Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Storia Moderna - Vittorio Criscuolo, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto di tutti i capitoli del libro di Storia Moderna di Vittorio Criscuolo.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 05/11/2021

studente.unina
studente.unina 🇮🇹

4.4

(45)

20 documenti

1 / 262

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Storia Moderna - Vittorio Criscuolo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! STORIA MODERNA =» CAPITOLO 1 - L’ECLISSI DELLA MODERNITA*”. La periodizzazione dell'età moderna è stata al centro di un vivace dibattito storiografico che ne ha messo in luce progressivamente i limiti: radicata nella storia dell'Europa occidentale, essa non ha molto significato per le altre parti del globo e risulta perciò inadeguata nella prospettiva di una storiografia che intende ampliare il suo orizzonte all'intero pianeta; mentre, per quanto riguarda, l'Occidente essa conserva una sua validità per ciò che concerne l’arte, la cultura, la vita religiosa e politica, ma non ha molto rilievo in relazione all'andamento della popolazione o della realtà economico-sociale. Nello sviluppo della civiltà si è definito moderno ciò che in ogni momento faceva segnare un avanzamento rispetto a un passato da superare: il termine, ad oggi, appare svuotato e non privo di ambiguità. 1.1 I limiti dell’età moderna. Nel suo ultimo libro, il grande medievista francese Jacques Le Goff si interrogava sull’utilità e sulla legittimità delle periodizzazioni, soffermandosi sulla frattura fra Medioevo e Rinascimento. La parola “periodizzazione” indica una suddivisione del processo storico in fasi o in epoche che si ritiene di poter individuare e distinguere con chiarezza per le loro caratteristiche o per le varie trasformazioni che hanno prodotto in un ambito specifico (ad esempio, nella dinamica economica, nella realtà sociale, nella vita culturale o religiosa). In ogni caso è bene essere consapevoli che ogni periodizzazione non è mai neutra, ma presuppone sempre, un’interpretazione, ovvero un punto di vista particolare che coglie e mette in risalto alcuni aspetti dello svolgimento storico ma ne trascura o ne lascia in ombra altri. L'inizio della storia moderna viene ricondotto per lo più al 1492 (anno della scoperta dell'America), ma si tratta di una scelta convenzionale. Più che una data specifica, il punto di partenza dell'età moderna deve essere ricondotto a uno spazio di tempo compreso fra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, che fu caratterizzato da una serie di trasformazioni e di innovazioni di tale portata da far segnare una svolta o una rottura nella continuità del processo storico. Il problema del punto di arrivo si è posto quando dalla storia moderna si è staccata la storia contemporanea, la quale a partire dal 1961 ha trovato posto anch'essa nell'ordinamento delle università italiane: il trapasso dall'età moderna a quella contemporanea può essere collocato fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, quando l'avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra e la caduta dell’antico regime per opera della rivoluzione francese modificarono profondamente la realtà economico-sociale, politica e culturale dell'Europa occidentale. A questo riguardo va segnalato che in Inghilterra e in Germania, a differenza che in Italia, si distingue una prima età moderna (fino al 1815) e da una tarda modernità ottocentesca che fa da avvio all'avvento della contemporaneità. 1.2 Moderno. Il termine modernus comparve fra la fine del V e l’inizio del VI secolo, come derivazione dall’avverbio modo, che vuol dire “recentemente, ora”. Esso comparve in una lettera scritta da Cassiodoro a nome del re dei goti Teodorico per dare l’incarico di restaurare il teatro di Pompeo. Quando Cassiodoro scriveva questa lettera erano passati pochi decenni dal 476 d.C (deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre) e da qua ci fu la nascita di “moderno” come aggettivo sostantivato per designare i contemporanei. Furono, però, soprattutto gli umanisti che a partire dal XV secolo manifestarono la convinzione che stesse nascendo una nuova età, nella quale sarebbero ritornati attuali i grandi modelli dell'antichità greco-romana dopo un periodo intermedio, la media aetas, che ne aveva invece trascurato i valori fondamentali. Il programma dell’umanesimo presupponeva l’idea di progresso, un progresso concepito come rinascita della grande lezione degli antichi in ogni campo: nell'arte, nella letteratura, nella filosofia e infine, anche nella politica. Un ulteriore passo verso la costruzione del paradigma della modernità si ebbe con la disputa degli antichi e dei moderni che si sviluppò fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento: questo dibattito sancì in definitiva l'affermazione nella coscienza europea della superiorità dei moderni, i quali potevano disporre di nuove conoscenze che consentiva loro di progredire. 1.3 Il mito del Rinascimento. La periodizzazione dell'età moderna si affermò definitivamente nell'Ottocento quando lo storico svizzero Jakob Burckhardt nella quando è sembrato che si fosse esaurita la stagione del modernismo, che a partire dagli anni venti del Novecento ha dato un'importanza alla progettazione e alla realizzazione di spazi e di ambienti adeguati alle esigenze dell'uomo moderno. Il concetto, successivamente, si steso anche all'arte, alla letteratura e alla filosofia ed e stato definito nelle sue caratteristiche fondamentali da un libro francese di Jean-Francois Lyotard Apparso nel 1978. Elementi centrali della postmodernità sono il rifiuto delle concezioni generali del mondo e della storia e la sfiducia nella possibilità di una interpretazione razionale e unitaria giù in realtà per sua natura complessa e mutevole, in definitiva caotica. Al riguardo è veramente emblematico l'abbandono in architettura della progettazione urbanistica Intesa come tentativo di programmare lo sviluppo urbano in base ai criteri predefiniti di razionalità e di utilità sociale: le città, infatti, hanno conosciuto uno sviluppo enorme caotico virgola che ha finito col distruggerne la tradizionale identità. 1.7 Un mondo senza futuro. L'ambiguità e la precarietà con le quali ci rapportiamo oggi al concetto di moderno non può non riflettersi sulla considerazione delle età continuiamo a designare con questo termine. Oggi appaiono più evidenti i costi della modernità, alla quale guardiamo senza alcun trionfalismo e senza proiettarlo necessariamente verso uno sviluppo futuro che non siamo più in grado di immaginare: tale mutamento di prospettiva nel modo di concepire l'uomo e il suo rapporto con la natura comportò per le generazioni che ne furono protagoniste una responsabilità ha fatto nuova. D'altra parte, il consolidamento dei poteri politici e religiosi comportò un aumento della regolamentazione e dei controlli, tanto che molti storici hanno considerato, come elemento caratteristico di questa età, il disciplinamento delle azioni e delle convinzioni individuali sia nelle realtà politiche sociale, sia nella sfera della vita religiosa. 1.1 Perché fare storia? Si avverte da tempo una crescente indifferenza verso la ricostruzione del passato. La difficoltà di concepire un futuro sembra essersi riflesso anche sulla considerazione del passato, che anche nella memoria esistenziale di ciascuno sembra essersi accorciato, fino a quasi coincidere con un eterno, irreale presente. La verità e che i fatti si riducono a cubi, ovvero oggetti passivi di una sorta di divertimento intellettuale, se non vengono interrogati. Ma restiamo pur sempre convinti che l'ignoranza o il fraintendimento del passato rappresenti uno dei problemi più gravi della società contemporanea: per questo motivo nel nostro tentativo di ricostruire la storia dell'età moderna cercheremo di mettere a nudo tutti i problemi e tutti gli eventi di volta in volta. = CAPITOLO 2 - LA POPOLAZIONE. A partire dal secondo dopoguerra la demografia storica ha conosciuto enormi progressi grazie all'utilizzo sistematico di una fonte preziosa: i registri nei quali le autorità ecclesiastiche annotavano di abitanti per controllare l'andamento dei precetti religiosi. Ciò ha reso possibile conoscere con una buona approssimazione sia lo stato della popolazione, con ricalcolo dei principali indici demografici, sia la sua evoluzione nel tempo. Inoltre la tecnica della ricostruzione nominativa delle famiglie ha fornito utili indicazioni sui comportamenti delle coppie rispetto al matrimonio e alla procreazione in relazione all'andamento del ciclo economico. 2.1 La nascita della demografia. Nel 1721 Montesquien, esprimendo una convinzione assai diffusa ai suoi tempi, scriveva nelle Lettres persaner: “Vi è sulla terra sì e no la cinquantesima parte degli uomini che vi abitavano nell'antichità. Quello che sbalordisce è che essa si spopola sempre di più ogni giorno che passa, e, se continua così, nel giro di dieci secoli non sarà che un deserto.” È un'affermazione sorprendente poiché, come vedremo, proprio in quegli anni era in atto, dopo la stasi seicentesca, una crescita della popolazione europea destinata a diventare davvero notevole nel corso del secolo. I primi passi in tal senso erano stati compiuti nel XVII secolo dalla scuola inglese della cosiddetta aritmetica politica, intesa come analisi ragionata su base matematica dei dati che interessano l'attività del governo. I principali esponenti di questo indirizzo furono il mercante di tessuti John Graunt (1620-1674), che nel 1662 analizzò i bollettini della mortalità pubblicati settimanalmente a Londra, e soprattutto il medico, economista e matematico William Petty (1623-1687) che studiò la composizione e la crescita della popolazione di Londra e Dublino. Molto importante fu anche nel secolo seguente il contributo degli studiosi tedeschi, e proprio in Germania si diffuse nel Settecento il termine statistik nel significato di scienza delle cose dello Stato o della società in generale. In tal modo gli studi sulla popolazione cominciarono a distinguersi, nell'ambito della nascente scienza statistica, come un campo autonomo di ricerca, che avrebbe assunto nel secolo seguente il nome di demografia, termine introdotto per la prima volta dal francese Achille Guillard (1799- 1876) nel 1855. Nel 1798 comparve la celebre opera del pastore anglicano Robert Malthus (1766-1834) dove formulò il problema del rapporto fra popolazione e mezzi di sussistenza. Secondo la sua teoria la popolazione in condizioni naturali si accresce secondo una progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16 e così via) mentre le risorse aumentano solo secondo una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5 e così via); questo squilibrio è corretto periodicamente dai cosiddetti freni naturali, come guerre, carestie, epidemie. Nella cruda analisi di Malthus, la miseria delle classi inferiori era la conseguenza inevitabile di questa asimmetria fra crescita della popolazione e sviluppo dei mezzi di sussistenza; contrario a ogni altra forma di controllo delle nascite, egli riteneva che fosse possibile attenuare gli effetti di questa legge naturale solo attraverso alcuni freni preventivi o morali all'aumento demografico, come la castità matrimoniale e i matrimoni tardivi. Egli giudicava dannose invece misure di carattere assistenziale che, migliorando la condizione dei poveri, ne avrebbero incentivato la natalità. Paradossalmente Malthus espresse questa concezione pessimistica proprio nel momento in cui erano già da tempo in atto nell'economia inglese profonde trasformazioni che avrebbero drasticamente accresciuto la disponibilità dei mezzi di sussistenza. In ogni caso il pericolo di uno squilibrio fra popolazione e risorse si è ripresentato più volte nel corso della storia e anche negli ultimi decenni ha conosciuto una rinnovata fortuna attraverso la diffusione di teorie che sono state chiamate "neo-malthusiane". Alla fine del Settecento si realizzarono anche le condizioni per un radicale cambiamento nella disponibilità di fonti per lo studio della popolazione: molto importanti furono in particolare il censimento realizzato in Spagna nel 1787 e quello effettuato negli Stati Uniti 3.3 L’andamento della popolazione mondiale. Come si può notare a partire dal 10.000 a.C. in alcune zone del pianeta l'uomo superò gradualmente l'economia fondata sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta dei prodotti spontanei della natura e iniziò a lavorare stabilmente alla terra. Dopo questa prima svolta la popolazione mondiale è aumentata a un ritmo costante ma piuttosto lento, fino alla metà del XVIII secolo, quando prese avvio una fase di crescita che ha fatto segnare la seconda rottura nell'andamento demografico globale. Il fenomeno è stato definito dagli studiosi transizione demografica in quanto, modificando profondamente la mentalità, le tendenze e i comportamenti individuali caratteristici della società preindustriali, ha segnato la rottura dello statico sistema della società di antico regime e aperto una fase completamente nuova per il mondo intero. Infatti, a partire dal 1950, il fenomeno ha interessato anche i paesi più arretrati e la speranza di vita è oggi aumentata. 3.4 Il sistema demografico delle società preindustriali. La crescita piuttosto lenta della popolazione mondiale nel periodo compreso fra la metà del Trecento e la metà del Settecento fu garantita da una lieve prevalenza del tasso di natalità su quello di mortalità, anche se questo sistema andava spesso in crisi per effetto della mortalità. I principali fattori di queste impennate di mortalità erano le epidemie, la guerra e la carestia, i tre flagelli che rappresentarono un vero e proprio terrore per le popolazioni dell'età preindustriale. 29.1 Le epidemie: a partire dal Cinquecento regredì notevolmente la lebbra, mentre fece la sua comparsa verso la fine del Quattrocento la sifilide. Incisero sulla mortalità il tifo e, nel Settecento, il vaiolo, che uccideva il 15% di coloro che ne erano colpiti, mentre il colera sarebbe sopraggiunto solo nel XIX secolo. Tuttavia, nessuna di queste malattie ebbe un impatto paragonabile a quello della peste. La peste, già nota nel mondo antico, ricomparve in Europa a metà del XIV secolo rimanendovi fino ai primi decenni del Settecento. La forma più diffusa è la peste bubbonica, che si trasmette per via cutanea (es. morso) e si presenta con febbre alta e la formulazione di uno o più bubboni. La storia demografica dell'Europa moderna è preceduta e condizionata dalla terribile peste nera che fra il 1347 e 1352 colpì l’intero continente provocando la morte di circa 25 milioni di individui, ovvero un terzo della popolazione. Ad oggi, sappiamo come la peste giunse in Europa: i Tatari lanciarono all’interno delle mura i corpi di alcuni appestati e da allora la peste divenne un male endemico. Essa fece la sua ultima comparsa a Marsiglia nel 1721 e a Messina nel 1743, dopo di che sparì dall'Europa occidentale mentre continuò a colpire nell'Europa orientale e negli altri continenti. 29.2 Le guerre: i progressi nella tecnica militare segnarono una profonda differenza rispetto all’età medievale e determinarono un aumento della mortalità sia per il maggiore potenziale offensivo delle nuove armi sia per il notevole incremento degli eserciti. Gli effetti della guerra sull'andamento demografico furono indiretti: come saccheggi e violenze ai danni della popolazione civile, sfruttamento e distruzione delle risorse e diffusione delle malattie. (Es. Germania + guerra dei Trent'anni). 29.3 La carestia: le cause principali della carestia era l'eccessiva dipendenza dell’alimentazione della maggioranza della popolazione dal consumo dei cereali, che dominavano l'agricoltura e fornivano 2/3 delle calorie giornaliere. Nell’età moderna diminuì drasticamente, fino a scomparire quasi del tutto il consumo di carne, mentre per il resto il pane, la segale e altri alimenti erano accompagnati da uova e qualche latticino. Inoltre, per raggiungere il surplus calorico si usava l'alcol come il vino o la birra. Nel Settecento si tentò di variare questa alimentazione, introducendo la patata, il mais o il riso. La patata si diffuse in Germania, Polonia e Irlanda, il mais fece progressi soprattutto in Spagna e nell'Italia settentrionale, dove sarebbe diventato l'alimento base per la maggior parte della popolazione (polenta). Quando una congiuntura meteorologica sfavorevole provocava uno o più raccolti cattivi si innescava la crisi: i contadini una volta esaurite le scorte andavano incontro a una grave penuria di alimenti mentre l'aumento di prezzo dei cereali, da 2 fino a 4 volto il livello abituale, colpiva anche i consumi delle classi lavoratrici della città, le cui difficoltà avevano un contraccolpo negativo su tutta l'economia. 29.4 Mortalità infantile e natalità: mediamente un quarto dei nati non raggiungeva il primo anno di vita, mentre un altro quarto moriva entro il quinto anno. Su questi dati influivano alcune malattie endemiche, come dissenteria, polmonite, che proprio per la loro permanenze, provocavano più danno delle epidemie. 