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Storia moderna, Vittorio Criscuolo, Dispense di Storia Moderna

Un riassunto efficace del manuale

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 16/12/2020

GianmarcoCr
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Scarica Storia moderna, Vittorio Criscuolo e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! STORIA MODERNA Vittorio Criscuolo CAPITOLO 1 L’ECLISSI DELLA MODERNITÀ 1.1 I limiti dell’età moderna L’inizio della storia moderna viene ricondotto al 1492, anno della scoperta dell’America, ma si tratta di una scelta convenzionale e arbitraria. Più che a una data specifica, il punto di partenza deve essere ricondotto a uno spazio di tempo compreso tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, che fu caratterizzato da una serie di trasformazioni e di innovazioni di grande portata, da far segnare nella stessa percezione dei contemporanei una svolta o una rottura nella continuità del processo storico. La fine della storia moderna e l’inizio di quella contemporanea può essere collocato fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, quando l’avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra e la caduta dell’antico regime per opera della Rivoluzione francese modificarono profondamente la realtà economica, sociale, politica e culturale dell’Europa occidentale. 1.2 Moderno La nascita di “moderno” come aggettivo sostantivato designava i contemporanei. Furono gli umanisti che a partire dal XV secolo manifestarono la convinzione che stesse nascendo una nuova età, nella quale sarebbero ritornati attuali i grandi modelli dell’antichità greco-romana, dopo un periodo intermedio, la media aetas. Il programma dell’umanesimo presupponeva l’idea di progresso, un progresso concepito in forma ciclica, come rinascita della grande lezione degli antichi in ogni campo. Il termine “moderno” si caricava quindi di un valore positivo che era un riflesso dell’enorme prestigio dell’antico. Un ulteriore passo verso la costruzione della modernità si ebbe con la disputa degli antichi e dei moderni che si sviluppò tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Questo dibattito sancì in definitiva l’affermazione della coscienza europea della superiorità dei moderni, i quali potevano disporre ormai di un patrimonio di conoscenze e di esperienze che consentiva loro di progredire oltre i grandi esempi del mondo classico, il cui valore non era negato, ma era definitivamente ricacciato nel passato. Nello stesso periodo veniva a maturazione anche la critica storica della tradizione biblica che poneva le basi per una definitiva separazione fra la storia sacra, dettata dalla rivelazione e fondata quindi su una base teologica, e la storia profana, il cui processo era determinato esclusivamente dall’opera dell’uomo. Era la premessa per l’affermazione dell’idea di progresso espresso dall’illuminismo che, superando il concetto ciclico del tempo, assumeva un carattere lineare: esso si fondava infatti sulla fiducia in un avanzamento illimitato della civiltà. 1.3 Il mito del Rinascimento Nato dalle correnti storiografiche di orientamento democratico-radicale, il concetto di età moderna era l’espressione di un punto di vista laico, sostanzialmente anticattolico, incentrato sulla affermazione dell’individuo, che a partire da quel periodo aveva rivendicato la capacità di costruirsi il proprio destino e conquistato finalmente la propria libertà di pensiero e di coscienza contro le autorità e i dogmatismi che ne avevano limitato o frenato lo sviluppo. La borghesia europea trovava le proprie radici fra il Quattrocento e il Cinquecento, con la nascita delle grandi monarchie, che avevano avviato il processo di formazione degli Stati nazionali protagonisti della realtà politica ottocentesca. 1.4 L’inizio dell’età contemporanea Anche il punto di arrivo dell’età moderna è stato oggetto negli ultimi decenni di interpretazioni. Per quanto concerne la Rivoluzione francese, il cosiddetto revisionismo storiografico, polemizzando con l’interpretazione classica elaborata dalla storiografia marxista, ha negato che essa abbia rappresentato la fine del sistema feudale e aperto la strada all’avvento della società borghese, e ha insistito sui molti motivi di continuità tra l’antico regime e la Francia rivoluzionaria e napoleonica. Sembra però difficile negare il ruolo giocato dalla Rivoluzione francese che, attraverso la legislazione imposta in tutti i paesi occupati , aprì effettivamente una nuova fase nel corso della storia europea. In relazione alla rivoluzione industriale, si è osservato che essa si estese agli altri paesi dell’Europa occidentale con notevole ritardo, e che nella stessa Inghilterra fece sentire i suoi effetti dopo diverso tempo, senza provocare una trasformazione repentina e radicale. Non c’è dubbio però che la struttura economica-sociale dell’Inghilterra abbia conosciuto a partire dalla metà del Settecento dei mutamenti irreversibili. 1.5 Nuovi orientamenti della storiografia In definitiva il concetto di età moderna ha resistito nel complesso alle critiche che gli sono state mosse e si può considerare ancora valido per quanto concerne l’arte, la cultura, la vita politica. Questa periodizzazione è apparsa però sempre più inadeguata quando l’interesse della storiografia si è spostato dalle élite culturali e politiche verso le classi subalterne, e si è rivolto allo studio della società e dei comportamenti individuali, aprendosi all’influsso delle altre scienze umane (sociologia e antropologia). Si è affermata così la categoria della lunga durata, che ha focalizzato l’attenzione dello storico su fenomeni, come la vita quotidiana, l’alimentazione, la sessualità, la famiglia, che conoscono un’evoluzione lentissima, e a tratti quasi impercettibile, rispetto alla quale ben poco significato hanno le periodizzazioni volte a individuare nel corso degli eventi svolte o rotture. Un altro dei motivi che hanno indotto molti studiosi a proporre un superamento del concetto di età moderna è la sua prospettiva eurocentrica, sentita come insufficiente rispetto alla sensibilità del mondo globalizzato. Di fatto quella periodizzazione è profondamente radicata nella storia di un’Europa che ha creduto a lungo di incarnare lo sviluppo della civiltà. Oggi appare superato il pregiudizio che ha indotto a lungo le storiografie occidentali a considerare i popoli dell’Africa e dell’Asia privi di storia, degni di essere presi in considerazione solo quando sono entrati nell’orbita I progressi nella tecnica militare segnarono una profonda differenza rispetto all’età medievale e determinarono un aumento della mortalità sia per il maggiore potenziale offensivo delle nuove armi sia per il notevole incremento numerico degli eserciti. Gli effetti della guerra sull’andamento demografico furono soprattutto indiretti : saccheggi e violenze ai danni della popolazione civile, sfruttamento e distruzione delle risorse, con conseguente carestia e diffusione di malattie. La carestia si presentò periodicamente lungo tutto il corso dell’età moderna. La causa principale era l’eccessiva dipendenza della maggioranza della popolazione dal consumo dei cereali. Nell’età moderna diminuì drasticamente, fino a scomparire quasi del tutto dalle mense dei contadini, il consumo di carne, e per il resto il pane la faceva da padrone, accompagnato da legumi e ortaggi, uova e latticini, con l’aggiunta di vino o birra. Nel Settecento si tentò di variare questa alimentazione, introducendo la patata, venuta dall’America, che dava rese molto più alte rispetto al frumento, oppure il mais, anch’esso di origine americana e in grado di garantire rendimenti elevati, o il riso, ma la mentalità contadina oppose forti resistenze a queste novità. La patata si diffuse in Germania, Polonia e Irlanda, il mais fece progressi soprattutto in Spagna e nell’Italia settentrionale, dove sarebbe diventato l’alimento base della maggior parte della popolazione (la polenta). Questi alimenti solo più tardi si affermarono definitivamente mentre rimasero nel Settecento complementari rispetto al consumo dei cereali. Quando una congiuntura metereologica sfavorevole provocava uno o più raccolti cattivi si innescava la crisi : i contadini una volta esaurite le scorte andavano incontro a una grave penuria di alimenti mentre l’aumento di prezzo dei cereali colpiva anche i consumi delle classi lavoratrici della città, le cui difficoltà avevano un contraccolpo negativo su tutta l’economia. L’incidenza delle carestie sulla mortalità si spiega così: la malnutrizione favoriva il diffondersi delle epidemie. Un’incidenza altissima aveva la mortalità infantile: mediamente un quarto dei nati non raggiungeva il 1° anno di vita, e un altro quarto moriva entro il 5° anno. L’indice di natalità nelle società di antico regime si attestava mediamente in numeri esponenzialmente più alti di quelli odierni. 2.6 La demografia urbana L’urbanizzazione è un processo di concentrazione della popolazione, che può avvenire attraverso la crescita delle città esistenti o tramite la formazione di nuovi centri di aggregazione. Naturalmente si pone in via preliminare la necessità di definire che cosa si debba intendere come città. Per l’Europa occidentale nell’età moderna si può definire città un agglomerato di più di 5000 individui, ma in zone a bassa densità abitativa e a bassa urbanizzazione (l’Europa orientale) bisogna considerare anche i villaggi che hanno più di 2000 abitanti. Rispetto alla demografia, in un contesto urbano è maggiore il numero di individui non sposati, sia, nei paesi cattolici, per la media più alta di ecclesiastici vincolati al celibato, sia per la presenza di una cospicua immigrazione di donne impiegate come domestiche nelle case delle classi agiate. Va segnalato anche che la mortalità era mediamente più elevata in città che in campagna: infatti l’addensamento di popolazione e le condizioni igienico- sanitarie, sicuramente più precarie a causa della scarsa disponibilità di acqua, favorivano la diffusione di malattie e di epidemie. Si può parlare di un processo di urbanizzazione se la popolazione che vive in città cresce non solo in termini assoluti, ma soprattutto in relazione al complesso della popolazione. La dinamica della popolazione urbana ha seguito in Europa un percorso sensibilmente diverso rispetto agli altri continenti. Dopo l’anno Mille c’erano alcune città i cui abitanti raggiungevano e forse superavano il mezzo milione di abitanti (alcune città cinesi, Baghdad e Costantinopoli per esempio). In Occidente invece le invasioni barbariche e il crollo dell’Impero Romano determinarono una profonda crisi della città (basti pensare a Roma). Una forte crescita degli spazi urbani si ebbe nell’XI-XIII secolo nell’Europa occidentale, ma questo sviluppo rallentò considerevolmente con la peste a metà del Trecento. Particolarmente intenso era lo sviluppo degli spazi urbani nella penisola italiana: nel 1500 su 23 città che superavano i 50.000 abitanti, nove erano italiane (Napoli, Milano, Venezia, Genova, Firenze, Palermo, Roma, Bologna, Verona) e le prime tre erano, con Parigi, le sole in Europa a superare i 100.000 abitanti. Se si esamina lo sviluppo successivo delle città maggiori nel corso dell’età moderna appaiono evidenti alcune trasformazioni che riflettono i mutamenti intervenuti nella realtà politico-istituzionale ed economico-sociale . Colpisce la crescita di Londra, che agli inizi del Settecento superò Parigi come città più popolosa del continente, e di Amsterdam. Nel corso dell’età moderna l’Italia mantenne le sue posizioni, ma non le incrementò. In generale il baricentro della mappa urbana si spostò verso l’Europa centrosettentrionale: è l’espressione sul piano demografico di un decisivo spostamento degli equilibri economico-finanziari dall’Europa mediterranea a quella atlantica. L’altro fenomeno caratteristico dell’età moderna è la comparsa di grandi città capitali, Madrid, Vienna, Berlino, San Pietroburgo. Era questa la conseguenza della formazione di uno Stato strutturalmente diverso rispetto a quello medievale. CAPITOLO 3 LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: AGRICOLTURA 3.1 Una società rurale La società di antico regime era fondata su un’economia prevalentemente agricola. Alla fine del Settecento più del 75% della popolazione europea era impegnata nei lavori agricoli, che continuavano ad adottare tecniche e strutture arretrate. Il più significativo indice della modernizzazione è la riduzione del numero degli impiegati in agricoltura. Infatti, quando l’agricoltura riesce ad accrescere la sua produttività in modo consistente si creano le condizioni per lo spostamento di uomini e risorse verso altri settori produttivi. Questo processo si manifesta precocemente in Inghilterra, dove già nel 1800 la forza lavoro agricola era solo il 36% e scese sotto il 10% prima del 1914. Con molta lentezza e difficoltà si avviò un processo di superamento dell’agricoltura tradizionale che creò le premesse per una modernizzazione delle tecniche di coltivazione. Come per l’andamento della popolazione, anche in relazione alla vita economica la periodizzazione dell’età moderna non ha alcun senso, in quanto non si individuano fra il XV e il XVI secolo elementi di novità tali da determinare una rottura rispetto all’età medievale. Nell’età moderna la condizione dei contadini si presentava diversa nell’Europa occidentale rispetto a quella orientale. Si tratta di una differenziazione molto importante, che ebbe un peso decisivo sulla storia delle due parti del continente, non solo in rapporto allo sviluppo economico ma anche per quanto concerne gli assetti sociali e gli equilibri politico- istituzionali. 3.2 Il mondo rurale nell’Europa centro-occidentale Nell’età medievale le grandi proprietà erano generalmente divise in una pars dominica, gestita direttamente dal proprietario attraverso la prestazione di giornate di lavoro gratuite dei contadini dipendenti, e una pars massaricia, suddivisa in unità produttive affidate al lavoro dei contadini liberi o servi che pagavano un canone in natura o in denaro ed erano obbligati a prestare alcuni lavori o servizi. Tra il IX e il X secolo, a causa della frammentazione e della debolezza dei poteri politici regi, i proprietari terrieri assunsero sempre più una funzione di protezione e di difesa delle popolazioni che vivevano sulle loro terre. Si affermò così la signoria fondiaria, vale a dire l’assunzione da parte del proprietario terriero di un’autorità che si estendeva non solo sui contadini da lui dipendenti ma su tutti gli abitanti delle terre di sua proprietà. Il signore, in cambio della protezione, imponeva obblighi di varia natura, amministrava la giustizia e riscuoteva i tributi. Progressivamente, le differenze fra le varie condizioni andarono riducendosi: scomparve quasi del tutto la schiavitù, ma contadini liberi o dipendenti dal signore, servi addetti alla casa o al lavoro nei campi, finirono per essere tutti sudditi del signore. A questa situazione si frappose fra l’XI e il XII secolo una rete di rapporti feudali che provò a ricostruire una forma di gerarchia politica. Si utilizzò a riguardo l’istituto del vassallaggio . A partire dal XII secolo si affermò il principio per cui solo l’investitura del sovrano poteva giustificare e legittimare l’autorità del signore, il quale esercitava nelle sue terre un’autorità delegata dal sovrano e perciò a lui subordinata. Il beneficio non si configurava solo come un bene patrimoniale ma comportava l’assunzione da parte del signore di una funzione pubblica. Grazie allo sviluppo dell’agricoltura e alla ripresa degli scambi commerciali, a partire dall’XI secolo, le condizioni dei contadini migliorarono notevolmente. Tra il XII e il XIII secolo decaddero quasi ovunque le limitazioni della libertà personale come l’obbligo di risiedere sulle terre del signore. A questa evoluzione dei rapporti sociali si aggiunse, a partire dal XV secolo, la tendenza di principati e monarchie a richiamare nelle proprie mani quelle funzioni di ordine amministrativo e politico che prima erano delegati ai signori feudali. Agli inizi del Cinquecento, nell’Europa centro-occidentale i contadini erano ormai quasi ovunque liberi di muoversi. Le corvée erano limitate a qualche giornata di lavoro per provvedere alla manutenzione delle strade o ad altri lavori pubblici. Aumentarono i tipi di contratti agrari per lo più a breve durata che prevedevano il pagamento di un canone in natura o in denaro. In Italia ma anche in Francia si sviluppano i contratti di mezzadria per cui la proprietà delle terre era condivisa tra il signore e la famiglia del mezzadro. 3.3 Il servaggio contadino nell’Europa orientale 4.2 Il settore manifatturiero Bisogna innanzitutto ricordare che, soprattutto nelle campagne, la famiglia tendeva a produrre da sé ciò di cui aveva bisogno. In questo caso il produttore è al tempo stesso consumatore. Nel corso del tempo questa produzione domestica andò diminuendo e fu sostituita dal ricorso ad artigiani specializzati . In effetti la domanda di prodotti dell’artigianato e delle manifatture era soprattutto alimentata dei consumi delle classi agiate. Si deve osservare che nel corso dell’età moderna la domanda di prodotti di lusso si ampliò progressivamente proprio per le richieste provenienti dei gruppi sociali non aristocratici che avevano raggiunto un notevole livello di ricchezza e di prestigio sociale. In questo periodo incise sull’economia soprattutto la domanda proveniente dagli Stati per le esigenze legate all’armamento e all’approvvigionamento degli eserciti e delle flotte. La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell’artigianato. A partire dall’XI secolo, quando le città si erano affermate come centri di produzione, i vari settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle Arti o corporazioni. Membro della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio; egli aveva uno o più apprendisti, che non erano stipendiati anzi spesso pagavano per poter apprendere il mestiere, e dei garzoni o lavoranti, salariati, il cui numero variava in ragione del mestiere svolto. Le funzioni principali della corporazione erano innanzitutto la difesa del monopolio della produzione da possibili concorrenti esterni, garantire la stabilità degli equilibri interni, evitando la formazione di posizioni dominanti, vigilare sulla qualità della produzione, sui prezzi, sui salari e sulla formazione dei nuovi operatori. Gli illuministi del Settecento svilupparono una dura polemica nei confronti delle corporazioni, ritenuti responsabili di ostacolare la libertà del lavoro, in quanto impedivano ad esempio ad artigiani forestieri di esercitare il mestiere in città, a meno che non apportassero nuove conoscenze tecniche. Non c’è dubbio che a un certo punto le corporazioni siano divenute un freno allo sviluppo dell’economia; non a caso, proprio per superare questi ostacoli, si svilupparono nuove forme di organizzazione della produzione come l’industria dispersa o a domicilio. Tuttavia, le resistenze suscitate dai tentativi di eliminare le corporazioni prima della loro abolizione a opera della Rivoluzione francese mostrano con chiarezza quanto esse fossero radicate nel tessuto sociale proprio per le funzioni che svolgevano. 4.3 Protoindustria L’artigiano in genere lavorava su commissione in quanto non poteva assumersi l’onere finanziario di produrre oggetti da costruire in magazzino. Il sarto confezionava un abito su ordinazione del cliente, che talora gli forniva anche il tessuto. Spesso il lavoro veniva da un mercante che anticipava la materia prima e curava poi lo smercio del prodotto. In tal caso l’artigiano era di fatto dipendente dal mercante che garantiva i rapporti con il mercato . Questa struttura di artigianato subordinato si affermò a partire dal basso medioevo soprattutto nel settore tessile. Nella filiera della lana, che rimase preminente nell’ambito dell’industria tessile, il modello della manifattura a domicilio si diffuse nel XVII e nel XVIII secolo nelle campagne circostanti le città e diede vita al sistema delle manifatture decentrate o disperse. Il mercante imprenditore poteva aggirare i vincoli del sistema corporativo e abbattere i costi grazie alle minori pretese della manodopera contadina. Il notevole sviluppo di questo sistema, che produceva tessuti di minor qualità ma in grado di coprire un mercato molto più ampio, fu un potente fattore di crisi per le manifatture cittadine fiamminghe e italiane. Nelle città italiane centro settentrionali, nel XVII secolo vi fu una drastica caduta della produzione di tessuti di lana e seta, e si manifestò una tendenza alla specializzazione in prodotti di lusso . Il sistema delle manifatture decentrate si differenziava dall’artigianato perché è caratterizzato dalla dipendenza dei produttori da un imprenditore; esso può essere considerato come una fase di transizione verso la formazione dell’industria accentrata, e per questo viene indicato con il nome di protoindustria. I fattori decisivi per il superamento della manifattura dispersa furono l’ampliamento eccessivo delle sue dimensioni, che comportava a un certo punto costi di gestione tanto elevati da renderlo non più conveniente, e l’introduzione di macchine più complesse e costose (come i telai meccanici) che non erano alla portata dei contadini artigiani. Questi cambiamenti creavano le condizioni per lo spostamento della produzione in un luogo nel quale concentrare i macchinari e la manodopera salariata. 4.4 I trasporti La crescita dell’economia determinò un aumento degli scambi commerciali e lo sviluppo di nuovi traffici. Rimase prevalente il trasporto su acqua, più veloce e più economico. Un contributo in tal senso venne anche dai miglioramenti della tecnica marinara e dei progressi della cartografia. A partire dal XV secolo i perfezionamenti della bussola, l’uso di strumenti per localizzare la stella polare, i miglioramenti delle carte nautiche, resero possibile determinare la posizione geografica di una nave in un dato istante. Si crearono le premesse per la navigazione in mare aperto. Proprio questa capacità fece segnare una superiorità dell’Europa rispetto alle altre parti del mondo. Molte novità si ebbero anche nelle costruzioni navali. Rimase a lungo attiva fino al XVII secolo la galera/galea, che costituì la forza delle flotte genovesi, veneziane e ottomane. I perfezionamenti della tecnica marinara portarono i paesi atlantici a sviluppare soprattutto le navi a vela, che divennero protagoniste assolute dei traffici commerciali e dei combattimenti navali. Il veliero dei mari del Nord era molto diverso dalla galera mediterranea: superiore di stazza, rotondeggiante e con una stiva capace, per resistere alla forza dei mari settentrionali. Un’evoluzione di queste imbarcazioni fu la caravella, di origine portoghese. Molto maneggevole e veloce, non aveva bisogno di un equipaggio numeroso e perciò poteva imbarcare i viveri per affrontare lunghi viaggi; per questo fu il mezzo ideale dei viaggi di esplorazione, ma non era adatta al commercio o alla guerra. Uno sviluppo del veliero fu il galeone, dotato di un potente armamento di artiglieria, ed era adatto anche al trasporto di merci. Uno dei rischi ai quali era esposto il commercio marittimo era l’attacco da parte dei pirati. Dalla pirateria va distinta, la guerra di corsa , che viene esercitata con il consenso di un governo contro le navi dello stato nemico. Nel Cinquecento si sviluppò anche la pirateria atlantica, praticata, ai danni dei galeoni spagnoli che trasportavano oro e argento dalle miniere del nuovo mondo, da predoni inglesi, olandesi e francesi chiamati filibustieri o bucanieri. In realtà sul piano pratico è molto difficile distinguere pirateria e guerra di corsa. Quando scoppiava una guerra i pirati si affrettavano a farsi rilasciare degli Stati coinvolti lettere di corsa che di fatto davano il loro mandato di assaltare le navi nemiche. Molti tentativi furono fatti per vietare le guerre di corsa, che fu abolita dall’Assemblea legislativa durante la Rivoluzione francese nel 1792; ma la stessa Francia non esitò poi ad appoggiare i corsari contro il commercio inglese nell’Oceano Indiano. L’abolizione della guerra di corsa si ebbe con il congresso di Parigi del 1856. Nel XVIII secolo la pirateria declinò sensibilmente. Il pericolo di naufragi, gli assalti della pirateria, i rischi di deterioramento della merce nella stiva, indussero a utilizzare il commercio marittimo soprattutto per carichi ingombranti e di non grande valore mentre per le merci di qualità e di prezzo elevato fu preferito il trasporto via terra. Questo peraltro non era a sua volta privo di pericoli, era ostacolato dalla cattiva condizione delle strade e aveva costi molto elevati, anche per gli innumerevoli dazi e pedaggi che bisognava pagare lungo il tragitto. 