 1559 la pace di Cateau Cambrésis segnò l’inizio della dominazione spagnola in Italia, che durò fino al 1713. Alla Spagna fu riconosciuto il dominio sull’Italia, alla Francia il possesso di Calais, Metz, Toul e Verdun, di alcune città del Piemonte (fra cui Torino) e del Marchesato di Saluzzo. La Savoia fu attribuita a Emanuele Filiberto. L’accordo fu suggellato da due matrimoni dinastici: quello di Filippo II con la figlia del re di Francia Enrico II, Elisabetta, e quello di Emanuele Filiberto con la sorella di Enrico II, Margherita. CAPITOLO 14 – L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA Quando Lutero divulgò le sue tesi, da tempo era viva in molti ambienti l'aspirazione ad una profonda riforma della Chiesa. Queste correnti, che si sforzarono di mantenere aperto un dialogo con i protestanti, furono sconfitte dall'ala intransigente della curia, decisa a promuovere una lotta senza quartiere contro l'eresia. La creazione della Congregazione del Sant'Uffizio dell'Inquisizione nel 1542 diede avvio all'epoca della Controriforma. La Chiesa di Roma attraverso l'Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti, estirpò dall'Italia l'eresia protestante e impose sul mondo cattolico un rigoroso disciplinamento dei comportamenti e un penetrante controllo della vita culturale e sociale. Il Concilio di Trento, svoltosi in tre fasi tra il 1545 e il 1563, fu controllato dal papa che si impose come capo assoluto del cattolicesimo. Il Concilio oltre a condannare l'eresia protestante, pose anche le basi per un rinnovamento della compagine ecclesiastica, ma le istanze riformatrici furono depotenziate e irreggimentate nell'assetto verticistico assunto dalla Chiesa di Roma. CONTRORIFORMA ED ERESIA Il termine Controriforma entrò in uso alla fine del XVIII secolo per designare il processo con cui un territorio passato alla fede protestante era ricondotto con la forza all'obbedienza verso Roma. In seguito, il concetto si ampliò e indicò non solo l'azione di contrasto alla diffusione delle dottrine riformate, ma anche l'opera di rinnovamento della Chiesa cattolica, culminata nel Concilio di Trento. Restava comunque anche in questa accezione più ampia una parte del significato originario, ossia l'idea che si fosse trattato soprattutto di una risposta alla rivolta innescata da Lutero. Questa tradizionale considerazione è stata criticata dalla storiografia di orientamento cattolico, che ha mostrato come nell'ambito del cattolicesimo fossero vive, ben prima della rivolta luterana, aspirazioni a un rinnovamento interno e ha proposto perciò la nozione di Riforma cattolica, intesa come un movimento autonomo e distinto dalla Controriforma. In tal senso bisognerebbe parlare non di Riforma, ma di Riforme, ciascuna interprete in modi diversi di un comune bisogno di rinascita della spiritualità cristiana. La ricerca storica di questi ultimi anni ha studiato i processi di trasformazione della Chiesa in tutti i suoi molteplici aspetti e ha messo in luce l'aspro conflitto tra quanti volevano riformare la Chiesa per riportare nel suo seno i protestanti e gli ambienti che perseguivano innanzitutto una dura repressione dell'eresia: furono queste ultime le forze a prevalere, imponendo il controllo della società attraverso un rafforzamento dell'autorità del papato. Per questo motivo, sembrerebbe preferibile continuare a usare il termine classico di Controriforma, arricchito e approfondito dalla considerazione dello sviluppo di virtù cristiane e di impegno pastorale che animò il mondo cattolico. Il concetto di eresia, parola di origine greca, vuol dire “scelta, presa di posizione” e ha in sé una connotazione negativa sulla base della convinzione che l'uomo, se nelle cose divine vuole scegliere, affidandosi alla propria ragione, va necessariamente incontro all'errore. In seguito, la parola al plurale indicò non solo le dottrine erronee, ma anche i gruppi o le sette che le adottavano. Il codice di diritto canonico definisce ‘eretico’ chi, dopo aver ricevuto il battesimo, nega qualcuna delle verità che si devono credere per fede divina e cattolica, o dubita di essa. L'eretico deve quindi essere battezzato e continuare a professarsi cristiano, e poi essere ostinato nel confermare le sue convinzioni. Gli era offerta quindi la possibilità di abiurare (negare) con giuramento le idee per le quali era inquisito. L'eresia