3.5 La popolazione nell’età moderna. Nel lungo periodo l'andamento della popolazione dall'inizio dell'era cristiana alla metà del Settecento viene rappresentato da una retta in lieve e costante ascesa. Lo sviluppo della popolazione europea nell'età moderna fu fortemente condizionato dalla vera catastrofe demografica provocata dalla peste con la gravissima crisi del 1347- 1352 e poi con le successive ondate epidemiche che si manifestarono in diverse zone del continente. Il Seicento fu invece caratterizzato da una complessiva stagnazione, soprattutto per quanto riguarda Spagna e Italia, e fece segnare per Germania il picco negativo della guerra dei Trent'anni. Va segnalata, inoltre, l'eccezione dell'Olanda che conobbe una crescita particolarmente sostenuta per tutto il Seicento. A partire dalla metà del Settecento iniziò una fase di crescita sempre più accelerata che assunse un ritmo tale da far segnare la seconda grande rottura nell’andamento della popolazione mondiale: vi furono sicuramente fattori diversi che fecero abbassare la mortalità e alzare la natalità. L'ultima grande carestia di dimensione europea si ebbe nel 1816-1817 ma, nonostante fosse accompagnata da un’epidemia di tifo, ebbe effetti meno devastanti rispetto a quelle dei secoli precedenti. Il dibattito storiografico sulle cause che misero in moto alla metà del Settecento la transizione demografica ha riproposto un problema che ha da sempre caratterizzato le valutazioni della demografia storica: l'intreccio per certi versi inestricabile fra movimenti della popolazione e trasformazioni economico-sociali. Si tratta insomma di comprendere se, in certe condizioni storiche, è stata la pressione provocata da una crescita della popolazione a stimolare, rendendo necessaria una maggiore disponibilità di risorse, uno sviluppo delle tecniche o comunque un accrescimento della produzione o se, piuttosto, è stato lo sviluppo economico che, creando prospettive migliori per la crescita della società, ad esempio maggiori possibilità di impiego, ha favorito un aumento i paesi avanzati: oggi in Italia gli occupati nel settore agricolo sono meno del 4%. Con molta lentezza e con notevoli difficoltà vedremo un processo di superamento dell’agricoltura tradizionale che creò le premesse per una modernizzazione delle tecniche di coltivazione: prima di chiarire gli aspetti dell'agricoltura europea, è necessario mettere in evidenza che nell'età moderna la condizione del mondo contadino si presentava sostanzialmente diversa nell'Europa centro-occidentale rispetto alla parte orientale del continente. 3.2 Il mondo rurale nell'Europa centro-orientale. Nell’età medievale le grandi proprietà erano divise in una pars dominica (riserva), gestita direttamente dal proprietario attraverso la prestazione di giornate di lavoro gratuite (le famose corvée) dei contadini dipendenti, e una pars massaricia, suddivisa in unità produttive affidate al lavoro di contadini liberi o servi che pagavano un canone in natura o in denaro. Tra il IX e X secolo a causa della frammentazione e della debolezza dei poteri politici i proprietari terrieri assunsero una funzione di protezione e di difesa delle popolazioni: si affermò così la signoria fondiaria, ovvero l'assunzione da parte del proprietario terriero di un'autorità che si estendeva non solo sui contadini da lui dipendenti ma su tutti gli abitanti delle terre di sua proprietà. Il signore, in cambio della protezione, imponeva obblighi di varia natura, amministrava la giustizia e riscuoteva tributi. A questa situazione si sovrappose fra l’XI e il XII secolo una rete di rapporti feudali che provò a ricostruire una forma di gerarchia: si utilizzò, quindi, il vassallaggio, ovvero un legame personale fra due uomini uno dei quali concedeva un beneficio o feudo a un altro il quale in cambio si obbligava a prestare servizio e fedeltà. Lo sviluppo dell'agricoltura e la ripresa degli scambi commerciali crearono, a partire dall’XI secolo, le condizioni per una progressiva erosione dal potere signorile. I contadini poterono migliorare la propria condizione, si batterono contro i signori per attenuare il peso della loro autorità e in queste lotte trovarono il sostegno delle città, che in quel periodo si affermarono come centri di potere autonomi. Fra il XII e il XIII secolo decaddero quasi ovunque le limitazioni della libertà personale, mentre in altre zone le città si sottrassero dal dominio del signore e iniziarono ad attribuirsi l'impostazione fiscale, l’'amministrazione della giustizia e il mantenimento dell’ordine. A questa evoluzione di rapporti sociali si aggiunse poi, a partire dal XV secolo, la tendenza di principati e monarchie a richiamare nelle proprie mani quelle funzioni di ordine amministrativo e politico che nella disgregata società tardomedievale avevano delegato ai signori feudali. Agli inizi del Cinquecento il servaggio era di fatto scomparso: nell'Europa centro-occidentale i contadini erano ormai quasi liberi ovunque ed anche le corvée erano limitate a solo qualche giornata lavorativa. Infatti, la riserva signorile, notevolmente ridimensionata, non era più coltivata con il lavoro gratuito ma era generalmente divisa in appezzamenti affidati a contadini titolari di diversi tipi di contratti agrari per lo più di lunga durata, che prevedevano il pagamento di canoni in natura o più spesso in denaro. La parte maggiore dell'azienda era invece suddivisa in unità di coltivazione, chiamate in Francia mansi, sulle quali risiedevano famiglie coloniche. La proprietà di queste terre non era piena, ma condivisa con il signore a cui era dovuto un pagamento di un censo annuo, mentre molto più pesante era il diritto quando era pagato in natura poiché consisteva nella quarta o nella terza parte del raccolto. Al signore spettava anche la giurisdizione sul territorio sottoposto alla sua autorità, ma di fatto le cause criminali e civili più importanti erano ormai di competenza dei tribunali reali. Fino alla Rivoluzione Francese però la bassa giustizia fu amministrata da corti signorili, che si occupavano di problemi relativi a controversie di confine o all'uso delle terre, di piccola criminalità, di successioni o di questioni familiari. Era possibile, almeno in teoria, appellarsi contro le sentenze delle corti signorili ai tribunali regi. Ma di fatto questa prerogativa dei signori, oltre ad avere un contenuto economico in virtù delle multe che i giudici potevano comminare, rappresentava un potere importante per il controllo del territorio edera fonte di ogni tipo di abusi. 3.3 Il servaggio contadino nell'Europa orientale. Mentre nell'Europa occidentale si determinò nel basso medioevo un progressivo indebolimento della signoria fondiaria, nella parte orientale a partire dal Quattrocento, il mondo contadino fu costretto a subire gravi limitazioni della libertà personale. Si parla a questo proposito di “secondo servaggio”: questo processo interessò nell'insieme la Polonia, la Russia, la Boemia, l'Ungheria, la Germania orientale e la Danimarca. In queste zone vi erano grandi distese di fertili pianure adatte soprattutto alla cerealicoltura ma scarseggiava la manodopera a causa della bassa densità della popolazione. La struttura sociale era rigida, infatti, mancava un forte gruppo intermedio di mercanti, imprenditori, professionisti e assai limitato era lo sviluppo delle città. In questa situazione, quando l'incremento demografico determinò un aumento della domanda di prodotti agricoli sia all'interno di queste regioni sia da parte dell'Europa occidentale, i proprietari terrieri furono indotti a garantirsi il controllo della scarsa manodopera vincolando i contadini alla terra e incrementando le condizioni del loro sfruttamento. Il lavoro coatto dei contadini era infatti la soluzione per loro più conveniente rispetto all'utilizzo di salariati il cui costo sarebbe stato assai alto a causa della loro scarsità. Anche in queste regioni le famiglie contadine disponevano di unità di coltivazione che garantivano la loro sussistenza, ma generalmente non in proprietà bensì in usufrutto. In cambio della terra concessa loro dal signore, i contadini erano obbligati a servizi di lavoro sulle sue terre. Infatti, la riserva signorile, che in occidente era più limitata ed era gestita attraverso contratti di lunga durata, era qui molto estesa e soprattutto era coltivata attraverso il lavoro coatto dei contadini, la cui intensità si accrebbe notevolmente a partire dal XVI secolo. In Polonia le corvées che erano all'inizio del Cinquecento di uno o due giorni alla settimana raggiunsero nel Seicento una media di cinque giorni alla settimana. In Boemia esse arrivarono a più di 150 giornate di lavoro all'anno. I servi non potevano lasciare le terre del signore, non potevano contrarre matrimonio senza il suo permesso e potevano essere venduti o scambiati, con o senza la terra che era loro affidata. La famiglia contadina garantiva anche, in genere attraverso i figli, la gestione della casa del signore ed era impegnata inoltre nelle manifatture per la distillazione della birra e la produzione di tessuti, mattoni, ecc. Quindi, in questo clima di forte malessere, si determinarono periodicamente fughe soprattutto fu decisiva la sostituzione del maggese con piante foraggere (erba medica, trifoglio) che non impoverivano il terreno e fornivano nutrimento al bestiame. Con ciò si sviluppò anche l'allevamento che comportava un'aumentata produzione di latte, di burro e di formaggi. Nacque così, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, l'agricoltura detta mista. Successivamente preso avvio la disgregazione del villaggio e ciò avvenne soprattutto in Inghilterra con le recinzioni (enclosures), che consistevano in un superamento dell'agricoltura comunitaria attraverso un processo di ricomposizione delle proprietà e con la dispersione delle varie parcelle compatte. A questo punto ciascun proprietario poteva recintare il terreno che gli era stato assegnato e poteva introdurre miglioramenti adottando le novità della rivoluzione agraria o anche promuovendo la coltivazione di piante diverse dei cereali. In definitiva il superamento dell'agricoltura di sussistenza avvenne con modalità e tempi assai diversificati nell'Europa occidentale. Nel Settecento si affermò in diverse zone un'agricoltura di tipo intensivo, che tendeva a eliminare il maggese con l'introduzione di leguminose e con rotazioni articolate in diversi anni. Molto importante fu anche l'introduzione di nuove culture come il tabacco, presente nel Settecento nei Paesi bassi e nell'Europa meridionale, e il gelso, delle cui foglie si nutre il baco da seta, diffusosi già sul finire del Seicento nell'Italia settentrionale. Non meno decisiva è la disponibilità delle risorse necessarie per la crescita: in Europa, dove la terra disponibile era ormai scarsa e abbondava invece la forza lavoro, la soluzione fu trovata nella sostituzione alla tradizionale risposta estensiva di metodi intensivi, che incrementavano con muove tecniche di coltivazione le rese. Dove invece vi era molta terra coltivabile e scarseggiava la manodopera, come ad esempio negli Stati Uniti, nel Canada, in Australia o Nuova Zelanda, lo sviluppo dell'agricoltura si indirizzò nell'età contemporanea verso una elevata meccanizzazione che consentiva di risparmiare sul costo assai alto del lavoro. = CAPITOLO 4 - La società preindustriale: manifatture, commercio e moneta. 4.1 Le innovazioni e l’energia. Nell’età moderna fino alla rivoluzione industriale vi furono diversi progressi nella tecnologia ma non tali da determinare una volta nella vita economica. A partire dal IX secolo erano ricomparsi i mulini ad acqua e successivamente, dal XII secolo, fece la sua comparsa anche il mulino a vento. Molto importante fu poi l'utilizzo della camma, che consentiva di trasformare il moto rotatorio in moto alternato; fu così possibile utilizzare l'energia idraulica del mulino per due tipi di macchine che si diffusero in Europa fra il XII e il XIII secolo: la gualchiera, che era una macchina che serviva alla follatura della lana; e la cartiera, che serviva a battere la pasta grezza ottenuta con la macerazione degli stracci. Altre innovazioni molto importanti furono: la stampa e la polvere da sparo. Ma non solo, novità importanti ci furono anche nel settore minerario e nella siderurgia: infatti, a partire dal Quattrocento grazie alle ruote idrauliche, che consentivano di drenare l’acqua dalle gallerie e di convogliarla al di fuori, si poterono scavare, grazie all’ausilio della polvere da sparo, pozzi e ne derivò cos’ una crescita della produzione di argento e di rame. Per quanto riguarda l’energia, le sole fonti disponibili erano l’acqua, il vento e soprattutto il legname. Questo serviva, oltre che per la cottura dei cibi e per il riscaldamento, anche per la fabbricazione di mobili e per le costruzioni navali; ma soprattutto, era impiegato, insieme al carbone, in attività manifatturiere come la distillazione della birra, nelle tintorie, nelle fabbriche di ceramica ecc. Si crearono, successivamente, le condizioni per lo sfruttamento di una nuova fonte energetica destinata a diventare centrale nella vita economica: il carbon fossile, che fu progressivamente impiegato in sostituzione della legna da ardere negli usi domestici e anche in molte attività manifatturiere. Nell'Olanda del XVII secolo il combustibile più utilizzato fu invece la torba, formatasi nei secoli sul fondo delle paludi, di qualità inferiore al carbon fossile. Non deve sfuggire l'importanza di questo sviluppo epocale nella storia dell'energia, che creava le premesse per l'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra: per la prima volta si passava da fonti rinnovabili a una fonte non rinnovabile. Nell'Ottocento poi si sarebbe affermata un'altra fonte energetica non rinnovabile destinata a dominare la vita economica fino ai giorni nostri, il petrolio. 4.2 Il settore manifatturiero. Per il settore secondario, che comprende le attività di trasformazione dei prodotti agricoli e delle materie prime, preferiamo non usare il termine industria, poiché indica ad oggi un'attività produttiva caratterizzata da un’elevata concentrazione di manodopera. Questo modello non era presente nel passato e preferiamo utilizzare, quindi, il termine manifattura, che indica le attività che trasformano una materia prima in oggetto di consumo, ovvero in un manufatto. Questa attività riguardava, oltre alla lavorazione dei prodotti della terra (pane, vino, formaggi), la filatura e la tessitura, soprattutto di lana, lino e canapa, ma anche la costruzione di mobili, di attrezzi agricoli o di utensili. Nell’età moderna non mancavano manifatture nelle quali vi erano concentrati numerosi lavoratori pagati con un salario: ciò accadeva nei cantieri edili, nell'industria estrattiva o nelle costruzioni navali. La necessità di concentrare il lavoro, quando non era legata a fattori oggettivi come nel caso dell'edilizia o dei cantieri navali, era dovuta all'elevato valore delle materie prime, come ad esempio nel caso delle fabbriche di maioliche o porcellane, o alla necessità di un controllo diretto sul lavoro: In ogni caso le manifatture accentrate fornivano una quota modesta della produzione complessiva. La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell'artigianato. A partire dalla ripresa dell'XI secolo, quando le città si erano affermate come centri di produzione, i vari settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle arti o corporazioni, nate da patti associativi giurati ana loghi a quelli che avevano dato origine al comune. Si trattava di un fenomeno prettamente urbano, giacché non riguardava in genere gli artigiani che vivevano nei villaggi rurali. Membro della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio; egli aveva presso di sé uno o più apprendisti, che non erano stipendiati anzi spesso pagavano per poter apprendere il mestiere, e dei garzoni o la voranti, salariati, il cui numero variava in ragione del mestiere svolto: un fabbro o un ciabattino poteva avere uno o due lavoranti, mentre il numero dei dipendenti cresceva nel caso di attività più importanti e complesse, ad esempio un pellicciaio o un mobiliere. Le funzioni principali della corporazione erano innanzitutto la difesa del monopolio della produzione da possibili concorrenti esterni e inoltre la era basato sui vecchi portolani, ovvero dei manuali di pilotaggio che indicavano gli approdi. A partire dal XV secolo i perfezionamenti della bussola, l’uso del quadrante e dell’astrolabio per localizzare la stella polare e stabilire l'altezza degli astri sull’orizzonte, i miglioramenti delle carte nautiche resero possibile l'applicazione della scienza matematica al problema della determinazione del punto, ovvero della posizione geografica. Proprio questa capacità si consolidò nel XVI secolo e fece segnare una netta superiorità dell'Europa rispetto alle altre parti del mondo: in questo senso fu fondamentale l’opera del cartografo Mercator, il quale pubblicò un grande mappamondo in 18 fogli che consentiva di rappresentare sulla superficie terrestre il reticolo dei meridiani e dei paralleli. Molte novità si ebbero anche nelle costruzioni navali: rimase a lungo attiva fino al secolo XVII la galera o galea, che rappresentava il prodotto migliore della marineria mediterranea. I perfezionamenti nella tecnica marinara portarono invece i paesi atlantici a sviluppare le navi a vela, quest’ultimo rispetto alla galea, era superiore in stazza, era tondeggiante e con una stiva capace; inoltre, era dotato non più di due timoni laterali ma di un timone unico a poppa, indispensabile per resistere alle forze dei mari. Un’evoluzione di queste imbarcazioni fu la caravella, molto maneggevole e veloce, aveva bisogno di un equipaggio non numeroso e perciò poteva imbarcare viveri e acqua per affrontare lunghi viaggi. Uno sviluppo del veliero atlantico fu l'imponente galeone, vascello a due ponti e con una velatura a quattro alberi, due a vele quadre e due a vele latine, che consentiva di sfruttare al meglio e in ogni condizione la forza del vento. Uno dei rischi ai quali era esposto il commercio marittimo era l'attacco da parte dei pirati per impadronirsi del carico della nave e anche talora degli uomini, venduti poi come schiavi. Dalla pirateria va distinta, almeno sul piano teorico, la guerra di corsa, che viene esercitata con il consenso di un governo contro le navi dello stato nemico. Il fenomeno si diffuse nel Mediterraneo a partire dal XIII secolo e imperversò lungo tutto il XVI secolo. Nel Cinquecento si sviluppò anche la pirateria atlantica, praticata, ai danni dei galeoni spagnoli che trasportavano oro e argento dalle miniere del nuovo mondo, da predoni inglesi, olandesi e francesi chiamati filibustieri (da un termine olandese che significa liberi di far bottino) o bucanieri (da boucan, grata di pali usata per affumicare la carne). Il pericolo di naufragi, gli assalti della pirateria e i rischi di deterioramento della merce nella stiva indussero comunque a utilizzare il commercio marittimo soprattutto per carichi ingombranti e di non grande valore, infatti, per le merci di qualità e di prezzo elevato fu preferito il trasporto via terra. Questo per altro non era a sua volta privo di pericoli, era ostacolato dalla cattiva condizione delle strade e aveva costi molto elevati, anche per gli innumerevoli dazi e pedaggi che bisognava pagare lungo il tragitto. 