4.5 Il commercio All’inizio dell’età moderna il Mediterraneo rappresentava ancora un nodo centrale dei traffici commerciali fra l’Europa e l’Asia. I traffici più importanti ricalcavano ancora le linee che si erano consolidate nel basso medioevo: dalla Cina, dall’India e dall’Indonesia giungevano in Europa in particolare la seta e le spezie, usate non solo in cucina ma anche in medicina e farmacia. L’importanza di questo flusso commerciale, nel quale erano impegnati i maggiori mercanti e banchieri, era dovuto soprattutto al valore molto elevato di questi prodotti. Essi erano portati dall’Oriente da mercanti musulmani attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso e poi giungevano ai porti di Tripoli, Beirut e Alessandria d’Egitto da dove venivano imbarcati su navi veneziane o genovesi; quindi venivano trasportati verso la Germania, la Francia e le regioni del Nord Europa. Grande sviluppo ebbero in questo periodo i commerci nei mari del Nord. Nel basso medioevo si era affermata la potenza di una Lega che riuniva molte città sulla costa del Mare del Nord e del Baltico e che si estese anche a città non marinare ma legate alle prime da rapporti commerciali. A partire dal XV secolo il ruolo della Lega fu progressivamente ridimensionato. Nel Seicento i traffici in questi mari furono dominati dalle navi olandesi che portavano il legname dalla Scandinavia, dalla Polonia e dalla Russia, ma anche cereali, metalli, pellicce. Un posto importante in queste rotte commerciali ebbe fin dal XVI secolo la marineria inglese che, a partire dalla seconda metà del Seicento, erose progressivamente il primato degli olandesi. L’età moderna fu però caratterizzata dallo sviluppo dei traffici oceanici, resi possibili dai viaggi di esplorazione e dalle scoperte geografiche. I portoghesi nel 1498 riuscirono a raggiungere l’India circumnavigando l’Africa e poterono così acquistare le spezie direttamente dai produttori senza l’intermediazione veneziana. Tuttavia, la concorrenza portoghese non riuscivi a tagliare fuori dal traffico delle spezie Venezia, che per tutto il Cinquecento mantenne un posto importante nel commercio mediterraneo. Il suo declino iniziò verso la fine del secolo con l’arrivo di navi olandesi e inglesi che, appoggiandosi sul porto di Livorno, portavano grano, manufatti e materie prime da scambiare con i prodotti dei paesi mediterranei o provenienti dall’Oriente . I portoghesi mantennero il controllo via di principio esenti da imposte. La Chiesa riscuoteva inoltre annualmente la decima per il mantenimento del clero, degli edifici di culto e dei poveri. La ricchezza del corpo ecclesiastico era generalmente appannaggio dell’alto clero, in larga parte proveniente dei ranghi della nobiltà, a conferma del predominio sociale di questo ceto. 5.3 Origini e caratteri della nobiltà Sicuramente in età carolingia fu molto importante l’emergere di una classe feudale votata al servizio militare, principale obbligo del vassallo per adempiere al legame personale di fedeltà stabilitosi con il proprio signore. Si consolidò in tal modo l’idea di una categoria di persone che trovavano nella guerra la propria vocazione e la giustificazione della propria superiorità rispetto agli altri membri del corpo sociale. A questa aristocrazia di guerrieri si aggiunsero in seguito i titolari della signoria rurale, che esercitavano su quanti risiedevano nel territorio poteri che comportavano il mantenimento dell’ordine e l’amministrazione della giustizia. La continuità della ricchezza, del prestigio e del potere di questi gruppi determinò la nascita di dinastie familiari e portò di conseguenza alla progressiva identificazione di un ceto stabilmente insediato al vertice della gerarchia sociale. Fondamentale per rafforzare la superiorità di questo gruppo era rendere ereditario il nome, il patrimonio e il prestigio. Un ruolo decisivo nella formazione del costume e della mentalità nobiliare ebbe la cultura cavalleresca, che impose modelli della virtù, dell’onore e della difesa della fede come tratti tipici del cavaliere cristiano. Su queste basi nacquero fra il XII e XIII secolo i grandi ordini religioso-militari per la difesa dei luoghi santi. La proprietà della terra era nell’antico regime la fonte principale della ricchezza, del prestigio sociale e del potere politico. Rappresentava il fondamento del patrimonio delle famiglie nobili. Infatti, la nobiltà possedeva, pur essendo una frazione assai piccola della popolazione, un patrimonio fondiario vastissimo. Al rango erano legati privilegi: onorifici, come il diritto di portare la spada, giudiziari, ad esempio il diritto di essere giudicati da tribunali composti da propri pari e di non sottoposti alle stesse pene dei plebei, o fiscali come l’esenzione totale o parziale del pagamento delle imposte. Nel corso dell’età moderna la nobiltà dovette confrontarsi con il processo di rafforzamento dell’istituto monarchico che tese a limitarne il potere, proteggendo i sudditi contro le sue prepotenze. Questa politica fu perseguita con particolare rigore da Luigi XIV , e non è un caso che proprio dopo la sua morte si sia sviluppata una corrente di pensiero di forte impronta aristocratica che in vario modo ribadì la centralità dell’ordine nobiliare negli equilibri della società francese ed europea. Vi erano diverse strade per diventare nobili. Una via era offerta dalla pratica della venalità delle cariche. In sostanza tutti coloro che disponevano di un cospicuo patrimonio potevano acquistare alcune cariche finanziarie o giudiziarie che conferivano una nobiltà trasmissibile agli eredi. Un’altra possibilità era l’acquisto di un feudo; in tal caso occorreva abbandonare ogni attività che richiamasse le attività mercantili precedenti, iniziare a vivere nobilmente e acquistare o costruire un palazzo degno del nuovo rango. 5.4 Il patriziato Lo sviluppo delle città determinò la progressiva affermazione di un altro tipo di ceto aristocratico, di origine urbana, non legato alla funzione militare. La cronica instabilità delle istituzioni comunali provocò a partire dalla metà del XIII secolo la tendenza alla formazione di governi più forti e duraturi, in grado di disciplinare i conflitti politici e sociali, grazie anche all’emergere di una classe dirigente che assunse il controllo delle magistrature cittadine. Questi erano i patriziati, ristretti gruppi di famiglie di grandi mercanti e banchieri che si riservarono il monopolio delle principali cariche trovando in questa funzione la radice di una distinzione di status rispetto alla restante popolazione cittadina. 5.5 La città Per tanti secoli la città rimase una struttura frammentata in ceti, corpi, comunità e corporazioni. Questo frammentato mosaico trovava un elemento di coesione nell’esigenza di controllare il territorio circostante, allo scopo di garantire due esigenze vitali per l’universo urbano: la difesa da possibili attacchi nemici e il regolare approvvigionamento di frumento e derrate alimentari, di legname e di acqua. 5.6 Gli ebrei Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dell’imperatore Tito, gli ebrei si dispersero nei paesi del Mediterraneo, nell’Oriente e in varie zone dell’Europa. Iniziava così il periodo della diaspora (dal greco: esilio, dispersione). Nella Bibbia ebraica, che riconosce solo l’Antico Testamento, fondamentali sono in particolare i primi cinque libri, che raccolgono l’insieme degli insegnamenti e delle prescrizioni rivelati da Dio attraverso Mosè e che costituisce la Torah scritta , la legge sacra dell’ebraismo. Non meno importante è la cosiddetta la Torah orale , ovvero il Talmud (“studio”), che raccoglie l’interpretazione della dottrina tradizionale giudaica post-biblica presentando una serie di norme giuridiche, di indicazioni etiche, di comportamenti nei riti, nelle liturgie e nell’alimentazione che costituiscono parte essenziale dell’identità del popolo ebraico. Figura centrale delle comunità era il rabbino, interprete della legge e custode del patrimonio storico e culturale dell’ebraismo. Nell’età medievale particolarmente consistente ed importante fu la presenza degli ebrei nella penisola iberica. Chiamati sefarditi da Sefarad, nome ebraico della Spagna, essi sotto la dominazione araba poterono vivere in condizioni accettabili, pur essendo soggetti a varie restrizioni e al pagamento della tassa prevista dal Corano per ebrei e cristiani. La situazione degli ebrei peggiorò quando i territori in cui vivevano passarono sotto il controllo dei regni cristiani. A parte l’accusa di aver mandato a morte Gesù, pesava il fatto che entrambe le religioni si riferivano all’Antico Testamento come libro ispirato da Dio, ma lo interpretavano in modo diverso. Nel 1205 Papa Innocenzo III affermò che la presenza degli ebrei in terra cristiana poteva essere tollerata, ma solo a patto che fossero tenuti in una condizione di perpetua servitù . Il clima di esaltazione che caratterizzò la prima crociata del 1096 fu occasione di violenze ed uccisioni nei confronti degli ebrei che vivevano in Germania, chiamati askenaziti da Ashkenaz, il nome di un personaggio biblico ritenuto capostipite dei popoli nordici. Il concilio lateranense voluto da Papa Innocenzo III nel 1215 impose l’obbligo di portare un segno distintivo, variabile per colore e forma nei vari paesi. Seguirono il grande rogo pubblico dei libri del Talmud a Parigi, nel 1290 l’espulsione dall’Inghilterra e nel XIV secolo dalla Francia. Nel basso medioevo si determinò anche una progressiva evoluzione dell’identità delle comunità ebraiche dal punto di vista economico-sociale. In precedenza, gli ebrei si erano inseriti nel tessuto economico delle società cristiane praticando l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, il commercio ed altre professioni. Con il peggioramento del loro status giuridico non poterono più esercitare molte di queste attività e non poterono acquistare beni immobili; inoltre fu vietato loro di sposare donne cristiane o di avere dei cristiani alle loro dipendenze. Dopo il concilio lateranense del 1179 , che vietò ai cristiani il prestito a interesse ad altri cristiani, gli ebrei si specializzarono nell’attività di cambiavalute, nel prestito a interesse e al commercio, caratteristiche che sarebbero state in seguito una delle radici economico-sociali dell’antisemitismo. All’alba dell’età moderna l’espulsione dalla Spagna nel 1492 e poi nel 1497 dal Portogallo segnò una svolta decisiva nella storia delle minoranze ebraiche in quanto colpì la comunità europea più antica, numerosa e radicata. Già alla fine del XIV secolo si era avuto in Spagna un massacro degli ebrei accompagnato da migliaia di conversioni forzate; tuttavia anche l’accettazione del battesimo non poneva fine alle discriminazioni e ai sospetti: proprio dalla necessità di verificare che gli ebrei convertiti non conservassero la fede ebraica, nacque nel 1478 l’Inquisizione spagnola. Agli ebrei furono concesse nel 1492 poche settimane per abbandonare le proprie case e lasciare la Spagna. Coloro che scelsero di partire si diressero nei Paesi Bassi, nei paesi balcanici e verso l’impero ottomano. Negli stessi anni le espulsioni da quasi tutte le città tedesche determinarono un esodo verso l’Europa orientale, in particolare la Polonia. Nella crisi religiosa del Cinquecento prevalse una considerazione negativa della presenza ebraica. Lutero pubblicò nel 1543 un violento libro nel quale incitò ad incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei e a limitarne la libertà di movimento; queste posizioni furono sostanzialmente condivise dalla Chiesa di Roma. Gli ebrei furono scacciati da tutti i territori italiani soggetti alla Spagna mentre rimasero per esempio nello Stato della Chiesa, nel Granducato di Toscana e nella Repubblica di Venezia. Proprio a Venezia si istituzionalizzò una forma di segregazione che avrebbe caratterizzato tutta la vita dell’ebraismo nell’Europa moderna: il ghetto. In effetti già in precedenza gli ebrei si erano stabiliti preferibilmente in alcuni quartieri delle città, dove potevano avere a disposizione le strutture necessarie ai loro riti ed erano stati soggetti a limitazioni della libertà di spostarsi. Nel 1516 la Repubblica di Venezia impose agli ebrei l’obbligo di risiedere in un’area separata, che fu chiamata ghetto perché lì era situato in precedenza una fonderia (detta “getto”). Il nome si diffuse poi progressivamente in tutta Europa ad indicare le zone destinate alla segregazione degli ebrei. Il provvedimento veneziano era un compromesso: la segregazione era la condizione posta per consentire la residenza degli ebrei, in precedenza non ammessi in città. Nel 1555 il Papa dichiarò in una bolla che gli ebrei dovevano vivere in quartieri distinti, dai quali non potevano uscire di notte e nelle festività cristiane. Alla linea fissata da Roma si adeguarono molti Stati italiani: nel Settecento si contavano nella penisola 41 ghetti nei quali viveva il 75% degli ebrei . Faceva eccezione Livorno, l’unica città italiana nella quale non si stabilì un ghetto. L’istituzione del ghetto, circondato da mura, con i portoni chiusi al tramonto e sorvegliati da guardie, obbligò politico. Nel pensiero settecentesco l’espressione “società civile” era utilizzata in genere come sinonimo di società politica. Fu Hegel (1821) che elaborò con chiarezza questo concetto. Il filosofo tedesco definì la società civile come la sfera dell’economia, nella quale ciascuno persegue il proprio particolare vantaggio o interesse. Distinta da questo mondo, nel quale domina la concorrenza, è invece la sfera statale che Hegel pose come l’espressione più alta della razionalità e come la piena realizzazione della libertà. Nella società civile gli individui concorrono al bene comune indirettamente, in quanto mossi solo del proprio egoismo; lo Stato invece si pone come supremo regolatore neutrale dei contrasti di interesse e quindi come istanza etica nella quale tutti gli individui formano un tutto organico, trovando la vera e piena realizzazione della loro libertà. Marx rovesciò la tesi hegeliana che lo Stato non può essere concepito astrattamente come un organo che persegue il bene comune componendo gli interessi particolari della società civile: al contrario sono i rapporti di forza nella sfera economico-sociale a determinare la forma dello Stato , che rappresenta quindi l’organizzazione giuridica del potere della classe dominante. 6.4 La concezione del potere Nel considerare l’istituto monarchico bisogna innanzitutto tenere ben presente la dimensione di sacralità sia della monarchia sia del re. Significativa in tal senso era la cerimonia di consacrazione dei re, che aveva luogo tradizionalmente a Reims in ricordo della conversione al cristianesimo del re Clodoveo avvenuta la Vigilia di Natale del 496. Fondamentale era anche il carattere ereditario della monarchia, secondo un ordine definito dalla legge; la continuità dinastica, che esprimeva il permanere dello Stato aldilà della persona fisica del re, assumeva un carattere quasi mistico, come dimostrano le massime che tradizionalmente si ripetevano alla morte di ogni sovrano: “il re di Francia non muore mai”, “il re è morto, viva il re”. 6.5 Dualismo istituzionale Nel basso medioevo i regimi di tipo monocratico prevedevano al vertice un caratteristico dualismo istituzionale: il sovrano, principe o monarca, era affiancato da organismi rappresentativi sulla base del ceto: gli Stati generali in Francia, le Cortes in Spagna, la Dieta in Germania, il Parlamento in Inghilterra. In generale queste assemblee erano formate dai rappresentanti dei tre ordini , clero, nobiltà e Terzo Stato; in Inghilterra le Camere erano invece due, in quanto arcivescovi e vescovi facevano parte insieme ai nobili della Camera dei Lord mentre era elettiva la Camera dei Comuni. Essi avevano il compito di assistere il re e soprattutto sostenerlo dal punto di vista finanziario approvando le imposte che egli proponeva. Il dualismo fra il sovrano e i ceti esprime la natura di questo modello di Stato che si definisce a base cetuale. Il processo di rafforzamento del potere monarchico passò attraverso il ridimensionamento del ruolo di queste assemblee che costituivano evidentemente un grave limite per l’esercizio della sua autorità. Dove le monarchie riuscirono a liberarsi dal controllo di queste assemblee poterono avviarsi alla costruzione di uno Stato più forte; diversa fu la situazione nei paesi dell’Europa centrale e orientale nei quali questi organismi mantennero il diritto di riunirsi con regolarità. 6.6 La corte Nell’età moderna si affermò la tendenza dei sovrani a stabilire la propria dimora in un luogo che si poneva anche come centro della vita politica dello Stato, la corte . Il sovrano qui viveva circondato dagli esponenti delle principali famiglie della nobiltà, i cortigiani, e anche da ministri e funzionari e da una schiera di artisti, letterati e tecnici. Nell’Italia fra il XV e XVI secolo le corti si affermarono come centri di raffinata cultura, punti di riferimento della straordinaria fioritura artistica che caratterizzò l’età rinascimentale. Nelle grandi monarchie la corte era il centro simbolico del potere, ma non il luogo nel quale esso concretamente si esercitava. Non a caso sia la cancelleria, il grande ufficio nel quale si redigevano gli atti ufficiali e si teneva la corrispondenza, sia i supremi tribunali che amministravano la giustizia, nacquero distaccati dalla corte. 6.7 Gli organi di governo Nell’età moderna un posto centrale nella vita politica ebbero i segretari di Stato, le cui segreterie erano il vertice della macchina burocratica. In Inghilterra e in Francia dall’evoluzione di queste funzioni, emerse progressivamente la figura dei moderni ministri. Tuttavia, l’indirizzo politico fu spesso riservato a un uomo la cui autorità si fondava esclusivamente sulla fiducia del re. Decisivo per il concreto esercizio dell’autorità era il controllo del territorio. Le monarchie per imporre la loro volontà sulle periferie si servirono di commissari nominati e dipendenti dal governo centrale. La struttura burocratica creata dalle monarchie per rendere più efficace l’influenza del centro sulle periferie non annullò la realtà preesistente ma si sovrappose a essa. 6.9 La giustizia La funzione di sommo giustiziere rappresentò la prerogativa centrale del potere monarchico, che si esercitava attraverso la legislazione (creazione del diritto) e la giurisdizione civile e penale (applicazione del diritto per risolvere le controversie e per punire i delitti). Nell’età moderna l’attività legislativa non ebbe mai il carattere continuativo e sistematico che ha nelle società attuali. Il re emetteva ordinanze, editti, decreti e lettere patenti (cioè aperte, destinate ad uffici e funzionari), spesso su argomenti specifici, ma perlopiù non poteva stabilire norme dotate di validità generale perché trovava un limite nella pluralità di ordinamenti giuridici particolari, garantiti dalla consuetudine e sanciti formalmente da statuti . Il diritto era perciò un coacervo di norme provenienti dall’accumulo secolare di fonti diverse . In Inghilterra la legislazione regia aveva poi un limite oggettivo in quanto la giustizia veniva amministrata dai giudici in base alla legge comune (common law), fondata sulle consuetudini giuridiche ovvero sulla precedente giurisprudenza delle corti e sulla dottrina. La pluralità di ordinamenti giuridici determinava l’esistenza di una pluralità di giurisdizioni che limitavano le prerogative del potere sovrano. La giustizia di prima istanza era esercitata in molti casi da autorità e poteri periferici di fatto autonomi rispetto al potere centrale. La giustizia regia incontrava poi un limite nella giustizia ecclesiastica, che aveva una competenza esclusiva nelle cause concernenti i componenti del clero e inoltre rivendicava la propria autorità in materia di eresia e per una serie di delitti attinenti alla sfera religiosa . Il potere di questi tribunali particolari fu notevolmente limitato nel corso dell’età moderna: per i processi più importanti furono previsti l’appello o l’avocazione davanti ai tribunali regi. 6.10 I rapporti con la Chiesa La sacralità del potere monarchico, legata alla sua origine divina, si rifletteva sui rapporti con l’autorità ecclesiastica e in particolare nella volontà di accreditarsi come protettore della Chiesa e baluardo della fede . In questo senso si coglie il significato dei titoli di “cristianissimo” del quale si fregiava il re di Francia, o di “re cattolici”, conferito ai sovrani dopo la presa del regno musulmano di Granada. Il problema dei rapporti fra il potere politico e l’istituzione ecclesiastica si pose in termini profondamente diversi nei territori che aderirono alla Riforma protestante. Per quanto riguarda i paesi cattolici, rimase il tradizionale dualismo dei due poteri separati, la Chiesa e lo Stato, le cui relazioni costituivano un aspetto centrale degli equilibri politico-istituzionali e sociali. Lo Stato tendeva ad affermare le prerogative spettanti al sovrano in materia di religione , rivendicando non solo il compito di proteggere l’istituzione ecclesiastica, ma anche il diritto di controllarla e di intervenire per riformarne gli abusi. In ogni caso gli Stati erano ben attenti a evitare che gli atti del Papa avessero immediata validità all’interno del loro territorio. In generale l’esigenza di limitare e controllare il potere della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali, giuridici ed economici, fu una componente imprescindibile del processo di rafforzamento del potere monarchico e della struttura statale. I nodi decisivi in tal senso erano il diritto di nomina delle principali cariche ecclesiastiche e la possibilità di ricavare dalle proprietà della Chiesa un contributo alle finanze statali. 6.11 Le finanze Il problema finanziario rappresentò il nodo centrale dei tentativi di dare maggiore solidità alla struttura dello Stato. Tradizionalmente le imposte erano concepite come contributi straordinari, legati cioè a una situazione contingente. Le esigenze militari e della politica estera, il mantenimento dell’apparato burocratico, la gestione degli affari interni e l’amministrazione della giustizia, richiesero agli Stati crescenti risorse . Occorreva quindi stabilire un prelievo fiscale sistematico e continuativo: fu questo l’obiettivo principale degli stati di antico regime, e non a caso fu proprio questo il principale terreno di scontro fra il monarca e le assemblee. Gli sforzi degli Stati di antico regime non furono in grado di stabilire un sistema finanziario coerente e razionale. Innanzitutto, non c’era un bilancio attendibile delle spese e delle entrate in quanto i flussi erano gestiti da una miriade di casse ed enti particolari , e non si arriva mai a una effettiva centralizzazione amministrativa. Quanto al sistema fiscale non vi era uniformità perché erano in vigore regimi diversi (la città era privilegiata rispetto alla campagna) e pesavano esenzioni e privilegi. Nel Settecento si ebbero i primi tentativi di razionalizzare il sistema. In molti Stati si provvide a richiamare nelle mani dell’amministrazione la riscossione e si tentò di realizzare un’imposizione diretta e reale, promuovendo ad esempio la formazione di catasti, che consentivano di dare una base oggettiva all’imposta fondiaria. Tuttavia, solo con la Rivoluzione francese si posero le basi per un apparato finanziario uniforme, efficiente e razionale . 6.12 La politica estera Nell’età medievale le relazioni fra gli Stati erano affidate in generale ad ambascerie occasionali, che avevano l’obiettivo di comporre i contrasti o potenziali conflitti, di come legittimo successore degli imperatori romani. Agli inizi del XIV secolo l’impero si era dimostrato incapace di sostenere le sue aspirazioni verso l’Italia e di fatto aveva sempre più ristretto il campo d’azione all’area tedesca. Nel XV secolo entrò in uso l’intitolazione di Sacro Romano Impero della nazione germanica, ufficializzata nel 1512. 7.1 Il Sacro Romano Impero L’impero era una confederazione che comprendeva centinaia di Stati assai differenti per status e per estensione, largamente autonomi. Un passaggio fondamentale nell’organizzazione istituzionale si era avuto con la Bolla d’Oro emanata nel 1356 da Carlo IV, che assegnava l’elezione alla corona imperiale a sette principi elettori. Organo centrale era la Dieta, le cui deliberazioni avevano valore di legge generale. Convocata dall’imperatore con frequenza irregolare, la Dieta era divisa in tre ordini: collegio dei principi elettori; il collegio dei principi e dei signori territoriali, nel quale erano rappresentati i principi ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati), i principati e i signori minori, laici ed ecclesiastici; il collegio dei rappresentanti delle città libere . Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo, che lo avrebbe tenuto fino alla fine del Sacro Romano Impero nel 1806 . Questa continuità dinastica, rafforzata fra l’altro dalla consuetudine di far eleggere, quando era ancora in vita l’imperatore, il suo successore designato come re dei Romani, diede indubbiamente maggior peso alla corona imperiale. 7.2 Alla periferia dell’impero: la Confederazione svizzera Il primo nucleo della Confederazione Svizzera fu rappresentato dalla lega stretta nel 1291, a difesa dei loro diritti, e che diede il nome a tutta la confederazione, detta anche elvetica dal nome romano del popolo di origine celtica. Pur non disconoscendo la sovranità dell’impero e l’autorità signorile degli Asburgo, la lega era animata da un forte spirito di indipendenza. Nel 1353 la Confederazione comprendeva otto Stati, che venivano chiamati comunemente cantoni. Nel XIV secolo, dopo diverse battaglie, la Confederazione riuscì a emanciparsi dal dominio degli Asburgo, e con la pace di Basilea (1499) ottenne l’affrancamento dalla sovranità dell’impero. Fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento i confederati furono rafforzati da nuove adesioni. Nel 1513 era di fatto formata la cosiddetta Antica Confederazione , composta di 13 cantoni, che sarebbe stata riconosciuta ufficialmente solo dalla pace di Vestfalia del 1648 e che sarebbe sopravvissuta fino al 1798 . La Confederazione non presentava un forte potere federale perché i cantoni erano gelosi della loro autonomia. 