non può essere considerata come un dato assoluto, ma è relativa alle specifiche circostanze in cui essa si afferma: eretico è colui che in un dato momento storico viene giudicato tale da un'autorità ecclesiastica. La validità di tale condanna dipende dai rapporti di forza tra l’istituzione e i fautori delle dottrine eretiche. Dall'eresia si distinguono lo scisma (che implica la separazione dal corpo della Chiesa) e l'apostasia (che comporta il rifiuto individuale dell'insegnamento cristiano). ASPIRAZIONI DI RIFORMA E GLI ORDINI RELIGIOSI Il desiderio di riforma della Chiesa e della sua missione pastorale era vivo ben prima della protesta di Lutero: a partire dal profetismo di Savonarola, la cui eco non si spense con la sua morte e continuò ad essere viva e operante nei primi decenni del Cinquecento, alla quale è da aggiungere anche la grande influenza esercitata sulla cultura europea dall'Umanesimo cristiano di Erasmo. Peraltro, anche nella massa dei fedeli, provata dalle guerre e dalle difficoltà dell'esistenza, nacque in quegli anni l'aspirazione ad una religiosità vicina allo spirito evangelico. Nel Concilio Lateranense V, convocato da Giulio II, si affermò l'urgente necessità di una riforma della Chiesa che avrebbe dovuto interessare non la struttura e l'apparato dogmatico, ma gli uomini: vale a dire la formazione e la qualità morale degli ecclesiastici. Il diffuso e sentito bisogno di rinnovamento della Chiesa è dimostrato anche dalla nascita di molti nuovi ordini religiosi impegnati nella società: sorti da iniziative spontanee, maturate nel corpo della cristianità, che furono approvate e adottate dall'autorità ecclesiastica. Sorsero diverse confraternite nelle città italiane tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo dedite a opere di carità e di devozione, animate dalla fiducia nella infinita misericordia divina. Dalla grande tradizione francescana nacquero, nel 1528, i cappuccini (detti così dal semplice abito col cappuccio che intendeva incarnare il modello del poverello di Assisi). Ricordiamo inoltre i teatini (dediti alla cura delle anime); i barnabiti, affiancati dal ramo femminile delle angeliche; e i somaschi (attivi nell'assistenza materiale e spirituale ai poveri e ai malati); tra gli ordini femminili c'erano invece le orsoline (votate alla carità). Gesuiti – L'ordine più importante sorto nella prima metà del Cinquecento e destinato a svolgere un ruolo decisivo nell'età della Controriforma è la compagnia di Gesù, fondata nel 1534 a Parigi dallo spagnolo Ignazio di Loyola: questi, costretto ad abbandonare la carriera delle armi, a causa di una grave ferita, mise la sua volontà al servizio della fede cristiana. Ai tre voti tipici della scelta monastica (povertà, castità e obbedienza) i Gesuiti ne aggiunsero un quarto: l'assoluta obbedienza al papa. Giacché il capo dell'ordine (detto generale) dipendeva direttamente dal pontefice; nel 1541 fu eletto alla carica Loyola. Il Gesuita entrava nella compagnia dopo un lungo e rigoroso noviziato, nel quale imparava ad annichilire la propria volontà e la propria personalità, preparandosi ad ubbidire ai propri superiori come un corpo ‘morto’. I metodi per vincere la propria volontà e per ordinare ogni atto alla disciplina e al perfezionamento della vita cristiana furono esposti da Loyola negli Esercizi Spirituali, che prevedevano un controllo quotidiano attraverso un esame di coscienza dei progressi fatti nel superamento dei difetti e nella correzione dei peccati. I Gesuiti furono attivi innanzitutto nell'istruzione: nei loro collegi si formarono i rampolli delle casate aristocratiche e delle famiglie più ricche. L'ordinamento degli studi (elaborato nel 1599) forniva un'educazione severa e di alto livello, basata sullo studio del latino e della retorica, e sulla dottrina cattolica. I Gesuiti ebbero anche un notevole peso politico, in quanto furono spesso confessori e consiglieri di sovrani e principi. Essi tra l'altro si impegnarono nell’attività missionaria per la diffusione del cristianesimo. LA DIFFUSIONE DELLA RIFORMA IN ITALIA E LA LOTTA PER IL CONCILIO 1) Carlo V si impegnò ripetutamente al fine di indurre i papi a convocare un concilio, dal quale egli sperava che i conflitti religiosi che dilaniavano l'Europa (in particolare la Germania) venissero
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