4.5 Il commercio. All’inizio dell'età moderna il bacino del mediterraneo rappresentava ancora un nodo centrale dei traffici commerciali fra l'Europa e l'Asia: le navi che solcavano le acque trasportavano cereali, prodotti agricoli, cuoio, lana, rame, stagno e piombo; ma i traffici più importanti ricalcavano ancora le linee che si erano consolidate nel Basso Medioevo: dalla Cina, dall'India e dall’Indonesia giungevano in Europa in particolare la seta e le spezie. L'importanza di questo flusso commerciale era dovuto soprattutto al valore molto elevato di questi prodotti: essi erano portati dall'Oriente da mercanti musulmani attraverso il golfo Persico e il Mar Rosso e poi giungevano a dorso di cammello a Tripoli, Beirut e Alessandria d'Egitto. Grande sviluppo ebbero in questo periodo i commerci dei mari del Nord: qui nel Basso Medioevo si era affermata la potenza della Hansa, una lega che riuniva molte città sulla costa del mare del Nord e del Baltico e che si estese anche a città non marinare ma legate alle prime da rapporti commerciali. Nel Seicento i traffici in questi mari furono dominati dalle navi olandesi che portavano il prezioso legname dalla Scandinavia, dalla Polonia e dalla Russia, e inoltre cereali, metalli, pellicce dalla Russia e tornavano verso il Baltico con vino, sale, pepe, tessuti, manufatti, prodotti destinati soprattutto ad alimentare i consumi di lusso delle classi aristocratiche. Un posto importante in queste rotte commerciali ebbe fin dal XVI secolo la marineria inglese, che a partire dalla seconda metà del Seicento erose progressivamente il primato degli olandesi: negli anni 1771-1778 un terzo delle navi che transitarono per lo stretto di Sund era inglese. I portoghesi nel 1498 riuscirono a raggiungere l'India circumnavigando l'Africa e poterono così acquistare le spezie direttamente dai produttori senza l’intermediazione veneziana. Tuttavia, la concorrenza portoghese non riuscì a tagliare fuori dal traffico delle spezie Venezia, che per tutto il Cinquecento mantenne un posto importante nel commercio mediterraneo; il suo declino iniziò verso la fine del secolo con l’arrivo di navi olandesi ed inglesi che, appoggiandosi sul porto di Livorno, portavano pannilani, grano, manufatti e materie prime da scambiare con i prodotti dei paesi mediterranei o proveniente dall'Oriente. I portoghesi mantennero il controllo dei traffici con l'Asia fino ai primi decenni del XVII secolo. Le spezie, e in particolare il pepe, continuarono a rappresentare una componente importante del commercio internazionale ma persero progressivamente la centralità che avevano avuto nella prima età moderna. Nel commercio europeo con l'Asia un rilievo crescente fu acquisito dalle importazioni di seta, cotone, tè e rame. Dopo la scoperta dell'America fu necessario rifornire i coloni che si erano stabiliti nel nuovo mondo di tutti i prodotti necessari alla vita. Con la scoperta di ricche miniere di metalli preziosi nei territori occupati dalla Spagna cominciarono ad arrivare a Siviglia crescenti quantità di oro e di argento; in seguito, furono importati in Europa prodotti dei quali c'era una forte domanda, come zucchero, tabacco e legnami pregiati. Nel corso del Seicento al declino della Spagna e del Portogallo corrispose l'affermazione dapprima dell'Olanda, poi della Francia e dell'Inghilterra come principali protagoniste dell'espansione europea, in particolare attraverso la colonizzazione dell'America settentrionale. 4.6 La moneta metallica. Le origini del sistema monetario in vigore nell'età moderna risalgono alla riforma realizzata sul finire dell’XVITI secolo da Carlo Magno, il quale istituì un sistema di monometallismo fondato su un’unica moneta di argento, il denaro. Nella coniazione al metallo prezioso si univa una quantità di metallo non nobile: la lega indicava appunto questo rapporto, che si esprimeva per l’oro in carati e per l'argento con un sistema più complicato. Il denaro di Carlo Magno pesava 1,76 grammi con una lega di 950/1000 di velocità di circolazione fu incrementata dalla diffusione della moneta bancaria, mentre per contro la produzione, in particolare quella agricola, rimase nel complesso stazionaria; la formula, quindi, sembrerebbe offrire una spiegazione scientifica della rivoluzione dei prezzi. In conclusione, si può affermare che all'origine del fenomeno vi fu fin dagli inizi del XVI secolo l'incremento demografico al quale l'agricoltura, per i motivi strutturali di cui si è detto, faceva molta fatica a far fronte. Su questa situazione si innestò poi l'aumento della massa monetaria che sicuramente contribuì a sostenere e ad accrescere la spinta inflazionistica. Alla luce di queste considerazioni si comprende fra l'altro il motivo per cui l'aumento dei prezzi non interessò in maniera omogenea tutti i prodotti, ma si concentrò soprattutto su quelli di più largo consumo: il prezzo dei cereali, ad esempio, aumentò nel corso del XVI secolo di quasi quattro volte, molto più di altri prodotti o degli stessi salari. 4.9 Il sistema monetario dell’età medievale e moderna. Quando circolavano monete che contenevano metalli preziosi era forte la tentazione dei sudditi di tosarle o comunque di ricavare da esse con la limatura una certa quantità di polvere di argento o di oro: proprio per evitare la tosatura a partire dal Seicento, quando il progresso tecnico lo rese possibile, le monete furono coniate con un orlo zigrinato, pratica che sopravvive ancora oggi. A questo punto entrava in azione la celebre "legge di Gresham", un banchiere inglese vissuto nel XVI secolo, secondo cui la moneta cattiva scaccia dalla circolazione quella buona. È evidente, infatti, che se circolano nello stesso paese due monete aventi lo stesso valore legale ma diverso contenuto di metallo prezioso, quella a minor valore intrinseco tende fatalmente a sostituire nella circolazione l'altra. Ovviamente l'equilibrio doveva necessariamente ristabilirsi, in un tempo che poteva essere più o meno breve, attraverso un mutamento dei valori di cambio fra la moneta svalutata e le altre. Le svalutazioni realizzate nel Medioevo e nella prima età moderna furono condannate con severità in quanto causa di disordine monetario e di danni economici; In realtà le svalutazioni non furono solo delle frodi consumate dai principi ai danni dei sudditi, e soprattutto non ebbero solo l'effetto di accrescere il di sordine monetario, ma svolsero in certi momenti la funzione positiva di far fronte alla scarsità di metalli e quindi di mezzi di pagamento, accrescendo la quantità del denaro circolante. 4.10 Moneta grossa e moneta piccola. Fin da quando nel XIII secolo furono coniate monete d’oro si determinò una netta differenziazione fra queste ultime (utilizzate negli scambi internazionali) e le monete piccole, che servivano per la compravendita quotidiana e per il pagamento dei salari. La tendenza alla svalutazione interessò in particolare le monete piccole: esse finirono per contenere una quantità sempre minore di metallo prezioso, tanto che alla fine furono coniate in biglione (argento misto a rame) e poi, a partire dal XV secolo, solo in rame. Nell’età moderna per le transizioni quotidiane si usavano monete che portavano impresso il loro valore nominale: si trattava di una moneta divisionaria, comunemente definita moneta spicciola, che circolava su base fiduciaria. A questo punto occorre chiarire l'origine e la funzione delle monete di conto che rappresentarono per tutto il periodo considerato lo strumento del quale tutti si servivano per far fronte ai bisogni della vita di ogni giorno. Si è detto che in origine la lira e il soldo, monete ideali, erano utilizzate come multipli di una moneta reale, il denaro di argento. Questo sistema fu modificato dalla tendenza del denaro e delle altre monete equivalenti a una progressiva svalutazione per effetto della quale essi contennero una quantità sempre minore di metallo nobile, tanto che fu necessario coniare monete che valevano tre, quattro o sei denari (treine, quattrini e sesini). Per effetto di questo irreversibile processo di svilimento delle monete effettivamente circolanti la relazione fra queste e le monete di conto si spezzò in quanto cadde ogni relazione fra i rispettivi pesi: si continuò a dire che 12 denari formavano un soldo e 20 soldi una lira, ma il peso di 240 denari svalutati non corrispondeva più al peso di una libbra o lira. Le monete di conto servivano a uniformare questo caotico sistema monetario: esse differivano da paese a paese, ma erano sempre fondate sullo schema di equivalenza della lira. Queste monete di conto rappresentavano quindi unità di misura stabile nella quale tradurre ogni formare valori delle diverse monete correnti, le nazionali e le forestiere, quelle in argento e quello in oro. 4.11 Le mutazioni del cambio. Il cambio è il prezzo al quale una moneta viene cambiata con un'al tra. Nel caso di una diminuzione del valore di una moneta nei con fronti delle altre si parla di svalutazione. Il problema del cambio nell'età moderna si poneva invece quotidianamente a tutti a causa dell'esistenza anche all'interno dello stato di due diverse unità monetarie, la moneta di conto e le monete effettivamente circolanti. Bisogna comprendere i termini di questo rapporto: quando le monete in oro o argento acquistano in valore nominale si determina una corrispondente svalutazione della moneta di conto; viceversa, se le monete in oro e argento perdono in valore nominale si ha una rivaluta zione della moneta di conto. Ipotizziamo che un banchiere debba restituire la somma di 4000 lire contabili; avendo il fiorino d'oro un corso legale di 20 lire, egli per estinguere il suo debito deve dare al suo creditore 200 fiorini. Se il corso legale del fiorino passa da 20 a 40 lire, si determina contestualmente un rafforzamento del fiorino (moneta reale) e una equivalente svalutazione della lira (moneta di conto): in tal caso il nostro banchiere può sdebitarsi restituendo solo 100 fiorini. Al contrario se il corso del fiorino passa da 20 a 10 lire, con un indebolimento del fiorino e una corrispondente rivalutazione del suo prezzo in moneta di conto, il banchiere deve restituire 400 fiorini. Risulta evidente il vantaggio che potrebbe avere da una svalutazione della moneta di conto un principe per pagare i propri debiti. 4.12 Sviluppi successivi del sistema monetario. Anche nella storia monetaria la rivoluzione francese ha rappresentato un momento di svolta. Nel 1795 infatti la Convenzione stabili che l'unità monetaria sarebbe stata il franco di argento. Il franco era diviso in centesimi: l'adozione del sistema decimale significò di fatto la sparizione del calcolo attraverso le monete di conto in lire, soldi e denari. Il nuovo ordinamento monetario si diffuse poi in tutta Europa grazie alle conquiste della Francia rivoluzionaria e napoleonica e, nonostante resistenze e qualche tentativo di tornare indietro, fu mantenuto anche nell'età della Restaurazione. In Inghilterra, invece, rimase in vigore il sistema tradizionale per cui 1 pound (libbra) =20 shillings (soldi) 240 pence (denari). In Francia la legge del 1803 stabili formalmente un sistema di circolazione dei prodotti, ma questa crescita economica avvenne all'interno dell'ordine sociale tradizionale senza metterne apertamente in discussione le secolari caratteristiche fondate sulle distinzioni di ceto. Perché si possa parlare di classe sociale occorre che un gruppo abbia la consapevolezza della propria collocazione nelle attività produttiva e degli specifici interessi economici ad essa connessi. 6.2 Il primo ordine: il clero Il primo ordine nei paesi cattolici era il clero, che comprendeva tutti gli ecclesiastici regolari e secolari. Durante la crisi religiosa del Cinquecento vedremo come fosse diversa la situazione degli Stati che si separarono dalla chiesa di Roma; infatti, la Riforma protestante rifiutò il concetto stesso di un clero dotato di uno status distinto rispetto alla massa dei fedeli, e mise in discussione anche la chiesa come organismo giuridico autonomo. La chiesa deteneva ovunque una quota importante della proprietà fondiaria: i beni ecclesiastici, chiamati “manomorta”, erano inalienabili senza un permesso del papa, ed erano in via di principio esenti da imposte (immunità reale). La chiesa riscuoteva, inoltre, anche la decima, in teoria la decima parte del raccolto, per il mantenimento del clero, degli edifici di culto e dei poveri. La ricchezza del corpo ecclesiastico era generalmente appannaggio dell'alto clero, in larga parte proveniente dai ranghi della nobiltà, a conferma del predominio sociale di questo ceto. 6.3 Origini e caratteri della nobiltà. Non è facile stabilire quando si affermò una chiara configurazione istituzionale dell'ordine nobiliare. Sicuramente molto importante fu nella tarda età carolingia l'emergere di una classe feudale votata al servizio militare: si consolidò in questo modo l'idea di una categoria di persone, i bellatores, che trovavano nella guerra la propria vocazione e la giustificazione della propria superiorità rispetto agli altri membri del corpo sociale. A questa aristocrazia di guerrieri si e giunsero in seguito i titolari della signoria rurale, che esercitavano su quanti risiedevano nel territorio poteri che comportavano il mantenimento dell'ordine e l'amministrazione della giustizia. Al senso della propria superiorità che caratterizza il nobile deve necessariamente accompagnarsi l'ereditarietà di questi caratteri, in modo da dare perpetuità allo statuto giuridico riconosciuto al ceto dominante; per questo si delinearono fin da subito precise norme di successione ereditaria e si affermò anche la tendenza ad assumere il nome della residenza tramandata dagli avi, e in seguito la nobiltà iniziò a distinguersi attraverso l'uso di uno stemma. Un ruolo decisivo nella formazione del costume e della mentalità nobiliare ebbe la cultura cavalleresca, che impose i modelli della virtù, dell'onore e della difesa della fede come tratti tipici del cavaliere cristiano. Su queste basi nacquero fra il XII e il XIII secolo i grandi ordini religiosi-militari per la difesa dei luoghi santi in Palestina e per la lotta contro gli infedeli. La proprietà della terra era nell'antico regime la fonte principale della ricchezza, del prestigio sociale e del potere politico. Essa rappresentava dunque anche il fondamento del patrimonio delle famiglie nobiliari, ovvero la prima visibile espressione della loro superiorità. All'interno del ceto aristocratico vi erano posizioni molto differenziate, ad esempio, in Francia vi era la differenza fra i nobili che avevano il privilegio di vivere a corte e i nobili di campagna, i cosiddetti hoberaux. Per quanto riguarda le professioni era vietato ai nobili esercitare professioni ritenute vili, indegne del proprio rango aristocratico. Infatti, era vietato al nobile praticare le arti meccaniche, svolgere lavori manuali e ricoprire uffici pubblici minori. Assai diversa era invece la condizione della nobiltà nell'Europa orientale: qui i nobili erano proprietari di manifatture in cui prodotti erano venduti sul mercato. Molto importante per il consolidamento dell'ordine nobiliare fu l'affermarsi di regole molto rigide volte per impedire la divisione e la dispersione del patrimonio familiare: al riguardo si deve ricordare l'istituto del fedecommesso, ovvero colui che faceva testamento e impegnava l'erede a trasmettere il patrimonio familiare. Quest'ultimo aveva l'obbligo di mantenere tutti gli aventi diritto, cioè i fratelli minori e le sorelle, la madre vedova e gli zii e le zie per parte di padre. Per le sorelle si affermò la tendenza a favorire la monacazione, preferite al matrimonio perché la dote monastica era per lo più meno gravosa di quella matrimoniale. Parte integrante della mentalità aristocratica era il concetto di onore, fondamento del senso di superiorità rispetto alla massa dei plebei. Proprio la necessità di vendicare il proprio onore implicava, per il nobile che ricevesse un'ingiuria da un suo pari, l'obbligo di sfidarlo a duello. Nel corso dell'età moderna la nobiltà dovette confrontarsi con il processo di rafforzamento dell'istituto monarchico che tese a limitarne il potere, proteggendo i sudditi contro le prepotenze della nobiltà. Questa politica fu perseguita con particolare rigore da Luigi XIV, e non è un caso che proprio dopo la sua morte nel 1715 si sia sviluppata in Francia una corrente di pensiero di forte impronta aristocratica che in vario modo ribadì la centralità dell'ordine nobiliare negli equilibri della società francese ed europea. Nonostante la pretesa della nobiltà di far risalire la propria condizione alla presunta purezza di nascita illustre (il cosiddetto sangue blu), vi erano in realtà diverse strade per diventare nobili: tra queste, una era quella della pratica venalità delle cariche, ovvero i plebei che disponevano di un cospicuo patrimonio potevano acquistare alcune cariche finanziarie o giudiziarie che conferivano una nobiltà trasmissibile con l'ufficio agli eredi. Si fermò così una nobiltà di toga che rappresentò una componente importante della società dell'Europa occidentale. Un'altra possibilità era l'acquisto di un feudo, che fra l'altro comportava in Francia l'esenzione dall'imposta. Naturalmente i nobili che si definivano di sangue si opponevano a questi parvenus, provando un profondo disprezzo che si ridusse successivamente con alleanze familiari. 