7.3 Fra impero e Francia: il ducato di Borgogna Sul confine tra l’impero e la Francia si formò sotto i duchi di Borgogna uno Stato che durò poco più di un secolo ma ebbe una decisiva importanza nella formazione degli equilibri politici all’inizio dell’età moderna. Il Ducato di Borgogna ebbe un’origine feudale nel 1364 , legati al re di Francia a partire dalla metà del XIV secolo . Tuttavia, fin dall’inizio essi adottarono una spregiudicata politica volta a creare un ampio Stato indipendente; a tal fine, pur essendo nominalmente vassalli del re di Francia, si schierarono nella guerra dei Cento anni dalla parte dell’Inghilterra, e poi si posero a capo della Lega del bene pubblico, composta da vari feudatari ribelli all’autorità del re Luigi XI (1461-1483). I duchi, attraverso conquiste e accordi dinastici, acquisirono il controllo di un vasto territorio che andava dalle Fiandre a nord fino alla Franca Contea a sud. Il loro Stato era estremamente eterogeneo, diviso in tre tronconi e composto di territori molto diversi per lingua e costumi. Proprio per dare continuità territoriale ai suoi possedimenti l’ultimo duca, Carlo il Temerario, tentò di conquistare la Lorena ma si scontrò con la Confederazione svizzera cadendo in battaglia. La costruzione dei duchi di Borgogna si disgregò: il re di Francia Luigi XI si impadronì della Borgogna, dell’Artois (Fiandre francesi) e della Franca Contea, mentre l’arciduca d’Austria Massimiliano di Asburgo, sposando la figlia di Carlo il Temerario, Maria, ottenne i Paesi Bassi. 7.4 Massimiliano d’Asburgo Massimiliano I (1493-1519) divenne imperatore nel 1493. Egli riuscì a rafforzare la propria autorità nei sui domini, creando una solida amministrazione finanziaria, ma dovette scontrarsi con la resistenza dei principi territoriali riluttanti a rinunciare alle proprie prerogative. All’inizio del suo regno ottenne dal re di Francia Carlo VIII l’Artois e la Franca Contea, ma non riuscì a ripristinare l’autorità imperiale in Italia, dove conseguì solo modeste acquisizioni territoriali, e dovette rinunciare al tentativo di riportare all’obbedienza la Confederazione elvetica. I maggiori successi vennero dalla sua politica matrimoniale. Grazie al matrimonio con Maria di Borgogna, riuscii ad acquisire i Paesi Bassi. Da questa unione sarebbe derivata in seguito, attraverso una fortunata combinazione di circostanze, la straordinaria eredità del nipote di Massimiliano, Carlo . Nel 1515 Massimiliano organizzò anche il matrimonio di un altro suo nipote, Ferdinando, con una sorella di Luigi Jagellone, re di Boemia e di Ungheria, ponendo le premesse perché anche questi due Stati fossero acquisiti dagli Asburgo. 7.5 Il regno di Francia La monarchia francese all’alba dell’età moderna si presentava ancora di carattere feudale. Il re era il vertice di una gerarchia di vassalli legati a lui da vincoli personali. Un primo passo verso l’unificazione del regno fu la vittoria sui re inglesi, i quali nel 1453 persero tutti i loro possedimenti sul suolo francese . Eliminata, con la morte di Carlo il Temerario, la minaccia che veniva dallo Stato borgognone, la monarchia francese poté ristabilire l’autorità negli altri territori. La figlia dell’ultimo duca di Bretagna fu obbligata a sposare l’erede al trono francese che sarebbe diventato poi re con il nome di Carlo VIII (1483-1498) e alla morte di questi il suo successore Luigi XII (1498-1515). Anche il territorio bretone fu quindi incorporato nel regno. Ponendosi come garante dell’integrità del paese contro lo straniero, la monarchia poté realizzare un rafforzamento del proprio potere. Si accrebbe l’autorità del Consiglio del re e si consolidò l’apparato amministrativo. Grazie alla regolarità delle entrate, la monarchia francese poté liberarsi dalla necessità di ricorrere ai tre ordini riuniti negli Stati generali che, dopo il 1484, non furono più convocati fino al 1560, e anche in seguito, superata la fase delle guerre di religione, furono una presenza assolutamente marginale nella storia francese. Nel 1515, quando salì sul trono Francesco I (1515-1547), il regno era lo stato più popoloso, solido e coeso dell’Europa, pronto a ingaggiare il lungo conflitto con gli Asburgo per la supremazia in Italia e in Europa. Il nuovo sovrano conseguì subito un successo assicurandosi il controllo della compagine ecclesiastica: con il concordato di Bologna del 1516 egli si vide riconosciuto il diritto di nominare tutte le principali cariche (vescovi, arcivescovi, abati e priori) della Chiesa detta gallicana, proprio a sottolineare la sua autonomia sul piano organizzativo-disciplinare da Roma. Nel 1522 Francesco sancì formalmente il sistema della venalità delle cariche istituendo un ufficio per gestire le entrate provenienti da tali vendite. Per effetto di questa pratica l’amministrazione finanziaria e giudiziaria sfuggì al diretto controllo del re. Al vertice dell’amministrazione giudiziaria si poneva il Parlamento di Parigi; nel Quattrocento esistevano in varie province altri 7 Parlamenti, che sarebbero diventati 12 nel Settecento. Oltre alle funzioni giudiziarie il Parlamento aveva il compito di registrare gli editti del re e per questo assunse un ruolo politico, ponendosi come il principale ostacolo all’assolutismo monarchico. In via di principio al Parlamento spettava solo un controllo formale della regolarità dal punto di vista giuridico degli atti reali; spesso però esso sospendeva la registrazione sollevando delle rimostranze nelle quali entrava nel merito delle questioni e manifestava la sua ostilità verso le decisioni del re. In generale, la volontà della monarchia di dare un effettivo indirizzo unitario all’azione di governo trovava un limite oggettivo nella pluralità di privilegi, distinzioni e immunità che costituivano la trama della società di antico regime. La struttura burocratica, amministrativa e finanziaria, create per rafforzare le istituzioni centrali dello Stato, non cancellarono i poteri territoriali, ma si sovrapposero a essi nel tentativo di controllarli. Nel 1542 Francesco stabilì delle circoscrizioni fiscali per la riscossione delle imposte, ma nelle province di recente annessione era costretto a contrattare annualmente l’ammontare dell’imposta con i tre ordini riuniti negli Stati provinciali. Parlare di accentramento e di unità quindi è una semplificazione, considerando che il regno era un mosaico di città e province ciascuna delle quali manteneva le proprie autonomie. 7.6 La Spagna Alla fine del XV secolo, nella penisola iberica la presenza musulmana era ridotta ormai al solo regno di Granada. La nascita della Spagna moderna prese avvio dal matrimonio celebrato nel 1469 fra Isabella e Ferdinando, eredi rispettivamente della corona di Castiglia e di Aragona. La successione di Isabella sul trono castigliano nel 1474 fu contestata e provocò una guerra civile che durò fino al 1479, anno in cui, con la contemporanea salita al trono aragonese del marito Ferdinando, si realizzò definitivamente l’unione dei due regni. Si trattò di un’ unione personale , in quanto i due regni mantennero ciascuno le proprie leggi e le proprie istituzioni. Il regno aragonese, composto di tre province, l’Aragona, la Catalogna e Valencia, possedeva la Sicilia e la Sardegna e aveva installato un ramo della dinastia sul trono del regno di Napoli. Ben maggiore era il peso economico e demografico della Castiglia. La supremazia castigliana si manifestò fin dall’inizio nella decisione di Ferdinando di risiedere nel regno di sua moglie e di delegare stabilmente l’amministrazione dei suoi domini ereditari a dei viceré. L’azione dei due sovrani realizzò un notevole rafforzamento dell’autorità della monarchia in Castiglia, dove si pose innanzitutto il problema di combattere la prepotenza nobiliare e la diffusa violenza. A tal fine la monarchia, appoggiandosi sul consenso delle città, riorganizzò le milizie urbane che represse con durezza le aggressioni e le violenze private. In Castiglia la monarchia Mosca, in quanto la Chiesa, legata alla tradizione bizantina di stretta unione fra potere civile e religioso, contribuì al rafforzamento dell’autorità monarchica e insieme sviluppò i primi elementi di un’ identità non solo religiosa ma anche culturale dello Stato russo. Ivan sposò una nipote dell’ultimo imperatore di Costantinopoli e si pose come erede spirituale della corona bizantina. Ivan usò sporadicamente il titolo di zar, che univa il titolo romano e poi bizantino di caesar a quello di khan della tradizione asiatica, ed esprimeva quindi insieme il principio assolutistico e la sacralità del difensore della fede. In questa prospettiva Mosca si poneva come la terza Roma, erede di Bisanzio che era subentrata con lo scisma d’Oriente del 1054 a Roma ma aveva perduto la sua funzione dopo la conquista ottomana. Lo Stato russo era quindi investito del compito di garantire la vittoria del cristianesimo ortodosso sul paganesimo e sul cattolicesimo. L’opera di Ivan III fu proseguita dal figlio Basilio III (1505-1533) e poi dal figlio di questi, Ivan IV il Terribile (1533-1584), che nel 1547 assunse formalmente il titolo di zar. Molto più incisiva divenne l’azione della monarchia per limitare i poteri della grande nobiltà; Ivan IV infatti contrappose alla Duma (Consiglio) dominata dall’aristocrazia, un’assemblea composta di esponenti dei ceti, l’Assemblea territoriale. Egli sancì con alcuni decreti il processo di asservimento del mondo contadino e formò il primo nucleo di un esercito di professionisti stipendiati. Instaurò relazioni con gli olandesi e gli inglesi, i quali fondarono la Compagnia della Moscovia. Nel 1560 la morte della moglie, che aveva arginato le tendenze violente del suo carattere, aprì una seconda fase del suo regno nella quale Ivan colpì con straordinaria crudeltà tutti coloro che riteneva suoi oppositori . L’aumento della pressione fiscale per coprire le spese militari e le violenze contro la popolazione portarono il paese a uno stato di grave crisi. Dopo la morte di Ivan IV ci fu un lungo periodo di debolezza e di anarchia, finché nel 1613 venne eletto zar il minorenne Michail Fedorovic Romanov (1613-1645) portando sul trono la dinastia che vi sarebbe rimasta fino alla rivoluzione del 1917. 7.10 L’impero ottomano L’evento più importante nella politica europea all’inizio dell’età moderna fu l’espansione dell’impero ottomano, originario dell’Anatolia occidentale fondato da Osman o Othman (morto nel 1326) che diede il nome alla dinastia. Nel XIV secolo gli Ottomani estesero il loro dominio fino a comprendere gran parte dei Balcani . Nei primi decenni del XV secolo l’impero bizantino era ridotto ormai alla capitale Costantinopoli e a pochi territori circostanti. Il debole aiuto degli Stati cristiani non valse a fermare l’attacco decisivo portato dal sultano Maometto II il Conquistatore (1451-1481). Costantinopoli, presa il 29 maggio 1453, divenne la capitale dell’impero con il nome di Istanbul. La cattedrale di Santa Sofia fu trasformata in moschea. Maometto si impadronì in seguito della Grecia, dove Venezia perse molti dei suoi possedimenti, della Serbia, della Bosnia, dell’Albania, della Moldavia, giungendo a ridosso del regno di Ungheria. La flotta riuscì anche a saccheggiare e occupare per un anno Otranto (1480). L’espansione ottomana interessò anche il Mar Nero che divenne in pratica un mare interno dell’impero. Il sultano Selim I (1512- 1520) combatté a est contro l’impero persiano dei Safawidi, occupando l’Armenia e il Kurdistan; quindi sottomise la Siria e sconfisse i Mamelucchi, la casta militare che dominava in Egitto, portando i suoi confini fino al Mar Rosso. L’influenza ottomana si estese quindi sugli Stati del Nord Africa, che divennero vassalli dell’impero. A Selim successe Solimano I il Magnifico (1520-1566) che occupando Baghdad, spinse i confini dell’impero fino al Golfo Persico. La conquista di Belgrado , l’unica città serba non ancora occupata, rese davvero concreta la minaccia di un’invasione musulmana nel cuore dell’Europa cristiana. Molto importante fu la conquista dell’Egitto, dal quale dipendevano le città sacre dell’Islam, La Mecca e Medina. In tal modo i sultani acquisirono il controllo del califfato e si posero come capi spirituali di tutto l’Islam sunnita , ovvero dei musulmani ortodossi seguaci, oltre che del Corano , della Sunna , la tradizione orale fondata sugli insegnamenti di Maometto, e sostenitori del principio elettivo del califfato. Alla base dell’espansionismo ottomano vi era la solida struttura dell’impero, imperniata sull’autorità assoluta del sultano, coadiuvato da collaboratori che facevano parte del Consiglio presieduto dal gran visir . Le entrate erano fornite dall’imposta pagata dai musulmani per le terre avute in concessione, dalla tassa dovuta dai non musulmani e dai dazi doganali. La giustizia era fondata in larga misura sui precetti coranici . Sul piano militare la potenza ottomana fu fondata fin dal XIV secolo sulla formazione di un esercito regolare , il cui nucleo centrale era costituito dalla fanteria dei giannizzeri, formata da prigionieri di guerra e dalla leva coatta di bambini cristiani educati nella fede islamica e addestrati alla guerra con il divieto di sposarsi. La cavalleria era composta invece dai notabili i quali, in cambio delle entrate fiscali della terra data loro in concessione, erano tenuti in caso di guerra a combattere e a fornire un determinato quantitativo di truppe. In base al diritto ottomano tutte le terre appartenevano al sultano. L’economia si basava sull’agricoltura; la cellula di base era la famiglia contadina, che riceveva in concessione dal villaggio una tenuta che non poteva vendere. La condizione del mondo contadino era comunque migliore rispetto all’Europa occidentale (era assente il servaggio). Gli abitanti delle città erano in larga parte artigiani, organizzati in corporazioni. Con l’espansione nel Mediterraneo l’impero acquisì una posizione strategica nei traffici dei prodotti di lusso (seta e spezie) che dall’Oriente arrivavano ai porti della Siria e dell’Egitto per essere poi trasportati in Europa. CAPITOLO 8 CIVILTÀ E IMPERI EXTRAEUROPEI 8.1 L’Africa Gli studi sull’Africa sono stati condizionati dalla scarsità e dalla poca attendibilità delle fonti disponibili. Molto importante per la storia del continente fu l’espansione dell’Islam, che conquistò prima i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, il cosiddetto Maghreb, e si diffuse poi, con maggior lentezza e difficoltà, nell’Africa occidentale e orientale. La penetrazione mussulmana rappresentò un forte incentivo allo sviluppo delle attività commerciali e dell’urbanizzazione. Lungo le rotte del commercio transahariano si svilupparono città dove transitavano i prodotti dell’Africa meridionale (oro, avorio, pelli e schiavi) scambiati con il sale e altri prodotti dell’Africa settentrionale. Le città erano una presenza marginale. Prevalevano società strutturate in piccole comunità, nelle quali il principale elemento di coesione era un legame di tipo etnico o parentale. Il carattere frammentario della società africana è confermato dal grande numero di dialetti e dalla varietà dei culti. Le religioni africane si fondavano su una visione magica. Le religioni dettavano gerarchie, norme e comportamenti sui quali si fondava tutta la vita della comunità. Su questo policentrismo si sovrapposero in alcune zone forme di organizzazione politica più complesse. Mancava l’idea di uno stabile dominio sul territorio in quanto i confini di questi Stati erano incerti e mobili proprio per la fluidità delle società segmentarie che ne erano la base. Nell’Africa equatoriale e meridionale l’idea di una organizzazione territoriale solida era impossibile. L’impulso alla formazione di un’autorità centrale nasceva in genere dallo stato di guerra o dalla necessità di espandersi, di controllare le vie commerciali o di riscuotere tributi o pedaggi. Il cristianesimo si diffuse precocemente nell’Egitto sotto la dominazione romana nella forma della dottrina monofisita, che negava la doppia natura umana e divina di Cristo. Si formò così la Chiesa copta che sopravvive ancora oggi. Il cristianesimo poi si espanse verso sud sull’altopiano etiopico. Alle soglie dell’età moderna si formò il regno Songhai, che approfittò del declino del precedente impero islamizzato del Mali per acquisire il controllo dell’altro corso del Niger; nella metà del XV secolo si impadronirono di importanti città, nodi dei traffici delle carovane. Il regno del Marocco, l’unico dell’Africa settentrionale a non essere soggetto gli ottomani, nel 1591 sconfisse il regno Songhai provocandone la scomparsa. 8.2 La Cina La storia della Cina moderna inizia dalla caduta della dominazione mongola di Kublai Khan (nipote di Gengis Khan), grazia a una insurrezione militare capeggiata da un ex monaco buddista, il quale prese il potere nel 1368 assumendo il nome di Hongwu e diede inizio alla dinastia Ming (luminosa) durata fino al 1644. L’economia cinese si fondava su un’agricoltura che presentava caratteristiche molto diverse rispetto a quella europea. Dominava il riso, che assicurava l’alimentazione della popolazione con rese superiori rispetto a quelle del frumento. Si coltivavano anche the, cotone e soia. Rispetto all’agricoltura europea si utilizzavano pochi strumenti agricoli e molto scarsi erano anche gli animali. Nel periodo Ming vi fu un notevole sviluppo delle manifatture (seta, cotone e porcellana) e una crescita dei centri urbani. L’andamento demografico della Cina presenta analogie con quello dell’Europa occidentale, in quanto anch’essa fu gravemente colpita dalla peste della seconda metà del XIV secolo e conobbe una rapida ripresa della popolazione, che passò nel periodo Ming da 65 a 150 milioni. Anche la Cina ebbe un forte incremento demografico nel Settecento ma nell’Ottocento, a differenza dell’Europa, non superò lo stato di arretratezza e patì conflitti e carestie che arrestarono la crescita. Il periodo Ming coincise con un rafforzamento del potere centrale. Hongwu eliminò la carica di Primo Ministro per governare personalmente. Egli riportò in auge il Confucianesimo, che considerava funzionale a questo indirizzo politico: non si trattava di una religione, ma di un insieme di dottrine, risalenti a Confucio, vissuto fra il VI e il V secolo a.C., che elaboravano principi e credenze dell’antica civiltà cinese e ponevano una serie di regole per il buon funzionamento della comunità, valorizzando il rispetto delle e fu intensificata la produzione del riso, ma soprattutto furono incentivate colture non volte alla sussistenza della popolazione, come il cotone, la canapa, il gelso, il tabacco e il the. Dalla massa del mondo contadino si staccò un ceto di ricchi proprietari terrieri, che introdussero nella coltivazione nuovi metodi atti a sviluppare la produttività. L’incremento delle attività manifatturiere creò le premesse per l’avvio del processo di industrializzazione. Prova di questa crescita furono l’aumento della popolazione e lo sviluppo delle città. 8.4 L’impero Safawide di Persia La dinastia dei Safawidi, destinata a regnare fino al 1722, iniziò quando Ismail I, membro di una famiglia di sceicchi originaria della Persia occidentale, riuscì a sottoporre al suo dominio gran parte del territorio persiano fino al Golfo Persico. Nel 1501 si proclamò primo shah dell’Iran, dando inizio alla dinastia. Nel 1514 una grave sconfitta da parte dell’esercito ottomano lo costrinse ad abbandonare diversi territori. Fin dall’inizio, lo Stato persiano ebbe come suo principale nemico l’impero ottomano, con il quale fu costantemente in lotta. Ai motivi politico-territoriali di conflitto si aggiunse una contrapposizione di natura religiosa gravida di conseguenze future. Mentre l’impero Ottomano si poneva come erede dell’ Islam sunnita , i Safawidi imposero come religione nazionale l’ Islam sciita , che considerava degli usurpatori i primi tre califfi, riconosceva come suo successore legittimo di Maometto il quarto, il cugino e genero Alì e i suoi discendenti, e negava il carattere elettivo del califfato, sostenuto invece dai sunniti. Questa posizione religiosa era anche il fondamento della legittimità dei Safawidi, che si ponevano come eredi diretti di un discendente del profeta. Un contributo decisivo al rafforzamento della dinastia venne dallo shah Abbas I il Grande (1587-1629) il quale, riordinato l’esercito su nuove basi, ottenne importanti vittorie su gli Ottomani conquistando diversi territori fino a Baghdad. Abbas si impegnò anche a incentivare il commercio fondando nel 1623 sul Golfo Persico un porto. Con Abbas l’impero raggiunse al suo massimo splendore. Dopo la sua morte l’impero si avviò a un lento declino, segnato dalla lotta con l’impero ottomano per il possesso della Mesopotamia, che alla fine fu stabilmente occupata dei sultani di Istanbul. Nel 1722 l’impero fu travolto da un’invasione degli afghani. Grazie alle imprese di Nadir Quli (1736-1747) i persiani riuscirono a sconfiggere gli afghani e ad occupare tutto il loro territorio. Guidati dal nuovo shah invasero l’India occupando Delhi e posero fine all’impero Moghul. Alla morte di Nadir la Persia piombò in un periodo di anarchia e di sanguinose guerre civili. 8.5 L’impero Moghul Nel XIII secolo nella parte settentrionale del continente indiano si era stabilito uno Stato musulmano, il sultanato di Delhi. Nel 1398 però il sultanato cadde in una condizione di anarchia, caratterizzata da ripetute frammentazioni del territorio e da frequenti insurrezioni e rivolte. Nell’India meridionale vi erano invece vari principati induisti. Il processo di riunificazione fu avviato da un capo militare afgano di fede musulmana chiamato Babur (tigre), che fra il 1526 e l’anno della sua morte nel 1530 conquistò Delhi creando nell’India nord-occidentale un ampio dominio destinato a rappresentare il primo nucleo dell’ impero Moghul (o mongolo ). Il consolidamento dell’impero fu opera del nipote di Babur, Akbar il Grande (1556-1605), che riuscì a imporre il suo controllo su tutta l’India settentrionale e in seguito estese i suoi domini. Una delle cause della fragilità dell’impero era la sua eterogeneità: vi convivevano infatti popolazioni di etnie di lingue diverse. Ma il fattore principale di divisione era la religione. La maggioranza della popolazione era legata all’insieme di credenze, di pratiche religiose, di regole sociali e di usi e costumi risalenti in origine all’antica letteratura dei Veda, che gli inglesi del XIX secolo designarono con il nome di induismo . La religione induista non ebbe un fondatore e non formò una chiesa, è un modo di concepire la vita secondo l’ordine del cosmo e i principi universali che lo animano. Parte essenziale di questo ordine è la divisione della società in quattro classi: i sacerdoti, i guerrieri o governanti, gli artigiani e mercanti, gli addetti ai lavori servili; al di sotto delle caste vi erano gli impuri o intoccabili ai quali erano riservati compiti umili e degradanti. Circa un quarto della popolazione aderiva invece all’Islam; e di fede musulmana era anche la dinastia straniera imperiale. Nel periodo che consideriamo si formò inoltre una nuova corrente religiosa, il movimento sikh, che condivideva molti motivi della tradizione induista, ad esempio la credenza nella reincarnazione, ma rifiutava il sistema delle caste e soprattutto intendeva unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico, del quale non si doveva dare alcuna rappresentazione materiale. Infine, con l’arrivo degli europei iniziò anche una limitata penetrazione del cristianesimo. Akbar cercò di superare queste divisioni promuovendo una riforma religiosa e sociale che sancisse la parificazione di musulmani e indù. Egli a tal fine abolì la tassa prescritta dal Corano per i non musulmani. Inoltre, praticò una larga tolleranza, operando anche una limitata apertura nei confronti dei gesuiti. L’impero Moghul costruì nel tempo una struttura amministrativa solida, che consentì ai sovrani un efficace controllo sulle varie regioni dello Stato. A tal fine era centrale la figura che rappresentava il comandante militare e il capo amministrativo della circoscrizione a lui affidata. Egli aveva competenza sulle questioni militari e sulla vita economica del territorio, e doveva garantire il rispetto della legge e il mantenimento dell’ordine pubblico. L’economia dell’impero si fondava su un’agricoltura di sussistenza, generalmente arretrata. La sua scomparsa segnò l’inizio della crisi. Nel 1739 Nadir invase l’India e occupò Delhi. Finì così l’impero Moghul. 8.6 L’America precolombiana Agli inizi del XVI secolo, quando arrivarono gli spagnoli, in America esistevano civiltà millenarie che avevano sviluppato forme di organizzazione politica, economica e sociale di livello assai elevato: in particolare gli Aztechi e i Maya nel Messico e nell’America centrale, e gli Inca nella regione andina. La base dell’economia era l’agricoltura (mais, patata, pomodori, fagioli, peperoni e zucche). L’allevamento del bestiame non era molto praticato. Nella zona andina molto importanti erano i lama, usati come bestie da soma, l’alpaca per la lana. Fra gli animali domestici erano conosciuti solo il tacchino, l’anatra e il porcellino d’India. L’artigianato produceva ceramiche artistiche, tessuti preziosi e monili in oro, argento e rame. Queste civiltà, fermi all’età della pietra, non conoscevano il ferro e non utilizzavano la ruota, ma costruirono grandi opere pubbliche (canali di irrigazione, strade) e splendide città con imponenti complessi monumentali dedicati alle cerimonie e al culto. Spicca fra tutte per la sua raffinatezza sul piano culturale, architettonico e artistico la civiltà dei Maya. Questo popolo conosceva la scrittura e usava un sistema di numerazione che implicava il concetto dello zero. In Maya accumularono un gran numero di osservazioni astronomiche, calcolarono con grande precisione i cicli della luna, di Venere e di altri pianeti, e predisposero tabelle che consentivano di prevedere l’eclissi. Quando giunsero gli spagnoli i Maya erano in una fase di declino in quanto, frantumatasi l’unità politica, erano divisi in una molteplicità di Stati minori. Gli Aztechi erano una popolazione originaria del Messico settentrionale, proveniente da una leggendaria terra chiamata Aztlan, da qui il nome di aztechi divenuto di uso comune nel XIX secolo. Dopo varie migrazioni, nel XIV secolo gli aztechi si erano stabiliti sull’altopiano centrale fondando il primo nucleo di quella che sarebbe diventata Città del Messico, la grande capitale del loro impero. Gli aztechi si espansero fino a controllare tutto il Messico centro-meridionale e estesero il proprio territorio fino alle coste del Pacifico e dell’Atlantico, penetrando anche nel territorio dei Maya. Sotto il regno di Montezuma II (1503-1520) l’impero comprendeva almeno 38 province, ma non era uno Stato unitario, bensì una sorta di federazione di popoli sottomessi; gli aztechi infatti non annettevano i territori conquistati ma lasciavano loro un’ampia autonomia: si accontentavano di controllare il commercio e di imporre tributi. Questa situazione fu abilmente sfruttata dagli spagnoli. Gli aztechi usavano una scrittura pittografica. Non conoscevano la moneta. La società era articolata in classi, secondo una rigida gerarchia sociale. Al vertice c’erano il sovrano e la nobiltà, formata dalle antiche aristocrazie tribali e da uomini nobilitati per meriti di guerra . Questa nobiltà aveva vari privilegi: non pagavano tributi e poteva possedere terreni. I mercanti di oggetti di lusso e gli artigiani, riuniti in corporazioni, avevano una condizione privilegiata; vi erano infine i contadini, ai quali la comunità, formata da clan che si richiamavano a una comune discendenza, assegnava la terra da coltivare. Vi erano poi gli schiavi (prigionieri di guerra o colpevoli di delitti), utilizzati come domestici ma non del tutto privi di diritti. Gli aztechi avevano un gran numero di divinità, anche perché adottavano quelle dei popoli sottomessi. Essi credevano in un ordine cosmico al quale gli stessi dei erano sottomessi. I loro dei erano personificazioni delle forze della natura (sole, pioggia, vento, ecc.), dalle quali dipendevano la prosperità e la rovina della società. I sacrifici umani, che ogni anno immolavano un gran numero di vittime, anche bambini, talora con pratiche particolarmente crudeli, miravano ad alimentare e rinvigorire con il dono del sangue umano gli dei nella loro lotta contro le forze ostili. Poiché i prigionieri di guerra erano l’offerta più pregiata per il Dio, gli aztechi combattevano anche per procurarsi vittime sacrificali. L’impero Inca era il più potente dell’America precolombiana . La parola “inca” era il titolo dato al sovrano della città-Stato di Cuzco , situata a 3500 metri di altezza nel Perù meridionale, nucleo originario dell’impero. In seguito, è passata a designare l’impero e la sua popolazione. L’espansione degli Inca si realizzò nel corso del XV secolo quando con varie spedizioni sottomisero la regione andina spingendosi fino all’Ecuador; quindi occuparono l’attuale Bolivia e penetrarono in Cile e nell’Argentina settentrionale. Alla morte del sovrano Càpac nel 1527, si aprì una lotta per la successione fra i due figli che si risolse con la vittoria di Atahualpa. Gli spagnoli arrivarono proprio mentre era in atto questa guerra civile. A differenza degli aztechi, La capacità di lanciare uno sguardo nuovo sulle cose e sulla stessa interiorità dell’uomo si manifestò dapprima nel mondo dell’arte, a partire da Giotto e poi con Masaccio, Piero della Francesca e Brunelleschi, per giungere fino ai grandi artisti dell’età rinascimentale. Nell’età precedente aveva prevalso la dimensione religiosa per cui anche la produzione artistica doveva essere rivolta al conseguimento della salvezza dell’anima. Quando si fece strada una nuova sensibilità, si iniziò a considerare la natura e l’uomo nel loro autentico significato e valore, a prescindere dal loro coinvolgimento in un disegno divino. Se prima tutte le figure erano poste su uno stesso piano e le loro dimensioni e la loro disposizione nello spazio erano dettate da una gerarchia ispirata da criteri di carattere religioso, ora invece l’artista si riproponeva di ricostruire lo spazio secondo regole matematiche precise. Si affermò così la tecnica della prospettiva, elaborata da Brunelleschi ed esposta poi nel 1436 da Leon Battista Alberti. 9.5 La nuova concezione dell’uomo Dalla rivalutazione della dimensione terrena dell’uomo deriva l’aspirazione a una società armonica e razionale, motivo ebbe largo spazio anche nelle composizioni letterarie. Fra queste si segnala in particolare l’opera pubblicata nel 1516 da Thomas More, Utopia, che descrive la felice situazione sociale dell’isola di Utopia sulla base del racconto di un marinaio portoghese che l’aveva visionata nel corso dei suoi viaggi. Presso gli Utopiani non esisteva proprietà privata né denaro, tutti lavorano per sei ore al giorno e possono impiegare la restante parte del loro tempo in attività intellettuali, non ci sono guerre e sono tollerate tutte le religioni, accomunate dalla fede in un Dio buono e provvidente. Insomma, nell’isola si vive un’esistenza armoniosa, semplice e fondata sulla ragione naturale. L’opera è ispirata allo stato perfetto descritto da Platone nella Repubblica. Utopia rappresenta come ogni evidenza la proiezione dell’ideale di vita caro al movimento umanista. Come il nome dell’isola (cioè luogo che non c’è), tutti i nomi sono derivati dal greco e alludono alla natura ideale della società descritta. 9.6 La nuova concezione della natura Molti hanno ritenuto che il germe della modernità vada individuato nella rivoluzione scientifica che segnò l’affermazione del metodo sperimentale, per cui il vero momento di discontinuità rispetto all’età medievale andrebbe posto fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. È infatti, per esempio, nel 1543 che Niccolò Copernico, astronomo polacco, propose l’ipotesi eliocentrica, che poneva al centro del cosmo non la Terra ma il sole. Assai diffusa e praticata era all’epoca l’astrologia, vale a dire lo studio degli influssi che il moto degli astri ha su tutti i movimenti del mondo terreno, e quindi anche sulle passioni e sui caratteri dell’uomo. Non erano ancora ben definiti invece i confini fra la chimica e l’alchimia, vale a dire il complesso di teorie e di pratiche che miravano alla trasmutazione dei metalli in oro o alla scoperta di sostanze in grado di prolungare la vita. Occorre aspettare il 1687, con i “Principi matematici di filosofia della natura” di Newton per sancire la definitiva frattura fra la scienza moderna e le teorie di matrice magico-alchimistiche. D’altra parte, gli umanisti furono molto interessati ai problemi di ordine scientifico. Essi riportarono alla luce infatti le opere di matematica, geometria, astronomia, geografia e medicina dei principali autori greci (come Euclide e Archimede), rimettendo così in circolazione idee e problemi che rappresentarono uno stimolo fondamentale per la discussione critica delle teorie dominanti nelle scuole e nelle università. Il contributo dell’umanesimo al processo di affermazione del metodo scientifico va individuato soprattutto nell’esplicito rifiuto del principio di autorità, vale a dire nella volontà di non accreditare alcuna affermazione o alcun giudizio che non fossero comprovati in campo letterario dalla critica filologica e storica e, per quanto concerne il mondo della natura, dalla diretta osservazione dei fenomeni. Un esempio tra tutti è dato dalle annotazioni nelle quali Leonardo da Vinci negava il valore scientifico delle dottrine fondate esclusivamente sull’autorità degli antichi maestri, e rivendicava l’esigenza di verificare ogni teoria sulla base dell’esperienza, vale a dire attraverso un’analisi diretta della realtà naturale. Nella stessa direzione si mosse Machiavelli, per cui nel Principe volle esaminare quali potevano essere i modi di governo di un principe-signore con i sudditi, affermando di voler prescindere da considerazioni di natura morale e religiosa, ponendo quindi le basi della moderna scienza politica. 9.8 Erasmo da Rotterdam Il più importante esponente della cultura umanistica, Erasmo da Rotterdam perseguì l’ideale di un umanesimo cristiano nel quale la rinascita degli studi classici si coniugava con il ritorno allo spirito evangelico del cristianesimo delle origini. Figlio illegittimo di un ecclesiastico, fu ordinato sacerdote nel 1492, ma si dedicò per tutta la vita alla libera attività intellettuale che lo portò a viaggiare per tutta l’Europa. L’opera di rinnovamento culturale e religioso perseguita da Erasmo si espresse innanzitutto nel tentativo di applicare il metodo critico della filologia anche alle sacre scritture. Proprio in nome della critica filologica Erasmo affermò di non accettare l’autorità degli antichi e degli stessi padri della Chiesa, e rivendicò il diritto della libera ricerca intellettuale di procedere nei suoi studi senza incontrare ostacoli o limitazioni. Erasmo portò a compimento il suo progetto dando alle stampe nel 1516 il Novum instrumentum, che presentava il testo greco del Nuovo Testamento , con una nuova versione in latino e un apparato di annotazioni critiche. L’opera, pur non priva di difetti, pose le basi della moderna critica biblica. Erasmo si fece fautore di un ritorno alle origini non solo per quanto concerne le fonti , ma anche nel sentimento religioso , che egli voleva semplice e puro, lontano da ogni esteriorità, fedele allo spirito evangelico . Nei suoi scritti egli criticò gli eccessi della devozione, il culto delle reliquie, i digiuni, le veglie, le mortificazioni della carne, i pellegrinaggi, insomma tutte quelle forme di religiosità esteriore che riteneva estranee al vero spirito del cristianesimo. Il suo ideale di vita cristiana si trova espresso con particolare efficacia nel testo “Elogio della follia”, pubblicata nel 1511 in Inghilterra. Erasmo, per bocca della follia, intesa come insensatezza e non nel senso di malattia mentale, paragona la vita a una rappresentazione nella quale ognuno degli attori porta una maschera. Che succederebbe se qualcuno rompesse la finzione per mostrare gli attori con le loro facce vere e naturali? Tutta l’efficacia del dramma sarebbe distrutta proprio perché è la finzione a tenere legati gli spettatori. Nella seconda parte l’opera sviluppa una satira nei confronti di tutti i protagonisti della vita culturale e sociale: re, nobili, grammatici, poeti, filosofi, teologi, uomini di Chiesa, tutti ostentano una falsa sapienza che in realtà è follia . Folli i principi a distruggere con continue guerre ricchezze e vite umane. Folli i teologi che pretendono di svelare con infinite sottigliezze i misteri della fede e sono pronti a bollare come eretici coloro che non si adeguano alle loro tesi. Folli ancora vescovi, cardinali e papi, più attratti dai beni mondani che da quelli spirituali dei quali dovrebbero essere gli amministratori. Ma la parte più interessante è quella conclusiva, nella quale Erasmo propone un parallelo fra il platonismo e il cristianesimo, concordi nell’interpretare la realtà sulla base di una contrapposizione fra anima e corpo, spirito e materia. Nella filosofia di Platone l’anima è prigioniera del corpo e tende a staccarsene per ricongiungersi al mondo delle idee, dal quale proviene e del quale conserva un vago ricordo. Analogamente coloro che vivono sforzandosi di seguire il modello di Cristo disprezzano le cose terrene e gli aspetti materiali della vita per lasciarsi rapire nella contemplazione delle cose invisibili. Tuttavia, solo pochi uomini sono capaci di vivere con tanta profondità il messaggio cristiano e per questo sono derisi e disprezzati come folli della gente comune. Questa infatti è attratta soprattutto dalle cose visibili, dai beni materiali. Nella distinzione fra i pochi autentici seguaci di Cristo e la massa ignorante e superstiziosa si manifesta chiaramente il carattere elitario e aristocratico dell’umanesimo erasmiano . La prospettiva proposta da Erasmo sarebbe poi stata seguita dalle correnti più radicali della Riforma protestante. Naturalmente non era questa l’intenzione di Erasmo, non a caso egli alcuni anni dopo avrebbe confessato che alla luce degli sviluppi successivi della crisi religiosa certe cose non le avrebbe scritte. Il suo infatti è un cristianesimo etico: non è importante ciò che si crede, cioè la dottrina e i dogmi, ma come si vive . Il cristiano solo sforzandosi di seguire l’esempio di Cristo può risorgere a nuova vita: si vede qui come l’idea della rinascita, centrale nella cultura umanistica, si sia affermata attraverso il pensiero erasmiano anche nell’ambito del cristianesimo come ritorno allo spirito delle origini. CAPITOLO 10 LE SCOPERTE GEOGRAFICHE E GLI IMPERI PORTOGHESE E SPAGNOLO 10.1 Uno sguardo nuovo sul mondo Alla radice delle grandi scoperte geografiche ci furono innanzitutto esigenze economiche, in particolare il desiderio di trovare una nuova via per raggiungere le Indie e controllare il commercio delle spezie. Tuttavia, i grandi viaggi di esplorazione non possono essere compresi se non si fa riferimento anche al clima affermatosi in Europa grazie alla cultura umanistica, che concorse a radicare negli uomini colti dell’Europa la convinzione della sfericità della Terra e stimolarono la riflessione sulle questioni geografiche e astronomiche. 10.2 L’esplorazione dell’Africa Fu il Portogallo a dare avvio nel XV secolo ai viaggi di esplorazione della costa occidentale dell’Africa iniziata nel 1415. Essi raggiunsero il Senegal, la Sierra Leone e il Golfo di Guinea. Fin dall’inizio un ruolo notevole in queste imprese ebbe la dinastia di Aviz, che regnava dal 1385: consapevoli delle limitate possibilità di sviluppo agricolo del Portogallo, i sovrani si appoggiarono sui ceti mercantili favorendo le attività commerciali e le costruzioni navali. Venne fondato anche un centro di studi violenza. I portoghesi costruirono una serie di fortezze a protezione dei loro empori e strinsero o imposero con la forza accordi commerciali con i sovrani locali. Per contrastare questa avanzata, il sultano dello Stato indiano, il sovrano dell’ Egitto e il sovrano di Calicut , sostenuti dall’ impero ottomano , da Venezia e dalla Repubblica di Ragusa (oggi Dubrovnik) allestirono una flotta ma furono sconfitti dai portoghesi al largo della costa indiana (1509). In pochi anni i portoghesi occuparono diverse città chiave lungo la costa indiana e nel Golfo Persico. A partire dal 1543 il Portogallo aprì una linea di commercio anche con il Giappone e nel 1557, grazie un accordo con l’impero cinese, fondò una colonia commerciale a Macao. L’impero portoghese raggiunse così la sua massima estensione: poté quindi imporre un controllo militare sul libero commercio nell’Oceano Indiano attraverso un sistema di lasciapassare. Nel Mediterraneo orientale invece il commercio portoghese si aggiunse a quello veneziano, ma non riuscì a soppiantarlo. Lo “Stato dell’India” fu un impero commerciale ma non territoriale, anche perché il numero di portoghesi in India non superò mai i 15.000 individui. Il centro dell’impero era Goa , dove arrivava ogni anno da Lisbona una flotta composta da navi che portavano mercanzie, soldati ed ecclesiastici e ritornava con un carico di spezie, di pietre preziose, di sete e tessuti orientali. Il traffico era regolato e controllato dalla “ Casa da India ” di Lisbona , che riservava una quota dei proventi a favore della corona. 10.7 Mondo nuovo Nel 1499-1500 e nel 1501-1502 il fiorentino Amerigo Vespucci prese parte a due spedizioni, la prima organizzata dalla Spagna e la seconda dal Portogallo, che esplorarono le coste atlantiche dell’America meridionale e comprese che non dell’Asia si trattava, ma di un nuovo continente. La lettera divulgata a suo nome nel 1503, con il titolo Mundus Novus, rese esplicita questa intuizione, e nel 1507 le nuove terre presero il nome di America. 10.8 Il viaggio di Magellano L’idea di aggirare il continente americano da sud fu concepita da un portoghese, Ferdinando Magellano. Egli si rivolse alla Spagna che, essendo stata battuta dal Portogallo nella corsa verso i paesi produttori delle spezie, aveva interesse a cercare una via alternativa a quella aperta da Vasco da Gama. Magellano convinse Carlo V finanziare la sua impresa. La spedizione partì da Siviglia nel settembre 1519 dopo una sosta in Brasile, raggiunse nel marzo 1520 la Patagonia dove dovette fermarsi a passare l’inverno per le cattive condizioni climatiche. Ripreso il viaggio, Magellano nell’ ottobre 1520 trovò lo stretto che da lui avrebbe preso il nome e passo nell’oceano che egli chiamò Pacifico. Nel marzo 1521 raggiunse un gruppo di isole che rivendicò al re di Spagna e che si sarebbero chiamate in seguito Filippine. Qui Magellano rimase ucciso in uno scontro con gli indigeni. Dopo un lungo viaggio attraverso l’Oceano Indiano e intorno all’Africa tornò in patria nel 1522 una sola nave con meno di 20 uomini. Il vicentino Antonio Pigafetta , che era tra i superstiti, lasciò un importante diario del viaggio . Al suo arrivo egli constatò che, nonostante avesse tenuto diligentemente il conto dei giorni, la data era il 10 luglio 1522 e non il 9 come aveva calcolato: per la prima volta si osservò che facendo il giro del mondo verso ovest si perde un giorno, mentre lo si guadagna se si va verso est. Carlo V negli anni successivi decise di rinunciare ad utilizzare lo stretto di Magellano, a causa delle grandi difficoltà della navigazione. 10.9 La conquista Con il viaggio di Magellano l’era delle grandi esplorazioni era di fatto conclusa: la cognizione del globo terrestre era ormai acquisita, anche se restavano zone da esplorare e si ignorava l’esistenza dell’Australia. Cominciò allora l’epoca della conquista e della colonizzazione delle terre che erano state scoperte . La conquista fu affidata all’iniziativa individuale: la Spagna non dovette mai inviare truppe nel nuovo mondo. Gli spagnoli che arrivarono dall’Europa si insediarono in questa prima fase nelle isole caraibiche, soprattutto Haiti e Cuba . Nel contempo fu avviata l’esplorazione della terraferma. Nel 1513 gli spagnoli vennero a contatto con i Maya e cominciarono ad avere notizie dell’esistenza a nord di un vasto e ricchissimo impero. Iniziò così l’epopea dei conquistadores , avventurieri senza scrupoli, avidi di oro e di gloria, che fra il 1519 il 1550 distrussero con brutale spietatezza le civiltà precolombiane assoggettando al dominio della Spagna un immenso territorio. Il primo fu Hernan Cortez (1485-1547), il quale ricevette l’incarico di verificare la veridicità delle voci sull’impero azteco e nel febbraio 1519 partì da Cuba circa 500 soldati e sbarcò sulla costa messicana. Egli si diresse verso la capitale degli aztechi, dove fu ricevuto dal sovrano Montezuma II. Cortez fece prigioniero Montezuma e lo tenne in ostaggio costringendolo a pagare un ingente riscatto in oro. Cortez si servì del prestigio di Montezuma per imporre la propria autorità sul popolo. Dopo una serie di scontri tra gli spagnoli e gli aztechi, la capitale fu conquistata nell’agosto del 1521 e negli anni seguenti tutto il territorio dell’impero fu sottomesso. La capitale fu distrutta e sulle sue rovine fu edificata Città del Messico. Simile fu la caduta dell’impero Inca per mano di Francisco Pizarro, il quale nel 1531 partì alla conquista dell’impero Inca. Pizarro incontrò nel novembre 1532 Atahualpa e, dopo averlo catturato e chiesto un riscatto in oro, lo fece uccidere nel 1533. Nel novembre dello stesso anno venne conquistata e saccheggiata la capitale Cuzco, segnando la fine dell’impero. 10.10 La distruzione delle civiltà precolombiane La storiografia si è a lungo interrogata sulle cause che consentirono a un pugno di uomini di sottomettere popolazioni infinitamente più numerose. In una prima fase un impatto notevole ebbe il terrore provocato dalle armature, dai cavalli e dalle armi da fuoco. Gli spagnoli sfruttarono inoltre con grande abilità l’ostilità verso gli aztechi dei popoli da loro sottomessi e il conflitto dinastico che aveva diviso gli Inca. Inoltre, l’elevata mortalità provocata dalle malattie portate dagli europei indebolirono le capacità delle popolazioni indigene di opporsi alla conquista. 10.11 L’impero spagnolo Fino alla metà del XVI secolo una schiera di conquistadores partiti alla ricerca di un paese ricco di oro e di pietre preziose, il mitico El Dorado, assoggettò alla corona spagnola un territorio immenso che andava dalla California (scoperta da Cortez nel 1535) e dalla Florida fino al Cile, fatta eccezione per la parte meridionale di quest’ultimo; a est il limite era segnato dall’impenetrabile foresta amazzonica. Questo impero fu eretto in “regno delle Indie”: formalmente non si trattava quindi di una colonia, ma di un regno con lo stesso status degli altri sottoposti alla sovranità della corona spagnola. Per il governo di quei territori il sovrano fu affiancato a partire dal 1524 da un Consiglio delle Indie . Il regno dipendeva amministrativamente dalla corona di Castiglia, e castigliani furono in maggior parte i coloni che vi si recarono. La struttura amministrativa fu ricalcata sulle istituzioni spagnole: furono creati due vicereami, la Nuova Spagna e il Perù. L’amministrazione della giustizia fu affidata a tribunali regi composti da giudici inviati dalla Spagna . La colonizzazione si realizzò innanzitutto attraverso la fondazione di città. Secondo le stime più attendibili gli spagnoli emigrati in America nel XVI secolo furono circa 250.000; il limitato numero di donne impediva una rapida crescita demografica, per cui non molto alto fu il numero dei creoli , figli di spagnoli nati nel nuovo mondo. Vi erano anche diverse migliaia di schiavi africani. Nel 1514 la corona spagnola autorizzò i matrimoni misti. Ne risultò un alto numero di meticci, che divennero la composizione maggioritaria; ma cospicua fu anche la presenza di mulatti, nati da europei e africani e di zambos i figli di africani e indios. 10.12 L’economia L’economia fu caratterizzata soprattutto dallo sviluppo dell’allevamento di pecore, buoi e cavalli. Minore importanza ebbe invece l’agricoltura (mais, frumento, segale, l’orzo, il riso e varie piante da frutta). Sulle Ande si introdusse la coltivazione della vite e dell’olivo. Nelle isole caraibiche si affermò la coltivazione della canna da zucchero, per la quale fu necessaria l’importazione di schiavi dall’Africa a causa della rapida estensione della popolazione locale. Mentre le spedizioni portoghesi avevano conseguito l’obiettivo che si erano posti, la Spagna non riuscì a raggiungere le Indie e dalla scoperta del continente americano non ricavò all’inizio le grandi ricchezze promesse da Colombo. La situazione mutò radicalmente quando furono scoperte miniere di oro e di argento. Le quantità ricavate crebbero notevolmente anche grazie all’introduzione di nuove tecniche per estrarre il metallo dalla roccia. Per lo sfruttamento delle miniere furono impiegati migliaia di indios, che furono sottoposti a condizioni di lavoro durissime. Il trasporto in Europa delle crescenti quantità di oro e di argento fu organizzato attraverso un sistema di convogli scortati da galeoni. Le navi spagnole furono esposte sistematicamente agli attacchi dei pirati inglesi, francesi e olandesi. È impossibile avere dati attendibili sulla popolazione degli imperi precolombiani. In ogni caso non vi può essere alcun dubbio sul fatto che avvenne una vera catastrofe demografica, provocata dal brutale sfruttamento del lavoro degli indios, dalle violenze perpetrate loro danni e dalle malattie (vaiolo, tifo, morbillo, influenza) portate dagli europei contro le quali essi non avevano alcuna difesa immunitaria. 