6.4 Il patriziato. Lo sviluppo delle città determinò la progressiva affermazione di un altro tipo di ceto aristocratico, di origine urbana e soprattutto non legato alla funzione militare. La cronica instabilità delle istituzioni comunali provocò a partire dalla metà del XIII secolo la tendenza alla formazione di governi più forti e duraturi. Questa esigenza si realizzò in molti casi attraverso l'emergere di una classe dirigente che assunse di fatto il controllo delle magistrature cittadine emarginando gli strati popolari. In pratica alla guida della città si insediarono dei patriziati, ovvero gruppi di famiglie di grandi mercati e banchieri oppure famiglie di tradizione nobiliari che si riservavano il monopolio delle principali cariche trovando in questa funzione la radice di una distinzione di status rispetto al restante della popolazione cittadina; si formarono così ceti di governi conversioni forzate; tuttavia anche l'accettazione del battesimo non poneva fine alle discriminazioni e ai sospetti: proprio dalla necessità di verificare che gli ebrei convertiti, chiamati conversos, non conservassero sotto l'apparente fede cristiana la «perfida superstizione giudaica» e nacque nel 1478 l'Inquisizione spagnola. Agli ebrei furono concesse nel 1492 poche settimane per abbandonare le proprie case e lasciare la Spagna. Coloro che scelsero di partire pur di non convertirsi si diressero per lo più nei Paesi bassi, verso l'Europa e verso la Polonia. Nella crisi religiosa del Cinquecento prevalse una considerazione negativa della presenza ebraica: Lutero pubblicò un violento libello “Degli ebrei e delle loro menzogne”, nel quale incitò ad incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei. Gli ebrei furono scacciati da tutti i territori italiani soggetti alla Spagna e proprio a Venezia si istituzionalizzò una forma di segregazione che avrebbe caratterizzato tutta la vita dell'ebraismo nell'Europa moderna: il ghetto. Nella primavera del 1516 la repubblica di Venezia impose agli ebrei l'obbligo di risiedere in un’area separata, che fu chiamata “ghetto”, perché Îì era situata in precedenza una fonderia. Il nome si diffuse progressivamente in tutta Europa ad indicare le zone destinate alla segregazione degli ebrei. Nel 1555 il papa Paolo IV Carafa dichiarò in una bolla che gli ebrei dovevano vivere in quartieri distinti, dai quali non potevano uscire di notte e nelle festività cristiane: in tal modo la segregazione divenne un principio di carattere generale. L'istituzione del ghetto, circondato da mura i cui portoni erano chiusi al tramonto e sorvegliati da guardie, obbligò le comunità ebraiche a vivere in spazi molto ristretti e gravemente carenti dal punto di vista igienico-sanitario a causa del sovraffollamento. Nel Settecento il clima culturale e politico progressivamente si modificò grazie all'influenza del pensiero illuministico. Intanto si fece strada nell'ebraismo una corrente di pensiero chiamata Haskalah (dal l'ebraico seke, "intelletto") che mirava a conciliare la tradizione con il mondo moderno. Ne fa interprete in particolare il filosofo tedesco Moses Mendelsshon (1729-1786), che invitò gli ebrei ad integrarsi nella società tedesca. Non tutti i pensatori illuministi però guardarono con favore all'emancipazione degli ebrei e agli inizi degli anni '80 l'imperatore d'Austria Giuseppe II con diversi editti per le varie province dell'impero adottò i primi provvedimenti favorevoli agli ebrei, concedendo loro alcuni diritti civili. Si trattava però di misure parziali e limitate; fu la rivoluzione francese a decretare la completa emancipazione proclamando gli ebrei, sulla base dei principi del 1789, cittadini francesi a pieno titolo. L'emancipazione che si affermò nel corso del XIX secolo apri nella storia dell'ebraismo una fase completamente nuova, che ripropose in termini diversi il problema della loro presenza nella società. Gli ebrei erano liberi ormai di spostarsi e di scegliere la loro residenza, potevano acquistare case e terreni, e avere accesso alle professioni e a tutte le attività economiche, ma questa integrazione nella società inevitabilmente allentava il vincolo che per secoli aveva tenuto unite le comunità. Con l'istituzione del matrimonio civile si apriva ad esempio la possibilità di matrimoni misti, i quali però erano vietati dalla legge ebraica. La prospettiva dell'integrazione, con il conseguente rischio dell'assimilazione, inquietava le coscienze di molti, e non solo degli ambienti più tradizionalisti. Paradossalmente il ghetto, simbolo dell'umiliazione imposta agli ebrei dalla società cristiana, aveva avuto anche la funzione di proteggere dal mondo esterno il loro patrimonio religioso e culturale che ora rischiava di andare disperso. 6.7 Poveri, marginali, vagabondi. Nel periodo di passaggio dall'età medievale all’età moderna mutarono le caratteristiche del pauperismo. La società medievale, fondata sui valori della morale cristiana, tendeva a considerare la povertà come un'immagine vivente del disprezzo per le cose del mondo predicato da Cristo, quindi, l'elemosina e la carità erano viste quindi come preziose occasioni per meritare la salvezza eterna. Già nei secoli del basso Medioevo su questo tradizionale modo di confrontarsi con la povertà si innestò progressivamente una crescente attenzione delle autorità pubbliche ad un problema sempre più avvertito come decisivo per il mantenimento dell'ordine pubblico. Per comprendere questi sviluppi occorre distinguere fra la figura del povero come individuo e la povertà come fenomeno collettivo. Coloro la cui povertà dipendeva da motivi strutturali, come ad esempio malati, invalidi, vedove, orfani, vecchi, trovavano tutto sommato un sostegno; analogamente era condiviso l'aiuto ai cosiddetti poveri "vergognosi", persone di buona condizione sociale cadute in miseria. La svolta nella considerazione del pauperismo si determinò quando esso iniziò a diventare un fenomeno di massa endemico. Alla radice di questa evoluzione vi fu innanzitutto la crescita demografica, che determinò una maggiore offerta di lavoro e una crescente pressione su un'agricoltura incapace di adattarsi rapida mente alle nuove esigenze. Si ebbe perciò un netto peggioramento delle condizioni di una quota consistente della popolazione, costretta a vivere al livello minimo di sussistenza, con il costante pericolo di cadere nell'abisso della più grave indigenza e dell'emarginazione sociale. In questa situazione prevalse nelle classi agiate un atteggiamento di diffidenza e di timore, e si affermò la tendenza a distinguere fra poveri “buoni” e poveri “cattivi”. Questa emergenza indusse le autorità cittadine ad organizzare un grosso piano di pubblici aiuti e di distribuzione di pane, che per quasi due mesi soccorse in media 5000 persone al giorno; nel 1534 questa Elemosina generale fu trasformata in istituzione permanente. In Inghilterra nel 1572 fu introdotta a livello locale una tassa obbligatoria che avrebbe dovuto fornire alle parrocchie le risorse n cessarie per provvedere ai vecchi, ai malati e ai poveri che vi risiedevano. In sostanza si stabilì il principio per cui ogni comunità aveva la responsabilità di soccorrere i propri poveri, mentre si cercò di contrastare in ogni modo lo spostamento di questi ultimi verso la città. Fra il 1597 e il 1601 una serie di statuti pose le basi per un organico piano nazionale volto da un lato a rieducare i poveri abili attraverso il lavoro forzato, dall'altro a combattere con pene severissime la mendicità e il vagabondaggio: i vagabondi venivano frustati pubblicamente o esposti alla gogna. Nel corso del XVII secolo la politica di centralizzazione della lotta al pauperismo si concretizzò in un piano che Michel Foucault ha definito «la grande reclusione» dei poveri, una prospettiva nella quale l'obiettivo di una sorta di igiene sociale veniva perseguito in modo radicale, con una miscela di misure penitenziarie e di indottrinamento morale e religioso. Fu in questa prospettiva che fu istituito a Parigi nel 1656 l'Ospedale maggiore, un vero universo carcerario, nel quale la morale del lavoro veniva inculcata attraverso la paura e la violenza. Nel 1662 si stabilì che istituzioni analoghe sarebbero sorte in tutte le città e nei borghi maggiori. La reclusione fu prevista anche per zingari e prostitute. In Italia alberghi per raccogliere mendicanti, poveri e vagabondi furono istituiti a Torino, Genova, Roma e Napoli. Ma fra le case di che avrebbe acquisito nel corso dell'età moderna. Lo si definiva come summa potestas o summum imperium, proprio per indicare che esso non era esclusivo ma si poneva al di sopra di una molteplicità di poteri. A] superamento di questa visione contribuì la rinascita nell'XI secolo del diritto romano, che impose alla cultura del tempo il concetto di imperium, inteso come potere al quale è connaturato il comando, espressione di una assoluta supremazia. I termini essenziali del moderno concetto di sovranità si trovano già nella citata opera di Bodin. Egli indicò come principale caratteristica della sovranità il potere di dare leggi ai sudditi senza il loro consenso. Di conseguenza i confini fra gli Stati si presentavano in modo tutt'altro che chiaro e definito: un territorio apparteneva a un sovrano per diritto dinastico, acquisito per eredità o per cessione; a questa linea si sovrapponevano poi, molto spesso senza coincidere con essa, i limiti delle circoscrizioni ecclesiastiche, e quelli di molteplici interessi privati e pubblici, di pedaggi, di balzelli, di concessioni e di privilegi. In definitiva, se si osserva il panorama politico dell'Europa agli albori dell'età moderna, si colgono con chiarezza alcune trasformazioni nelle sue strutture e nei modi del suo esercizio. Tuttavia per l'età prerivoluzionaria occorre utilizzare con molta prudenza i riferimenti allo Stato moderno, ed è opportuno parlare di stati di antico regime come forme intermedie fra la realtà politica medievale è lo Stato ottocentesco. Non a caso solo nel XIX secolo il concetto di Stato si impose come punto di riferimento centrale della riflessione politica. Nel pensiero settecentesco l'espressione "società civile" era utilizzata in genere come sinonimo di società politica. Fu Hegel che nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) elaborò con chiarezza questo concetto. Il filosofo tedesco definì la società civile come la sfera dell'economia, nella quale ciascuno persegue il proprio particolare vantaggio o interesse. Com'è noto Marx rovesciò la tesi hegeliana affermando che lo Stato non può essere concepito astrattamente come un organo che persegue il bene comune componendo gli interessi particolari della società civile: al contrario sono i rapporti di forza che maturano nella sfera economico-sociale a determinare la forma dello Stato, che rappresenta quindi l'espressione di questi rapporti di forza ovvero l'organizzazione giuridica del potere della classe dominante. 7.3 L’esperienza politica dell’Italia rinascimentale. Le vicende politiche degli stati italiani rappresentarono un importante laboratorio nel quale si formarono precocemente molte delle innovazioni che si sarebbero sviluppate poi nell'organizzazione delle grandi monarchie europee. L'importanza dell'esperienza italiana è dimostrata dal pensiero politico, come dimostrano le opere di Niccolò Machiavelli e di Francesco Guicciardini. Tuttavia, gli stati italiani, sia quelli che si trasformarono in signorie e poi in principati, rimasero legati alla civiltà comunale dalla quale avevano preso origine e proprio per la loro natura di stati cittadini non riuscirono a creare una struttura amministrativa efficiente e moderna. 7.4 La concezione del potere. Nel considerare l'istituto monarchico bisogna innanzitutto tenere ben presente l'aura di sacralità della quale esso era ammantato e che si esprimeva in tutte le forme: molto significativa in tal senso era la cerimonia del sacre, la consacrazione dei re di Francia che aveva luogo tradizionalmente a Reims in ricordo della conversione al cristianesimo del re Clodoveo. L'arcivescovo di Reims ungeva il corpo del re in nove punti con l'olio della Sainte ampoule, portata secondo la tradizione da una colomba bianca a san Remigio per il battesimo del re pagano. L'arcivescovo di Reims metteva al quarto dito della mano destra del re l'anello, proprio a sancire il matrimonio fra il re e il suo regno: secondo la teoria del corpo mistico della monarchia il re era il capo e i tre ordini le membra di un corpo indissolubile. Fondamentale era il carattere ereditario della monarchia, secondo un ordine definito dalla legge; la continuità dinastica, che esprimeva il permanere dello Stato al di là della persona fisica del re, assumeva un carattere quasi mistico, come dimostrano le massime che tradizionalmente si ripetevano alla morte di ogni sovrano: “il re di Francia non muore mai”. La teoria della regalità si fondava sul principio, affermato da Paolo di Tarso, dell'origine divina di ogni potere (omnis potestas a Deo). La filosofia scolastica a partire da Tommaso d'Aquino aveva aggiunto alla formula paolina le parole per populum, in modo che l'origine divina del potere monarchico non fosse diretta ma mediata attraverso il popolo; questo poneva il re in una posizione di inferiorità rispetto al papa, vicario diretto di Dio. Contro queste posizioni si schierarono nel corso dell'età moderna molti fautori del diritto divino della monarchia, i quali sostennero che il re riceve la sua corona direttamente da Dio, senza l'intermediazione del popolo, e che quindi è responsabile solo di fronte a lui e non riconosce alcun potere superiore in terra. Solo nel Settecento si fece strada una concezione che potremmo definire "laica" della monarchia, come funzione al servizio del benessere della collettività. 7.5 Dualismo istituzionale. Alle soglie dell'età moderna i regimi di tipo monocratico prevedevano al vertice un caratteristico dualismo istituzionale: il sovrano, principe o monarca, era affiancato da organismi rappresentativi a base cetuale che avevano nomi diversi, ad esempio Etats généraux (Stati generali) in Francia, Cortes in Spagna, Stànde (Stati) in Germania, Parliament (Parlamento) in Inghilterra, Sejm (Dieta) in Polonia. In generale queste assemblee erano formate dai rappresentanti dei tre ordini, clero, nobiltà e terzo stato; in Inghilterra le camere erano invece due, in quanto arcivescovi e vescovi facevano parte insieme ai nobili titolati della Camera dei Lord mentre era elettiva la Camera dei Comuni. Questi organismi avevano un'origine contrattuale: il riconoscimento della supremazia del re era condizionato al riconoscimento di prerogative e consuetudini dei corpi nei quali si articolava la società. Essi avevano il compito di assistere il re nei momenti di difficoltà e soprattutto di sostenerlo dal punto di vista finanziario approvando le imposte che egli proponeva di stabilire. Il dualismo fra il sovrano e i ceti esprime con chiarezza la natura di questo modello di Stato che si definisce a base cetuale. Il processo di rafforzamento del potere monarchico passò dappertutto attraverso il ridimensionamento del ruolo di queste assemblee che costituivano evidentemente un grave limite per l'esercizio della sua autorità. A tal fine era decisiva la periodicità delle riunioni, che questi organismi a ogni occasione propizia tentarono di ottenere. 7.6 La corte. conferivano la possibilità di nobilitarsi. Si insediò così alla testa dell'amministrazione una casta di ufficiali inamovibili perché proprietari della loro carica, che nel loro insieme formarono una nobiltà di toga o di roba. La venalità delle cariche fu un elemento importante di mobilità sociale che aprì al vertice del Terzo Stato le porte del mondo del privilegio aristocratico. 7.9 La giustizia. La funzione di sommo giustiziere rappresentò la prerogativa centrale del potere monarchico, che si esercitava attraverso la legislazione e la giurisdizione civile e penale. Nell’età moderna l’attività legislativa non ebbe mai il carattere continuativo e sistematico che ha nella società attuali. Il re emetteva ordinanze, editti, decreti e lettere patenti, spesso su argomenti specifici, ma per lo più non poteva stabilire norme dotate di validità generale perché trovava un limite nella pluralità di ordinamenti giuridici particolari, garantiti dalla consuetudine e sanciti talora formalmente da statuti, che regolavano tradizionalmente la vita della società di antico regime. Il diritto era perciò un coacervo di norme provenienti dall'accumulo secolare di fonti diverse: le leggi romane raccolte da Giustiniano, il diritto consuetudinario che vigeva in alcune zone del territorio, nei paesi cattolici il diritto canonico che regolava la vita dell'istituzione ecclesiastica, statuti cittadini, una miriade di ordinanze e provvedimenti emessi in tempi diversi da varie autorità. La pluralità di ordinamenti giuridici determinava l'esistenza di una pluralità di giurisdizioni che limitavano, anche nel concreto esercizio della funzione giurisdizionale, le prerogative del potere sovrano. La giustizia di prima istanza era esercitata in molti casi da autorità e poteri periferici di fatto autonomi rispetto al potere centrale. Le funzioni giurisdizionali erano esercitate anche da magistrature cittadine e da associazioni e corporazioni particolari; infatti, non vi era ancora una chiara distinzione fra amministrazione e giurisdizione, per cui il più delle volte l'amministratore era anche giudice nelle materie di sua competenza. La giustizia regia incontrava poi un limite nella giustizia ecclesiastica, che aveva una competenza esclusiva nelle cause concernenti i componenti del clero (foro riservato) e inoltre rivendicava la propria autorità in materia di eresia e per una serie di delitti attinenti alla sfera religiosa, come la bestemmia o l'adulterio. 