10.13 L’evangelizzazione Fin dalle prime spedizioni portoghesi, queste erano animate dalla volontà di diffondere la religione cristiana. L’espansione portoghese assunse il carattere di una di 95 tesi che affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg il 31 ottobre 1517. La pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti dei santi, per cui attraverso la mediazione della Chiesa, per compensare le colpe dei peccatori, in vita o defunti, si potevano rimettere parzialmente o totalmente le pene da scontare in Purgatorio con l’offerta di una somma di denaro. I predicatori, pur di ottenere maggiori introiti, promettevano ai fedeli non solo la remissione delle pene ma anche il perdono dei peccati, a prescindere da un sincero pentimento, e giunsero ad affermare che nel momento stesso in cui la moneta tintinnava sul fondo della cassa l’anima volava dal Purgatorio in Paradiso. Lutero condannava le indulgenze perché creavano nel cristiano un atteggiamento sbagliato, lo incitavano a intraprendere una scorciatoia per sfuggire alle proprie colpe; ogni uomo, invece, consapevole della propria miseria di fronte alla maestà di Dio, doveva innanzitutto maturare un sincero e profondo pentimento per i propri peccati, e quindi accettare le pene. 11.4 La rottura con Roma Lutero intendeva solo promuovere una disputa teologica fra dotti, non certo un atto di ribellione contro Roma. Ma lo scritto, subito tradotto e stampato in tedesco, suscitò nei suoi confronti un vasto consenso in tutti gli ambienti favorevoli alla Riforma della Chiesa. Un ruolo decisivo nella diffusione della Riforma ebbe la stampa: i principi del pensiero di Lutero raggiunsero tutti gli strati della popolazione. Particolarmente importanti furono le immagini, che proposero in forma immediata e accessibile a coloro che non sapevano leggere, la contrapposizione fra Lutero, raffigurato come difensore della Germania oppressa dallo sfruttamento di Roma, e il Papa presentato come incarnazione di Satana. Negli anni seguenti Lutero elaborò le basi della sua dottrina che riassunse in tre scritti pubblicati nel corso del 1520 . In queste opere il riformatore tedesco rifiutava l’autorità del Papa e poneva nella Sacra scrittura la sola guida della Chiesa di Cristo: la Riforma realizzava sul piano religioso quel ritorno alle origini che l’umanesimo aveva promosso sul piano linguistico, culturale e artistico. La parola di Dio era il solo punto di riferimento per il cristiano. Attraverso i due principi fondamentali della sua dottrina, sola fide e sola scriptura, Lutero stabiliva un rapporto diretto fra l’individuo e Dio, e abbatteva l’intermediazione della Chiesa sia nella via verso la salvezza sia nell’interpretazione della Bibbia. Crollavano così tutto l’apparato istituzionale e tutta la costruzione teologica della Chiesa. Furono aboliti il monachesimo e il celibato dei preti : lo stesso Lutero sposò una suora ed ebbe sei figli. Lutero ridusse anche i sacramenti, riconoscendo solo battesimo ed eucarestia , gli unici comprovati dalla Sacra scrittura . In base al principio del sacerdozio universale dei credenti, per cui tutti sono fratelli di Cristo, cadde l’idea di un clero dotato di uno status diverso rispetto ai laici. Spariva anche il Purgatorio, la cui invenzione risaliva al XII secolo. La reazione di Roma giunse nel 1520 con una bolla che minacciava la scomunica per Lutero se non avesse ritrattato le sue dottrine. Per tutta risposta il riformatore tedesco bruciò sulla pubblica piazza la bolla e il codice di diritto canonico, atto simbolico di rifiuto dell’intera istituzione ecclesiastica. L’imperatore di Germania, che dal 1519 era il giovanissimo Carlo V, decise di ascoltare Lutero il 17 aprile 1521. Alla richiesta di sconfessare gli scritti che aveva pubblicato Lutero restò convinto delle sue posizioni. Lutero fu quindi condannato come eretico e posto al bando dell’impero. Fu il duca di Sassonia a salvarlo e a condurlo in un castello dove rimase nascosto circa un anno e tradusse la Bibbia in tedesco, opera assai importante per la storia linguistica della Germania. 11.5 I rivolgimenti in Germania In quegli anni esplosero nella società tedesca le tensioni causate dal diffondersi della nuova dottrina. Gli avvenimenti più importanti furono le guerre dei contadini che fra il 1524 e il 1525 infiammarono la Germania, a partire dalla Svevia. Le rivendicazioni autonomistiche degli insorti furono sintetizzate in articoli redatti dai contadini di Svevia nel 1525: riduzione della decima, ripristino delle tradizionali prerogative della comunità di villaggio usurpate dai signori laici ed ecclesiastici (diritti di caccia e pesca, taglio della legna, restituzione delle terre), fissazione di canoni e di servizi di lavoro giusti. Uno degli elementi più interessanti fu la coesione fra gli individui , generata dal senso di giustizia e di eguaglianza ispirati dal richiamo al Vangelo . La protesta voleva essere pacifica, ma non mancarono violenze. Lutero prese subito le distanze dalle rivendicazioni dei contadini ed esortò i principi a utilizzare la violenza contro i ribelli. Questa reazione era la logica conseguenza delle sue convinzioni: la libertà del cristiano è solamente interiore, la realtà terrena non deve interessarlo, perché egli vive nella speranza e nell’attesa di essere accolto nel regno di Cristo. Quindi il cristiano deve in ogni caso obbedienza al potere politico, poiché è stabilito da Dio per mantenere l’ordine. A queste posizioni conservatrici si spirò l’organizzazione delle comunità luterane. La Chiesa luterana divenne una Chiesa di Stato, amministrata da commissioni composte di ecclesiastici e laici che rispondevano in ultima istanza al principe territoriale o al governo cittadino. 11.6 La polemica con Erasmo Erasmo nel 1524 si schierò apertamente contro Lutero. Rispetto ai tanti temi che lo accostavano al pensiero del riformatore tedesco (il rifiuto degli aspetti esteriori del culto e il ritorno al cristianesimo evangelico), egli attaccò Lutero proprio nel punto sul quale l’umanesimo e la Riforma si distinguevano in modo più netto: la concezione dell’uomo. Al pessimismo luterano Erasmo oppose la convinzione che la libertà di scelta dell’uomo, sebbene ferita dal peccato, non è stata distrutta. In ogni caso egli riteneva che, anche se l’uomo avesse un ruolo passivo nella propria salvezza, non sarebbe stato conveniente informare il popolo. Analogamente egli giudicava utile la confessione , perché tratteneva molti dal commettere il male . Alle posizioni aristocratiche ed elitarie di Erasmo, Lutero oppose con efficacia la natura popolare della Riforma: la parola di Dio è per tutti, non si deve tacere la verità al popolo nel timore che possa abusarne. Anche in relazione alla confessione la replica di Lutero risultava particolarmente penetrante: astenersi dal male solo per il timore di doversi confessare o per paura dell’Inferno non aveva ai suoi occhi alcun valore, serviva a fare degli ipocriti, non dei veri cristiani. In realtà la prudenza e la moderazione di Erasmo erano il riflesso del suo disagio di fronte a una realtà nella quale egli non si riconosceva più. Erasmo si ritraeva intimorito da un mondo lacerato da conflitti sempre più aspri, che stavano spaccando la cristianità. Per Lutero gli sconvolgimenti che Erasmo cercava di ridimensionare dimostravano invece che era finalmente rinato lo spirito di Cristo crocifisso, destinato a creare scandalo ogni volta che fosse ripreso nella sua identica sostanza. Erasmo fu accusato sia dai protestanti, per non aver sostenuto le teorie del suo cristianesimo evangelico, sia dalla Chiesa di Roma, per aver creato le basi teoriche da cui si svilupparono le teorie di Lutero, tant’è che tutta la sua opera sarebbe stata poi messa all’Indice dei libri proibiti. 11.7 La Riforma nella Svizzera tedesca: Zwingli Ulrich Zwingli fu il più importante riformatore della Svizzera tedesca. Cappellano della cattedrale di Zurigo, egli aveva maturato l’aspirazione a un ripristino della semplicità evangelica quando, nel 1519, l’esempio di Lutero lo spinse a mettersi sulla via della Riforma. Grazie al sostegno del Consiglio civico, il gruppo che comandava la città, Zwingli poté smantellare l’edificio della Chiesa cattolica e stabilire in città il culto riformato. Tutti i principali aspetti della sua azione riformatrice si ricollegavano all’umanesimo di impronta erasmiana. Il razionalismo umanistico lo portò a negare ogni presenza reale nell’eucarestia (transustanziazione), che egli concepì come una semplice commemorazione o ricordo dell’ultima cena, valida come segno di appartenenza alla comunità: il miracolo è avvenuto nell’ultima cena, ma non si sarebbe più ripetuto. Da Zurigo la riforma si diffuse in molte città della Svizzera e ciò generò un conflitto con i cantoni cattolici. Durante uno di questi conflitti, nel 1531 perse la vita lo stesso Zwingli. 11.8 Calvino Calvino nacque in Francia nel 1509. Il giovane ebbe una solida formazione umanistica che lo portarono ad aderire ai principi della Riforma. Nel 1534 fu costretto a lasciare la Francia per sfuggire alle persecuzioni lanciate contro gli eretici da Francesco I. Calvino si trasferì prima a Basilea, dove nel 1536 pubblicò la sua opera, poi in Italia, alla corte di Ferrara, quindi a Ginevra dove provò a consolidare l’adesione della città alla Riforma. Ginevra infatti mirava a sottrarsi, con l’aiuto di Berna, al controllo del vescovo, signore feudale della città che, sostenuto dei duchi di Savoia, tendeva a imporre la propria autorità sulle magistrature comunali. Le resistenze del governo cittadino lo portarono a essere esiliato nel 1538, ma già qualche anno dopo nel 1541 lo richiamarono in città. L’oligarchia patrizia si era resa conto che fosse indispensabile ricorrere alla sua guida spirituale e alle sue capacità di organizzatore per contrastare le mire egemoniche di Berna. Da questo momento e fino alla morte nel 1564, l’azione riformatrice di Calvino si identificò con la città, che egli intese trasformare in una nuova Gerusalemme. 11.9 La dottrina di Calvino Il pensiero di Calvino è incentrato sul principio dell’ onnipotenza di Dio , sovrano assoluto di tutto il creato, che egli governa nella sua infinita sapienza secondo i suoi imperscrutabili disegni. Da queste premesse deriva la dottrina della doppia predestinazione. Secondo tale teoria Dio crea solo pochi preordinati alla salvezza mentre destina la maggior parte dell’umanità alla perdizione eterna. I decreti divini sono sottratti alla capacità di comprensione dell’uomo, e sono perciò insindacabili e indiscutibili. L’elezione è un atto di misericordia, per il quale i prescelti non possono vantare alcun merito; per contro, i dannati non hanno alcun diritto di lamentarsi della loro sorte. Questa concezione assai dura divenne per il calvinista una potente fonte di rifiutarono l’invito di Carlo V a sottomettersi e si unirono nel 1531 nella Lega di Smalcalda, guidata dai duchi di Sassonia. Il luteranesimo si diffuse anche nell’Europa settentrionale, sotto l’egemonia danese che comprendeva i regni di Danimarca, Norvegia e Svezia (l’unione di Kalmar). Il passaggio alla Riforma fu dovuto in origine da motivazioni soprattutto politiche, legate alla volontà dei sovrani di incamerare i beni della Chiesa e di controllare le nomine ecclesiastiche. Esauritasi l’espansione del luteranesimo, il movimento più diffuso della Riforma divenne il calvinismo in virtù dell’attivismo che era connaturato alla concezione stessa della Chiesa del suo fondatore. In Germania i calvinisti venivano detti riformati. Le chiese riformate si diffusero in Francia, dove i loro adepti furono chiamati ugonotti e furono protagonisti delle guerre di religione che dilaniarono il regno nella seconda metà del Cinquecento, e nei Paesi Bassi, dove animarono la lotta contro il predominio spagnolo. Una notevole penetrazione del calvinismo si ebbe anche in Ungheria, in Polonia in Boemia. Il calvinismo penetrò in Inghilterra e si impose in Scozia come religione nazionale. 11.14 La nascita della Chiesa anglicana Anche in Inghilterra il distacco dalla Chiesa di Roma fu originato da cause esclusivamente politiche. Nel 1534 Enrico VIII si attribuì il titolo di capo supremo della Chiesa anglicana. Sotto il suo regno le uniche novità significative furono la sospensione dei conventi e l’introduzione della Bibbia in volgare. Solo in seguito la Chiesa anglicana si aprì all’influenza delle dottrine protestanti. Nella seconda metà del Cinquecento, sotto il lungo regno di Elisabetta I, si sviluppò una corrente ispirata alla tradizione calvinista che per il suo rigoroso moralismo fu chiamata puritanesimo . Essa ebbe un ruolo molto importante nelle vicende dell’Inghilterra nel XVII secolo. 11.15 La Riforma radicale Con il nome di Riforma radicale, divenuto di uso corrente nella storiografia nel 1962, si designa un insieme di gruppi, di sette, di esperienze individuali che portarono alle estreme conseguenze il principio di un ripristino del cristianesimo evangelico. La Riforma radicale si presenta come un universo estremamente diversificato, nel quale è molto difficile individuare criteri per definire con esattezza le varie posizioni. L’anabattismo Il primo tema sul quale si realizzò un primo importante distacco dalle chiese fu il battesimo, che in base agli esempi presenti nella Bibbia avrebbe dovuto essere praticato non ai fanciulli ma agli adulti. I gruppi che seguirono questa indicazione furono chiamati anabattisti, cioè ribattezzatori, termine improprio perché per loro non si trattava di una ripetizione del battesimo in quanto ritenevano non valido quello praticato ai bambini. La questione era molto delicata, perché implicava il problema dell’assetto della comunità. Quest’ultima attraverso il battesimo dei fanciulli trasmette di generazione in generazione la fede comune e quindi si radica in un territorio, fino a identificarsi con l’intera società: si ha in questo caso una Chiesa. Il battesimo da adulti è invece il punto di arrivo di un processo di rigenerazione interiore: il cristiano in tal caso entra volontariamente a far parte della comunità . Si forma così una setta, un gruppo di pochi individui che insieme aspirano alla perfezione della vita cristiana. La condotta morale era il principale requisito per essere accolto in queste comunità, mentre minore importanza si dava alle questioni dottrinali. Era un cristianesimo etico, in linea con quello vagheggiato da Erasmo, che si traduceva in una vita austera, caratterizzata da sobrietà nel mangiare e nel bere, mitezza, umiltà, onestà, rettitudine. Essi tendevano a far coincidere la Chiesa visibile e quella invisibile, ponendosi in terra come il nuovo popolo di Dio, prefigurazione del regno di Cristo. Ciò li portava naturalmente a una radicale separazione dalla società, che si consideravano il regno di Satana: gli anabattisti non assumevano cariche pubbliche, non giuravano e rifiutavano l’uso della forza. Questa infatti è praticata dallo Stato, istituito da Dio per punire i peccatori, ma è rifiutata dalla Chiesa dei santi, nella quale vige la mitezza di Cristo ed è prevista come sola punizione l’esclusione dalla comunità. L’ideale di un ripristino del cristianesimo apostolico fu inteso da loro in forma integrale: riviveva in questi gruppi lo spirito delle prime comunità cristiane, perseguite dalle autorità e costrette a professare la loro fede in clandestinità. Sugli anabattisti, che non poterono contare sulla protezione di un principe o di un governo cittadino, si abbatté una spietata repressione che essi subirono con rassegnazione. Molti videro nel martirio la suprema testimonianza della loro santità. L’ostilità nei loro confronti fu motivata anche dalle istanze di rinnovamento sociale di cui essi si fecero portatori, esprimendo il malessere dei ceti più poveri e l’aspirazione a una società più giusta. L’anabattismo si diffuse rapidamente in Svizzera, in Germania, nelle città di Strasburgo e di Augusta, in Austria e nel Tirolo, in Boemia, Slovenia, nei Paesi Bassi e anche in Italia (in particolare nel Veneto). Esso si radicò nei ceti popolari, soprattutto urbani, ma annoverò tra le sue fila anche intellettuali, ecclesiastici, mercanti e professionisti. Altre esperienze legate all’anabattismo sono il millenarismo, vale a dire l’attesa dell’avvento imminente in terra, prima del giudizio universale, del regno di Cristo riservato ai soli giusti e destinato a durare mille anni; e il profetismo, cioè l’attività di singole persone ritenute capaci di interpretare e comunicare agli altri la volontà di Dio. CAPITOLO 12 LE “HORRIBILI” GUERRE D’ITALIA (1494-1530) 12.1 La penisola italiana nel XV secolo Dopo la pace di Lodi del 1454 il quadro politico della penisola italiana rimase incentrato per un cinquantennio sull’equilibrio stabilito se fra i cinque maggiori Stati: il regno di Napoli, lo Stato della Chiesa, il Ducato di Milano, la Repubblica di Firenze e la Repubblica di Venezia. 12.1.1 Il regno di Napoli Il regno di Napoli, che il papato considerava un proprio feudo, era passato nel 1458 a Ferdinando I di Aragona (1458-1494), che reggeva lo Stato aragonese in Spagna. I tentativi di Ferdinando di rafforzare l’apparato amministrativo e finanziario si scontravano con l’opposizione dei baroni. 12.1.2 Lo Stato della Chiesa Nel centro Italia c’era lo Stato della Chiesa, che possedeva anche Benevento, Pontecorvo nel regno napoletano e, in Francia, Avignone. Rientrati a Roma nel 1420 dopo la fine dello scisma d’Occidente, i papi si impegnarono a ripristinare il proprio dominio temporale sia nella capitale, dove il loro potere era condizionato dalle famiglie dell’aristocrazia romana, sia nel territorio dello Stato, dove molti territori importanti (Marche e Romagna) erano di fatto autonomi . Obiettivo della politica pontificia fu mantenere un equilibrio politico fra gli Stati italiani e più in generale a livello europeo, in modo che il Papa potesse svolgere una funzione di mediazione e avere libertà d’azione per consolidare il proprio potere. Per questo motivo Roma ostacolò sistematicamente gli Stati italiani più forti e poi, nella lotta fra le potenze europee per la supremazia in Europa, si impegnò per scongiurare un assoluto predominio dell’uno o dell’altro. In questa fase il pontificato era elettivo di conseguenza molti papi si sforzarono di dare continuità al potere familiare nominando cardinali propri familiari, soprattutto nipoti (i cardinal nipoti), in modo tale da inserire nel collegio cardinalizio uomini di loro fiducia. A questo nepotismo si affiancò il cosiddetto “grande nepotismo”, vale a dire il tentativo di alcuni papi di creare uno stato autonomo da affidare a qualcuno dei membri della propria casata. 12.1.3 Sviluppi della civiltà comunale All’inizio dell’età moderna si assiste in larga parte dell’Italia centro-settentrionale ad un processo di superamento degli ordinamenti comunali che si erano affermati fino al XII secolo. Un passo verso il superamento dell’instabilità dei comuni fu l’esclusione delle classi popolari dalla partecipazione alla vita politica a favore di oligarchie composte da famiglie di mercanti e banchieri e da esponenti della nobiltà . Dal XIII secolo in poi in molte città il controllo effettivo del governo venne assunto di fatto da un signore, talora straniero, che riuscì poi a trasmetterlo ai suoi eredi, fondando una vera e propria dinastia . La signoria si trasformava quindi in principato con la concessione da parte dell’imperatore o del Papa di un titolo di duca, conte o marchese. Nel contempo si manifestò anche la tendenza al superamento della frantumazione territoriale, con la formazione di organismi politici più ampi, che comprendevano diversi borghi e città. Agli inizi del Quattrocento solo poche città conservavano ancora i loro ordinamenti repubblicani: Genova, Siena e soprattutto Firenze e Venezia, che si erano affermate come centri di due Stati di dimensione regionale. Altri Stati avevano invece origini feudali: è il caso dei domini della famiglia Savoia, che ottenne nel 1416 il titolo ducale. Essa governava un territorio comprendente, oltre la Savoia, la contea di Nizza, il Ducato di Aosta e il Principato di Piemonte, non corrispondente all’attuale regione. Si trattava di uno Stato per lingua, cultura e orientamenti politici più vicini alla Francia che alla penisola. 12.1.4 Il ducato di Milano Dall’evoluzione dell’esperienza comunale era nato anche lo Stato di Milano, che comprendeva nove province: Milano, Pavia, Lodi, Cremona, Como, Novara, Tortona, il titolo di re di Napoli, mentre alla Spagna sarebbero toccate Calabria e Puglia. Ma ben presto scoppiò fra i due alleati il conflitto che volse a favore della Spagna, grazie alla superiorità dimostrata sul campo dalla sua fanteria. La battaglia del 1503 fu una vera disfatta per l’esercito di Luigi XII, che fu costretto a stipulare l’armistizio (marzo 1504) che sancì l’esclusiva appartenenza del regno di Napoli alla Spagna (che mantenne per due secoli). 12.4 L’avventura di Cesare Borgia Grazie all’appoggio francese, Alessandro VI cercò di creare uno Stato per il figlio Cesare. Questi, nominato cardinale, divenne poi gonfaloniere della Chiesa e con le forze messegli a disposizione da Luigi XII riuscì a crearsi un dominio personale fra la Romagna e le Marche eliminando numerosi signori. Machiavelli, che lo incontrò per conto della Repubblica fiorentina, ne fece un punto di riferimento essenziale della figura del principe nuovo . In effetti, Cesare Borgia riuscì con la sua azione a consolidare il dominio del Papa in territori nei quali la sua autorità era puramente nominale. La morte improvvisa di Alessandro VI pose fine alla sua impresa. Dopo un brevissimo pontificato di Pio III, fu eletto Papa con il nome di Giulio II proprio il grande nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere. Cesare dovette assistere alla disgregazione della sua costruzione. Sarebbe poi morto nel 1507 in Spagna. 12.5 La lega anti-veneziana Papa Giulio II proseguì la politica del suo predecessore cercando di ricondurre tutto il territorio dello Stato sotto il pieno controllo del governo romano e riuscì a ristabilire la sua autorità sulla città di Perugia e Bologna. Nel perseguire questo programma, si scontrò con Venezia, che già deteneva Ravenna e Cervia e aveva approfittato della caduta di Cesare Borgia per occupare, nella Romagna pontificia, Rimini e Faenza. In effetti Venezia si era creata con il suo espansionismo molte ostilità, per cui venne costituita nel 1508 la lega di Cambrai in cui entrarono il Papa Giulio II, Ferdinando il cattolico, Luigi XII e l’imperatore Massimiliano, oltre che vari principi italiani. Il 14 maggio 1509 le truppe francesi inflissero a quelle veneziane una terribile sconfitta: tutte le conquiste della terraferma andarono perdute e la stessa città lagunare sembrò minacciata. La Repubblica con un’abile azione diplomatica riuscì a porre fine al conflitto. Del resto, i membri della coalizione avevano ormai recuperato i territori che Venezia aveva sottratto loro e quindi la guerra aveva raggiunto il suo obiettivo. Negli anni seguenti Venezia riuscì a recuperare i possedimenti di terraferma, ma le sue mire espansionistiche erano definitivamente tramontate. Da allora la Repubblica assunse un atteggiamento prudente, partecipando alle guerre d’Italia solo per difendere il suo territorio, e evitò di farsi coinvolgere nello scontro fra la Francia e gli Asburgo. 12.6 «Fuori i barbari» Ripristinato il potere nella Romagna, Giulio II si pose l’obiettivo di recuperare il Ducato di Ferrara, che era sostenuto dalla Francia. Il Papa riunì a Roma il concilio lateranense, e organizzò contro la Francia un’ampia coalizione, la Lega Santa, che univa gli svizzeri , Venezia , Ferdinando il cattolico e il re d’Inghilterra . L’iniziativa fu giustificata dal Papa con la parola d’ordine “fuori i barbari”. La Francia riuscì a sconfiggere le forze nemiche (aprile 1512), ma l’arrivo di un corpo di spedizione della Confederazione elvetica costrinse Luigi XII ad abbandonare Milano, dove rientrò, protetto dagli svizzeri, il figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano . Ferdinando il cattolico occupò il regno di Navarra, alleato della Francia (1512). La sconfitta della Francia segnò anche la fine della prima Repubblica fiorentina: un corpo di spedizione spagnolo ristabilì in città la signoria dei Medici, il cui potere fu rinsaldato l’anno seguente quando, morto Giulio II, fu eletto Papa il figlio di Lorenzo il Magnifico, con il nome di Leone X (1513-1521). Proprio nel 1513, dopo la fine della prima Repubblica Fiorentina, Machiavelli scrisse il suo testo, il Principe, che sarebbe stato pubblicato postumo nel 1532. In questa opera egli prendeva atto della crisi del sistema politico italiano e del modello repubblicano: nella conclusione lanciava un’appassionata esortazione a liberare l’Italia dei barbari ma affidava ormai le sue speranze a un principe nuovo, che sapesse cogliere con la sua virtù le occasioni che la fortuna gli avesse presentato. 12.7 La conclusione della prima fase delle guerre d’Italia Nel 1515 morì Luigi XII, per cui il trono passò a Francesco I (1515-1547). Il sovrano, appena ventenne, scese in Italia con un forte esercito e affrontò nella battaglia di Melegnano le truppe messe insieme da Spagna , Impero e Ducato di Milano (settembre 1515). La battaglia segnò la sconfitta dei mercenari svizzeri che costituivano il nerbo della coalizione. La Francia rioccupò Milano e stipulò un trattato di pace con gli svizzeri, i quali occuparono Locarno e il Canton Ticino , stabilendo il confine rimasto sostanzialmente invariato fino a oggi. L’equilibrio raggiunto fu sancito con la pace di Noyon del 1516 che lasciava ai francesi Milano e agli spagnoli Napoli. L’anno precedente era stato dichiarato maggiorenne il nipote dell’imperatore Massimiliano, Carlo d’Asburgo , che poté assumere così il governo dei Paesi Bassi e nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, ereditare anche il trono di Spagna. Francesco e Carlo sarebbero stati i protagonisti del duello franco-asburgico per il controllo della penisola e per la supremazia in Europa. 12.8 Carlo V Carlo d’Asburgo era nato nel febbraio 1500 da Filippo il Bello (figlio di Massimiliano I e di Maria di Borgogna), e da Giovanna, figlia dei re spagnoli. A differenza del fratello minore Ferdinando, nato ed educato in Spagna, Carlo visse nelle Fiandre che Massimiliano aveva affidato al padre Filippo. Alla morte di Filippo nel 1506, che provocò un acuirsi della follia della madre (Giovanna la Pazza), Carlo divenne sovrano dei Paesi Bassi, che furono retti in suo nome dalla zia Margherita d’Austria. Carlo, la cui lingua madre fu il francese, si formò quindi in un ambiente dominato dagli ideali cavallereschi della tradizione borgognona. Nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, egli fu proclamato con il nome di Carlo I, re di Spagna , e non reggente come avrebbe voluto il Consiglio di Castiglia in quanto l’erede legittima della corona castigliana era per pur sempre sua madre Giovanna, impossibilitata a regnare a causa della sua follia. Quando nel 1517 si recò in Spagna dovette confrontarsi con la difficile realtà di uno Stato formato da due regni distinti, attraversato da conflitti religiosi e sociali e da forti tensioni autonomistiche. Nel 1519, mentre era in Spagna, la morte del nonno Massimiliano I portò a Carlo i domini ereditari austriaci e inoltre aprì il problema della successione imperiale. Questa prospettiva appariva pericolosa per la Francia che si vide accerchiata. Francesco I pose addirittura la sua candidatura alla corona imperiale, ma era impossibile che l’aristocrazia tedesca potesse accettare un re straniero. Così, il 28 giugno 1519 Carlo fu eletto all’unanimità e assunse con il nome di Carlo V anche il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. La straordinaria eredità di Carlo fu certo favorita dal caso, ma fu anche il frutto di una strategia matrimoniale volta a stabilire una rete di alleanze in funzione antifrancese. La presenza di un re straniero generò la rivolta delle città spagnole, detta dei comuneros: si trattò di un moto autonomistico, che intendeva difendere le prerogative delle comunità contro i funzionari regi che le limitavano; il movimento chiedeva anche riunioni regolari delle Cortes a garanzia della loro indipendenza. La rivolta si estese rapidamente, formando una Giunta centrale di coordinamento, e assunse una matrice popolare, avanzando rivendicazioni di ordine sociale contro il potere dei nobili e dei ricchi. La sconfitta degli insorti nel 1521 segnò la fine del movimento. Carlo V comprese però la necessità di tenere conto delle tradizioni e della specifica realtà del regno spagnolo. Lasciata la Spagna, Carlo si trovò subito a dover fronteggiare una situazione molto complessa in Germania. L’unità religiosa era minacciata dal dilagare della riforma di Lutero, mentre Francesco I era visibilmente intenzionato a dare battaglia per rompere la morsa nella quale si trovava. Carlo si garantì l’alleanza dell’ Inghilterra e del Papa Leone X e decise nel 1522 di lasciare i domini ereditari al fratello Ferdinando , che sarebbe stato in sua assenza il luogotenente dell’impero. 12.9 La ripresa della guerra in Italia Fu Francesco I a prendere l’iniziativa attaccando senza successo sui Pirenei e in Lussemburgo. La guerra poi si spostò in Italia dove la sconfitta della Bicocca (1522) obbligò i francesi a lasciare lo Stato di Milano, che fu affidato al secondo genito di Ludovico il Moro, Francesco II Sforza. Si ebbero altri due eventi favorevoli alla causa asburgica: l’elezione a Papa, come successore di Leone X, del precettore di Carlo, Adriano di Utrecht, che si chiamò Adriano VI (1522-1523), e la defezione del potente comandante generale dell’esercito francese, Carlo di Borbone che, scontrandosi con Francesco, passò al servizio dell’impero. Con un notevole sforzo finanziario, il re di Francia riuscì a mettere insieme un nuovo esercito con il quale scese in Italia e nel 1524 si impadronì nuovamente di Milano. Quindi pose l’assedio a Pavia, nodo strategico essenziale per le comunicazioni con Genova e con la Francia. L’assedio si protrasse per quattro mesi e ciò consentì l’arrivo dalla Germania di rinforzi che attaccarono alle spalle l’esercito francese. Fu per Francesco I una vera disfatta nella quale egli stesso fu ferito e fatto prigioniero (febbraio 1525). Condotto a Madrid, Francesco fu costretto a firmare un trattato (1526), con il quale rinunciava a ogni pretesa in Italia e nelle Fiandre e si impegnava a cedere la Borgogna, lasciando in ostaggio i suoi figli. Ma, ottenuta la libertà, egli organizzò una coalizione, la Lega di Cognac, con tutti gli Stati che erano intimoriti dallo strapotere asburgico : il re d’Inghilterra, il Papa Clemente VII Medici, Firenze, la Repubblica di Venezia, il duca di Milano Francesco II Sforza. 12.10 Il sacco di Roma Solimano nel 1562. Fino alla fine del Seicento i domini asburgici si trovarono così a diretto contatto con l’impero ottomano, distanti pochi chilometri da Vienna. L’impero asburgico divenne quindi l’avamposto della cristianità di fronte alla minaccia islamica. 13.4 La lotta contro i Turchi nel Mediterraneo Il problema turco si poneva anche nel Mediterraneo, dove gli Stati dei paesi dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia, Algeria), detti barbareschi , soggetti all’autorità del sultano, rappresentavano la base per scorrerie sulle coste spagnole e italiane e per atti di pirateria ai danni delle navi cristiane. Proseguendo la lotta contro i musulmani, Ferdinando il cattolico aveva acquisito il controllo di diverse località sulla costa africana e imposto un protettorato ad Algeri. Ma quest’ultima venne conquistata nel 1529 dai corsari barbareschi guidati da Barbarossa, che Solimano decise di nominare ammiraglio della flotta turca. Nel 1535 Francesco I, animato dal desiderio di riaprire la partita in Italia, strinse un’alleanza con il sultano. Carlo V decise di preparare una spedizione verso le coste africane che occuparono la fortezza di La Goletta, a nord della Tunisia. Carlo V nel 1538 riuscì a organizzare una seconda flotta formata da navi spagnole e veneziane, che però fu sconfitta da quella del Barbarossa nella Grecia nord-occidentale. Un ultimo tentativo di contrastare la potenza ottomana sul mare fu fatto nel 1541, ma una grave tempesta distrusse la metà della flotta spagnola. Fino alla battaglia di Lepanto (1571) le potenze cristiane non furono in grado di contrastare la flotta ottomana. 13.5 La ripresa della guerra franco-imperiale Il segnale per la ripresa della guerra fu quando Carlo V incorporò lo Stato di Milano alla morte del duca Francesco II Sforza (1535). Francesco I penetrò nella Savoia e nel 1536 occupò Torino; Carlo V rispose attaccando in Provenza e nei Paesi Bassi. Ma il conflitto si trascinò senza eventi risolutivi fino alla tregua firmata a Nizza nel 1538. Dopo una serie di conflitti, si giunse alla pace di Crepy (1544) che ribadiva lo status quo. Per sancire la pace tra l’impero e la Francia, si progettò un matrimonio combinato: quello fra il terzo figlio di Francesco I, e una principessa asburgica, che avrebbero dovuto portare in dote rispettivamente o i Paesi Bassi o Milano. La situazione si risolse con la morte del principe francese nel 1545. 13.6 Opposizioni al predominio spagnolo nella penisola Il fallimento dei colloqui tra protestanti e cattolici aveva indotto i principi tedeschi che avevano aderito alla Riforma a unirsi nella lega di Smalcalda: il partito protestante era diventato così una forza politica e militare. Carlo V, che già nel congresso di Bologna aveva ottenuto da Clemente VII l’impegno di convocare il concilio per dirimere le questioni interne alla cristianità, rinnovò l’invito al nuovo Papa Paolo III. Nel frattempo, egli puntò su una serie di incontri fra luterani e cattolici nella speranza che raggiungessero un accordo sul piano teologico. Non portando alcun risultato, Carlo V decise di passare all’azione e mosse guerra alle forze della lega di Smalcalda che sconfisse nel 1547; lo stesso duca di Sassonia fu fatto prigioniero. Carlo V poté quindi convocare una Dieta ad Augusta (1547-1548) nella quale impose l’interim, vale a dire una regolamentazione provvisoria delle relazioni fra cattolici e luterani in attesa che il concilio in corso a Trento portasse alla pacificazione religiosa . Nello stesso tempo Carlo V propose anche una riforma dell’impero in senso federale che prevedeva leve regolari con la formazione di un esercito imperiale stabile e tributi fissi destinati a una cassa comune . 13.8 Il fallimento della pacificazione religiosa Al concilio di Trento vennero approvati decreti che non prevedevano alcun compromesso con i protestanti. Quanto alla riforma federale essa incontrò l’opposizione della maggior parte degli Stati che, a prescindere dalla confessione religiosa, intendevano difendere le proprie prerogative in nome della libertà tedesca. Nonostante la vittoria contro la lega di Smalcalda, Carlo V non riuscì a portare a compimento il suo progetto politico. I principi protestanti poterono riorganizzarsi e nel 1551 realizzarono un accordo segreto con il nuovo re di Francia Enrico II , succeduto al padre Francesco I, che garantì loro il suo sostegno . L’offensiva protestante colse di sorpresa Carlo V: avendo preso atto dell’impossibilità di sanare la divisione religiosa della Germania, Carlo diede incarico al fratello Ferdinando di negoziare una soluzione di compromesso. Si crearono così le premesse per la pace di Augusta del 25 settembre 1555, che per la prima volta sancì la rottura dell’unità cristiana. In base a essa fu concessa la libertà religiosa solo ai principi dell’impero, non ai sudditi: secondo la formula cuius regio eius religio spettava al sovrano scegliere la religione, cattolica o luterana (non furono considerati i calvinisti); ai dissidenti non restava che convertirsi o emigrare . In alcune città dove era già in vigore fu permessa la convivenza delle due religioni. La clausola del reservatum ecclesiasticum, non riconosciuta però formalmente dai protestanti, imponeva ai vescovi e agli abati che sarebbero passati alla Riforma in futuro di rinunciare ai beni e alla carica. 13.9 Le abdicazioni Il 25 ottobre 1555 Carlo V abdicò alla sovranità dei Paesi Bassi. In seguito, il 16 gennaio 1556, lasciò le corone di Castiglia e di Aragona al figlio Filippo II e lasciò l’impero al fratello Ferdinando I. Quindi partì per la Spagna, dove morì il 21 settembre 1558. CAPITOLO 14 L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA 14.1 Riforma cattolica o controriforma? Il termine “Controriforma” entrò in uso alla fine del XVIII secolo per designare il processo attraverso il quale un territorio passato alla fede protestante era ricondotto con la forza all’obbedienza nei confronti di Roma . In seguito, il concetto si ampliò e indicò non solo l’azione di contrasto alla diffusione delle dottrine riformate ma anche l’opera di rinnovamento della Chiesa cattolica culminata nel concilio di Trento. 14.2 La nozione di eresia La parola eresia vuol dire “scelta, presa di posizione”, e ha in sé una connotazione negativa sulla base della convinzione che l’uomo, se nelle cose divine vuole scegliere, va necessariamente incontro all’errore. In seguito, la parola eresie al plurale indicò non solo le dottrine erronee ma anche i gruppi o le sette che le adottavano. Secondo il codice di diritto canonico l’eretico deve essere battezzato, continuare a professarsi cristiano e deve essere ostinato nel confermare le sue convinzioni; gli era offerta la possibilità di abiurare, di negare cioè le idee per le quali era inquisito. Dall’eresia si distinguono lo scisma, che implica la separazione nel corpo della Chiesa, e l’apostasia, che comporta il rifiuto (individuale) dell’insegnamento cristiano. Chi si converte all’Islam è apostata, ma non eretico. 14.4 I nuovi ordini religiosi Quanto diffuso e sentito fosse il bisogno di rinnovamento della Chiesa è dimostrato dalla nascita di molti nuovi ordini religiosi impegnati nella società , sorti da iniziative spontanee, maturate nel corpo della cristianità e successivamente approvate dall’autorità ecclesiastica. Gli oratori del divino amore erano per esempio confraternite sorte in diverse città italiane tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, dedite a opere di carità e di devozione. Dal tronco della grande tradizione francescana nacquero nel 1528 i cappuccini, detti così dal semplice abito col cappuccio che intendeva riproporre il modello francescano. Ricordiamo poi i somaschi, attivi nell’assistenza materiale e spirituale ai poveri e ai malati e nell’educazione; fra gli ordini femminili invece le orsoline, votati alla carità, istituite nel 1535 da Angela Merici. 14.5 I gesuiti L’ordine più importante sorto nella prima metà del Cinquecento, destinato ad avere un ruolo decisivo nell’età della Controriforma, fu la Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 a Parigi dallo spagnolo in Iñigo (Ignazio) di Loyola (1491-1556), che, costretto ad abbandonare la carriera militare, si mise al servizio della fede cristiana. Ai voti tipici della scelta monastica, povertà , castità e obbedienza , i gesuiti ne aggiunsero un quarto, l’assoluta obbedienza al Papa . La loro regola fu approvata da Paolo III nel 1540. Il capo dell’ordine, detto generale , dipendeva direttamente dal pontefice . Il gesuita entrava nella Compagnia dopo un lungo e rigoroso noviziato, nel quale imparava ad annichilire la propria volontà e la propria personalità, preparandosi a ubbidire ai propri superiori. I gesuiti furono attivi innanzitutto nell’istruzione : nei loro collegi, che alla fine del secolo erano già più di 500 in tutta Europa, si formarono i rampolli delle casate aristocratiche e delle famiglie più ricche, quindi i membri delle future classi dirigenti; l’ordinamento degli studi forniva un’educazione severa e di alto livello: studio del latino, della retorica, della dottrina cattolica. I gesuiti ebbero anche un notevole peso politico in quanto furono spesso confessori e consiglieri di sovrani e principi. Infine, essi si impegnarono nell’attività missionaria per la diffusione del cristianesimo. 14.6 La lotta per il concilio Lutero aveva dichiarato di essere disposto a discutere le sue tesi solo in un concilio, a patto che fosse libero, cioè non condizionato dal Papa, cristiano, vale a dire fondato risultavano congiunti in modo indissolubile nella figura del pontefice, insieme sovrano di uno Stato e capo della cattolicità. L’orbita d’azione dello Stato della Chiesa rimase sempre più confinata nell’ambito della penisola, come dimostra tra l’altro il processo di italianizzazione del personale di curia e dello stesso collegio cardinalizio: dopo Adriano VI (1522- 1523) occorre arrivare al 1978 per trovare con Giovanni Paolo II un altro Papa straniero. Di conseguenza, il peso internazionale del papato andò progressivamente declinando; l’evento più significativo in tal senso fu il mancato coinvolgimento nelle trattative che portarono alla pace di Vestfalia del 1648. CAPITOLO 15 L’ETÀ DI FILIPPO II 15.1 Conseguenze politiche della Controriforma L’affermazione del primato del Papa quale capo assoluto della Chiesa di Roma, pose agli Stati cattolici il problema di difendere l’autonomia delle Chiese nazionali. Gli stati italiani, il Portogallo e la Polonia pubblicarono la bolla papale, ma nella Spagna la pubblicazione fu accompagnata dalla formale riserva che essa non poteva limitare il potere statale. La Francia, in nome delle libertà della Chiesa gallicana, non accettò la bolla, che fu pubblicata solo nel 1615 per iniziativa unilaterale del clero. Ancora più eclatante fu la mancata ricezione dei decreti conciliari da parte dell’Impero, dove la pace di Augusta aveva di fatto privato l’imperatore di ogni potere in campo religioso. 15.2 Espansione della Riforma protestante Dopo la pace di Augusta, l’ala marciante della Riforma divenne il calvinismo. In Germania i calvinisti erano definiti “riformati” mentre “evangelici” erano chiamati i luterani. 15.3 La Chiesa anglicana assume un’impronta protestante Il distacco dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma era stato originato da cause politiche. Il re Enrico VIII (1509-1547), non riuscì ad avere un erede maschio dalla moglie Caterina di Aragona; nel contempo aveva rotto l’alleanza con la Spagna aderendo alla Lega di Cognac contro Carlo V. A questi motivi si aggiunse la sua passione per una dama di corte, Anna Bolena. La sua richiesta di annullamento del matrimonio, il Papa Clemente VII, che dopo il sacco di Roma era ormai legato alla Spagna, non glielo concesse per non urtare Carlo V, nipote di Caterina. Allora Enrico VIII fece votare dal Parlamento provvedimenti che ruppero tutti rapporti della Chiesa inglese con Roma e infine nel 1534 l’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo in terra della Chiesa inglese (anglicana ecclesia) subito dopo Dio”. Enrico ottenne così da un tribunale ecclesiastico la dichiarazione di nullità del matrimonio con Caterina e quindi la legittimazione dell’unione con la Bolena. Tra coloro che rifiutarono di accettare l’Atto di supremazia vi fu il grande umanista Thomas More, mandato al patibolo nel 1535. Fu una delle tante vittime di Enrico: egli fece condannare a morte con l’accusa di tradimento anche il cancelliere Thomas Cromwell che aveva guidato il governo durante la crisi con la chiesa di Roma, e tre delle sue sei mogli, fra le quali la stessa Anna Bolena. Il distacco della Chiesa inglese da Roma fu uno scisma senza eresia: sul piano dottrinale e liturgico nulla cambiò, tant’è che Enrico VIII continuò a perseguitare i protestanti. In pratica i vescovi , con a capo l’arcivescovo di Canterbury, riconobbero come capo della Chiesa il re e non più il Papa. Il principale cambiamento fu la soppressione dei monasteri, le cui ingenti proprietà fondiarie furono incamerate dallo Stato; Enrico VIII ebbe in tal modo a disposizione un notevole patrimonio che però dilapidò con partecipazioni alle guerre europee che non diedero alcun risultato. Il fatto che il re fosse anche il capo della Chiesa espose quest’ultima a repentini cambiamenti a ogni avvicendamento sul trono. A Enrico successe il figlio Edoardo VI (1547-1553) ma non governò fino alla maggiore età; i protettori che governarono in suo nome decisero di aprire la Chiesa anglicana alle influenze delle dottrine protestanti, in particolare con il Book of common prayer (libro di preghiere comuni) del 1552. Le cose mutarono radicalmente con l’avvento al trono di Maria Tudor , la figlia nata dal matrimonio di Enrico VIII con Caterina d’Aragona. Maria, che sposò nel 1554 il figlio di Carlo V, Filippo, allora principe ereditario poi re di Spagna, si impegnò in un tentativo di restaurazione cattolica e mandò sul rogo molti di coloro che sotto il regno di Edoardo avevano appoggiato l’introduzione della Riforma, tanto da essere chiamata Maria la Sanguinaria . Nel 1558 salì infine al trono la figlia che Enrico VIII aveva avuto da Anna Bolena, Elisabetta (1558-1603). Sotto il suo regno la Chiesa anglicana trovava finalmente un assetto stabile e si legò definitivamente al mondo protestante. 15.4 La fine della lotta per la supremazia in Europa Toccò ai figli ed eredi di Francesco I e di Carlo V portare a compimento la guerra per la supremazia in Europa. Fu il re francese Enrico II a prendere l’iniziativa. La penisola italiana, saldamente legata alla Spagna, non era più il centro del conflitto, che si spostò infatti nei Paesi Bassi dove l’esercito spagnolo ottenne nel 1557 una schiacciante vittoria. Filippo II, che poteva contare sull’appoggio dell’Inghilterra della moglie Maria Tudor, non fu in grado di sfruttare il successo a causa delle difficoltà finanziarie, che lo obbligarono in quello stesso anno a dichiarare la bancarotta . Anche Enrico II doveva fronteggiare una situazione finanziaria pesantissima. La morte di Maria Tudor nel novembre 1558 privò Filippo dell’appoggio inglese e questo favorì la pace che fu stipulata a Cateau Cambresis il 3 aprile 1559 . La Francia dovette confermare le rinunce a Milano e Napoli (che restarono sotto la dominazione spagnola: Milano lo restò fino agli inizi del XVIII secolo), restituire la Corsica a Genova e diversi territori al duca di Savoia Emanuele Filiberto. Enrico II mantenne in Italia alcune piazze forti in Piemonte e il marchesato di Saluzzo. Filippo II aveva il pieno controllo della penisola italiana dato che tutti gli Stati, tranne Venezia, erano legati alla potenza spagnola. A garanzia della pace fu celebrato il matrimonio tra Filippo II e Isabella di Valois, figlia di Enrico II. Il trattato di Cateau Cambresis resse a lungo perché dopo la morte di Enrico II (1559) si aprì in Francia una profonda crisi politica e religiosa. 15.5 Il re prudente Filippo II, tornato in Spagna nel 1559, decise di spostare la corte a Madrid. Qui fece costruire un imponente edificio, insieme monastero e Palazzo Reale, dedicato al martire San Lorenzo, l’Escorial, che divenne la sua residenza preferita. Da allora Filippo non si spostò più. Venne definito re prudente in quanto, per prendere le sue decisioni, si confrontava con i suoi confessori e con i teologi di corte, dato che era convinto di dover rendere conto a Dio dei suoi atti. Filippo ebbe quattro mogli ma solo dall’ultima di queste, Anna d’Austria, la figlia di sua sorella, ebbe l’erede, il futuro Filippo III. 15.6 L’acquisizione della corona portoghese La morte del re del Portogallo Sebastiano I aprì la strada a Filippo II per ottenere la corona portoghese. A Sebastiano successe il fratello che morì nel 1580. A questo punto Filippo II si fece riconoscere come erede della colonna degli Aviz, anche in nome dei legami di parentela che lo univano a quella famiglia (portoghese era stata la sua prima moglie). In tal modo la Spagna acquisì anche il controllo dell’impero coloniale portoghese. Il Portogallo però conservò la sua struttura istituzionale le sue leggi. 15.7 La Spagna imperiale La vocazione imperiale che aveva segnato l’esperienza del padre rimase in eredità a Filippo II. Si parla di sistema imperiale spagnolo, anche in ragione della grande estensione territoriale dei suoi possedimenti e soprattutto della grande potenza militare e finanziaria, alimentata dal flusso di metalli preziosi che arrivavano dal nuovo mondo. Tuttavia, Filippo mirò innanzitutto ad accrescere la potenza della Spagna e non esitò a scontrarsi con il pontefice per difendere le prerogative dello Stato. I territori sottoposti alla sovranità di Filippo II, la cui amministrazione era delegata a viceré o governatori , conservarono le proprie identità giuridiche e istituzionali: ciò che li univa era la fedeltà alla dinastia regnante. La struttura di governo era imperniata sul sistema dei consigli. Si trattava di organi collegiali con funzioni consultive, che preparavano dei documenti in base ai quali il re prendeva le sue decisioni. Il più importante era il Consiglio di Stato, competente per la politica estera e per gli affari di maggior rilevanza. Gli altri erano competenti per materia o per territorio (Castiglia, Aragona, Italia, Indie, Fiandre, Portogallo). Nei consigli per territorio erano presenti esponenti delle classi dirigenti locali, che avevano il compito di rappresentare le richieste locali. 15.8 Le finanze La Spagna, a differenza di tutti gli altri Stati, poteva contare grazie alle miniere americane su un costante flusso di metalli preziosi. Questi però non coprirono mai più del 25% delle entrate; la parte restante provenivano da imposte dirette , dalle quali era esente la nobiltà, dai contributi versati dalla Chiesa e da imposte sulle transazioni commerciali. La lentezza della riscossione rendeva indispensabile il ricorso alle anticipazioni di banchieri e finanzieri, nella forma di prestiti a breve termine e ad alto tasso di interesse. La bancarotta del 1557 consisteva nella riconversione forzosa dei prestiti a breve in prestiti a lungo termine per cui non comportavano la restituzione del capitale. Le bancherotte divennero una costante della storia spagnola. Dopo il 1557 i principali finanziatori della politica della Spagna divennero i banchieri genovesi. All’inizio del suo regno Elisabetta mirò a consolidare il proprio potere, reso fragile dalla spaccatura con la Chiesa di Roma. Nel 1568 Maria Stuart, già moglie del re di Francia e regina di Scozia, fu dichiarata dalla nobiltà calvinista decaduta dal trono scozzese e dovette rifugiarsi in Inghilterra dalla cugina Elisabetta. Maria, discendente da Enrico VII, era la pretendente cattolica alla corona inglese; per questo fu tenuta sotto stretta sorveglianza da Elisabetta, la quale era obbligata a legarsi ai protestanti, i soli che potevano garantire la sua legittimità. Elisabetta confermo la natura ibrida della Chiesa anglicana; sul piano dottrinale adottò nel 1563 molti principi delle dottrine protestanti, in particolare calviniste, senza però una dichiarata adesione alla confessione riformata. Elisabetta fu molto cauta nei rapporti con Filippo II ed evitò di farsi coinvolgere nei conflitti del continente. Solo dopo la scomunica lanciata nel 1570 dal Papa Pio V, che scioglieva i sudditi dall’obbligo di fedeltà nei suoi confronti, assunse un atteggiamento severo verso i cattolici e si schierò a favore degli ugonotti francesi e dei ribelli olandesi. 