7.10 I rapporti con la Chiesa. La sacralità del potere monarchico si rifletteva sui rapporti con l'autorità ecclesiastica, e in particolare nella volontà di accreditarsi come protettore della Chiesa e come baluardo della fede. Il problema dei rapporti fra il potere politico e l'istituzione ecclesiastica si pose in termini profondamente diversi nei territori che aderirono alla Riforma protestante. Per quanto riguarda i paesi cattolici, rimase il tradizionale dualismo dei due poteri separati, la Chiesa e lo Stato, le cui relazioni costituivano un aspetto centrale degli equilibri politico-istituzionali e sociali. Lo Stato tendeva ad affermare, contro le pretese dei curialisti, le prerogative spettanti al sovrano in materia di religione (jus circa sacra), rivendicando non solo il compito di proteggere l'istituzione ecclesiastica, ma anche il diritto di controllarla (jus inspectionis) e di intervenire, quando necessario, per riformarne gli abusi (jus reformandi). In ogni caso gli stati erano ben attenti a evitare che gli atti del papa avessero immediata validità all'interno del loro territorio, e ne condizionavano la esecutività al placet del potere politico. In generale l'esigenza di limitare e controllare il potere della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali, giuridici ed economici, fu una componente imprescindibile del processo di rafforzamento del potere monarchico e della struttura statale. 7.11 Le finanze. Il problema finanziario rappresentò il nodo centrale dei tentativi di dare maggiore solidità e coerenza alla struttura dello Stato. Tradizionalmente le imposte erano concepite come contributi straordinari, legati cioè a una situazione contingente. Occorreva stabilire un prelievo fiscale sistematico e continuativo: fu questo l'obiettivo principale degli stati di antico regime, e non a caso fu proprio questo il principale terreno di scontro fra il monarca e le assemblee cetuali. A sostegno delle richieste del sovrano giocarono soprattutto le esigenze di difesa del territorio dai nemici esterni e la conseguente necessità di ottenere fondi adeguati alle spese militari, molto cresciute a causa dei progressi della tecnica di cui diremo fra breve. Intanto non vi era un bilancio attendibile delle spese e delle entrate in quanto i flussi erano gestiti da una miriade di casse ed enti particolari, e non si arrivò mai a una effettiva centralizzazione amministrativa; si procedeva di consueto a far fronte alle esigenze del momento imponendo contribuzioni occasionali o prestiti forzosi. Quanto al sistema fiscale non vi era uniformità perché erano in vigore regimi diversi (ad esempio la città era privilegiata rispetto alla campagna) e pesavano esenzioni e privilegi. Anche rispetto a una stessa imposta si registravano situazioni assai differenziate: in Francia l'odiata gabella del sale era riscossa con modalità molto diverse nelle varie province e alcune di queste, fra cui la Bretagna, ne erano esenti. Per lo più le imposte dirette, gravanti direttamente reddito o sul patrimonio, rimasero fondate su basi largamente approssimative in quanto riscosse per testa, cioè per persona (testatico) o per fuoco o famiglia (focatico). Pesò anche il persistere di una concezione patrimoniale della finanza, che indusse molti stati, a dare in appalto la riscossione a finanzieri privati, che anticipavano le somme necessarie al tesoro pubblico e poi provvedevano in proprio al l'esazione. Nel Settecento si ebbero i primi tentativi di razionalizzare il sistema. In molti stati si provvide allora a richiamare nelle mani del l'amministrazione la riscossione e si tentò di realizzare un'imposizione diretta e reale, promuovendo ad esempio la formazione di catasti. Tuttavia solo con la rivoluzione francese si posero le basi per un apparato finanziario uniforme, efficiente e razionale. 7.12 La politica estera. Nell’età medievale le relazione fra gli stati erano affidate in generale ad ambascerie occasionali, che avevano l’obiettivo di negoziare alleanze o di trattare di specifiche questioni. Furono gli stati italiani dell'età umanistico-rinascimentale a porre le basi della diplomazia moderna, prevedendo l'invio di un rappresentante permanente presso i governi stranieri; in particolare la repubblica di Venezia diede vita ad un corpo di ambasciatori di primissimo ordine, le cui relazioni al Senato rappresentano una fonte di straordinaria importanza. Questo precoce sviluppo delle relazioni diplomatiche fu reso necessario dal leggere, sciabole e pistole, fu impiegata per azioni isolate di sorpresa o per l'inseguimento. Rimase a lungo il problema della lentezza dei tiri, poiché le operazioni di ricarica richiedevano almeno un minuto e spesso anche due, un tempo troppo lungo per fermare l'impeto della fanteria nemica. La soluzione del problema si ebbe alla fine del Cinquecento quando l'esercito olandese mise in atto contro gli spagnoli la tecnica del fuoco a salve successive: i moschettieri si disponevano su più file in modo che, dopo che la prima aveva sparato, subentrava immediatamente il fuoco della seconda mentre i primi avevano il tempo di ricaricare protetti dai compagni. Quanto all'artiglieria, essa per un lungo periodo non ebbe un'incidenza significativa sui campi di battaglia a causa delle difficoltà del trasporto, della lentezza nella cadenza del tiro, della scarsa precisione e della limitata gittata. Solo nella seconda metà del Quattrocento i progressi tecnici misero a disposizione degli eserciti cannoni più robusti, leggeri e precisi, che diedero risultati notevoli nell'assalto alle fortificazioni. Contro il fuoco di queste bombarde era indifendibile il castello medievale, simbolo della nobiltà feudale, che infatti si trasformò progressivamente in una residenza di campagna. Tuttavia, fu rapidamente trovata la risposta alla nuova temibile arma, con la costruzione di fortezze bastionate di forma poligonale, un sistema di difesa che comportava costi enormi. Fu abbandonata l'architettura verticale dei castelli: le mura divennero più basse e furono rese più spesse e resistenti con masse di terra (terrapieni); inoltre i torrioni, quadrati e non più cilindrici, divennero sporgenti oltre il perimetro delle mura per controllare l'artiglieria nemica e impedire attacchi di sorpresa. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe, sottoposte a un capillare addestramento, furono composte da professionisti, mercenari al soldo di volta in volta delle potenze impegnate in guerra, veri automi che dovevano ripetere con precisione e nei tempi stabiliti le operazioni previste per l'utilizzo delle armi da fuoco. Importanti trasformazioni riguardarono anche la guerra sui mari. Gli scontri navali rimasero a lungo legati allo schema tradizionale dello speronamento e dell'arrembaggio, che trasformava la battaglia in un corpo a corpo fra le truppe imbarcate. La situazione cambiò con lo sviluppo della marineria vela e soprattutto con l'utilizzo dell'artiglieria. La potenza e la precisione del cannoneggiamento divennero i fattori decisivi della battaglia navale, che nell'età moderna si risolse sempre più in duelli a distanza fra le artiglierie che miravano a disalberare o ad affondare la flotta nemica. 7.2 CAPITOLO 7 - Il sistema degli stati alle soglie dell’età moderna. Il quadro politico dell'Europa all'inizio dell'età moderna è segnato dal declino delle due autorità universali che avevano dominato lo scenario politico del medioevo: il papato e l'impero. La Chiesa di Roma aveva conosciuto una profonda crisi quando la sede pontificale si era trasferita ad Avignone, ed era caduta sotto il controllo della monarchia francese, e poi nel periodo del grande scisma di Occidente che aveva visto contrapposti prima due e poi tre papi in lotta tra di loro. Quanto alla corona imperiale che risaliva la teoria della translatio imperii (trasferimento dell'impero), secondo la quale Carlo Magno con l'incorporazione della notte di Natale dell’800 aveva riportato la dignità imperiale dall'Oriente all'Occidente, ponendosi come legittimo successore degli imperatori romani. 8.1 Il sacro romano impero. L'impero era una confederazione che comprendeva più di 350 stati assai differenti per status o per estensione. Un passaggio fondamentale nell'organizzazione istituzionale si era avuto con la Bolla d'oro emanata nel 1356 da Carlo di Boemia, imperatore con il nome di Carlo IV, che assegnava le lezioni alla corona imperiale a sette principi: il re di Boemia, il margravio di Brandeburgo, il duca di Sassonia, il Conte del Palatino e gli arcivescovi di Treviri, Colonia e Magonza. Organo centrale era la Dieta, le cui deliberazioni avevano valore di legge generale. Convocata dall'imperatore con frequenza irregolare, la Dieta era divisa in tre ordini: i principi elettori, il Collegio dei principi e dei signori territoriali, nel quale erano rappresentati con diverso peso 120 principi ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati), una quarantina di stati maggiori che avevano la dignità di principati e 140 signori minori laici ed ecclesiastici, e il collegio dei rappresentanti delle città libere che erano in tutto 85. Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo, che lo avrebbe tenuto fino alla fine del sacro romano impero nel 1806. Questa continuità dinastica, rafforzata fra l'altro dalla consuetudine di far eleggere, quando era ancora in vita l'imperatore, il suo successore designato come re dei romani, diede indubbiamente maggior peso alla corona imperiale e poteva essere la premessa di un suo rafforzamento istituzionale. La casa di Asburgo, dinastia feudale originaria probabilmente dell'Alsazia, fin dal XIV secolo aveva stabilito il centro del suo potere nelle Alpi orientali, nei domini, posseduti ereditariamente, di Austria, Stiria, Carinzia, Carniola e Tirolo, ai quali si sarebbero aggiunti poi Gorizia (1500) e Gradisca (1511). Gli Asburgo nel 1453 presero quindi ufficialmente il titolo di arciduchi d'Austria, mentre, come diremo fra breve, erano stati costretti di fatto a rinunziare al controllo del territorio svizzero, dove era sito il castello di famiglia dal quale aveva preso il nome la casata. 8.2 Alla periferia dell'impero: la Confederazione svizzera. Il primo nucleo della Confederazione svizzera fu rappresentato dalla lega stretta nel 1291, a difesa dei loro diritti, fra le comunità alpine di Uri, Unterwalden e Schwytz. Pur non disconoscendo la sovranità dell'impero e l'autorità signorile degli Asburgo, la lega era animata da un forte spirito di indipendenza, che attrasse progressivamente altre comunità alpine come Glarona (Glarus) e Zug e città come Lucerna (Luzern), Zurigo (Zùrich) e Berna (Bern). Nel 1353 la Confederazione comprendeva quindi otto stati, che venivano chiamati comunemente cantoni. Nel corso del XIV secolo la confederazione riuscì a emanciparsi dal dominio degli Asburgo sconfiggendoli nelle battaglia di Morgarten (1315) e di Sempach (1386), e infine, respinse con la vittoria di Dornach anche il tentativo di Massimiliano I di restaurare il controllo della casa imperiale, riuscendo con la pace di Basilea (1499) a ottenere di fatto l'affrancamento dalla sovranità dell'impero. Fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento i confederati furono rafforzati da nuove adesioni: dapprima Friburgo (Freiburg) e Solothurn, poi Basilea (Basel), Sciaffusa (Schaffhausen) c. per ultimo. nel 1513, Appenzell. A questa data, quindi, era di fatto formata la cosiddetta antica Confederazione, composta di 13 cantoni, che sarebbe stata riconosciuta per altro ufficialmente solo Carlo VII (1422-1461) proprio per poter creare il primo nucleo di un esercito permanente destinato a combattere i sovrani inglesi impose nel 1439 la taglia, tassa che gravava sui contadini; egli poi la rinnovò annualmente senza più chiedere l'autorizzazione degli Stati generali, rendendola di fatto un'imposizione ordinaria. Allo stesso tempo si accrebbe l'autorità del Consiglio del re e si consolidò l'apparato amministrativo. Grazie alla regolarità delle sue entrate, la monarchia francese poté liberarsi dalla necessità di ricorrere ai tre ordini riuniti negli Stati generali che, dopo il 1484, non furono più convocati fino al 1560, e anche in seguito, superata la fase buia delle guerre di religione, furono una presenza assolutamente marginale nella storia francese. Nel 1515, salì sul trono Francesco I e il nuovo sovrano conseguì subito un nuovo successo assicurandosi il controllo della compagine ecclesiastica. Nel 1522 Francesco sancì formalmente il sistema della venalità delle cariche istituendo un ufficio per gestire le entrate provenienti da tali vendite. Naturalmente per effetto di questa pratica l'amministrazione finanziaria e giudiziaria, patrimonio di una casta di ufficiali inamovibili in quanto proprietari della loro carica, sfuggì al diretto controllo del re. Al vertice dell'amministrazione giudiziaria si poneva il Parlamento di Parigi, supremo tribunale di appello; nel Quattrocento esistevano anche in varie province altri sette parlamenti, che sarebbero diventati dodici nel Settecento. Oltre alle sue funzioni giudiziarie il Parlamento aveva il compito di registrare gli editti del re e per questa sua prerogativa assunse più volte un ruolo politico, ponendosi, proprio in virtù della sua inamovibilità, come il principale ostacolo all'assolutismo monarchico. In via di principio al Parlamento spettava solo un controllo formale della regolarità dal punto di vista giuridico degli atti reali. Nel 1542 Francesco stabili delle circoscrizioni fiscali (le generalités) per la riscossione della taglia, ma nelle province di recente annessione (Linguadoca, Provenza, Borgogna, Bretagna), dette pays d'Etat (paesi di Stato), era costretto a contrattare annualmente l'ammontare dell'imposta con i tre ordini riuniti negli stati provinciali, che provvedevano poi autonomamente alla ripartizione e alla riscossione. Del resto, le ordinanze emanate dal Consiglio del re non potevano dare un codice uniforme al paese poiché nel Mezzogiorno era in vigore il diritto romano mentre nella parte settentrionale del regno vigeva il diritto consuetudinario. Parlare di accentramento e di unità è certo un'utile semplificazione, a patto però di non dimenticare che in realtà il regno era pur sempre un mosaico di città e province ciascuna delle quali manteneva le proprie prerogative e franchigie. 8.6 La Spagna. Alla fine del XV secolo, nella penisola iberica la presenza musulmana era ridotta ormai al solo regno di Granada. La nascita della Spagna moderna prese avvio dal matrimonio celebrato nel 1469 fra Isabella (1474-1504) e Ferdinando (1479-1516), eredi rispettiva mente della corona di Castiglia e di Aragona. La successione di Isabella sul trono castigliano nel 1474 fu contestata e provocò una guerra civile che durò fino al 1479, anno in cui, con la contemporanea salita al trono aragonese del marito Ferdinando, si realizzò definitivamente l'unione dei due regni. Il regno aragonese, composto di tre province, l'Aragona propriamente detta, la Catalogna e Valencia, per un totale di circa un milione di abitanti, possedeva la Sicilia e la Sardegna e aveva installato un ramo della dinastia sul trono del regno di Napoli. La Catalogna in particolare vantava una solida tradizione commerciale e marinara, ma era ormai in una fase di declino. Ben maggiore era il peso economico e demografico della Castiglia, che raggiungeva forse i sei milioni di abitanti e fondava la sua economia sull'allevamento delle pecore, controllato dalla potente organizzazione degli allevatori. La supremazia castigliana si manifestò fin dall'inizio nella decisione di Ferdinando di risiedere nel regno di sua moglie e di delegare stabilmente l'amministrazione dei suoi domini ereditari a dei viceré. La concorde azione dei due sovrani realizzò un notevole rafforzamento dell'autorità della monarchia in Castiglia, dove si poneva innanzitutto il problema di combattere la prepotenza nobiliare e la diffusa violenza. A tal fine la monarchia, appoggiandosi sul consenso delle città, riorganizzò le milizie urbane creando la Santa Hermandad ("santa fratellanza"), che, riunendo compiti di polizia e le funzioni di una sorta di tribunale straordinario, represse con durezza le aggressioni e le violenze private. Anche in Castiglia la monarchia mirò a sottomettere al suo servizio le grandi casate aristocratiche escludendole dalle cariche politiche e chiamando nel Consiglio reale. Sul piano finanziario, essi accrebbero in notevole misura le loro entrate, grazie in particolare a un'imposta indiretta che colpiva tutte le transazioni, l'alcabala, e riuscirono perciò per lunghi periodi a non convocare i ceti riuniti nelle Cortes del regno castigliano. Il potere di queste ultime fu poi ulteriormente ridimensionato quando, a partire dal 1538, alle loro sessioni non parteciparono più il clero e la nobiltà, ma solo i rappresentanti di alcune città, certo incapaci di resistere alle richieste della corona. Ben diversa fu invece la situazione istituzionale nel regno di Aragona, dove le Cortes delle tre province difesero con successo le proprie prerogative e rappresentarono un costante freno alla politica della monarchia. Nel 1492 Ferdinando e Isabella portarono finalmente a compimento la reconquista, vale a dire la secolare lotta contro la presenza musulmana, occupando dopo un lungo assedio Granada. In un primo tempo fu concesso ai musulmani di restare e di conservare le loro consuetudini e la loro religione. Ma l'unità nella fede cristiana era indispensabile per integrare i territori, così profondamente diversi dal punto di vista linguistico, sociale e istituzionale, che formavano il nuovo regno. Così alla cacciata degli ebrei, avvenuta come si è detto immediatamente dopo la caduta di Granada, segui un progressivo inasprimento della politica nei confronti dei musulmani che furono obbligati, per evitare di essere espulsi, a conversioni forzate e battesimi di massa. La morte della regina Isabella nel 1504 pose un delicato problema di successione, che mise in pericolo l'unione fra i due regni. In effetti la corona di Castiglia sarebbe spettata alla figlia dei sovrani, Giovanna, che aveva sposato il figlio dell'imperatore Massimiliano, Filippo il bello, che a Bruxelles governava i Paesi bassi. Ferdinando sperimentò in questa occasione quanto fosse infida la grande nobiltà castigliana, che si dimostrò in gran parte ostile a lui. La morte di Filippo nel 1506 e la pazzia di Giovanna risolsero la crisi dinastica e con sentirono a Ferdinando di continuare a governare anche il regno castigliano. Nel 1512 egli, occupando il regno di Navarra, portò a compimento l'unificazione della Spagna. 