15.14 L’indipendenza delle Province unite La rivolta dei Paesi Bassi e la lotta dei calvinisti francesi divennero un problema di carattere internazionale. I successi di Filippo II sui ribelli olandesi e la strage della notte di San Bartolomeo, sembrarono segnare una svolta in favore delle forze cattoliche. Ma i costi enormi sostenuti dalla Spagna per imporre la sua sovranità sui Paesi Bassi, costrinsero Filippo II a una nuova bancarotta (1575); le truppe spagnole, non venendo stipendiate, assediarono le città (1576). Contemporaneamente crebbe il malcontento anche nelle province meridionali, le quali si allearono con Olanda e Zelanda nel chiedere l’allontanamento delle truppe spagnole, la libertà di coscienza e il ripristino delle loro tradizionali autonomie. La rivolta sembrò accomunare protestanti e cattolici. Il nuovo governatore nominato nel 1578, Alessandro Farnese, figlio di Margherita d’Austria, seppe far leva su questi contrasti confessionali per ottenere il ritorno all’obbedienza delle province meridionali, le quali nel 1579 riconobbero la sovranità di Filippo II in cambio del ristabilimento degli antichi privilegi. Rimasero invece nella posizione ostile alla Spagna le province settentrionali che strinsero un patto di alleanza militare e finanziaria ( unione di Utrecht ), premessa della dichiarazione di indipendenza della Repubblica delle sette Province unite che fu siglata all’ Aia nel 1581 . Si realizzava così la separazione dalle province meridionali, corrispondenti all’attuale Belgio, rimaste fedeli alla Spagna ; un esodo di calvinisti verso le province settentrionali sancì anche la divisione confessionale fra i due Stati. Filippo II pose una taglia sulla testa di Guglielmo d’Orange, che fu effettivamente assassinato il 10 luglio 1584. La Spagna solo nel 1648, al termine della guerra dei Trent’anni, riconobbe ufficialmente l’indipendenza delle Province unite. La lunga lotta di queste province per sottrarsi al dominio spagnolo è chiamata la guerra degli Ottanta anni. 15.15 La fine delle guerre di religione in Francia Nel 1574, morto Carlo IX, salì al trono il fratello Enrico III di Valois, ritornato dalla Polonia dove l'anno precedente era stato eletto re. La svolta si ebbe nel 1584 quando morì l'ultimo figlio maschio di Enrico II e Caterina (Francesco di Valois); non avendo Enrico III figli, l'erede al trono diventava proprio Enrico di Borbone, capo del partito calvinista, marito di Margherita. Ebbe inizio l'ultima fase delle guerre civili, la guerra dei tre Enrichi, che vide contrapposti il re Enrico III, il capo della Lega Enrico di Guisa ed Enrico di Borbone. Enrico III per contrastare lo strapotere della Lega, sostenuta dalla Spagna, attirò in un tranello il duca di Guisa e lo fece assassinare (1588); quindi si alleò con Enrico di Borbone con il quale nel luglio 1589 pose l'assedio a Parigi, schierata con la Lega. Il 1° agosto fu però a sua volta assassinato (1589). Prima di morire indicò come successore Enrico di Borbone, che divenne re di Francia con il nome di Enrico IV. Era la prima volta che saliva al trono un calvinista. La sua decisione di convertirsi al cattolicesimo e la successiva cerimonia di consacrazione (1594), crearono le condizioni per la fine delle guerre civili: ora che il re non era più un eretico, cadeva la necessità di combatterlo. Il 22 marzo 1594 Enrico IV entrò a Parigi e nei mesi seguenti tutte le provincie lo riconobbero come legittimo sovrano. L'anno seguente fu assolto e riconosciuto anche dal Papa. Enrico poté stipulare nel 1598 una nuova pace con Filippo II che ribadiva le clausole del trattato di Cateau Cambresis (1559). Il re emanò l'editto di Nantes (1598), che pose fine alle guerre di religione: il cattolicesimo fu riconfermato religione dello Stato ma i calvinisti ottennero libertà di coscienza, libertà di culto in tutta la Francia, a eccezione di Parigi e di qualche altra zona, e i diritti civili ; a garanzia di queste concessioni gli ugonotti si videro riconosciuto il possesso di un centinaio di piazze forti, il che li rendeva una sorta di Stato nello Stato. Era una novità assoluta poiché la libertà di coscienza era stavolta garantita agli individui e non ai sovrani, come nella pace di Augusta. Rimaneva ben salda la convinzione che l'unità di fede fosse indispensabile per l'unità politica: l'editto era una tregua armata. 15.16 L’invincibile armata Il sostegno dato da Elisabetta ai ribelli olandesi e agli ugonotti in Francia determinò una crescente tensione con Filippo II, che invano propose alla regina di rinnovare attraverso un loro matrimonio il legame dinastico fra i rispettivi regni. Elisabetta rifiutò tutti i pretendenti e si impegnò nel consolidamento interno dell’Inghilterra, che nel frattempo conosceva una vigorosa crescita demografica, importanti trasformazioni nell’agricoltura e un grande slancio delle attività manifatturiere e commerciali, ponendo le basi della vocazione marinara che sarebbe stata la base della sua potenza. Un altro motivo di contrasto con la Spagna era il tacito sostegno dato da Elisabetta alla guerra di corsa contro le navi spagnole : il celebre Francis Drake, autore della seconda circumnavigazione del globo (1577- 1580), attuò incursioni nei possedimenti americani della Spagna, assalì più volte i convogli che portavano i metalli preziosi a Siviglia e portò un attacco fino al porto di Cadice (1587). Nel 1587 Elisabetta decise di condannare a morte Maria Stuart , accusata di aver continuato a tessere intrighi. Fu questo un ulteriore motivo che indusse Filippo II a promuovere l'attacco contro l'Inghilterra. Il piano prevedeva che una flotta prendesse il controllo del canale della Manica, per poi sbarcare in Inghilterra un corpo di spedizione guidato da Alessandro Farnese. La flotta di 130 navi ( l'invincibile armata ), partita da Lisbona, fu dispersa da una tempesta e attaccata dalle navi inglesi. Le navi spagnole furono quindi costrette a circumnavigare le isole britanniche, andando incontro a ulteriori tempeste. 15.17 Il declino della Spagna: crisi finanziarie e difficoltà dell’economia L'indipendenza delle Province unite, l'affermazione della monarchia di Enrico IV in Francia, il fallimento dei tentativi di sconfiggere l'Inghilterra, resero evidente il mancato raggiungimento dei principali obiettivi della politica estera di Filippo II. All'interno permaneva il problema del separatismo dei regni di Aragona e di Catalogna, che si facevano scudo dei tradizionali privilegi di cui godevano per opporsi al centralismo castigliano. Molto grave era anche la situazione finanziaria. Negli ultimi anni del suo regno una serie di carestie e di pestilenze concorsero a delineare un quadro molto negativo delle condizioni della Spagna. Quando Filippo II morì, nel settembre 1598, pochi mesi dopo aver firmato la pace con Enrico IV, in molti ambienti castigliani appariva chiaro che la stagione della Spagna imperiale era tramontata e che occorreva cambiare rotta per preservare ciò che restava della potenza spagnola. CAPITOLO 16 LA GUERRA DEI TRENT’ANNI La pace di Augusta (1555) e l'Editto di Nantes (1598) erano concepiti dalle due parti contrapposte come tregue, non come soluzioni definitive dei contrasti confessionali. Le forze cattoliche erano animate dalla volontà di riconquistare gli spazi perduti. Furono queste le premesse dell'ultima guerra di religione, la guerra dei Trent’anni. 16.2 La Francia da Enrico IV al cardinale Richelieu Pacificata la Francia, Enrico IV (1589-1610) si accinse alla ricostruzione. Vennero riordinate le finanze, rafforzata la struttura amministrativa servendosi di commissari straordinari per limitare i poteri dei governatori; incentivò l’agricoltura e lo sviluppo delle manifatture. Enrico IV regolò in maniera definitiva la questione della venalità delle cariche: con un editto del 1604 venne riconosciuta l’ereditarietà degli uffici dietro il versamento di una tassa, e il pagamento al momento della cessione o della trasmissione agli eredi di un’altra imposta. In politica estera Enrico IV intese riprendere la politica di alleanze in funzione antiasburgica, ma la sua opera fu interrotta da un fanatico cattolico che lo assassinò il 14 maggio 1610. Poiché il figlio, Luigi XIII (1610-1643) aveva solo nove anni, la reggenza fu affidata alla seconda moglie Maria dei Medici . La grande nobiltà si mosse per rivendicare il suo ruolo nel governo dello Stato. Furono i nobili infatti a imporre alla reggente la convocazione degli Stati generali che si riunirono nel 1614-1615 : fu questa l’ultima riunione di questa istituzione fino al 1789. Maria diede alla politica estera un indirizzo filospagnolo. Questa scelta era sostenuta dal partito cattolico. A questa linea si opposero quanti ritenevano indispensabile per gli interessi della Francia proseguire la politica antiasburgica. In questo clima, Luigi XIII, dichiarato maggiorenne nel 1614 , decise di prendere il potere, isolando la madre. In questa fase si impose sulla scena politica un giovane vescovo, Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu, che si era distinto durante i lavori degli Stati generali come rappresentante del clero. Egli assunse il ruolo di mediatore nel dissidio fra il re e sua madre, guadagnandosi la fiducia di Luigi XIII. Nel 1622 divenne cardinale e due anni dopo entrò nel Consiglio di Stato, divenendo il principale responsabile della politica francese. Richelieu pose fine all’opposizione della nobiltà feudale con diverse condanne a morte e si guadagnò il sostegno delle città e dei ceti produttivi incentivando il commercio e avviando sciolti dall’obbligo di obbedienza. Nel contempo i sovrani furono anche impegnati a confermare il regime di tolleranza religiosa fra le molte fedi presenti nel paese . Le cose cambiarono sul finire del XVII secolo quando si fece sentire in Polonia l’influsso della Controriforma, grazie all’opera dei gesuiti. Fu così che nel 1596 la Polonia si unì con la Chiesa di Roma. Il re della Polonia Sigismondo III Vasa (1587-1632), figlio del re di Svevia Giovanni III, nel 1592 ebbe anche il trono svedese dal quale fu deposto nel 1599 a opera dello zio Carlo IX. Dopo di lui furono eletti re di Polonia i suoi due figli Ladislao (1632-1648) e Giovanni II Casimiro (1648-1668). La dinastia Vasa appoggiò il processo di restaurazione del cattolicesimo, che comportò una progressiva emarginazione dei protestanti e l’espulsione delle comunità minori. 16.7 Una potenza emergente: la Svezia In Svezia il potere della monarchia, resa ereditaria con la dinastia Vasa nel 1544, era limitato dalla presenza di due organi, la Dieta e il Senato o Consiglio del regno . Il consenso della Dieta, nel quale erano rappresentati il clero, la nobiltà, la borghesia e i contadini proprietari liberi, era necessario per l’approvazione delle leggi, per la riscossione delle imposte e per l’arruolamento delle truppe. Il ruolo decisivo era però quello della nobiltà, che controllava di fatto anche il Senato. L’adozione del luteranesimo, che era stata nel 1527 l’occasione per la rottura dell’unione di Kalmar, fu messa in discussione sotto il regno di Giovanni III Vasa (1568-1592), e di suo figlio Sigismondo, che, essendo re di Polonia, nel 1592 ereditò anche la corona svedese. A questo tentativo di restaurazione cattolica si oppose l’aristocrazia guidata da Carlo Vasa, fratello di Giovanni, il quale fece deporre dalla Dieta il nipote Sigismondo e assunse egli stesso la corona con il nome di Carlo IX (1599-1611). L’affermazione della potenza svedese si ebbe sotto il suo successore, il figlio Gustavo II Adolfo (1611- 1632). La Svezia doveva la sua ricchezza soprattutto alle miniere di rame e di ferro. Il suo punto debole era rappresentato dalle esigue risorse demografiche, in quanto aveva una popolazione di appena 1 milione di individui. Convinto luterano, Gustavo II Adolfo rivelò ben presto straordinarie qualità di politico e di stratega. Egli consolidò la monarchia ottenendo l’aiuto militare della nobiltà in cambio di un riconoscimento dei suoi privilegi (l’esenzione fiscale). Per quanto concerne l’esercito, egli mantenne il sistema di coscrizione obbligatoria e formò un esercito di soldati professionisti . Gustavo II Adolfo introdusse anche importanti novità nell’armamento e nella tattica. Egli ottenne i primi successi strappando alla Russia nel 1617 alcuni territori chiave perché congiungevano l’Estonia svedese alla Finlandia, consentendo alla Svezia il controllo integrale delle coste. Nel 1621 tolse anche alla Polonia il porto di Riga. L’obiettivo principale della Svezia era il controllo del Baltico. 16.8 Gli Asburgo di Austria La dinastia degli Asburgo era titolare a titolo dinastico degli Stati ereditari ma aveva anche le corone elettive dell’impero, di Boemia e di Ungheria. Sia Ferdinando I, il fratello minore di Carlo, sia il suo successore, il figlio Massimiliano II (1564-1576), cercarono di realizzare in Germania una pacifica convivenza fra protestanti e cattolici sulla base dei principi stabiliti dalla pace di Augusta. Quest’ultima però era avvertita come un compromesso provvisorio e, diventato inattuale perché non prendeva in considerazione il calvinismo, diffuso in varie zone della Germania e adottato da alcuni grandi elettori. Si poneva inoltre il problema dei signori ecclesiastici che erano passati alla Riforma secolarizzando i loro possessi e rendendoli ereditari, eludendo quindi la clausola del reservatum ecclesiasticum. Alla morte di Massimiliano II fu eletto imperatore il figlio Rodolfo II (1576-1612), il quale stabilì la sua residenza a Praga, mentre i domini dell’Austria e di Ungheria erano governati dal fratello Mattia. Sotto il regno di Rodolfo ebbe inizio la grande offensiva cattolica, che ebbe la sua roccaforte nel ducato di Baviera e si servì soprattutto della Compagnia di Gesù. In un clima che faceva temere l’avvio di un processo di restaurazione del cattolicesimo, i principi protestanti diedero vita nel 1608 all’ Unione evangelica , guidata dall’elettore del Palatinato (spostato con una figlia del re d’Inghilterra Giacomo I e imparentato con il re di Svezia); a essa si oppose l’anno seguente la Lega cattolica , della quale era a capo il duca Massimiliano I di Baviera . Contro l’offensiva cattolica si mosse anche la nobiltà boema, che nel 1609 impose all’imperatore Rodolfo II la concessione di una lettera che garantiva libertà di coscienza e di culto a tutte le fedi. Poiché l’Unione evangelica era sostenuta dalla Francia mentre dietro la Lega cattolica c’era la Spagna, sembrava che l’impero si stesse avviando verso una guerra civile. La morte di Enrico IV (1610) allontanò momentaneamente questo pericolo. Intanto Mattia aprì un conflitto dinastico con il fratello Rodolfo II: Mattia riuscì nel 1611 a deporre il fratello dal trono boemo, e l’anno seguente, alla morte di Rodolfo, fu eletto imperatore (1612-1619). 16.9 La guerra dei Trent’anni: la prima fase (boemo-palatina) La situazione cambiò quando venne eletto re di Boemia nel 1617 Ferdinando, cugino di Mattia, che mise in atto la politica di restaurazione cattolica. Quando ordinò la demolizione di due chiese protestanti e ritirò la concessione che garantiva la libertà di coscienza e di culto all’interno del regno, una delegazione di nobili boemi invase il 23 maggio 1618 il castello di Praga e gettarono dalla finestra due legati imperiali e il loro segretario che rimasero incolumi. La defenestrazione di Praga fu l’atto di inizio della Guerra dei Trent’anni. Essendo morto nel frattempo Mattia, il 28 agosto 1619 la Dieta elesse all’unanimità imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando II. Pochi giorni prima gli Stati di Boemia , animati dal desiderio di difendere la loro autonomia oltre che dagli ideali di riforma religiosa, avevano dichiarato decaduto Ferdinando e offerto la corona boema a Federico V , capo dell’Unione evangelica. Fu inevitabile lo scontro con Ferdinando II. Dall’esito del conflitto dipendeva la composizione della Dieta elettorale, nella quale ai 3 elettori cattolici si contrapponevano i 3 principi protestanti di Sassonia, Brandeburgo e Palatinato ; se quest’ultimo avesse avuto anche la corona boema i cattolici sarebbero restati in minoranza. La risposta cattolica fu immediata: mentre un esercito spagnolo invase il Palatinato, l’esercito imperiale e quello del duca di Baviera sottomisero i territori austriaci e quindi sconfissero gli insorti (6 novembre 1620). Federico V fu costretto a fuggire nei Paesi Bassi e nel 1623 fu privato del suo stato di principe elettore. Le province ribelli furono sottoposte a un processo di ricattolicizzazione forzata. Nel 1627 Ferdinando cancellò la tradizionale autonomia del regno di Boemia: la corona fu resa ereditaria e le prerogative degli Stati furono ridimensionate. 16.10 Un’appendice italiana: le guerre di Valtellina e Monferrato Nel 1621 con la salita al trono di Filippo IV la Spagna scelse di schierarsi al fianco dell’Austria nell’offensiva contro i protestanti. In quello stesso anno il conte duca di Olivares decise di non rinnovare la tregua con le Province unite e riprese la guerra per imporre la sovranità spagnola su quelle regioni. Inoltre, assunse un atteggiamento aggressivo anche in Italia. L’occasione fu offerta dalla situazione dei cattolici della Valtellina, sottoposti all’autorità protestante. Con l’aiuto del governatore spagnolo di Milano i cattolici si ribellarono e nel 1620 fecero una strage di protestanti. Quindi le truppe spagnole, sostenute dal Sacro Romano Impero, occuparono la valle che aveva un’importanza strategica decisiva in quanto era il corridoio di passaggio fra il Ducato di Milano e l’Europa del nord. Si formò allora una coalizione antispagnola fra Venezia, la Francia e il duca di Savoia. Il trattato del 1626 lasciò il corridoio aperto e garantì la libertà religiosa dei cattolici valtellinesi . Poco dopo si aprì un altro focolaio di conflitto per la successione del Monferrato, territorio di importanza strategica per la Spagna, posseduto dai Gonzaga duchi di Mantova. Già nel 1612 , alla morte del duca Francesco IV di Mantova, il duca di Savoia aveva fatto valere i suoi diritti (era genero del duca defunto) occupando il Monferrato, ma era stato sconfitto dalla Spagna. Il problema si ripropose nel 1627 quando morì Vincenzo II Gonzaga , l’ultimo della dinastia, che prima di morire nominò suo erede un membro di un ramo francese della famiglia. Poiché Mantova era dipendente dall’impero, gli Asburgo contestarono questa successione, che apriva alla Francia di Richelieu l’opportunità di rimettere un piede in Italia. Al fianco dell’impero si schierò il duca di Savoia, sempre deciso a ottenere il Monferrato. Le truppe francesi attaccarono in Piemonte mentre quelle mantovane attaccarono lo Stato di Milano. La discesa in Italia di un esercito imperiale ribaltò la situazione. Congiuntisi con le forze spagnole, gli imperiali assediarono Mantova, che fu costretta alla resa nel 1630. La situazione di stallo sul piano militare e lo scoppio della pestilenza indussero i contendenti a stipulare un trattato nel 1631, che pose fine alla seconda guerra del Monferrato: il duca di Gonzaga nominato da Vincenzo II conservò Mantova e il Monferrato, ma riconobbe l’alta sovranità imperiale, mentre il duca di Savoia, costretto a rinunciare alle sue pretese, ottenne Alba e una piccola parte del territorio del Monferrato, ma dovette cedere alla Francia Pinerolo. 16.11 La seconda fase (danese) Con la destituzione dell’elettore Palatino la composizione della Dieta elettorale era sbilanciata a favore dei cattolici. A questo si aggiunse nel 1625 la decisione di Ferdinando II di attribuire al duca di Baviera la dignità elettorale del Palatinato . La Sassonia decise allora di chiedere aiuto al re di Danimarca Cristiano IV, luterano, che aveva titolo a intervenire in quanto possedeva un ducato compreso nei confini dell’impero ed era inoltre parente del re Federico V. Nel 1625 Cristiano invase i territori dell’impero ma fu sconfitto dagli eserciti della Lega cattolica. Cristiano vide i suoi territori invasi e fu costretto a firmare la pace di Lubecca (1629). Poiché Ferdinando II aveva impegnato parte delle sue truppe in Italia nella guerra del Monferrato, Cristiano ottenne condizioni favorevoli: dovette rinunciare a ogni intervento nell’ambito imperiale, ma recuperò i territori occupati. Anche la seconda fase della guerra si concluse con una vittoria cattolica. Forte di questi successi, Ferdinando II nel 1627 impose ai protestanti la restituzione dei beni che con il 17.3 Le istituzioni Sul piano istituzionale, Elisabetta aveva mantenuto buoni rapporti con il Parlamento, ma lo aveva convocato raramente. Il Parlamento inglese era formato da due camere: la Camera Alta o Camera dei Lord, nella quale sedevano i nobili e i vescovi della Chiesa anglicana, e la Camera bassa o dei Comuni, i cui membri erano eletti dalle 46 contee di Inghilterra e Galles e dai centri urbani (borghi) che avevano il diritto di essere rappresentati. Nelle contee votavano tutti i proprietari liberi che avessero un certo tipo di reddito, mentre nei borghi le modalità delle elezioni erano molto diversificate. Il re, che poteva convocare o sciogliere a sua discrezione il Parlamento, tendeva a limitare il ruolo della Camera dei Comuni alla tradizionale funzione di approvare le imposte. Tuttavia, nel corso del Cinquecento i Comuni erano intervenuti più volte nei problemi politici e religiosi e avevano acquisito un crescente rilievo rispetto alla Camera dei Lord; essi tendevano perciò ad ampliare il loro raggio d’azione in materie nelle quali la corona non intendeva tollerare intromissioni. 17.4 La Chiesa anglicana Durante il regno di Elisabetta la Chiesa anglicana aveva raggiunto un suo equilibrio. Con la legge del 1563 dava alla dottrina della Chiesa anglicana una netta impronta protestante; la liturgia era rimasta cattolica e la struttura ecclesiastica era ancora imperniata sui vescovi. Ciò che premeva Elisabetta era l’unità religiosa: erano tollerate posizioni diverse sul piano dottrinale a patto che si prestasse obbedienza alla sovrana, che era anche il capo della Chiesa. Nella seconda metà del Cinquecento si erano sviluppate nella società inglese correnti religiose che tendevano al superamento di questo compromesso e auspicavano un’evoluzione della Chiesa anglicana verso una piena adesione al calvinismo. Per il rigore morale che li caratterizzava, gli esponenti di questo dissenso religioso furono chiamati puritani. Concordi nel voler purificare la Chiesa anglicana da tutti i residui del cattolicesimo, il movimento puritano presentava al suo interno diverse posizioni dottrinali e politiche. Quanto ai cattolici, chiamati papisti, furono sempre visti con sospetto, se non con ostilità perché fedeli a un sovrano straniero, il Papa, che aveva dichiarato illegittimo il regno di Elisabetta. 17.5 La società inglese Al vertice della piramide sociale c’erano i nobili titolati (duchi, marchesi, conti e baroni), che avevano un seggio ereditario nella Camera dei Lord. Si trattava di un gruppo ristretto (i Lord erano circa 60 sotto Elisabetta), che aveva conosciuto un sensibile declino sia sul piano economico, a causa della difficoltà di mantenere il proprio tenore di vita, sia sul piano politico. I nobili inglesi, a differenza dei francesi, non avevano privilegi feudali e fiscali ; inoltre i figli cadetti , che non ereditavano il titolo e il patrimonio, riservati al primogenito, non disponevano delle due opportunità di cui si avvalevano i cadetti nelle società continentali per conservare il loro rango: la Chiesa anglicana non offriva infatti possibilità di impiego nel ceto ecclesiastico e d’altra parte la mancanza di un forte esercito permanente precludeva la via della carriera militare. La vendita dei beni acquisiti dalla corona con la soppressione degli ordini religiosi dopo lo scisma del 1534 rafforzò notevolmente l’ascesa della piccola nobiltà di campagna, la gentry. Era un ceto di proprietari terrieri che vivevano nobilmente; nell’insieme si trattava alla fine del Seicento di circa 15.000 famiglie, ma solo la gentry maggiore (circa un migliaio di famiglie), dotata di ricche proprietà e di cospicui patrimoni, si fregiava dei titoli di baronetto , di cavaliere o di signore . Questi signori di campagna si garantirono il controllo del governo locale in quanto esercitavano spesso la funzione di giudici di pace , carica di nomina regia e non retribuita, che comportava l’amministrazione della giustizia, la fissazione dei prezzi e dei salari e il mantenimento dell’ordine pubblico. Questo ceto, approfittando del declino dell’aristocrazia titolata, assunse anche un rilievo politico a livello nazionale in quanto dai suoi ranghi proveniva la maggioranza dei rappresentanti eletti nella Camera dei Comuni. Nelle città al vertice della gerarchia sociale si ponevano le comunità di mercanti e uomini d’affari ; particolarmente potente era quella di Londra , dove l’area centrale chiamata City era la sede delle principali attività commerciali finanziari. Il governo delle città era controllato da una élite formata dai grandi mercanti , dagli uomini di legge e dai funzionari dell’amministrazione . Alla base della società urbana vi erano artigiani , salariati e lavoratori non qualificati . L’Inghilterra nel Seicento era comunque una società prevalentemente rurale. Nelle campagne, oltre alla gentry, vi era un cospicuo numero di proprietari che occupavano la terra con un contratto di affitto che garantiva la successione ereditaria. Vi erano infine i contadini senza terra che vivevano di salario (braccianti); i più poveri abitavano in capanne costruite sulle terre comuni del villaggio. 17.6 La politica di Giacomo I Giacomo I, essendo scozzese, non godeva di grande popolarità nel Parlamento; inoltre la sua insistenza nell’affermare l’autorità della corona finì per provocare un irrigidimento della Camera dei Comuni, intenta a difendere le proprie prerogative. Il primo motivo di contrasto fu la situazione finanziaria che si aggravò a causa della guerra contro la Spagna, alla quale Giacomo pose fine con la pace del 1604 . Per sanare le finanze, sarebbe stata necessaria un’imposta fondiaria permanente, ma questa proposta si scontrò con l’opposizione del Parlamento. Non meno delicato era il problema religioso. Le preoccupazioni dei protestanti per il fatto che Giacomo era nato da genitori cattolici furono presto dissipate: nel 1605 la scoperta della congiura delle polveri , ordita dai cattolici per far saltare con alcuni barili di polvere il palazzo di Westminster durante una seduta alla quale doveva partecipare anche il re, portò a un inasprimento della legislazione contro i papisti. Giacomo inoltre era deciso a non esaudire le richieste del movimento puritano , che reclamava l’abolizione dei vescovi e una riforma della Chiesa anglicana sul modello calvinista. L’ostilità del re indusse molti esponenti del movimento puritano a lasciare l’Inghilterra: celebre il viaggio dei padri pellegrini che nel 1620 a bordo della nave Mayflower partirono per l’America dove fondarono la colonia del Massachusetts. Il contrasto fra il re e il movimento puritano nasceva da considerazioni politiche più che religiose: la trasformazione della Chiesa anglicana in una chiesa calvinista avrebbe sottratto alla monarchia una leva potente per controllare la società e soprattutto la popolazione rurale, attraverso la gerarchia ecclesiastica incentrata sui vescovi. Il controllo della Chiesa era uno dei pilastri sui quali intendeva costruire la sua politica assolutistica. Nel corso del suo regno Giacomo fu costretto a ricorrere a vari espedienti per aggirare la riluttanza del Parlamento a concedergli sussidi finanziari: utilizzò in particolare il suo diritto di nominare i nuovi Lord per accrescere notevolmente il loro numero e creò il titolo di baronetto proprio per ricavare denaro dalla sua vendita . Anche le scelte di politica estera non piacquero al Parlamento: Giacomo, pur essendo imparentato con l’elettore palatino Federico V, non sostenne nella prima fase della Guerra dei Trent’anni il partito protestante come il Parlamento avrebbe voluto; inoltre non fu accolto favorevolmente il matrimonio dell’erede, Carlo, con una principessa cattolica, Enrichetta Maria, sorella del re di Francia Luigi XIII. 17.7 Carlo I Carlo I (1625-1649) cercò di dissipare i sospetti circa una sua inclinazione verso il cattolicesimo, dichiarando guerra alla Spagna e inviando un corpo di spedizione a sostegno degli ugonotti assediati nella fortezza di La Rochelle . Il Parlamento, convocato nel 1628, prima di votare i sussidi richiesti dal re per finanziare la guerra, approvò una Petition of right (Petizione di diritto) nella quale si ribadì che nessuna imposta poteva essere riscossa senza il suo consenso. Intanto la fortezza di La Rochelle si arrese alle truppe francesi. Il fallimento della spedizione indebolì ulteriormente la posizione di Carlo, il quale diede inizio a un periodo di governo nel quale non riconvocò più il Parlamento. Carlo si impegnò a realizzare il programma assolutistico del padre. Non volendo ricorrere al Parlamento, cercò di superare le difficoltà finanziarie promuovendo una riforma dell’amministrazione, riducendo le spese e procurandosi nuove entrate. Nel contempo Carlo perseguì il disegno di realizzare l’uniformità religiosa in tutti i suoi domini, a scapito dei puritani . Si intensificò in questi anni l’esodo di puritani nel nuovo mondo alla ricerca della libertà religiosa e di terre da colonizzare. I problemi religiosi e quelli istituzionali, aggravati dalla volontà di Carlo di governare senza il Parlamento, aumentarono il malumore nel paese. La crisi esplose quando Carlo volle imporre anche in Scozia le dottrine e l’organizzazione della Chiesa anglicana. Gli scozzesi nel 1638 insorsero a difesa della loro chiesa presbiteriana, per cui Carlo fu costretto a riconvocare il Parlamento per chiedere le risorse finanziarie necessarie ad allestire un esercito. Il Parlamento fu sciolto nel 1640 , dopo un mese dall’inizio dei lavori, a causa del rifiuto della Camera dei Comuni di votare i sussidi richiesti ed è passato alla storia come Short Parliament (breve Parlamento). Carlo decise comunque di affrontare i ribelli scozzesi ma subì una grave sconfitta. Dovette perciò convocare nuovamente nel 1640 il Parlamento, che non si sarebbe più sciolto fino al 1653, ed è chiamato infatti Long Parliament (lungo Parlamento). La Camera dei Comuni poté dettare, anche alla Camera dei Lord, le proprie condizioni e varò una serie di misure per sbarrare la strada al tentativo assolutistico di Carlo: fu votato un documento che prevedeva la convocazione di una sessione parlamentare ogni tre anni; fu tolto al re il diritto di sciogliere il Parlamento senza il suo consenso; furono aboliti la Camera Stellata e gli altri tribunali speciali dei quali il re si era servito per reprimere le opposizioni; furono dichiarati illegali alcune imposte volute dal re; furono esclusi dalla camera dei Lord i vescovi. L’opera del Parlamento fu sostenuta da una vasta mobilitazione popolare diretta dai capi dell’opposizione parlamentare che La situazione politica dopo la condanna del re era tutt’altro che stabilizzata. Una parte notevole della popolazione era fedele al re, il cui prestigio era molto cresciuto grazie all’atteggiamento coraggioso tenuto di fronte alla morte. Inoltre, il figlio di Carlo I fu riconosciuto da scozzesi e irlandesi come re, con il nome di Carlo II. Dall’altra parte occorreva far fronte alle radicali richieste dei livellatori. Nello stesso periodo alcuni gruppi di contadini occuparono alcune terre comuni: furono per questo chiamati zappatori . Il loro leader, partendo dall’esperienza anabattista, considerava contraria ai principi del cristianesimo la proprietà privata e vagheggiava una forma di comunismo agrario di matrice biblica. Era un movimento pacifico, che esprimeva la speranza che il nuovo regime venisse incontro ai poveri e ai diseredati. La dura reazione dei proprietari troncò sul nascere queste iniziative. Cromwell era consapevole della necessità di chiudere la fase rivoluzionaria e di ripristinare l’ordine per dare solide basi al regime repubblicano. Cromwell aveva già realizzato due dei tre punti del programma livellatore, l’abolizione della monarchia e della camera dei Lord, ma non aveva intenzione di promuovere la riforma elettorale. Il Parlamento stabilì che in attesa di nuove elezioni il potere sarebbe stato gestito da un Consiglio di Stato controllato dai capi dell’esercito. I livellatori ripresero allora la loro agitazione. Cromwell fece arrestare il loro leader e riuscì a riprendere il pieno controllo dell’esercito. Le istanze democratiche ed egualitarie, esauritisi gli spazi di azione politica, rifluirono nel mondo religioso. È in questo periodo che nacque la setta dei quaccheri, un movimento fondato da un calzolaio, George Fox. Chiamati così per via del tremito che li caratterizzava nei momenti collettivi di esaltazione mistica, essi ritenevano che lo spirito di Dio è nel cuore di ogni uomo e che perciò l’umanità può ritornare allo stato di innocenza anteriore al peccato di Adamo. Molti aspetti lì ricollegavano agli anabattisti: il radicale pacifismo, il rifiuto del giuramento, lo spirito egualitario. Anche i quaccheri emigrarono nel nuovo mondo, dove si raccolsero nella colonia della Pennsylvania fondata nel 1681. Il nome della città che venne fondata, Philadelphia (cioè amore fraterno), esprime lo spirito dei membri della setta, che furono i primi a combattere la schiavitù. 17.12 Il lungo interregno Fra il 1649 e il 1650 Cromwell represse con straordinaria brutalità la rivolta dell’Irlanda. Con un ulteriore campagna militare riportò all’ordine anche la Scozia, costringendo Carlo II a fuggire in Francia. Durante il suo governo Cromwell ridiede slancio alla vocazione marinara e commerciale che si era affermata sotto il regno di Elisabetta. Egli promulgò nel 1651 un Atto di navigazione che stabilì che nei porti inglesi potessero attraccare solo navi inglesi o dei paesi dai quali provenivano le merci; il provvedimento colpiva direttamente gli olandesi, e provocò infatti tra l’Inghilterra e le Province unite tre guerre. Cromwell inoltre mosse guerra alla Spagna, alla quale nel 1655 strappò l’isola di Giamaica. Rimase invece irrisolto il problema dell’assetto istituzionale da dare al nuovo regime. In sostanza il potere di Cromwell si fondava sull’esercito. Nel 1653 al posto del Parlamento tronco si insediò un’assemblea di esponenti delle congregazioni religiose delle sette scelte dal consiglio di Stato, il cosiddetto Parlamento dei nominati, che fu sciolto dopo pochi mesi per il radicalismo delle sue proposte. Cromwell venne eletto Lord Protettore del Commonwealth d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, titolo che fu poi reso ereditario. Fallirono però negli anni seguenti i tentativi di legittimare il regime con l’elezione, con un suffragio più ampio e un nuovo regolamento elettorale. Il regime repubblicano non mise radici nel paese e fu di fatto una dittatura militare, che assunse un volto sempre più autoritario e conservatore. Non a caso questo periodo è passato alla storia con il nome di lungo interregno. Alla morte di Cromwell, il 3 settembre 1658, gli successe il figlio Richard che si rivelò incapace di governare e lasciò il potere dopo pochi mesi. Si iniziò cosi a preparare il terreno per la restaurazione della monarchia. Carlo si impegnò a garantire la libertà di coscienza, a rispettare le prerogative del Parlamento e a concedere un ampio perdono a quanti avevano partecipato alla rivoluzione. Il nuovo Parlamento votò per il ritorno di Carlo II, che il 29 maggio 1660 tornò in Inghilterra. CAPITOLO 18 IL SEICENTO: UN SECOLO DI TRANSIZIONE 18.1 Un secolo di crisi? Nel secondo dopo guerra la storiografia ha a lungo considerato il Seicento come un’epoca segnata da una crisi generale, che interessò tutta la società europea e che si manifestò in ogni ambito, sul piano demografico, economico, politico, culturale e sociale. In questa prospettiva lo storico marxista Eric Hobsbawm interpretò i problemi economico-sociali e politici che caratterizzarono il XVII secolo come le conseguenze del processo di transizione dal sistema feudale al modo di produzione capitalistico. Altri studiosi invece hanno posto l’accento sul conflitto fra le politiche di accentramento perseguite dalle monarchie, che comportarono un enorme aumento del carico fiscale sulla società, e le resistenze di poteri e gruppi sociali colpiti da queste tendenze assolutistiche. L’attenzione degli storici si è anche concentrata sullo straordinario addensarsi di ribellioni e rivoluzioni intorno alla metà del secolo. Quello che è certo però è che in ciascun paese furono diversi i tempi e i modi nei quali si manifestarono le crisi e soprattutto diverse sono le soluzioni che a queste si cercò di dare. Per quanto concerne la demografia e l’economia non c’è dubbio che nel XVII secolo si esaurì la crescita che aveva caratterizzato il secolo precedente. Per l’andamento demografico, alcuni paesi come Germania, Spagna e Italia si può parlare di stagnazione; per paesi come Inghilterra, Paesi Bassi, Russia e i paesi scandinavi invece si registrò un sensibile aumento della popolazione. In generale l’Europa passò da 107 milioni nel 1600 a 125 nel 1700, una crescita modesta ma comunque significativa. In economia, dopo lo sviluppo del XVI secolo, vi fu nel Settecento una recessione generale. Gli effetti di questa crisi furono molto diversi nelle varie parti del continente. Da uno sguardo complessivo del continente risulta evidente una tendenza che sarebbe proseguita nel secolo seguente: la progressiva marginalizzazione dell’area mediterranea e uno spostamento dei traffici e dello sviluppo verso l’Europa atlantica. Nel complesso si può dire che il Seicento fu una fase di transizione, nella quale maturarono importanti cambiamenti nelle condizioni economiche, politiche e culturali-sociali. In questo periodo si affermò la rivoluzione scientifica, con la messa a punto dei moderni metodi di analisi della realtà naturale, ma d’altra parte raggiunse la sua massima intensità un fenomeno come la caccia alle streghe, espressione di arretratezza culturale e di chiusura mentale. 18.2 La rivoluzione scientifica Fu nel Seicento che giunse a compimento il processo di formazione della scienza moderna. Come punto di partenza si pone in genere la pubblicazione nel 1543 dell’opera “Sulle rivoluzioni delle sfere celesti” di Niccolò Copernico. La teoria eliocentrica (il sole fermo al centro del sistema e i pianeti rotano intorno) fu accolta da critiche e resistenze, anche perché appariva in contrasto con alcuni passi della Bibbia: di qui il netto rifiuto di Lutero e Calvino, e la condanna formale da parte della Chiesa di Roma. Sul piano scientifico la concezione aristotelico-tolemaica dell’universo fu smentita dal tedesco Giovanni Keplero (1571-1630), il quale provò che i pianeti seguono un’orbita ellittica e non il moto circolare uniforme , e soprattutto da Galileo Galilei (1564-1642) , inventore del metodo scientifico , che con le osservazioni rese possibili dal cannocchiale, e con la scoperta delle leggi del moto dimostrò che tutti i corpi celesti sono della medesima materia e sono retti dalle stesse leggi. Colui che trasse dalla teoria eliocentrica le conclusioni più radicali fu il filosofo Giordano Bruno (1548-1600), il quale sostenne l’esistenza di una pluralità di mondi in un universo infinito e privo di un centro: cadeva così l’antropocentrismo, secondo il quale l’universo sarebbe stato creato da Dio per l’uomo, e si apriva una dimensione intellettuale radicalmente nuova. Bruno pago le sue teorie con la condanna al rogo come eretico. Quanto a Galilei, venne convocato a Roma dalla Congregazione del Sant’ufficio e fu costretto ad abiurare la dottrina copernicana. Si parla di rivoluzione scientifica non tanto per le scoperte realizzate in vari campi, quanto perché nel Seicento si affermò il moderno concetto di scienza , come disciplina dotata di principi, metodi e finalità definiti. A tal fine occorreva superare la concezione di un mondo animato da forze occulte e misteriose. Un primo passo in tal senso fu l’affermarsi di una concezione meccanicista della natura e degli stessi organismi viventi, alla quale contribuì la fisica del filosofo Renato Cartesio. Il meccanicismo, suffragato dalla scoperta da parte dell’inglese William Harvey (1578- 1657) della circolazione del sangue, concepita come un sistema idraulico-meccanico regolato dal centro da una pompa (il cuore), implicava un legame oggettivo, di necessità causale fra i fenomeni, e quindi apriva la strada a un’analisi di tipo quantitativo, matematico, delle loro proprietà. Colui che divulgò con grande efficacia i caratteri del moderno sapere scientifico fu l’inglese Francesco Bacone (1561-1626) che contrapponeva alla logica aristotelica, utile solo per argomentare in modo persuasivo nelle dispute verbali, la nuova logica : lo scienziato non deve partire da alcuni principi stabiliti per ricavarne verità assolute (metodo deduttivo), ma deve utilizzare il metodo induttivo e sperimentale: egli dall’osservazione della realtà ricava i dati che poi elabora formulando ipotesi che verifica sperimentalmente, finché non individua la causa dei fenomeni osservati. Questa conoscenza consente all’uomo, attraverso la tecnica, di dominare le forze della natura utilizzandole a proprio vantaggio. La tecnica infatti nel Seicento conobbe progressi importantissimi: il telescopio, il microscopio, il barometro, il termometro, l’orologio a pendolo. La figura del filosofo naturale assunse allora una sua specifica dimensione professionale (il termine “scienziato” sarebbe entrato in uso solo nel XIX secolo). Cade infatti l’idea per cui solo pochi custodi di un’antica sapienza magica sono in grado di penetrare i segreti della natura. Il sapere scientifico è pubblico e i risultati sono verificabili da tutti. Il progresso della scienza risulta quindi dal lavoro collettivo di una comunità di modo che quei settori potessero svilupparsi al riparo dalla concorrenza. Lo Stato inoltre rimosse gli ostacoli al libero commercio entro i confini nazionali, eliminando pedaggi, uniformando la moneta, promuovendo il miglioramento della rete stradale e la costruzione di canali e lo sviluppo dei porti. Erano favorite, invece, le importazioni di materie prime, ma naturalmente era più vantaggioso ricavare queste ultime dei propri possedimenti; per questo tutti i maggiori Stati europei si lanciarono alla conquista di estesi territori coloniali. Vigeva infatti il principio dell’esclusiva, per cui il commercio delle colonie doveva avvenire solo con la madrepatria e in linea di principio su navi nazionali. Il mercantilismo si fondava su una concezione conflittuale dei rapporti economici. Le politiche mercantilistiche, ritenendo che la popolazione fosse una risorsa per la grandezza dello Stato, favorivano l’incremento demografico. 18.6 L’espansione europea Nel Seicento l’Europa, attraverso l’espansione negli altri continenti, pose le premesse del predominio che avrebbe conquistato a livello mondiale nei secoli successivi. Questa espansione vide protagoniste le Province unite, l’Inghilterra e la Francia, oltre al Portogallo e Spagna. Per questo vennero cercate una via per le Indie alternativa alla circumnavigazione dell’Africa (passaggio a Nord-Est), e una via per colonizzare l’America settentrionale (passaggio a Nord-Ovest). 18.7 Il colonialismo olandese Le Province unite cercarono di inserirsi nel commercio delle spezie per rompere il monopolio del Portogallo. Le prime Compagnie che gestirono i commerci in Oriente riunirono mercanti che operavano in maniera indipendente. Si pose ben presto l’esigenza di coordinare queste imprese; nacque così nel 1602, su iniziativa del Gran pensionario, la Compagnia delle Indie orientali. Questa Compagnia privilegiata ricevette il monopolio dei commerci al di là del Capo di Buona Speranza, con il potere di fare guerra e di contrarre alleanze, di fondare colonie e di costruire piazzeforti. Essa divenne una società per azioni , il cui capitale sociale era diviso in quote che ognuno poteva acquistare partecipando poi agli utili in proporzione al denaro investito. La Compagnia olandese promosse quindi azioni militari contro i possedimenti del Portogallo . Nella prima metà del 1600 gli olandesi riuscirono a conquistare diverse città chiave produttrici di spezie, sottraendole ai portoghesi; loro erano interessati solo ai profitti del commercio però, non colonizzarono mai questi territori. L’unica colonia olandese fu quella del Capo di Buona Speranza , fondata nel 1652 , che divenne una base strategica e una stazione di rifornimento per le navi . Alla fine del XVII secolo il Portogallo conservava solo Macao e alcune basi in India; i proventi del commercio delle spezie si erano ridotti dell’80%. Il centro amministrativo e commerciale della Compagnia fu stabilito in una città fortificata fondata nell’isola di Giava nel 1619, l’attuale Giacarta. È in quegli anni che venne scoperta dagli olandesi l’Australia (1606) e la Nuova Zelanda (1642). Nel 1621 le Province unite crearono la Compagnia delle Indie occidentali con l’obiettivo di fare la guerra all’impero spagnolo (che comprendeva dal 1580 anche il Portogallo). Essa ricevette il monopolio commerciale nello spazio compreso fra la costa occidentale africana e la Nuova Guinea nel Pacifico, ma non poteva promuovere azioni militari senza il consenso degli Stati generali . Ai territori dell’impero spagnolo conquistati nella prima metà del XVI secolo si erano aggiunte le isole Filippine, costituite in colonia nel 1583, che dipendevano amministrativamente dal Vicereame della Nuova Spagna e divennero una importante base commerciale grazie alla posizione strategica sulla rotta fra l’America spagnola e l’Asia. Qui l’impero spagnolo riuscì a resistere agli attacchi degli olandesi. Gli olandesi dal 1630 iniziarono la conquista del Brasile e riuscirono ad occupare tutta la regione a nord del Rio delle Amazzoni. Il Portogallo riuscì comunque a riprendersi gran parte dei suoi possedimenti, e a scacciare nel 1654 gli olandesi dal Brasile. L’importanza di questo possedimento lo si capì alla fine del XVII secolo quando i portoghesi scoprirono ricchi giacimenti di diamanti e di oro. Gli olandesi parteciparono anche all’espansione nell’America settentrionale dove crearono lungo la valle del fiume Hudson la colonia della Nuova Olanda e fondarono la città di Nieuw Amsterdam . Questo insediamento però dovette soccombere agli attacchi degli inglesi che nel 1664 presero la città ribattezzandola New York , in omaggio al fratello del re Carlo II, Giacomo duca di York . Agli olandesi in America restavano solo alcune isole. Gli scarsi risultati e la cattiva amministrazione portarono perciò nel 1674 allo scioglimento della Compagnia delle Indie occidentali. 18.8 Il colonialismo inglese La Compagnia inglese delle Indie orientali sorse nel 1600 sotto il regno di Elisabetta . Anche gli inglesi si posero l’obiettivo di strappare ai portoghesi una parte dei commerci delle spezie, ma dovettero scontrarsi con l’ostilità degli olandesi. Non essendo in grado di competere con gli olandesi, gli inglesi si impegnarono soprattutto a stabilire relazioni commerciali con l’impero persiano e con l’impero Moghul. Importante fu l’azione congiunta con i persiani che nel 1622 strappò ai portoghesi l’isola di Hormuz (posta sotto l’attuale Iran e sopra gli Emirati Arabi): si aprì così la possibilità di espandere i commerci verso il Mar Rosso e il Golfo Persico. La Compagnia, divenuta nel 1657 su iniziativa di Cromwell una società per azioni, stabilì molte basi in India, tra cui Bombay; in tal modo riuscì a diversificare il suo commercio dando spazio a prodotti, come tessuti indiani in cotone, il tè e il caffè , destinati a ridimensionare l’importanza delle spezie e il ruolo degli olandesi nei traffici asiatici. Nel continente americano anche l’Inghilterra come l’Olanda contrastò il commercio della Spagna, praticando anche la guerra di corsa. La vera e propria colonizzazione si rivolse verso l’America settentrionale. Nel 1584 le navi inglesi risalirono la costa della Florida fino alla Carolina del Nord chiamando questa regione Virginia in onore della regina Elisabetta. I primi insediamenti stabili si ebbero sotto il regno di Giacomo I e di Carlo I. Alcune colonie ebbero origine dai padri pellegrini, come il Massachusetts; il Maryland sorse da un’iniziativa statale, mentre altre furono il frutto di conquiste quando era al potere Cromwell, come New York. Fin dall’inizio la colonizzazione inglese si differenziò da quella spagnola. Intanto i coloni aspiravano al possesso della terra, infatti crearono in Virginia grandi piantagioni di tabacco, lavorate da schiavi deportati dall’Africa. Essi non si mischiarono in genere con la popolazione locale. L’emigrazione fu favorita dai contratti di servitù , non permessi dalla Spagna, che garantivano il viaggio in cambio dell’impegno a lavorare per alcuni anni. 18.9 Il colonialismo francese I primi insediamenti permanenti nell’America settentrionale, nell’attuale Canada , si ebbero sotto il regno di Enrico IV, con la fondazione di Québec (1608) . Nel 1627 Richelieu sostenne la nascita della Compagnia dei Cento Associati o della Nuova Francia che aveva il monopolio del commercio delle pellicce . La colonizzazione, che portò alla fondazione di Montreal nel 1642, si sviluppò lentamente anche per i difficili rapporti con alcune popolazioni indigene. Nei territori della colonia, chiamata Nuova Francia , Richelieu impose che tutti i coloni dovessero essere cattolici . Fu ancora il ministro di Luigi XIII a promuovere l’occupazione a partire dal 1635 di diverse isole dei Caraibi. Per sviluppare il processo di colonizzazione Luigi XIV assunse il controllo diretto degli insediamenti canadesi e nelle Antille. In ogni colonia vi era un governatore militare assistito e controllato da un intendente. Grazie agli incentivi del ministro Colbert, l’emigrazione verso il nuovo mondo crebbe ma la popolazione nel 1700 era solo di 16.000 individui. Nel 1682 i francesi scesero lungo la valle del Mississippi fino al Golfo del Messico e fondarono in questo territorio una colonia chiamata in onore di Luigi XIV Louisiana . Nel 1664 la Francia fondò anche la sua Compagnia delle Indie orientali, che creò diversi insediamenti nell’isola di Giava e in India. CAPITOLO 19 L’ITALIA SOTTO IL PREDOMINIO SPAGNOLO 19.1 Andamento demografico e sviluppo economico Dopo il trattato di Cateau Cambresis (1559) la penisola conobbe fino agli inizi del Seicento un lungo periodo di pace, che favorì la crescita demografica e la ripresa economica. Dopo la pace con l’impero ottomano del 1573 Venezia poté rilanciare i suoi traffici con l’Oriente, ma dagli anni Trenta del Seicento fu tagliata fuori dal commercio delle spezie, controllato ormai dai portoghesi e dagli olandesi. All’inizio del XVII secolo questa fase di crescita si esaurì e si manifestò sempre più una netta inversione di tendenza, preludio della crisi che caratterizzò gli anni fra il 1620 e il 1660. A essere colpite furono innanzitutto le esportazioni di manufatti tessili (lana e seta) e le attività di intermediazione finanziaria. Fra le cause di questa frenata dell’economia si possono annoverare le guerre della Valtellina e del Monferrato, gli effetti della guerra dei Trent’anni sull’economia della Germania, tradizionale sbocco dei prodotti italiani, la carestia dovuta al peggioramento delle condizioni climatiche, le epidemie di peste che colpirono l’Italia settentrionale e la Toscana nel 1630 e qualche decennio più tardi il Meridione. La storiografia ha insistito anche sull’incapacità delle manifatture cittadine di far fronte alla concorrenza dei paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Pesò negativamente sulla produzione italiana la forza contrattuale delle corporazioni, che imponevano salari alti ed elevati standard di qualità, e spesso si opponevano alle innovazioni per difendere gli equilibri interni ai vari comparti produttivi. Nella seconda metà del secolo vi fu una ripresa e la popolazione raggiunse nuovamente livelli di inizio secolo. Tuttavia, questo recupero non significò un ritorno alle condizioni precedenti. Per quanto concerne l’agricoltura, la diminuzione dei prezzi del grano per effetto della diminuzione della popolazione (a causa della peste) incentivò in alcune zone importanti trasformazioni: si diffusero nell’Italia centro-settentrionale nuove colture, destinate ad avere largo spazio nell’alimentazione delle masse contadine, come il riso e il mais. In diverse zone si
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