8.7 L'Inghilterra. Uscito vincitore dalla guerra delle due rose fra le famiglie di York (rosa bianca) e di Lancaster (rosa rossa) (1455-1485), Enrico VII Tudor (1485-1509) si occupò innanzitutto di restaurare l'autorità della monarchia contro le congiure e le violenze della nobiltà feudale, uscita per altro molto indebolita dal confitto, e si (assemblea territoriale). Egli sancì con alcuni decreti il processo di asservimento del mondo contadino e formò il primo nucleo di un esercito di professione con un soldo regolare, gli strel'cy, ("tiratori scelti"). Instaurò relazioni con gli olandesi e gli inglesi, i quali fondarono la prima impresa commerciale, la Compagnia della Moscovia. Nel 1560 la morte della moglie, che aveva arginato le tendenze violente del suo carattere, aprì una seconda fase del suo regno nella quale Ivan IV colpì con straordinaria crudeltà tutti coloro che riteneva, a torto o a ragione, suoi oppositori. Nel 1570 la città di Novgorod, sospettata di intese con la Polonia, fu saccheggiata e incendiata dai suoi miliziani. Sul finire del suo regno Ivan attaccò la Livonia nel tentativo di dare alla Russia uno sbocco al Baltico, ma fu sconfitto da Polonia e Svezia. Gli successe il figlio Fèédor (1584-1598), debole e malato di mente. La guida dello Stato fu assunta perciò dal ministro Boris Godunov, già uomo di fiducia di Ivan, il quale proseguì la politica di rafforzamento del potere centrale e istituì nel 1589 il patriarcato di Mosca. Alla morte di Fèédor, Godunov fu eletto zar da uno Zemskij Sobor La sua situazione divenne però precaria a causa di una terribile carestia che colpi Mosca e alla sua morte nel 1605 si aprì per la Russia un periodo di completa anarchia, nel quale comparvero altri falsi Dmitrij, finché nel 1613 uno Zemskij sobor elesse zar il tredicenne Michail Fédoroviù Romanov (1613-1645), portando sul trono la dinastia che vi sarebbe rimasta fino alla rivoluzione del 1917. 8.10 Ll’impero Ottomano. L'evento più importante nella situazione politica europea all'inizio dell'età moderna fu sicuramente la prepotente espansione dell'impero ottomano. Nel secolo XIV gli Ottomani estesero i loro domini fino a comprendere gran parte dei Balcani, tanto che nel 1388 il califfo di Bagdad riconobbe la loro potenza conferendo al sovrano il titolo di sultano. Nei primi decenni del XV secolo l'impero bizantino era ridotto ormai alla capitale Costantinopoli e per rafforzare il fronte cristiano, il concilio di Ferrara-Firenze tentò di superare le divisioni religiose proclamando un'effimera riunificazione fra la Chiesa orientale e quella romana, che però fu osteggiata dal clero bizantino e non ebbe seguito. Costantinopoli, presa il 29 maggio 1453, divenne la capitale dell'impero con il nome di Istanbul ("la città"). La cattedrale di Santa Sofia fu trasformata in moschea. Maometto si impadronì in seguito della Grecia, della Serbia, della Bosnia e dell'Albania, dei principati di Valacchia e Moldavia, giungendo a ridosso del regno di Ungheria. L'espansione ottomana interessò anche il mar Nero che, dopo l'acquisizione del Khanato di Crimea, divenne in pratica un mare interno dell'impero. Il sultano Selim I (1512-1520) combatté a Est contro l'impero persiano dei Safawidi, occupando l'Armenia e il Kurdistan; quindi, sottomise la Siria e sconfisse i mamelucchi, la casta militare di origine servile che dominava in Egitto. L'influenza ottomana si estese quindi sull'Egitto e sugli stati barbareschi del Nord Africa, che di vennero vassalli dell'impero. A Selim successe Solimano I il Magnifico (1520-1566) che prese nel 1522 l'isola di Rodi, obbligando i cavalieri a trasferirsi a Malta e, occupando Bagdad, spinse i confini dell'impero fino al golfo Persico. La conquista nel 1521 di Belgrado, l'unica città serba non ancora occupata, rese davvero concreta la minaccia di una invasione musulmana nel cuore dell'Europa cristiana. Alla base dell'espansionismo ottomano vi era intanto la solida struttura dell'impero, imperniata sull'autorità assoluta del sultano, coadiuvato da collaboratori che facevano parte del Consiglio (Divan) presieduto dal gran visir. Le entrate erano fornite dall'imposta, non particolarmente gravosa, pagata dai musulmani per le terre avute in concessione, dalla tassa dovuta dai non musulmani e dai dazi doganali riscossi lungo le strade e ai ponti. La giustizia, fondata in larga misura sui precetti coranici (che per il musulmano hanno valore di legge), era amministrata dai giudici, i kadi, con tradizionale equilibrio e buon senso. Sul piano militare la potenza ottomana fu fondata fin dal XIV secolo sulla formazione di un esercito regolare, il cui nucleo centrale era costituito dalla fanteria dei giannizzeri, formata da prigionieri di guerra e dalla leva coatta di bambini cristiani educati nella fede islamica e addestrati alla guerra con il divieto di sposarsi (devshirme). La cavalleria dei sipahi era composta invece da notabili i quali, in cambio delle entrate fiscali della terra data loro in concessione erano tenuti a combattere e a fornire un determinato quantitativo di truppe. L'economia si basava sul l'agricoltura, non particolarmente progredita in generale; la cellula di base era la famiglia contadina, che riceveva in dal villaggio una tenuta che non poteva vendere. Nell'insieme la condizione del mondo contadino era migliore rispetto all'Europa occidentale, sia perché le imposte statali e il prelievo da parte dei titolari dei timar (timarioti) erano moderati, sia per l'assenza di ogni servaggio. Nella prima metà del XVI secolo l'impero contava più di trenta milioni di abitanti; di questi una parte notevole era formata da cristiani e nei confronti delle altre religioni gli ottomani furono sempre tolleranti, e imponevano solo il pagamento prescritto dal corano per la gente del Libro. Molti cristiani e anche schiavi e liberti, convertendosi all'Islam, assursero a posti di rilievo nell'amministrazione. = CAPITOLO 8 - Civiltà e imperi extraeuropei. 9.1 L'Africa. Nelle zone nelle quali si era superata l'economia di raccolta, si praticava per lo più un'agricoltura di sussistenza, non integrata con l'allevamento. Tuttavia, non mancavano centri nei quali era attivo un fiorente artigianato, che produceva tessuti in lana e cotone, manufatti in terracotta, in cuoio e in ceramica, ed era in grado anche di lavorare con maestria i metalli. Molto importante per la storia del continente fu _ l'espansione dell'Islam, che conquistò dapprima i paesi rivieraschi del Mediterraneo, il cosiddetto Maghreb (in arabo occidente), e si diffuse poi, con maggior lentezza e difficoltà, nell'Africa occidentale e orientale. La penetrazione musulmana rappresentò ovunque un forte incentivo allo sviluppo delle attività commerciali e della urbanizzazione. Lungo le rotte del commercio transahariano si svilupparono, al limite meridionale del Sahara, città come Timbuctu, Gao e Kano, dove transitavano i prodotti dell'Africa nera (oro, avorio, pelli e schiavi) scambiati, tramite la mediazione di nomadi berberi, con il sale e i manufatti dell'Africa settentrionale. Tuttavia, le città erano una presenza marginale. Prevalevano società definite di tipo segmentario, strutturate in piccole comunità, nelle quali il principale elemento di coesione era un legame di tipo etnico o parentale, fondato in genere sulla immaginaria discendenza da un mitico capostipite comune del clan. Il carattere frammentario della società africana è confermato dal grande numero di dialetti e dalla varietà dei culti. Le religioni africane si fondavano su una visione magica, per la quale il mondo Nella seconda metà del XVI secolo il regime fu indebolito da aspre lotte di fazione e dal prevalere a corte degli eunuchi che, grazie al favore degli imperatori, divennero spesso una sorta di segretari personali, rendendosi responsabili di malversazioni o di abusi di potere. A partire dal 1620 scoppiarono numerose rivolte contadine, provocate dal malcontento per il prelievo fiscale e da una serie di carestie e di inondazioni. Quando nel 1644 il capo di una delle rivolte contadine entrò a Pechino, l'ultimo imperatore si impiccò. In seguito, i manciù si insediarono nella capitale e la Cina si trovò per la seconda volta soggetta alla dominazione straniera. In realtà il controllo dell'impero non era facile per i manciù: furono costretti perciò a servirsi della classe dirigente cinese e a mantenere la precedente struttura burocratica, ristabilendo gli esami per regolare gli accessi all'amministrazione. I manciù intendevano comunque preservare le proprie tradizioni: in segno di sottomissione i cinesi maschi furono obbligati ad adottare la tipica acconciatura manciù, radendosi la parte anteriore della testa e intrecciando i capelli restanti sulla nuca con una lunga coda di cavallo. Ma i manciù erano troppo poco numerosi rispetto alla etnia Han per cui essi andarono incontro a un inevitabile processo di assimilazione. Molto importante fu in particolare il regno di K'ang-tsi (1662-1722) che incentivò la cultura e rafforzò la struttura statale, e inoltre nel 1683 annesse all'impero Formosa (Taiwan). L'impero raggiunse la sua massima espansione sotto il regno di Qianlong (1735-1796) con l'annessione del Tibet e del Turkestan cinese o Xinjiang. 9.3 Il Giappone. Un primo nucleo di organizzazione politica si formò in Giappone, sul modello cinese, a partire dal VII secolo a Heian Kyo (oggi Kyoto) intorno alla Corte dell'imperatore. Nel 1192 si affermò a Edo (oggi Tokio) l'altro polo del dualismo istituzionale giapponese, lo shogunato: la carica di shogun divenne ereditaria e assunse il governo effettivo del paese, mentre l'imperatore, lontano nel suo palazzo di Kyoto, era al di fuori delle contese politiche come supremo depositario della legittimità. Tuttavia, già nel XIII secolo lo shogunato perse buona parte della sua autorità in quanto i grandi proprietari delle province si trasformarono in signori fondiari di fatto autonomi (daimyo) che disponevano di guerrieri di professione. Nella seconda metà del XVI secolo in questa sorta di anarchia feudale si imposero due capi militari che posero le basi per una riunificazione del paese: Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi. Infine, Tokugawa Jeyasu (1543-1616), membro di una ricca famiglia di militari, nel 1603 si fece nominare dall'imperatore shogun e diede avvio così a una nuova lunga fase della storia giapponese che prese il nome di era Tokugawa. Sul piano istituzionale l'era Tokugawa fu caratterizzata da un equilibrio fra tre centri di potere: a Kyoto la corte imperiale, a Edo lo shogun, che controllava più del 25% della produzione agricola e le principali città, e più di 250 signori feudali che di fatto erano signori assoluti nei loro territori. La religione nazionale era lo shintoismo (da shinto, "la via degli dei"), che considera tutti i fenomeni naturali espressione di forze divine; poiché lo shintoismo non si pone il problema dell'anima e della salvezza dopo la morte, e non è concepito come un culto religioso in senso proprio, la partecipazione ai suoi riti non preclude la possibilità di aderire ad altre religioni o dottrine filosofiche. Esso, infatti, ha fortemente subito l'influsso del buddhismo, penetrato in Giappone fin dal VI secolo d.C., e anche di alcuni aspetti del confucianesimo. Lo shintoismo per altro ha avuto una funzione importante in chiave nazionale perché ha fornito la legittimazione del potere dell'Imperatore, ritenuto, fino al 1946, di natura divina in quanto di scendente dalla suprema divinità shintoista, Amaterasi, la dea del sole. La società era fondata sulla divisione in 4 classi: guerrieri, agricoltori, artigiani e mercanti; poiché questo ordine era considerato una legge naturale, ciascuno era vincolato alla propria condizione. Non mancò tuttavia un notevole sviluppo economico, che modificò di fatto questa rigida struttura sociale. Infatti, vi fu un aumento del commercio interno e si formò un mercato nazionale; poiché era proibito ai guerrieri il commercio, i mercanti, pur disprezzati in base ai principi confuciani, videro crescere notevolmente le loro attività. Molte terre furono bonificate e fu intensificata la produzione del riso, ma soprattutto furono incentivate colture non volte alla sussistenza della popolazione, come il cotone, la canapa, il gelso, il tabacco e il tè. Prova di questa crescita furono l'aumento della popolazione, più che raddoppiata fra il 1600 e il 1720. Il Giappone era una delle nazioni a maggiore urbanizzazione, ma non conobbe il forte incremento demografico della Cina del XVIII secolo: dal 1720 al 1860 la popolazione rimase stabile. 9.4 L’impero Safawide di Persia. Nel 1478, alla morte di Uzun Hasan, turcomanno che dal 1466 aveva regnato su Armenia, Mesopotamia e Persia, si aprì un periodo di anarchia del quale approfittò Ismail I, membro di una famiglia di sceicchi della città di Ardabil nella Persia occidentale. Egli riuscì a sottoporre al suo dominio gran parte del territorio per siano fino al golfo Persico e nel 1501 si proclamò primo shah del l'Iran, fondando così la dinastia dei Safawidi destinata a regnare fino al 1722. Fin dall'inizio in effetti lo Stato persiano ebbe come suo principale nemico l'impero ottomano, con il quale fu costantemente in lotta, in particolare per il possesso dell'Iraq e il controllo dei numerosi principati musulmani e cristiani. Ai motivi politico-territoriali di conflitto si aggiunse poi una contrapposizione di natura religiosa gravida di conseguenze future. In effetti mentre l'impero ottomano, come si è detto, si poneva come erede dell'Islam sunnita, i Safawidi imposero come religione nazionale l'Islam sciita, che considerava degli usurpatori i primi tre califfi, riconosceva come solo successore legittimo di Maometto il quarto, il cugino e genero Alì i suoi discendenti. Un contributo decisivo al rafforzamento della dinastia venne dallo shah Abbas I il grande, il quale ottenne importanti vittorie sugli ottomani riconquistando nella zona caucasica il Dagbestan, la Georgia e l'Azerbaigian e occupando anche il territorio fino a Baghdad. Abbas si sforzò anche di incentivare il commercio fondando nel 1623 sul golfo Persico un porto che da lui prese il nome di Bandare Abbas. Egli spostò la capitale a Isfahan, che arricchì di grandi opere pubbliche. Con Abbas l'impero raggiunse il suo massimo splendore, testimoniato anche dalla grande fioritura letteraria e artistica. Dopo la sua morte l'impero ai avviò a un lento declino, segnato dalla lotta con l'impero ottomano per il possesso della Mesopotamia, che alfine fu stabilmente occupata dai sultani di Istanbul. Nel 1722 l'impero fu travolto da un'invasione degli afghani, che occuparono la capitale Isfahan. Si mise in luce allora un avventuriero di umili origini del Khorasan, Nadir Quli (1736- 1747), che sconfisse gli afghani e nel 1736 assunse egli stesso il potere e il titolo di Shah. Alla morte di Nadir Shah la Persia piombò fagioli, peperoni e zucche, e si praticava un'agricoltura intensiva su terreni alluvionali o attraverso reti di canali irrigatori. Nella zona andina molto importanti erano i lama peruviani, usati come bestie da soma, l'alpaca e la vi gogna per la lana che se ne ricavava. Era gli animali domestici erano conosciuti solo il tacchino, l'anatra e il porcellino d'India. Queste civiltà, ferme all'età della pietra, non conoscevano il ferro e non utilizzavano la ruota, ma costruirono grandi opere pubbliche e splendide città con importanti complessi monumentali. Spicca fra tutte la civiltà de Maya: questo popolo conosceva la scrittura e usava un sistema di numerazione vigesimale che implicava il concetto dello zero, I maya accumularono un gran numero di osservazioni astronomiche, calcolarono con grande precisione i cieli della luna e di Venere, e anche di altri pianeti, e predisposero tabelle che consentivano di prevedere le eclissi. Da meno di un secolo si era formato invece l'impero dei Mexica, una popolazione originaria del Messico settentrionale, proveniente da una mitica sede chiamata Aztlàn. Dopo varie migrazioni, nel XIV secolo gli aztechi si erano stabiliti sull'altopiano centrale fondando in un'isola del lago Texcoco il primo nucleo di Tenochtitlan (la futura Città di Messico), che sarebbe diventata la grande capitale del loro impero. Iniziò allora la loro rapida espansione che li portò a controllare tutto il Messico centro-meridionale e a estendere il proprio territorio fino alle coste del Pacifico e del L'Atlantico, penetrando anche nel territorio dei maya verso lo Yucatan. Gli aztechi usavano una scrittura pittografica. Non conoscevano moneta ma usavano merci per conguaglio (semi di cacao). La società era articolata in classi, secondo una rigida gerarchia sociale. Al vertice c'erano il sovrano e la nobiltà, mentre i mercanti di oggetti di lusso e gli artigiani, riuniti in corporazioni, avevano una condizione privilegiata; vi erano infine i contadini, ai quali la comunità (calpulli), formata da clan che si richiamavano a una comune discendenza. Gli aztechi avevano un gran numero di divinità: essi credevano in un ordine cosmico al quale gli stessi dèi erano sottomessi e i loro dei erano personificazioni delle forze della natura. I sacrifici umani, che ogni anno immolavano un gran numero di vittime, anche bambini, talora con pratiche particolarmente crudeli come l'offerta del cuore sanguinante della vittima, miravano appunto ad alimentare e rinvigorire con il dono del sangue umano agli dèi nella loro lotta contro le forze ostili. L'impero inca era il più potente dell'America precolombiana. L'espansione degli inca si realizzò nel corso del XV secolo quando con varie spedizioni sottomisero la regione andina spingendosi fino all'Ecuador: quindi occuparono l'attuale Bolivia e penetrarono in Cile e nell'Argentina settentrionale. A differenza degli aztechi, gli inca crearono un impero centralizzato grazie a un solido apparato burocratico. Il sovrano guidava dal centro l'impero con un ristretto gruppo di consiglieri. In sede locale erano i capitribù a garantire l'esecuzione del le direttive, con l'obbligo di recarsi periodicamente a Cuzco a rendere conto delle loro azioni. Le terre erano divise in tre parti: una parte era di proprietà del dio del sole e serviva per il suo culto, un'altra apparteneva all'inca e la terza era distribuita annualmente in usufrutto dalle comunità di base (ayllu) ai contadini. Gli inca non usavano la scrittura ma registravano le informazioni sulla popolazione e sulle risorse servendosi di cordicelle sulle quali facevano dei nodi (quipo). La popolazione era suddivisa in gruppi su base decimale; questa organizzazione era utilizzata per impiegare in modo razionale tutti gli uomini disponibili nella mita (tumo di lavoro), cioè nei servizi dovuti allo stato, ad esempio la costruzione dell'ottima rete di strade, i lavori pubblici, la coltivazione delle terre del sole o dell'inca. = CAPITOLO 9 - Umanesimo e Rinascimento. 10.1 Le origini dell’Umanesimo. Sviluppatosi dapprima in Italia fra Trecento e Quattrocento, il movimento umanistico perseguì un programma di radicale rinnovamento culturale ed educativo incentrato sulla rinascita dei grandi modelli dell'antichità classica. Gli umanisti ammirarono le grandi opere della cultura greca e latina non solo per il loro valore letterario o filosofico, ma perché ritrovavano in esse il nuovo modello di formazione dell'uomo al quale intendevano ispirarsi. L'umanesimo si sviluppò in particolare nelle città dell'Italia centro- settentrionale, autonome ormai dal potere imperiale e fiorenti di manifatture e commerci. In tal senso esso fu l'espressione delle aspirazioni e della visione del mondo di quei ceti emergenti che animarono la civiltà comunale. I destinatari della nuova cultura furono dunque uomini di palazzo, segretari e funzionari delle magistrature cittadine, maestri, esperti di diritto, notai, professionisti, nomini che si erano affermati nel mondo del commercio e degli affari. Vi fu quindi al centro del pensiero umanistico l'idea che l'uomo di lettere dovesse partecipare attivamente alla vita politica della sua città. Si è parlato perciò di umanesimo civile, soprattutto in relazione a Firenze, vera capitale del movimento umanistico, che ebbe come cancellieri Coluccio Salutati. Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini. Fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento il centro della vita artistica si spostò da Firenze a Roma, alla corte dei papi rinasci mentali. Ormai letterati e artisti trovavano protezione e sostegno materiale per la loro attività nel mecenatismo delle grandi famiglie principesche, i Gonzaga a Mantova, gli Este a Ferrara, i Montefeltro a Urbino. Nel frattempo, però la cultura umanistica si era progressivamente staccata dalle sue radici italiane e si era trasformata nel corso del Quattrocento, in un fenomeno europeo, che fece sentire la sua influenza fino in Ungheria, in Boemia e in Polonia. Fra gli intellettuali europei che ispirarono la loro attività ai canoni umanistici ricordiamo in particolare lo spagnolo Juan Luis Vives, i francesi Jacques Lefebvre d'Etaples e Guillaume Budé, in Germania Johannes Reuchlin, il circolo di Thomas Moree John Colet in Inghilterra, e soprattutto il massimo esponente della nuova cultura: Erasmo da Rotterdam. 10.2 La riscoperta della cultura classica. Per realizzare il loro progetto di rinascita degli studi classici, gli umanisti si dedicarono a una paziente opera di ricerca di manoscritti nei monasteri di tutta Europa: fra i tanti testi riportati allora alla luce ricordiamo il De rerum natura di Lucrezio, ritrovato da Bracciolini. Ancora più importante fu la riscoperta del greco: fu proprio Salutati a favorire l'istituzione a Firenze nel 1397 della prima cattedra di greco. Alla diffusione della lingua greca concorsero anche i dotti bizantini riparati nella penisola per sottrarsi alla minaccia ottomana. Molti umanisti durante i loro viaggi in oriente si impegnarono nella ricerca di manoscritti greci: in particolare si impose all'attenzione della cultura europea la filosofia di Platone, del quale fu finalmente messa in circolazione tutta l'opera grazie alla traduzione e al commento curati dal filosofo Marsilio Ficino. In generale la rinascita della cultura classica promossa dall'umanesimo favorì un allargamento della circolazione dei testi latini e greci, dapprima attraverso il moltiplicarsi delle copie manoscritte e poi in misura ancor più grande grazie alla rapida diffusione della stampa. Le tipografie si diffusero velocemente in tutta Europa, dando un contributo decisivo all'allargamento della vita culturale. Si stima che le copie stampate fino al 1500, che si chiamano incunaboli, fossero fra i 10 e i 20 milioni. Fu questa l'età in cui si formarono, dapprima con i preziosi manoscritti, poi anche con i libri stampati, splendide biblioteche, la prima delle quali fu proprio quella di Petrarca. 10.3. Continuità o rottura? razionalità dell'uomo spicca la celebre orazione De dignitate hominis composta nel 1486 da Pico della Mirandola (1465 1494). In questo elegantissimo e raffinato apologo sulla creazione, Pico immagina che Dio, dopo avere dato esistenza a tutti gli esseri del creato, abbia pensato di produrre l'uomo affinché vi fosse anche qualcuno in grado di comprendere e ammirare la ragione, la bellezza, la vastità di un'opera così meravigliosa; sennonché egli si accorse che, avendo esaurito ormai tutti i modelli possibili nella gerarchia degli esseri e avendo occupato tutti i luoghi del mondo, non aveva da dare al nuovo essere alcuna forma propria né poteva riservargli un posto prestabilito. Fra tanti testi si segnala in particolare l'opera pubblicata nel 1516 da Thomas More, Utopia, che descrive la felice situazione sociale del l'isola di Utopia sulla base del racconto di un marinaio portoghese che l'aveva visitata nel corso dei suoi viaggi. Presso gli Utopiani non esiste proprietà privata né denaro, tutti lavorano per sei ore al giorno e possono impiegare la restante parte del loro tempo in attività intellettuali, non ci sono guerre e sono tollerate tutte le religioni, accomunate dalla fede in un Dio buono e provvidente. Insomma, nell'isola si vive un'esistenza armoniosa, semplice e fondata sulla ragione naturale. L'opera è ispirata allo Stato perfetto descritto da Platone nella Repubblica, e infatti ha dato il nome a tutta la corrente di pensiero che attraverso l'età moderna e fino ai giorni nostri ha presentato modelli ideali di società. Ma Utopia rappresenta con ogni evidenza la proiezione dell'ideale di vita caro al movimento umanista. 10.6 La nuova concezione della natura. Molto si è discusso del rapporto fra il pensiero umanistico e lo sviluppo di una nuova concezione scientifica del mondo fisico e naturale. Bisogna osservare innanzitutto che lo sviluppo della scienza moderna non si realizzò lungo un percorso lineare, vale a dire attraverso una progressiva e inarrestabile affermazione di teorie razionali, ma fu un processo molto più complesso e tortuoso. La rinascita della cultura antica a opera degli umanisti riportò in auge un sapere magico, condannato dal Medioevo come opera diabolica, che partecipò in modo significativo a quel processo di riscoperta e di valorizzazione della natura che viene individuato come un momento decisivo dell'avvento della modernità. Grande fortuna ebbe la versione latina, curata nel 1463 da Marsilio Ficino, del Corpus hermeticum, una raccolta di scritti filosofici a teologici, risalenti al II secolo d.C., attribuiti a una mitica figura di antichissimo sapiente, Ermete Trismegisto. Questi testi tramandavano i principi di un sapere occulto, in quanto riservato a pochi iniziati, che conteneva il segreto per dominare, attraverso arti magiche, le forze misteriose che animano il mondo. Le dottrine ermetiche ebbero un posto di primo piano nella cultura rinascimentale, ma richiami a questo mondo si ritrovano lungo tutto il corso del pensiero scientifico moderno, in Keplero, in Francis Bacon, in Descartes, in Leibniz. Assai diffusa, e praticata anche da uomini di alta cultura, era all'epoca l'astrologia, vale a dire lo studio degli influssi che il moto degli astri ha su tutti i movimenti nel mondo terreno, e quindi anche sulle passioni, sulle tendenze e sui caratteri dell'uomo. Né erano ancora ben definiti i confini fra la chimica e l'alchimia, vale a dire il complesso di teorie e di pratiche che miravano alla trasmutazione dei metalli in oro o alla scoperta di sostanze in grado di prolungare la vita. Anche lo studio della matematica si accompagnò a lungo alla diffusa convinzione del valore simbolico e magico dei numeri, i quali, secondo dottrine risalenti alla tradizione pitagorica o alla mistica ebraica nota con il nome di cabala, avrebbero celato un codice che conteneva la chiave per interpretare i segreti della natura. Fin dal 1440 il filosofo tedesco Niccolò Cusano o da Cusa affermò l'idea di un universo infinito, nel quale non esiste un centro. Questa convinzione metteva di fatto in discussione l'immagine del cosmo fondata sulla fisica aristotelica e condivisa da tutta la cultura medie vale. La teoria di Aristotele poneva la terra immobile al centro dell'universo. Quest'ultimo era racchiuso dalla sfera delle stelle fisse, il cui moto rotatorio progressivamente alle sfere sottostanti dei pianeti fino a quella della luna, che segnava il limite del mondo celeste. Questa teoria stabiliva una sostanziale diversità fra il mondo celeste e il mondo terrestre o sublunare: i corpi celesti, pianeti e stelle, erano fatti di etere, elemento trasparente e imponderabile, puro e inalterabile, e si muovevano di moto circolare uniforme, simbolo di perfezione, mentre il mondo sublunare, composto dei quattro elementi fuoco, aria, acqua e terra, era il regno della molteplicità e della imperfezione, rappresentata dal moto rettilineo difforme. 10.7 Il prezzo della modernità. Il trapasso dal mondo medievale all’età che per convenzione continuiamo a definire moderna fu ricco di contraddizioni: la mentalità medievale assegnava a ogni uomo nella società un posto e una funzione stabiliti, riconducibili in ultimo alla volontà divina; ora l'uomo rivendicava la propria dignità e la propria libertà di scelta nella vita terrena, ma questo lo caricava di una responsabilità prima sconosciuta, che portava inevitabilmente con sé il crollo di antiche, radicate certezze. La stessa concezione astronomica prospettata da Copernico apriva alla considerazione del pensiero umano una dimensione per molti versi sconvolgente. Cadeva la rassicurante immagine medievale del cosmo, chiuso e fisso nell'eterna regolarità del moto circolare uniforme: la terra, con i suoi moti di rotazione e di rivoluzione, non era che un punto nell'universo infinito. Si crearono così le premesse per il superamento di alcuni principi indiscussi del pensiero medievale, come ad esempio la tradizionale tendenza a conferire maggiore nobiltà alla quiete rispetto al movimento, alla stabilità rispetto al mutamento. Non a caso in molti scritti del periodo alle celebrazioni della virtù, intesa come capacità dell'uomo di dirigere gli eventi, si contrappone la fortuna, ovvero, secondo i canoni della cultura classica, il fato, il destino avverso, la combinazione di circostanze che ostacola i disegni dell'uomo e ne vanifica gli sforzi. Il tema fu ripreso poi dal Machiavelli nella parte conclusiva del suo trattato dove, nel delineare la sua figura di principe nuovo, lo esortò comunque a tentare di liberare l'Italia dal dominio straniero giacché se una metà delle azioni umane è determinata dalla fortuna, l'altra però dipende dall'abilità, dalla, forza, dall'astuzia, cioè dalla virtù dell'uomo politico. 10.8 Erasmo da Rotterdam. Il più importante esponente della cultura umanistica, Erasmo da Rotterdam, perseguì l'ideale di un Umanesimo cristiano, nel quale alla rinascita degli studi classici si coniugava con il ritorno allo spirito evangelico del Cristianesimo delle origini. Ordinato sacerdote nel 1492, si dedicò per tutta la vita alla libera attività intellettuale. Erasmo acquisì precocemente una solida formazione umanistica, che integrò con l'apprendimento del Greco. Importante fu la relazione con gli amici More e Colet, i quali, in contatto con il circolo Fiorentino di Ficino, lo accostarono ad alcuni temi della fosse molto più corto e avesse una forma tondeggiante, facile quindi da circumnavigare. Per primo tentò l'impresa Bartolomeu Dias che nel 1487 doppiò la punta meridionale dell'Africa, chiamata poi capo di Buona Speranza. Nel frattempo, Giovanni II inviò in oriente due emissari che parlavano l'arabo per avere informazioni più precise sui mercati e sugli scali dell'oceano Indiano. Giunsero allora in Europa confuse notizie su un potente Stato cristiano all'interno del continente (evidentemente l'impero etiopico) che furono ricollegate alla leggenda medievale del prete Gianni, signore in Oriente di un regno nemico dei musulmani. 10.4 L’impresa delle Indie di Cristoforo Colombo. In questi stessi anni chiese udienza al sovrano portoghese il genovese Cristoforo Colombo, nella speranza di ottenere un finanziamento. Il genovese fu ricevuto da Giovanni II che però decise di non finanziare il suo progetto, in quanto aveva ormai deciso di concentrare i suoi sforzi sul tentativo di circumnavigazione dell'Africa. Colombo trovò invece un clima favorevole nella Spagna dei re cattolici impegnati nell'assalto finale al regno moresco di Granada. Il finanziamento fu assicurato in parte dalla corona spagnola, in parte da banchieri amici di Colombo. A bordo di due caravelle (la Nina e la Pinta) e di una nau, un ve liero più grande, la Santa Maria, presero il mare il 3 agosto 1492 dal porto di Palos 120 uomini fra i quali un interprete di arabo, greco ed ebraico. Era già alle viste un ammutinamento quando il 12 ottobre, dopo 36 giorni di navigazione, fu raggiunta la terra, un'isola delle Bahamas che fu chiamata San Salvador. In seguito, la spedizione toccò Cuba e Haiti, chiamata Hispaniola. Avendo fatto naufragio la Santa Maria, ritornarono due sole navi che, spinte da una tempesta nelle Azzorre, giunsero infine a Lisbona dove Colombo fu ricevuto dal re Giovanni II. Dopo la prima spedizione Colombo fece altri tre viaggi: nel 1493 1496, con una vera flotta di 17 navi e 1200 nomini, e poi nel 1498 1500 e nel 1502-1504; egli scoprì molte delle isole caraibiche e giunse fino in Costarica, Honduras e Panama, ma solo nel terzo viaggio toccò il continente americano, alle foci del fiume Orinoco in Venezuela. Egli scambiò questi territori per le isole del Giappone e, fino Illa fine, rimase convinto di trovarsi nelle Indie. 10.5 I viaggi di Giovani Caboto. Nel 1497 l'italiano Giovanni Caboto, al servizio del re d'Inghilterra, tento di raggiungere le Indie attraverso una rotta più settentrionale, ritenuta più breve di quella seguita da Colombo. Egli raggiunse le coste dell'America del Nord probabilmente all'altezza dell'isola di Terranova, convinto anch'egli di essere giunto in Asia, e rivendicò quelle terre alla sovranità della corona inglese. L'anno seguente partì per un secondo viaggio sul quale non si hanno molte notizie e dal quale probabilmente non fece ritorno. 10.6 L’impero portoghese. Al successo della Spagna si affrettò a rispondere la corona portoghese portando a compimento la circumnavigazione dell'Africa e l'impresa fu affidata a un nobile, Vasco da Gama. Egli partì nel luglio 1497 con quattro navi e circa 170 uomini fra i quali anche Dias; doppiato il capo di Buona Speranza, egli giunse a Malindi, dove ottenne la collaborazione di un esperto pilota arabo. I rapporti con i principi locali non furono facili, ma in ogni modo Gama riuscì a ottenere una certa quantità di pepe e cannella e dopo un faticoso viaggio fece ritorno a Lisbona. Il compito di consolidare questa rotta commerciale fu affidato a una nuova spedizione comandata dal nobile Pedro Alvares Cabral, che partì nel marzo del 1500 con 13 navi e circa 1600 uomini. Allontanandosi dalla costa per intercettare, secondo la rotta consueta, il corso dei venti alisei per poi puntare verso sud, la flotta compi una larga deviazione che la portò a toccare le coste di una terra sconosciuta. Giunto a Calicut, Cabral vi fondò un emporio ma dovette far fronte all'ostilità dei mercanti arabi e locali. Sulla costa dell'Africa orientale i portoghesi, approfittando delle rivalità fra le città stato swahili (in arabo- costa), si allearono con Malindi e Mozambico e schiacciarono con la forza la resistenza di Mombasa, che fu rasa al suolo: da allora l'egemonia portoghese si sostituì a quella musulmana. I portoghesi costruirono una serie di fortezze a protezione dei loro empori e strinsero o imposero con la forza accordi commerciali con i sovrani locali. Nel 1510 egli occupò Goa, nel 1511 conquistò Malacca; quindi, costrinse anche il sultano di Calicut a sottomettersi e ad accettare la presenza di una fortezza portoghese e infine nel 1515 prese l'isola di Hormnz all'imboccatura del golfo Persico. Fallirono però i tentativi di occupare Aden e di chiudere il mar Rosso, per cui i portoghesi non riuscirono a bloccare le tradizionali vie commerciali fra l'oceano indiano e il Mediterraneo orientale, e dovettero accontentarsi di riscuotere dei pedaggi. 10.7 Mondo Nuovo. Nel 1499-1500 e nel 1501-1502 il fiorentino Amerigo Vespucci prese parte a due spedizioni, la prima organizzata dalla Spagna e la seconda dal Portogallo, che esplorarono le coste atlantiche dell'America meridionale e comprese che non dell'Asia si trattava, ma di un nuovo continente. 10.8 Il viaggio di Magellano. L'idea di aggirare il continente americano da Sud fu concepita da un portoghese che aveva combattuto in Africa e in India per il suo paese, Ferdinando Magellano. Magellano convinse infatti Carlo Va finanziare la sua impresa promettendogli di rivendicare alla sovranità spagnola le Molucche, già raggiunte dai portoghesi. La spedizione, composta da 5 navi e 270 uomini, partì da Siviglia nel settembre 1519. Dopo una breve sosta in Brasile, raggiunse nel marzo 1520 la Patagonia do ve dovette fermarsi a passare l'inverno per le cattive condizioni climatiche. Ripreso il viaggio, Magellano nell'ottobre 1520 trovò lo stretto che da lui avrebbe preso il nome e passò nell'oceano che egli chiamò Pacifico. Nel marzo 1521 raggiunse un gruppo di isole che rivendicò al re di Spagna e che si sarebbero chiamate in seguito Filippine. Qui Magellano rimase ucciso in uno scontro con gli indigeni. Dopo un lungo viaggio attraverso l'oceano Indiano e intorno all'Africa tornò in patria nel settembre 1522 una sola nave con meno di venti uomini. Lo Stretto di Magellano, a causa delle difficoltà della navigazione, non poté essere utilizzato come una normale via di passaggio dall'atlantico al Pacifico. 10.9 La conquista. Con il viaggio di Magellano l'era delle grandi esplorazioni era di fatto conclusa. Cominciò allora L'epoca della conquista della colonizzazione delle terre che erano state scoperte. Nel 1495 un decreto dei sovrani spagnoli concesse a tutti i sudditi che volevano cercare fortuna nelle nuove terre, il permesso di partire con l'obbligo di riservare alla corona il 10% dei beni riportati in patria importati dall'Europa anche l'orzo, il riso le varie piante da frutta. Come noto dal continente americano furono invece portati in Europa prodotti agricoli divenuti poi essenziali nell'alimentazione: mais, patata dolce, zucchine pomodoro, ananas, cacao, tabacco. 10.13 L’evangelizzazione. Fin dall'inizio le spedizioni marittime dei portoghesi furono animate dalla volontà di diffondere la religione cristiana. L'espansione portoghese assunse quindi il carattere di una crociata contro l'Islam che stringeva l'Europa cristiana in una morsa fra l'impero Ottomano che avanzava nel Mediterraneo e gli stati musulmani che occupavano gran parte dell'Africa settentrionale. Colombo si sentiva investito della missione di salvare le anime degli indigeni educandoli alla religione di Cristo, propagarono un cristianesimo animato dallo spirito di crociata, propenso cioè all'uso della forza per ottenere la conversione al proprio credo. L'inquisizione venne istituita nel 1531 in Portogallo e fu estesa 30 anni dopo anche ai domini asiatici. 10.14 L’impatto della scoperta. Le esplorazioni geografiche cancellarono la concezione medievale di un blocco di 3 continenti (Europa, Africa, Asia) posta nell'emisfero settentrionale e circondato dall'oceano. Gli straordinari progressi nella conoscenza del pianeta posero le basi per un ridimensionamento del mito dell'antichità classica: i moderni avevano superato le colonne d'Ercole che segnavano il confine del mondo antico e che il medioevo aveva posto come un limite oltre il quale non era possibile spingersi. Ma non meno sconvolgente fu l'impatto culturale. Attraverso la scoperta si realizza l'incontro fra due mondi rimasti sconosciuti l'uno all'altro: un evento straordinario, unico nella storia mondiale. Ci si interrogò sulla natura degli abitanti del nuovo mondo, un quesito che fu sciolto da Papa Paolo III che li dichiarò uomini come tutti gli altri. A queste posizioni non fu insensibile Carlo V: nel 1542 egli promulgò le nuove leggi che equiparavano gli indios agli altri sudditi e prescrivevano che si sarebbe dovuto tenere conto delle loro tradizioni e delle loro gerarchie interne. = CAPITOLO 11 - La Riforma protestante. 12.1 Le premesse. Da tempo era viva nel corpo della cristianità l'aspirazione a una riforma che ponesse fine alla corruzione della chiesa. La crisi dello scisma d'Occidente dove si erano contrapposti due e per un certo periodo tre papi, fu risolta al concilio di Costanza, con l'elezione di Martino V, ma il ruolo del papato fu messo in discussione dalla formazione delle dottrine conciliariste, che sia a Costanza sia nel successivo Concilio di Basilea proclamarono la superiorità del Concilio, espressione della chiesa universale, rispetto al Pontefice. La spregiudicata gestione del potere da parte di Roma provocava un diffuso malcontento tra i fedeli, le critiche al papato non si limitavano a condannare il lusso della Curia invocando una riforma morale, ma era vivo fra laici ed ecclesiastici, un desiderio di rinnovamento spirituale. Tutti questi orientamenti trovarono come principale punto di riferimento l'opera di Frasmo, che fu considerato un anticipatore di Lutero. Egli era stato preceduto da alcuni riformatori radicali che avevano già proposto molti dei temi che gli avrebbe sviluppato nella sua opera: di inglese John Wyclif e il movimento da lui ispirato dei lollardi, Il teologo dell'università di Praga Jan Hus. La protezione della Camera dei comuni aveva sottratto Wyclif alla punizione come eretico ma una sorte diversa era toccata Hus, condannato al rogo. La Riforma luterana ebbe insomma diversi antecedenti e cadde in un terreno che era ben pronto a riceverla; essa si intrecciò del resto, come vedremo, con numerosi aspetti della vita politica ed economi co-sociale che risultarono decisivi per la sua affermazione. Tuttavia per comprendere la genesi della Riforma bisogna innanzitutto con siderare la personalità di Lutero, il drammatico percorso lungo il qua le egli affronto e risolse il problema che lo angosciava: la salvezza dell'uomo. 12.2 Lutero. Martin Lutero nacque in Turingia nel 1483, la madre apparteneva un'agiata famiglia borghese mentre il padre Hans, aveva interessi nell'attività mineraria di estrazione del rame. Studiava giurisprudenza all'Università di Erfurt quando nel 1505 decise di entrare nel convento degli eremiti agostiniani della città, dove due anni dopo prese il sacerdozio. La decisione fu presa dal pericolo corso per la caduta di un fulmine, in particolare lo angosciava la prospettiva di una morte senza confessione. In effetti fin dall'inizio della sua esperienza religiosa fu condizionato da una vera ossessione per il problema della salvezza. Egli concepiva la vita come una lotta contro il demonio, sempre pronto a tentare l'uomo per trascinarlo nel baratro della perdizione eterna. Lutero si dedicò agli studi biblici e divenne insegnante di teologia all'Università di Wittenberg. È proprio in un ciclo di lezioni sull'epistola ai Romani di Paolo di Tarso che trovò la rivelazione della quale andava in cerca: ‘’il giusto vivrà in virtù della fede’ ’Si delineava nelle parole di Paolo di Tarso, Il punto fondamentale della dottrina luterana, la giustificazione per sola fede. Tommaso D'Aquino aveva affermato che la salvezza è opera della grazia divina, ma aveva anche ritenuto che l'uomo, in virtù del libero arbitrio dato da Dio, fosse capace di fornire un proprio contributo. La salvezza è un dono di Dio. L'uomo ha in questo un ruolo assolutamente passivo: è la Grazia divina che, infondendogli la Fede, lo rende giusto e lo chiama alla vita eterna. 12.3 La questione delle indulgenze Alberto di Hohenzollern, già titolare di due vescovati, ambiva ad ottenere anche l’arcivescovato di Magonza; occorreva per questo una dispensa papale, che fu ottenuta con il pagamento di un ingente somma di denaro. Il papa concesse perciò ad Alberto il permesso di lanciare nei suoi territori, una campagna di vendita delle indulgenze il cui ricavato sarebbe stato diviso a metà: una parte sarebbe servito ad Alberto per restituire la somma anticipata dai banchieri, l'altra parte sarebbe servita a contribuire alla costruzione della basilica di San Pietro a Roma. Lutero di fronte a questa situazione prese posizione con la redazione in latino di 95 tesi che, secondo una tradizione non verificata, affissò alla porta della Cattedrale di Wittenberg nel 1517. La pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti dei Santi: a questo patrimonio si poteva accedere, attraverso la mediazione della chiesa, per compensare le colpe dei peccatori, i quali potevano tenere in tal modo, per sé o per i defunti, la remissione parziale o totale delle pene temporali da scontare in Purgatorio. Lutero condannava le indulgenze perché creavano nel Cristiano un atteggiamento sbagliato, lo incitavano a intraprendere una scorciatoia mentre invece ogni uomo consapevole della propria miseria doveva manifestare un sincero e profondo pentimento per i propri peccati. era il contesto nel quale egli operò: Zurigo era una città ricca, con una colta borghesia, impegnata in attività mercantili e finanziarie. A Zurigo quindi la riforma fu opera del Consiglio cittadino, che di fatto esautorò il vescovo attribuendosi il governo della chiesa. Proprio perché la fede è spirituale e deve prescindere dagli aspetti materiali, egli abolì le immagini sacre e la musica. Il Tempio si presenta austero, egli negava ogni presenza reale nell'eucaristia, che concepì come un semplice simbolo dell'ultima cena. Da Zurigo la riforma si diffuse in molte città della Svizzera, fra cui Berna e Basilea. Alla fine, I cantoni protestanti dovettero combattere da soli contro quelli cattolici, e furono sconfitti nella battaglia di Kappel, nella quale perse la vita lo stesso Zwingli. 12.8 Calvino. 12.9 La dottrina di Calvino. Nacque Nel 1509 in Francia, il giovane ebbe una solida formazione umanistica, la sua vita cambiò con l'adesione ai Principi della riforma punto Nel 1534 fu costretto a lasciare la Francia per sfuggire alle persecuzioni lanciate contro gli eretici da Francesco I. A Basilea dove si era rifugiato, Calvino pubblicò nel 1536 la institutio religionis cristianae, dove esponeva la sua dottrina. La dottrina: il pensiero di Calvino è incentrato sul principio dell'onnipotenza di Dio, sovrano assoluto di tutto il creato. Secondo la dottrina della doppia predestinazione, la salvezza è un atto di misericordia, per i quali i prescelti non possono vantare alcun merito; per parte loro i dannati non hanno alcun diritto di lamentarsi della loro sorte. Questa concezione assai dura, diventava invece per il calvinista una fonte di energia positiva, purché egli avesse la forza di lasciarsi alle spalle il pensiero della propria salvezza individuale per sottomettersi al volere divino punto per Calvino è inutile macerarsi nel timore del proprio destino, il quale è già deciso dalla nascita da Dio quindi immodificabile. La grazia Divina obbliga il Cristiano a vivere nella fiducia che Dio lo abbia scelto, impegnando ogni attimo della sua esistenza per celebrare la sua gloria punto ci potrebbero essere dei segni che Dio abbia scelto i prescelti, questi sono l'adesione alla chiesa, il concentrarsi sulla famiglia e sul lavoro. 12.10 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. In due saggi pubblicati agli inizi del Novecento e ristampati in vo lume nel 1920 il sociologo tedesco Max Weber affermò che il concetto di vocazione, inducendo il calvinista a interpretare i profitti conseguiti nella sua attività come una prova del favore divino, avrebbe contribuito al sorgere della mentalità capitalistica. L'attivismo del calvinista si esplicava innanzitutto sul terreno religioso, come testimonianza dei valori evangelici e come divulgazione della parola di Dio. D'al tra parte è difficile stabilire un parallelo fra l'evoluzione nel tempo e nello spazio del capitalismo e la diffusione del calvinismo. Il fatte è che la tesi di Weber deve essere considerata sul piano sociologico, non su quello storico: egli, esaminando la realtà delle società calviniste nei secoli successivi al Cinquecento, individuò un modello tipico di mercante che considerava il suo guadagno come una benedizione divina e quindi, vivendo in modo estremamente frugale e austero, lo utilizzava o per reinvestirlo nella sua impresa o a soccorso dei poveri. 12.11 Ginevra città di Dio. Nel 1541, subito dopo il suo rientro in città, Calvino con le Ordonnances ecclésiastiques gettò le basi della struttura della sua Chiesa. Secondo il modello del Nuovo Testamento, egli istituì quattro ordini: i pastori o ministri, riuniti nella Venerabile compagnia dei pastori; i dottori, ai quali era affidata l'educazione e la difesa dell'ortodossia; i diaconi, che si occupavano dell'assistenza ai malati, e dodici anziani laici (presbiteri) scelti dal Consiglio cittadino fra i suoi membri con il compito di vigilare sulla vita cristiana. Diversamente da Lutero, Calvino garantì quindi l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, che non poteva intromettersi nella vita della comunità riformata. A rigore di termini, a Ginevra non si stabilì una teocrazia, giacché il potere politico e quello religioso rimasero distinti. Il governo fu sempre nelle mani del Piccolo consiglio, espressione del patriziato, e solo dal 1555 i sostenitori della Riforma disposero della maggioranza al suo interno. Tuttavia, egli attraverso gli organi della sua Chiesa, impose una rigorosa disciplina, che tese a trasformare la città in una repubblica di santi: fu proibito il gioco con le carte, furono vietati i nomi di batte simo non presenti nella Bibbia, furono puniti i balli immorali, gli abbigliamenti lussuosi o eccentrici. In tal senso si può parlare, più che di teocrazia, di bibliocrazia, nel senso che la legge della Bibbia fu posta a fondamento di tutta la vita non solo religiosa, ma anche politica, sociale ed economica della città. Calvino, quindi, attribuiva al potere politico il dovere di ispirare le sue azioni alla parola di Dio, e riteneva anche che fosse legittima la resistenza contro provvedimenti ingiusti, non da parte dei singoli sud diti, ma su iniziativa delle magistrature inferiori. La sua azione riformatrice si legò in modo indissolubile alla città anche perché si impose come la principale garante della sua autonomia: Ginevra, che solo nel 1815 sarebbe entrata a far parte della Confederazione elvetica, grazie all'adesione alla Riforma si co stitui in repubblica indipendente. 12.12 Il caso Serveto. In questa prospettiva si spiega l'esecuzione capitale di Miguel Serveto. Questi era un medico spagnolo che aveva divulgato in precedenza posizioni contrarie al dogma della trinità. Di passaggio a Ginevra, fu riconosciuto e denunciato e, dopo un processo, bruciato vivo nel 1553 per anabattismo e antitrinitarismo. La sentenza fu formalmente emessa da un magistrato civile, il Piccolo consiglio, ma Calvino, interpellato come teologo, si pronunciò a favore della con danna capitale. 12.13 Geografia della Riforma. La diffusione del Luteranesimo in Germania fu sicuramente favorita dal fatto che esso dava la possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della Chiesa e ai feudatari ecclesiastici di secolarizzare i loro beni dando vita con essi a dei principati laici. La guerra dei contadini segnò involuzione conservatrice nell'organizzazione della Chiesa luterana, un arresto della sua espansione in Germania per il timore di rivolgi menti sociali che si diffuse nella nobiltà e nella borghesia cittadina. Convinto che la corona imperiale gli assegnasse la missione universale di ripristinare l'unità della cristianità, Carlo V si impegnò con ogni mezzo per superare la divisione religiosa della Germania, che rappresentava del resto un oggettivo fattore di indebolimento della sua azione politica. Dopo avere sconfitto la Francia e ottenuto il controllo dell’Italia, egli minacciò alla Dieta di Spira del 1529 di rimettere in vigore gli editti contro il luteranesimo approvati alla Dieta di Worms. L'anno seguente alla Dieta di Angusta il principale collaboratore di Lutero, Filippo Melantone, di formazione umanistica, presentò, in vista di un tentativo di conciliazione, una versione particolarmente moderata dei principi della teologia luterana, la Confessio augustana. Il luteranesimo si stabilì anche nell'Europa settentrionale, dove dal 1397 l'unione di Kalmar aveva istituito, sotto l'egemonia danese, un legame personale fra i tre regni di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il passaggio alla Riforma di queste regioni fu dovuto in
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved